Dannato - l'Inferno di un Diavolo

di solandia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Limbo, Girone I ***
Capitolo 3: *** Limbo, Girone II ***
Capitolo 4: *** Limbo, Girone III ***
Capitolo 5: *** Limbo, Girone IV ***
Capitolo 6: *** Limbo, Girone V ***
Capitolo 7: *** Limbo, Girone VI ***
Capitolo 8: *** Limbo, Girone VII ***
Capitolo 9: *** Inferno, Cerchio I ***
Capitolo 10: *** Inferno, Cerchio II ***
Capitolo 11: *** Inferno, Cerchio III ***
Capitolo 12: *** Inferno, Cerchio VI ***
Capitolo 13: *** Paradiso, Cielo I ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



Questa e' la revisione di una mia vecchia fanfiction, risalente addirittura al lontano 2009. L'idea alla base e' piuttosto semplice: e se, persi nella propria guerra, Angeli e Diavoli si fossero dimenticati delle proprie origini? Se si fossero dimenticati del loro Creatore? E addirittura di se stessi? E, se, in questo quadro agghiacciante, uno di loro bramasse la Liberta'?

In onore ai vecchi tempi, oltre che come originale, la ripubblico anche come ff sul fandom di Inuyasha di questo stesso sito, con lievi modifiche per adattarla al differente contesto. Spero possiate gradire la lettura, scegliendo la versione che preferite. E spero tanto che vi andra' di commentare!

Buon divertimento!

Solandia


DANNATO

Prologo

La nonnina Cantava.

Raggomitolata su quella vecchia seggiola, i piedi appoggiati sulla stufa, si dondolava avanti e indietro e Cantava.

Cantava di Angeli e Demoni.

Cantava di un mondo invisibile, dolcissimo e perverso.

Cantava delle Leggende che permeano la Realtà e del Reale che alimenta ogni Leggenda.

E le due bambine la ascoltavano incantate.

La nonnina era più vecchia di qualsiasi altra donna esse avessero mai visto: non era la madre della loro madre, forse ne era la trisavola, o un'antenata ancor più lontana. Gitana, aveva girato il mondo e assaporato i colori di molte terre e molte genti, senza mai desiderare per sé un posto diverso da quella seggiola sdrucita accanto alla stufa, in un angolo del carrozzone.

Non desiderare è la chiave per non essere schiavi, diceva.

E lei non era mai stata schiava di nessuno, neppure delle usanze di quel popolo senza nazione con cui aveva scelto di migrare sulla pelle della Terra per un'esistenza intera.

Regina senza regno, signora di se stessa, aveva visto il mondo cambiare sotto un sole che sorge e tramonta identico ogni volta; aveva visto le grandi idee degli uomini ergersi e sgretolarsi sotto il cielo, dopo aver condotto a guerre e rivoluzioni; aveva visto la povera gente sollevarsi e lottare per i propri diritti fino a barricarsi dietro ad essi, lasciando indietro nuove generazioni di disperati; aveva visto la Vita passeggiare a braccetto con la Morte e ridere del dibattersi degli uomini.

Aveva visto l'immaginazione farsi realtà e il reale scivolare nell'immaginario.

Eppure, a detta dei più, non era che una vecchia pazza. Una creatura bislacca e inquietante, delle cui parole sibilline farsi burla.

Chi le viveva accanto, però, mai avrebbe osato ridere di lei. Perché sapeva che la nonnina comprendeva il mondo fin nei suoi più reconditi recessi e afferrava i moti del cuore di chiunque le si accostasse.

E li Cantava ogni giorno nelle sue Canzoni.

Avendo la fortuna di ascoltarla Cantare, si aveva l'impressione che l'esistenza diventasse semplice, di un'onestà sconcertante.

Era facile vivere, avendo la vecchia come guida. Per questo la sua discendenza l'aveva sempre amata e rispettata e, come lei, aveva vissuto libera e fiera, pur nella miseria più stringente.

Ma la nonnina si era spenta, un giorno.

Anche se ormai tutti, scherzando, la dicevano immortale.

Il Tempo aveva avuto la meglio persino sul suo spirito indomito e l'aveva strappato a quel corpo rinsecchito, trascinandolo a correre nel vento.

E le due bambine erano rimaste sole con la donna che le aveva date alla luce. Ella cantava ogni giorno le stesse Antiche Canzoni, eppure la vita non era stata più semplice né onesta senza la guida della vecchina: tutto si stemperava in una nebbia che nascondeva il futuro e confondeva la strada da imboccare nel presente.

Infine, anche l'anima della loro madre se n'era andata a correre nel vento, strappata al suo corpo da una malattia che aveva un nome difficile, di quelli che riempiono la bocca e svuotano il cuore, e le due bambine erano rimaste sole.

La sera si accoccolavano ancora davanti alla stufa e la sorella maggiore, guardando la luna che faceva capolino dall'oblò del carrozzone, cantava per la piccina.

Ma, quando si è soli e la Realtà è desolazione senza via di uscita, fa male al cuore Cantare di Angeli e Demoni, di Mondi invisibili e dolcissimi, eppur perversi come quello reale. Così la ragazza, diventata donna troppo in fretta, aveva cessato gli Antichi Canti. La sera intonava per la sorellina solo ballate di quella che credeva essere la sua gente, ma i suoi occhi non brillavano più di stupore e gioia, al vibrare delle note: restavano freddi e spenti, oppure si riempivano di lacrime, come quella notte.

Un notte intrisa di umidità e gelo, della quale aveva contato ogni minuto.

In cui aveva vegliato.

In cui solo a tratti aveva sognato.

Sogni confusi, dilavati fra la foschia che avvolge i Mondi.

Sogni che erano visioni, ma non progetti.

Solo sul far del mattino era caduta addormentata: un torpore leggero, avaro di ristoro.

E nel dormiveglia le era sembrato di sentire lo scricchiolio della seggiola che dondolava, come un tempo. E la nonnina che Cantava, con i piedi poggiati alla stufa.

Cantava di Angeli e Demoni.

Cantava di un mondo invisibile, dolcissimo e perverso.

Cantava delle Leggende che permeano la Realtà e del Reale che alimenta ogni Leggenda.

E quella che affidava al vento era una Canzone d'Amore.

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Capitolo 2
*** Limbo, Girone I ***


Limbo, Girone I

Un rumore stridente, come di unghie affilate contro un vetro, perturbò la coltre di silenzio che avvolgeva lo scantinato.

Si svegliò incazzato nero.

Merda, chi raspava contro il finestruolo di prima mattina?!

Gli avventori di quel postaccio non se n'erano forse andati tutti da un pezzo?

Sollevò la testa dal divanetto sul quale si era appisolato e rivolse uno sguardo iroso a quel pertugio impolverato che non si poteva nemmeno definire finestra: qualcuno, là fuori in strada, vi si era accasciato contro e biascicava litanie incomprensibili, carezzando il vetro con il fondo di una bottiglia di whisky.

Ci mancava solo l'ubriaco di turno.

E fradicio al punto da essere lì lì per sboccare, per giunta: l'odore di acetaldeide che emanava era inconfondibile.

Si alzò di scatto, deciso ad andarsene prima che lo stomaco di quel disgraziato si rivoltasse, ma la stanza prese a vorticargli intorno, beffarda.

Barcollò fino alla parete più vicina e vi si appoggiò pesantemente, afferrandosi la testa con le mani: le tempie gli martellavano come se volessero trapanargli il cervello.

Dannazione, che seccatura.

Odiava svegliarsi così, ma non c'era niente da fare: quel malessere faceva parte degli inconvenienti del suo Mestiere.

Aveva dovuto bere troppo, quella notte.

Almeno gli Umani si potevano ubriacare, bevendo, e per un po' se la spassavano.

Lui no.

Se beveva troppo, tutto quello che ci guadagnava era quel rognoso mal di testa, ma la sua coscienza non si attutiva né distorceva mai, per quanto alcool si buttasse in corpo.

Forse perché lui non aveva una coscienza. O almeno, questo era quello che gli avevano sempre insegnato.

Respirò a fondo, poi premette le mani sulle tempie e concentrò tutto se stesso in quel gesto, finché un alone verdastro prese corpo attorno alle sue dita e crebbe gradatamente di intensità, fino a illuminare l'intera stanza con il suo baluginio sinistro. All'intensificarsi della luce il dolore cominciò a scivolar via, mentre nuova vitalità si infondeva nel suo corpo ancora intorpidito dal sonno.

Questo era uno dei vantaggi di quelli della sua Specie: non aveva bisogno dell'aspirina.

Ancora qualche manciata di secondi e sarebbe stato perfettamente in forma. In quello stesso momento, però, il disgraziato là fuori mugugnò il nome di una donna e fece per portarsi la bottiglia alle labbra, ma il suo povero stomaco non ne volle sapere di collaborare e, in un violento conato, ributtò tutto quello che conteneva.

L'aura verdognola che si stava sprigionando dalle sue mani si dissolse all'istante: niente riusciva a rompergli l'incanto della concentrazione più dei rantoli di uno sbronzo che si vomitava anche l'anima.

Maledizione, si sarebbe dovuto tenere quello strascico di mal di testa ancora per un po'.

L'importante, in ogni caso, era che si fosse attutito abbastanza da permettergli di abbandonare quel postaccio senza che il cranio gli si spaccasse in due a ogni passo.

Afferrò un giaccone scuro che giaceva abbandonato sullo schienale di una seggiola, se lo buttò in spalla e si diresse verso le scale. Non c'è che dire, la giornata era iniziata davvero da schifo. E poteva solo peggiorare: in fondo era domenica, il giorno più odioso della settimana per tutti quelli come lui.

Perché lui era un Diavolo.

O quasi.

Salì al rallentatore i gradini metallici che conducevano all'uscita. Giunto alla porta, si fermò un attimo a soppesare lo scantinato dove aveva trascorso la notte. O meglio, dove aveva Lavorato per tutta la notte: niente da stupirsi se poi era crollato, sfinito, su quello schifo di divano.

I resti della festa erano ancora tutti lì, come spettatori muti al funerale del divertimento. Festoni strappati pendevano dal soffitto, quasi volessero afferrare i coriandoli e le stelle filanti sparsi al suolo; ovunque sul pavimento c'erano resti di cibarie e bottiglie di vodka, lattine di birra e mozziconi di sigarette. Una trentina di tovaglioli giacevano in un lago di aranciata sotto un tavolo; poco più in là qualcuno aveva sboccato, mentre qualcun altro aveva pisciato senza ritegno sul muro dirimpetto, proprio sotto il poster di una famosa spogliarellista che aveva fatto da bersaglio per una gara di sputi. L'aria era densa, impregnata del tanfo di tabacco e hashish e dell'odore nauseabondo di tutti gli Umani che in quella sala avevano ballato, sudato e scopato per una notte intera.

Non avrebbe dovuto addormentarsi in un posto del genere. Adesso l'odore merdoso di quella merdosa festa gli era penetrato nei pori della pelle e nelle fibre dei vestiti e non lo avrebbe mollato più per il resto della giornata.

Ok: domenica, svegliato dal vomito di un ubriaco, con il mal di testa e l'odore di fumo, sperma e sudore altrui impregnato addosso.

Si profilava proprio una giornata di merda.

Korim spinse il maniglione antipanico e se ne andò sbattendo la porta.


***


Un flebile raggio di luce si insinuò fra gli stipiti e venne a sfiorare il viso della bimbetta addormentata.

Solleticata dalla sua carezza gentile, la piccola si levò a sedere stropicciandosi gli occhi.

Era una strana luce. Grigia, elettrica. E trascinava con sé un odore che non avrebbe dovuto esistere.

Non nel suo Mondo.

La curiosità fugò in un istante il torpore del sonno: attenta a non fare troppo rumore, la bambina abbandonò il lettuccio e si inerpicò sui mobili sgangherati della cucina, raggiungendo la finestrella. Spinse su il vetro, reso opaco dalla polvere e dagli anni, e mise fuori la testolina, per divorare i colori diafani dell'alba e ascoltarne meravigliata il surreale silenzio.

Come aveva immaginato, c'era nebbia.

Una nebbiolina rada e inconsistente, che diffondeva tutt'intorno il pallore cereo di quell'alba autunnale, rotto solo dal nero delle sagome di tigli ormai spogli e dal giallo sfacciato delle foglie cadute al suolo.

Tutto il resto svaniva, confuso e dilavato fra la foschia.

Non v'era più traccia apparente delle altre roulottes, con il loro variopinto carico di uomini e suppellettili, né dei casermoni fatiscenti che circondavano lo spiazzo del campo.

Sorrise soddisfatta: lei amava le giornate di nebbia. Solo grigio, nero e oro. E la speranza di scoprire un Portale per un mondo fatato oltre la cortina vaporosa che avvolgeva ogni cosa.

Ma c'era qualcos'altro di particolare, quel giorno.

Molto particolare.

Odore di zolfo e odore di pace.

Li sentiva entrambi, distintamente, dispersi nell'umidità del mattino.

Quasi tutte le mattine profumavano di pace: era un odore che si avvertiva solo nell'ora magica del levar del sole, quando già sono estinti i bagordi notturni, mentre l'asfissiante frenesia del giorno è ancora lungi dal cominciare.

Ma l'odore di zolfo era raro.

A quell'ora del mattino in special modo. E di domenica, poi!

Inoltre aveva qualcosa di diverso da quello che le era capitato di percepire altre volte: anziché gremare, stavolta sembrava fosse consumato da fiamme vive.

Strano.

La cosa la incuriosiva.

Saltò a terra, attenta a non svegliare la sorella maggiore che dormiva nella branda accanto alla sua, si infilò due paia di calzini e degli zoccoletti gualciti, si buttò addosso un maglione più grande di lei, poi uscì dal carrozzone richiudendosi la porticina alle spalle con tutta la delicatezza di cui era capace.

Respirò a pieni polmoni una, due volte, mangiandosi la nebbia come se fosse un frammento di Cielo chinatosi ad avvolgere la Terra con il suo vapore, poi si allontanò di corsa, giocando a sollevare nuvole di foglie secche con i suoi piedini.

L'odore di zolfo proveniva dal canale, ed era là che voleva andare.


***


La porta metallica si richiuse fragorosamente alle sue spalle.

Oh, che fantastica idea lasciarla sbattere invece di accompagnarla, ora gli rimbombava tutto il cervello.

E c'era pure nebbia. Fottutissima nebbia a perdita d'occhio.

Doppio 'fanculo a quella domenica di merda.

Il vicolo su cui si apriva lo scantinato dove aveva trascorso la notte era immerso in una penombra surreale. Al di là di un cumulo di pattume giaceva riverso l'ubriaco che lo aveva svegliato poco prima, addormentatosi abbracciato alla sua bottiglia come a un grottesco bambolotto.

Disgustato, Korim si chinò su di lui, lo afferrò per il bavero sollevandolo di peso e rimase a studiarne la fisionomia per qualche istante.

Era un giovane? Oppure un vecchio barbone? Non riusciva a capirlo: il degrado di quel corpo e dell'anima che ospitava erano tali da falsarne i connotati. Quel tizio ormai era un tutt'uno con l'immondizia sulla quale era crollato e non si sarebbe mai più risollevato. Evidentemente qualcuno dei suoi Colleghi aveva compiuto un ottimo Lavoro, su di lui.

Si lasciò sfuggire un ringhio lasciandolo ricadere sui sacchi di rifiuti.

L'avrebbe volentieri massacrato di botte, tanto per ringraziarlo della meravigliosa sveglia che gli aveva offerto, ma a lui non era concesso sfogarsi sui Protetti degli altri.

O, forse, sarebbe stato più corretto dire che non gli era concesso sfogarsi affatto.

Sputò a terrà e oltrepassò il malcapitato, avviandosi con passo pesante lungo il vicolo, mentre un sorrisetto amaro gli incurvava gli angoli della bocca: in fondo quell'uomo gli somigliava. Anche lui, agli occhi di quelli della sua Razza, non era che un fallito, condannato ad occupare il gradino più basso della Scala Diabolica.

Un misero Diavolo Tentatore, l'ultima ruota del carro.

Le alucce da pipistrello che aveva sulla schiena presero ad agitarsi spasmodiche. Succedeva sempre, quando si innervosiva, e pensare alla propria posizione lo faceva innervosire parecchio.

Per colpa di quella vecchia storia, quei porci bastardi dei Giudici e degli Esaminatori gli avevano affibbiato un ruolo da sfigato; si erano fissati su una simile stupidaggine, ignorando volutamente il suo valore, e gli avevano sprangato le porte degli Alti Ranghi e della Vita Adulta, relegandolo nei ghetti del Piano Terreno.

Tentare gli umani, capirai che meraviglia! Un'esistenza passata a sussurrare ai cuori di gentucola vile e insulsa per indurla a compiere scelte vili e insulse: un bicchiere di troppo, una moglie tradita, l'ennesima giocata alle videolottery...

Da brivido, eh?

Era proprio un Lavoro di merda: sciatto, ripetitivo e senza gloria alcuna.

Almeno avesse avuto a che fare con gente crudele! Le persone malvagie sì che arrivavano a fare cose in grado di portare quelli della sua Razza all'esaltazione! Purtroppo, però, i malvagi erano proprietà esclusiva dei Diavoli di rango superiore, come i Protettori e i Gerarchi; i Tentatori come lui dovevano accontentarsi degli ignavi. E passare l'esistenza nel loro stesso limbo. Starsene a marcire sanza infamia e sanza lodo fra i vicoli delle periferie umane era una prospettiva alla quale Korim proprio non riusciva ad arrendersi, nonostante fossero trascorsi più di dieci anni da quando era stato assegnato a tale indegna mansione.

Lui sentiva di avere doti da condottiero e sapeva di avere la stoffa per far trionfare i vessilli del Male sul campo di battaglia dell'Eternità. Se solo gli avessero concesso una chance per dimostrarlo!

Ma questa situazione non sarebbe durata per sempre, no. Presto avrebbe fatto cambiare idea a quelle carogne dei Gerarchi.

Aveva i suoi progetti, lui.

Calciò una lattina che era lì a tiro. Poi fu la volta di un torsolo di mela e di un pacchetto di sigarette, mentre le sue alucce non facevano che agitarsi sempre più.

Il vicolo sbucò infine sull'ampio viale che conduceva al canale.

Tutto era deserto, silenzioso e chiaro.

Per un attimo fu costretto a schermarsi il viso con la mano: la nebbia diffondeva tutt'intorno la luce vergine dell'alba e i suoi occhi, avvezzi all'oscurità, faticavano ad adattarvisi. Quelli come lui erano fatti per le tenebre.

Ma a lui piaceva, l'alba.

E non solo perché a quell'ora il sole non era ancora così sfacciato da irritargli gli occhi: gli piaceva perché era l'unico momento della giornata che sentiva veramente suo.

La notte era per i Diavoli e le loro tresche. E per lui la notte significava Lavoro.

Fottuto Lavoro.

Il giorno era per gli Angeli e a lui non restava che rintanarsi come un topo nelle fogne.

L'aurora e l'imbrunire, invece, erano il Passaggio.

Ma, mentre il tramonto era territorio di entrambi, Angeli e Demoni, ed era quindi il momento propizio per le loro sfide, l'alba sembrava non appartenere a nessuno: una fase di transizione in cui i bravi bambini erano ancora a nanna, mentre quelli scapestrati ci erano andati da poco, così che Angeli e Diavoli non avevano ragione per essere in circolazione.

Così aveva fatto suo quel momento: uscendo all'alba, completamente solo, si sentiva padrone della città, dei suoi vicoli corrotti come degli eleganti viali del centro, si sentiva padrone di se stesso e della sua esistenza, si sentiva Libero.

E tutto questo lo inebriava.

Eppure sapeva che si trattava di un mero autoinganno: lui non aveva Libertà.

Solo gli Esseri Umani erano liberi; gli Eterni erano la manodopera della lotta fra il Bene e il Male, esistevano per servire la propria Gerarchia e solo in essa potevano trovare senso e compimento.

E solo aderendo ad essa avrebbero continuato ad esistere.

Così gli avevano sempre insegnato.

Sbuffò, infilando pesantemente le mani in tasca, e si avviò lungo il viale. Sperava di rilassarsi camminando, ma non ci riuscì affatto: le sue ali continuavano a fremere impazzite e a nulla valsero i suoi sforzi per calmarle.

Si trattava di un guaio, e non tanto perché con le ali fuori controllo gli riusciva impossibile levarsi in volo: con quei miseri abbozzi che si ritrovava sulla schiena non poteva certo pretendere di fendere l'aria per davvero; al massimo svolazzava, come un grottesco gallinaccio. Il pericolo maggiore era invece costituito dal fatto che, agitandosi in quel modo, gli rendevano difficile mantenersi Schermato dietro un aspetto apparentemente umano.

Per quanto a quell'ora ci fosse in giro poca gente, il resto del tragitto che conduceva alla sua tana era decisamente troppo esposto per sperare di percorrerlo senza dare nell'occhio.

Si infilò quindi in una viuzza laterale, ancora avvolta nella penombra e avanzò guardingo fino ad accostarsi a una vetrina.

Un ragazzo smilzo sulla ventina, dai capelli ricci ricci raccolti in un basso codino e la barba sfatta di qualche giorno, lo fissava da dentro il vetro, studiandolo con i suoi penetranti occhi verdi.

Bello?

Forse.

Di sicuro, fra il suo viso accattivante e il suo look studiatamente trascurato, ce n'era abbastanza per mandare in tilt il sistema ormonale di decine di troiette dei bassifondi.

Peccato che, tanto, non potesse averle.

Non era certo per conquistare delle femmine che quel suo aspetto era stato pensato: doveva avere un aria affidabile agli occhi di quelli del proprio giro, solo questo. Gli Esseri Umani dovevano fidarsi di lui, era fondamentale nel suo Mestiere. E niente ti rende più carismatico di una bellezza sfacciata malcelata sotto un aspetto volutamente incolto, in certi ambienti.

Con gli occhi fissi sulla sua immagine, strinse appena le palpebre e guardò Oltre: subito lo smeraldo delle sue iridi mutò nel colore cangiante delle fiamme, la sua pelle rosata divenne cenere, le orecchie si fecero appuntite e i ricci biondastri sfumarono in un verde slavato, mentre la barba spariva del tutto dal suo viso adolescente; due piccoli cornini spuntavano ora fra i ciuffi di capelli ribelli e, sulla schiena, abbozzi di ali nere da pipistrello si agitavano spasmodici, saettando bagliori rossastri tutto intorno.

Rivolse un ringhio alla sua vera immagine, scoprendo i canini acuminati.

Merda, la sua Schermatura era davvero troppo flebile, non aveva neppure dovuto concentrarsi per vedere il suo reale aspetto. Certo, ad uno sguardo sommario appariva umano, ma sarebbe bastato acuire un poco la vista per smascherarlo. Ci sarebbe riuscito anche il più convinto miscredente.

Restarsene in giro con uno Schermo così fragile era a dir poco sconsiderato, lo sapeva.

Ma la città all'alba era il suo tesoro e non lo avrebbe ceduto a nessuno.

Aveva passato una nottata davvero snervante: lunga, ordinaria e accompagnata da una colonna sonora troppo groove per i suoi gusti heavy-metal; per di più non ne aveva ricavato che deprimenti peccatucci, insipidi come quegli stupidi umani che si era ritrovato a Tentare.

Per quanto fosse assonnato e la testa gli ronzasse come un vespaio, se si fosse rinchiuso nella sua tana, la giornata sarebbe finita lì: doccia, uno spuntino, quattro accordi con il suo basso, otto ore di sonno. E di nuovo al Lavoro per quella sera.

Capirai.

Lui voleva qualcosa di più, dalla vita.

Era fatto per qualcosa di Grande ed era costantemente intenzionato ad andarselo a cercare, anche solo girovagando per le strade quando il sole era alto (ma non troppo) e gli Angeli la facevano da padroni.

Forse proprio quella domenica mattina avrebbe sventato uno dei loro Piani di Bene, oppure sgominato da solo un manipolo di Serafini.

E avrebbe ricevuto gli elogi dei suoi simili.

Magari persino una Promozione, forse già quel pomeriggio stesso.

Gli sarebbe bastato scovare un angolo riparato dove rintanarsi, per ritrovare quell'equilibrio interiore, così simile al vuoto, che gli avrebbe permesso di ripristinare il suo Schermo e di curarsi il cerchio alla testa che ancora lo attanagliava.

E sapeva già dove trovarlo.

Diede le spalle alla vetrina, accelerò il passo e attraversò la strada, dirigendosi verso il ponte che attraversava il canale.

Sì, sì, lo sapeva: non c'era un briciolo di buonsenso in questo suo comportamento. Ma il buonsenso non era mai stato fra le sue qualità.

Se avesse avuto buonsenso a quest'ora sarebbe stato un Diavolo Completo, con lunghe corna ed ampie ali; avrebbe ottenuto lo status di Diavolo Custode, grazie al quale gli sarebbe stata affidata la responsabilità di guidare un Umano nei più profondi meandri del Male. E, di lì all'Eternità, avrebbe conquistato passo dopo passo ogni gradino della scala diabolica, crescendo sempre più in potenza e influenza, fino a diventare un Gerarca Infernale.

Invece era rimasto un misero essere incompleto.

Tutti chiamavano così quelli come lui.

Essere. Incompleto.

Merda, che nervoso!

Si mise a correre, dribblando fra i veicoli parcheggiati, saltando siepi e panchine, sempre più veloce.

Correre gli serviva a non esplodere.

Ed era l'unico sfogo che non gli fosse proibito.

Raggiunto l'ampio ponte in muratura, posò le mani sul parapetto e saltò giù, atterrando sulla banchina in cemento che costeggiava il greto del canale. E qui si fermò, ansante, appoggiandosi ad uno dei piloni del ponte per riprendere fiato.

Seminascosto nella sua ombra, restò un poco ad osservare lo scorrere dell'acqua.

Il canale era quasi in secca e fluiva lento, suddividendosi in tanti rigagnoli che serpeggiavano fra rifiuti di ogni genere: c'erano una bici sgangherata e una vecchia lavatrice, tubature, lamiere, bottiglie di ogni foggia e dimensione e, ovunque, sacchetti di plastica sfilacciati che pendevano come fantasmi aggrappati alle sterpaglie sulla riva.

Deprimente.

Talmente deprimente che nessun Umano metteva mai piede lì sotto, neppure i mascalzoni.

Ma, di nuovo, gli bastò stringere gli occhi, riducendoli fino a due fessure sottili, per vedere Oltre: i rigagnoli d'acqua si gonfiarono e spumeggiarono fino a formare un fiume in piena, i cui emissari tumultuosi giungevano da oriente e da occidente, per poi confluire in un gorgo centrale e gettarsi giù, sempre più giù, fino all'imboccatura dell'Abisso.

L'Acheronte, il fiume degli Inferi. Era una delle Porte del suo Mondo.

Affogata nelle sue acque torbide e limacciose, una moltitudine di anime nere e urlanti veniva inesorabilmente trascinata nelle viscere della Terra. Le loro grida rimbombavano nell'aria confondendo l'udito, mentre i miasmi venefici che si sprigionavano dai flutti annebbiavano la vista e saturavano l'olfatto.

Korim trovava un che di ironico al pensiero che gli umani di quella città passassero accanto ogni giorno al Rivo Infernale senza vedere altro che un canale di scolo. Ma in fondo gli uomini non erano che dei poveri sciocchi, quindi non c'era da stupirsene.

Il Tentatore rilassò infine gli occhi, tornando al Piano Terreno.

E tutto fu di nuovo silenzioso e chiaro.

Fin troppo chiaro: il sole si stava innalzando inesorabile e presto il brulichio degli umani avrebbe invaso nuovamente le strade. Doveva pensare alla propria Schermatura, o si sarebbe davvero ritrovato nei guai.

Trasse un respiro profondo e chiuse gli occhi, posando le mani al centro del petto. Concentrò tutto se stesso in quel gesto, avvertendo l'energia rifluire in un circolo serrato fra le mani e il cuore. Restò immobile in quella posizione finché la sua mente non si svuotò dai torvi pensieri e il silenzio non dilagò nel suo cuore, ammansendolo.

In capo a qualche minuto la rabbia repressa che ancora gli serpeggiava nelle vene si acquietò e il cerchio che gli serrava le tempie svanì senza lasciare traccia.

A quel punto si portò una mano davanti al viso e rimase ancora immobile e concentrato per lunghi istanti, fin quando non sentì il suo Schermo perfettamente rinsaldato.

Perfetto, adesso era a prova di bomba.

Soddisfatto e sicuro di sé, abbassò la mano e aprì gli occhi.

E trasalì: una bambina lo stava fissando.

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Capitolo 3
*** Limbo, Girone II ***


Limbo, Giorne II

Doveva avere sei o sette anni e più pidocchi che capelli in testa.

Trovandosela davanti, Korim si prese un colpo.

E non perché si era avvicinata senza che lui se ne accorgesse. E non perché era lì da chissà quanto tempo senza che lui ne avesse minimamente percepito la presenza. Ma perché ebbe la netta impressione che stesse fissando le sue corna.

Il suo Schermo era perfetto adesso, eppure...

Poi la sua parte razionale prese il sopravvento: figuriamoci se qualcuno poteva Vederlo! Una pulce delle scuole elementari, poi!

Ecco, infatti l'esserino aveva già spostato l'attenzione dalla sua testa al quarto bottone della sua camicia scozzese.

Si diede mentalmente dello stupido, sprofondò le mani nelle tasche e fece un cenno con il capo alla piccola: «Smamma, scarafaggio. Sei di troppo».

«Uao. Fantastico» commentò lei per tutta risposta, senza alzare lo sguardo dalla sua camicia: «Come lo fai?».

Merda, che seccatura.

Doveva averlo visto saltar giù dal ponte poco prima, probabilmente l'aveva preso per un circense e ora e voleva rivedere il numero. Niente di cui stupirsi: un salto da quell'altezza era fuori dal comune anche per un acrobata di professione.

«Non concedo bis agli insetti. E ora levati dalle palle.»

«Prima voglio sapere cosa sei.»

«Nessuno ti ha mai parlato di privacy, pidocchio? Chi sono è affar mio, tu pensa solo a non scassare.»

«Non chi. Voglio sapere cosa sei: non ne ho mai visto uno così.»

«Che io sia uno stuntman o un ginnasta, la cosa non ti riguarda. Ora vattene, o perderò quella poca pazienza che ho.»

«Non hai capito: non voglio sapere che mestiere fai, ma che tipo di bestia sei.»

«Bestia a chi?!»

Maledizione, perché le Leggi Dei Mondi gli vietavano di strozzare gli scocciatori? Questa l'avrebbe fatta volentieri secca, parola sua, ma non poteva nemmeno spintonarla: un Tentatore doveva Lavorare con altri mezzi, volente o nolente.

Prese quindi un gran respiro, dilatò la propria mente e cercò di intrufolarsi nella testolina della bimba per convincerla a levarsi di torno grazie alle Arti Persuasive, ma con sua grande sorpresa la trovò barricata. Non riusciva nemmeno ad avvicinarsi, qualcosa lo respingeva. Qualcosa di molle e di vagamente doloroso.

Com'era possibile?

E soprattutto, com'è che quella palla di stracci era tornata a dargli la netta impressione di starsene lì a rimirare le sue corna?!

Un dubbio lo assalì: chi, o meglio cosa era quella bimba?

Socchiuse le palpebre e acuì la vista, nel tentativo di studiarne l'aura, ma dovette ripararsi gli occhi con la mano e distoglierli subito: l'energia spirituale della piccola fluiva con una potenza che egli non aveva mai osservato in alcun umano ed era tanto intensa da formare attorno alla sua personcina dei vortici dilatati in maniera abnorme.

Tutti gli esseri viventi erano circondati dai gorghi della propria energia vitale, ma di così potenti non ne aveva mai veduti: riuscivano a respingerlo, impedendogli di leggere nella sua mente e di parlare al suo animo.

Sciamani, medium, esorcisti, stregoni... Così le varie culture umane definivano le persone come quella bambina, capaci di vedere Oltre con estrema facilità e, soprattutto, capaci di piegare tutto il Mondo Invisibile al loro volere.

Erano le persone dalle quali Angeli e Diavoli dovevano guardarsi più di ogni altra cosa.

Così gli avevano sempre insegnato.

E lui ne aveva una proprio di fronte.

Restò a fissarla a bocca aperta, come un perfetto idiota.

Se solo avesse avuto coscienza dei propri poteri, quel sacco di pulci avrebbe potuto chiamare mille spiriti al proprio servizio, lui compreso, e questi non le avrebbero potuto opporre alcuna resistenza. A rigor di logica, quindi, sarebbe dovuto fuggire a gambe levate, ma...

Quando mai gli sarebbe ricapitato di incontrare una creatura tanto particolare?!

Una veggente!

Era una rarità assoluta!

La maggior parte di quelli che si spacciavano per tali erano impostori che non sarebbero riusciti a vedere un Eterno nemmeno se questo avesse voluto palesarsi apertamente, invece questa bimba riusciva davvero a stare spontaneamente a cavallo fra i Mondi!

Si scoprì a tremare di pura esaltazione: voleva una scossa che potesse dare una svolta a quella domenica di merda? Ebbene, l'aveva trovata.

Per quanto potente, la bambina era piccola e probabilmente ignara, mentre lui abitava il Piano Terreno da quasi quindici anni e sapeva il fatto suo, quindi poteva tenerle egregiamente testa.

Forse.

Ma perché non rischiare?

Sì, sì, non c'era un minimo di saggezza in questo suo comportamento, ma neppure la saggezza era mai stata fra le sue virtù. Era affar da eroi o da santi, e lui non era né l'uno né l'altro.

Così finì per dar corda alla sua misteriosa interlocutrice: «Tu cosa dici che io sia?» se ne uscì con un guizzo di sfida.

«Sei un diavoletto, ovvio. Ma uno così non l'avevo mai visto.»

«Perché, ne hai visti molti?»

«A bizzeffe. Siete dappertutto, soprattutto nelle ombre, ma anche sulle spalle di certa gente. E di sera venite fuori da quel buco in mezzo al canale» disse lei indicando il gorgo centrale dell'Acheronte, pacifica come se stesse raccontando cosa era solita mangiare a colazione.

Il Tentatore si lasciò sfuggire un fischio: «Bella vista, la tua. Di', le racconti a molta gente, queste cose?».

«Me le tengo per me: molti meno problemi. Ma non mi hai ancora detto che cosa sei.»

«Non ero un Diavolo?»

«Certo. E poi?»

«E poi cosa?!»

«Non lo so, dimmelo tu.»

«Cosa ti dovrei dire?! Sono un Diavolo. Punto. E tu dovresti aver paura di quelli come me e scappar via veloce come una scheggia.»

«Io non ho paura dei diavoli.»

«Ah no?»

«No: la nonna mi ripeteva sempre di non averne, né degli angeli né dei diavoli. Mi diceva di avere paura solo degli uomini, perché loro possono farmi del male. Voi, invece, basta guardavi in faccia per farvi scappare.»

Vero. Verissimo: qualsiasi Diavolo (o Angelo) con due dita di cervello avrebbe cambiato immediatamente aria se avesse avuto anche solo il flebile sospetto di essere esposto alla vista di un Mortale. Peccato che nessun umano o quasi era in grado di guardare in faccia gli Eterni come faceva quella bimba. E come, probabilmente, aveva fatto sua nonna prima di lei.

«Tu mi stai guardando in faccia, ma io sono ancora qui: non hai paura di me, scarafaggio?» la incalzò, divertito.

«No. Mi piaci.»

Il Tentatore trattenne a stento una risolino: «Ti piaccio?!».

«Sì, perché sei il primo che si ferma a parlare con me. Mi piace questo» aggiunse convinta.

«Senti, pidocchio, io non ti posso piacere!» esclamò lui abbandonandosi infine a una sonora risata: «Tu dovresti scappare da me urlando di terrore!».

«Per quel che ne so, dovresti scappare pure tu. Ma sei rimasto, quindi perché mi fai la predica?»

Colpito e affondato: la risata gli morì in gola. Non aveva peli sulla lingua, quell'esserino. Ma fu quello che aggiunse subito dopo a lasciarlo davvero interdetto.

«Allora, stupido diavolo, me lo dici o no perché bruci?»

«Brucio?!»

«Sì: nel nodo» disse lei indicando il suo torace.

«Nodo?»

«Si chiama “cuore” anche il vostro?» si stupì la bimba.

Il Diavolo si portò una mano al centro del petto: «Questo? Sì, lo chiamiamo “cuore” anche noi. Ma... Ehi, ehi, ehi, aspetta un momento, ma tu vedi dentro di me?!» realizzò sbigottito.

«Certo!»

«E cosa vedi?»

«Colori.»

«Colori?!»

«Sì. Tristi, rabbiosi. Incrostati. C'è una pozza blu. E una macchia rossa. Poi tutto quel giallo stanco e acido. E marrone che cola dappertutto sopra un fondo trasparente.»

«Tutto qui?»

«A parte il fuoco, sì. Tutto qui.»

«Quale fuoco?»

«Quello che consuma i tuoi colori. Non fa le fiamme, ma è incandescente. Fa impressione, davvero: non lo avevo mai visto dentro a nessuno.»

Il Tentatore restò di stucco: lui sapeva leggere nelle menti e nei cuori della gente come in un libro aperto, ma non vedeva fuochi o colori, solo pagine.

Pagine bianche che ogni uomo, giorno per giorno, momento dopo momento, con l'inchiostro della vita, riempiva di pensieri vivi e sguscianti. In bella o in brutta copia, dipendeva solo dal tipo d'uomo.

Gli occhi della bambina, invece, sembravano vedere Altro. Qualcosa che lui non sapeva immaginare, né inquadrare.

Un'inquietudine sottile si impadronì di lui: che una carognetta di sette anni lo Vedesse per quel che era poteva anche tollerarlo, tanto sarebbe finita in terapia psichiatrica prima di compiere i dieci e non avrebbe mai costituito un serio problema, però non era assolutamente pronto ad essere violato nel proprio intimo da chicchessia. Aveva voluto giocare con lei, ma il gioco stava prendendo una piega fastidiosa.

Per una volta forse avevano ragione i suoi Superiori a sconsigliare il contatto con esseri del genere, ma poteva concedersi ancora qualche istante per schiarirsi le idee in merito.

«Di', pulce, ma questi fantomatici colori li hanno tutti?» domandò.

«Tutti gli uomini, sì. Ognuno ha i suoi, però, e non sono mai uguali a quelli di nessun altro.»

«Ah. E gli altri Diavoli?»

La bambina scoppiò a ridere: «Ma che domande fai?! Il nodo dei diavoli grandi è tutto nero, lo sanno anche i sassi! Poi ci sono i diavoli mingherlini come te, che di solito hanno il nodo grigio e piatto, che sta lì a marinare come le olive nella salamoia. È bruttino. Il tuo invece è bello, perché è pieno di chiazze colorate, come il cuore degli uomini. Però il loro non brucia. Insomma, non sei un uomo, non sei un diavolo grande e nemmeno uno mingherlino: me lo dici cosa sei?».

Che cos'era?!

Un Condannato, ecco cos'era.

Un misero Condannato che non si era mai guadagnato lo status di Adulto, come tutti gli altri con le ali piccole e le corna tozze, alla faccia del colore di quel che gli si agitava nel petto.

Probabilmente gli altri Tentatori le sembravano grigi e piatti perché non erano che dei poveri idioti, troppo stupidi per passare l'Esame. Lui invece era sveglio e arguto, forse i colori che la pulce vedeva erano legati a questo.

Ma se quell'odiosa bambina sperava di fargli ammettere che era un rifiuto della sua stessa Società, bocciato non perché inadeguato per natura, ma perché macchiatosi di una colpa troppo grave per essere ignorata, si sbagliava di grosso. Non era una questione di bellezza nelle sfumature cromatiche, questa. Era questione di aver subito la Dannazione.

E non era una cosa di cui andar fieri.

Incrociò le braccia ed assunse un'espressione altera.

«Ehi, stronzetta, inciditi questa cosa nel cervello: io non intendo venirti a dire un bel niente. Ti basti sapere che sono della Razza dei Diavoli, solo per questo dovresti girarmi alla larga, tanto più se non hai idea della devastante potenza che quei colori mi conferiscono. Lo dico per il tuo bene, non costringermi a usarli. E adesso, o te ne vai tu, o me ne vado io. E seduta stante!»

E fece per scattare via.

Gli rodeva un po' dar credito alla Gerarchia, ma non sarebbe rimasto un minuto di più a farsi menare per il naso da quella pupattola saccente.

«No! Resta ancora a parlare con me!» lo supplicò la bambina, con quel tono piagnucoloso che solo i marmocchi sanno sfoderare e che a lui aveva sempre fatto saltare i nervi.

Eppure si bloccò, come assecondando la sua preghiera.

Contro la propria volontà.

Cosa stava succedendo?! Non gli riusciva di spostarsi di un solo centimetro.

Non poteva muoversi neppure volendo.

La cosa lo lasciò di sasso. Non c'era nulla che lo bloccava, almeno in apparenza, e aveva una certa libertà di gesticolare e cambiare posizione, ma non poteva andarsene: le sue gambe non gli rispondevano. Allo stesso modo, non poteva avvicinarsi alla piccola più di quel che era.

Solo allora si rese conto che, amichevole o no, la bimba si era sempre tenuta a distanza di sicurezza, ovvero una distanza dalla quale le sue dita artigliate non sarebbero mai potute arrivare a stringersi attorno al suo esile collo.

Le sue ali, fino a quel momento diligentemente ripiegate fra le scapole, tornarono a distendersi e a fremere piano.

«Cosa mi hai fatto, scarafaggio?» sibilò.

«Fatto? Fatto cosa?» si stupì lei: «Io non ti ho fatto niente. Sono qui brava, non mi vedi?».

«Maledetta, chi vuoi prendere in giro?»

Il Diavolo strinse gli occhi e tornò a studiare l'aura della bambina: le grandi onde che la circondavano sembravano ora sospinte da una sorta di vento che le piegava tutte verso di lui. Lo investivano e lo avvolgevano al punto da schiacciarlo al suolo lì dov'era.

Che lo stesse facendo intenzionalmente oppure no, quell'esserino lo aveva ingabbiato.

Ma certo, Korim, gioca pure con la piccola. Tanto tu sei un figo di Eterno e lei una scriteriata di sette anni scarsi, cosa vuoi che ti faccia?!

Maledizione a lui e a quando si era messo in testa questa stupidaggine! La scriteriata aveva avuto più occhio di lui, e l'aveva incatenato ben bene.

Non era questo che si tramandava riguardo a quelli come lei? Sciamani, medium, stregoni: gente che asserviva gli Eterni per il proprio diletto.

E lui era finito dritto dritto nella rete.

E ci si era infilato da solo come il più perfetto dei coglioni, per giunta!

Ok, di tutte le cazzate che aveva fatto nella vita (e ne aveva fatta più d'una), questa prometteva di essere la più grave.

«Ehi piscialetto, mollami subito, se non vuoi che ti strappi le budella e le usi come guinzaglio per trascinarti all'Inferno!»

«Non dire scemenze» ridacchiò lei per nulla turbata: «Tu non puoi strapparmi le budella neanche se vuoi. Vi osservo sempre, cosa credi? Nessuno di voi fa del male alla gente e chi finisce all'inferno ci va da morto e con le proprie gambe, per via delle cattiverie che ha fatto quando era in vita, non certo perché l'ultimo dei diavoli decide di portarcelo di peso!»

«Ah, secondo te io sarei l'ultimo dei Diavoli?! Non sai quanto ti sbagli!»

«Sei di quelli rachitici con le ali minuscole: non venirmi a raccontare di essere un pezzo grosso! I pezzi grossi, dalle vostre parti, sono giganteschi, con dei cornoni enormi, e hanno il nodo nero come la pece. Tu sei un povero sfigato, però sei diverso dagli altri, perché sei colorato e bruci. Spiegami perché.»

«Ma che cazzo vuoi che ne sappia io?!» sbottò Korim al colmo dell'esasperazione: «È la prima volta che sento parlare di queste cose!»

«Davvero?! Ma che te ne fai di guardare nella testa degli altri se non sai guardare dentro di te?»

«Senti, noi Diavoli frughiamo nei cuori degli uomini per Lavoro, ma non siamo in grado di fare altrettanto con i nostri simili. Altrimenti sarebbe un incubo: un po' di privacy, eccheccazzo!»

«Ah sì, la privacy. Grande invenzione. Talmente grande che alla fin fine non sai nemmeno cosa sei...»

«Senti pidocchio, non prendermi per fesso: so benissimo cosa sono. Sono un Diavolo Incompleto, ok? Ci nasciamo, così, tutti quanti. È come se, all'origine, manchi un frammento perché la nostra diabolicità sia piena, e questo frammento dobbiamo conquistarcelo nel corso della nostra giovinezza. Io non l'ho fatto, tutto qui.»

«Oh. E perché non l'hai fatto?»

«Non sono affari tuoi e non intendo certo venire a dirtelo.»

Per tutta risposta la bambina chiuse gli occhi.

D'improvviso Korim la sentì dentro di sé, proprio lì, in quello che lei stessa aveva chiamato “il suo nodo”.

Era una sensazione incredibile, terrificante e meravigliosa al contempo. Era come se gli occhi della bambina stessero osservando il suo animo nudo da dietro un vetro appena appannato.

Si sentì violato.

Durò pochi istanti, poi la bimba uscì da lui lasciandogli il cuore così dolorante da sembrare lacerato.

«Cosa mi hai fatto, piccola bastarda?» riuscì a balbettare a malapena, ansimando.

«Niente, ho solo guardato».

«E chiccazzo ti ha dato il permesso?!» si infuriò il Tentatore: «Non puoi sbirciare nell'animo altrui così, come ti gira! Io...».

«Era bella?» chiese lei, per nulla impressionata dalla sua sfuriata.

Korim si irrigidì.

«Carogna. Hai frugato nel mio passato?» sibilò il Diavolo.

«No: non sono capace di vedere il passato. Vedo solo quello che è ancora vivo dentro il cuore della gente.»

Merda, l'avrebbe strozzata volentieri, se solo avesse potuto muovere un muscolo! Invece era ancora immobilizzato, eccezion fatta per le ali, che erano tornate a fibrillare come folli.

E addio allo Schermo per la seconda volta in una mattina.

«Tu! Non avrai visto quella storia, spero!» si ritrovò a ringhiare, fuori di sé.

La bambina, però non si scompose: «Ne ho vista una, non so se è quella che dici tu. Ma era bella o no?»

«Non ti dirò un fico secco su quella merda di storia, vipera, dovessimo restar qui duecento anni. E ti ricordo che io posso viverli, duecento anni, tu creperai dopo un'ottantina».

«Entro di nuovo a guardare?» propose lei, ostinata come un mastino infernale.

«Ti faccio secca anche se è proibito dalle leggi dei Mondi, se solo ci riprovi!» ringhiò lui, mostrandole i canini.

«Ne saresti capace?»

«Tu non lo immagini neanche, di cosa sono capace. E adesso mollami, Strega!»

Al suono dell'ultima parola, la piccola si irrigidì come se fosse stata schiaffeggiata.

Di colpo sembrò sul punto di scoppiare in lacrime. Probabilmente strega era un insulto che si sentiva rivolgere spesso, e la feriva.

Bene, ottimo, aveva finalmente scoperto un suo punto debole. Ma la situazione per lui era rimasta era invariata.

Merdosamente invariata.

«Amina! Aminaaa!»

In quel momento, qualcuno passò ciabattando sul ponte sopra le loro teste, gridando a gran voce nella nebbia del mattino.

«Oh no, c'è Drande!» sbottò la bambina, rivolgendo in alto uno sguardo contrariato ed esitando per un attimo, indecisa se uscire allo scoperto o nascondersi meglio all'ombra del pilastro.

Fu la sua salvezza.

Non appena la bimba distrasse l'attenzione da lui, l'incantesimo che lo paralizzava si allentò e Korim ne approfittò per raggiungere con un grande balzo il parapetto del ponte, dove i vortici dell'aura della piccola non avrebbero più potuto lambirlo. Ma il suo risolino canzonatorio avrebbe di sicuro raggiunto lei.

Si sarebbe anche abbandonato volentieri a una danza vittoriosa per umiliare la sua avversaria, ma un sussulto spaventato alle sue spalle glielo impedì.

Si voltò di scatto e si ritrovò faccia a faccia con una giovane donna.

Il suo sorriso beffardo si dissolse come neve al sole e per un attimo rimase lì, indeciso sul comportamento da tenere.

La ragazza lo fissava ad occhi sbarrati.

Dimostrava sì e no diciannove anni ed era pallida e minuta come una bambolina di porcellana, ma aveva un'aura così potente che, al suo confronto, quella della bambina era un nonnulla. Korim non doveva nemmeno concentrarsi per vederla: a quella distanza ne veniva investito in ondate così sferzanti e vigorose da sentire male.

Dannazione, era finito dalla padella alla brace!

Aveva di fronte una Strega Adulta, stavolta.

Una Strega la cui aura era così tumultuosa e indomita da poterlo soggiogare all'istante.

E lui le era così vicino che non sarebbe riuscito a scappare neppure volendo.

Sentì le ginocchia farsi molli come gelatina, mentre le ali acceleravano ulteriormente la loro danza sconnessa. Il cuore prese a palpitare all'impazzata, la sua fronte si imperlò di sudore e le guance si fecero roventi.

Aveva paura?

Forse.

O forse era solo che...

Merda.

Quella ragazza era bellissima.

Di una bellezza delicata, disarmante.

Era vestita come un topo di fogna, certo, ma aveva due incredibili occhi scuri e lui, da quella distanza ravvicinata, non poteva far altro che annegare nella loro profondità. I tratti del viso erano tondi, aperti, quasi esotici, le labbra piene, il naso appena aquilino e il suo profumo inebriante: non sapeva né di shampoo né di bagnoschiuma, ma aveva un odore tiepido, salato, femminile. Avrebbe voluto nutrirsene.

Era bellissima.

Ma era sfinita.

Glielo lesse in faccia: quella Drande, o come cavolo si chiamava, era una persona allo stremo.

Stupita quanto lui di ritrovarsi occhi negli occhi con uno sconosciuto, la giovane arrossì e indietreggiò di un passo.

«Lei?» balbettò insicura. «Da dove è sbucato? Non c'era nessuno un attimo fa...»

Doveva rispondere?!

Parola sua, non si era mai sentito così spiazzato in vita sua. Il suo Schermo era un colabrodo in quel momento: l'avrebbe potuto Vedere chiunque, a maggior ragione questa donna. Eppure gli si stava rivolgendo come se non vedesse altro che un banalissimo giovanotto.

Che era apparso dal nulla, ok, ma pur sempre un banalissimo biondino sui vent'anni.

Come doveva comportarsi, dunque?

Doveva scappare?

O far finta di nulla?

Oppure spezzarle il collo e gettarla nell'Acheronte, in barba al divieto di uccidere imposto a quelli come lui?

Non ne aveva idea: la sua razionalità era completamente collassata.

Fu la pulce là sotto a cavarlo dai guai.

«Sono qui, Drande!» si mise a gridare dal greto del canale. «Ora vengo su, aspettami.»

La ragazza distrasse ogni attenzione da lui e si sporse concitata dal parapetto: «Amina, te ne do tante che non te le scordi più! Te lo dico sempre di non andartene in giro da sola!»

«Sorella cattivissima, se vuoi picchiarmi allora non ci vengo! Dovrai prendermi tu!»

Seguì una linguaccia.

«Piccola peste!» sbottò la sorella maggiore, esasperata. E, per lanciarsi all'inseguimento, iniziò a raccogliere attorno a sé la sottana, scoprendo così le belle gambe.

Ma qui si fermò, imbarazzata: non era sola, in quel momento. O almeno così credeva.

Saettò attorno uno sguardo colpevole, ma sul ponte non vide più nessuno.

Lo sconosciuto apparso d'improvviso sulla balaustra si era volatilizzato.

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Capitolo 4
*** Limbo, Girone III ***


Limbo, Girone III

Era sparito, come da manuale.

Qualsiasi altro Diavolo l'avrebbe fatto al suo posto, perfino un Demonio di Rango Eccelso: quella Drande (o come cavolo si chiamava) aveva un potere spaventoso.

Peccato che qualsiasi altro Diavolo se la sarebbe anche data a gambe, e nel più breve tempo possibile.

Lui invece non c'era riuscito: era solo balzato via, appollaiandosi su un palo della luce e, da lassù, era rimasto a fissare la ragazza come un somaro.

Sì, sì. Era un cretino.

Quella femmina era potenzialmente pericolosa. Eppure, per quanto adulta, sembrava non avere alcuna coscienza del proprio potere, a giudicare dal modo in cui lasciava fluire la sua aura senza degnarla del minimo controllo.

E infatti non lo aveva Visto.

Lo aveva guardato, certo, e fisso negli occhi, anche.

Ma aveva visto il biondino dagli occhi verdi, non il Diavolo dalle iridi di fuoco.

Dalla sua posizione sopraelevata, Korim la soppesò con gli occhi: chissà perché gli era parsa tanto bella un istante prima. Obiettivamente, non era niente di così speciale: era sporca e cenciosa, avvolta in un lungo sottanone azzurro che le arrivava fino ai piedi e in un maglione sformato, che una volta doveva essere stato rosso, sotto il quale se ne intravvedevano almeno altri due; portava dei terribili calzini giallo-sole e un paio di zoccoli di sughero consunti. I lineamenti del viso erano dolci, ma stanchi e provati tanto da sfigurarla. Aveva lunghissimi capelli castani appena ondulati, raccolti alla menopeggio in una coda bassa e divisi sul capo da una riga profonda; acconciatura che non le donava affatto, ma che era la stessa della sorellina e di tutte le altre donne della sua gente, quasi fosse un marchio.

Zingare.

Donne di un popolo senza nazione.

L'ultima ruota del grande carrozzone umano.

Il viso del Diavolo si contrasse in un ghigno: poveri, patetici esseri umani, che giudicavano i propri simili senza Vederli per quel che valevano realmente! Queste due donne racchiudevano in sé una forza immensa, eppure nessuno era in grado di accorgersene, probabilmente neppure esse stesse che la custodivano. Se qualche capo di governo o qualche malavitoso senza scrupoli ne avesse subodorato il potere, probabilmente avrebbe scatenato una guerra pur di averle. Invece nessuno Vedeva niente e quelle due erano destinate a marcire per il resto dei loro giorni nella fogna delle periferie.

Come lui, del resto.

L'ironia di tutto ciò lo fece sghignazzare sonoramente.

All'udirlo, Drande levò il capo, interrogativa, senza però identificare la fonte di quel suono.

Non Vedeva, ma a tratti forse riusciva a Sentire.

E di nuovo, a Korim parve bellissima.

Gli stessi stracci variopinti indosso, la stessa orribile pettinatura, lo stesso sfinimento tatuato in viso.

Eppure
era
bellissima.

Si trattava di un maleficio? O di un incantesimo che distorceva la vista?

Non avrebbe saputo dirlo.

Turbato, saltò infine sull'argine dell'altra riva e, sempre mantenendosi invisibile, sparì nel dedalo di vicoli cittadini, deciso a dimenticarsi di quell'assurda avventura.

Eppure non resistette alla tentazione di voltarsi indietro due o tre volte, lasciando indugiare lo sguardo sulla sagoma delicata della ragazza che si sfocava via via nella nebbia mattutina.



Se la fece a piedi fino a casa: le sue ali erano inservibili e lo Schermo era lì lì per crollare di nuovo, ma sulle gambe poteva sempre contare.

Ok, ok. Ovviamente era stato lui, l'idiota. Basta scherzare con il fuoco: ora sarebbe andato a rimettersi in sesto come si doveva, nella sicurezza della sua tana. Una bella doccia ristoratrice e un sonno lungo una dozzina di ore avrebbero fatto il miracolo.

In un quarto d'ora giunse in vista di un condominio un po' vecchiotto, in un'anonima viuzza di periferia.

Era lì che si era stabilito.

Esatto, in un appartamento qualunque, in una via qualsiasi, in un quartiere quasi perbene.

Era un Tentatore, d'altronde, e il suo scopo era traviare la gente comune. Nei quartieri degradati non c'era bisogno di quelli come lui: ci pensavano la malavita e la miseria a portare le anime al Male.

Si accostò dunque al portone d'ingresso e, dopo essersi accertato che nessuno fosse in vista, vi filtrò attraverso sdegnando chiavi e serratura.

Dentro, odore di canfora e candeggina.

Stava giusto rimaterializzandosi, quando la porta dell'ascensore si aprì d'improvviso e una figura di donna ne uscì di gran carriera, finendogli addosso e facendolo quasi ruzzolare all'indietro.

«Ma checcazz... Ehi, ma non guardi dove cammini?!» sbottò d'istinto.

Una frazione di secondo dopo, però si rese conto di chi aveva di fronte e si morse la lingua.

«Rita?!»

«S-signor Neri?!»

Seguì un momento di panico da parte di entrambi.

Per la donna appena comparsa, perché aveva avuto il malaugurato istinto alzare lo sguardo verso quei seducenti occhi verdi, giocandosi in un solo istante il dono della parola e quello della razionalità. E per il povero Tentatore che, meno romanticamente, si era reso conto di avere l'aspetto sbagliato e di non avere modo di cambiarlo.

Dimostrava infatti solo vent'anni, in quel momento, troppo pochi per stare sotto gli occhi di quella persona, che lo conosceva come il misterioso signor Neri, un musicista sulla trentina a cui aveva affittato un monolocale. E per il quale, fra parentesi, si era presa una cotta da leggenda.

La fortuna, comunque, girò rapidamente dalla sua. La donna infatti era di una timidezza estrema e non resse il contatto ravvicinato con lui più di tre o quattro secondi, dopodiché abbassò lo sguardo con le guance in fiamme e non osò più sollevarlo dalle proprie scarpe fuori moda.

Korim colse al volo l'occasione per passarsi una mano sul volto e aggiungere una decina d'anni ai propri connotati apparenti (un minimo di stempiatura e quattro rughette sul contorno-occhi facevano miracoli, in tal senso), dopodiché si rivolse a lei con il suo sorriso più smagliante: «Accidenti, che slancio hai stamani, Rita! Come mai tutta questa fretta?»

La malcapitata si torse le dita e annaspò nel disperato tentativo di balbettare una frase di senso compiuto.

«E-ecco, io... Sono in ritardo per la messa, per questo correvo. Si è fatto male, signor Neri?»

Il Tentatore trattenne a stento un moto di ribrezzo al suono della parola "messa" e continuò mimando allegria: «Non temere, Rita, non è successo nulla. Mi piace una bella botta di prima mattina, rende la giornata più dinamica!»

«S-se lo dice lei... È raro incrociarla a quest'ora.»

«Beh, noi musicisti lavoriamo fino a notte fonda, quindi è difficile trovarci in giro prima delle tre del pomeriggio.»

La donna arrossì violentemente: «Oh, capisco».

Giocherellava con un bottone del suo cappottino che sapeva di naftalina e non riusciva né a dire altro, né ad andarsene.

Lui poteva leggere benissimo tutto il subbuglio che le dilagava nell'animo alla sola idea di essere lì, a parlare con lui.

Quella donna era la creatura più patetica che Korim conoscesse: aveva trentacinque anni suonati e viveva da sempre relegata in casa con quella vecchiaccia bisbetica di sua madre (per inciso, la proprietaria dell'appartamentino che lui aveva preso in affitto), alla quale doveva fare da badante, infermiera e dama di compagnia ventiquattr'ore su ventiquattro. Non era stupida né racchia, la povera Rita, ma non aveva mai avuto una vita e sembrava decisa a non reclamarne una.

Non aveva amici, né un uomo, né una qualsiasi frequentazione che andasse oltre il panettiere e il fruttivendolo del quartiere. Ciliegina sulla torta, dopo una brillante carriera alla facoltà di lettere, si era adattata a fare la correttrice di bozze, per poter lavorare da casa e restare sempre al capezzale della madre.

Perché era allettata da vent'anni, la megera, per colpa dell'artrosi, di un'insufficienza del sistema linfatico e di chissà cos'altro. E Rita da vent'anni le cambiava il pannolone, le medicava le piaghe, le somministrava i farmaci, cucinava per lei, leggeva per lei, faceva le pulizie per lei, recitava il rosario con lei. E quando avanzava del tempo poteva dedicarsi a scovare refusi sui libri di testo di greco e latino.

Una vita elettrizzante, non c'è che dire.

Ci volevano un sacco di ansiolitici per reggerla senza scoppiare e Rita infatti ne abusava da sempre.

Poi era arrivato lui.

Bello, ombroso, palesemente border-line. Praticamente un fuoco d'artificio nel deserto del suo zitellaggio.

Che Rita fosse rimasta folgorata dalla sua apparizione, Korim l'aveva capito la prima volta che aveva messo piede in casa della megera con il ritaglio di giornale dove c'era l'annuncio per un monolocale in affitto. Che si fosse presa una cotta da leggenda, gli fu chiaro la seconda volta che la vide, tre giorni dopo, quando tornò da loro per firmare il contratto di locazione e stabilirsi sopra le loro teste.

Da quel momento la vita di Rita aveva preso una piega decisamente movimentata, almeno per gli standard a cui ella era abituata: avere quell'affascinante inquilino significava che una volta al mese avrebbe messo piede in casa sua per pagare l'affitto. Ma significava anche che lo avrebbe potuto incontrare ogni giorno per le scale, sul pianerottolo e perfino nel cortile.

Un'emozione dopo l'altra, insomma.

Per il suo pavido cuore, abituato al grigio squallore quotidiano e alla calma più piatta, era come trovarsi in piena tempesta. Si sentiva la protagonista di uno di quei romanzetti rosa dei quali si pasceva la sera, di nascosto da sua madre, e si faceva mille filmini sulla travolgente storia di passione che l'avrebbe presto incatenata a quel misterioso vicino.

Perché, a dispetto delle apparenze, Rita era una donna passionale.

O almeno lo sarebbe stata, se sua madre non avesse represso questo suo lato caliente sotto una rigida morale fatta di divieti e imposizioni. E così si ritrovava a trentacinque anni ancora disperatamente vergine, a masturbarsi nel letto pensando al suo affittuario e ad annegare poi nei sensi di colpa per non aver saputo resistere alla tentazione. E la menopausa era ancora troppo lontana per invocarne la pace dei sensi.

Per il Tentatore tutto questo era, ovviamente, un divertimento assoluto.

O meglio, lo era stato all'inizio.

Poi la faccenda aveva preso una piega decisamente più Lavorativa.

Dapprima, infatti, si era limitato a provocare Rita per ridere fra sé e sé delle sue reazioni emotive, che per lui erano palesi come una trasmissione radiofonica. Trastullarsi con i suoi sentimenti era stato un buon diversivo, nella noia del Lavoro quotidiano.

Poi aveva avuto l'idea.

E che idea!

Gli era balenata in testa d'improvviso, un giovedì mattina.

La sera prima era stato nell'appartamento della padrona per pagare l'affitto e alla vecchia cornacchia non erano sfuggite le occhiate sognanti che la povera Rita gli aveva rivolto. Tanto che, appena lui se ne era andato, era partita con un'enciclica sul decoro e sulla gioventù bruciata, roba talmente sorpassata da apparire vecchia persino se sputata da una bocca decrepita come la sua, ma che aveva ferito Rita nel profondo.

Lui, beatamente spaparanzato sulla propria branda al piano di sopra, si era fatto quattro grasse risate su queste invettive assurde, filtrate senza magia alcuna attraverso le assi del pavimento, e la cosa sembrava finita lì.

Rincasato dal Lavoro la mattina successiva, mentre attendeva di addormentarsi ascoltando i pensieri della sua spasimante che filtravano dal piano di sotto, si era però reso conto che qualcosa di nuovo era nato.

In quel momento la coscienza di Rita era intorpidita da una dose troppo massiccia di Valium, eppure un sentimento che mai aveva provato prima stava iniziando a farsi strada dentro di lei: l'odio per la madre, che l'aveva ridotta a quello che era e tutt'ora le impediva di vivere e sognare.

E Korim aveva deciso di coltivare quel sentimento. Era piccolo e appena nato, come un semino, ma prometteva molto bene: il terreno era fertile e, se l'avesse fatto attecchire con cura e attenzione, sarebbe cresciuto fino a occupare l'intero cuore della donna.

Era deciso: avrebbe spinto la timida e remissiva Rita ad ammazzare la madre.

Non era un'impresa complessa: Rita era una donna insoddisfatta, irrealizzata e con i nervi a pezzi, quindi fragile come non mai. Per di più, stava letteralmente consumandosi di passione per lui.

E tutto questo la rendeva la Vittima ideale.

Il nostro Diavolo si era dunque messo in testa di utilizzare quella patetica femmina come trampolino di lancio per la propria riabilitazione in seno alla Gerarchia.

L'omicidio di solito era fuori dalla portata di un misero Tentatore; se però fosse riuscito nel suo intento, era sicuro che la Gerarchia l'avrebbe guardato con occhi nuovi; probabilmente i suoi capoccia sarebbero stati disposti persino a rivedere la Condanna, di fronte a un successo così eclatante. Come minimo avrebbe ottenuto la Custodia di Rita, passando automaticamente da Tentatore a Protettore. E da lì gli si sarebbe spalancata la via per gli Alti Ranghi.

Così, da quel giorno, aveva cercato di proporsi alla donna non tanto (o non solo) come eventuale amante, ma soprattutto come amico e confidente. Voleva spingerla ad aprirsi con lui, a tirar fuori le sue frustrazioni e la sua infelicità, per avere piede libero nel Guidarla e Consigliarla.

Purtroppo non aveva ottenuto, fino ad allora, grandi risultati: Rita si era mostrata davvero riluttante ad aprirsi con lui.

Ma il Diavolo non aveva fretta: quelli come lui avevano tutto il tempo che volevano.

Non per niente erano Eterni.

Comunque sia, rincasando quella mattina, Korim aveva in testa tutto fuorché Rita.

Eppure adesso la donna era lì, piovuta fra le sue grinfie come un dono del Ciel... oh pardon, degli Inferi, e lui non si sarebbe certo lasciato sfuggire l'occasione di mandare avanti il proprio piano.

Rita non era più riuscita a proferire parola e, dopo qualche attimo di imbarazzante silenzio, si era infine arresa a riassestarsi la pettinatura, per poi cercare le parole migliori con cui congedarsi.

«D-devo proprio andare, signor Neri. Le auguro una buona giornata».

«Dovresti augurarmi buona notte, sai? Sto rincasando ora» sorrise lui, malizioso.

Lei rimase a fissarlo vagamente scandalizzata: «Beh, allora buona notte, signor Neri».

«Grazie».

Korim lasciò che la donna si allontanasse di qualche passo, poi riprese a parlarle: «Mi chiedevo, Rita cara... Ti darebbe molto fastidio se ti accompagnassi per un tratto di strada?»

«C-cosa?»

La poveretta si era bloccata, incredula.

«Vorrei accompagnarti fino alla chiesa, se non ti disturba farti vedere in mia compagnia».

Rita non riuscì a rispondere, incapace sia di accettare che di rifiutare. Certo, desiderava con tutta se stessa restare ancora un pochino con lui, ma l'idea che le comari del palazzo andassero a spifferare tutto alla madre la riempiva di inquietudine.

«Ma non stava andando a dormire?» azzardò dunque per cavarsi d'impiccio.

Lui si abbandonò alla più pucciosa espressione da cucciolotto indifeso che fosse in grado di sfoderare: «Sai com'è, ho avuto una nottata d'inferno, circondato solo da gente superficiale e scialba. In questo momento mi sento così stanco e svuotato che sarei pronto a rimandare il riposo, se potessi stare un po' in compagnia di una persona ponderata e gentile».

Una battuta davvero magistrale. Peccato che non ci fosse un quartetto d'archi in sottofondo.

Anche senza colonna sonora, comunque, sortì l'effetto desiderato: finché c'era stato in gioco solo il suo desiderio personale, Rita aveva esitato, ma nel momento in cui lui si era mostrato bisognoso, aveva acconsentito senza remore a farsi accompagnare.

Era buona, Rita. Fin troppo.

Per questo la madre aveva potuto schiavizzarla per tanti anni: perché non metteva mai se stessa al primo posto.

Il Diavolo le offrì galantemente il braccio e la scortò fuori dall'atrio.

All'esterno il sole era un tormento e lui maledisse il fatto di non avere degli occhiali scuri.

«Allora, dove ci dirigiamo di bello, Rita? Alla cattedrale?»

«Beh, a dire il vero andavo alla chiesetta di San Lucio...»

«Oh bene! L'ideale per una piacevole passeggiata!»

L'entusiasmo del Tentatore era mostruosamente reale: se la donna avesse voluto dirigersi alla cattedrale, per lui sarebbero stati guai, presidiata com'era da Pattuglie Angeliche. Nella migliore delle ipotesi avrebbe dovuto mollare la sua Vittima a metà strada con una qualche scusa maldestra. San Lucio invece era una chiesetta dimessa e senza pretese, frequentata giusto da quattro bigotte dei dintorni. E lasciata decisamente sguarnita di militanti alati, anche la domenica mattina.

Non che un Diavolo sarebbe potuto arrivare sul sagrato, ovviamente: se avesse sconfinato sul Suolo Sacro, in pochi secondi tutti gli Angeli del circondario sarebbero calati su di lui come l'orda dei Lanzichenecchi. Ma l'Area Santa, in quel caso, era giusto attorno al perimetro della chiesa, il che gli conferiva ampio spazio di manovra.

Senza contare, poi, che proprio sulla viuzza che da lì conduceva a San Lucio (per la cronaca, un vicolo meravigliosamente in ombra) si trovava un bar che serviva dei cocktail fantastici. E che faceva proprio al caso suo.

Perché, suoi piani di gloria personale a parte, non aveva certo intenzione di lasciare arrivare la donna in chiesa.

Nessuno Diavolo l'avrebbe mai fatto: era l'ABC del suo Lavoro.

I due piccioncini proseguirono quindi in silenzio per una manciata di minuti. Rita camminava accanto a lui, con il cuore a mille, cercando di non toccarlo in alcun modo, mentre lui faceva di tutto perché il lembi del proprio giaccone sfiorassero in continuazione quelli del cappottino fuori moda di lei.

Era davvero un modello dell'anteguerra, perfettamente sintonia con le scarpe da vecchia e la crocchia con cui Rita condannava all'ergastolo i propri ricci. E pensare che era ancora un fiore, la femmina, sotto tutti quegli strati di naftalina e canfora: aveva una bella pelle liscia e rosea, mai rovinata dall'acne, e un décolleté generoso, probabilmente una quinta. La sua forma piena e soda, fasciata da altri abiti, sarebbe stata merce di prima qualità per ogni buon quarantenne scapolo.

Peccato che nessun quarantenne scapolo, per quanto appetitosa fosse la mercanzia, sarebbe mai durato più di due giorni con quell'arpia della madre che fiatava sul collo. Senza contare la noia mortale dei discorsi che era in grado di intavolare la poveretta: Rita non spaziava mai oltre la grammatica latina e l'andamento delle patologie croniche di sua madre.

E anche quella mattina non sembrava intenzionata a smentirsi: dopo i primi istanti di imbarazzatissimo silenzio, si era lanciata in un panegirico dettagliatissimo sull'evoluzione delle piaghe da decubito della megera. Tre minuti dopo, il Diavolo aveva già le palle che strusciavano per terra.

Per fortuna erano giunti in vista dell'agognato bar.

Korim lasciò che lo superassero di una decina di metri senza accennare a fermarsi, poi rallentò studiatamente il passo e si volse indietro, fingendo di soppesare la veranda del locale come se la vedesse per la prima volta.

«Cosa c'è, signor Neri?»

«Niente. Sai, pensavo...» e qui tornò a girarsi verso di lei con il suo miglior sorriso: «La questione della piaga di tua madre mi interessa davvero tanto. Mi piacerebbe capire di più sulla patogenesi di questo tipo di lesioni. Che ne diresti se ci fermassimo qui al bar? Ti offro qualcosa e tu potrai continuare la spiegazione».

«L-la ringrazio davvero per l'interessamento... E p-per l'offerta... Ma non posso proprio accettare».

Incurante delle sue timide proteste, lui la prese per mano e la sospinse dolcemente verso i tavolini.

«Suvvia, Rita, che ti costa? Ti dà tanto fastidio la mia compagnia?»

«M-ma no, che cosa va a pensare?! Non è certo lei il problema!»

«Allora è il locale? Forse non è di tuo gradimento?»

«Oh Cielo, e come potrebbe? Non ci ho mai messo piede, giuro! È solo che sono in tremendo ritardo, signor Neri, non posso proprio fermarmi, o rischierei di perdere del tutto la messa: ormai saranno già terminate le letture».

«Perché allora non vai alla funzione di questa sera? Questo localino delizioso è l'ideale per scambiare due parole in tutta tranquillità, fidati di me. Inoltre servono dei cocktail mirabolanti, insisto per offrirtene uno!»

E mentre parlava così, aveva già fatto accomodare Rita.

La poverina non era riuscita a opporre resistenza e ora se ne stava lì, più a disagio che mai, torcendosi le dita: non avrebbe potuto recuperare la funzione quella sera, perché non aveva alcuna scusa per giustificare agli occhi di sua madre un'uscita nel tardo pomeriggio.

Lei non usciva mai, la sera.

Il Diavolo ovviamente lo sapeva benissimo e gongolava soddisfatto per tutto il disagio che le stava provocando: aveva infatti optato per un tavolino esterno, che avrebbe di sicuro esposto la donna alla vista di qualche comare e quindi ai pettegolezzi di tutto il quartiere.

Un paio di minuti dopo (trascorsi ovviamente a disquisire della piaga), giunse il cameriere per le ordinazioni.

«Cosa desiderano i signori?»

«Qualcosa di analcolico, grazie» balbettò la donna con occhi sperduti, cercando invano sul tavolino un menù, una lista degli aperitivi o una carta qualsiasi che gli somigliasse.

«Bibita o succo?» domandò compito il cameriere.

Il Diavolo, però, si intromise prima che lei potesse rispondere: «La signorina prende un Long Island Iced Tea. Per me un Bloody Mary, grazie».

Il cameriere assentì e li lasciò senza altre cerimonie, per tornare un attimo dopo con una larga coppa dallo stelo sottile, ricolma di un liquido sanguigno e decorata con gambi di sedano, e un bel bicchierone con cannuccia dall'aria innocente, colmo di un liquido ambrato in cui erano annegati numerosi cubetti di ghiaccio.

Rita studiò l'intruglio che le era stato posto di fronte con una certa diffidenza: «È per caso un the freddo?».

«Un the freddo?! Suvvia, Rita, non dirmi che non conosci il Long Island! È un cocktail storico, roba risalente al proibizionismo, sai? Ha avuto successo in quel periodo perché, come vedi, assomiglia davvero al the, se servito con una bella fetta di limone, ma è a base di vodka, gin, rum bianco e triple sec».

«Oh Cielo, ma io non posso bere un miscuglio del genere! Volevo un analcolico!»

«Ma come, ti porto nel locale che serve i cocktail più rinomati della città e tu vuoi un analcolico? Non mi verrai a dire che sei astemia, vero?»

E qui le rivolse uno sguardo parecchio eloquente, tanto che la poverina si affrettò a giustificarsi: «Ma no, certo che bevo. Eccome se bevo. Ma di solito non così, di prima mattina, insomma... Cosa penserà la gente?!»

Il Diavolo assunse un'espressione estremamente comprensiva.

«Capisco, Rita, ma non devi farti problemi inutili, soprattutto di fronte a me. Degli altri, poi, che ti importa? Coraggio, assaggia e dimmi se è di tuo gusto!»

Niente da fare, l'espressione di trepidante attesa del suo cavaliere era troppo raggiante perché lei potesse deluderlo. Arresa, portò la cannuccia alle labbra e sorbì un poco del liquido contenuto nel bicchiere. Sentì bruciare la gola e avvampare le guance, avrebbe voluto tossire e sputare quella roba, ma si costrinse a un bel sorriso e a un commento entusiasta.

Tre minuti (e un paio di altre sorsate di Long Island) dopo, il Diavolo era finalmente riuscito a dirottare il discorso dalla suppurazione del tallone della megera alla giornata-tipo di Rita. Le aveva chiesto se non si sentisse sola e un po' abbandonata, per dover badare senza alcun aiuto a una madre tanto malata, e si aspettava che la donna si lasciasse un po' andare a cercare conforto e consolazione; invece, dopo il quarto abbondante sorso di intruglio ambrato, Rita lo spiazzò con un'uscita imprevista.

«Ora basta parlare di me, signor Neri. Credo che ormai l'abbia capito, non c'è nulla di interessante nelle mie giornate, quindi non vedo perché discuterne. Mi parli di lei, invece».

La donna era molto più spigliata, adesso. Non balbettava e aveva preso un bel colorito. Lo fissava allegra, con una luce di pura e genuina curiosità negli begli occhi castani.

Lui si ritrovò a balbettare al suo posto, visto che non si era preparato battute sull'argomento.

«D-di me? Come di me?! M-ma veramente...»

«Suvvia, non faccia il timido, signor Neri. M'ha chiesto di restare con lei perché era reduce da una nottata molto pesante, giusto? E allora me ne parli, in fondo è per questo che sono rimasta!»

«Ah, la nottata, già. Beh, s-sì, è stata un po' pesantuccia... D'altronde lo sono tutte le mie serate. Per via del Lavoro...»

«Per i concerti che tiene con la sua band? La vedo sempre uscire di casa con la chitarra, ma non pensavo che quella del musicista fosse una professione stressante».

«Altroché se lo è! Prove su prove, poi la tensione del palco e la paura costante di deludere i fan. Anche se noi siamo ancora una band piccola e abbiamo un giro mediocre, rispetto ai cantanti professionisti».

Rita lo guardava rapita, mentre si concedeva la quinta sorsata del suo cocktail.

Per inciso, Korim suonava veramente e, anche se il successo restava un'utopia lontana anche con le spintarelle dei suoi Incantesimi, i piccoli ingaggi della band fruttavano abbastanza perché i suoi membri si mantenessero. Non si arricchivano, ma campavano. Già, perché l'Eternità non finanziava certo i suoi servitori di bassa leva: dovevano mantenersi da soli, ovviamente.

«Che genere di musica proponete?» chiese la donna.

«Oh, abbiamo sia cover che pezzi originali e spaziamo moltissimo, dall'hard-rock all'heavy-metal degli anni d'oro, per approdare al più recente elletrofolk».

Rita annuiva estasiata, come se conoscesse questi generi da vera intenditrice, quando invece la musica in casa sua si era fermata a cavallo fra i canti gregoriani e Vivaldi, con qualche raro accenno a Morandi e Battisti.

«Meraviglioso, dev'essere roba che dà la carica!» esclamò.

«Beh, certo, non suoniamo mica ninne-nanne!» si compiacque il Diavolo.

«Oh, mi piacerebbe un sacco venirvi a sentire, signor Neri!» sbottò Rita elettrizzata, dopo l'ennesimo sorso di Long Island.

Il sorriso di Korim si anchilosò. Immaginare quella tipa che si sbracciava per lui con il suo cappottino anni'40, circondata da fattoni di ogni sorta in un locale da rave-parties, era quanto di più stridente potesse concepire persino la mente di un Tentatore.

«Ah. Eh... Uao... Sarebbe forte, sì» balbettò il poveretto: «Abbiamo giusto un live fra una quindicina di giorni, potresti passare la serata nel locale anche tu...»

«Oh, non vedo l'ora, signor Neri!»

Lui bluffò, cercando di mimare il suo stesso entusiasmo: «Non sai quanto mi faccia piacere. Comunque pensavo... Come farai con tua madre? Noi suoniamo solo di notte, intendi cercare una badante per l'occasione?»

Rita si spense all'istante. Abbassò gli occhi, chinò il capo, e fu solo in grado di succhiare dell'altro cocktail con la cannuccia. La mamma non l'avrebbe mai fatta andare a nessun concerto, badante o non badante. E lei non avrebbe neppure mai trovato il coraggio di chiedere, figuriamoci di insistere dopo il primo diniego.

Il suo umore precipitò d'improvviso sotto la suola delle scarpe. L'alcool che aveva in corpo, al quale non era assolutamente avvezza, amplificava le sue emozioni al punto che si sarebbe messa a piangere; riusciva a trattenersi solo perché non era ubriaca al punto da aver perso del tutto il controllo di sé.

Il Diavolo tirò un sospiro di sollievo nel leggere questo repentino cambiamento dentro al suo cuore. Due piccioni con una fava: aveva scampato il pericolo di ritrovarsi l'inamidatissima Rita a sbracciare in prima fila al suo prossimo concerto e, magicamente, il discorso poteva ora tornare a gravitare su di lei e la sua situazione.

«Che ti succede, Rita?» attaccò con tutta la gentilezza di cui era capace, «Non mi dirai che tua madre non ti permette di...»

Il discorso, però, gli morì in gola.

Perché una bimbetta sporca e malvestita si era avvicinata al tavolo senza che egli ne avesse percepito la presenza e ora se ne stava lì, a fissarlo in volto con tutta la sfacciataggine di questo mondo.

Ommerda, il pidocchio di quella mattina!

Ma che cos'era, una persecuzione?!

«Ciao» esordì senza preamboli la bambina. «Ti ho cercato per tutto questo tempo, diavoletto. Allora eri qui, eh?»

Per le Orrende Viscere degli abissi, stavolta cosa doveva fare?

Risponderle?

Scappare?

Fulminarla?

Non ne aveva idea e l'ingombrante presenza di Rita non faceva che complicare le cose.

Con sua grande sorpresa, però, fu proprio la donna a cavarlo dall'impiccio: «Ciao a te piccolina» disse alla bimba rivolgendole un sorriso cortese, come se questa si fosse rivolta a lei. «Hai ragione a sgridarmi, sono stata proprio un diavoletto: avrei dovuto venire a messa, invece mi sono fermata qui al bar a chiacchierare con questo signore. Che vergogna, vero? Mi dispiace averti fatto aspettare, ma rimedio subito».

E così dicendo si cavò qualche monetina di tasca e gliela mise in mano.

«T-tu conosci questa bambina?» balbettò il Diavolo, stupefatto.

«È la zingarella che da qualche settimana a questa parte mendica davanti a San Lucio» spiegò la donna: «Le do sempre qualche spicciolo. Di solito c'è una ragazza più grande, con lei... Oh, eccola che arriva» esclamò dandogli la schiena.

In quello stesso istante, la ragazza di quella mattina svoltò l'angolo e si accostò al loro tavolo.

«Grazie, bella signora. Pregheremo per te» disse stancamente, prendendo le monetine dalla mano della bimba e infilandosele in tasca. Poi si rivolse alla piccola in un dialetto incomprensibile alla donna: «Perché sei scappata via di nuovo, Amina? Come te lo devo dire di starmi vicina?! Ora andiamo».

«No, Drande! Io voglio stare ancora qui! Non ho...»

In quello stesso momento, il cameriere comparve sulla soglia e rivolse loro uno sguardo severo.

«Non discutere» fu lapidaria la ragazza più grande: «Sai che i negozianti non vogliono che infastidiamo i loro clienti. E a me non piace quando ci cacciano via a male parole».

Lo disse con un tono triste e svuotato, a cui la bambina non volle controbattere.

Così si presero per mano e si allontanarono lungo la viuzza ombrosa.

Rita restò a guardarle per un attimo con il cuore gonfio di compassione.

Era buona, Rita. Non era capace di odiare nessuno e non ce l'aveva con nessuno. Zingari, migranti o barboni, per lei i mendicanti erano solo persone nate sotto una stella più severa di quella che accompagnava gli altri.

«Povera gente!» le scappò detto in un sospiro, come un pensiero ad alta voce.

Ma subito se ne pentì: non tutti la vedevano come lei, anzi. Per molti benpensanti, sua madre in testa, le persone che la società lasciava ai margini erano solo scarti che si meritavano la discarica in cui vivevano.

Si voltò quindi timorosa verso il suo cavaliere, temendo di trovarlo con un'espressione disapprovante tatuata in volto, invece non lo trovò affatto.

Sulla seggiola accanto alla sua non c'era nessuno. E non c'era traccia neppure del Bloody Mary che fino a pochi minuti prima se n'era stato buono buono sul tavolo, ancora intonso.

«Signor Neri?» chiamò con una vocina flebile flebile.

Ma nessuno le diede risposta.

Si alzò per sbirciare dentro al bar e lungo la strada, ma di quell'affascinante stronzo del suo vicino di casa non v'era traccia.

Allora tornò a sedersi, più a disagio che mai.

Forse il signor Neri si era scandalizzato perché lei aveva rivolto la parola a delle donne rom? Eppure, mai avrebbe detto che fosse un tipo tanto sdegnoso. Frequentava tipi ancor meno raccomandabili, a voler ben guardare, quindi, che cosa poteva essere successo?

Fu mentre rimuginava così che tornò il cameriere.

«Posso servirle dell'altro o le porto il conto, signora?»

Si costrinse a sorridere e chiese il conto. Il cameriere tornò un attimo dopo con una piccola ricevuta che elencava solo un Long Island Iced Tea.

«Mi scusi, ma il cocktail del mio amico?» azzardò la donna.

Il cameriere sembrava visibilmente stupito.

«Prego?»

«Il ragazzo che era con me» cercò di spiegare Rita. «Ha ordinato un Blody Mary, per caso ha pagato prima di andarsene?»

Il cameriere tentennò qualche secondo prima di rispondere: «Signora, sono spiacente, ma posso assicurarle che non c'è mai stato nessuno seduto con lei a questo tavolo. È arrivata sola ed è sempre rimasta sola, eccezion fatta per le due accattone che l'hanno importunata un attimo fa».

Rita si irrigidì come se l'avessero schiaffeggiata.

«Capisco» si limitò a dire.

Pagò il Long Island Iced Tea con il cuore gonfio e gli occhi lucidi, e si avviò a passi frettolosi verso la chiesa. Forse sarebbe arrivata in tempo per l'elevazione.

La strada sembrava ondeggiare lievemente sotto i suoi passi. La testa le girava e la costruzione romanica, laggiù in fondo, appariva ai suoi occhi come un acquerello slavato.

Ma non era colpa dell'alcool.

Era colpa delle lacrime.



Era sparito di nuovo, come un perfetto idiota.

Sembrava che quella mattina non sapesse fare altro.

Per un attimo, mentre Drande si avvicinava, a Korim era parso che lo stesse guardando e si era sentito nella merda più nera.

Il cuore aveva fatto da 0 a 100 in un decimo di secondo, le ali erano schizzate a mille e un sudore innaturale si era impadronito delle sue tempie. Poi lei aveva abbassato gli occhi sulla sorellina e lui si era reso invisibile senza nemmeno pensarci, facendo sparire ogni traccia della propria presenza e cancellando sia il cocktail sia la memoria del cameriere. Non aveva potuto accedere a quella di Rita, invece, troppo vicina all'aura della bambina che, in qualche oscura maniera, sembrava proteggerla da ogni Incantesimo.

Della memoria della sorella maggiore non aveva neppure provato ad occuparsi, tanto era decisamente fuori dalla sua portata.

Un secondo dopo era già balzato via, raggiungendo la grondaia del palazzo dirimpetto.

Vista da lassù, l'aura di quella giovane e potentissima Strega sembrava un enorme giglio bianco scompigliato dal vento, con mille petali che si avviluppavano elettrici su se stessi.

Abbacinante.

Forse era proprio questo inutile dissipamento di energia che la consumava e la faceva apparire così provata in volto: l'aura della bambina era più regolare e contenuta, come un bocciolo, mentre la sua si disperdeva fatalmente nel vuoto offrendo al Diavolo lo spettacolo più maestoso e terrificante che essere umano gli avesse mai offerto.

Abbarbicato su quella grondaia, restò ad osservarla mentre prendeva congedo da Rita e si avviava lungo il vicolo con la sorellina per mano. Amina lo individuò facilmente e gli rivolse una linguaccia, ma Drande non diede alcun cenno di percepire la sua presenza.

Forse si era sbagliato, forse poco prima non stava guardando lui. Oppure era riuscito magicamente a cancellare anche i suoi ricordi, chissà.

Avrebbe dovuto sentirsi sollevato, invece la sola idea lo irritò.

E parecchio.

Perché lui non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, anche se ora la ragazza era tornata una maschera di sfinimento.

Non riusciva a capire di quale sortilegio fosse vittima. Perché doveva essercene uno: non era possibile che quella femmina fosse così prepotentemente bella e così patetica al contempo! Era roba da far rivoltar l'anima!

Poi, quando le due sorelle si sottrassero alla sua vista imboccando in una viuzza laterale, sentì un guizzo viscido nel petto.

E allora capì.

No, dannazione. No.

Non c'era nessun Incantesimo a distorcergli la vista.

Era colpa del suo cuore.

Quel suo cuore rimasto infantile, che sapeva scovare bellezza anche sotto ciò che la sua ragione di demonio avrebbe dovuto ritenere sciatto e insignificante.

Quel cuore maledetto che aveva trovato bellissimo un Angelo, tanti anni prima, e l'aveva amato fino a fottersi la Carriera.

Ok. Adesso era davvero nella merda: non era mai stato bravo a tenere a bada il proprio cuore.

Si maledisse e, sospirando, si arrese a ritornare verso casa.


Anche se non riceve commenti, mi auguro che a qualcuno questa storia possa piacere. Lasciatemi pure i vostri pareri, sono sempre graditi!! ^_^
Solandìa

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Capitolo 5
*** Limbo, Girone IV ***


Limbo, Girone IV

Arrivato nella sua tana, con la testa e il cuore ancora scombussolati, tutto quello che Korim riuscì a fare fu buttarsi sulla branda con tanto di scarponi ai piedi e dormire come un sasso fino a sera inoltrata.

Toccò a Bizarq, il suo Compare, l'onore di svegliarlo.

Bizarq era quanto di più simile ad un amico possedesse. Fulvo e lentigginoso, era un buon Diavolo, ma non brillava né per arguzia né per lungimiranza, senza contare la naturale repulsione che provava per il sapone. Neppure lui era mai riuscito a completare il percorso per passare l'Esame e diventare Completo, eppure non sembrava soffrirne: si pasceva del suo mestiere di Tentatore riuscendo a trarne tutto il perverso piacere necessario alla beatitudine del proprio animo.

Lavorava fianco a fianco con Korim da sempre: un tempo erano un gruppo molto più nutrito, di sette Tentatori coadiuvati da un'Esploratrice, ma dopo il trasferimento del suo Compare in quella città cinque anni prima, in seguito a un qualche guaio che Bizarq non aveva mica capito, solo a lui era stato ordinato di seguirlo.

Il buon Diavolo ammirava svisceratamente Korim, per la sua perspicacia e il suo acume (o per quelli che a lui sembravano tali) e gli stava sempre appiccicato, perché da solo non ne combinava una buona. D'altro canto, Korim aveva bisogno di lui e dei suoi sguardi adoranti per sentirsi Qualcuno. E questa era tutta la forza del loro legame.

Ah, già: c'era anche la musica.

Suonavano insieme dai tempi dell'Addestramento: Korim il basso, Bizarq la chitarra a dodici corde. Quando si mettevano in coppia il rock picchiava come il cuore della madre terra.

Visto che erano nella stessa barca e che, da miseri Tentatori, avevano entrambi bisogno di mangiare e di dormire con un tetto sopra la testa, avevano trovato naturale mantenersi grazie alla loro passione.

La domenica sera però era un momento morto, sia per il Lavoro di Tentatori sia per il lavoro di musicisti, quindi solitamente veniva utilizzata per scandagliare i locali della città alla ricerca di nuovi ambiti di intervento. Era il compito che un tempo toccava a Valeel, l'Esploratrice, ma ormai quello strano essere non c'era più, dunque i nostri eroi dovevano arrangiarsi a fare tutto con le proprie misere e pigre forze.

«Datti una mossa, Korim» lo rimbrottò il Compare. «Ci hanno ordinato di sondare quel nuovo locale sulla superstrada; non è a uno sputo da qui, se non ti muovi farà giorno prima che ci arriviamo!»

«Arrivo, arrivo» borbottò lui buttando di malavoglia i piedi giù dal letto.

Non perse neppure tempo a cambiarsi: si limitò a recuperare il proprio giaccone e a seguire l'amico, dopo essersi scolato un paio di birre prese dal frigo.

Rendendosi invisibili, i due sdegnarono le scale e scesero in silenzio parecchi piani, filtrando attraverso i pavimenti come se niente fosse.

Scesero, già.

Perché Korim abitava in un sottotetto.

Era una delle sue tante stranezze e Bizarq ormai non ci badava neanche più. In fondo ce n'erano tante di cose stridenti nel suo Collega. Primo fra tutto, il fatto che non fosse mai a posto: mai una volta che lo avesse visto soddisfatto, parola sua! Sembrava sempre che fosse da un'altra parte con la testa, sempre lontano chilometri e chilometri da quello che gli succedeva attorno, anche quando era lui stesso a tirarne le fila.

Mah. Forse il fatto di essersi preso una cotta per una Gallina Aureolata, tanti anni prima, gli aveva starato qualche accordo nel cervello, con il risultato che adesso era tutto stonato, come una chitarra elettrica con l'amplificatore in avaria.

Per Bizarq, Korim restava un mistero. Uno dei più imperscrutabili misteri dell'universo.

Cosa c'era di più bello del mestiere che facevano?

Potevano far leva su una collezione di superpoteri che Superman se li sognava; potevano godersi la vista di un mare di porcate senza doversi sporcare le mani per farle di persona; potevano osservare un sacco di gente valida lasciarsi andare in malora e potevano spingercela anche. E gustarsi tutto quel marciume senza altri pensieri: in fondo non avevano un Protetto fisso, quindi se riuscivano a rovinare qualcuno bene, sennò amici come prima con la Gerarchia.

Cos'altro si poteva volere dalla vita?!

Oh, certo, Korim era decisamente più sfigato di lui, perché Korim era un Condannato.

Non s'era scelto quella vita, ce l'avevano confinato a calci in culo.

Forse soffriva perché non aveva fatto strada, ma che cosa c'era di invidiabile nella vita dei burocrati dei Piani Bassi?

Niente, parola sua!

Era molto meglio come se la passavano loro: nessuna pallosissima riunione, nessun rapporto da scrivere settimanalmente ai Superiori, nessuna menata diplomatica da smazzarsi per mettere a posto le varie minchiate politiche con i Bietoloni Piumati.

Solo rock. E porcate varie.

Roba da metterci la firma per l'Eternità!

E invece Korim era sempre incazzato.

Forse era proprio perché abitava così in alto: evidentemente la luce lo rendeva nervoso. E capirai! Tutta la luce che filtrava dal lucernario di quella soffitta avrebbe reso nervoso anche uno placido come lui!

All'inizio, quando l'amico si era preso in affitto un sottotetto invece di cercarsi un bello scantinato, Bizarq c'era rimasto basito: roba da pazzi! Vivere in cima a un vecchio palazzone, così vicino al Cielo, così in mezzo alle traiettorie di svolazzamento degli Angeli! Tipo che potevi trovarteli fra le palle senza preavviso. BRRRR!!!!

Aveva creduto che Korim fosse impazzito, ma lui gli aveva spiegato che s'era scelto quella postazione perché godeva di una buona vista, così da poter tenere d'occhio gli spostamenti dei Piccioni. Contento lui, di far da vedetta...

L'unica cosa buona era stata che non aveva insistito perché lo aiutasse nell'impresa, così Bizarq l'aveva piantato in asso per stabilirsi in un seminterrato adiacente al locale caldaie di un grosso grattacielo: si sentiva quasi all'Inferno, laggiù.

Quantomeno, il clima era praticamente lo stesso.

Casa, dolce casa!

In realtà, a Korim il suo appartamento piaceva. Tutto qui.

Era un solaio grigio e spoglio, con il pavimento in cemento e un ampio lucernario sul soffitto. C'era un unico, grande stanzone, interrotto solo da due pilastri. Aveva sistemato un lavandino, un cesso e una doccia in un angolo e una branda in un altro, insieme a un grande armadio e allo stereo. Al centro, fra i due pilastri, c'erano un tavolo e due sedie spaiate. Punto.

Tanto mangiava sempre fuori, non gli serviva altro.

Per far suo quel semplice ambiente, aveva tappezzato le pareti di poster e testi di canzoni, ma la cosa che più lo faceva sentire a casa era l'odore di zolfo che ormai impregnava l'aria asciutta e polverosa di quel luogo.

Fuori, invece, l'aria era gonfia di umidità e portava con sé la promessa di pioggia imminente.

Korim alzò il bavero del giaccone e si avviò senza entusiasmo dietro a Bizarq.

Ma era inquieto.

Ad ogni angolo, da ogni cantuccio in ombra, si aspettava di veder balzare fuori mostruose zingare pronte a soggiogarlo. Se non era paura quella che provava al solo pensiero, ne era quantomeno una buona approssimazione. Si sarebbe volentieri rintanato in sala prove per sfogarsi con il suo basso fino al mattino, ma il Lavoro chiamava e lui doveva obbedirgli. La notte non gli apparteneva mai: era proprietà della sua Gerarchia. In fondo, però, non era probabile che quelle due gli tendessero un agguato proprio nel locale scelto da Bizarq. Era fuori zona, senza contare che i buttafuori non avrebbero mai fatto entrare due accattone. Forse era più al sicuro laggiù che nel proprio quartiere.

Questo pensiero lo rinfrancò un pochino.

Pur controvoglia, quindi, si mise d'impegno per portare a termine al meglio il compito che gli era stato assegnato. In fondo, concentrarsi sul Lavoro gli serviva a non pensare all'ambivalenza di quella Drande e ai mesi di Lavoro su Rita che credeva di essersi bruciato in una sola, stupidissima mossa.

Perché quella di sparirle da sotto il naso non era stata una mossa né intelligente, né saggia. Solo dettata dal panico.

E le mosse dettate dal panico, si sa, raramente portano buoni frutti.

Solo il mattino seguente, una volta congedato l'ignaro Compare e raggiunto il suo loft, Korim si rese invece conto che le cose erano andate persino meglio di quanto avesse Tramato, e proprio grazie a quella maldestra sparizione.

Un paio d'ore dopo il suo rientro a casa, infatti, mentre cercava inutilmente di prendere sonno, iniziarono a giungergli brandelli di dialoghi dal piano di sotto; il suo istinto fu quello di infilare la testa sotto il cuscino, pur di non sentire quella che credeva sarebbe stata la conferma del suo più completo fallimento, ma, per disgrazia o per fortuna, un Diavolo ci sente sempre benissimo, anche con un cuscino pigiato sulle orecchie. E quello che sentì lo riportò in un battibaleno al Settimo Ciel... oh, pardon, al Settimo Girone Infernale.

Rita e sua madre stavano litigando come solo due donne sanno fare.

Perché due uomini a un certo punto partono a scazzottare e la cosa muore lì; le donne invece non sono abbastanza sagge per lasciare che la rabbia trabocchi attraverso il corpo, così non fanno che vomitarsi veleno addosso fino allo sfinimento.

Pane, per i denti di un Diavolo. Soprattutto se a litigare era una come Rita, che prima di allora non aveva mai alzato la voce con nessuno, figuriamoci con quel despota di sua madre.

Ma in quel momento la cosa che più esaltò Korim fu il motivo del litigio, ovvero egli stesso e la Tresca che aveva ordito.

Stando a quel che gli riuscì di ricostruire dalle loro grida sconnesse, il mattino precedente Rita doveva essere rincasata alla solita ora, perché in chiesa ci era andata davvero dopo che lui l'aveva mollata lì su due piedi. Arrivata a casa, sconvolta e un po' brilla, si era chiusa in camera, rifiutandosi di uscire persino per preparare il pranzo alla madre, senza fornirle spiegazioni. Ed era rimasta in quella stanza per tutto il giorno, tanto che la vecchia aveva saltato anche la cena.

Quel lunedì mattina, di buon'ora, una comare del palazzo era venuta a spettegolare con la megera, dicendole di aver visto la figlia allontanarsi il giorno precedente con quel poco di buono dell'ultimo piano (ovvero lui), poi di averla vista entrare in chiesa solo al momento della Comunione. Al che si erano aperte le cataratte del Cielo e la più sonora e scandalizzata strigliata del mondo era piovuta sulla testa della povera Rita, che per la prima volta in vita sua sembrava decisa a non tacere e a rinfacciare alla madre tutte le sue angherie.

Le due donne avevano gridato per una mezz'ora buona, infine Rita si era chiusa di nuovo in camera, come una brava quindicenne nel pieno degli sbalzi ormonali.

Aveva pianto per quasi un'ora, senza pensare a niente di coerente. Poi i singhiozzi si erano calmati quasi di colpo, ma la sua anima aveva preso a ribollire. Ondeggiava fra l'odio per la madre e la soggezione morbosa che nutriva per lei, fra la vergogna per essere stata colta in fallo e il senso di colpa per aver osato alzare la testa e rispondere male, fra il sollievo perché qualcun altro aveva visto con lei il signor Neri (e questo significava che non era pazza), e la disperazione perché lui se n'era andato senza una parola, senza un saluto.

Senza un apparente motivo.

Incolpava il suo aver avvicinato delle donne rom, ipotizzando che il suo inquilino non tollerasse la cosa.

Incolpava il suo essere goffa e fuori moda, pensando che un uomo come lui si fosse sentito in imbarazzo a farsi vedere con una che aveva indosso il cappotto appartenuto alla propria nonna, anche di fronte a due mendicanti.

Incolpava l'alcool che aveva ingurgitato, che doveva averle distorto le percezioni.

Incolpava la madre, che l'aveva invecchiata invece di farla crescere.

Incolpava i begli occhi verdi di quel perfetto stronzo, che le avevano fatto perdere la retta via.

Insomma, era ingabbiata in una selva di pensieri malati, che non facevano che demolirla nel profondo. Ma che, contemporaneamente, erano anche sintomo che il suo orgoglio di donna si stava lentamente risvegliando.

Korim ne fu entusiasta: aveva ottenuto esattamente quel che voleva.

Deciso a cogliere l'attimo fuggente, era sceso rapido al piano di sotto e aveva suonato all'appartamento delle due donne.

Dopo quasi un minuto, gli era venuta ad aprire una Rita scombussolata, che fu ancora più scombussolata nel trovarselo davanti, al punto da non riuscire nemmeno a distogliere gli occhi come faceva di solito.

«Signor Neri! Ma cosa...»

Lui le aveva sorriso con l'espressione più angelica del mondo: «Scusa se disturbo, Rita. Hai mica un paio d'uova da prestarmi? Te le rendo in settimana, quando faccio la spesa».

La megera aveva sentito la sua voce e aveva iniziato a inveire dalla propria stanza.

«Manda via quel disgraziato, Rita! E che si trovi un nuovo appartamento per il mese prossimo, ché qui perdigiorno non ne vogliamo!»

Rita era diventata di tutti i colori.

«Mi scusi signor Neri, non badi a mia madre. Sa, è un po' rigida: purtroppo ha saputo della nostra uscita di ieri mattina e non l'ha presa bene».

«Di quale uscita parli, Rita?» aveva chiesto lui, mimando stupore.

La donna l'aveva guardato sconvolta: «M-ma... Ieri mattina, quando mi ha accompagnato alla messa, ricorda? Ci siamo fermati al bar e lei ha preso un Bloody Mary...»

«Un Bloody Mary di prima mattina?! Dai, Rita, non scherziamo: mi hai preso per un alcolizzato? Chi mai berrebbe un simile intruglio a colazione?!»

Lo aveva detto con tono giocoso e tutt'altro che offensivo, ma per Rita fu un colpo mortale.

Korim vide distintamente il suo animo andare in pezzi al suono di queste parole. Fu uno spettacolo mozzafiato: la corazza di educazione, perbenismo e abnegazione che in tanti anni aveva eretto attorno al suo cuore si incrinò come una lastra di ghiaccio sotto un peso eccessivo e, un istante dopo, si sgretolò schizzando frammenti tutto intorno.

Era la prima volta che Korim assisteva a un tale crollo emotivo e fu davvero compiaciuto di esserne l'artefice. Tuttavia la donna non aveva lasciato trapelare nulla dalla propria espressione e, se Korim non avesse avuto la capacità di guardare Oltre, probabilmente non si sarebbe reso conto di nulla.

Semplicemente, Rita si era voltata compitamente dicendo: «Vado subito a prendere le uova, signor Neri; se vuole può accomodarsi, nel frattempo». Poi si era diretta in cucina.

Lui non si era fatto ripetere l'invito: aveva attraversato il salottino retrò, calpestando con il carrarmato dei suoi scarponi il pregiatissimo tappeto persiano che appesantiva ancor di più l'atmosfera di quell'ambiente, già incupita dalla tappezzeria in finto broccato e dai pesanti tendaggi di velluto, e si era affacciato alla porta della camera della vecchia.

Camera in stile vittoriano, con un grande letto in legno scuro dalla testata alta e un'acquasantiera proprio al centro.

La donna si era messa a urlare, scandalizzata perché solo uno screanzato poteva entrare nella camera di una signora pur sapendo che l'avrebbe trovata in camicia da notte. Per tutta risposta, lui aveva iniziato a muovere la mano in un lento circolo, canticchiando: due versi rapidi, di una melodia baritonale, e la voce della megera si era spenta.

La donna lo aveva guardato terrorizzata: stava ancora gridando, ma la voce le moriva sulle labbra, spegnendosi in un guizzo.

Korim le aveva sorriso. Un sorriso feroce, dai canini acuminati.

In quel momento aveva sentito i passi di Rita rientrare in salotto. Aveva rifatto con la mano un gesto simile al precedente, solo molto più rapido e nell'altro verso, e la gola della vecchia si era sciolta, permettendo di nuovo alle parole di fluire libere.

«Aaaah! È un demonio, quell'uomo è un demonio! Ci porterà solo disgrazie! Caccialo via, Rita, caccialo via! Digli che si trovi un altro appartamento, io non affitto la mia casa ai demòni!»

Urlava come un'ossessa in preda a un attacco isterico.

Rita tremava, di vergogna e rabbia. Ma fece finta di nulla, per quanto in suo potere.

«Venga signor Neri, la accompagno alla porta. Cerchi di scusare mia madre, sembra che oggi non sia molto presente. Anche se non me lo spiego: finora è sempre stata lucidissima».

Lui si fermò sulla soglia.

«Non temere, Rita, non sono certo il tipo che se la prende per le fissazioni degli anziani: ci vuole pazienza, con loro. Piuttosto, sono in pena per te.»

«Per me? E perché mai?»

Korim si era voltato verso di lei, in modo più che calcolato, facendo sì che i loro visi venissero a trovarsi vicini.

«Beh, pensavo... Tutto il giorno chiusa qui dentro, con una donna che sta scivolando nella pazzia...» e qui le aveva preso delicatamente il mento fra le mani, sollevandone lo sguardo perché incrociasse il suo: «Non vorrei che questa situazione faccia ammattire anche te. Dovresti svincolarti da lei, piccola Rita».

La povera donna era tutta in subbuglio.

L'avrebbe baciato. Oh, sì, non desiderava altro, in quel momento.

Stava fremendo in ogni fibra del suo essere e Korim lo vedeva benissimo. Non per altro aveva scelto quella mossa da telefilm: c'era la dirimpettaia che stava salendo le scale con le borse della spesa. E lui l'aveva sentita quando stava ancora tre piani sotto.

Non appena la figura anzianotta e sovrappeso della donna aveva fatto capolino sul pianerottolo sbuffando come un mantice, Rita si era staccata da lui imbarazzatissima, ma la comare aveva visto la loro posizione equivoca e di sicuro avrebbe cantato entro l'ora del tè.

Bingo! Tutti i tasselli del puzzle stavano andando magicamente al loro posto.

Korim era esultante, ma si era sforzato di non darlo a vedere, assumendo anch'egli un'aria imbarazzata tanto quanto Rita di fronte alla nuova comparsa, che aveva finto di ignorarli ed era sparita nel proprio appartamento bofonchiando parole incomprensibili.

«Insomma, Rita» aveva ripreso il Diavolo quando si erano trovati nuovamente soli, «mi auguro che la situazione per te non sia troppo stressante. Se hai bisogno di una mano conta pure su di me, mi raccomando. Chiamami senza esitare!».

Aveva detto l'ultima frase un po' troppo ad alta voce, mentre già si era staccato da lei e saliva le scale con le due uova sottobraccio. Ed era sicuro che alla megera non fosse sfuggita.

Infatti, grazie ad essa, Rita si era scornata con la madre per le tre ore successive e poi era crollata in lacrime sul letto.

Nei giorni a seguire, privandosi di numerose ore di sonno, Korim aveva passato intere giornate ad ascoltare il fluire della coscienza della giovane donna che gli giungeva dal piano di sotto.

Dopo aver subìto quel suo Incantesimo, la megera si era lasciata alle spalle qualsiasi ossessione sulla morale e sul decoro e continuava a battere il chiodo sulla natura diabolica del loro affittuario. Discorso a cui nessun essere umano moderno e con due dita di cervello avrebbe mai dato peso, ovviamente. Per Rita questa fissazione era diventata la prova che la madre fosse vittima di una forma fulminante di demenza senile e si era attivata per farla visitare dai migliori specialisti dell'Alzheimer.

In capo a pochi giorni, tutti trascorsi fra i borbottii incessanti della madre e la sala d'aspetto del geriatra, la giovane era ulteriormente crollata, tanto che la dose di Valium che assumeva era triplicata rispetto alla settimana precedente e il suo psichiatra aveva aggiunto un paio di nuovi antidepressivi alla terapia.

Al colmo dell'esasperazione, Rita era salita più volte a cercare il fantomatico signor Neri, decisa a parlargli per davvero, per trovare conforto o almeno un pochino di umana comprensione, ma lui aveva sempre finto di non essere in casa, oppure si era fatto trovare con sciarpa e cappotto ed era sgattaiolato giù per le scale accampando la scusa di un qualche impegno urgente, lasciando la poveretta lì sul pianerottolo rigida come un baccalà.

Sempre più disorientata e incapace di farsi un'idea coerente dell'uomo che l'aveva stregata, Rita aveva iniziato a meditare seriamente il suicidio.

Non era questo che Korim aveva in progetto per lei, ma decise ugualmente di lasciarla crogiolare in un tal pensiero per almeno quarantotto ore, prima di dare la necessaria svolta alla situazione.

Si concesse dunque un paio di giorni di riposo, Lavoro serale a parte. Era il mercoledì della settimana successiva e ormai il suo incontro con le gitane era poco più di un ricordo sbiadito: dieci giorni in fondo sono sufficienti a dilavare le emozioni e il Diavolo era tornato a vagare per la città senza troppe paranoie, convinto che la parentesi con le Streghe fosse da considerarsi chiusa e scevra di conseguenze.

Il venerdì i nervi di Rita erano a pezzi e la sua ideazione suicidiaria era già passata a concretizzarsi. Era decisa a farla finita ingurgitando tutti gli psicofarmaci che aveva per casa e, per darsi il tempo di preparare con tutta calma il micidiale cocktail di pillo lette con cui avrebbe detto addio a questo mondo ingrato, aveva aggiunto una cospicua dose di sonnifero al frullato che portava sempre alla madre verso le dieci del mattino, così da riservarsi tutto lo spazio di manovra necessario una volta che la vecchia fosse crollata addormentata.

Korim aveva deciso di fare la sua nuova comparsa proprio nel momento in cui, drogata la megera, Rita stava allineando i medicinali sul tavolo della cucina.

Era sceso canticchiando al piano di sotto, in modo da far ben udire i propri passi, e aveva suonato alla porta, certo che la giovane gli avrebbe aperto: non desiderava altro che rivederlo prima di morire e lui lo sapeva bene.

Si era presentato davanti a lei sereno e sorridente, smagliante dietro al suo Schermo di bruno trentenne dagli occhi verdi, abbigliato da bravo ragazzo della porta accanto e con le due uova da restituire sottobraccio.

Appena lei aveva aperto la porta, lui aveva mimato un forte stupore e una grande preoccupazione per la sua aria pallida e stressata, e aveva insistito per accompagnarla a prendere una boccata d'aria.

Visto che la madre dormiva come un sasso e avrebbe continuato il suo sonno artificiale almeno fino a sera, Rita non se l'era fatto ripetere due volte: se doveva morire, era ben felice di farlo dopo aver trascorso le ultime ore in compagnia del suo imperscrutabile inquilino.

Lui l'aveva accompagnata in una caffetteria lungo il Corso, che serviva dell'ottima pasticceria fatta in casa, e aveva ordinato per lei una cioccolata e degli squisiti (quanto illusori) Baci di Dama.

Dopo che il cacao bollente aveva ridato un po' di colore alle guance della poveretta, Korim aveva dedicato tutto se stesso a farla parlare. Ma, ovviamente, Rita aveva un tarlo troppo grosso sulla coscienza per potersi sbottonare.

Un suicidio non è robetta, e il Tentatore sapeva fin dal principio che lei non gli avrebbe mai confessato le proprie intenzioni. Ma sapeva anche che, contemporaneamente, si sarebbe letteralmente squagliata per tutte le delicate attenzioni che lui le stava rivolgendo con ogni suo gesto e ogni sua frase.

Frasi tutte positive, quelle udibili da orecchio umano, che decantavano le stupende doti di pazienza, gentilezza e spirito di abnegazione della giovane, qualità tanto rare in una donna moderna, ma di cui l'universo intero (a detta sua) aveva sete.

Ma c'era un'altra voce con cui Korim stava parlando.

Una voce vibrata in una Lingua Antica, che non prorompeva dalle corde vocali e non passava attraverso i timpani, ma si diffondeva direttamente da cuore a cuore, senza alcuna mediazione.

E con questa Voce Arcana, in questa Lingua Universale, per tutto il tempo egli non aveva fatto che ripeterle un unico concetto: «Perché tu?»

Già, perché doveva essere lei, giovane, bella e con una possibile vita ancora davanti, a morire per porre fine a quella situazione intollerabile, quando bastava che si spegnesse la fiammella di un'altra vita, che ormai aveva fatto il suo triste corso e che, comunque, non avrebbe potuto chiedere di meglio ai propri giorni che piaghe da decubito e pannoloni per incontinenza?

Con tutti i farmaci per il cuore che prendeva la vecchia, non sarebbe nemmeno stato difficile procurarle un bell'infarto, magari nel sonno, in modo che lei avrebbe potuto denunciare l'accaduto solo il mattino successivo, a distanza di troppe ore perché al medico venisse qualche sospetto...

Korim aveva sussurrato ogni dettaglio al cuore di Rita. Ogni ragione, ogni scappatoia.

Un piano ben congegnato, che era entrato direttamente nell'animo della donna come se fosse stato un parto della sua stessa mente e non il frutto del Canto subliminale del Diavolo.

Poi lui l'aveva lasciata, millantando un qualche impegno, e si era allontanato lungo il Corso, ovviamente solo dopo aver pagato le consumazioni di entrambi, come un vero gentiluomo.

Rientrata a casa, due ore dopo, Rita aveva gettato tutti i suoi psicofarmaci nel water e si era recata alla biblioteca dell'università, per studiarsi tutti i testi di farmacologia che vi avrebbe scovato.

Non era il suo campo, ma era sempre stata ferrata nelle materie scientifiche: in capo a pochi giorni, ne era sicura, avrebbe trovato il giusto mix di cardiotonici per spedire la madre al Creatore.

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Capitolo 6
*** Limbo, Girone V ***


Limbo, Girone V

Korim uscì dal cancello della villa a dir poco stravolto. Erano all'incirca le quattro del mattino.

Si avviò lentamente verso casa, sostenendo un Bizarq sfiancato, che minacciava ad ogni passo di crollargli addormentato sulla spalla.

Non che lui fosse messo tanto meglio, intendiamoci: il cranio gli si spaccava in due, le gambe pesavano un quintale l'una e la vista andava e veniva in un liquido baluginio. Senza contare quanto gli bruciasse la schiena.

Parola sua, dopo quella serata non si sarebbe mai più lamentato del delizioso mal di testa che lo attanagliava quando si limitava a qualche bicchiere di troppo.

Per quanto la sua coscienza non si fosse distorta per niente, il suo corpo non sembrava proprio aver gradito gli eccessi in cui era stato trascinato durante quella serata: solo la rabbia che gli serpeggiava nelle vene gli impediva di accasciarsi sul marciapiede.

E pensare che, quando aveva ricevuto il Messaggio che lo invitava a partecipare a quel ricevimento di gala, si era sentito a dir poco esaltato.

Si trattava di un evento molto in, roba ben diversa dalle festicciole underground che competevano a quelli come lui. Un party del genere, al quale sarebbero intervenuti sia uomini d'affari, sia gente dello spettacolo, sia esponenti della mafia locale, solitamente era fuori dalla portata di un Tentatore: di norma erano i Protettori a sguazzare in quel genere di cose.

I fasti dell'alta società umana erano sempre stati un sogno proibito per lui, almeno fino a due giorni prima, quando il Messaggero era venuto a svegliarlo sul far del mezzogiorno.

Korim stava dormendo della grossa sprofondato nella sua branda, cullato dai borbottii di Rita che, al piano di sotto, tramava e ritramava il suo omicidio curva su tre libroni di farmacologia; il Messaggero era entrato con passo felpato dal lucernario che il Diavolo lasciava appositamente socchiuso, si era accoccolato accanto al suo cuscino e aveva iniziato dolcemente a leccargli il viso. A Korim non dispiaceva affatto quel tipo di sveglia: significava «Lavoro in vista» e la cosa non gli stava simpatica, ma non riusciva proprio ad incazzarsi con un gattino nero che veniva a solleticargli il naso.

D'altronde i gatti erano esseri maledettamente ruffiani, che sapevano corrompere chiunque con le loro moine. E i loro spiriti, come questo che fungeva da Messaggero, non erano da meno di quelli in carne e ossa.

Durante il tardo Medioevo, in quegli anni bui in cui la vita era precaria e la religione, travisata da mille superstizioni, dominava come un torchio sulla vita del contado, alcune specie animali erano state erroneamente additate come invise al Cielo: i corvi per la loro usanza di ballare sui cadaveri, i gufi e i barbagianni perché in grado di vedere nelle tenebre e i gatti perché considerati incarnazione dei sette vizi capitali per via del loro atteggiamento pigro, sornione e approfittatore. Ritenuti animali del Diavolo, erano considerati portatori di sventure.

Ogni volta che si profilavano all'orizzonte carestie, epidemie o scorribande di briganti, queste bestiole innocenti venivano catturate dai contadini, ammazzate e crocifisse sulle porte delle cascine e delle fattorie, nella convinzione che questo scacciasse l'imminente pericolo. E le persone che cercavano di difenderli, per lo più donne dal cuore gentile, venivano bollate come streghe e perseguitate insieme a quelle povere creature.

Ovviamente tutti quegli animali non erano che comunissime bestie, che non racchiudevano in sé alcun potere se non quello di cacciare i topi, ragion per cui in quell'epoca dilagava tanto facilmente la peste: dato che i loro predatori naturali venivano sterminati dagli esseri umani, i roditori si riproducevano a dismisura, e con essi cresceva la diffusione delle gravi epidemie di cui erano vettori.

E, fin qui, la storia era nota a chicchessia.

Ma l'odio chiama altro odio, e questa follia umana ebbe una seconda, occulta conseguenza: la nascita dei Messaggeri.

Fino ad allora, i Diavoli si erano sempre arrangiati con le proprie forze a comunicare fra loro. Ma alcuni degli spiriti di quegli animali, morti fra tormenti troppo atroci per trovare la pace, erano rimasti a vagare come fantasmi e, spinti dal desiderio di vendetta verso gli uomini, si erano messi al servizio degli Inferi, rendendosi disponibili per piccoli compiti come quello di fare da ponte di comunicazione fra il piano Terreno e quello Infernale.

Gli esseri umani avevano così fatto avverare quella stupidaggine della quale si erano auto-convinti, ovvero che tali bestie fossero animali del Diavolo. Ma non si erano accorti di essere stati loro a far sì che le cose andassero in tal senso.

Korim amava molto la storia dei Messaggeri, perché gli ricordava costantemente quanto fosse controproducente la scelleratezza umana. Allo stesso modo, apprezzava sinceramente quelle bestie: in fondo tutti questi animali, con la loro brama di scandagliare il buio e la loro ruffiana sensualità, gli ricordavano Valeel. E tutto sommato quello di Valeel era un ricordo piacevole.

Solo dopo aver ricevuto una ciotola di latte e una cospicua dose di grattini sulla collottola, il gattino nero si era degnato di porgere a Korim il Messaggio. Questo altro non era che un foglietto di pergamena arrotolato e fissato al suo collare.

Il Diavolo lo estrasse, lo lesse con cura e proruppe in un grido di gioia: mai prima di allora era stato precettato per un Lavoro tanto importante!

Avrebbe dovuto presenziare, insieme al suo storico Compare, al grande ricevimento che si sarebbe tenuto di lì a due giorni nella villa del magnate della finanza più in vista della zona, come manovalanza affiancata a un gruppo di otto Protettori Adulti.

Allegati al Messaggio c'erano due inviti per il party, abbinati ad altrettanti documenti d'identità falsi da esibire al buttafuori all'ingresso della festa. Ufficialmente i due Tentatori sarebbero risultati essere i rampolli di una famiglia di noti (quanto inesistenti) industrialotti di provincia.

Il fatto di dover partecipare alla festa visibilmente, fu un dettaglio che attizzò ancor di più l'entusiasmo di Korim: solitamente, quando i Protettori avevano bisogno di manforte in vista di Lavori particolarmente pesanti, reclutavano i Tentatori portandoseli dietro perfettamente invisibili.

Per tutti gli umani presenti, dunque, i Tentatori non c'erano, mentre i Protettori assumevano identità false e partecipavano apertamente agli eventi mondani. Questo permetteva loro di godersi tutti i piaceri offerti dalla festa, lasciando a becco asciutto i loro miseri sottoposti, che dovevano limitarsi a sgobbare in silenzio.

Ma stavolta era diverso: lui e Bizarq erano stati precettati, certo, ma per partecipare concretamente all'evento. E infatti, cinque minuti dopo, il campanello era squillato e un garzone di lavanderia gli aveva consegnato due smoking freschi di lavatura.

Korim era convinto che quella novità potesse significare una cosa sola sola: i suoi Gerarchi si erano accorti del Lavoro magistrale che stava facendo con Rita e questo era il loro modo per complimentarsi con lui. Si trattava di sicuro dell'avvisaglia di una promozione imminente.

Certo, purtroppo il ricevimento cadeva proprio quel sabato sera, momento che Rita aveva scelto come quello ideale per l'omicidio, ma Korim non si era lasciato minimamente abbattere da quel dettaglio: se era vero che non avrebbe potuto essere presente per gustarsi in diretta il frutto delle sue fatiche, era comunque sicuro che Rita avrebbe agito senza fallo, perché ormai i suoi pensieri turbinavano in un vortice assassino dal quale non si sarebbe mai potuta affrancare, che lui la vegliasse o no.

Rita, insomma, avrebbe camminato verso l'Inferno con le sue stesse gambe e lui finalmente poteva avviarsi all'agognata scalata dei Piani Alti.

Così aveva pensato.

Solo adesso, a ricevimento finito, si rendeva conto di quanto immaturi fossero stati quei pensieri.

Aveva passato una nottata allucinante, probabilmente la peggiore della sua vita.

In primis, gli otto Protettori presenti si erano ben guardati dal muovere un dito, preoccupandosi solo di spassarsela e lasciando tutto, ma proprio tutto il Lavoro sulle spalle sue e di Bizarq. E Lavorare da visibili non è sempre facile, quindi il primo ostacolo era stato proprio scegliere con cura i momenti per occultarsi e quelli per manifestarsi.

A complicare irrimediabilmente il tutto, però, c'era stato il tipo di Lavoro che gli avevano affibbiato. Cosa aveva fatto lui in tutti quegli anni (circa una quindicina) trascorsi dalla sua Condanna? Quel che compete a un Tentatore: spinto la gente a bere, drogarsi, farsi una scappatella alla faccia della fiducia del coniuge o giocarsi lo stipendio alle slot-machines.

Punto.

Fine.

Su quello era competente e gli era sempre stato proibito di volgersi a questioni di maggior peso.

E adesso, di punto in bianco, veniva spedito in smoking a un Gran Galà e lì sul posto, manco fosse l'agente 007, gli era stato impartito l'ordine di infiltrarsi in una riunione fra mafiosi e industriali per farla volgere secondo la strategia designata.

Ma quale strategia?!

Ora, a parte il fatto che prima della riunione era stato messo a Lavorare nella zona del bagno, dove la gente peregrinava per farsi di un nuovo ritrovato della fantascienza che «il crack a confronto ha un gran rispetto per le cellule cerebrali»; a parte il fatto che, sniffatosi la nuova biancaneve (che a dire il vero era una rosaneve), era stato subito così male da desiderare di non essere mai nato e aveva poi dovuto reiterare la cosa almeno una ventina di volte, per trascinare in quel nuovo giro tutti quelli che gli veniva di volta in volta indicato di trascinarvi; a parte il fatto che Bizarq si era fatto più volte di lui ed era finito fuori-combattimento a metà della serata; a parte il fatto che arrivare a una riunione fisicamente devastati come lo era lui e dover recitare il rampollo di una qualche famiglia borghese era roba che non sarebbe riuscita neppure a Jhonny Deep nelle sue giornate migliori, la cosa che più lo faceva incazzare era che, di quella stramaledettissima strategia, nessuno gli aveva detto un tubo.

Non aveva la più pallida idea della piega che avrebbe dovuto far prendere agli accordi che quella gentaglia intendeva stringere.

Che ne sapeva lui di intrallazzi mafiosi?

Niente.

Un chiarissimo, limpidissimo, schifosissimo niente!

Non aveva idea delle famiglie implicate, degli affari loschi che conducevano, né della merda in cui sguazzavano gli industriali che si stavano rivolgendo ad esse per pararsi il culo. Era comunque partito con fiduciosa quanto genuina diabolicità, confidando che sarebbe certo stata cosa ottima se gli accordi si fossero conclusi, perché più gente si compromette con la malavita organizzata, meglio è per la Gerarchia, che controlla la malavita in ogni angolo del globo.

In tal senso aveva provato a Lavorare all'inizio, ma, in capo a pochi minuti, aveva compreso quanto la situazione fosse ben più complessa. Tuttavia, lui non sapeva nulla di quel che bolliva in pentola, l'unica cosa che aveva capito era che alcuni di quegli industriali erano già vicini a un altro clan, forse rivale di questo.

Quindi?

In che direzione avrebbe dovuto spingere la cosa, per far piacere ai suoi Capoccia?

Dalla parte di chi doveva stare?

Ci fosse stato un fottutissimo bastardo di Protettore che si fosse degnato di dargli due dritte!

Niente! Era stato mandato lì allo sbaraglio, nel buio più assoluto.

Ignorando il panico che la situazione gli trasmetteva, aveva fatto quel che aveva potuto come aveva potuto, scegliendo a naso quella che gli era sembrata la soluzione più marcia, e in quel senso aveva Lavorato, senza la minima idea di quel che ci si aspettasse da lui.

Stupidamente, lì su due piedi si era fatto l'idea che il silenzio dei suoi Superiori fosse dovuto al fatto che quello si poteva considerare una specie di Esame. Forse, si era illuso, avevano solo voluto metterlo alla prova in un ambiente nuovo, per vedere se era degno della promozione che l'Eternità aveva già in serbo per lui. Per questo ce l'aveva messa tutta per concentrarsi e Lavorare al meglio, anche se il suo organismo devastato remava decisamente contro.

Era stato solo una volta uscito da quella riunione che era arrivata la vera doccia fredda.

I Protettori l'avevano convocato in una saletta privata, per farsi dare un resoconto dettagliato del suo operato. Lo avevano ascoltato per circa tre minuti, poi erano partiti con i calci. Iniziavano sempre così, prendendoti a calci, quando avevi sbagliato a Lavorare. Poi ti fracassavano due o tre costole e alla fine ti rifacevano i connotati. Era il discorso-standard che rivolgevano a chi falliva: chiaro, limpido e al quale nessuno avrebbe mai chiesto di aggiungere ulteriori spiegazioni.

Il suo viso, in ogni caso, era stato graziato, perché in mezzo a una festa di quel genere avrebbe attirato troppo l'attenzione, anche da dietro lo Schermo. Per questo avevano preferito spogliarlo e ustionargli la schiena. Tanto, sotto lo smoking, nessuno avrebbe notato le piaghe.

Per i Diavoli di Rango torturare un novellino era un passatempo innocuo e scevro da qualsiasi conseguenza. Per i Tentatori, invece, non c'era nulla di divertente nel subire tali torture, ma era una cosa a cui non potevano in alcun modo sottrarsi: se un Diavolo Completo decideva di usare un Tentatore come punchingball, questi perdeva ogni controllo sul proprio corpo, che si rifiutava di muoversi o fuggire e restava lì, inerme, a prenderle di santa ragione.

Umiliante.

Il dover subire questo tipo di Incantesimo dei Superiori, in grado di renderlo un misero giocattolo da strapazzare, era una delle cose che Korim più odiava del proprio stato. Anche perché a lui capitava di essere preso di mira molto più frequentemente rispetto agli altri Tentatori.

Probabilmente perché era un Condannato.

E questo significava che era intelligente e intimamente ribelle, quindi molto più gustoso da rendere immobile e seviziare di un tontolone come Bizarq, che non aveva superato l'Esame solo perché era palesemente un povero idiota.

Quella volta, però, i giochi erano sottilmente diversi. Quella non era la classica seduta di Torture che seguiva a un involontario errore del disgraziato di turno.

Ne era certo.

Sotto le botte che gli piovevano addosso da ogni parte e anche dopo, quando era stato rispedito nell'area-bagni e, con il più smagliante sorriso sulle labbra, si era dovuto calare per altre sette volte quella roba micidiale che invece di anestetizzarlo acuiva il dolore che gli martoriava le membra, non poteva fare a meno di pensare che tutta quella situazione era stata creata ad arte per lui.

Lui, che credeva di essere stato notato e di essere a un passo dalla Promozione.

Lui, che si illudeva di poter essere ammirato e ben visto dai Superiori.

Lui, che aveva messo non solo la sua vita, ma anche quella di Rita nelle loro sudicie mani.

Lui, che per loro non era che feccia.

Non l'avrebbero mai accolto nella Gerarchia, ora lo sapeva.

Aveva ottenuto qualcosa di davvero miracoloso con la povera Rita. Loro se n'erano accorti e, pur di non Promuoverlo, erano corsi ai ripari: avevano ordito quel piano, trascinandolo a quella festa proprio il giorno dell'omicidio, tanto per togliergli anche la soddisfazione di gustarselo, e lì lo avevano messo in condizione di sbagliare alla grande, così da fottersi qualsiasi merito.

Probabilmente non esisteva affatto un verso corretto ove dirigere la riunione mafiosa: qualsiasi cosa avesse fatto, lo avrebbero accusato di Omissione Lavorativa. E poi si sarebbero finti magnanimi e l'avrebbero lasciato nella condizione in cui era, sostenendo che i suoi meriti e demeriti si controbilanciavano a vicenda.

Tutto qui.

Tutto schifosamente qui.

E, se in futuro avesse ritentato la scalata con qualche nuova iniziativa personale, le cose sarebbero andate ancora in questo modo.

Questa era la bolla di sapone in cui si dissolvevano definitivamente i suoi sogni di gloria: era un Tentatore e sempre lo sarebbe rimasto.

In Eterno.

Merda!

Non riusciva a pensare ad altro che a quanto odiasse la propria Gerarchia. Gli stava sul cazzo già prima, ma ora, dopo quella meravigliosa serata, si era guadagnata il suo odio più totale.

Il problema era che non poteva liberarsene: per la prima volta si rese conto con agghiacciante lucidità di essere solo uno schiavo. Fino ad allora si era sempre ritenuto uno che non era stato riconosciuto nel proprio valore, ma che in qualche modo aveva tutta l'Eternità davanti per rifarsi, ed era sempre stato convinto che si sarebbe rifatto eccome.

In quel momento, invece, gli fu chiaro di non avere via d'uscita.

Era in una situazione di merda.

Faceva una vita di merda, perpetrando un Lavoro di merda.

E lo trattavano come un pezzo di merda.

E la cosa più esaltante era che tutto questo sarebbe rimasto immutato di lì all'Eternità, senza scampo.

Sotto il cielo stellato di quella notte limpida, con Bizarq pesato sulle spalle e col corpo dolorante in ogni dove, schiumava di rabbia al punto che avrebbe sfasciato l'universo intero.

Peccato che un Tentatore non potesse sfasciare proprio un bel niente.

Dal canto suo, il Compare era alla frutta, ma non era stato malmenato e neppure si era accorto di quel che era capitato a lui. Era stato in pianta stabile davanti a quel fottutissimo cesso per tutto il tempo, eccezion fatta per una mezz'ora passata, invisibile, in una camera da letto dove aveva spinto un'aspirante attricetta a concedersi in atti osceni a tre sedicenti produttori televisivi.

Per quanto il suo corpo fosse provato, nel complesso Bizarq si era divertito un mondo e ora ciarlava con voce impastata interrompendo di continuo i pensieri del Compare con commenti su questo o quel culo e questo o quell'altro paio di meloni, peggiorandone in tal modo l'umore già nero.

Lui però non si prese la briga di zittirlo, tanto sapeva che il silenzio non sarebbe durato più di due secondi: Bizarq non aveva filtro, tutto ciò che gli attraversava l'anticamera del cervello usciva in direttissima dalla bocca, senza alcuna rielaborazione. L'unica speranza di starsene in pace, per Korim, era di liberarsi al più presto della sua scomoda presenza.

L'avrebbe volentieri abbandonato lì in mezzo alla strada, ma gli Ultimi non abbandonano mai un proprio Compagno. Valeva per gli Angeli come per i Diavoli Incompleti. Ed era la più ferrea di tutte le leggi, anche se non era mai stata né scritta né pronunciata, né veniva forzata in esecuzione da qualche Incantesimo, come tutte le altre.

Si diresse così verso l'abitazione dell'amico.

Bizarq viveva nel locale caldaie di un casermone marcescente, in uno dei rioni peggiori della città. E ci si trovava alla grande. Tre quarti d'ora dopo aver abbandonato la villa, Korim lo scaricò su quell'ammasso di coperte pulciose che usava come letto, e il Compare si addormentò all'istante.

Lui si rannicchiò in un angolo, incapace di chiedere altri sforzi al suo corpo.

Per quanto difficile gli risultasse con la mente così in subbuglio, si concentrò il più possibile nel tentativo di alleviare almeno un pochino il malessere dovuto a quella maledetta polvere rosa. Quando la luce verde che si dipanava dalle sue dita smise di illuminare la stanza, i raggi del sole già filtravano da sotto la porta. Il suo corpo era ancora profondamente provato, ma forse ora sarebbe stato in grado di camminare fino a casa.

Una volta lì, avrebbe almeno potuto gustarsi i risultati del Lavoro svolto su Rita.

Era deciso a pascersi almeno di quello: ora sapeva che non sarebbe servito a scalare la Gerarchia, ma forse l'avrebbe aiutato a rimettersi in piedi moralmente. Certe cose, d'altronde, vanno fatte anche solo per se stessi.

Si spogliò dello smoking, a dir poco anacronistico per girare a piedi a quell'ora del mattino, si infilò in una vecchia tuta di Bizarq e si gettò in spalla un trench consunto che sembrava essere stato dimenticato da secoli sull'attaccapanni.

Capo chino e bavero alzato per aiutare il suo Schermo tremolante, uscì nuovamente per le strade e in meno di mezz'ora arrivò all'ingresso del suo condominio. No, non a falcate decise: se l'era fatta tutta appoggiandosi ai muri e barcollando come un ubriaco. Ma non abitava lontano.

Filtrò nell'atrio e chiamò l'ascensore. Ne sortì di fronte all'appartamento di Rita. Origliò alla porta, ricevendo in ritorno solo un glaciale silenzio.

Probabilmente la megera era già morta da un pezzo, o l'avrebbe sentita russare.

Rita, a occhio e croce, doveva essere a chiamare il medico, un giovanotto che abitava due isolati più in là e che, fuori orario, non rispondeva mai al telefono.

Compiaciuto, Korim si avviò su per l'ultima rampa di scale, unico collegamento al piano attico. Beh, attico era una parola un po' troppo grossa: in sostanza, l'ascensore non arrivava fino al sottotetto, quindi l'unico modo per raggiungere il suo appartamento era trascinarcisi a piedi.

Fu quando arrivò al terzultimo gradino che la vide. Là, fuori dalla porta del suo loft, rannicchiata a terra, con la testa fra le mani e il respiro spezzato.

Rita era lì.

La sua figuretta tremava piano.

Forse dormiva.

Forse piangeva.

Korim non riusciva a capirlo, ma non era quello che contava.

Il vero problema era perché diavolo fosse fuori dalla porta di casa sua.

Si bloccò con un piede a metà fra un gradino e l'altro, indeciso sul da farsi.

Avvicinarla?

Blandirla?

Ignorarla?

Oppure, semplicemente, sparire?

L'ultima sarebbe stata la soluzione più comoda: non era in vena, in quel momento, di occuparsi di lei.

Ma prima che gli riuscisse di optare per una strategia qualsiasi, la donna sollevò il capo e fissò gli occhi nei suoi.

Occhi castani colmi di lacrime.

Un attimo dopo, gli si era gettata al collo e stava piangendo a dirotto fra le sue braccia.

Fu un miracolo se Korim non si ribaltò ruzzolando giù per le scale insieme a lei. Spiazzato, si arrese a cingerla con le braccia e carezzarle la nuca per farla calmare: il signor Neri l'avrebbe fatto.

Non c'era affetto nel suo gesto. Né desiderio o qualsiasi buona disposizione d'animo nei confronti della poveretta: era solo scazzato, per quanto cercasse di non darlo a vedere. Per questo, probabilmente, gli fu concesso quel gesto.

Rita singhiozzava forte, aggrappata ai lembi del suo trench. Non c'era modo di consolarla, anche perché, diciamocelo, consolare qualcuno non era esattamente il punto di forza del nostro eroe.

Dieci minuti dopo i due se ne stavano ancora accucciati sull'ultimo gradino, lei squassata da respiri irregolari, con il viso completamente sprofondato nel grembo del Diavolo, e lui sull'orlo di una crisi di nervi, che faceva di tutto per trattenersi dall'esplodere e cercava di guardarla mimando tutta la preoccupazione di questo mondo.

Insomma, probabilmente questa scenata era dovuta al fatto che Rita, dopo aver compiuto il misfatto, si era svegliata dallo stato di paranoia in cui era precipitata e aveva preso coscienza della gravità del suo gesto.

E ok, tutto regolare. Tutto da copione.

Ma lui avrebbe voluto gustarsi in santa pace i suoi sensi di colpa attraverso il pavimento, non certo in diretta in questo modo così schifosamente melodrammatico.

«Allora, Rita, me lo dici che è successo?» domandò infine, sforzandosi di sfoderare un tono ignaro e premuroso al contempo.

«Oh, signor Neri, se solo lei sapesse... Se sapesse che cosa spregevole ho fatto!»

Korim sorrise apertamente.

Non gli riuscì di fare altrimenti, pregustando l'imminente confessione: finalmente un successo al quale brindare, in quella giornata del cazzo.

Ma lui, come avrebbe dovuto reagire?

Beh, sdegnandosi, è ovvio. Non appena lei gli avesse confessato il delitto, lui l'avrebbe guardata con disgusto e l'avrebbe abbandonata lì, sul pianerottolo, come si abbandonano i sacchi dell'immondizia. E questo avrebbe definitivamente maciullato l'animo già in frantumi della donna.

«Sentiamo, Rita cara, cosa avresti fatto di tanto brutto?» le chiese.

«Io... io...»

Rita tremava e non riusciva a proseguire. Korim, nonostante tutta la stanchezza che lo attanagliava, ormai non stava più nella pelle e cercò ancora di incoraggiarla: «Tu...?»

La poveretta esplose: «Io ho progettato di assassinare mia madre!»

Lo gridò a lui, al Cielo, a se stessa o forse solo alla tromba delle scale, e subito riprese a singhiozzare a dirotto.

Il Diavolo si rabbuiò: «P-progettato?» balbettò con una trista apprensione nella voce.

«Oh, che il Cielo mi perdoni, ma è così! Ho passato l'ultima settimana a pianificare l'omicidio di mia madre! Ho studiato e ristudiato un modo per avvelenarla con i farmaci che utilizza ogni giorno! Anzi, avevo già preparato l'intruglio! Ma quando è stato il momento... Oh, solo un Angelo del Cielo può avermi fermato, Signor Neri!»

Korim la guardava interdetto: «Vuoi dire che... che alla fine non l'hai fatto?!»

«No, che il Cielo sia lodato, no! Ma avevo già il micidiale cocktail fra le mani! Capisce? Eppure quando è stato il momento... beh, non ce l'ho fatta. Non me la sono sentita: ho gettato tutto nel water e avrei voluto impiccarmi, ma mi sono ricordata delle parole che lei mi ha rivolto, esortandomi a vivere e ad aver rispetto di me stessa, allora ho rinunciato anche all'idea di farla finita e sono corsa a cercarla».

Korim si staccò dalla donna, alzandosi in piedi e fissandola freddissimo.

«Insomma, mi stai dicendo che non l'hai fatta fuori, giusto?»

«Esatto. Mi sono fermata appena in tempo».

Il Diavolo alzò una mano, come a volerla colpire, ma si fermò a mezz'aria: il suo corpo non gli rispondeva più. Era infatti vietato a un Diavolo far del male in prima persona agli esseri umani, fosse stato anche solo per un misero ceffone. Era una legge scritta nelle Trame stesse dell'Universo, a cui non poteva sottrarsi.

«Bah. Che insulsa perdita di tempo» dovette limitarsi a bofonchiare, dandole la schiena e avviandosi verso la porta del proprio appartamento, schiumante di rabbia.

Rita lo fissava senza capire quel suo repentino cambio di atteggiamento: «Ma io... Io la volevo davvero morta! Sono un mostro!»

Stizzito, Korim fece un rapido dietro-front e tornò ad accucciarsi davanti a lei. L'avrebbe volentieri presa per il collo, se solo gli fosse stato possibile, ma dovette accontentarsi di ringhiarle in faccia.

«Sì, sei un mostro, Rita: un mostro di stupidità! Lo vuoi capire che non l'hai ammazzata?! Non ce ne frega un cazzo di quello che avevi in mente, perché alla fin fine conta solo quel che metti in pratica. Sono i gesti che concretizzi che ti qualificano come persona, non i voli pindarici della tua fantasia! Non sei diventata un'assassina, lo vuoi capire?! Non ti sei firmata la condanna agli Inferi! Sei Libera. Libera di vivere, lo capisci?!»

Lei lo guardava, sconvolta e spaventata dalla sua rabbia.

E lui sputò fuori qualcosa che pensava da molto tempo, ma che mai avrebbe pensato di arrivare a gridarle in faccia: «E allora vivi, cazzo! Vivi anche fuori da quella tua dannatissima testa, patetica donnicciola che non sei altro! Finiscila di sognare sui romanzetti rosa e fatti una vita, fatti un lavoro, fatti un uomo! Metti in pratica qualche cazzo di cosa, in questo Tempo Mortale che ti è dato. Vedi di farlo alla svelta e , soprattutto, senza rompere più le palle al sottoscritto. Chiaro?!»

Nel dire così, mentre sbraitava come un ossesso, Korim riuscì non si sa come a darle uno spintone con la mano destra e a farla ruzzolare giù per le scale.

Fu una cosa imprevista anche per lui.

Non era mai successo che arrivasse a colpire qualcuno.

La vide rotolare per quattro o cinque gradini, prima che si fermasse e si risollevasse abbastanza per tornare a guardarlo in faccia, massaggiandosi un braccio indolenzito.

Il palmo della mano di Korim scottava in modo innaturale, proprio lì, dove era venuto in contatto con il corpo di lei. Ma c'era una cosa che bruciava ancora di più, ed erano gli occhi di Rita puntati su di lui.

Perché non lo stavano guardando con odio, erano solo disperati e sconvolti.

Quella femmina aveva cercato qualcosa da lui e lui gliel'aveva negato. Ecco, erano occhi che lo stavano guardando così: occhi che hai deluso e tradito, ma che ancora sembrano ostinarsi a mendicare qualcosa da te.

Lo turbarono nel profondo, incutendogli un disagio nuovo, più subdolo di ogni altro disagio da lui percepito fino a quel momento.

Incapace di reggerli ancora, si voltò di scatto e si barricò nel proprio appartamento, sbattendo la porta.

Ma la sentiva piangere anche da lì.

Rita, al piano di sotto, non la smetteva di singhiozzare, con gli occhi e con l'anima.

Era assordante, tanto da impedirgli di dormire.

Ma lui aveva bisogno di dormire: stava troppo male, nel corpo e nell'anima (sempre che uno come lui ce l'avesse davvero, un'anima).

Era rimasto a friggere sulla branda per una mezz'ora, con il corpo incapace di muoversi e i pensieri che gorgogliavano come se dovessero eruttare, poi non aveva più retto e se n'era tornato a vagare per le strade, a casaccio, Schermato alla bell'e meglio.

Non vedeva bene. Tutto era liquido e stemperato in una patina grigiastra che mortificava i colori.

I suoni, in compenso, erano più acuti e striduli che mai, tanto da trapanargli il cervello.

Poco distante dalla stazione si ritrovò a vomitare in un angolo, poi gli sembrò di respirare un po' meglio.

Il resto no, andava sempre peggio: gli doleva ogni giuntura.

La sua sopportazione era giunta al limite.

Si addentrò nella stazione, percorse la banchina dell'ultimo binario e proseguì oltre ancora per un breve tratto.

Poi arrivò da loro.

Li conosceva bene: erano i Protetti dei suoi diretti superiori e stavano lì in pianta stabile; erano gli acquirenti ad andare da loro, in una sorta di macabro pellegrinaggio. Senza dire una parola, allungò al più smilzo tutte le banconote che aveva in tasca e ne ricevette in cambio un piccolo involto.

Se lo infilò in tasca e tornò a peregrinare per le strade, fin quando non si ritrovò sul Corso.

Indi sul ponte in pietra.

E infine giù, sulle sponde dell'Acheronte, alla confortevole penombra dei piloni.

Si accucciò e aprì il pacchettino.

Non aveva l'occorrente per iniettarsela, ma poteva sempre fumarla.

L'eroina non avrebbe messo a tacere i suoi pensieri, come riusciva a fare con gli esseri umani, ma per qualche minuto forse sarebbe stata un buon anestetico per il suo corpo straziato.

Poi sarebbe stato peggio, ma in quel momento non gli importava: poteva sempre comprarsene dell'altra.

Cinque minuti dopo il suo corpo aveva smesso di gridare.

Ma anche la sua mente sembrava stanca di farlo.

Se ne stava lì, rannicchiato, a fissare i possenti flutti del fiume infernale, e si sentiva fuori luogo.

Fuori posto.

Fuori dai Mondi.

E pensare che gli sarebbe bastato saltare nella corrente e cavalcarne le onde per ritrovarsi a casa.

Peccato che non avesse più una casa nel Mondo a cui l'Acheronte conduceva.

Era stato relegato sulla Terra per l'Eternità, eppure non vi apparteneva. Non apparteneva al Mondo Terreno e non poteva più appartenere agli Inferi: era come confinato in un Limbo, condannato a mescolarsi agli uomini senza essere uno di loro, e condannato a restare sempre in contatto con il suo Mondo, senza poterne fare parte appieno.

Perché quel suo dannato Mondo era ovunque.

Era lì, in ognuno dei posti che frequentava, eppure non lo era.

Era sovrapposto alla Terra dei Mortali, eppure non la incrociava mai.

Due Mondi presenti nello stesso luogo, ma su due piani diversi.

Due Mondi che si sfioravano senza toccarsi mai...

Oh, beh. Come funzionasse la cosa in dettaglio non era chiaro neppure a lui.

«Comprenderete tutto a tempo debito» era la frase che aveva sempre ottenuto in risposta dai Diavoli Istruttori quando, da giovane Addestrando, poneva interrogativi sulla struttura dei Mondi.

'Fanculo.

Visto che si era fottuto la Carriera, di risposte non ne avrebbe mai avute.

Tutto quello che capiva era che non esisteva luogo dove potesse nascondersi, perché non c'era luogo dove i suoi Gerarchi non avrebbero potuto tenerlo d'occhio, non c'era angolo dove sarebbe potuto sfuggire al loro Giudizio. E loro amavano tenerlo sotto controllo, era uno dei loro giochi preferiti.

L'unico punto dove non potevano giungere era dentro di lui: non potevano leggere i suoi pensieri. Angeli e Diavoli, di qualsiasi rango fossero, potevano leggere apertamente i pensieri degli esseri umani, ma non quelli dei propri simili.

«È del tuo cuore che devi fare un baluardo, se vuoi un barlume di Libertà. Trovare una stanza dove barricarti non ti servirà a niente, perché sarai sempre sotto i loro occhi, per quanto cemento tu abbia attorno. Ma dentro di te nessun Gerarca metterà mai il becco, sempre che tu sia abbastanza scaltro da non far trasparire i tuoi pensieri attraverso i tuoi modi di fare».

Gliel'aveva insegnato Valeel, la vecchia Esploratrice che era stata sua Compagna di Lavoro tempo addietro: glielo aveva ripetuto spessissimo, durante le innumerevoli nottate che avevano passato insieme a guardare la luna passeggiare nel cielo di un'altra città, seduti sui cumuli di carcasse di auto.

Gli mancava, Valeel. Ma aveva imparato a fare senza.

E comunque, forse era meglio che quella femmina ormai non fosse che un ricordo: se fosse stata ancora al suo fianco, probabilmente si sarebbe messa a ridere di lui.

A crepapelle.

Doveva ingoiare. Ingoiare il suo stato e il suo ruolo.

Questa era la chiave.

Questo aveva fatto anche Valeel, la Pluricondannata: aveva ingoiato e masticato tanto bene la sua condizione, da arrivare a farne un trampolino di lancio verso la Libertà.

Perché, nella condizione di Schiava per eccellenza, Valeel era sempre stata Libera come lui non era mai stato. In barba a tutto e tutti, aveva sempre assecondato la propria fame di conoscenza senza fermarsi davanti a nessun divieto, nessuna imposizione. Nessuna Condanna. E Korim non sapeva ancora dire se, averla conosciuta, per lui fosse stato un bene o solo l'ennesimo disastro.

In quel periodo, subito dopo la Condanna, a Korim era stato assegnato un piccolo manipolo di Tentatori da guidare.

«Non sei uno sprovveduto: ci attendiamo molto da te. Tu pensa a non deluderci e magari chissà, un giorno potremmo anche riconsiderare la tua posizione».

Con queste parole era stato messo al Lavoro. E di elogi sul proprio operato ne aveva anche ricevuti parecchi, all'inizio. E a lui piaceva moltissimo sentirsi dire quanto fosse carismatico e in gamba a trascinare i compagni.

Tutto sommato quello era stato un periodo abbastanza roseo, per lui.

Era soverchiato dalla vergogna per il proprio stato, certo, ma in barba all'umiliazione subita (o forse spronato da essa), aveva incanalato tutte le energie nel Lavoro, con risultati eccellenti. E all'inizio ne aveva anche tratto una certa soddisfazione: spingere gli esseri umani verso la decadenza non era esaltante come guidarli nei più oscuri meandri della cattiveria, ma la decadenza ha il suo perverso fascino e per qualche tempo Korim ne era comunque stato appagato.

Poi arrivò Valeel.

Lui e il suo gruppo se la trovarono lì un martedì mattina e rimasero inebetiti di fronte alla sua figuretta. Nessuno di loro aveva mai visto un Esploratore, se non nelle immagini del sussidiario utilizzato durante l'Addestramento, e anche se erano stati avvisati del suo trasferimento nelle loro file, non avevano potuto fare a meno di restare a fissarla basiti.

Valeel non somigliava a nessuna creatura che avessero mai visto.

Era piccola e raggrinzita, come una bambina rinchiusa nella pelle di una vecchia di cent'anni.

Aveva una forma vagamente umanoide, con una testa e quattro arti, ma la testa era troppo grossa per quel corpicino sottile e gli arti rinsecchiti e fragili sembravano vittime di secoli d'atrofia.

Camminava, se lo voleva. Almeno per rari tratti ci riusciva. Ma preferiva strisciare sul ventre, Valeel La Serpe.

Si snodava al suolo, si inerpicava fra gli oggetti infilandosi in ogni anfratto come un tralcio d'edera semovente. Poteva appiattirsi come un'ombra e filtrare ovunque, come la luce che si insinua in ogni più piccola fenditura.

Peccato che in lei non ci fosse nulla di luminoso.

Nemmeno gli occhi.

Aveva due occhi inquietanti, Valeel, azzurri come il ghiaccio più antico. Perfidi come l'amore e furbi come la morte.

Non erano occhi da Diavolo, no.

Ma nemmeno il resto del suo aspetto era diabolico, visto che non aveva né corna né ali.

Korim si era domandato spesso come fosse stata in origine e se si fosse ridotta così per la vecchiaia, o per devozione al Lavoro, o solo perché le ripetute Condanne e Torture a cui era stata sottoposta l'avessero sfigurata.

Perché era vecchia, Valeel. Doveva essere al mondo da almeno sette secoli. Sette secoli in cui aveva collezionato una Condanna dopo l'altra. D'altronde gli Esploratori erano tutti Pluricondannati, questo era risaputo anche ai pivelli come lui.

Aveva visto di tutto e si intendeva di tutto, Valeel La Vecchia. E ti guardava con quel viso rugoso da tartaruga, ti bersagliava di domande sul senso delle cose e rideva di te e della tua ignoranza con quella bocca sdentata, emettendo un suono cristallino che sembrava il canto di una pupattola allegra. E poi strisciava e si annodava su se stessa compiaciuta, Valeel La Bambina, gingillandosi con quel suo corpicino prepubere come avrebbe fatto un bebè di pochi mesi. Dopodiché tornava a fissarti coi suoi occhi indagatori e furbi, si avvolgeva intorno a te sinuosa e ti bersagliava di altre domande, tanto per metterti meglio in crisi. Suadente come poche donne fatte sanno essere, Valeel La Gatta.

Korim era rimasto a dir poco stregato da lei.

Non all'inizio, beninteso: di primo acchito quell'essere bizzarro poteva solo suscitare ribrezzo.

Ciononostante svolgeva il suo Lavoro alla perfezione, ordiva Tresche magistrali e scovava ambiti di intervento che nemmeno a un Tentatore arguto come lui sarebbero mai venuti in mente.

D'altronde, cos'erano i pochi anni di permanenza nel Piano Terreno di lui in confronto ai sette secoli di lei?

Lui, confinato fra i vicoli delle periferie di opulente città occidentali, aveva visto giusto la cocaina soppiantare l'eroina e poi quest'ultima tornare in auge, mentre lei aveva girato il mondo e annusato da vicino ogni rivoluzione epocale della storia moderna.

Era davvero difficile non arrivare rapidamente a stimarla e così aveva fatto lui, seguito a ruota da tutti i suoi Compari.

Poi era subentrato qualcos'altro: c'era un che di indomito in lei e non era facile ignorare la cosa, una volta che si era preso il vizio di attardarsi a chiacchierare in sua compagnia.

Quante notti passate a Lavorare gomito a gomito, e quante giornate, poi, trascorse giù allo sfasciacarrozze dove lei abitava, a guardare il cielo camminare sulla testa del mondo e a porsi domande sull'Universo, il Tempo e l'Eternità. E ad ascoltare le risposte che lei si era coniata in secoli di studi.

Perché aveva studiato di tutto, Valeel La Saggia. La sua tana scavata fra le carcasse di auto era stracolma di libri umani e libri Eterni su ogni argomento immaginabile, dall'ingegneria all'esoterismo, che lei leggeva e rileggeva per scoprire quel fine ordito dei Mondi che la Gerarchia non aveva mai voluto rivelarle. Si dilettava di chimica e alchimia, coniugando esperimenti scientifici a cabale eteree. E poi aveva il coraggio di viaggiare nel Tempo e nello Spazio, con ogni Incantesimo lecito e illecito, tutto al fine di verificare le proprie ipotesi.

Era un gigante di conoscenza in un corpicino da folletto tisico.

Korim ne era stato violentemente catturato e in capo a pochi mesi era passato dal più sacrale disprezzo a diventarne l'amante.

E non riusciva neppure a ricordare come fosse successo.

Ai Condannati erano proibiti i rapporti sessuali, dato che non potevano averne con le donne umane e che era fatto veto a quelli della sua Razza di andare con loro. E i Veti in questo caso significavano che, anche se lo avessero voluto, i loro corpi non avrebbero collaborato affatto all'atto.

Korim aveva voglia da una vita, all'epoca, ma mai gli era saltato in testa che avrebbe potuto fare all'amore con Valeel, finché non si era ritrovato ad ansimare dentro di lei.

Era una bimba orrenda. Brutta, vecchia, secca. Senza seni e con la pelle cascante.

Eppure era sensuale come non mai e lui la desiderava e godeva di lei e si vergognava da morire di essere caduto tanto in basso; ma più si vergognava, più ricascava nella cosa e tornava a cercarla come un ossesso.

Era una specie di droga: più si metteva in testa di farla finita con quella relazione oscena, più finiva per prenderci gusto una volta al dunque.

Perché con lei l'Incantesimo che lo obbligava alla castità non funzionava.

O meglio funzionava solo su di lui, che si bloccava, rigido e immobile. Ma lei era libera e sciolta, e si prendeva la sua voglia in quella bocca sdentata e rideva nel farlo affogare di piacere prima di prenderlo dentro di sé e fare altrettanto.

E lui credeva di impazzire.

Perché di sicuro i Gerarchi Vedevano. E ridevano. E glielo lasciavano fare solo perché si pascevano nel guardare il loro Condannato umiliarsi a tal punto pur di appagare il proprio bisogno.

A Valeel non importava un fico secco né delle paranoie di Korim né di quel che passava perla testa dei Gerarchi: se aveva voglia di spassarsela con lui, lo faceva e basta.

Faceva quel che le girava, senza curarsi di nessuno. Scopava e godeva a suo piacimento con chi le andava, Umani o Diavoli che fossero, e Korim scommetteva che avesse annoverato anche degli Angeli, fra i suoi molti amanti.

Nessuno dei quali, comunque, era stato davvero amato, lui compreso.

Sapeva far cadere chiunque ai suoi piedi, Valeel La Lussuriosa, e in questo non era da meno di qualsiasi donna-Diavolo adulta. Ma i maschi che aveva collezionato non erano stati altro, per lei, che gingilli per i suoi trastulli infantili.

Per lui invece era diverso: lui non avrebbe mai voluto offrire alla Gerarchia un simile spettacolo, ma non riusciva a farne a meno.

E sapeva che prima o poi avrebbe dovuto renderne conto.

Infatti, così fu.

Stava godendo in modo speciale, quella volta.

Anzi, era così perso da essere quasi in grado di muoversi, lo ricordava bene. Soprattutto la mano destra: a fatica, tremando, si muoveva su e giù lungo la spina dorsale di Valeel. E scottava in modo innaturale.

Ancora pochi istanti, forse, e anche lui avrebbe imparato a forzare l'Incantesimo della castità, come Valeel.

Ma non ne ebbe né il tempo né il modo: senza alcun preavviso due Guardie Diaboliche si erano materializzate alle loro spalle e li avevano trascinati al Giudizio in direttissima.

Il secondo, per lui. L'ennesimo per l'Esploratrice.

Korim non aveva più visto Valeel da allora.

Era stato assegnato a una nuova città: ad eccezione di Bizarq, aveva perduto ogni sottoposto e quindi ogni posizione privilegiata che potesse vantare fra i Tentatori.

Di Valeel non aveva mai più avuto notizia.

Chissà a quale squadrone era stata assegnata, in quale angolo sperduto di mondo. Perché di sicuro era viva, essendo un'immortale. E non si sarebbe mai arresa. Era una che non imparava mai dai propri errori, non a suon di punizioni, quantomeno: probabilmente proprio in quel momento stava seducendo qualche altro sprovveduto.

Lui invece, che non aveva la metà della sua forza di spirito, continuava miseramente ad annegare nella propria merda di vita.

Già: chissà quanto avrebbe riso di lui, quella Gatta indomita, se fosse stata lì.

Il Tentatore appoggiò la testa contro il pilastro e rilassò un poco le membra, sospirando.

Ormai non riusciva più a tenere gli occhi aperti.

Ma era quello che voleva, no?

Dormire.

Dormire ed essere lasciato in pace.

Da tutti: Gerarchi e Compari, vittime e aguzzini, zingare e Streghe.

Chiuse infine gli occhi e tutto sparì.

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Capitolo 7
*** Limbo, Girone VI ***


Limbo, GironeVI

Quando Korim riaprì gli occhi, c'era qualcosa che non quadrava.

Il sole stava calando, il che significava che aveva dormito per più di mezza giornata.

E già questo era strano: una dose del genere avrebbe dovuto dargli tregua per non più di un paio d'ore.

Ma la cosa più assurda era che stava benissimo. Parola sua, era fresco come una rosa e non gli capitava da mesi!

Si alzò e si guardò attorno stupefatto, ma nel fluire lento del canale non notò nulla di diverso dal solito. Niente che potesse spiegare quel miracolo, quantomeno.

Almeno ad una prima occhiata.

Poi, con stupore, si rese conto del silenzio: anche se si concentrava, il rumore dell'Acheronte non giungeva alle sue orecchie.

Solo allora si accorse dell'ombra proiettata dal ponte e il sangue iniziò a galoppargli imbizzarrito nelle vene.

C'era quella bambina.

Lassù, seduta sulla balaustra: la sua aura era inconfondibile.

E lui avrebbe dovuto esserne terrorizzato, invece, come un cretino, si scoprì a cercare la sagoma della sorella più grande senza nemmeno ricordarsi di respirare nel frattempo.

Ma l'ombra della ragazza non c'era.

E no, non ne era né lieto né sollevato.

Dannazione.

La bimba gli dava le spalle e tendeva la mano ai passanti lassù, apparentemente ignara, eppure Korim era sicuro che fosse più che consapevole della sua presenza lì sotto. Anzi, era quasi certo che quel suo inaspettato benessere fosse proprio dovuto a lei.

Si schermò dietro l'aspetto del biondino di vent'anni, affondò le mani nelle tasche del giaccone e si avviò verso la bimba, risalendo pigramente la scaletta in pietra che conduceva sopra al ponte.

Lei fece finta di nulla fino a quando il Diavolo non le fu seduto accanto.

«Cosa vuoi?» gli chiese poi, senza guardarlo.

«Non si usa più salutare, scarafaggio?»

«Ciao. Cosa vuoi?» ripeté lei, come un automa.

Lui fece spallucce: «Sei stata tu, vero? Come hai fatto a curarmi?»

Nessuna risposta.

La zingarella continuava a tendere la mano ai passanti, cantilenando una panzana melodrammatica sulla povertà sua e dei suoi sette fratelli, e non lo degnava di uno sguardo.

Korim la prese per una spalla e la costrinse a voltarsi verso di lui: «Insomma, cosa mi hai fatto, piccola Strega?»

La bambina si ritrovò d'un tratto sull'orlo del pianto. Scrollò via la sua mano artigliata e lo fissò dritto in faccia: «Non lo so» biascicò fra le lacrime.

Il Tentatore ne fu sorpreso: «Non lo sai?!».

«Non lo so, va bene? Eri lì tutto in un mucchio, sembravi un rottame. Ho visto roba in discarica che stava messa meglio, giuro. Ti ho trovato perché sentivo il tuo odore così forte... quell'odore di zolfo così triste e soffocante e soffocato... Facevi impressione, eri tutto livido. E dall'Acheronte qualcuno rideva. L'ho sentito: ti guardavano e ridevano. Allora li ho tagliati fuori. Poi mi sono avvicinata e ti ho sfiorato un fianco. Non so perché, mi è venuto così. Ed è stato bruttissimo: c'è stata una frustata di calore che è entrato dalla mia mano e mi faceva male, un male boia, ma non riuscivo a staccarla da te. E mentre io stavo sempre peggio, il tuo respiro si calmava e il tuo colore tornava piano piano quello di sempre. Solo quando la tua faccia si è rilassata la mia mano si è staccata dal tuo fianco. Ma adesso mi sento male per colpa tua! Non mi devi venire vicino!» gli gridò in faccia la bimba, sconvolta.

«Ehi, scarafaggio, se non volevi che ti venissi vicino, avresti dovuto startene lontano da me.»

«No: dormivi. Quelli potevano farti qualsiasi cosa, non ti potevo lasciare lì. Ho continuato a tagliarli fuori, ma adesso che stai in piedi voglio che vai via!»

«Quelli chi?»

«Quelli che ridevano, là, dentro il vortice del fiume.»

«Vuoi dire i miei Gerarchi giù all'Inferno?! Di' un po', li stai tagliando fuori anche ora?»

Lai tirò su col naso: «Sì».

«Scusa, ma cosa significa di preciso?»

«Che non ci vedono e non ci sentono.»

«Davvero?!»

Per provare le parole della bimba, Korim assottigliò gli occhi e cercò di guardare Oltre, nel tentativo di scorgere i flutti possenti dell'Acheronte, ma non ne fu in grado. Non poteva percepire il proprio Mondo.

Fissò la bimba con grande stima e si abbandonò a un fischio soddisfatto: «UAO! Ma come lo fai?»

Lei abbassò il capo, triste: «Non lo so. Lo faccio e basta.»

«Ci sono un sacco di cose che fai senza sapere come, a quanto pare. E l'ultima deve averti spaventato a morte.»

La bimbetta annuì.

Lui socchiuse gli occhi e provò a studiarne l'aura. Era molto ridotta, quasi accartocciata. E parecchio ingrigita. Non sembrava però una slavatura dovuta all'umore della piccola, quanto piuttosto un inquinamento che proveniva dall'esterno: evidentemente, per risanarlo, aveva assorbito da lui molta negatività. Dato che teneva l'aura così ripiegata su se stessa non riusciva a smaltirla e ne veniva avvelenata nell'anima e nel corpo.

Ma non era nulla di grave.

«Anch'io posso curare, sai?» le disse con finta allegria: «Al momento fa stare un po' male, ma se ti abitui passa subito. Visto che ti sei presa cura di me, io farò lo stesso con te.»

E così dicendo le mise una mano davanti al viso e lasciò che si sprigionasse la consueta aura verdognola. Che nessuno a parte la bimba avrebbe visto. E che non poteva granché contro quella corruzione che lui stesso aveva in corpo fino a poche ora prima e della quale non era riuscito a liberarsi, ma il suo piano prevedeva ben altra medicina.

Amina infatti iniziò a ridacchiare: «Ehi, mi fai il solletico!»

Lui ricambiò la risata e l'aura della piccola tornò lentamente a dischiudersi.

E dischiudendosi lasciava evaporare spontaneamente i miasmi che la inquinavano.

Cinque minuti dopo la zingarella sembrava tornata il peperino impertinente di sempre. Sembrava felice che qualcuno stesse occupandosi di lei e la cosa la riempiva di aspettative. Korim non poteva leggerglielo nel cuore, ma glielo vedeva chiaramente dipinto in faccia.

«Senti, ma siamo diventati amici?» gli chiese infatti, non appena lui ritrasse definitivamente la mano.

«Non farti strane idee: un Diavolo del mio calibro non può certo diventare amico di una palla di stracci come te!»

«Cattivo! Ma io ti ho aiutato!»

«Nessuno te l'ha chiesto.»

«Sì, ma potevi crepare, se non c'ero io!»

«Per la cronaca, sappi che io non posso crepare.»

«Però...»

«Ehi, ehi, ehi» la interruppe lui, di colpo più serio: «Lo so. Hai fatto tanto. Non sono uno scemo, lo capisco. E ti sono anche grato, se è questo che vuoi sentirti dire. Ma non sono da considerare un amico».

«Perché hai le corna?»

«Perché sono quello che sono. Non è solo questione di corna: girami al largo e camperai cent'anni, pulce.»

«E tu, quanto camperai?»

«In Eterno. E non è divertente.»

«Se diventiamo amici sarà divertente!»

Lui sospirò: «Non sarà divertente: io non potrò mai fare niente di buono per te. Sto dicendo che non potrò, mi capisci? Non è che non voglia... quello che io faccio non è quasi mai una mia scelta. Le leggi dei Mondi... sono loro a comandarmi. E io posso solo seguirle.»

Lei si fece seria: «Dici? Beh, non mi sembri il tipo che sta alle regole.»

«Non badare a ciò che sembro. Sembro tante di quelle cose... ma in fondo non so nemmeno io chi o che cosa sono.»

«Sembra grave» sentenziò la bimba soppesandolo con aria seria.

«Lo è» assentì lui. E si sentì d'un tratto nuovamente stanco fino al midollo.

«Oh, beh. Abbiamo tutti le nostre grane. Non credere che le tue siano tanto speciali» ribatté la bimba.

E lo guardò.

E gli sorrise.

A Korim fece un effetto stranissimo, quel sorriso. Perché era il primo ad essere davvero rivolto a lui, da quando aveva abbandonato il suo Angelo bruno tanto tempo prima. Tutti quelli che gli erano stati rivolti in quegli anni erano per il biondino di vent'anni, o per il trentenne dalla barba sfatta, o per qualche altro adulto border-line che recitava saltuariamente per Lavoro. Mai per il Diavolo Incompleto che lui era e che, a guardarlo bene in faccia, poteva dimostrare sì e no una quindicina d'anni.

Già. Era da quindici anni che dimostrava quindici anni.

Il suo reale aspetto era quello di un adolescente imberbe (con aggiunta di dettagli come corna ed ali, ma vabbè). Perché quello era, in fondo: una creatura mai diventata adulta, una specie di grottesco Peter Pan.

Sospirò.

La strana coppia formata dalla zingarella e dal ragazzino-Diavolo stette in silenzio sul parapetto del ponte per un bel po'. Un silenzio complice, senza imbarazzi. E senza il sottofondo dell'Acheronte ruggente.

A quell'ora la luce era ancora troppo forte e Korim chiuse gli occhi. Con le braccia incrociate sul petto, sembrava quasi dormisse, cullato dal ritornello melodrammatico che la bambina sciorinava ai passanti per farsi elemosinare qualche spicciolo.

In realtà vegliava come non mai.

Anzi, gli sembrava di essersi svegliato solo in quel momento, come se per tutti quegli anni avesse sempre dormito.

Non poteva essere amico della bambina, questo era certo. Perché i Diavoli non sanno cosa sia l'amicizia.

Ma poteva stringere con lei una sorta di alleanza. Anzi, doveva: Amina aveva doti che potevano tornargli largamente utili. Ed era sorprendentemente ben disposta verso di lui.

Aveva bisogno di quella bambina per sganciarsi dalla sua Gerarchia. E aveva morbosamente bisogno di sua sorella.

Un terrificante, devastante bisogno.

La piccola da sola non l'avrebbe mai cavato dai guai, non era una Strega abbastanza potente. Serviva l'immenso potenziale di quella Drande.

Ma cosa avrebbe dovuto chiedere un misero Tentatore anche alla più potente delle Streghe, per avere salva la vita? O, almeno, per averne una?

Non ne aveva idea.

Non ne aveva davvero la più pallida idea.

Ma era un problema che si sarebbe posto in seguito.

Ora, il primo passo era ingraziarsi la ragazza.

Poi avrebbe dovuto risvegliarne il potere. E il solo pensiero lo riempiva di ansia.

Ma una Strega con i poteri sigillati non gli sarebbe stata di utilità alcuna.

«Arriva» annunciò a un tratto, levando il capo di colpo.

«Chi?» si stupì la bambina, che lo credeva davvero addormentato.

«Tua sorella. È a circa mezzo chilometro di distanza e punta dritta da questa parte».

«Come fai a saperlo?»

«Ne sento l'odore».

«Ammazza, che naso fino che hai!» esclamò lei entusiasta.

«Senti chi parla» la canzonò Korim.

Pochi minuti dopo, la figuretta esile di Drande fece la sua comparsa sul Corso.

Korim sudava freddo.

Certo, a prima vista sembrava essere tornato a pisolare placido, ma in realtà era terrorizzato, tanto che le sue mani tremavano impercettibilmente.

Ok, delle tante cazzate che aveva fatto nella sua breve vita, questa davvero prometteva di svettare nella top-ten. E, per la prima volta, era perfettamente conscio della gravità dalla cosa. Ma, se voleva sfruttare quelle Streghe a proprio vantaggio, era importante che stessero dalla sua parte. E che Streghe fossero, a tuttotondo e coscienti di se stesse.

Quindi aveva deciso: avrebbe fatto aprire gli occhi a Drande.

Doveva farlo.

Era lanciato.

Questo però non impedì a un'ondata di panico di avvinghiargli gli intestini, quando la ragazza giunse vicino a loro.

Ne sentì l'odore trafelato.

Ne avvertì il profumo di donna.

Venne investito dalle onde della sua aura come da violente frustate, tanto da doversi riparare il viso coi gomiti. E fu cullato dal suono della sua voce come mai avrebbe creduto. Anche se quella voce non era per lui, si stava limitando a sgridare Amina.

Aprì un occhio e la sbirciò di sottecchi: era bellissima.

Tanto da far male.

Si costrinse ad abbassare le braccia, per guardarla apertamente. Ormai poteva reggere la pressione della sua aura, dato che era solo nel momento in cui ne veniva improvvisamente investito che avvertiva un picco di dolore. La ragazza era più stanca e sporca della volta precedente: aveva i capelli arruffati e profonde occhiaie ne segnavano il viso. Sembrava un fagotto sgraziato. Un fagotto di fulgida bellezza.

L'assurdità di tutto ciò lo fece sghignazzare.

All'udirlo, Drande levò il capo, come se si fosse accorta solo in quell'istante della sua presenza.

«Oh. Tu sei il ragazzo della volta scorsa...»

«Esatto» rispose Korim, sfoderando il suo miglior sorriso per mascherare la strizza che aveva in quel momento all'idea di discorrere con una creatura tanto potente da solo mezzo metro di distanza.

In ogni caso, Drande non sembrava più a suo agio di lui: aveva abbassato subito lo sguardo, evitando i suoi occhi verdi per scrutare con interesse l'acciottolato del marciapiede.

«Perché continui a seguire mia sorella?» osò domandargli con un filo di voce, in un italiano zoppicante e stentato.

«Ehi dolcezza, chiariamo una cosa: semmai è quella pulce che segue me dappertutto. Anzi, ti sarei grato se riuscissi a tenermela fuori dai piedi» rispose lui esprimendosi scioltamente nel dialetto delle due ragazze.

Drande lo fissò con occhi sgranati: «Tu parli romanì?»

«Io parlo molte lingue» commentò Korim scendendo dalla balaustra e avvicinandosi lentamente a lei. «O forse non ne parlo nessuna...» concluse enigmatico.

«È la prima volta che incontro qualcuno che parla la nostra lingua, pur non essendo uno del nostro popolo» continuò meravigliata la ragazza.

«Ma lui non sta parlando il nostro dialetto» si intromise Amina.

Drande posò gli occhi su di lei, crucciata: «Amina, ti prego, non ricominciare con le tue stramberie».

«No! Ascoltalo Drande. Perché non lo vuoi ascoltare? Sei testona!»

Già. Perché Drande non lo ascoltava?

O meglio, perché non lo Sentiva?

E perché, pur avendo un'energia spirituale così traboccante, non lo Vedeva?

Perché lo stava guardando e non vedeva altro che il biondino di vent'anni, quando invece la sorellina by-passava il suo Schermo con una naturalezza spaventosa?

Per svegliare la ragazza, era fondamentale scoprire la causa del suo blocco. E, per farlo, il Diavolo avrebbe dovuto spingere quel gioco all'estremo.

«Non ha peli sulla lingua la piccola, eh?» commentò.

«Perdonala, è ancora una bambina e a volte non distingue la realtà dalla fantasia».

«Oh. E tu invece ci riesci, zingara?»

Il viso della giovane donna si indurì di colpo, ma Korim proseguì bellamente: «Come la metteresti se ti confermassi che la pulce ci sente benissimo? Che quello che dice è vero?»

La ragazza guardò prima la sorellina, poi il giovane con l'aria di una maestrina adirata.

«Ehi voi due, vi siete messi d'accordo per prendermi in giro?! Amina, te ne do tante che non te le scordi più!»

«E dopo aver picchiato lei che farai, zingara? Picchierai anche me?»

Drande fissò su di lui uno sguardo severo e profondo: «Tu sei grande abbastanza per comprendere da solo i tuoi errori, senza che nessuno ti prenda a sberle. Però...» aggiunse infine, in un soffio: «non chiamarmi più zingara, ti prego».

A Korim saltarono i nervi.

Non sapeva bene perché, ma l'atteggiamento dimesso della donna lo mandò in bestia. Forse fu la tensione del momento, unita alla consapevolezza del danno che stava combinando. O forse il fatto che gli era sembrata di nuovo immensamente bella, un secondo prima, quando la rabbia le aveva acceso il viso, mentre ora era tornata una figuretta senza arte né parte, con il muso imbronciato e il capo chino.

«E perché non dovrei? Sei una zingara, no?» la aggredì.

«Sono una donna rom» lo corresse lei, senza levare lo sguardo.

Di nuovo il Diavolo sentì l'irritazione invaderlo: «"Sono una persona: trattami da essere umano" Mi stai dicendo questo?!» chiese iroso.

Drande alzò gli occhi e lo fissò interdetta, senza replicare.

«Allora?» incalzò lui facendosi sempre più vicino, «È questo che volevi dire o no, "donna rom"?»

Drande restava in silenzio, sostenendo il suo sguardo. Amina invece, per la prima volta, era spaventata: vide la rabbia farsi incandescente nel nodo del Diavolo e vide un grande smarrimento negli occhi della sorella.

«Drande» la richiamò, «stai attenta, lui è...»

«TACI, PULCE!» la interruppe Korim. «Non ha importanza cosa sono, voglio solo una risposta» ringhiò indurendo ancora di più lo sguardo, perché alla giovane donna fosse chiaro che non le avrebbe concesso sconti.

Drande sospirò: «Sì, è quello che volevo dire» ammise continuando a fissarlo negli occhi. «È una cosa tanto ignobile?»

«Sì, detta in quella maniera e da una come te, perde ogni valore».

Gli occhi della donna, prima timidi e dimessi, ora saettavano fiamme.

Korim restò a guardarli, scrutandone le scure profondità, e vi scorse un antico orgoglio mai piegato e una dignità inviolata e inviolabile.

Sì, non si era sbagliato: Drande era bellissima.

Per davvero.

«Quando si viene dalle fogne di periferia il rispetto non lo si trova nell'uovo di Pasqua, vero?» la sfidò.

La ragazza taceva e lo fissava composta. Lui proseguì imperterrito: «Quando nasci fra gli emarginati il rispetto non è automatico, devi conquistartelo. Ma mendicarlo non è certo un modo per ottenerlo! Devi essere tu la prima a trattarti con rispetto. Come puoi chiedere che ti sia dovuto, se tu stessa non te lo concedi?!».

Drande arrossì e chinò il capo, senza osare ribattere.

«No, guardami!» tuonò lui costringendola a levare il viso: «Tu hai la dignità. Ce l'hai scolpita dentro, si vede in fondo ai tuoi occhi. Non sono io a dovertela concedere, lo capisci? Né io, né nessun altro, solo tu stessa».

Il viso della donna si illuminò debolmente: «Ho capito. E ti ringrazio» sorrise timida.

«Ehi, la prossima volta che vuoi dire qualcosa di carino a mia sorella, sfodera un po' di educazione, stupido diavolo!» sbottò Amina arrabbiatissima.

Drande fissò Korim imbarazzata: «Amina, cosa dici? Chiedi scusa!»

«No, perché dico la verità. Guardalo anche tu, Drande, non lo vedi? È un diavolo di quelli coi cornini, come ci raccontava sempre la bisnonna. Perché non lo guardi?»

«Amina, basta! Cerca di ragionare! Per favore...» continuò poi imbarazzatissima, rivolta al giovane gagé: «Non le dia peso».

«Drande» la richiamò lui per tutta risposta: «In che lingua stiamo parlando?»

«Eh?» si stupì lei, senza capire il senso di quel brusco cambiamento nel discorso: «Romanì, ovviamente».

«Io non parlo il tuo dialetto, Drande. Ascoltami bene» replicò lui lentamente.

Troppo lentamente.

La ragazza sgranò gli occhi: il ragazzo muoveva la bocca e quei movimenti sembravano quelli della sua lingua, ma i suoni che ne uscivano... I suoni erano diversi! Erano diversi dal suono di qualsiasi lingua umana.

Erano come il tuono, o come una musica. E le rimbombavano dentro pulsando nel cuore.

Ma la cosa che più la allibì fu il rendersi conto che per tutto il tempo avevano conversato in quel modo e lei era stata in grado di capire e utilizzare quella lingua sconosciuta senza nemmeno accorgersene, credendola la propria.

«Tu... Io...» balbettò: «Che lingua è mai questa?!»

«Quella che parlavano gli uomini prima della Torre di Babele» spiegò Korim senza girarci troppo attorno.

«Cosa?!»

«Non conosci questa Leggenda? Si narra che nei tempi antichi gli uomini parlassero tutti la stessa lingua e appartenessero tutti a un unico popolo. Un giorno si radunarono nella pianura di Sennaar e lì decisero di edificare una torre. Volevano che fosse tanto alta da toccare il Cielo, per simboleggiare tutta la loro potenza. Ma il Cielo si adirò per la loro superbia e confuse le loro lingue, in modo che non si comprendessero più l'un l'altro. Incapaci di comunicare fra loro, abbandonarono il progetto della torre e si dispersero per tutta la Terra, dividendosi in molti popoli ostili l'uno all'altro».

«Uao!» esclamò Amina estasiata. «E la torre c'è ancora?»

«Non credo proprio!» rise Korim. «È passato troppo tempo!»

«Ricordo, è una vecchia storia raccontata nella Bibbia. Ma tu non puoi farmi credere di conoscere quella lingua leggendaria!» replicò Drande.

«Eppure stiamo continuando a parlarla. La senti, vero? Non entra dentro di te dalle orecchie, ma dal cuore. È una Lingua Arcana che tutti gli uomini conoscono, anche se inconsciamente».

«Tutto questo non ha senso!»

«Beh, effettivamente non è per niente razionale. Ma ammetterai che è parecchio comoda: chi parla questa Lingua può conversare con chiunque e arrivare dritto al cuore».

«Ma tu chi sei?» domandò allora la ragazza, sospettosa.

«Se ti confermassi che sono un Diavolo, come dice la piccola, non mi crederesti, vero?»

«No» fu secca la donna.

«Allora ti dirò che sono un bastardo che vive per rovinare la gente e si mantiene suonando il basso a tempo perso. Il che non cambia la sostanza delle cose, ma forse te le farà sembrare più accettabili».

La ragazza lo soppesò a lungo con gli occhi.

«Se tu fossi quel che dici» soggiunse poi, «dovremmo stare alla larga da te».

«Già, sarebbe saggio» confermò lui. «A tua sorella l'ho detto cento volte, ma non ci vuol sentire».

«Eppure la gente non sai solo rovinarla. Poco fa, con me, hai...»

«Non farci caso» la interruppe lui, brusco, «ho i miei buoni motivi. Comunque non credo che la cosa si ripeterà».

«Io invece credo che si ripeterà eccome!» sentenziò la piccola Amina.

Korim la fulminò con lo sguardo: «Quella bimba è terribile!» sbottò rivolto a Drande.

«Già» commentò la ragazza tristemente, mentre un'ombra pesante le velava il viso. «Tu sei il primo che non si spaventa, pur sentendo questi suoi strani discorsi».

«Ti sbagli, è solo che la mia paura è diversa da quella degli altri. Ma ti assicuro che tua sorella turba anche me».

La ragazza sospirò: «Capisco. Quantomeno non ci hai trattato come pazze, o come streghe. È già molto».

Si appoggiò poi alla balaustra del ponte, restando a fissare l'acqua melmosa del canale con la stanchezza dipinta in volto, e proseguì: «Sai, nostra madre era una chiromante. Così come nostra nonna, e sua madre prima di lei. E la madre di sua madre ancora prima. Hanno girato l'Europa intera leggendo nei cuori della gente attraverso le carte. Tutti veneravano e temevano i loro presagi. La bisnonna era come Amina: vedeva angeli e demoni ovunque, parlava con gli spiriti e guardava nel cuore della gente. Mi terrorizzava. Tutto questo mi terrorizzava perché tutti avevano paura di lei. E di noi. Quando si è ammalata, anche se ormai aveva più di cent'anni, o forse più di duecento, l'hanno lasciata crepare da sola. Non voglio che mia sorella faccia la stessa fine, ma non so... come fare... per...»

La voce le si stava spezzando. Korim però aveva capito.

«Pensi che Amina sia pazza?» le chiese avvicinandosi.

«Non lo so. Vorrei che quel che dice fosse vero e allo stesso tempo vorrei che non lo fosse, perché...»

«Non ti ho chiesto ciò che vorresti, ma ciò che pensi che sia. Ciò che conta è come stanno davvero le cose, non come ci piacerebbe che fossero».

Drande lo guardò sperduta: «Io non vedo angeli o demoni, solo tanti uomini marci.»

«Drande» la interruppe lui, facendole cenno di tacere. La ragazza si ritrovò a fissarlo dritto in volto. Erano vicinissimi.

«Drande, tu non Vedi quello che Vede Amina perché hai paura di Guardare, vero?»

«Eh?!»

«È da quando ti ho vista che mi domando perché non Vedi, pur avendo occhi in grado di Guardare. E la risposta è che ti stai imponendo di tenerli chiusi perché hai paura di aprirli, giusto? Ebbene, sai che ti dico?» proseguì, abbandonando d'improvviso il tono accondiscendente di poco prima per farsi provocatorio: «È troppo comodo, bella mia!»

La ragazza restò a fissarlo spaesata.

«Guardami, Drande!» le ordinò afferrandola per un braccio: «Guardami!»

Non aveva abbassato lo Schermo, ma sapeva che la ragazza avrebbe potuto benissimo Vederlo per quel che era, se soltanto avesse voluto.

E infatti lei lo Guardò. Con gli occhi nei suoi occhi, il respiro nel suo respiro, Guardò al di là del suo stesso sguardo.

E per un attimo, un attimo soltanto, le parve che gli occhi che la stavano sovrastando non fossero più verdi, ma infuocati, e che oltre la loro iride non ondeggiasse più una dolce prateria, ma bruciassero le fiamme dell'inferno.

Ebbe paura.

Un terrore atavico, incontrollabile.

Si divincolò e si staccò bruscamente da lui.

Ma il Diavolo se n'era accorto.

«Cos'hai Visto?»

«Niente» mentì lei.

«Non è vero. Devi continuare a Guardare, Drande».

«Non voglio. Il mondo è già abbastanza brutto così».

«Stupida! Tu puoi Guardare! Devi farlo!»

«È il diavolo che me lo comanda?» replicò la ragazza in tono di sfida, sollevando orgogliosa la testa.

Korim restò di sasso.

Era davvero così?

Passò qualche secondo prima che trovasse la lingua per replicare: «No. Sono io, io soltanto».

«E chi sei tu, per chiedermi questo?»

Ancora il ragazzo sembrò perdere la parola per lunghi, interminabili istanti.

Ci stava ricascando?

Stava manipolando quella zingara come aveva manipolato Rita?

E per cosa, poi? Il solito pugno di mosche?

Bah. Forse non era il caso.

«Nessuno» biascicò infine. «Proprio un bel nessuno. Tornatene a casa ora, stupida».

«Non ce l'ho, una casa».

Un dato di fatto: nessun piagnisteo nel tono di voce della ragazza. Era così e basta.

«Ce l'avrai un posto in cui stare no? Tornatene là».

Drande diede la schiena al giovane, prese Amina per mano e fece per avviarsi, ma si fermò dopo pochi passi.

«Qual è il tuo nome, “Signor Nessuno”?» chiese, continuando a dargli le spalle.

«Korim».

«Ebbene, Korim, tu non lo mendichi neppure, il rispetto. Mendicare la propria dignità non sarà onorevole, ma sarebbe comunque un passo in avanti. Prima di occuparti di me, dovresti curarti di te stesso».

Fu lapidaria.

Ma anche dolcissima.

E senza voltarsi nuovamente verso di lui, le due sorelle si avviarono lungo il ponte.

Passarono attimi di un silenzio così denso da sembrare un muro invalicabile, poi Korim le richiamò.

«Aspettate, voi due! Vi offro un caffè».

Entrambe si girarono verso di lui, sorprese.

«È un caffè offerto dal diavolo?» insinuò Amina, maliziosa.

«No» le sorrise lui, avviandosi verso un bar di là dalla strada. «È un caffè offerto da Korim».

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Capitolo 8
*** Limbo, Girone VII ***


Limbo, Girone VII

Il sole si sarebbe insabbiato presto oltre l'orizzonte e il popolo degli happy hour iniziava ad animare le strade di quella sera cittadina. La nebbia andava addensandosi, lasciando però ancora intravvedere a sprazzi un limpido cielo autunnale.

Amina trotterellò lesta accanto a Korim, lasciando indietro la sorella.

«Che vuoi, pulce?» chiese lui.

«Niente» sorrise la piccola, con l'aria di chi la sa troppo lunga.

«Lo sai, palla di stracci? Mi hai stupito: con la lingua sciolta che ti ritrovi, non pensavo te ne saresti stata zitta abbastanza a lungo da permettermi di discutere con tua sorella» la canzonò.

«Cattivo! Guarda che io so vedere quando devo stare zitta».

«Oh-oh! Ma davvero?».

«Sì, davvero!» ripeté la sua interlocutrice, poi gli tirò l'orlo della giacca e soggiunse a bassa voce, come se stesse confidando un segreto: «Sai, è che mi piace quando Drande parla. Lei non lo fa quasi mai, è sempre così silenziosa...»

Il Diavolo non rispose, limitandosi a lanciare un'occhiata alla ragazza che li seguiva.

Nel frattempo erano giunti di fronte a un piccolo bar. "Spider's Nest" recitava un'insegna luminosa i cui neon erano per metà fulminati. Korim spinse la porta ed entrò: il locale aveva una forte connotazione dark, con mobilio in ferro battuto, pesanti tendaggi color vinaccia e pareti affrescate con murales di ogni genere, dal fantasy all'erotico spinto, tinteggiati in tonalità bluastre.

Il Diavolo si mosse nell'aria densa e fumosa con la sicurezza di chi si sente a casa e raggiunse il bancone, buttandoci sopra quattro spiccioli.

«Ehi Grangy!» chiamò.

Un giovane barista in camicia scura fece capolino dalla porta di servizio.

«Toh, il nostro bassista preferito! Che ci fa in giro a quest'ora un animale notturno come te?» rise.

«Mi faccio un aperitivo: dammi dei salatini, un caffè nero e...»

Ma Grangy non lo stava ascoltando. Aveva spostato la sua attenzione sulle ragazze, rimaste in piedi sulla soglia.

«Ehi, voi due, fuori di qui! Non regalo niente, non compro niente e non ci sono avventori a cui chiedere l'elemosina. Pedalate altrove».

Korim gli si portò accanto e gli posò una mano sulla spalla, con la stessa delicatezza con la quale si poserebbe un macigno.

«Queste due sono con me, Grangy. Prepara i salatini che ti ho chiesto, un Crodino e un succo di frutta e servici tutto sui tavolini qui fuori. E non scordarti il caffè nero. Bollente».

Il barista non replicò e tornò servizievole dietro il bancone ad armeggiare fra tazze e cucchiaini. Ammirava e temeva Korim al contempo, e in virtù di questo non si sarebbe mai azzardato a chiedergli spiegazioni sulle sue ospiti.

«Ci sarai stasera, vero?» osò chiedere infine, titubante.

Korim si limitò a un grugnito, che il barista dovette interpretare come un caloroso assenso, visto che proseguì sollevato: «Per fortuna! Senza di te il gruppo non rende allo stesso modo».

«Il basso riempie» tagliò corto il Diavolo. «Noi usciamo, vedi di muoverti con la nostra ordinazione».

«Questo è uno dei posti dove suono con la mia band» si sentì in dovere di spiegare una volta fuori.

«A me sembra un gran postaccio» commentò pacifica Amina.

«Se è per questo ne frequento di peggiori» soggiunse lui, divertito.

«Senti, ma quel grande specchio sul muro nella saletta piccola...» accennò la bambina.

Il Diavolo però la interruppe bruscamente: «Stagli lontano, pidocchio, avresti solo guai».

Drande aggrottò un sopracciglio, ma non chiese nulla.

L'aperitivo trascorse in silenzio. Se fosse un silenzio di imbarazzo o complicità, Korim non avrebbe saputo dirlo; l'unica cosa che gli era chiara era che non sentiva il bisogno di far conversazione per forza.

Quando Amina ebbe finito di spazzar via anche le briciole dei salatini, le due sorelle lo salutarono e si avviarono lungo il Corso.

Mosso qualche passo, però, Drande si arrestò e si voltò indietro, cercando i suoi occhi.

«Grazie di tutto, davvero» sussurrò abbozzando un sorriso. «Grazie, Korim.»

Poi, con le guance imporporate, riprese a camminare silenziosa accanto alla sorellina.

Lui era rimasto lì, interdetto, in piedi accanto al tavolino del bar.

Non era una cosa che si era sentito dire molto spesso, nella vita.

E non se la aspettava neppure in quel momento: in fondo, tutto quello che aveva fatto e detto, l'aveva fatto solo per se stesso.

Chissà perché, dunque, quella Drande si era sentita in dovere di ringraziarlo. Gli esseri umani, a volte, erano davvero strani.

Restò a guardare le due sorelle allontanarsi finché le loro schiene non divennero altro che due macchie di colore indistinto fra la folla del Corso. E quando sparirono del tutto alla sua vista, di nuovo sentì il suo nodo guizzare e contorcersi.

Dannazione, voleva continuare a guardarle.

Ancora.

In fondo, cos'altro aveva da fare?

Si fiondò nel primo vicolo lì dietro, vi si inoltrò per qualche passo e, assicuratosi che nessuno lo stesse guardando, si rese invisibile a occhi Terreni e prese a salire sempre più in alto.

Combinando lunghi balzi e piccoli voli, step dopo step superò i lampioni e le chiome degli alberi, infine si fermò sul terrazzo di un alto palazzo.

La città era un enorme formicaio, vista da lassù e, fra le formichine indaffarate che brulicavano in quel dedalo di strade, poteva scorgere alcuni Eterni come lui.

Gli Angeli si stavano radunando soprattutto attorno alle chiese: era l'ora della funzione vespertina. Ce n'erano poi alcuni nel cortile della mensa per i poveri e un paio fra i volontari che prestavano assistenza ai senzatetto della stazione centrale. Oh, uno anche accanto all'autista di quell'ambulanza.

Korim li soppesò tutti con la coda dell'occhio, cercando di mimare disprezzo.

Li studiava sempre, tutti.

Ma lei non c'era mai.

Probabilmente era stata destinata a un'altra città, forse addirittura a un altro continente.

E in fondo era meglio così.

Rivederla... Una parte di lui lo desiderava, ma un'altra sapeva che avrebbe solo riaperto vecchie ferite.

Se le era curate da solo, le ferite che gli erano rimaste nel cuore, e sapeva di non aver fatto un buon lavoro: probabilmente invece di cicatrizzarsi si erano infettate. Se si fossero riaperte ne sarebbe uscito piegato.

Meglio evitare.

Tornò quindi a osservare la gente, questa volta alla ricerca di due formichine colorate. Non gli fu difficile scovarle, perché gli abiti variopinti di Drande stonavano così tanto col nero, il grigio e il jeans dei vestiti alla moda delle altre donne da farsi notare fin da lassù.

Era bella anche da quella distanza.

Forse ancora di più, perché non si poteva cogliere lo sfinimento che le sfigurava il viso.

Eppure sentiva il bisogno di guardarla più da vicino.

Scese un po' di quota, deciso ad avvicinarsi abbastanza per osservarla senza farsi beccare da Amina; non era facile, ma tutti gli Eterni che c'erano in giro avrebbero dovuto confondere a sufficienza la sua aura, almeno finché restava mescolato alla folla.

Le seguì per un po', fino a quando non imboccarono il viale che conduceva alla cattedrale.

Korim odiava avvicinarsi ai grandi edifici dedicati al culto religioso, perché lo facevano star male: finiva per sentirsi come una donnicciola febbricitante. Inoltre il sagrato era presidiato da due pattuglie di Angeli, fra i quali spiccavano ben cinque Guerrieri Serafici.

Lasciò quindi che le due sorelle si allontanassero un poco. In fondo, sarebbe bastato aspettare che proseguissero oltre la grande chiesa, per poi raggiungerle qualche viuzza più in là.

Ehi, ehi! NO!

Quelle due si stavano fermando a mendicare proprio accanto al portone della cattedrale.

Il Diavolo sbuffò. Ma tu guarda queste: con tutti i posti disponibili, dovevano proprio piazzarsi a chiedere l'elemosina ?!

La cattedrale era uno dei Portali del Paradiso.

Tutti i Diavoli lo sapevano: c'era un Portale nel vecchio confessionale della navata destra ed era uno dei Portali Fissi, quelli cioè che i Reggenti Celesti non avevano il potere di aprire, chiudere o spostare a loro piacimento; un po' come l'Acheronte, solo che conduceva al Paradiso e non all'Inferno.

Per un Diavolo, avvicinarsi voleva dire ritrovarsi braccato dagli Angeli Guardiani e probabilmente vedersi infilzato da una spada fiammeggiante prima ancora di poter spiegare il perché della propria presenza. Quel territorio era precluso a quelli della sua Razza.

Si infilò dunque in un vicolo ai margini della piazza e restò ad osservare le due zingare dalla rassicurante penombra di quella stradina, a distanza di sicurezza dall'Area Sacra.

Drande tendeva la mano, ma la maggior parte delle persone si comportava come se lei fosse trasparente. E per certi versi era come se lo fosse davvero, dato che non guardava in faccia nessuno, come se il suo spirito fosse costantemente altrove.

Amina era più sfacciata, soprattutto con le vecchie signore.

Korim si scoprì a tremare impercettibilmente.

Forse era l'Aura Santa di quel luogo. O forse era solo rabbia: per quanto assurdo potesse sembrare, non gli andava l'idea che una come Drande mendicasse.

Oppure, più semplicemente, non gli andava l'idea che lei lo facesse.

Sbuffò e strinse i pugni: era una bacatissima testa di cazzo, si era fritto il cuore un'altra volta.

«Korim?»

Una voce alle sue spalle lo fece trasalire.

Una voce palesemente angelica.

Il Tentatore si voltò di scatto, pronto a dare battaglia: da un Piccione Aureolato non ci si poteva aspettare nulla di buono.

Il nuovo arrivato, tuttavia, non sembrava avere cattive intenzioni.

«Sei Korim, non è vero?» chiese in un tono totalmente pacifico.

«E tu chiccazz... Lenus?!» realizzò il nostro Diavolo distendendo i nervi, non appena l'ebbe osservato abbastanza da scorgervi le fattezze di uno degli ex compagni di Addestramento.

«Proprio io. Ma mi chiamo Lenuel, ora. Cosa ci fai da queste parti, Korim? Il tuo Protetto ti ha piantato in asso per andarsene alla messa?»

«Non dire cazzate: quelli come me non hanno un Protetto, lo sai bene».

«Non avete un Protetto fisso» puntualizzò Lenuel, «ma gente da condurre alla perdizione ne avete comunque in abbondanza. Brusco come sempre, eh Korim? Non sei cambiato affatto».

«E che pretendevi? Sono ancora un Diavolo Incompleto, come ai tempi dell'Apprendistato. Tu sei cambiato, invece: sei talmente serafico che a momenti non ti riconoscevo» commentò acido, soppesando la figura composta del suo interlocutore.

Se lo ricordava quando erano compagni di studi: biondo, tappetto, con il naso un po' troppo sporgente e gli zigomi esageratamente alti, ma con due incredibili occhi viola che tutti gli invidiavano. Gironzolava sempre con qualche librone sottobraccio, per darsi le arie del saggio della compagnia. E adorava cantare: aveva una voce niente male e quando dava il via alle sue corde vocali, riusciva persino a smettere di balbettare anche se si trovava di fronte alle più avvenenti donzelle, situazione in cui, di solito, andava completamente in tilt.

Eh sì, perché Lenus era bruttino, balbuziente, imbranato, ma soprattutto maschio.

Ora era un Angelo Adulto, quindi senza sesso.

Lineamenti delicati e indistinti e voce neutra, come tutti gli altri.

Non portava più i vestiti scuri da pretino imbalsamato che usava allora, ma una lunga tunica bianca decorata con arabeschi dorati, dalla quale spuntavano due enormi ali dalle piume argentee.

Se non fosse stato per la sua solita, orrenda pettinatura a caschetto, Korim non l'avrebbe mai riconosciuto. Ma che aspettavano i parrucchieri angelici a rifargli il look?! E va bene che troppa attenzione alle apparenze è affar da Diavoli, ma anche l'occhio vuole la sua parte, accidentaccio!

«E tu che ci fai qui, Lenus? Bazzichi per i vicoli oscuri?» insinuò infine, pungente.

«Mi chiamo Lenuel. C'è una riunione urgente del Consiglio degli Arcangeli e mi hanno convocato in qualità di segretario».

«'Azz... Che rottura dev'essere, non ti invidio per niente! Visto che sei nel Piano Terreno, approfittane almeno per fare scorta di spartiti musicali: te lo meriti proprio, in vista di questo scassamento di palle!»

Lenuel sorrise di nuovo e a Korim parve che quel sorriso non sottintendesse in realtà alcun tipo di emozione, ma fosse solo una maschera di circostanza.

«Io non ho più bisogno né di musica né di altro svago. Sono un essere Completo e sono in pace, non ho bisogni né desideri, se non quello di condurre la gente al Bene».

Korim sbuffò: «Ok, ok, ho detto una cazzata, non stare a sindacarci sopra; è che, a furia di restare mescolato agli umani, non so più fare conversazione con gli Eterni».

Ecco. Se c'era un motivo per cui Korim si ricordava di quest'Angelo sfigato, era perché ai tempi ci discuteva di musica per ore e ore. Litigandoci, ovviamente, perché avevano gusti diametralmente opposti. Ma la passione che li animava era la stessa. E ora, di tutto questo, a Lenuel non era rimasto nulla.

«Di' un po', sei mai più ritornato alla sede di Addestramento?» riprese l'Angelo mantenendo stampato in viso quel sorriso distante e alieno che sembrava essersi incollato sulla sua faccia.

«In quel postaccio di merda?! Ma figurati se mi viene in mente di rimetterci piede! È stato la fonte di tutti i miei guai!»

«E gli altri, li hai più rivisti?»

«Bizarq lavora con me. Tutti gli altri, invece, li ho persi di vista il giorno stesso dell'Esame; ormai apparteniamo a due Mondi diversi».

«Io lavoro con il buon vecchio Jodel, invece. E ti ricordi la dolce Seint? È già diventata un Cherubino, mentre Phael...»

«TACI!» lo interruppe bruscamente il Diavolo. «Non ti ho chiesto niente. Non me ne frega un cazzo di che fine hanno fatto le varie Galline tue pari! Non lo voglio sapere, tanto ognuno di noi resta incollato alla sua merda di vita comunque. Ora vattene, o i Superiori ti cazzieranno se ti fermi troppo a ciarlare con la concorrenza».

«Siamo vecchi Compagni di addestramento, chiuderanno sicuramente un occhio. Allora arrivederci, Korim, ti auguro ogni Bene».

«E io tutto il Male del mondo!»

Lenuel sorrise tiepidamente, inchinandosi in segno di saluto. Mosse qualche passo rapido, poi, senza voltarsi, soggiunse: «Sai, temo di aver espresso un giudizio affrettato, poco fa. La tua facciata non sembra cambiata, questo è vero, ma allora avevi una carica, un piglio che non vedo più».

«Fottiti» fu la lapidaria risposta del Diavolo.

Avrebbe voluto rispondergli che forse l'avrebbe perso anche lui, il piglio, se fosse stato Condannato a marcire per l'Eternità fra gli umani, vigilato da un manipolo di feroci Superiori che, a differenza di quelli angelici, di occhi non ne chiudevano mai. Ma sarebbe suonato patetico, così tenne la bocca sigillata.

«Spero di rivederti presto» rispose soltanto l'Angelo, senza scomporsi davanti all'insulto, prima di librarsi in volo verso la cattedrale.

Korim restò a guardare la sua ampia schiena immacolata che si allontanava, mentre un crescente disagio si impadroniva di lui.

Ricordare i tempi dell'Addestramento gli faceva un male cane. Ricordare le bravate, le risate, i sogni e i progetti sul futuro che facevano tutti insieme gli faceva contorcere le budella.

Ricordare lei era come sanguinare nel profondo.

Lenuel aveva ragione, ormai non era che l'ombra di se stesso.

«Fottiti» sibilò nuovamente dietro all'Angelo, anche se ormai non poteva più udirlo.

Si appoggiò al muro e chiuse gli occhi, reggendosi il capo con le mani.

La cruda verità era che si era ridotto a un relitto, gettando al vento ogni possibilità di riscatto, e non ne sarebbe mai uscito, né da solo, né con l'aiuto di quelle due Streghe ignare.

Merda.

Tutto era irrimediabilmente fottuto.

Si sentiva scivolare giù, nel vortice dell'autocommiserazione, quando un pensiero saettò per la sua mente, costringendolo a riscuotersi.

Lo aveva detto Amina: «I diavoli veri hanno il nodo nero come la pece, tutti uguale. Tu invece sei di quelli mingherlini con le alucce rachitiche, però sei diverso dagli altri: di solito quelli come te hanno il nodo grigio e piatto, invece il tuo brucia.»

Lì per lì non aveva dato peso a quelle parole, credendo che la strana sfumatura del suo cuore fosse lo specchio della Condanna. Ma ora che aveva visto che ne era stato del suo vecchio Compagno, iniziò a rimuginarci sopra da una prospettiva nuova.

Lenus (o Lenuel, o come cavolo si chiamava) era il primo Eterno che aveva conosciuto da Incompleto e che ora reincontrava da Adulto. E quell'incontro gli aveva lasciato l'amaro in bocca.

C'era qualcosa di agghiacciante, in quell'Angelo.

E forse non solo in lui.

Quando un Diavolo diventava Adulto, i tratti maschili o femminili che recava con sé fin dalla nascita venivano esasperati e, di conseguenza, la sua sessualità veniva esacerbata a tal punto da farsi devastante. Così nel corpo, così nell'animo: anche il bisogno di godere del Male si faceva imperioso e totalizzante, fino ad annebbiare ogni altro pensiero.

Korim però aveva sempre pensato che, per quanto si dedicassero tutti alle stesse attività, ogni Diavolo le vivesse un po' a modo suo, se le reinterpretasse, insomma, secondo i propri gusti e il proprio personale sentire.

Ma il nero uniforme profetizzato dalla pulce sembrava smentire questa interpretazione: a dar retta a lei, si poteva solo concludere che il cuore di tutti i Diavoli Adulti fosse identico.

Anche agli Angeli succedeva qualcosa di simile. Diametralmente opposto, ma in fondo simile: conquistare lo status di Adulto significava per loro diventare esseri completi e asessuati.

E, come aveva detto Lenuel, un essere completo non ha più bisogni né desideri, perché trova in se stesso ogni pienezza.

Sempre in pace.

Sempre appagati.

Ma.

Tutti uguali.

Bianchi?

Forse.

Se le cose stavano realmente così, che senso potevano avere, invece, i suoi colori?

Stando ai vaneggiamenti di Amina, i Diavoli Incompleti come lui erano tutti grigi. Una mescolanza di bianco e nero, insomma. Si poteva quindi concludere che gli Eterni nascessero contaminati con l'altra razza (quindi Incompleti nella loro Angelicità o Diabolicità), e che l'Addestramento con successivo Esame servisse per lavar via in qualche mistico modo la contaminazione altrui, rendendoli puri nella Tenebra o nella Luce.

Ma i colori da dove arrivavano?

E perché solo lui e gli esseri umani ne erano violentemente dipinti?

Non non ne aveva la più pallida idea.

Si portò una mano al petto e gli sembrò di sentirlo caldo e vivo.

Un fondo trasparente. Un giallo acido e stanco, una pozza blu, la sua rabbia rossa.

Non era così che avrebbe dovuto essere un Diavolo.

Anche gli Eterni potevano nascere sbagliati?

In tal caso, lui era forse un'errore dell'Eternità?

Ma poi, chi era lui, in verità?

Da dove veniva? Come era nato?

Perché era nato, di questo era sicuro, e neppure molto tempo addietro: non esisteva da sempre, anche se sempre sarebbe esistito da lì in poi.

Ma come era avvenuta la cosa?

Non ricordava.

Prima di essere trasformato in Tentatore aveva sperimentato l'Addestramento: tre anni passati a competere con altri Eterni Incompleti, sotto la guida di esperti Insegnanti Adulti.

E prima ancora?

Che aspetto aveva? Dove aveva vissuto?

Prima di essere un ragazzo, era mai stato bambino?

Non ricordava nulla. Se spingeva indietro la mente, gli appariva solo una distesa rossastra: una specie di... di... prato?

Forse.

Nei suoi ricordi non c'era che quella distesa rossa e una figura china e appesantita che raccoglieva qualcosa fra l'erba. Un giardiniere, probabilmente.

E lui, da dove osservava questa scena? Che forma aveva, all'epoca di quel ricordo slavato?

Non lo sapeva.

In quel momento si rese conto per la prima volta che non sapeva nulla delle proprie origini, né di quelle di tutti gli altri Eterni.

E ne fu paralizzato.

Ma non fu tanto il vuoto sul suo passato a terrorizzarlo, quanto l'agghiacciante consapevolezza di non essersi mai posto il problema fino a quel momento.

Qualcuno doveva aver manipolato la sua memoria, forse con un Incantesimo Arcano.

Che fosse successo in seguito alla Condanna?

Durante il Giudizio i Gerarchi potevano benissimo aver condizionato la sua mente, ma a che pro sprecare su uno come lui un Incantesimo tanto delicato e arduo da pronunciare?

Guardiamoci in faccia: lui era uno sfigato qualunque, senza arte né parte e per di più reo di essersi fritto il cuore per un Piccione Aureolato. Non c'era ragione perché la Gerarchia si accanisse in modo particolare contro un rottame del genere, che si era già distrutto con le proprie mani. Era un bel gingillo, per loro, e tale sarebbe rimasto in Eterno, ma nessuno installa un antifurto da tre milioni di dollari su un giocattolo di nessun valore.

Non aveva senso.

«Esistono due Principi Primi in lotta fra loro per il predominio sul Mondo: il Male e il Bene, incarnati dai nostri Signori. Noi Eterni ne siamo gli eserciti e gli Esseri Umani il campo di battaglia. Ogni Eterno esiste solo per servire la propria Gerarchia e solo in essa può trovare senso e compimento».

Così gli avevano sempre insegnato.

Ma se così era, per ogni Eterno completarsi significava annichilire la propria individualità per diventare un perfetto esecutore della volontà del Capostipite della propria Gerarchia: Lucifer, il signore di tutti i Diavoli, incarnazione del Male, e i Sommi Arcangeli Gabriel, Raphael e Michael, personificazione del Bene.

Scalare la gerarchia gradino per gradino significava dunque perdere ogni volta frammenti della propria personalità, fino a smarrirla del tutto?

Brrr! Aberrante.

Se le cose stavano così, diventare un Diavolo Completo non significava solo avere momenti di gloria, scopare come un mandrillo e godere di malefici svaghi, significava prima di tutto perdere il proprio io.

Era questo che aveva sempre bramato? Era per non aver compiuto questo passo che si rodeva il fegato da anni?

No, cazzo. NO!

Iniziò seriamente a rivalutare la propria posizione: vuoi vedere che, nella sfiga, gli era andata davvero di culo?!

Perché, in verità, lui teneva molto a se stesso. Quella matassa variopinta e calda che caratterizzava il suo nodo se l'era coltivata, negli anni.

Doveva essere stato lui stesso a colorare il proprio cuore, anche se inconsciamente. Era stato lui a dare piede, spazio e nutrimento a tutti quei colori che non erano stati spenti dalla cappa nera del Completamento. Era stato lui a lasciare che si differenziassero dal grigio e crescessero dentro di lui fino a invaderlo.

Il risultato era che il suo cuore era colorato e unico come colorati e unici erano quelli umani, perché tutti gli esseri dotati di una propria personalità risultano irripetibili.

Ebbene, forse era per colpa di Valeel, che aveva tanto lavorato per insegnargli a pensare a briglia sciolta, ma lui c'era affezionato, al proprio io. E, in quel momento, si rese conto che non avrebbe mai voluto perderlo.

Certo, l'avere una personalità era la fonte della sua insoddisfazione, della sua rabbia e della sua voglia di ribellione; era quella parte di lui che alle volte lo faceva esplodere dentro, lo spingeva a correre fino a trovarsi senza fiato, a gridare, a percuotere le corde del suo basso fino a cavarne dei suoni che vibrassero in sintonia con le sue contraddizioni. Ed era quel lato di lui che aveva saputo amare.

E amare un altro più di se stesso.

Anche se questo altro era un Angelo.

Un sorriso amaro si accese sul suo viso: ora capiva davvero.

Questo era il suo Inferno.

Questa la sua Dannazione, la Condanna proclamata contro di lui dall'Eternità per aver infranto il più inviolabile dei tabù.

Perché un Diavolo che ama è una bestialità, un'incongruenza tale da far saltare le leggi dei Mondi.

Che idiota era stato, per tutti quegli anni, a pensare che per punirlo si fossero limitati a stroncargli la Carriera!

Oh, no, il gioco era ben più sottile.

E crudele.

Gli avevano lasciato una personalità, ma non gli avevano concesso la libertà di esprimerla: vivere così significava morire dentro, giorno dopo giorno, per l'Eternità.

E così infatti era stato per lui, dal giorno della sua Condanna: un infinito Inferno, un'infinita brama di Libertà sigillata dietro le sbarre dell'obbedienza.

Il sorriso amaro che aveva dipinto in volto mutò in un ghigno, poi in una risata distorta.

I Diavoli erano fatti per l'Inferno, no? Ebbene, era giunto il tempo che anche lui affrontasse il suo.

Era ora di viverlo, anziché subirlo.

Aveva ancora il suo io, era tanto.

Non sapeva né come né perché, ma decise che da quel momento avrebbe cercato il modo di essere se stesso.

Ma non l'avrebbe fatto da solo: voleva Drande al suo fianco, in questa impresa.

Levò lo sguardo verso il punto dove, fino a un attimo prima, le due ragazze erano ferme a mendicare, ma non le vide più.

Per le Orride Viscere degli Abissi, le aveva perse!

Imprecò a voce alta, rendendosi conto troppo tardi che una sentinella armata di Lancia Eterea stava venendo dalla sua parte. Sembrava una sfigatissima recluta, ma era comunque più grossa e meglio armata di lui. E il suo grido la mise in allarme.

«Cosa ci fai da queste parti, Demonio?» lo apostrofò, accelerando il passo.

Korim smise di respirare e indietreggiò, appiattendosi nell'ombra.

«Ti ho fatto una domanda!» tuonò l'Angelo, ancora in lontananza.

Sperando di far perdere le proprie tracce, il Diavolo filtrò all'interno dell'edificio contro il quale era appoggiato un attimo prima, ritrovandosi in una specie di ripostiglio pieno di scope e detersivi. C'era una porta che conduceva fuori di lì, ma l'Angelo giunse nella stanza prima che lui potesse raggiungerla.

Il misero Tentatore dovette quindi arrendersi ad affrontarlo.

In fondo, la sorte gli aveva arriso: se nel vicolo era in netto svantaggio, in quello stanzino di tre metri quadrati lui poteva di sicuro muoversi con maggior destrezza del suo povero avversario, ingombrato dall'armatura e dall'arma lunga che impugnava. Gli Eterni potevano attraversare i muri e lasciarsi attraversare dagli oggetti del Piano Terreno, certo, ma questo implicava il dover cambiare Piano per una frazione di secondo, operazione che richiedeva concentrazione e un grande dispendio di energie, e che quindi era praticamente impossibile da attuare in battaglia.

Korim fissò dunque l'Angelo negli occhi con aria di sfida e questi fece altrettanto. Si studiarono reciprocamente per qualche istante, muovendosi l'uno rispetto all'altro in una sorta di lenta danza di guerra.

Poi l'Angelo attaccò.

Il Diavolo schivò il colpo gettandosi contro un fascio di scope e scopettoni, che rovinarono rumorosamente a terra. Ne afferrò uno e fu lesto a lanciarlo fra i piedi del suo inseguitore, facendolo inciampare.

Mentre l'Angelo ruzzolava a terra, lui si tuffò nuovamente nel vicolo attraversando il muro. Percepì con la coda dell'occhio la porta dello scantinato che si apriva e una vecchia obesa che appariva sulla soglia chiedendosi com'è che i suoi spazzoloni avessero deciso di accatastarsi a terra così all'improvviso.

Fuori, richiamata dal trambusto, una piccola guarnigione di tre Sentinelle stava venendo dalla sua parte. Non provenivano dal sagrato, ma da una traversa laterale.

Al Tentatore non rimase altro da fare che riparare in direzione della cattedrale. Si ritrovò nell'ampio spiazzo lastricato di marmo del sagrato, illuminato a giorno da un battaglione di lampioni in ferro battuto. Invisibile ad occhio umano, ma drammaticamente esposto alla vista di tutti gli Eterni del circondario, Korim era praticamente fra le braccia del nemico.

C'era luce, troppa.

C'erano Angeli, troppi.

C'era una nauseante cerimonia religiosa in corso.

Forse, però, c'erano anche due zingare che gli avrebbero parato il culo.

I suoi occhi avvezzi al buio pizzicavano e lacrimavano, offuscandogli la vista, e l'Aura Santa che si diffondeva dalla cattedrale lo rendeva malfermo sulle gambe.

Una pattuglia Angelica lo accerchiò rapidamente, con fare minaccioso, ma lui cercava ostinato le due ragazze, scandagliando ogni angolo del sagrato con gli occhi doloranti.

«Stai sconfinando, Demonio» gli disse uno dei Guardiani, con voce calma e composta.

«Levatevi dalle palle! Mi coprite la visuale!» ringhiò lui per tutta risposta.

«Non siamo noi a doverci spostare» precisò un secondo Angelo, quasi atono. «Sei tu che stai compiendo un Sacrilegio, calpestando un Suolo Sacro».

«Non me ne fotte un cazzo del vostro pisciatoio sacro!» sibilò schermandosi gli occhi con le mani. «Non sono venuto a cercar rogne!»

«In tal caso non saresti proprio dovuto venire, Demonio».

Bastardi.

Era accerchiato. Ed era nella merda.

E ci si era infilato da solo come un pirla, accidenti a lui!

Gli Angeli erano troppi ed erano tutti di Rango Elevato, anche se non Eccelso, e lui era un misero Tentatore, rincoglionito dall'Aura di quel luogo.

Dov'era Drande?!

I suoi avversari si strinsero ulteriormente attorno a lui.

Si dispose alla lotta: fece scivolare il suo Pugnale Sulfureo fuori dalla manica della giacca e, rapido, sfregiò il viso del primo Piccione che trovò a tiro.

Questi gridò di dolore, ma altri due Angeli furono pronti ad afferrare il loro avversario da dietro, bloccandogli le braccia. Korim sentì un dolore lancinante a un fianco e per un attimo perse la vista.

Lo avevano colpito con qualcuna delle loro armi serafiche. Avrebbe tanto voluto svenire, ma decisamente non era il momento. Chiamando a raccolta tutte le sue forze, piantò due violente gomitate nel ventre di quelli che lo bloccavano, riuscendo a divincolarsi.

Si lasciò cadere a terra e, scivolando al suolo, si lanciò fra le gambe dei due Angeli che aveva dinnanzi, riuscendo a sgusciare fuori dal cerchio.

Dov'era Drande?

Senza darsi tempo di respirare si rizzò sulle gambe, mosse qualche passo di corsa poi, saltando e svolazzando, si portò quanto più in alto poté, senza neppure guardare dove si stesse dirigendo.

Gli Angeli gli erano alle costole, li sentiva.

La ferita al fianco doleva già in modo insopportabile, quando qualcos'altro lo colpì: una Freccia Sacra o forse una punta di Cerbottana Celeste, non avrebbe saputo dirlo.

Barcollò e perse l'assetto.

Sentì le forze abbandonarlo, il mondo intorno a lui vorticava e il suolo si faceva sempre più vicino.

E gli Angeli anche.

Non ce la faceva più.

Merda. Non ce la faceva davvero più.

Dove cazzo era Drande?!

Per un attimo disperò, poi vide Amina.

Silenziosa e composta, ritta al centro della piazza, lo guardava.

Korim si lanciò nella sua direzione e si lasciò cadere subito dietro di lei, atterrando in malo modo.

La bambina non si mosse: restò impassibile ad osservare il piccolo esercito di Angeli che lo inseguiva.

Sotto gli occhi della piccola questi esitarono, rallentarono, poi si fermarono del tutto.

Lei non abbassò lo sguardo.

«Sei nei guai, stupido diavolo?» chiese senza voltarsi.

«Così così» dissimulò lui, cercando di rimettersi in piedi.

Gli Angeli non lo attaccavano più. Erano indecisi sul da farsi, evidentemente Amina li intimoriva.

In quel momento Drande sbucò da una viuzza laterale e corse incontro alla sorellina.

«Amina! Possibile che devi sempre sparire?»

Ma lei restò immobile, con gli occhi fissi al cielo.

Drande la raggiunse, si inginocchiò accanto a lei e l'abbracciò.

«Perché sei rimasta indietro?»

La piccola non rispose e la giovane donna si stupì nel vederla così assorta.

Seguì il suo sguardo, ma non vide nulla, se non le ombre plumbee del cielo all'imbrunire.

«Cosa stai guardando?»

«Gli angeli» disse semplicemente la bimba. «Ma adesso stanno andando via».

Era così: non appena era apparsa Drande, i suoi inseguitori avevano preso ad indietreggiare, più che timorosi letteralmente spaventati.

Korim tirò un sospiro di sollievo.

E bravi i Piccioni Aureolati, pieni di saggezza e buonsenso! Battevano in ritirata di fronte alla Strega!

L'aura delle due zingare era terrificante per qualsiasi Eterno con due dita di cervello e, grazie a questo, lui se l'era cavata egregiamente.

Amina lo fissò curiosa, ma il Diavolo le fece cenno di tacere per non svelare a Drande la sua presenza.

«Scortami lontano da questo posto di merda senza fare pubblicità, ok?» le propose strizzandole l'occhio e utilizzando l'Antica Lingua in modo che lei sola potesse udirlo.

La piccola aggrottò un sopracciglio, notando le sue ferite.

«Non è niente» la rassicurò. «Le ferite da Armi Serafiche posso curarmele in un attimo. Sono un Eterno, no?»

La bimba annuì, prese la sorella per mano e si avviò lontano dalla cattedrale.

Il Diavolo le seguì in silenzio, reggendosi il fianco ferito con le mani, mentre una luce verdastra si dipanava dalle sue dita, illuminando sinistramente le stradine che stavano percorrendo.

Meno di dieci minuti dopo era perfettamente guarito.

Le zingare camminavano verso la periferia, tenendosi per mano.

Drande cantava sottovoce. Cantava una nenia per bambini antica quanto il suo popolo, con una voce da contralto calda e vibrante. Amina rideva e trotterellava al suo fianco, lanciando di tanto in tanto occhiate complici al Diavolo che le seguiva.

Lui si sentiva stranamente in pace.

Guardava la gonna di Drande ondeggiare a ritmo coi suoi passi. Guardava le manine paffute di Amina e si sentiva a casa, come se quello fosse il posto preparato per lui dall'Eternità.

E avrebbe voluto che quell'istante fosse eterno.

Ma non sarebbe durato, lo sapeva: la nebbia andava addensandosi pian piano. E questo stava a significare che lo stavano Chiamando.

Poteva intravvedere un campo-nomadi poco più avanti, con i suoi carrozzoni sgangherati e la sua gente dedita alle piccole faccende di ogni giorno.

Proseguiva in quella direzione accanto alle due ragazze, ma sapeva che non vi sarebbe mai arrivato, perché quella foschia arcana avrebbe presto separato le loro strade.

Richiamò l'attenzione di Amina: «Ehi, scarafaggio, mi chiamano. Devo andarmene».

«Tornerai?» chiese sottovoce la piccola, cercando di non farsi notare dalla sorella.

«Forse...» esitò il Diavolo, lanciando di sottecchi un'occhiata al viso stanco di Drande.

«Vuoi dire che ti aspettano guai oltre la nebbia?»

«Chissà...» fu elusivo lui, prima di sparire inghiottito dalla foschia.

«Con chi stavi parlando questa volta?» le chiese Drande, bonaria, mentre entravano nel campo.

«Con il diavolo di prima».

«Ah» fece soltanto la ragazza, sospirando e stringendole più forte la manina. «Era un bel ragazzo» si lasciò sfuggire poi, stanca e dolce allo stesso tempo.

Sì, pensò la piccola Amina, il suo nuovo amico era bello, a modo suo. E si era preso un cotta per Drande, si vedeva lontano un chilometro.

Sorrise di gioia: probabilmente lo avrebbe rivisto molto presto.

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Capitolo 9
*** Inferno, Cerchio I ***


Inferno, Cerchio I

Camminava in un corridoio di nebbia.

Sotto i suoi piedi, al suo fianco e sopra il capo, solo caligine a perdita d'occhio: il Portale era stato aperto da un lato soltanto.

Era stato trascinato via dal Mondo Terreno, ma non era stato condotto da nessuna parte. Si trovava al Confine, quel Luogo che non è un luogo. Avanzare era del tutto inutile: non sarebbe mai arrivato da nessuna parte.

Si fermò e attese. Se per ore, minuti o giorni non avrebbe saputo dirlo: in quella dimensione anche il tempo era distorto.

Poi un grande Diavolo emerse dal nulla. Ali enormi, corporatura nerboruta, mascella imponente, occhi come tizzoni ardenti e corna affilatissime sulla sommità del capo: Baal, un pezzo grosso.

Ok, era nella merda.

Se avevano fatto scomodare addirittura Baal, era proprio nella merda.

«Korim!» tuonò il Gran Demonio.

Per tutta risposta, lui emise un grugnito scazzato.

Baal lo afferrò per il bavero della giacca e lo sollevò di peso. Era alto tre volte lui e largo almeno il doppio.

«Guardami in faccia!» ringhiò il Grande Diavolo.

«Non posso: ti puzza troppo il fiato».

Baal lo scaraventò violentemente a terra e lo sovrastò con tutta la sua mole, piantandogli un ginocchio in pieno petto; due o tre costole si incrinarono sotto quel peso, ma Korim non si arrese a guardarlo, per quanto faticasse a respirare.

«Le nullità come te devono stare al proprio posto» gli ruggì contro l'enorme Demone.

«Le nullità come me non hanno un posto» ribatté lui atono, ostentando un sangue freddo che aveva già perso da un pezzo.

«Oh, sì che ce l'hanno: fra la feccia. Ed è lì che ti ributterò fra un attimo. Non prima, però, di essermi assicurato che ci resterai. Devo ricordarti che è vietato avere contatti con i sensitivi? Sai bene che gente come quella può soggiogarti fino a ridurti ad una larva! Cosa ti obbligherà a fare, quella stracciona, a mendicare per lei?»

Baal sghignazzò e Korim non poté fare a meno di voltarsi di scatto verso di lui e fissarlo irato.

Il Gran Demonio non si lasciò sfuggire l'occasione e gli bloccò il viso con la sua mano poderosa.

«Bene bene, ora mi guardi, eh? Sturati le orecchie, nullità: non sono le due accattone che ci interessano. Che loro facciano di te quel che vogliono, tanto sei un buono a nulla che possiamo rimpiazzare in ogni momento. Tu non servi a nulla, non vali nulla, esisti solo per scodinzolare ai nostri piedi e farci sentire forti quando ti calpestiamo. Non c'è altro significato nel tuo esistere, ricordatelo. Quindi guai con gli Angeli non ce ne devi procurare. Oggi sei sconfinato sul Suolo Sacro e hai combinato un casino diplomatico. Non hai idea di che fatica abbia fatto il Consiglio per giustificare la cosa, gli Arcangeli erano furiosi! Rifacci uno scherzo del genere e ti useremo come scopettone per pulire le nostre latrine, intesi?!»

Korim restò impassibile.

«Intesi?!» incalzò Baal, premendo ancora di più il ginocchio sulla sua cassa toracica.

Lui non si mosse.

Il Demonio caricò ancora, fino a far contorcere l'esile corpo della sua vittima.

«In...tesi» balbettò questi col fiato spezzato, distogliendo gli occhi.

Baal si sollevò da lui.

«Bravo ragazzo. Sei un tipo ragionevole, in fondo» sghignazzò.

Korim si rialzò, cercando disperatamente di non barcollare. Boccheggiava.

Ad ogni respiro, un dolore lancinante gli squassava il petto, ma si impose di non darlo a vedere al suo aguzzino.

«Finito il sermone? Posso andarmene ora?» chiese acido.

«Sì, puoi tornartene al tuo letamaio, feccia» rise il Gran Demonio, disegnando un semicerchio in aria con la mano: un imponente Portale, dai battenti in ferro battuto decorati con altorilievi, comparve dal nulla alle spalle di Korim e si aprì cigolando.

Lui si voltò. Al di là poteva vedere la propria stanza.

Diede la schiena a Baal e si avviò lentamente.

«Dì a quelli del Consiglio che con i Piccioni Aureolati non creerò più casini» commentò oltrepassando la soglia.

Ma, in quel momento, qualcosa di viscido e rovente si avvinghiò al suo braccio sinistro.

Non poté fare a meno di urlare dal dolore. Si girò e vide con orrore che il braccio di Baal si era allungato a dismisura e, tramutatosi in un serpente, si era avvolto attorno al suo avambraccio. Dalle sue spire trasudava un miasma acido e venefico che gli stava corrodendo le carni.

Il dolore era tale da offuscargli la vista e rendergli difficile formulare un qualsiasi pensiero coerente. Korim gridava, piangeva e si contorceva, mentre il suo aguzzino ghignava soddisfatto.

«Oh, siamo certi che non creerai altri pasticci diplomatici con i Gallinacci. Solo, vorremmo anche la garanzia che tu faccia il tuo lavoro alla perfezione. Sei un Diavolo Tentatore, nella tua esistenza non ci deve essere spazio per dei bei discorsoni che valorizzino gli altri. Tu gli altri li devi condurre alla perdizione, e nessuno mai, per nessun motivo, DOVRA' SOGNARSI DI VENIRTI A DIRE UN'ALTRA VOLTA GRAZIE. CHIARO?!»

Korim gridava dal dolore. Forse gridò anche un «Sì», perché Baal lasciò la presa.

«Questo è tutto» commentò allontanandosi. «Ricorda: non puoi curare quella piaga. Se ne starà buona finché non sgarrerai, ma, ogni volta che cercherai di fare qualcosa di non consono alla tua posizione, si riaprirà e ti divorerà il braccio. Te lo farà marcire fino a corroderti le ossa, se non starai alle regole. Buon Lavoro, Korim».

Sulle ultime parole del grande Diavolo il Portale si richiuse fragorosamente, lasciando al suo posto solo una parete grigia e spoglia.

Tutto era silenzioso e immoto.

Korim era a terra, nella sua stanza. I suoi occhi piangevano, se di rabbia o di dolore non avrebbe saputo dirlo, ma le lacrime non si fermavano. E sapeva che Baal e gli altri porci dei suoi Gerarchi le vedevano.

E ridevano.

Deglutì e si mise a sedere, asciugandosi il viso con il dorso della mano sana.

Poi strappò via i brandelli dei vestiti corrosi da intorno alla ferita e la guardò. Sembrava il tatuaggio di un roveto, un mostruoso intrico di rami spinosi che si avviluppavano su se stessi, strozzandogli il braccio. La carne viva, ustionata e cauterizzata al contempo, trasudava gremo e spirito.

Disgustosa.

Si alzò sulle gambe, malfermo, e raggiunse a tentoni il piccolo lavandino posizionato in un angolo.

Si portò alla bocca uno straccio e lo morse con tutte le forze, poi aprì il rubinetto e vi mise sotto il braccio.

Le lacrime tornarono ad offuscargli la vista. Stringeva fra i denti quel pezzo di stoffa per non permettersi di gridare, mentre l'acqua scrosciante staccava e portava via grumi di carne bruciata e sangue rappreso.

Il dolore era troppo per permettersi il lusso di svenire, ma la sua coscienza era distorta: sentiva la stanza roteare intorno a sé in una danza ubriaca. Reggendosi disperatamente al lavabo con il braccio sano, restò in quella posizione finché la lesione non fu tutta rosea e pulita. Poi chiuse l'acqua e, barcollando, si accasciò sul letto, ansante.

La testa vorticava e il respiro era stentato.

Gli veniva da vomitare.

Merda, si era detto che avrebbe difeso se stesso ad ogni costo, ma il prezzo da pagare si prospettava davvero salato.

Un Marchio.

Era una delle maledizioni più potenti e rognose che quelle carogne dei suoi Gerarchi potevano imporre ai paria come lui.

Merda.

Quel misero se stesso che si era intestardito a difendere valeva davvero un prezzo simile?

Non riuscì a rispondersi: esausto, precipitò in un sonno senza sogni.



«Korim! Ehi, Korim, svegliati! E' ora che andiamo».

Qualcuno lo stava scrollando vigorosamente. Si stropicciò gli occhi e li aprì a fatica: «Chiccazz... Bizarq!»

Korim scattò a sedere sul letto non appena messo a fuoco il viso lentigginoso del collega, che lo fissava da sotto la sua zazzera di capelli fulvi, unti come un piatto di spaghetti all'amatriciana.

«Che ore sono?!» esclamò guardando apprensivo fuori dal lucernario.

«Tranqui, sono solo le nove. Ma se non ti sbrighi non riusciamo nemmeno a mangiarci qualcosa prima di sistemare gli strumenti».

Le nove. Di sera, ovviamente: Bizarq non era mai sveglio la mattina.

Significava che non aveva dormito neppure un paio d'ore.

Si sentiva un vero schifo. Le fratture alle costole dovevano essersi rimarginate e il respiro era tornato regolare, ma il dolore al braccio era insopportabile. Di fronte al Compare, però, era meglio far finta di nulla.

Si passò una mano fra i capelli, per ravvivarli e darsi un contegno: «Arrivo» disse alzandosi dal letto e dirigendosi al lavabo.

Si sciacquò il viso con l'acqua gelata, asciugandosi poi con uno strofinaccio che c'era lì a tiro.

Bizarq lo osservava perplesso.

«Di', si può sapere dove ti sei imboscato per tutto il pomeriggio? Ti aspettavamo per provare, invece non ti sei fatto vivo. Gli altri si sono incazzati come iene».

«Ho avuto beghe» fu elusivo lui.

Bizarq non era il tipo da farsi troppe domande, ma c'erano dettagli su cui persino un sempliciotto come lui focalizzava la propria attenzione: «Ehi, Korim, ma la ferita che hai sul braccio non te la curi mica?» s'azzardò a chiedere, vedendo il collega trafficare come un forsennato nell'armadio alla ricerca di un nuovo maglione, dato che quello che indossava era per metà distrutto, come il suo braccio.

«Tanto non guarirebbe» tagliò corto lui, disseppellendo una pesante felpa nera da sotto una pila di jeans sdruciti.

Non c'era bisogno di fornire ulteriori spiegazioni: se i suoi poteri diabolici non erano in grado di rimarginarla, poteva solo significare che anche quella ferita era stata generata da un potere diabolico. Il che, in soldoni, significava rogne con la Gerarchia.

Bizarq non era Einstein, ma non era del tutto scemo, dunque non indagò oltre: da ceti casini era meglio tenersi allo scuro. E totalmente, anche.

«Ma ce la fai a suonare così conciato?» fu la sua unica, sincera preoccupazione.

«No problem» si limitò a rispondere Korim, mentre si liberava degli anfibi e dei calzoni per infilarsi un paio di ampi jeans scoloriti, con lo stemma “Zona Radioattiva” stampato su una tasca posteriore. Prese quattro spiccioli, la custodia del suo basso e una montagna di spartiti, poi fece un cenno all'amico, che per tutto quel tempo se n'era rimasto a fissarlo perplesso.

Sdegnando la porta, entrambi filtrarono attraverso il pavimento e abbandonarono la stanza.

Si presero un birra e un trancio di pizza in un baracchino in fondo alla strada e fecero rotta per lo Spider's Nest.


***


Drande versò l'acqua calda in un enorme catino, poi chiamò la sorellina per il bagnetto.

Amina protestava sempre quando era il momento di lavarsi, soprattutto nella stagione fredda, ma lei ci teneva molto a strigliarla per bene almeno una volta alla settimana. Sua madre diceva che serviva a tenere lontani i pidocchi. In verità li aveva presi tante volte lo stesso, ma Drande non si era mai arresa, così ogni volta erano le stesse litigate per il sapone negli occhi e i vestiti da cambiare.

Cenarono con un po' di riso e qualche verdura bollita, strette attorno alla stufetta elettrica, mentre da fuori giungevano ovattati i rumori festosi delle altre famiglie del campo che cenavano insieme.

Loro venivano sempre lasciate in disparte.

Terminato il pasto, Drande ritirò le poche stoviglie ammonticchiandole in una bacinella. Le avrebbe lavate l'indomani. Aiutò la sorellina a infilarsi sotto le coperte, vestita com'era, poi si sedette accanto a lei e iniziò a cantare.

Cantava così ogni sera, finché Amina non si addormentava, anche se ormai era grande per la ninna-nanna.

E la bimba restava a guardarla tenendole la mano, finché il sonno non la costringeva a chiudere gli occhi.

Era l'unico modo che Drande conoscesse per dimostrare affetto alla sorellina. Era molto schiva e parlava pochissimo, perché le sembrava sempre che le parole non riuscissero a esprimere quel che le si agitava dentro; per questo affidava i suoi sentimenti alla musica.

Amina invece era fin troppo chiacchierona ed espansiva e lei spesso si sentiva inadeguata a farle da madre, ma non poteva contare su nessun altro.

Un brivido di freddo le percorse la schiena.

Non era solo la mancanza di un sistema di riscaldamento nella roulotte. Era un freddo più profondo, che veniva da dentro di lei. E non lo si poteva fugare buttandosi uno scialle sulle spalle.

Sospirò.

Si alzò con ritrosia dal capezzale della piccola e si diresse alla credenza; ne estrasse il barattolo di latta dove conservava i suoi risparmi e ne rovesciò il contenuto sul tavolo; vi aggiunse tutti gli spiccioli racimolati in quella giornata e contò.

A fatica, contò due, tre volte aiutandosi con le dita: 27 euro e 34 centesimi.

Sentì le gambe cedere: a Ian non sarebbero bastati mai.

Ripose il denaro nel barattolo e si coricò nella branda, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

Aveva mendicato tutto il giorno e aveva raccolto pochissimi soldi.

Ian ne voleva molti, sempre di più.

E lei non sapeva fare niente, non sapeva leggere né scrivere e nessuno l'avrebbe mai presa a lavorare, perché all'anagrafe non esisteva nemmeno. Poteva solo tendere la mano.

Ian sarebbe venuto l'indomani.

E se i soldi non gli fossero bastati si sarebbe preso di nuovo lei.

Un moto di ribrezzo sferzò la sua personcina da capo a piedi.

Serrò gli occhi più forte che poté, cercando di scacciare ogni pensiero.

E d'un tratto rivide nella mente gli occhi verdi del ragazzo di quel pomeriggio. E la sua faccia da schiaffi e la sua voce calda e impertinente che le ripeteva «Guardami!» .

E in quel momento desiderò che l'avesse abbracciata.

Arrossì violentemente.

Era una sciocca anche solo a pensarle, certe cose.

Lui era uno degli altri: ai suoi occhi non sarebbe mai stata altro che una zingara. Sporca, ladra e accattona.

Così la vedevano i gagé. Sempre.

Anche se lei non rubava.

Era stata la bisnonna a insegnarle a non rubare mai, anche se si fosse trovata allo stremo. Diceva che altrimenti i diavoli sarebbero venuti e l'avrebbero portata all'Inferno con loro, e lei aveva paura.

Tutte le visioni della nonna le facevano paura, un terrore viscido, che le avvinghiava il cuore.

Drande odiava tutto ciò che andava Oltre il mondo reale in cui era immersa.

Odiava anche il mondo reale, tanto avaro e crudele, ma quello che aveva il potere di scaturire da dentro di lei era anche peggio: un mondo di odio e guerra eterni, che non meritava di esistere, tantomeno di essere guardato.

Si rigirò su un fianco, apprensiva.

Sentì di nuovo la voce calda del ragazzo: «Tu hai paura di Guardare. Guardami».

Chissà. Forse era davvero così.

Tuttavia, era la prima volta che qualcuno si interessava a lei, che le dedicava tutta questa attenzione.

Era la prima volta che un ragazzo era gentile con lei, anche se la sua era stata una gentilezza rude come una carezza di carta vetrata.

«Lui è un diavolo.»

Lo aveva detto Amina.

Non poteva crederle. Come poteva quel ragazzo così affascinante essere una di quelle creature che la nonna le aveva insegnato a temere più di ogni altra cosa?

Il male... Il male aveva fascino? Era per questo?

Di nuovo sentì quegli incredibili occhi verdi fissi su di lei.

No. Non poteva essere.

Pensò a Ian e al suo sguardo schiumante. Alle donne del campo e alle occhiate impaurite che gettavano su di lei e su Amina, e sulla loro madre e la loro nonna prima di loro. Pensò a tutti i passanti verso i quali ogni giorno tendeva la mano e ai loro occhi freddi, che la schivavano sempre.

E rivide gli occhi verdi del ragazzo farsi di fuoco.

Cielo.

Se uno come lui era un diavolo, decise che era all'inferno che voleva bruciare.

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Capitolo 10
*** Inferno, Cerchio II ***


Inferno, Cerchio II

Korim si appoggiò alla ringhiera sgangherata appena fuori dalla porta di servizio dello Spider's Nest, massaggiandosi il braccio piagato.

Gli doleva.

Quella sera era riuscito a suonare a stento, anche se gli altri, ad eccezione di Bizarq, non se n'erano accorti. Aveva corretto i suoni emessi dal basso con le vibrazioni dell'Antica Lingua e in qualche modo se l'era cavata, ma avanti di questo passo la sua carriera di musicista era segnata.

E non gli avrebbe portato più alcuna soddisfazione.

Avrebbe voluto rovesciare nella musica tutto ciò che covava dentro. Avrebbe voluto gridare con il suo basso, con lui piangere, ruggire, esplodere e distorcersi, trasudando rabbia e disperazione. Invece aveva passato tre ore a lavorare di tecnica e metodo, impegnato solo a non stonare troppo.

Quei porci bastardi dei suoi Gerarchi gli avevano tolto anche la musica.

Maledetti.

Un campanile lontano batté la mezzanotte.

Il Tentatore sollevò il volto verso quel piccolo brandello di cielo che si intravvedeva fra i tetti del vicolo, ma non poté scorgere né luna né stelle, solo una coltre scura che soffocava ogni cosa.

C'era vento.

Soffiava a brevi folate e trascinava con sé l'odore stantio dei bassifondi della città.

Korim chiuse gli occhi e respirò a fondo, bagnandosi della quiete viscida del vicolo.

In lontananza poteva sentire il traffico del Corso e il brulicare della movida notturna, ma era felice che tutto, attorno a lui, fosse spento e stagnante.

Era un conforto.

La porticina di servizio dello Spider's si aprì cigolando: ecco che arrivava il rompicoglioni di turno.

«Ohi, Korim! Che serata, eh? Il pubblico era in visibilio».

Batch, il batterista del gruppo.

Come minimo adesso si sarebbe piazzato lì a fumare una delle sue merdosissime MS, come se il vicolo non puzzasse già abbastanza.

«Sei stato un grande, stasera» continuò il corpulento ragazzo, esaltatissimo, «ci hai dato dentro come non ti avevo mai visto! Ma che ti sei calato per reggere tre ore a quel ritmo?»

Korim grugnì infastidito. La sua reale performance era stata uno schifo, Batch aveva visto e sentito solo quello che lui aveva voluto che vedesse e sentisse. Ma non serviva che lo sapesse: «Niente, ero solo incazzato di mio.»

«Beh, allora dovresti incazzarti più spesso, magari ci scritturano!»

Il Tentatore gli buttò addosso uno sguardo talmente glaciale che l'entusiasmo del ragazzotto si spense all'istante: «Ok, ok, scherzavo. Ti va una sigaretta?» chiese per farsi perdonare.

E gli allungò una MS.

Come volevasi dimostrare.

Il Diavolo stese meccanicamente la mano; l'amico gli porse l'accendino, poi se ne accese una identica.

D'improvviso un gatto nero saettò fuori da un finestruolo del seminterrato del Nest. Si fermò al centro del vicolo, macchia scura fra le ombre della notte, e restò per qualche istante a fissare Korim. I suoi occhi rilucevano nell'oscurità come due polle di acido iridescente.

Il Messaggero.

Doveva aver dato la Consegna al suo Compare: era già ora di andare.

E infatti la porticina del Nest scricchiolò di nuovo.

«Uh, qui stavate! E' mezz'ora che vi cerco!»

Ed eccolo, Bizarq, allegro e ancora gasato per la serata.

«Che vi fumate? Mi fate fare un tiro anche a me?»

«Fattela pure tutta» gli disse Korim allungandogli la sigaretta e avviandosi alla porta: «Dove si va stasera?» chiese voltando le spalle al suo interlocutore.

«Al Number» rispose Bizarq, entusiasta.

Ok. Il Number X era una delle più grandi e malfamate discoteche dell'hinterland. Riservata agli etero, preclusa agli afro, serviva electrodance e pasticche in tutte le salse e riusciva a fare il pieno quasi ogni sera. Chi si ritrovava lì aveva qualcosa da affogare, e affogare il più rapidamente possibile.

Da quelle parti il Lavoro non mancava mai.

Korim racimolò le sue quattro cose e meno di dieci minuti dopo erano già tutti in macchina.

Guidava Molotov, il tastierista. Bizarq sedeva davanti, mentre lui e Fix, la voce, erano pigiati sul sedile posteriore. Batch se ne era andato a casa con il furgoncino su cui avevano caricato gli strumenti: era l'unico fra loro ad avere un lavoro serio, oltre a quello di musicista.

Molotov era iscritto a una qualche facoltà letteraria, che in ogni caso non frequentava mai, mentre Fix, il pischello del gruppo, andava ancora al liceo. Aveva sì e no sedici anni ed era un ragazzetto smilzo, dall'aria triste e assente, con due profonde occhiaie perennemente scavate attorno agli occhi nocciola. Vestiva sempre di bianco, per quanto fuori posto suonasse la cosa in una band hard rock, e nessuno era mai riuscito a fargli cambiare look, nemmeno dietro la minaccia di sbatterlo fuori.

Ma a Korim piaceva, anche (o forse proprio) per questo: non prendeva mai in prestito dagli altri idee o modi di fare, men che meno il vestiario. Era però un ragazzo profondamente solitario e malinconico; solo quando cantava sembrava tirar fuori la sua aggressività: era una voce d'eccezione per la metal, in grado di sfumare dai toni rauchi a quelli stridenti con estrema naturalezza.

Korim lo osservava silente, mentre fuori dal finestrino il lampioni scorrevano veloci, con il loro carico di prostitute e transessuali in vendita sotto i neon sbiaditi. Fix era scosso da profondi tremori: tamburellava frenetico le dita, battendo un tempo inconsulto con la testa e con le gambe; frammenti di pensieri sconnessi si inseguivano nella sua testa in una danza furibonda.

Cocaina.

Doveva averla assunta prima del concerto e il suo corpo stava ancora cercando di smaltirla.

Pirla.

Si facevano tutti nella band, non era certo quello il problema. Ma Fix aveva un padre rompicoglioni, nonché avvocato alla corte penale. Già non vedeva di buon occhio che il figlio cantasse con loro, figuriamoci se avesse scoperto che si drogava prima dei concerti. Avanti di questo passo sarebbe toccato a Korim sistemare la faccenda grazie ai suoi poteri diabolici. Un incomodo che non aveva nessuna voglia di accollarsi.

Se il gruppo fosse finito nelle grane a causa di questa storia, non gliel'avrebbe fatta passare liscia: quella band gli serviva per campare e nessun pirletto imberbe poteva metterla a rischio impunemente.

Sentendosi osservato, Fix si voltò verso di lui, piantandogli addosso due pupille enormi. Poi sorrise, mostrando i suoi grandi denti. Un sorriso dolce, da bambino.

«Ehi Fix» attaccò Korim, deciso a dargli una bella strigliata.

Ma una sferzata si sprigionò dal suo braccio e lo percosse in tutto il corpo. Il Diavolo dilatò gli occhi, mentre la voce gli moriva in gola.

«Che c'è?» si stupì il ragazzino, non abituato a ricevere attenzioni dal solitario bassista.

Korim strinse i pugni e si sforzò di proseguire, ma una fitta atroce al braccio glielo impedì.

«No, nulla. N-niente di che» riuscì solo a balbettare. «Hai cantato meglio del solito, stasera» dissimulò.

Fix allargò ancora di più il sorriso, scoprendo le placche argentee dell' apparecchio per i denti, poi tornò a fissare vacuo oltre il finestrino, cadenzando la sua danza spettrale.

La morsa al braccio non si allentava.

Merda.

Ma checcazzo volevano quei porci dei suoi capi?! Non poteva più neanche reggere le fila dei propri affari personali?! Quella band era il suo pane quotidiano, cazzo, e lui mica era in grado di campare senza mangiare come facevano loro!

Del pirletto non gli importava una bel niente.

Voleva farsi? Prego, via libera.

Tra l'altro, per una volta, non sarebbe stata colpa sua: se il pischello si rovinava non lo avrebbe avuto sulla coscienza.

Tanto nemmeno ce l'aveva, lui, la coscienza.

"Caino! Caino! Dov'è Abele, tuo fratello?"

"Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?"

Un vecchio stralcio di una delle tante, vecchie Leggende racchiuse in uno dei tanti, vecchi Libri Sacri che gli esseri umani veneravano. Perché gli era venuta in mente proprio ora?

Scosse il capo, come a voler scacciare il pensiero, poi tornò a guardare Fix.

"Dov'è tuo fratello?"

"Sono forse il guardiano di mio fratello?"

Frottole.

Lui non era il guardiano di nessuno. E tanto meglio così.

Gli altri Eterni, Angeli o Diavoli Completi, erano i guardiani dei tanti Abele raminghi per il mondo.

Lui lavorava con i Caino.

E nessuno si sprecava a far loro da guardiano: li si spingeva e basta, poi giù, sempre più giù, ci scivolavano da soli.

Perché i Caino non avevano volontà, né stima di sé, né forza d'animo.

Però soffrivano.

Anche loro.

Fix però era Fix. Non era né Abele né Caino.

Era la voce del suo gruppo. Era un ragazzino in gamba.

L'idea di vederlo riverso su un marciapiedi a Korim proprio non piaceva, nonostante tutto.

In quel momento la macchina imboccò sgommando un ampio parcheggio sterrato; Molotov frenò, sollevando una nuvola di polvere, e arrestò la sua corsa; i quattro sbarcarono rumoreggiando.

Le insegne della discoteca illuminavano a intermittenza il piazzale, gettando ombre spettrali sui volti di tutti. Restato indietro di qualche passo, Korim si sorprese a fissare la schiena di Fix.

"Korim! Korim! Dov'è tuo fratello?"

"Dovrei forse essere il guardiano di mio fratello?"

E va bene, 'fanculo anche al Marchio!

Di scatto allungò il passo, fino a raggiungere gli altri. Lasciò che la luce verde curativa si dipanasse dalla sua mano destra (tanto i neon colorati dell'insegna avrebbero egregiamente mascherato quella tenue luminescenza), e la posò pesantemente sulla spalla del ragazzino, costringendolo a voltarsi.

«Pirla» gli sibilò rabbioso, mentre assorbiva attraverso le proprie dita parte del suo disagio mentale: «Sei fatto da far schifo. Ora vai a guardarti allo specchio e vedi di non ricomparirmi davanti finché non sarai in grado di reggere la vista della tua immagine senza dover distogliere gli occhi».

Fix dilatò le sue enormi pupille vacue, senza capire e senza ribattere.

Vide subito dopo il bassista contrarre il viso in una smorfia alla quale non seppe dare un significato, poi gli sembrò che barcollasse e avanzasse a fatica. Fu un attimo, poi questi si afferrò un braccio quasi a volerlo artigliare e si accostò a Bizarq con apparente indifferenza.

Nell'osservare quella scena surreale, la sua mente farneticante pian piano si acquietò, come se tutti i pensieri deliranti che la stavano attraversando fino ad un attimo prima fossero scivolati in un tombino.

"Senza dover distogliere gli occhi" fu l'unica frase che gli restò impressa a fuoco nel cervello.



Bizarq gettò un occhiata di sottecchi a Korim. La ferita doveva esserglisi riaperta: ne sentiva l'odore di siero e carne macerata anche attraverso il molteplice strato di vestiti che la avvolgeva. L'amico ostentava freddezza, ma le sue tempie erano costellate da goccioline di sudore.

Chissà cos'aveva combinato stavolta...

Mai che se ne stesse buono al suo posto, quel tipo. Era una faticaccia, per uno pacifico come lui, star dietro a un collega tanto starato. Per fortuna che era in gamba a inventar Tresche, o sarebbe stato molto meglio mollarlo e accodarsi a qualche Compare meno imprevedibile, parola sua.

Rumori di voci concitate giunsero alle sue orecchie, attirandone la pigra attenzione: qualcuno stava discutendo animatamente a pochi metri dall'ingresso della discoteca.

Un senso di esaltato divertimento si impadronì del buon Diavolo spazzando via ogni barlume di curiosità per le beghe del Collega.

«Ehi Korim!» lo richiamò con una gomitatina: «C'è aria di maremoto fra i buttafuori e quattro pischelli. Che dici, ci avranno mandato qui per quello?»

«Può darsi» assentì Korim.

In fondo non li mandavano mai a caso, era sempre tutto meticolosamente studiato e scritto in Trame che loro stessi ignoravano, pur essendone la manodopera.

«E allora andiamo a dar loro una bella scossa, dai! Che ne dici, li spingiamo a pestarsi di brutto? Eh? Eh?»

Korim gli sorrise, accondiscendente: «Vacci pure da solo, Bizarq. È un lavoretto facile, te la caverai benissimo. Io intanto butto un occhio all'interno, magari c'è del Lavoro anche lì».

Il povero Diavolo annuì convinto, ammirato per la sottile strategia del suo capitano, e si avviò tutto gasato verso le sue Vittime.

Korim per un attimo provò una punta di invidia per lui: completo o no, Bizarq poteva dirsi un essere realizzato, perché godeva del proprio ruolo tanto da venirne appagato.

A differenza sua.

Eppure, in principio, anche Korim si era calato con tutto se stesso nel mestiere di Tentatore. E per qualche tempo gli era pure riuscito: la decadenza ha il suo perverso fascino e non poteva negare che stare a guardarla gli aveva procurato un piacere intenso e delirante, dal quale aveva sviluppato quasi una sorta di dipendenza.

Poi era arrivata Valeel a tempestarlo di domande.

Con lei amava starsene a guardare l'alba, dopo ogni notte di Lavoro.

E alba dopo alba, domanda dopo domanda, era giunto al disgusto delle sue notti.

Tutto quello che lo aveva eccitato agli inizi ora lo riempiva di uno schifo che non sapeva come scacciare.

Avrebbe mai trovato una via di scampo?

Sospirò, fece un cenno di saluto al buttafuori e varcò la soglia.

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Capitolo 11
*** Inferno, Cerchio III ***


Inferno, Girone III

Rosso.

Era la prima cosa da cui si veniva investiti mettendo piede al Number.

Tutto era rosso: pareti, pavimenti, serramenti e arredi; un rosso così intenso da sovrastare ogni cosa. E di rosso sembrava tingersi anche il fumo che aleggiava denso nell'aria.

Poi arrivava il fracasso.

Tanto da spappolare il cervello.

Korim non riusciva a definire «musica» quella roba assordante che gli picchiava nello stomaco anziché vibrargli nel cuore.

Per assurdo, però, quel frastuono gli consentiva di isolarsi, visto che comunicare con chi aveva attorno era pressoché impossibile. E così, lì dentro, pigiato fra la folla brulicante, si ritrovava solo col suo Lavoro.

Eh già: perché dopo il rosso, il fumo e il fracasso, arrivava sovrana la folla.

Non aveva importanza se, varcato l'ingresso, ci si dirigeva al bar, alla pista, ai cessi o ai tavolini del piano di sopra: l'ordine con cui si veniva accolti dalle infernali caratteristiche del Number era sempre lo stesso e, sempre, si finiva per smarrirsi in una bolgia di corpi sudati, bevuti, sballati, appartenenti a personaggi di un fumetto dalle vignette prive di contorni.

Perché i contorni limitano. E non c'erano limiti al Number.

Perché i contorni frenano. E non c'erano freni al Number.

Perché i contorni negano. E non c'erano NO al Number X.

Ma i contorni servono anche per posarvi i piedi e trovare un equilibrio. E infatti al Number si cadeva.

Per questo lui veniva mandato lì così spesso.

Aggirato l'angolo-bar, Korim salì le scale che conducevano al piano superiore: era tempo di cercare la sua Vittima quotidiana.

Percorse il corridoio circolare che incorniciava dall'alto la pista da ballo, passando radente i tavolini stracolmi di gente che chiacchierava, festeggiava, beveva, limonava, cantava, rideva, rideva, rideva, rideva senza gioire mai.

Le solite facce. I soliti, torbidi cuori.

Nessuno degno di nota.

Un paio di ragazze lo salutarono con gridolini estasiati e lo invitarono a sedersi accanto a loro, seducenti. Non le degnò di uno sguardo e passò oltre: in quel momento non era in vena di flirtare.

Tanto le donne non poteva averle, anche quando le desiderava fino a star male. Per quanta brama gli scorresse nelle vene, il suo corpo rifiutava ogni contatto con loro. Si bloccava, come se non fosse più suo.

A volte si sentiva una marionetta.

E non poteva farci nulla.

Arrivò infine in fondo al corridoio, in quell'oasi di fronte ai cessi dove i tavolini erano più radi, e si accostò alla grande vetrata che permetteva di avere una vista d'insieme sulla pista sottostante. Con una mano posata sul vetro appannato, lasciò vagare gli occhi sui volti dei ballerini.

Al venerdì e al sabato si potevano scovare persone mai viste, ma negli altri giorni il locale era popolato quasi esclusivamente dai suoi habitué. Eppure, fra loro, doveva esserci qualcuno di speciale, o non l'avrebbero mandato lì. Qualcuno che proprio quella sera era più fragile, più esposto, più disperato o arreso del solito.

Chi?

Vide Fix, mosca bianca fra i metallari scuri, ballare seguendo un ritmo alieno che batteva solo nella sua testa.

Vide Molotov, già alla terza vodka, sbavare dietro alle curve della cubista.

C'era Radica che vendeva il fumo nel solito angolo.

Poi Cruz, il Curdo e un paio di altri spacciatori esperti; quelli non doveva degnarli neppure di uno sguardo: erano tutti sotto la responsabilità del Diavolo Custode del loro boss. Gli obiettivi dei miseri Tentatori come lui erano quelli che non contavano niente in nessun giro, se non come polli da spennare.

Come Samantha, diciott'anni, bella. Bellissima.

Una bellezza dolce, che gli abiti sexy che indossava non riuscivano ad involgarire del tutto. Ballava e rideva con Tim, fighetto palestrato di buona famiglia che scappava al Number in Mercedes per sentirsi un ribelle. Lei doveva essere già al quarto shot, a giudicare da quanto sculettava attorno a uno che, notoriamente, detestava.

Marty, la sua migliore amica, se ne stava ai seggiolini del bar con il suo boy di turno, un fancazzista senza arte né parte se non quella di saper allungare a dovere le mani sulle curve del gentil sesso. Comunque erano ben tre settimane che stavano insieme e sembravano resistere: un vero record.

Accanto alla coppia, Cubito se ne stava semisdraiato sul bancone del bar, già perso nel mondo dei sogni; il suo compare Snake, invece, ballava come un indemoniato al centro della pista: chissà cosa s'era calato...

Circa un anno prima, rientrando fatto una domenica mattina dopo una nottata brava, Cubito si era schiantato contro un paracarro. Ne era uscito illeso. Accanto a lui c'era Cecilia, la sua ragazza: una lamiera le aveva trapassato il ventre. Morta sul colpo. Paolino, il fratello di lei, seduto dietro, aveva picchiato la testa e da allora non parlava più; se ne stava tutto il giorno su una sedia a rotelle, guardando fuori dalla finestra e cantilenando una nenia incomprensibile. Da quel giorno il loro padre aveva messo su trentacinque chili, e peregrinava ogni giorno fra psichiatri e neurologi, sperando che gli restituissero almeno il figlio sopravvissuto.

Snake, che per tutta quella fatidica serata aveva fatto bere Cubito e gli aveva pure procurato la roba, s'era solo rotto una gamba e tre costole, ma s'era rimesso in piedi in due mesi.

Almeno nel corpo.

Il quinto passeggero della macchina era Korim. Ma nessuno lo era mai venuto a sapere.

Un conato di vomito gli salì in gola. Cercò di scacciare quel pensiero: ci voleva una forza immane per andare avanti con due vite sulla coscienza, e né Cubito né Snake erano forti. Non lo erano mai stati.

E lui?

Era forte?

Era in piedi, questo sì.

O quasi.

Ma non sapeva se fosse veramente sua quella forza che non lo faceva crollare.

Scosse la testa e tornò a concentrarsi sugli avventori della discoteca. Guardandoli semplicemente in faccia non avrebbe mai scovato la sua Vittima. Così socchiuse gli occhi e guardò Oltre i corpi stravolti che ansimavano nella pista.

Vide energie dirompenti seppellite sotto il liquame della noia.

Come sempre.

Vide una fame insaziabile di senso, soffocata dall'anoressia del vivere.

Come sempre.

Vide il vuoto nella mente fatta di Snake. Come sempre.

Vide la paura di affrontare la vita nel petto squassato di Fix. Come sempre.

Vide la disillusione negli occhi di Marty.

E vide una crepa nel cuore di Samantha.

Eccola! Era lei!

Korim si mosse rapidamente, percorrendo a ritroso il corridoio e le scale. Attraversò la pista, facendosi strada a spallate fra i ballerini, finché non fu accanto alla ragazza. L'abbordò senza complimenti e, sottraendola al suo precedente cavaliere, la trascinò con sé nei vortici della danza.

Lei lo guardava con occhi vacui e si muoveva provocante. Rideva. Rideva per ogni nonnulla, ma solo con le labbra: il suo cuore non stava affatto ridendo, trapassato com'era da una crepa suppurante.

Ciò che trasudava da essa era proprio ciò che la ragazza stava disperatamente cercando di non guardare. Se glielo avesse messo davanti sarebbe crollata in un attimo.

Un Lavoretto facile.

Il Diavolo sorrise a Samantha, la prese per mano e la guidò al bancone del bar, dove ordinò due waikiki con pera.

«Sembri triste» le disse soltanto.

Lei si strusciò sensuale contro il suo petto: «Tu mi capisci, sei un vero amico» biascicò disegnando arabeschi maliziosi sui suoi pettorali.

Il barista servì loro i cocktail. Lei prese il suo bicchiere fra le dita con movenze studiate e ne morse provocante il bordo, tenendo gli occhi liquidi fissi in quelli di lui.

Korim sorrise: «Dai, tutto d'un fiato!» la esortò dolcemente.

Lei ubbidì docile.

Rhum.

Pera.

E rise.

E raccontò con voce impastata la solita storia di sempre, del primo ragazzo che aveva avuto, che lei amava tanto e che l'aveva lasciata non appena era riuscito a farsi vendere la sua verginità. E raccontò, come sempre, che da allora giocava a far impazzire gli uomini per il gusto di lasciarli a bocca asciutta.

E rise.

E raccontò che tanti le morivano dietro, ma lei li lasciava macerare e non si concedeva a nessuno.

E rise.

E pianse, perché non era vero.

Korim lasciò che bevesse anche il suo waikiki e ridesse ancora.

«E Graffio?» le chiese soltanto.

Graffio era il miglior DJ del Number. E a Samantha voleva bene, sul serio.

«È uno stronzo» replicò lei con voce rotta. E scoppiò in singhiozzi.

«Shhhht» le sussurrò Korim dolcemente, posandole un dito sulle labbra. «Tu sei bellissima e non devi soffrire per lui. Divertiti stasera, senza pensare».

La prese per mano e la condusse di nuovo a ballare.

Lei barcollava.

E rideva.

E piangeva.

Ma si lasciava guidare docile.

Tre giri di danza e fu di nuovo fra le braccia di un arrapato Tim. Non si reggeva nemmeno in piedi, ma rideva.

Korim tornò ad appoggiarsi al bancone del bar e restò a vegliarli da lontano, finché il ragazzo non se la trascinò verso i cessi.

Tutto da copione.

Sospirò e ordinò un margarida al limone.

Samantha e quelle come lei... Non sembravano eccitarsi all'idea di un rapporto, o di fronte all'avvenenza del proprio corteggiatore. Sembrava l'idea stessa di buttarsi via a farle fremere.

Il fascino della decadenza?

Forse.

Ma non solo.

Sapeva che questa era una verità, infatti la sfruttava da anni per intessere le sue Trame. Ma non la comprendeva.

Non fino in fondo.

I Diavoli avevano dipinto di nero la propria sessualità, traendone tutto il marcio possibile. Gli Angeli l'avevano candeggiata a tal punto da annullarla.

Negli esseri umani mani il bianco e il nero giocavano invece a rincorrersi.

E lui, che viveva a cavallo fra l'Inferno e il Mondo degli uomini, per anni non aveva fatto altro che far stemperare in grigio questi due estremi, per natura conviventi nel cuore di tutte le sue Vittime.

Ma doveva esserci qualcosa che andava oltre.

Ne era sicuro.

Perché, se solo avesse potuto fare l'amore col suo Angelo bruno, tanti anni prima, non sarebbe stato bianco. Non sarebbe stato nero. Ma non sarebbe stato nemmeno grigio.

Sarebbe stata un'esplosione di colori, ne era certo.

Fissò mesto la porta dei cessi: lui non aveva mai potuto nemmeno sfiorare la persona che aveva tanto amato.

All'improvviso, sentì qualcuno posargli una mano sulla spalla. Non fece in tempo a voltarsi che gli arrivò in faccia l'intero contenuto di un bicchiere da cocktail.

«Macheccazz...» cercò di inveire mentre, semiaccecato, cercava di pulirsi col dorso della mano.

«Stronzo!» gli ringhiò contro un'inviperita Marty. «È solo colpa tua!»

«Cosa?!» balbettò incredulo: era la prima volta che qualcuno lo accusava di qualcosa.

La ragazza gli stava quasi addosso, fissandolo con ira.

«Tu, bastardo, l'hai fatta bere e poi l'hai lasciata nelle mani di quel deficiente! Vai subito a riprenderla!» ordinò.

«Che?! E perché dovrei?»

Merda. Doveva proprio aver Lavorato da cani per farsi beccare tanto spudoratamente.

E da un'oca come Marty, per giunta.

«Sai cosa le farà, vero?» incalzò la ragazzetta, mentre il barista serviva a Korim la sua ordinazione.

«Ovvio. E con questo?»

La ragazza, esasperata dai suoi temporeggiamenti, afferrò il margarida appena servito e glielo schiaffò in faccia, velocissima.

«Ma sei pazza?!» urlò il Diavolo, sputacchiando.

«Lei è la mia migliore amica! VALLA A RIPRENDERE!» gridò lei per tutta risposta, afferrandolo per le spalle.

«Vacci tu» replicò lui, fermo, fissandola dritta in viso: «sta nel cesso delle donne».

Lei abbassò gli occhi e lasciò la presa: «Non posso, non mi ascolterebbe» ammise avvilita.

«Perché?»

«Non lo so. Son tre mesi che fa così. Fino a qualche tempo fa, io e lei ci divertivamo a far ammattire i ragazzi al sabato sera: era solo un gioco. Poi lei ha conosciuto uno dei DJ, Graffio; è un tipo OK, se la cava in tante cose ed è anche profondo, credo. Insomma, non stavano insieme, ma si piacevano. Solo che, come due pirla, non se lo sono mai detto. Lei lo aiutava anche a studiare, fai un po' te...»

Korim si limitò ad aggrottare un sopracciglio. In realtà conosceva bene questa storia.

Marty continuò: «Poi non so cosa sia successo. Lui aveva preparato una compilation speciale, da mettere su per la festa di qualche mese fa, ti ricordi? Voleva dedicarla a lei. Forse voleva dichiararsi così, invitandola a ballare davanti a tutto il suo pubblico, però non ho capito com'è andata a finire, non ci stavo già più di testa quella sera. So soltanto che dal giorno dopo lei non ha fatto che bere. Beveva anche prima, ma non così: prima era un gioco per divertirsi di più, adesso invece esce solo per quello. Beve e poi va con il primo che capita e io non riesco a fermarla. Poi viene da me e piange, senza dirmi il perché».

«Lui?» chiese Korim, fissando il fondo vuoto del suo bicchiere.

«Graffio?... Non ne parla. Né di lei né della sera della dedica.»

La ragazza fissò i suoi occhioni decisi su di lui: «Vai a prenderla, ti prego».

«Non hai paura che io tolga di mezzo quel fighetto per completarne l'opera?»

«No» fu la secca risposta della brunetta.

«E perché?»

Marty fece spallucce: «Tu sei onesto».

Il Diavolo trattenne a stento una risata.

Assurdo!

La gente aveva veramente una percezione schizoide di lui, roba da pazzi.

D'un tratto, però, rivide il volto pallido di Drande rivolgergli il suo grazie. E ricordò gli occhi di un Angelo bruno che lo guardavano tanti anni prima.

«E sia» rispose a Marty, mentre il braccio tornava a bruciare fastidiosamente.

Si impose di ignorarlo e si diresse verso i cessi.

Per inciso, lui sapeva cos'era successo quella sera.

Graffio aveva avviato la fantasia di sua creazione, lasciandola alle cure del DJ di supporto, ed era sceso in pista, fra la folla.

Cercava lei.

L'aveva osservata per tutta la serata dall'alto della sua postazione, attendendo trepidante quel momento; l'aveva guardata ridere, bere e ballare in compagnia di tanti altri, sognando il momento in cui sarebbe stato lui ad averla tra le braccia e a gustare il suo dolce sorriso.

Ma, ora che era sceso, non riusciva a trovarla. Non era al bar, né sulla pista, né ai tavoli. E, quel che è peggio, non vedeva in giro nemmeno l'ultimo porco che ci stava provando con lei.

Nervoso e con la mente svuotata, se ne stava in piedi al centro della pista guardandosi attorno sperduto, mentre la coreografia musicale della sua dedica avanzava inesorabile.

Solo allora Korim gli si era avvicinato.

«Se cerchi Sammy, sta nella toilette delle donne».

Il DJ vi si era diretto subito, senza neanche ringraziarlo. E, in fondo, di grazie non ne meritava davvero, visto che ce l'aveva spedita lui: gli era costato quasi due mesi di estenuante Lavoro, ma alla fine anche la dolce Samantha gli aveva ceduto.

Graffio aveva varcato trepidante la soglia del bagno ed era rimasto lì, raggelato.

Sospiri. Profondi, gutturali.

La mano del DJ si era stretta attorno alla maniglia, tremante: era lei.

Dietro la porta di una latrina con uno sconosciuto.

Sospirava. Sospirava.

Gemeva.

Vide da sotto la porta le caviglie delicate e i piedini della ragazza che amava, e le gambe di un altro, fasciate da calzoni troppo flosci per essere ancora retti in vita.

Un gemito più profondo.

Graffio era indietreggiato e aveva richiuso la porta, senza far rumore.

Con gli occhi vuoti si era diretto al bar e aveva chiesto una bottiglia di Jack Daniel's.

Poi se n'era uscito fuori, nella notte putrida, mentre le ultime note della sua dedica sfumavano nell'aria.

Aveva pianto.

Lo aveva ritrovato Sammy, qualche ora dopo: era ubriaco fradicio.

A lei doleva la testa e le veniva da piangere, ma lo aveva raccolto da terra e l'aveva portato a casa.

Quando era finalmente riuscita a sdraiarlo sul divano, lui aveva aperto gli occhi e l'aveva guardata.

Annebbiato, ferito.

Deluso.

Duro.

«Sparisci, troia» aveva biascicato soltanto.

E lei se n'era andata, senza dir nulla.

Aveva vomitato e aveva pianto.

Da allora, lui non aveva più toccato un alcolico né una pasticca. Affrontava ogni suo grigio giorno con la fredda lucidità del disincanto.

Lei invece esorcizzava l'accaduto ripetendo ogni notte lo stesso errore di quella sera.

Uno dei Lavori meglio riusciti di Korim, Bizarq non si stancava mai di ripeterglielo.

Il Diavolo contrasse il viso in un ghigno. Sì, era il suo Lavoro migliore e ora lo avrebbe distrutto!

D'improvviso l'idea lo inebriò, tanto da farlo sentire onnipotente.

Spinse la porta ed entrò nel cesso.

Luci al neon fredde, piastrelle incrostate di calcare e odore di piscio vecchio, fumo e fondotinta.

Sentì languidi sospiri.

Sentì l'odore dell'eccitazione lambirgli le narici, ma era arrivato in tempo: sembrava che Tim se la stesse prendendo comoda.

Fece per muoversi verso la coppia, ma il suo corpo non ne volle sapere. Braccia e gambe di colpo si fecero di piombo. Inerti, pesanti.

Troppo.

Riprovò ancora e poi ancora, ma non c'era verso di avanzare. Poteva indietreggiare, ma non avvicinarsi a quei due idioti nel pisciatoio.

Merda!

Non poteva aggiustare le cose.

Non poteva aiutare Sammy. Non poteva fare niente per nessuno!

Una rabbia atavica lo pervase: avrebbe spaccato il Cielo, o perlomeno quello schifo di cesso, se solo le sue mani non si fossero rifiutate di obbedirgli! Per non parlare del braccio, che sembrava stesse andando a fuoco.

Non essere padroni delle proprie azioni era la cosa più frustrante del mondo!

D'un tratto sentì Sammy chiamare il nome di Graffio, gemente. Nell'estasi dei suoi sogni sballati, c'era ancora quel ragazzo.

Si rese allora conto che, se voleva che le cose si aggiustassero, non toccava a lui fermare la ragazza.

Uscì come una furia dai cessi e sparì fra la folla. Letteralmente.

Riapparve meno di un secondo dopo nella saletta dei disc-jockey, proprio alle spalle di Graffio.

«Korim?! Come cazzo hai fatto a entrare?!» si stupì qualcuno dei presenti, ma il Diavolo non vi badò. Afferrò Graffio per un braccio e lo costrinse ad alzarsi dalla sua postazione.

«Muoviti!» sibilò perentorio, e se lo trascinò a rotta di collo giù per le scale.

«Cosa cavolo vuoi?! Dove mi stai portando?!» sbraitava l'altro.

«Non urlarmi nelle orecchie!» replicò lui per tutta risposta.

Il braccio gli faceva male da morire, tanto da togliergli il respiro ed offuscargli la vista. Gli sembrava che il roveto stesse avvinghiando le proprie spire sulle sue ossa.

Doveva arrivare a quel cesso il più rapidamente possibile.

Inciampò, ma si mantenne in piedi.

«Ma che cazzo hai? Sei ubriaco?» si stupì Graffio, abituato a vedere sempre un Korim lucido e padrone di ogni situazione.

Il Diavolo non fu in grado di replicare: stava adoperando tutto se stesso per non svenire dal dolore. Avanzava febbricitante, come in un incubo.

La porta! La porta dei bagni, rossa, lucida. Era vicina.

Ancora uno sforzo! Ancora... uno... sforzo!

Arrivò infine ad afferrarne la maniglia, ansante.

«Vai a riprendere la tua donna!» ordinò al DJ, prima di spalancare la porta e scaraventarcelo dentro, poi si accasciò contro il muro reggendosi il braccio maledetto e chiuse gli occhi.

Una trepidazione nuova lo invase: aveva aggiustato le cose.

Per una volta, anziché distruggerle, aveva aggiustato le cose!

Sentiva tanto male che i suoi occhi lacrimavano, ma ne era valsa la pena. Gli sembrava di poter respirare per la prima volta, nonostante il dolore, come se una pesante cappa di liquame fosse scivolata via dai suoi polmoni.

Ma fu solo un effimero istante.

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Capitolo 12
*** Inferno, Cerchio VI ***


Inferno, Cerchio IV

Camminava da almeno un'ora.

Ormai dovevano essere le quattro passate.

Le sue ali fibrillavano impazzite, a ritmo con il suo animo in subbuglio, impedendogli di librasi in volo. Una pioggerella densa e viscida gli aveva inzuppato i vestiti, che pesavano addosso come piombo fuso. L'aria era gonfia di umidità e inquinamento: l'odore del benzene sputacchiato dai motori delle rare automobili si era impregnato fra i suoi ricci ribelli, che ricadevano penzoloni sul viso, dondolando al passo con la sua andatura stanca. Avanzava lungo il guardrail della tangenziale, come in trance. L'unica cosa che gli importava era lasciarsi il Number alle spalle.

Un passo. Un altro passo. Senza pensare.

Al Number. A Graffio. A Sammy. A Fix. A tutto quel dannato casino.

Non voleva pensarci.

Un passo. Un altro. Un altro ancora.

Vuoto nella testa.

Nero. Silenzio.

Ecco.

Aveva abbandonato la grande arteria autostradale e ora vagava fra scialbi casermoni di periferia.

Un passo. Un altro ancora.

Il braccio gli faceva un male boia.

Porca miseria.

Chissà come stavano ridendo quei bastardi dei suoi Gerarchi.

Avrebbe voluto vomitare.

Un passo. Un altro.

D'un tratto si fermò, stupito: c'era un campo nomadi davanti a lui.

Sembrava il campo delle due ragazze, quello che aveva intravisto quella mattina poco prima di venir ingoiato dalle Nebbie.

Com'era arrivato fin lì?! Non era dall'altra parte della città? Aveva forse attraversato un Portale senza rendersene conto? O anche questo era uno scherzo crudele architettato dalla Gerarchia?

Restò per un attimo ritto e immobile a soppesare le sagome delle roulottes addormentate.

Poi una folata di aria umida si levò, quasi sospingendolo ad addentrasi nel campo.

Era solo il vento, o qualcuno stava giocando con la sua emotività in subbuglio?

Bah. 'Fanculo.

In fondo non ce l'aveva, un posto migliore dove andare.

Si avventurò fra i carrozzoni, vagando per lo sterrato.

Tutto era silenzioso e immoto.

Acuì il suo olfatto, ma non avvertì sentore di altri Diavoli nelle vicinanze. Non c'era neppure traccia del recente passaggio di Angeli: evidentemente anche i Piccioni Aureolati preferivano pedalare al largo da certe situazioni. Ma, mescolato al fetore di tutti gli umani che lì cucinavano, pisciavano e alitavano, c'era un altro odore. Korim non avrebbe saputo descriverlo: ricordava l'elettricità di cui si carica l'atmosfera prima di un temporale, ma anche lo spirare del vento sottile in un mattino terso.

Una cosa era certa: non era un odore appartenente al Mondo Terreno, quindi doveva essere legato in qualche modo al suo Mondo, anche se non l'aveva mai avvertito in precedenza.

Di chi era?

Bah. Che importava, in fondo?

Chiunque avesse lasciato quella scia di profumo, ormai era altrove già da un bel pezzo.

Si infilò le mani in tasca e avanzò rasente i carrozzoni, cercando l'odore di Drande.

Senza successo.

Merda.

Forse non era lì che vivevano le due ragazze. Forse stava solo confondendo un campo rom con un altro.

Stava per andarsene, quando, ai margini di quello spiazzo desolato, scorse una roulotte solitaria. Più vecchia e più cadente delle altre, dava l'idea di essere stata spinta a calci fuori dal cerchio delle sue sorelle ed essere rimasta lì, a guardarle da lontano.

C'erano i vestiti di Amina stesi lì fuori.

Un entusiasmo infantile riempì l'animo di Korim, che si lanciò di corsa in quella direzione. Giunto a qualche metro di distanza dalla roulotte, però, dovette arrestarsi: una sorta di muro invisibile correva tutto attorno al carrozzone, sbarrandogli la strada.

Pensò a una qualche Sortilegio, ma subito si rese conto di non avere di fronte altro che l'aura delle due sorelle.

Non era più forte del solito, solo più ordinata, al punto da generare una sorta di barriera: invece di gorghi e vortici dirompenti, ora sembrava creare una gigantesca bolla.

Forse, nell'incoscienza del sonno, i poteri delle due ragazze trovavano spontaneamente una propria coerenza, armonizzandosi.

Incuriosito, provò a toccare quella sfera invisibile e scoprì che non veniva respinto, a patto che vi si avvicinasse gentilmente. Se tentava di forzarla o di sfondarla con impeto, la bolla diventava una sorta di muro invalicabile, ma se se vi si accostava con rispetto essa lo lasciava docilmente passare, limitandosi a solleticarlo un po'.

Stupito e ammirato di fronte a quel fenomeno, si fece avanti lentamente, sino ad immergervisi del tutto.

All'interno, pace.

Disarmante, assordante pace.

Tutti i Mondi erano tagliati fuori.

Tutti.

Non aveva mai provato una tale serenità in vita sua. Non così totalizzante, mai.

Dentro quella polla artificiale, sottratta allo scorrere dello Spazio-Tempo dai poteri inconsci delle due Streghe, la rabbia, la delusione, lo schifo e lo sconforto che gli si agitavano dentro da sempre sembrarono stemperarsi e colar via dal suo cuore.

Mosse qualche passo e si rese conto che il suo corpo era stranamente leggero, come se la forza di gravità fosse ridotta.

Era una sensazione bellissima.

Avanzò fino a filtrare attraverso le pareti della roulotte.

All'interno c'era odore di acqua e sapone, misto a quello di canfora e di vecchie cianfrusaglie consunte.

Una cucina sgangherata, un tavolino, una stufetta elettrica. E nient'altro, tranne due brande con il loro carico umano profondamente addormentato.

Amina sognava, beatamente appallottolata nelle coperte. Il suo respiro era profondo, come quello di un animaletto caduto in letargo.

Korim restò a guardarla a lungo. Un po' troppo a lungo, perché l'idea di guardare verso l'altra branda lo metteva a disagio. Aveva paura che Drande percepisse il suo sguardo, che si svegliasse. Aveva paura di trovarsi con gli occhi fissi nei suoi.

Poi la giovane donna gemette nel sonno e lui non poté fare a meno di voltarsi.

Lasciò indugiare lo sguardo sui tratti delicati del suo viso, restando ad ascoltarne il respiro come un ebete.

Era bellissima.

Fu solo dopo qualche tempo che si accorse delle strie di sale che solcavano le sue gote.

Lacrime?

Aveva pianto?

Allungò d'istinto la mano, come a volerle asciugare via, ma subito si ritrasse: lui non poteva asciugare le lacrime di Drande.

E non solo perché la sua mano non gli avrebbe obbedito e probabilmente si sarebbe bloccata a mezz'aria. E non solo perché la sua piaga si sarebbe approfondita. Non poteva perché, di sicuro, con quel tocco le avrebbe fatto del male.

Come a Graffio, a Fix, a Sammy e a tutti gli altri.

Deglutì, ripensando al casino di quella sera.

Merda.

Era andato tutto a catafascio.

E lui che si era illuso di essere in grado di aggiustare le cose!

Dentro quel cesso Graffio aveva completamente perso la testa e aveva iniziato a gonfiare Tim di botte, senza pietà. E per quante ore il damerino palestrato dedicasse ogni giorno al fitness, contro il DJ infuriato sembrava un povero lombrico indifeso.

Erano intervenuti i buttafuori, ma Graffio non si era fermato neppure quando li avevano sbattuti tutti nel parcheggio.

Sammy urlava e piangeva fra le braccia di Marty, ripetendo: «Basta! Basta!» con voce rotta, ma più lei gridava di smetterla, più Graffio sembrava infuocarsi.

Alla fine era arrivata una volante della polizia, e il DJ aveva pestato pure gli agenti. Avevano dovuto sudare sette camicie per fermarlo; arrestato per percosse a danno di terzi e offese a pubblico ufficiale, ne avrebbe avuto per mesi, e poteva anche sognarsi i domiciliari.

Sammy era svenuta, vuoi per l'alcool che aveva in corpo, vuoi per la disperazione, e Tim era stato portato via in ambulanza: codice rosso.

Bizarq era in estasi: non faceva che complimentarsi con lui e rivolgergli occhiate adoranti per l'eccellente Lavoro svolto e lui, di fronte al collega, aveva anche avuto la faccia tosta di fingersi gongolante per il disastro che aveva provocato.

Era stata un'occhiataccia di Marty a fargli crollare la maschera. Due occhi disincantati, sprezzanti. E lui si era sentito da schifo.

Aveva piantato Bizarq in asso per tornarsene in quel cesso dove tutto era cominciato, con l'intenzione di guardarsi allo specchio, per vedere in faccia quella merda di «io» che aveva giurato di difendere ad ogni costo, invece in quel bagno si era trovato di fronte Fix: con le mani appoggiate al lavandino, si dondolava avanti e indietro, cantilenando una nenia senza senso alla sua immagine riflessa.

Sentendo entrare qualcuno, il ragazzino si era voltato lentamente ed era rimasto a fissarlo con occhi vacui. Gli ci era voluto più di un minuto per riconoscere l'amico bassista in quella figura ombrosa. Poi aveva sorriso, strabuzzando gli occhi.

«Korim... Sto male...» aveva proferito in un soffio, prima di accasciarsi.

Il Diavolo l'aveva afferrato appena in tempo, prima che cadesse a terra. E con la nausea nel cuore se l'era caricato in spalla e, in silenzio, l'aveva portato via.

L'aveva condotto fino a casa, tenendoselo in groppa come un sacco di patate, mentre il Marchio gli corrodeva il braccio ancor più in profondità. Puzzava di gremo da far vomitare.

Fix gli tornava utile, forse per questo i suoi Gerarchi gli avevano concesso di toccarlo e aiutarlo, ma il prezzo per Korim era stato davvero salato: le sue carni erano macerate al punto che, fra i loro brandelli, adesso si potevano vedere le ossa.

Aveva citofonato nel cuore della notte ai genitori del ragazzo e se n'era rimasto impassibile a sorbirsi i loro urli, il loro sdegno, la loro incredula disperazione nel vedersi recapitare il figlio conciato in quel modo.

Cretini.

Non se n'erano mai accorti che il loro «bambino» si faceva ?

Ma il Tentatore non se l'era sentita di replicare: aveva incassato in asettico silenzio persino quando il padre di Fix aveva incolpato la band di avergli rovinato il figlio e aveva giurato che non l'avrebbe più mandato a suonare con loro, a costo di ammanettarlo al letto.

«Buonasera» aveva risposto soltanto, voltando loro le spalle e rendendosi invisibile senza ulteriori cerimonie.

Che pensassero quel che gli pareva, di lui e del loro figlio.

Non era colpa sua se Fix si drogava, ma che importava?

Tanto valeva assumersela: in una sera aveva provato ad aiutare Graffio, ottenendo di farlo finire in galera, e Fix, con il risultato di vedere sfasciata la band grazie alla quale si manteneva e che per il ragazzino era una delle poche ragioni per cui valeva la pena vivere.

Ottimo. Meraviglioso.

Ora doveva anche trovarsi un nuovo lavoro.

Sospirò: decisamente non era tagliato per fare l'Angelo Custode.

Aveva traviato la gente per anni senza che nessuno mai lo incolpasse di nulla e, ora che aveva provato ad aiutare qualcuno, si era sentito dare anche colpe che non aveva.

Evidentemente con la genetica non si discute: era nato Diavolo e Diavolo sarebbe rimasto per l'Eternità.

Evviva.

Si alzò, gettò un ultimo sguardo al volto addormentato di Drande e levitò stancamente, filtrando attraverso il soffitto sgangherato della roulotte. Ci si accasciò sopra e restò lì, rannicchiato, ad osservare la notte.

Folate d'aria gonfia di vapore acqueo giocavano con le foglie morte che tappezzavano il suolo. Tutt'intorno aleggiava il silenzio falso della città, rotto solo dal rombo di qualche motore lontano. La coltre di nubi andava diradandosi e squarci di cielo si aprivano a tratti, con il loro carico di stelle tremolanti.

Korim si tolse la giacca e scoprì la sua piaga: trasudava un liquame giallognolo che colava fino a impastargli le dita.

Disgustosa.

La leccò e ne succhiò via gli umori, fasciandola poi alla bell'e meglio con la bandana che portava al collo.

Sputò più volte per scacciare il saporaccio che gli era rimasto in bocca, ma invano.

Si arrese allora a frugare nella tasca dei jeans per estrarne un pacchetto di MS, scroccato a Batch due sere prima. Se ne accese una, poi un'altra e un'altra ancora.

Quando il pacchetto fu terminato, cominciava ad albeggiare.

Il saporaccio nella sua bocca non si era lavato via, ma almeno era riuscito a non pensare.

Sputò per terra, sopra il mucchietto dei mozziconi, e si alzò, scendendo dal tetto: era ora di lasciare quella bolla incantata e affrontare il giorno.

E con esso i suoi rimorsi.

Calciò un sasso, si infilò le mani in tasca e si allontanò di qualche passo, con lo sguardo fisso al suolo.

In quella, una figura corpulenta emerse dal gruppo delle altre roulottes; nonostante fosse ancora buio, camminava a grandi falcate e per poco non travolse il nostro Diavolo, che, d'altronde, era invisibile ad occhio umano.

Spintonato dall'energumeno proprio sul braccio ferito, Korim imprecò e fu sul punto di giocargli qualche brutto tiro, quando qualcosa lo fece fermare: l'odore.

Quel tizio trasudava un fetore che non gli piaceva affatto.

Era eccitazione?

Sì, ma montata in una schiuma marcescente.

L'uomo si fermò a pisciare contro il palo che reggeva i panni stesi delle ragazze, poi entrò nella loro roulotte senza nemmeno bussare.

A Korim si gelò il sangue nelle vene.

Vide la bolla creata dall'aura di Drande e Amina dissolversi in un istante. Svegliandole, quel grosso bufalo aveva spezzato senza riguardo il meraviglioso Incantesimo creato dal loro sonno. Il Diavolo vide le loro auree separarsi e tornare a vorticare spasmodiche e incontrollate, ma fu solo per un attimo: lentamente ma inesorabilmente, i gorghi andarono affievolendosi fino a sparire, come risucchiati da un buco nero.

Sentiva un parlottare sommesso e Amina che piangeva piano.

Che cazzo stava succedendo?!

Corse indietro. Doveva sapere.

Sempre mantenendosi invisibile, filtrò all'interno della vecchia roulotte, dove fino a un attimo prima regnava sovrana la più profonda delle armonie. E annusò solo disperazione.

Drande era accanto al tavolo, con lo scimmione che la teneva per un braccio: aveva i capelli sciolti ed era pallida, con gli occhi scavati dallo sconforto. Sul tavolo erano sparsi quattro spiccioli e un barattolo rovesciato. Amina, in un cantuccio, tirava su col naso e singhiozzava.

«Tutto qui?!» ringhiava l'uomo. «Questo denaro non basta!»

«L-lo so, Ian...» balbettò Drande, senza guardarlo in faccia. «Oggi te ne procurerò ancora. Dammi tempo fino a stasera».

«E cosa credi di racimolare in un giorno?!» la rimbrottò il suo aguzzino, scuotendola violentemente. «Esigo milioni io, bellezza, non spiccioli! Nessuno vuole La Strega, qui: sono io che convinco tutti gli altri ad accettarvi al campo, ma devi pagarmelo, questo servizio!»

«Ti pagherò Ian. Lasciami andare, vado subito a procurarmi altri soldi».

«TU DOVEVI AVERLI ADESSO! Questi erano i patti!»

Amina si mise a piangere forte. Il bisonte la zittì con un calcio, poi tornò a rivolgersi alla sorella maggiore.

«Tu mi devi tutto, non solo il posto al campo, puttanella. Chi si è fatto passare come tutore della Strega, dopo la morte di tua madre e di quel mostro della tua bisnonna? IO! Sei minorenne, Drande: se non ci fossi stato io, gli assistenti sociali avrebbero portato via la Strega quando vostra madre è crepata. Come hanno fatto col piccolo Eduard quando è morto suo padre, e come hanno fatto con Marcu e Maria solo perché i loro genitori non avevano ancora diciotto anni. Se sei ancora insieme a tua sorella, principessa, è solo per merito mio, perché io ci ho messo la mia faccia e la mia dignità con quelli del Comune. Ma questa faccia ha un prezzo salato!».

«Lo so, Ian, lo so. Troverò un lavoro, ti darò tutto il mio stipendio, te lo giuro...» balbettava Drande.

«Lavoro?! E chi vuoi che dia un lavoro a una come te?! Io voglio essere pagato adesso! ADESSO, CHIARO?!» tuonò l'uomo: «Fai uscire la Strega».

Gli occhi di Drande si dilatarono dalla disperazione, ma la sua voce ubbidì docile: «Amina, va' fuori a giocare, da brava».

La bambina ubbidì e corse via a piccoli passi veloci.

L'uomo, senza perdere un istante, sbatté violentemente Drande contro il muro del vano-cucina.

Lei voltò il viso di lato. Piangeva lacrime silenziose.

Ian emanava un odore così aspro da far piangere gli occhi. Un odore che Korim conosceva bene: era parte del suo Mestiere.

Avrebbe voluto fermare il tempo. Fermare quella scena.

Invece era raggelato.

Lo vedeva e non ci credeva.

Per quante volte avesse lui stesso creato i presupposti per un quadro simile e poi fosse rimasto a vegliarlo, ora che tutto si svolgeva senza il suo zampino gli sembrava di vivere in un incubo.

L'aura potente delle due ragazze era sparita, ingoiata dalla loro sottomissione. E il suo corpo di Diavolo non si muoveva, era come zavorrato.

Provò a sollevare una mano: niente.

Provò con più forza, forse si schiodava...

No. Niente.

E poi, anche se si fosse potuto muovere, cosa avrebbe fatto?

Presumibilmente un mare di guai.

L'odore dell'eccitazione del bestione era montato a livelli nauseanti. Fermentava come un mare di liquami in putrefazione. La ragazza, completamente bloccata sotto il suo peso, piangeva senza far rumore.

Quando la ruvida e nodosa mano dell'uomo corse a sollevarle la gonna, il Diavolo indietreggiò, ad occhi sbarrati, fino a filtrare fuori dall'abitacolo, che ora ondeggiava ritmico.

Non voleva guardare.

Stavolta almeno, non voleva guardare.

La stavano violentando.

Stavano violentando quella ragazzetta riservata che tanto l'aveva fatto sentire vivo, e lui non poteva farci niente.

E lui non riusciva a farci niente.

E lui, forse, era solo un codardo che era scappato senza neanche provare sul serio a fare qualcosa.

Non riusciva a respirare.

In compenso, però, il braccio non gli faceva più male.

Amina se ne stava rannicchiata pochi passi più in là, con le mani a tapparsi le orecchie. Fissava il suolo come in trance e si dondolava avanti e indietro, canticchiando la ninna nanna di Drande.

Per non vedere. Per non sentire. Per fingere che non stesse accadendo.

Perché Drande non urlava? Perché non si divincolava? Perché non chiamava aiuto?

Dov'erano tutti? Possibile che dormissero ancora? Perché nessuno dava una mano a quelle due?

Dov'era?!

Dov'era l'eroe buono che arriva in tutti i film a sventare una situazione disperata?

Mica poteva farlo lui, l'eroe. Non ci era tagliato!

E dove cazzo erano gli Angeli?!

Ce li aveva sempre fra i piedi, porca miseria, possibile che adesso che c'era bisogno di loro non ce ne fosse uno, uno soltanto che si trovasse a passare nei paraggi?!

Merda. MERDA!

Korim proruppe in un grido gutturale e pestò un pugno violentissimo sulla carcassa della roulotte.

Amina sollevò di scatto il capo nella sua direzione e il suo sguardo vitreo lo trapassò come una lama.

Il Diavolo avrebbe voluto non essere mai nato, in quel momento, con gli occhi accusatori della piccola puntati addosso.

«Non è come credi!» iniziò a giustificarsi concitatamente. «Non l'ho spinto io, quel porco! Io volevo fermarlo ma non...»

Si interruppe bruscamente, non tanto per l'insensatezza della sua arringa difensiva, quanto perché si rese conto che, in verità, la piccola non si era affatto accorta di lui.

Non lo vedeva, non lo sentiva, non ne percepiva la presenza.

Non era su Korim che i suoi occhioni erano puntati: semplicemente, lo attraversavano per guardare con odio Ian, che in quel preciso momento stava emergendo tronfio dalla porticina del vecchio carrozzone, subito dietro di lui.

L'uomo scese i tre gradini sgangherati dell'ingresso e, tirandosi su la cerniera dei pantaloni, proruppe in un poderoso rutto di soddisfazione, poi si allontanò senza degnare la bambina di un solo sguardo.

Una rabbia atavica crebbe nell'animo di Korim.

Avrebbe voluto ammazzarlo.

Corrergli dietro, buttarlo a terra e riempirlo di botte fino a spappolargli tutti i visceri e farglieli vomitare.

Ma, ancora una volta, il suo corpo di Diavolo rifiutò di muoversi.

I piedi, le gambe, le mani... Niente di lui obbediva ai suoi ordini.

Merda!

Era peggio di quando era stata Amina a legarlo: l'aura della Streghetta dipendeva dalla volontà della bimba e lui sapeva che prima o poi lo avrebbe abbandonato. Questa immobilità, invece, era insita nella sua natura stessa di Demonio. Era inscindibilmente parte del suo corpo, come le leggi della fisica sono parte inscindibile del Mondo Terreno, e questo non può che seguirne i dettami.

Non avrebbe mai potuto liberarsene.

I Diavoli non ammazzano nessuno, perché non possono compiere il male in prima persona nel Mondo dei Mortali.

Questa era la Legge del suo Mondo.

E questa legge il suo corpo avrebbe seguito, che al suo spirito piacesse o no.

Ian sparì fra i carrozzoni e Korim si lasciò cadere al suolo, svuotato.

Che senso aveva il suo esistere, se neppure il suo corpo gli apparteneva? Tutto questo era peggio di qualsiasi Inferno!

Poi udì Amina scoppiare in un pianto disperato.

No, c'erano inferni peggiori del suo.

Si rizzò malfermo sulle gambe e, raccogliendo tutto il suo coraggio, filtrò nuovamente all'interno, invisibile com'era.

Drande era a terra, il viso nascosto fra le braccia, il corpo riverso.

Piangeva.

Senza far rumore.

Korim comprese che non doveva essere la prima volta.

Quello sfinimento che le aveva letto in viso fin dal primo giorno, doveva essere l'emblema di un orrore che si ripeteva identico ormai da troppo tempo.

Lui non poteva avvicinarsi più di così, non gli era concesso.

Ma anche se avesse potuto, probabilmente non l'avrebbe fatto: non avrebbe saputo come muoversi, cosa dire, cosa fare. Qualsiasi gesto gli sembrava ipocrita, in quel frangente.

Decise di andarsene e lasciare le due zingare al loro destino. In fondo la sua non era che una presenza inutile.

Meglio inutile che deleteria, in ogni caso.

Uscì dalla roulotte e si avviò fuori dal campo, gettando un ultimo sguardo alla piccola Amina che, ancora rannicchiata fra la polvere dello sterrato, sembrava un sacco dell'immondizia preso a calci e poi abbandonato dal netturbino di turno.

Che vita di merda facevano quelle due.

Quando neanche quelli della tua stirpe ti accettano, che orizzonti ti restano?

Se fosse stato nei panni di Drande, da quel pavimento non si sarebbe alzato più. Mai più.

Poi venne la Luce.

E fu così intensa da paralizzare i suoi passi e spazzar via i suoi pensieri.

Arrivò d'improvviso, ma senza provenire da una direzione precisa, come se fosse stata lì da sempre.

Eppure arrivò, perché prima non c'era.

E recava con sé quel profumo di vento diafano e terso che Korim aveva avvertito entrando nel campo.

Ed era forte. Ed era impetuosa. Ed era mite e gentile come un sorriso buono.

Perché nel suo arrivare gli aveva sorriso, ne era sicuro, anche se la Luce non aveva un volto.

Cos'era?

Apparteneva al suo Mondo, ne era certo, eppure non la conosceva.

Si avvicinò alla roulotte, stupito: non veniva respinto.

Strano. Per quanto non avesse nulla di diabolico, la Luce sembrava accettarlo.

Anzi no, sembrava accoglierlo.

Korim guardò attraverso la finestrella: la Luce era su Drande, come se sedesse accanto a lei, tenendola abbracciata senza che la ragazza se ne rendesse conto.

Lentamente i suoi singhiozzi cessarono.

La Presenza Luminosa svanì, eppure Korim capì che le era ancora accanto e l'avrebbe sostenuta per lungo tempo a venire.

La zingara si rizzò infine a sedere, asciugandosi le lacrime con l'orlo della gonna. Si riassestò le vesti e i lunghi capelli, poi si levò in piedi e uscì dalla porticina.

Si accucciò dinnanzi alla sorellina e le carezzò dolcemente la testolina.

«Vieni?» disse soltanto, tendendole la mano.

Amina sollevò il viso e tirò su col naso.

Drande sorrise. Un sorriso vero, dolcissimo. E Korim non poté fare a meno di chiedersi dove avesse trovato la forza per sorridere, dopo quello che aveva appena vissuto.

«È tutto passato, ora. Andiamo, piccolina» disse Drande prendendo Amina per mano e conducendola via con sé.

E lui restò a guardarle allontanarsi, mentre le loro auree tornavano a fiorire, dischiudendosi lentamente come i petali di un bocciolo a primavera.

Poi levò il capo al cielo: la pesante coltre di nubi si era squarciata e, da quella ferita circolare nel firmamento, i colori vaporosi dell'alba prorompevano di nuova vita, accendendo dei propri bagliori l'aere e il suolo.

Korim spiegò le sue piccole ali da pipistrello e si librò in volo, su, sempre più su.

Volare era faticoso, ma non voleva demordere. Salì e salì, fino ad attraversare quello squarcio.

E di lì uscì a riveder le stelle.

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Capitolo 13
*** Paradiso, Cielo I ***


Paradiso, Cielo I

Cosa accidenti era quella Luce?!

Era passato un mese da allora e per tutto quel tempo Korim non aveva fatto che domandarselo invano, senza trovare una risposta.

Era quanto di più avulso da una presenza diabolica si potesse immaginare, ma aveva ben poco a che fare anche con lo stucchevole perbenismo degli Angeli.

Era vigorosa.

Era viva.

Era sconcertante.

Altro non aveva capito e la cosa lo stava tormentando.

Durante l'Addestramento non gli avevano parlato di una cosa del genere e voci di corridoio in merito non ne aveva mai sentite.

Forse perché era troppo potente? Troppo destabilizzante?

Doveva capire cos'era. O meglio chi era.

Doveva capire che ruolo avesse nella lotta di potere fra Angeli e Demoni, fra il Bene e il Male.

Doveva capirlo, perché avrebbe potuto essere la chiave della sua salvezza.

Per questo, alla fine, era rimasto appiccicato alle due zingare, senza però cavarci un ragno dal buco.

Quella famosa mattina, dopo un attimo di indecisione, le aveva seguite.

Le due ragazze si erano piazzate a mendicare accanto a una buca della metropolitana e lui, invisibile ai comuni occhi Mortali, si era appollaiato sopra un lampione e le aveva osservate tendere la mano, cantilenando ad ogni passante la stessa lagna supplichevole nel loro italiano stentato. Ancora e ancora, fino alla nausea.

Amina lo aveva scoperto in capo a pochissimo tempo e gli aveva rivolto un sorriso enorme, ma lui le aveva fatto cenno di tacere, per non rivelare la sua presenza.

Tanto poi si era smascherato da solo.

Aveva visto Drande impallidire e barcollare incerta, mentre gocce di sudore le imperlavano la fronte.

E l'aveva vista sorridere alla sorellina e far finta di nulla, finché la piccola non si era allontanata per fare pipì. Al che la ragazza si era accasciata, premendo forte con le mani sul basso ventre.

Lui poteva sentire un vago odore di strie di sangue, dall'alto della sua postazione.

I passanti emergevano dalle scale, la scansavano e proseguivano silenziosi, senza lasciar indugiare lo sguardo sulla sua figuretta rannicchiata.

'Fanculo a quel porco di energumeno che l'aveva sfondata. E 'fanculo anche a tutti quei bastardi dai colletti inamidati, troppo impegnati a farsi i cazzi propri per preoccuparsi di lei.

Guarda un po' se doveva toccare a un Diavolo, un simile incomodo!

Era saltato giù dal lampione e le si era avvicinato, assumendo l'aspetto di ventenne con cui lei lo conosceva, poi si era appoggiato alla balaustra, con le mani sprofondate nelle tasche.

«Dovresti farti visitare da un dottore, zingara» aveva detto, calcando volutamente quello zingara. In realtà avrebbe voluto accostarsi a lei, sfiorarle il ventre e sprigionare il suo potere curativo, ma quella posa strafottente fu tutto quello che gli riuscì.

Lei aveva sollevato il capo, stupefatta; Korim aveva abbozzato una smorfia che voleva imitare un sorriso e da quel momento non l'aveva più lasciata sola.

Oh, beh. Questo era un tantino esagerato: la notte spariva comunque, perché il Lavoro chiamava, ma il giorno lo passava tutto con lei, a costo di non dormire mai.

Aveva sorpreso molte volte Drande a fissarlo interrogativa e, sebbene non potesse leggerle direttamente nel cuore, non gli era difficile indovinare le domande inespresse che le frullavano per la testa: perché cavolo lui fosse lì, chi glielo facesse fare, cosa diavolo avrebbe voluto in cambio...

D'altro canto, lui non aveva proprio intenzione di fornire spiegazioni e, nel loro reciproco silenzio, Korim e la ragazza erano perfettamente in armonia.

Intanto, giorno dopo giorno, la ferita sul suo braccio sinistro si allargava sempre più: ormai lo corrodeva fino alla spalla.

Quando il fastidio si faceva insistente, era solito ricorrere alla piccola Amina: bastava che lei lo prendesse per mano o gli carezzasse il braccio, perché il dolore si stemperasse per qualche tempo.

La pulce aveva dei poteri straordinari.

Anche Drande si prendeva spesso cura della sua piaga: gliela lavava, medicava e fasciava quasi ogni giorno, senza accorgersi che non era il disinfettante a farlo star meglio, ma il contatto purificatore con la sua aura.

O, forse, semplicemente la sua tacita presenza.

«Ma tu guarda se ci si può ridurre così per uno stupido tatuaggio!» erano le uniche parole che la ragazza gli rivolgeva spontaneamente ogni volta che gli medicava il braccio: «Dovresti andare da un medico, o ti andrà in cancrena».

«Dovresti andarci prima tu, zingara» ribatteva lui. E la conversazione finiva lì.

Ma quello zingara non suonava più velenoso, e la ragazza se ne era accorta ormai da un bel pezzo.

Così come si era accorta che Korim sapeva.

Di lei. Di Ian.

Tuttavia si guardava bene dallo sfogarsi con lui o dal chiedergli aiuto.

Il Diavolo si era sorpreso a sorridere, una volta, pensando a quante parole al millisecondo sarebbe riuscita a sparargli nei timpani Phael, il suo Angelo, se si fosse trovata nella stessa situazione. E a quanto gliel'avrebbe menata per il fatto che lui non stesse muovendo un dito.

Era stato allora che gli era venuta l'idea.

«Fai già abbastanza per noi, non disturbarti ancora» gli aveva risposto Drande, ed era tornata a dedicarsi al bucato.

Era proprio la risposta che Korim si aspettava, ma sapeva essere ostinato, quando voleva.

«Faccio cosa? Io ti pago la colazione e tu mi medichi il braccio. Non ci vedo nessuno sbattimento».

Drande non gli aveva risposto. Non era il caffè che il ragazzo le offriva ad essere un grande tesoro, per lei, ma a che serviva spiegarlo ad uno che lo sapeva benissimo e fingeva di non rendersene conto?

«Senti, zingara, ti servono soldi, non è vero?»

Nessuna risposta.

«E non hai le palle di rubarli, vero?»

Nessuna risposta. Ma l'occhiata di lei era stata sufficientemente eloquente.

«Va bene, donna rom, io sono stufo di guardarti mendicare. E sono sicuro che fare l'accattona non sia il tuo sogno nel cassetto».

«Da queste parti è meglio non sognare affatto» aveva risposto lei, asciutta, mentre dedicava tutta la sua attenzione a una macchia particolarmente ostinata su di un vecchio calzino.

Lui aveva fatto spallucce: «I sogni possono anche finire sul fondo di una bottiglia di whisky o nella fogna insieme all'acqua lurida del tuo bucato, ma bisogna averli, perché senza non ti allontanerai mai da questo fottuto letamaio».

Drande aveva sospirato, sconfitta: «Sogno una casa, va bene? E una bella borsa della spesa. E il panettiere che mi saluta cordialmente. Ma sto cercando di essere felice nella baracca che ho, con una sorellina da tirar grande e un moscone impertinente come unico amico».

«E ci stai riuscendo, a ritagliarti questa felicità?» aveva insinuato lui, glissando su quell'"amico" che gli aveva fatto arrotolare le budella dall'emozione.

Drande era tornata a concentrarsi sul famoso calzino.

Se non fosse stato per Ian...

Se non fosse stato per Ian, forse un barlume di felicità lo avrebbe avuto anche lei, ora che gli implausibili occhi verdi di quel ragazzo le riempivano le giornate.

Ma di Ian non voleva parlare.

«Senti, zingara» era tornato alla carica Korim, «discendi da una generazione di chiromanti, no? Tua madre ti avrà pur insegnato i trucchi del mestiere!»

«Non voglio fare la chiromante» aveva sentenziato lei, torcendo il calzino senza pietà.

«C'è altro che sai fare, accattona?»

Drande lo aveva trapassato da parte a parte con lo sguardo: «No».

«Bene. Allora verrai con me alla fiera di San Gottardo, su in collina, e farai la chiromante, che ti piaccia o no. E ti assicuro che porterai a casa più soldi di quanti tu ne abbia mendicati in una vita intera».

«Non ci penso nemmeno!» aveva protestato la ragazza, ma quando lui l'aveva afferrata per un polso, trascinandola via dal catino del bucato, le sue resistenze erano crollate in un attimo.

«Tu hai paura, zingara, ma non puoi sfuggire in eterno al tuo destino. E comunque ci sarò io a darti manforte».

«Capirai che garanzia!» lo canzonò Amina, che si era gustata la scena da lontano.

«Ehi, pulce, non ritenerti fuori dai giochi: avremo bisogno anche di te. Per prima cosa fa vestire tua sorella da mille e una notte, deve essere bellissima!»

Ebbene, era stata una sua proposta, ma quando l'aveva vista uscire dalla roulotte vestita con gli abiti della sua madre, a Korim si era mozzato il fiato.

Una lunga e vaporosa gonna verde cangiante, un grembiule celeste, un'ampia camicia bianca che le lasciava scoperte le spalle e uno scialle rosso drappeggiato sul capo e il décolleté. I capelli pettinati all'indietro e lasciati ricadere selvaggi sulla schiena, due orecchini enormi ad anello e il viso pulito.

Era bellissima.

«Sembri una zingara» era stato l'unico pseudo-complimento che gli era riuscito di proferire.

«È esattamente quel che sono!» aveva osato controbattere la ragazza, abbozzando un sorriso.

«Non eri una donna rom?» l'aveva canzonata il Diavolo, sperando che un battibecco aiutasse il suo cuore a calare di pulsazioni. Ma Drande non aveva raccolto la provocazione.

«Tieni questo» le aveva detto allora, piantandole in mano il suo giaccone. «Mettilo addosso, o in moto congelerai».

«Andiamo in moto? UAO!» si era entusiasmata Amina.

«E con cosa pretendevi che ci andassimo? In volo, forse?!»

«Magari!» aveva riso la piccola, sorridendogli complice.

Le aveva caricate in moto (moto di Batch, che si era fatto prestare per l'occasione, promettendogli che in capo a tre giorni avrebbe scovato una nuova voce per rimpiazzare Fix e salvare così la band) ed era scivolato ruggendo lungo le strade dei quartieri bassi e la tangenziale, su, su fino alla piccola frazione di Castelcolle, dove si svolgeva la rinomata fiera di San Gottardo.

Parola sua, si era sempre guardato bene dal mettere piede alle sagre di paese dedicate ai santi patroni, ma quel giorno era entusiasta di essere là, alla faccia del suo braccio che martellava infuocato.

Era stato un pomeriggio indimenticabile.

Korim aveva fatto sedere Drande su un basso muretto, proprio in mezzo alle bancarelle della fiera.

«Tu stai qui buona, che io e Amina ti facciamo un po' di pubblicità, ok? Quando ti spediamo un cliente, tu leggigli nel cuore. Avrai successo, vedrai!»

«Ma io... Cosa vuol dire che devo leggergli nel cuore?» esitava la ragazza.

«Non preoccuparti: ti suggerirò io!» le aveva strizzato l'occhio.

Poi era sparito (letteralmente!), non senza il disappunto di Drande, che continuava a chiedersi dove fosse andato a imboscarsi quel traditore che le aveva promesso una mano e poi si era volatilizzato in mezzo alla folla della fiera.

Invisibile, Korim si affiancava ad ogni persona nel cui animo poteva leggere anche solo un minimo barlume di interesse verso la chiromanzia e sussurrava alla sua mente, spingendola ad ascoltare gli inviti di Amina e a seguirla.

La piccola guidava il cliente verso Drande ed ella iniziava a leggergli la mano e fargli le carte, seguendo quanto le aveva insegnato sua madre. Nel frattempo il Diavolo, mantenendosi invisibile, frugava nell'animo del malcapitato e, servendosi dell'Antica Lingua, riferiva ogni cosa alla ragazza, facendo attenzione a che la sua voce sovrumana non sembrasse, alle orecchie inesperte dell'emozionatissima Drande, altro che il chiacchiericcio della sua stessa coscienza.

Tradimenti, amori spezzati, nostalgie per amici perduti, sogni e rimpianti, frustrazioni e sensi di colpa pesanti come macigni, dolci fantasticherie e ideali calpestati... Drande ripeteva a ogni suo interlocutore tutti i dettagli che Korim le suggeriva, ed era difficile dire se risultassero più stupiti i clienti nel sentirsi messi a nudo nel profondo, oppure la zingara nel constatare come ogni sua intuizione corrispondesse al vero.

Ma il più entusiasta in tutta la faccenda era stato Korim stesso, quando, dopo neppure un'ora di questo lavoro di squadra, si era accorto che non c'era più alcun bisogno del suo intervento: a parte la coda di gente in attesa che si era formata davanti alla ragazza, ciò che più lo riempiva di soddisfazione era il fatto che Drande se la stesse cavando egregiamente da sola. Il suo terzo occhio si era spalancato in maniera abnorme, i suoi vortici energetici roteavano in modo ordinato e armonioso, come se scandissero un'antica danza rituale, ed ella Vedeva.

Vedeva con naturalezza oltre le cose terrene, anche se non se ne rendeva conto.

Era stupita, felice, orgogliosa di sé. Korim glielo poteva leggere in faccia, anche se non poteva Leggerglielo nel cuore.

Drande aveva guadagnato un mucchio di soldi ed era raggiante, e lui sapeva di avere una parte del merito in questa sua gioia e ne gongolava.

Oh, se ne aveva gongolato, in quel momento!

C'era riuscito: aveva fatto qualcosa di positivo per la ragazza e la soddisfazione che ne stava ricavando era così nuova per lui da inebriarlo. Voleva aiutarla ancora e ancora, per sentire la gloria del merito riverberagli nell'animo altre mille volte.

Nonostante il dolore lancinante al braccio, si sentiva libero e onnipotente.

La sua strategia, per una volta, sembrava quella giusta: Amina, con le sue facoltà innate, tagliava fuori il suo Mondo e la sua maledetta Gerarchia e lui, senza il loro fiato sul collo, finalmente poteva fare fino in fondo quel che voleva, anche se era una cosa che un Diavolo non avrebbe dovuto fare.

Se i poteri di Drande si fossero svegliati del tutto, forse davvero la Gerarchia non avrebbe più potuto raggiungerlo, neppure tramite il Marchio!

Era deciso: avrebbe proseguito su quella strada.

A costo di autodistruggersi.

L'importante era non distruggere lei.

Aveva rafforzato al massimo la propria Schermatura, per evitare che la ragazza la penetrasse spontaneamente: sapeva che, se solo Drande avesse voluto Guardarlo, ora che per la prima volta stava dominando le proprie facoltà extrasensoriali, lo avrebbe Visto nel suo reale aspetto senza fatica, ma, finché la giovane aveva altro per la testa, la sua identità era relativamente al sicuro.

L'aveva portata a cena in una pizzeria del paese, poi a mangiare un gelatone in un grazioso caffè del centro.

Il sorriso di Drande era stato meraviglioso e lui se n'era ubriacato per tutto il tempo.

Avevano parlato pochissimo ma, in fondo, non ne avevano alcun bisogno.

«E per il cantante come farai?» aveva osato domandare lei, smontando dalla moto, una volta giunti al campo.

«Cantante?...» si era stupito Korim, i cui pensieri erano del tutto persi fra gli occhi della ragazza e il suo décolleté, maliziosamente sottolineato dalla camicia vaporosa e lassa.

«Il tuo amico ti ha prestato la moto perché tu reclutassi un nuovo cantante» gli aveva ricordato Amina, che non si perdeva mai una virgola dei discorsi dei grandi.

«Ah già. Beh, ho mentito» sorrise candidamente il Diavolo.

«Ma il tuo amico si arrabbierà» si preoccupò la sorella maggiore.

«Sai quanto me ne frega! Ciò che conta è che ci sei riuscita, Drande, a me interessa solo quello».

La giovane era arrossita e aveva abbassato gli occhi: «Però non voglio che litighi con qualcuno per colpa mia».

«E allora perché non ci vai tu, a cantare nella band?»

I due giovani si erano voltati all'unisono verso la bimba, che aveva proferito queste parole come se stesse dicendo la cosa più ovvia del mondo.

«Non dire stupidaggini, Amina» aveva cercato di rimproverarla Drande, ma Korim si era illuminato.

«Ma certo, come ho fatto a non arrivarci da solo?! Amina ha ragione, tu hai una voce stupenda. Ti farò cantare con noi!»

«Ma no! Ma io... Che ne so io, di rock?!» protestava Drande, ma lui non aveva sentito ragioni e il giorno dopo l'aveva presentata a Molotov e agli altri.

Questi, ovviamente, si erano lamentati in tutti i modi, primo perché era una femmina e secondo perché era pure rom, ma dopo averla sentita cantare nessuno aveva più avuto da ridire.

A parte Bizarq, ovviamente, che era letteralmente terrorizzato da lei. Korim aveva così da insistere, nel dirgli che era tutto sotto controllo, ma il suo Compare non faceva che accusarlo di essere impazzito, e da quel momento aveva finito per guardarlo con una certa diffidenza.

Certo, a Korim un po' mancavano gli sguardi adoranti di Bizarq, ma la speranza in un futuro migliore che ora vedeva dipinta nelle iridi di Drande lo ripagava ampiamente della perdita.

Erano seguiti quindici giorni di prove intensive, durante i quali la band aveva fatto di tutto per armonizzarsi alla sua nuova voce.

L'impresa fu persino meno ardua del previsto: Drande non sapeva leggere la musica, ma aveva un ottimo orecchio ed era passata dalle ninna nanne popolari alla Heavy Metal senza battere ciglio. L'unica vera difficoltà per lei era stata prendere confidenza con il microfono.

Il gruppo aveva rivisto pesantemente il repertorio per adattarlo alla sua estensione vocale e il risultato era stato decisamente brillante, nonché parecchio originale.

Avevano passato pomeriggi e pomeriggi nella loro sala prove (lo scantinato del condominio dove abitava Batch, dalle pareti tappezzate di materassi e contenitori vuoti delle uova che fingevano senza successo di insonorizzare qualcosa), avevano rischiato di essere cacciati a pedate dagli inquilini del piano di sopra, avevano saltato almeno sei volte la cena pur di sfruttare ogni minuto e infine avevano debuttato al Secret Blues con la loro nuova voce.

Era stato un successo clamoroso, tanto che il direttore del locale aveva chiesto loro di tornare qualche settimana dopo. E suonare lì non era roba per pivelli.

L'unico rammarico del gruppo era stata l'assenza di Fix: la sua voce e quella di Drande avevano performances diverse, e proprio per questo insieme avrebbero fatto faville. Ma il ragazzino s'era fatto due giorni d'ospedale e ora veniva marcato stretto dal padre, che non lo mollava un attimo. L'aveva pure cambiato di scuola, trasferendolo dall'istituto statale che frequentava prima a un liceo privato per fighetti, chissà poi con l'intenzione di ottenere cosa.

In ogni caso Drande, con la sua figuretta aggraziata e la sua voce portentosa, aveva fatto colpo sul pubblico, che l'aveva letteralmente osannata, ma anche su Molotov, che da quando l'aveva conosciuta sembrava essersi scordato della cubista del Number X, dietro le cui curve aveva sbavato con religiosa dedizione per almeno sei mesi.

E pensare che nessuno era riuscito a convincerla a mettersi almeno un paio di jeans, o una minigonna: in quanto a vestiario, la ragazza si era dimostrata più testarda di Fix, e se ne era venuta al concerto con il suo sottanone. Quello buono, quantomeno. Ma Molotov doveva avere la capacità di radiografare le donne con gli occhi, a giudicare da come si attardava a soppesare i fianchi della gitana.

Introversa, timida e di poche parole, Drande non aveva però dato corda a nessuno in particolare nel gruppo (con grande dispiacere dell'umano e grande sollievo del Diavolo), eppure sembravano trovarsi tutti a proprio agio con lei. Tranne Bizarq, ovviamente.

Oh, a proposito, Korim aveva fatto schifo, quella sera. Il suo braccio si era corroso per tutta la lunghezza e le dita non riuscivano a ballare correttamente sulle corde del basso. Nonostante le doti taumaturgiche di Amina, che annullavano il dolore e fugavano la febbre, il suo senso del tatto era andato e neppure i suoi poteri riuscivano ormai camuffare gli errori.

«Dovresti andare da un dottore» lo esortava Drande ogni sera, quando, una volta rientrati dalle prove, si dedicava per mezz'ora buona a pulirgli la piaga e a disinfettarla.

«Sta' zitta e fasciala, donna!» glissava lui, poi lasciava le due ragazze per dedicarsi al suo Lavoro.

Oh, dedicarsi era una parola grossa: diciamo che faceva presenza, senza combinare assolutamente nulla, tanto che persino Bizarq era impensierito.

«Ohé, Korim, ma cos'è che c'hai? È da quando hai portato la zingara a cantare con noi che non ci stai più di testa. Non ti sarai di nuovo fatto friggere il cuore da una donna, eh?»

«Fatti i cazzi tuoi, Bizarq».

«Oooh, ma allora c'ho visto giusto: ti sei innamorato!»

Eh già, Bizarq non riusciva a spiegarselo, ma il suo Compare aveva questa strana capacità di cadere preda delle femmine. E di femmine che non avevano nulla di diabolico, per giunta. Che faticaccia, dover far coppia con uno così svalvolato!

«Guarda che rischiamo di finire un'altra volta nei guai...»

«Leva quel plurale: al massimo nei guai ci finirei da solo, Bizarq. Il tuo culo è ben protetto, mi pare».

«Sì, ma senza di te io che faccio? Ehi, mi stai ascoltando?! Dove diavolo vai, Korim? Ehi!»

«Fottiti. E prova a farti un po' di ossa da solo, che potresti averne bisogno» aveva grugnito Korim, piantando in asso il Compare e abbandonando il rave party a cui stavano prendendo parte.

Poi aveva vagato per la città per ore, con l'aspetto che si ritrovava e il cervello in fibrillazione.

Si era davvero innamorato di Drande?

Merda, forse sì.

Bizarq c'aveva preso, anche se gli seccava ammetterlo.

Perché sì, Drande era bella.

Perché sì, Drande, nella sua riservatezza, aveva un fascino che lo stregava.

Ma non era questo che la rendeva speciale. E non era neppure il suo potere taumaturgico, né la forza travolgente della sua aura.

Se pensava a Drande (e ci pensava tutto il giorno, accidentaccio!), stava male da morire.

Quando non era con lei, stava male da morire.

Quando finalmente le era accanto, era anche peggio.

Merda.

La desiderava e non poteva nemmeno accarezzarla. Ma per quello aveva il callo.

Il dramma era che a lei aveva mostrato tratti di quel lato di sé che aveva coltivato per tanti anni ma che non aveva mai potuto svelare a nessuno, nemmeno a quella gatta di Valeel. Glielo aveva mostrato senza parole e senza smancerie e adesso voleva, bramava con tutto se stesso che Drande continuasse a guardarlo.

Perché, se non avesse avuto più nessuno con cui essere se stesso, sarebbe impazzito.

Ma quel «se stesso» era comunque un Diavolo.

Malriuscito, ok.

Passibile di licenziamento, ok.

Ma Diavolo era e Diavolo rimaneva, senza scampo.

E questo non voleva che lei lo vedesse.

Non aveva più le palle di correre questo rischio, come aveva fatto il primo giorno, perché sapeva che lei non lo avrebbe mai accettato.

Drande temeva quelli come lui, e aveva ragione.

Se ciò che lo legava alla ragazza fosse stato solo il desiderio, se la sarebbe cavata egregiamente. Il problema era proprio che sotto quest'aspetto dirompente ce n'era un altro: c'era qualcosa “di molle”.

“Di molle”, già.

Non avrebbe saputo definire altrimenti ciò che provava, sapeva solo che sentiva sciogliersi lo stomaco e i reni e le giunture delle gambe ogni volta che la guardava.

E sapeva solo che tutta questa squaglievolezza gli faceva male, perché lo faceva sentire incompleto e insoddisfatto, non nel corpo, ma nell'anima.

Il giorno prima era stato quasi sul punto di dirglielo, mente la guardava preparare la cena.

«Drande...»

L'aveva richiamata in un soffio. Lei s'era voltata, pacata.

«Sì?»

«I-io...»

La ragazza aveva inclinato dolcemente il capo da un lato, esortandolo a continuare.

«Ecco, io...»

Si era incantato a guardarla, poi di colpo si era ricordato della sua natura, aveva distolto lo sguardo e aveva bluffato ignobilmente.

«Niente. Volevo solo dirti che non vedo l'ora che sia pronto: ho fame».

«Non avevo mai visto il tuo lato timido» aveva azzardato lei con un lieve sorriso, mente le sue guance prendevano colore.

Korim era tornato a fissarla: che avesse capito?

Lei si era voltata di schiena, tornano ai fornelli.

«Anch'io» aveva proferito in un soffio, e Korim non era riuscito a capire se stesse parlando dei propri sentimenti o della cena. Ma non aveva avuto le palle di chiedere ulteriori spiegazioni.

«Credo di amarti», voleva dirle questo.

Ma era vero?

Quando aveva amato Phael, l'aveva amata più di se stesso, l'aveva messa al primo posto, fino a sacrificare sogni e speranze per il bene di lei.

Valeva lo stesso anche nei confronti di questa zingarella? In fondo, la stava semplicemente usando.

Era lei il centro, o era lui stesso?

L'amava o aveva soltanto bisogno di lei?

Ma, soprattutto, c'era davvero distinzione fra le due cose?

Non lo sapeva.

Si ritrovò nei pressi del proprio condominio ancora attanagliato da questi pensieri.

La notte era inoltrata, ma l'alba ancora lontana. Al levarsi del sole sarebbe tornato alla roulotte delle due zingare, ma avrebbe potuto approfittare delle ore di buio che rimanevano per concedersi qualche ora di sonno.

Non dormiva da quattro giorni, dopotutto, ed era stanco morto.

Entrò dunque nel palazzo utilizzando le chiavi del portone e si lanciò su per le scale, pregustando una bella doccia calda, quando sul pianerottolo fra il secondo e il terzo piano si ritrovò davanti una figura di donna.

Camicia scozzese, salopette sportiva e una nuvola di bei ricci castani che ricadevano sciolti su una giacca a vento scura.

Ci mise qualche secondo a riconoscerla:

«Rita?!»

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