L'imperfetto destino

di Jamie_Sand
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. Oskar ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. Il jazz ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. Odissea ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. Norwegian Wood ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. Peony ***
Capitolo 7: *** capitolo 6. Complenatale - Parte I ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. Complenatale - Parte II ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. Il Serpeverde nascosto ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. Il punto di non ritorno ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10. Cicatrici ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11. La bussola ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12. Esattamente dove doveva essere ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13. La fine del mondo ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14. The Winner Takes It All ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15. La battaglia ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16. Quella mattina ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17. Non avrebbe funzionato ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18. Congelata nel tempo ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19. La celebrazione I° parte ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20. La celebrazione II° parte ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21. Dobbiamo parlare di Percy ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22. Chiudi gli occhi e pensa all'Inghilterra ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


Ogni giorno, già da quando era solo uno degli studenti migliori di Hogwarts, Percy Weasley aveva l’abitudine di aprire gli occhi alle cinque e mezza del mattino in punto. Non importava che si trattasse di un lunedì pieno di buoni propositi o di una lenta e noiosa domenica, non era necessario nemmeno mettere su una sveglia, semplicemente Percy si svegliava di botto e pieno di quell’energia che i suoi fratelli — che invece amavano poltrire a letto fino a tarda mattinata — avevano sempre trovato insana e molto irritante.

Aveva sempre amato l’alba, fin da bambino, era un momento silenzioso e solo suo. Trovava qualcosa di estremamente rassicurante nei raggi del sole che tornavano a splendere puntuali, sempre, ogni singolo giorno, nonostante tutto. Ultimamente, però, Percy Weasley faceva una gran fatica a lasciare la calda e accogliente tana che era il suo letto per dirigersi nel suo freddo e a tratti inquietante ufficio. 

Per questo rasentava il ritardo quasi ogni singola mattina. 

Scrimgeour era morto da tre mesi e adesso nell’atrio del Ministero della Magia era comparsa una statua, il simbolo del dominio dei maghi sui babbani. Percy si fermò a guardarla, tentando di non apparire apertamente inorridito davanti ai corpi di pietra di quelli che presumibilmente dovevano essere babbani, schiacciati da due grossi maghi, di pietra anche quelli. Poi tornò a muoversi tra la folla che riempiva l’ingresso. 

Il suo ufficio si trovava al primo livello, il più importante: probabilmente da ragazzino sarebbe impazzito dalla gioia nel sapere che un giorno si sarebbe ritrovato a passare l’intera giornata tra l’ufficio del Sottosegretario Anziano e quello del Ministro della Magia, ma adesso la sola idea di mettere piede lì dentro gli causava un generale malessere.

Stava perdendo sé stesso, pezzo dopo pezzo: assisteva a interrogatori ingiusti senza muovere un dito, stava a guardare mentre il Ministero spediva ad Azkaban o chissà dove decine di maghi e streghe colpevoli solo di essere nati da genitori babbani. 

Ma forse Percy aveva iniziato a dimenticare chi fosse già anni prima, quando aveva rinunciato alla famiglia per quel posto, per diventare il più giovane assistente del Ministro di sempre. 

Ci aveva messo del tempo ad accettarlo, ma sentiva molto la loro mancanza. Sentiva la mancanza della sua famiglia, gli mancava la Tana, ma soprattutto sentiva la mancanza di tutte le cose che aveva sempre odiato dello stare lì. 

Gli mancava il perenne rumore di sottofondo che si sentiva in casa, le porzioni spropositatamente abbondanti che sua madre gli metteva nel piatto a pranzo a cena, gli mancava ritrovarsi ad essere vittima degli scherzi di Fred e George, parlare di lavoro con suo padre e persino aiutare Ginny con i compiti delle materie più noiose. 

Non poteva tornare, e stavolta non era solo il suo orgoglio ad impedirglielo: la sua intera famiglia era sotto sorveglianza, avvicinarsi nuovamente a loro sarebbe stato come mettersi un cartello al collo con su scritto “traditore” a caratteri cubitali. 

Così resisteva. Era bravo a resistere. 

Quasi senza accorgersene, — e per fortuna senza imbattersi in suo padre nell'ascensore, cosa che accadeva purtroppo piuttosto spesso — il giovane Weasley arrivò nel suo studio, chiudendosi la porta alle spalle. 

Era una stanza ampia, con un camino per l’inverno che qualcuno aveva acceso per fargli trovare l’ufficio già caldo, e le pareti tappezzate di libri e grossi fascicoli. Al centro c’era la sua scrivania, ingombra di innumerevoli carte, ma nessuna fotografia, nessun affetto personale. Dopotutto cosa avrebbe mai potuto incorniciare? Non aveva più nessuno. 

Percy fece appena in tempo ad accomodarsi sulla comoda poltrona al di là della scrivania che la porta davanti a sé si spalancò con un cigolio, attirando la sua attenzione. Sulla soglia era appena apparso un uomo alto, con la barba e ben vestito che si avvicinò a lui senza nemmeno essere invitato ad entrare, porgendogli un bel po’ di fascicoli rilegati. 

- Weasley. - Scandì Albert Runcorn, un po’ come se il suo cognome fosse un insulto o un aggettivo denigratorio. - Ho qui i nuovi fascicoli di presunti Nati Babbani da prendere in custodia entro domani mattina. Il Ministro deve emanare i mandati di cattura, sai cosa devi fare. - 

- Certo, signore. - Rispose Percy. - Le farò avere tutto entro l’ora di pranzo. - 

Runcorn scoprì i denti in un ghigno. Quell’uomo sembrava godere delle disgrazie altrui come nessun altro al mondo. Adorava assistere a quegli interrogatori, adorava spedire chi per lui insudiciava la magia ad Azkaban, gli dava un certo brivido di soddisfazione. Ma erano i traditori del proprio sangue quelli che più di tutti, secondo le sua onesta opinione, meritavano la pena più dura: i Weasley i primi tra tutti.

Tuttavia gli sembrava pazzesco che una persona come Arthur Weasley fosse stato capace di generare un essere tanto diligente e stacanovista come Percy. In qualche modo… sì, stimava quel ragazzino. 

- Bravo, Weasley, bravo... - Gli disse, stavolta molto più dolcemente, prima di voltarsi per tornare sulla soglia. - Sei un bravo ragazzo, Weasley. Il Ministro ha fatto bene a tenerti. -

- La ringrazio, signore. - Rispose rapidamente il giovane. 

Runcorn fece di nuovo quella smorfia che per lui doveva essere un sorriso, poi poggiò la mano sulla maniglia e uscì, lasciandosi alle spalle un teso silenzio.

Percy attese qualche secondo dopo che la porta si chiuse per esalare un lungo sospiro, prima di afferrare il primo fascicolo. Ricordava bene il giorno in cui aveva trovato quello di Penelope tra quelli di tanti altri Nati Babbani come lei. Ricordava quanto si era sentito sollevato all’idea che lei fosse riuscita a scappare via in tempo, nonostante questo avesse significato la tragica fine della loro storia d’amore. 

Gli mancava anche lei. 

Gli mancavano i suoi soffici capelli biondi, il profumo della sua pelle, il suono della sua voce, gli mancava vedere il suo sorriso a fine giornata, quando tornava a casa. 

Da quando se ne era andata, il monolocale in cui avevano vissuto insieme sembrava essersi paradossalmente ristretto, diventando una tomba di solitudine e silenzio. Certo, le cose tra loro ultimamente non stavano andando benissimo, Penny aveva paura per sé stessa e per la sua famiglia, era sempre nervosa, scostante, un po’ come se stesse cercando di liberarsi di lui, o forse di liberarlo dal peso di una relazione con una Nata Babbana. D’altra parte Percy non era riuscito a far nulla per tenerla davvero vicina. Non l’aveva seguita in Spagna come lei ad un certo punto gli aveva proposto, si era chiuso in sé stesso, nei suoi sensi di colpa, nelle sue angosce, ma di certo non aveva smesso di amarla. Il problema stava nel fatto che non sapeva dimostrarglielo. Non aveva mai imparato l’amore nonostante i suoi genitori gliene avessero dato tanto, durante l’infanzia. 

L’unica speranza era che forse un giorno si sarebbero rivisti, magari a guerra finita e con il trionfo del bene sul male; a quel punto Percy l’avrebbe guardata negli occhi e, per la prima volta in assoluto, glielo avrebbe detto. Le avrebbe detto che l’amava e che niente, mai più, sarebbe stato capace di dividerli. 

E pensare che l’aveva scelta con una tale logica, durante la scuola: voleva avere una ragazza alla sua altezza, magari un altro prefetto, voleva che fosse bella, intelligente, simpatica ma mite. 

Ecco, Penelope Light rispettava ogni suo canone, era come se la ragazza ideale fosse uscita dalle sue fantasie più vivaci per stare proprio con lui. Era perfetta, era perfetta in tutto. E poi, sorpassata la logica e con tutto quel tempo che avevano passato insieme durante le ronde, si erano innamorati per davvero.

Percy sospirò di nuovo e finalmente si decise a staccarsi dal pensiero della sua Penny per mettersi a sfogliare quei fascicoli. 

Foto. Nome, cognome, età, indirizzo, membri della famiglia.

Foto. Nome, cognome, età, indirizzo, membri della famiglia.

Foto. Nome, cognome, età, indirizzo, membri della famiglia.

Spesso si trattava di persone molto giovani, ad alcuni era appena arrivata la lettera per Hogwarts. Erano dei bambini che venivano strappati ai loro genitori, adolescenti a cui veniva strappata la vita. 

Percy impiegò circa un’ora a leggere attentamente ogni singolo fascicolo, fino ad arrivare all’ultimo, quello di una certa Lucy Manning, di anni 15, che viveva a Londra, a Celery Street n°17, insieme a sua sorella Audrey e a sua madre Erin, e poi abbandonò tutto sulla superficie di mogano della sua scrivania. 

Quella volta i Nati Babbani da avvertire del pericolo erano più del solito, ma ci sarebbe riuscito, come al solito. 


Ciao a tutt*! 

Ebbene sì, ho finalmente detto addio agli amati personaggi della mia precedente storia per buttarmi in qualcosa di nuovo! L’ultima volta che ho scritto di Percy Weasley l’ho trattato talmente male che se l’avessi fatto fuori probabilmente gli avrei fatto un favore, dunque eccomi qui e prometto che questa volta sarò un po’ più buona con lui (ma solo un po’, perché soffrirà. Amo troppo il dramma per far finire tutto troppo bene e chi ha letto “lascia che ti racconti la storia” lo sa). 

Comunque non ho un piano preciso per questa fan fiction, non ho idea di quanti capitoli sarà, probabilmente cambierò qualcosa in corso d’opera e sinceramente non sono nemmeno certa che riuscirò a finirla, ma forse è la totale mancanza di fiducia in me stessa che sta parlando in questo momento. 

Ad ogni modo grazie per aver letto fin qui.

Ovviamente le recensioni sono sempre molto gradite! 

Alla prossima, 

J. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. Oskar ***


Capitolo 1


La vita di Audrey Manning era un susseguirsi di eventi curiosi. 

Era venuta al mondo durante una terrificante bufera di neve, il giorno di Natale del 1976, nell’atrio affollato di un ospedale di Londra, da un ragazzino e una ragazzina di appena quindici anni. 

Suo padre, Jude, era un aitante giovanotto di origini ghanesi con una viscerale passione per la musica classica già a quei tempi — soprattutto per il pianoforte e la composizione, — cosa che lo portò in seguito ad avere un gran successo (e a stare lontano dalla propria figlia per la maggior parte del tempo). Sua madre, Erin, era invece una minuscola ma graziosa irlandese con la personalità incisiva come quella di uno scopettone, che di neonati non sapeva davvero un accidente, ma che considerava l’aborto totalmente fuori discussione perché così le era stato inculcato.

L’unione scapestrata tra quei due individui piuttosto male assortiti non aveva reso Audrey abbastanza nera da essere considerata tale, dato che i suoi occhi tendevano al verde come quelli di sua madre, ma nemmeno abbastanza bianca da non subire un po’ di sistematico razzismo di tanto in tanto, dato che i suoi capelli erano troppi ricci e troppo crespi e il suo naso un po’ troppo schiacciato rispetto a quanto fosse europamente concesso. 

A un passo dal compiere cinque anni, cinque anni in cui Audrey era stata gloriosamente figlia unica, sua madre era rimasta incinta di un tale di nome Emil Wójcik, un tipo strano che quando aveva scoperto dell’esistenza del futuro pargoletto che cresceva nel ventre di quella donna che conosceva appena era sparito dalla circolazione. 

Così Audrey si era ritrovata una sorella tra capo e collo. 

- Mamma, perché non la buttiamo via? - Aveva chiesto candidamente a sua madre, quando era tornata a casa con la piccola Lucy. 

A quel punto Erin le aveva rivolto uno sguardo impietoso e le aveva urlato contro, come al solito del resto. 

Quel giorno la bambina si convinse di una cosa: se voleva essere amata da sua madre allora forse doveva amare quella creaturina a sua volta. 

E così fece. Iniziò ad amare sua sorella quasi per costrizione, finché il loro rapporto non divenne qualcosa di più dell’essere semplicemente sorelle. Audrey e Lucy erano diventate amiche. 

Poi, undici anni più tardi dalla nascita di Lucy, Audrey Manning aveva scoperto che proprio sua sorella era una strega. 

Di certo non poteva dire che se lo aspettava, eppure era cosciente del fatto che, ovunque Lucy mettesse piede, c’era sempre qualcosa di strano che accadeva attorno a lei. 

Una volta, ad esempio, spaventata dalle urla della loro madre, Lucy era svanita di colpo per poi ricomparire fuori dalla finestra del salotto con aria enormemente confusa. 

Insomma, quando una tale professoressa McGranitt aveva suonato alla loro porta portando con sé la lieta notizia, Audrey non aveva fatto una piega, a contrario di Erin, che per poco non era svenuta. 

Poco tempo dopo, dopo il compimento della maggiore età di Audrey, Erin aveva fatto i bagagli e si era trasferita nuovamente a Belfast, sua città natale, con il suo nuovo compagno Patrick, lasciando le sue due figlie a Londra, perché “tanto ormai siete grandi”.  

Comunque nella vita di Audrey Manning c’erano anche cose molto belle. Ad esempio c’era sua nonna paterna, che viveva a un’oretta da casa sua, — insieme alla vecchia ed eccentrica bisnonna di Audrey, — e che era sempre pronta a offrire alla nipote supporto emotivo e quantità industriali di cibo ghanese. Poi c’era la musica, la passione che condivideva con suo padre, cosa che l’aveva portata ad ottenere una borsa di studio in canto jazz al conservatorio di Londra una volta finita la scuola. Infine c’era il suo lavoro come cameriera in un bistrot gestito da italiani che le concedeva ottimi pasti gratis più spesso di quanto convenisse ai proprietari. Aveva anche degli amici, come la sua collega Anne, nonché amica d’infanzia con cui aveva condiviso il banco durante tutti gli anni della scuola, che come lei quella sera aveva appena finito il turno. 

- I miei capelli puzzano di fritto. - Si lamentò Anne, afferrando una ciocca castana e liscia e annusandola con disgusto. 

Audrey sorrise comprensiva ma senza guardarla. I suoi occhi erano puntati all’entrata della stazione della metropolitana poco più avanti. Non vedeva l’ora di tornare a casa, farsi una doccia, mettersi in pigiama e dormire.

- Sono così fortunata a lavorare in sala. - Disse, stringendosi un po’ nella giacca che indossava.

L’autunno era iniziato da un pezzo e quell’anno sembrava deciso ad essere molto più rigido del solito. Quella sera, ad esempio, nonostante fosse solo fine ottobre, faceva molto freddo, c’era la nebbia e Audrey aveva una gran voglia di tisane bollenti e coperte di pile.

- I fortunati siamo noi. - Ribatté Anne. - Cucini così di merda che proprio non capisco come tua sorella riesca a nutrirsi decentemente, povera cara. - 

Audrey scrollò le spalle. Tendenzialmente lei e Lucy si affidavano al caro, vecchio e insano cibo preconfezionato. - Pensa un po’: faccio anche schifo nelle faccende domestiche e odio i bambini. Sono un pessimo esempio di donna, lo so. - Scherzò lei.

- Tony non la pensa così. - Fece Anne, allusiva. - Con stasera è la terza volta in un mese che ti chiede di uscire, poveraccio. Mi chiedo quando gli darai una possibilità. -

Audrey si voltò verso l’amica e alzò gli occhi al cielo. - Ci sono un’infinità di motivi per i quali non posso uscire con Tony! - Esclamò. - Lui è il figlio del capo! E poi non è il mio tipo. - 

- Tony è il tipo di tutte. - Obiettò Anne. - È affascinante, divertente e ha… l’accento. - 

- Sì, l’accento di uno che sembra appena uscito da “Super Mario”. - 

Anne mosse la mano in aria, come se la frase appena pronunciata da Audrey fosse un fastidioso insetto. - Davvero, Audrey; ti conosco da una vita e l’ultima volta che ti ho sentito esprimere un parere positivo riguardante un uomo è stato quando ti sei presa quella cotta imbarazzante per il professore di storia. Inizio a preoccuparmi. - 

Audrey scoppiò a ridere e scosse la testa senza proferire parola. 

- Dimmi la verità: sei lesbica? - Proseguì Anne, fermandosi di scatto nel bel mezzo del marciapiede e fissando l’amica con insolita serietà. - Anzi… sei asessuata? - 

- Intendi dire come una cellula? - Audrey guardò l’amica con un sopracciglio alzato. - O volevi dire asessuale? Perché è ben diverso. Ma comunque no. - 

- Allora qual è il problema? Perché di sicuro un problema c’è. - 

Audrey ci pensò su e poi tornò a camminare verso la metropolitana. - Il fatto è che ho altre priorità al momento che trovarmi un ragazzo con cui darmi a certe… attività ricreative. - Disse con tranquillità, una volta in cima alle scale dell’entrata della stazione. - Non voglio costringermi a innamorarmi di qualcuno, deve capitare e basta. Voglio che mi colpisca, mi capisci? -

- Ma tu devi metterti nelle condizioni per far si che ciò accada. - Spiegò Anne. - Non puoi startene lì, passivamente, ad attendere che il tuo futuro marito venga a suonare alla tua porta. - 

Alle parole “futuro marito” Audrey rabbrividì. Era giovane e con un lavoro precario, di certo non passava le sue giornate a pensare a un suo eventuale e futuro matrimonio. 

- Non si può mai sapere. - Audrey scrollò le spalle. - Mia madre e mio padre si sono conosciuti a una fermata dell’autobus a Belfast. Pensi che l’avessero programmato? - 

- Se vuoi prendere in esempio i tuoi genitori allora devi farti mettere incinta dopo un paio di mesi di frequentazione e successivamente scappare di casa. -

- Quelli erano altri tempi, i miei nonni materni ce l’avevano con gli inglesi per colpa del conflitto nordirlandese… e ce l’avevano anche con i neri. - Spiegò Audrey. - Guarda caso mio padre è entrambe le cose, quindi il male assoluto. Per questo sono scappati. - 

- Erin e Jude sono assolutamente i nuovi Giulietta e Romeo. - Commentò Anne, dopo un sospiro sognante. 

Audrey fece un verso colmo di disapprovazione, giusto per non rispondere a tono che non ci vedeva proprio niente di romantico in due adolescenti che si ficcano in un mare di guai con le loro rispettive famiglie solo per una cotta adolescenziale. 

- Comunque anche io sarei scappata via con uno come tuo padre. - Aggiunse Anne. 

- Ho solo due parole per te: che schifo. - 

Anne rise. - Tu dici così perché è sangue del tuo sangue. - Disse certa. - Ma fa il musicista, ha quel fascino da artista profondo. - 

- Fa il musicista classico. I veri fighi siamo noi jazzisti. - Sottolineò Audrey.

- Sì. In un mondo in cui la musica viene usata per la tortura, forse. - 

Audrey fece una faccia teatralmente ferita e poi scese il primo gradino. - Ci vediamo domani, Anne. - Disse per congedarsi. 

- Sì, salutami Lucy. - Rispose la ragazza. - A proposito, che cosa fa adesso che è stata espulsa da quel collegio scozzese? Che ne so… non va a scuola? - 

Audrey indugiò, alzando le sopracciglia come faceva ogni volta che veniva colta di sorpresa. Chiunque le aveva rivolto quella domanda da quando l’anno scolastico era iniziato. Persino i loro vicini si chiedevano come mai Lucy fosse rimasta a casa quell’anno e Audrey non sapeva mai cosa rispondere. 

- Lei… studia da privatista adesso. - Asserì. - Paga il fidanzato di mamma. - 

- Be’, devi ammettere che questa volta Erin si è proprio sistemata, con Patrick. - 

- Oh, sì. Una vera favola moderna. - Disse Audrey, lugubre. - Comunque almeno stavolta sono stata abbandonata per un essere vivente, non per uno strumento musicale. - 

Anne soffocò una breve risata. Se c’era una cosa che apprezzava davvero della sua migliore amica era di sicuro quella sua particolare capacità di sdrammatizzare gli eventi spiacevoli della sua vita con un po’ di sano e cinico umorismo. Era decisamente un ottimo modo per proteggersi dalla sofferenza. 

Quindici minuti più tardi, dopo un tranquillo viaggio in metropolitana e una breve passeggiata per le vie deserte del suo quartiere, Audrey si ritrovò davanti alla porta di casa sua. 

Viveva lì da quando ne aveva memoria, all’inizio con entrambi i suoi genitori e poi con gli innumerevoli altri uomini di sua madre. Si trovava al numero diciassette di una via fatta di abitazioni tutte uguali e appiccicate tra loro, con piccoli giardinetti sul davanti. 

Non era un bel quartiere, ma era lì che era cresciuta e lì si sentiva al sicuro, a casa. 

- Audrey? - La voce preoccupata di sua sorella arrivò dal salotto non appena mise piede in casa. 

Da quando aveva capito di essere un bersaglio in quanto Nata Babbana, Lucy viveva in uno stato di perenne allerta. Temeva che prima o poi sarebbero arrivati per lei, aveva persino fatto i bagagli, ficcando l’essenziale in uno zaino che teneva appeso all’appendiabiti all’entrata. 

- Sono io. - Rispose Audrey, tranquilla, e senza nemmeno togliersi la giacca la raggiunse in salotto. - Che fai ancora in piedi? - Le domandò.

Lucy, in pigiama e seduta sul divano davanti alla televisione accesa, guardò sua sorella come per accertarsi che fosse davvero lei. Audrey, a sua volta, ricambiò quello sguardo scoccandole una di quelle occhiate severe da bacchettona che le riuscivano davvero bene. 

Non si somigliavano affatto, se non per la corporatura minuta che entrambe avevano ereditato dalla loro madre. Lucy aveva capelli biondi e lisci, la fronte alta che teneva nascosta dalla frangetta, sopracciglia chiarissime sopra a due occhi tondi e azzurri. Aveva un volto vagamente cavallino ed era pallida come un cencio, ma quando sorrideva la sua faccia diventava radiosa. In quel momento però era decisamente molto seria. 

- Ti stavo aspettando. - Le disse. 

Audrey annuì in fretta e poi notò che sul divano era stata abbandonata quella che sembrava una lettera appena aperta, con allegata una di quelle fotografie magiche capaci di muoversi. 

- Come sta il tuo fidanzato? - Domandò facendo un sorrisetto pieno di sottintesi. 

- Colin non è il mio fidanzato. - Rispose subito Lucy, cercando di dirlo con naturalezza ma alzando gli occhi al cielo.

Audrey la guardò come se non le credesse affatto. - Peccato che lui invece sia sicuro del contrario. - Disse, sedendosi accanto a lei.

Afferrò la fotografia e la guardò. Un ragazzino dai capelli color topo stava salutando l’obiettivo sorridendo. - A me è sempre piaciuto Colin. Certo, forse è un po’ troppo esaltato, ma a parte questo è un bravo ragazzo. -

- Lui è a Hogwarts. Colin, intendo. Pare che il castello stia proteggendo molti di quelli che scappano da Tu Sai Chi. - Raccontò Lucy, guardando anche lei la fotografia che il suo amico le aveva spedito. - Un tipo che lavora al Ministero ha avvertito lui e suo fratello appena in tempo, altrimenti la commissione per il censimento dei Nati Babbani li avrebbe trovati. -

- Avevi detto che Hogwarts era il posto più pericoloso per te, in questo momento. - La interruppe duramente Audrey. - Quindi no, non ti lascerò andare all’avventura con il tuo non-fidanzato, se è questo che stai tentando di chiedermi. - 

- Lascia stare, tanto non capirai mai. - Ribatté gelidamente Lucy. 

- Già, perché sono solo una babbana, vero? Se la situazione fosse tanto grave come dici tu e come dice quella stupida radio che ascolti di continuo allora non credi che la polizia babbana ne saprebbe qualcosa? Non credi che la Regina avrebbe fatto uno di quei suoi discorsi? - 

- Ma non li leggi i giornali, Audrey? Tutte quelle “fughe di gas”, tutte quelle “morti misteriose”, tutti quegli “attentati”... di chi pensi sia la colpa? - Fece Lucy, guardando sua sorella, piena di sconforto. - Noi dovremmo andarcene di qui il prima possibile, ma tu non mi dai retta. -

- E qual è la tua brillante idea? Dove andiamo, sentiamo un po’? - 

- Da tua nonna… o da Jude. - 

- Non andremo a vivere da lui. - Sentenziò duramente Audrey. - E la nonna non ha posto per due. - 

- Ma è tuo padre… -

- È qui che ti sbagli: è il tizio che è andato a letto con nostra madre, l’ha messa incinta e poi l’ha lasciata dopo un paio d’anni dandole una pacca sulla spalla e un assegno mensile. -

- Poteva andare molto peggio e lo sai. - Ribatté Lucy. - Lui fa di tutto per essere presente, ma tu hai questo stupido orgoglio a frenarti; ti costingi ad odiarlo. - 

Audrey prese un respiro profondo, nel tentativo di mantenersi focalizzata sulla questione. - Io non lo odio, solo che non ho bisogno di aiuto. - Dichiarò. - Non abbiamo bisogno dell’aiuto di nessuno, io e te. - 

Lucy sbuffò dal naso e scosse la testa. Forse doveva fare proprio come avevano fatto Colin e Danny, che se ne erano andati via di notte, senza nemmeno salutare i loro genitori pur di tentare di tenerli al sicuro. Ma come si sarebbe potuta difendere sua sorella, da sola? Che speranza poteva avere contro i Ghermidori? 

- Domani mattina ne parliamo di nuovo a mente lucida. - Asserì Audrey, portandola fuori dai suoi pensieri, alzandosi in piedi. - Adesso sono stanca morta, ho servito lasagne tutta la sera. - 

- Sempre se ci arriviamo a domani mattina. - Commentò cupamente Lucy.

- Hey, una volta ero io quella pessimista e cinica! - 

- Già, infatti non capisco da dove venga tutto questo tuo incauto ottimismo. Dici sempre che il mondo è un posto crudele e pericoloso, perché stavolta non varrebbe? - 

Il volto di Audrey si adombrò. - Sto cercando di non pensarci, va bene? - Svelò. - Non posso controllare tutto questo, e mi fa impazzire se ci penso. Dunque non lo faccio, non ci penso, o almeno ci provo. - 

Lucy assunse un’espressione sorpresa e apprensiva insieme. Il fatto che sua sorella evitasse di pensare a qualcosa pur di non cadere nella trappola dell’ansia era la rappresentazione esatta della loro situazione al momento: Audrey era sempre stata quella che teneva tutto e tutti sotto sotto controllo. Era lei che si occupava di tutto in casa, che faceva da madre persino alla loro madre, che calcolava i rischi e i benefici di ogni loro singolo passo, ma adesso sembrava totalmente bloccata. 

- Forse dovremmo davvero parlarne domani. - Mormorò la più giovane. 

Audrey annuì mugugnando sommessamente.

Un secondo più tardi il campanello suonò, facendole sobbalzare entrambe. Era piuttosto tardi per ricevere visite…

- Vado a vedere chi è. - Disse Audrey, dopo un attimo di teso silenzio. 

- Vengo con te. - Fece subito Lucy, afferrando prontamente la bacchetta abbandonata tra i cuscini del divano. 

Esitarono per un istante e poi, insieme, raggiunsero l’entrata, dove la più grande guardò fuori attraverso lo spioncino della porta. 

Lì, in piedi dietro la soglia, un ragazzo ricambiò il suo sguardo quasi come se riuscisse a vederla attraverso l’uscio. Portava gli occhiali sul naso, i suoi capelli erano rossi, corti e ordinati, come era ordinato il discutibile completo color mattone che indossava. Tra le mani, infine, aveva un fascicolo e, a vederlo così, con la cravatta e quell’aria seria, aveva tutta l’aria di un venditore di aspirapolveri porta a porta. 

- È un ragazzo… giovane. - Sussurrò Audrey.

- Fammi vedere. - Lucy si fece spazio e diede anche lei un’occhiata allo sconosciuto, che dopo un attimo parlò:

- Lucy Manning? Ho bisogno di parlare urgentemente con la signorina Manning, per cortesia. -

- Ottimo, è uno dei tuoi. - Bisbigliò Audrey. - Dovevo capirlo dal completo. - 

- Sono qui per avvertire che tu e la tua famiglia siete in serio pericolo. - Proseguì lo sconosciuto. - La commissione per il censimento dei Nati Babbani verrà a prelevarti a breve per sottoporti a un processo, se così lo vogliamo chiamare… ho in mano il tuo fascicolo, io sono qui per aiutarti. -  

Lucy sgranò gli occhi e mise una mano sulla maniglia. 

- Non vorrai mica aprirgli. - La fermò Audrey, guardandola come se fosse pazza. 

- Potrebbe essere lui quello che ha aiutato Colin e Danny ad andare via, Audrey! - Sussurrò con urgenza. - Insomma, dai, guardalo: se fosse uno di loro avrebbe già buttato giù la porta o l’avrebbe aperta con un semplice incantesimo. - 

- Non possiamo fidarci di uno sconosciuto. - Sentenziò Audrey. 

Lucy sbuffò irritata e poi guardò nuovamente fuori attraverso lo spioncino. Aveva l’impressione di aver già visto quel ragazzo da qualche parte. Forse a Hogwarts? Sì… le ricordava quel petulante caposcuola che l’aveva guidata verso la Sala Comune di Grifondoro durante il suo primo anno… Weasley, ecco come si chiamava. Sì, il fratello di Ginny, di quei due gemelli simpatici e di quell’altro sempre alle calcagna di Potter. Se lo ricordava bene perché, durante quell’unico anno passato sotto lo stesso tetto, lui le aveva tolto senza nessuna pietà decine di punti per i motivi più disparati. 

- Sei… quel Weasley, vero? - Domandò Lucy, parlandi per la prima volta ad alta voce, beccandosi uno sguardo assassino da parte di sua sorella. - Sei il caposcuola? - 

Sul viso di lui apparve prima un’espressione sorpresa, poi del compiacimento e, infine, qualcosa parve turbarlo. - No. - Dichiarò.

- E invece sei tu. - Insistette Lucy. 

Con un rapido scatto, la ragazzina mise mano sulla maniglia e spalancò la porta prima che sua sorella potesse fermarla.

Audrey urlò spaventata e prese Lucy per un polso, stringendola forte. Aveva paura che, se l’avesse lasciata andare, allora lei sarebbe sparita nel nulla. 

Ancora al di là della soglia, Percy fece saltare gli occhi da una all’altra, osservando le due ragazze con uno sguardo teso e indagatore. Quella che sembrava più grande, quella con la pelle scura e un sacco di capelli voluminosi come una criniera, sembrava letteralmente terrorizzata e si teneva a distanza, gli occhi sbarrati e le mani strette in due pugni serrati. La seconda invece, quella piccola e bionda, afferrò prontamente uno zaino logoro accattato all’appendiabiti lì accanto e disse: 

- Andiamo. - Come se aspettasse quel momento da mesi.

- No. - La fermò Audrey. - Che diamine ti salta in mente? Andare via con uno sconosciuto, in piena notte, con i tempi che corrono! - 

- Tu chi saresti, di grazia? - Domandò Percy. 

Audrey si voltò ferocemente verso di lui, fulminandolo. - Sono sua sorella. - Tuonò piccata. - Tu chi sei, casomai. -

- Quindi tu saresti… Audrey? - Chiese lui, dando un’occhiata al fascicolo che teneva tra le mani, senza fare una piega. 

Audrey gli scoccò un altro sguardo di fuoco, cosa che portò Lucy a mettersi in mezzo. - È un tipo a posto. - Disse. - Possiamo fidarci. -

Fiducia. 

Una parola sconosciuta per Audrey Manning, dato che spesso non si fidava nemmeno di sé stessa. 

Guardò il rosso con una buona dose di inquisizione, scrutò quel suo atteggiamento vagamente borioso, il modo che aveva di tenere tra le mani quel fascicolo rilegato e gli occhiali che aveva sul naso che gli davano un’aria da noioso impiegato tutto d’un pezzo, e decise che quel tale non le piaceva affatto. 

- Allora qual è il piano, Weasley? - Domandò Lucy, lasciando risuonare una nota di eccitazione nella voce, prima che sua sorella potesse dire qualcosa. 

- Per te c’è un punto di raccolta da cui si attiverà una passaporta per i dintorni di Hogsmeade tra poco. Il signor Silente ti darà una mano a entrare nel castello. - Spiegò lui in fretta, prima di spostare lo sguardo su Audrey. - Ma lei e tua madre devono nascondersi altrove per un po’. - 

- Nostra madre non è qui e io non ho nessun altro posto in cui andare. - Disse lei. - Lucy non verrà con te con quella… passacosa…? - 

- Passaporta. - Percy non poté fare a meno correggerla. 

- Chiamala come ti pare, il concetto rimane lo stesso. - Ribatté Audrey. - Lei non verrà, non da sola almeno. - 

Percy esalò un sospiro stanco, ma fu Lucy a parlare al posto suo: - Audrey… per favore. - Disse semplicemente, guardando sua sorella negli occhi e stringendole una mano. 

Audrey rimase zitta e per un attimo la sua espressione dura si addolcì. 

Percy non aveva idea di quale pensiero stesse passando nella testa di quella babbana, ma quando la vide annuire si sentì subito allegerito. 

- Io però resterò qui. - Decise lei, parlando con voce tremante. - Se verranno a cercarti allora dirò che non ci sei, che sei andata via. -

- Nel migliore dei casi ti tortureranno. - La mise in guardia il mago. - Ma nel peggiore ti tortureranno e poi ti daranno in pasto al lupo mannaro. - 

- Lupo mannaro? - Fece lei, tornando al tono inflessibile di poco prima. - Cos’è tipo uno scherzo il tuo? - 

Percy scosse la testa. - Io non scherzo mai. - Scandì. 

- Fossi in te non ne andrei così fiero. - 

Lui arrossì leggermente e nello stesso istante un calo di energia elettrica fece traballare la luce accesa del corridoio. Sapeva bene cosa voleva dire: - Stanno arrivando. -

Accadde qualcosa di strano: tutto si fece nero e Audrey ebbe la sensazione di essere risucchiata in un tubo strettissimo che le stava letteralmente togliendo il fiato; sentiva gli occhi fuori dalle orbite, i timpani premuti più a fondo nel cranio, la testa sembrava essere sul punto di esplodere e poi i suoi polmoni si riempirono nuovamente della fredda aria notturna e aprì gli occhi lacrimanti. 

Passarono almeno dieci secondi prima che si rendesse conto di non trovarsi più sulla soglia di casa sua. Lei, Lucy e quel tale si trovavano infatti nel bel mezzo di quello che sembrava un parco cittadino. 

- Ma che… - 

- Ci siamo appena smaterializzati, ci vuole un attimo per riprendersi. - Rispose Percy, in piedi davanti a lei con invidiabile stoicismo. - Almeno per i maghi. Per voi babbani è diverso, dato che il vostro corpo mal sopporta la magia per la maggior parte dei casi.  - Aggiunse, prima di rivolgere lo sguardo a Lucy. - Tutto bene? - 

- Sto bene. - Rispose la ragazzina, massaggiandosi la testa. 

Percy annuì in fretta e poi si guardò intorno.

Quello non era assolutamente il piano. Lui doveva solo avvertire, magari aiutare il mago o la strega di turno a raggiungere il punto di raccolta, ma di certo non poteva farsi carico di una babbana, soprattutto se la babbana in questione era poco collaborativa come quella che in quel momento lo stava fissando con uno sguardo che avrebbe potuto potenzialmente ucciderlo. 

Percy avvertì il tipico suono della smaterializzazione da qualche parta attorno a loro, cosa che gli fece sfoderare la bacchetta. Poi, dall’oscurità del parco, emerse un gruppetto di quattro persone capeggiate da un ragazzo corpulento avvolto in un mantello da viaggio, che alzò le mani in segno di resa.

- Dobbiamo farlo proprio tutte le volte, Perce? - Domandò il nuovo arrivato, facendo un sorriso ghembo. 

- Certo che sì. - Ribatté Percy, tenendo la bacchetta alzata. - Non tutti i boccini… - 

- … hanno le ali. - Terminò l’altro. 

Solo a quel punto Percy abbassò la bacchetta. - Ottimo. - Annunciò, prima di voltarsi verso le due sorelle alle sue spalle. - Lui è il mio ex compagno di scuola Oliver Baston, da qui in poi lascio a lui le redini. - 

Audrey, che si sentiva ancora un po’ strana per via della smaterializzazione, fissò Baston e le quattro persone che portava con sé con aria assente. 

Era tutto così surreale. 

Non voleva lasciar andare via sua sorella con quello sconosciuto, ma aveva la strana sensazione che da quella sera tutto sarebbe cambiato. Fino a quel momento la magia per lei era rappresentata da Lucy che faceva svolazzare oggetti in giro per casa beccandosi qualche richiamo dalla scuola, ma un secondo fa si era appena teletrasportata da casa sua a un parco chissà dove. Non poteva competere con quel tipo di cose. Forse davvero non si sarebbe mai potuta difendere. 

- Perché ci state aiutando? - Domandò, brusca. 

Percy rimase zitto per un istante, sperando che fosse Oliver a rispondere al posto suo. 

Erano tanti i motivi che lo spingevano a farlo, talmente tanti che non erano chiari neppure a lui. Stava tentando di limitare i danni creati da quel sistema che un tempo adorava e che in un certo senso contribuiva a mantenere in piedi, e forse una parte di sé voleva solo stare dalla parte giusta della storia nel caso in cui vincessero i buoni. 

Ma sotto tutti quegli strati e quelle sovrastrutture la verità era una sola: voleva fare qualcosa, anche se a modo suo, altrimenti la sua coscienza l’avrebbe ucciso. 

- Be’, chiunque lo farebbe. - Disse Baston. 

- Ma qual è la vostra motivazione? - Insistette lei. - Cosa volete in cambio? - 

Potermi guardare allo specchio senza odiare la mia faccia, pensò Percy, ma rispose semplicemente: - Niente. -

Audrey lo scrutò attentamente, come se stesse tentando di leggergli la mente, cosa che lo fece sentire un po’ in soggezione. 

Alla fine annuì e basta, poi si voltò verso Lucy. - Vuoi andare con loro per davvero? - Le chiese. - Pensi che sia la cosa giusta? - 

- Penso di non avere molta scelta. - Disse lei. - Però tu… - 

- Non preoccuparti per me. Se Oskar qui mi assicurerà che starai bene… allora anche io saprò cavarmela. - 

Oskar? 

- Starà bene. - Promise Oliver.

- Ma nessuno di noi due si chiama Oskar. - Aggiunse Percy. 

Audrey lo ignorò. Sapeva grazie ai racconti di sua sorella che i maghi non fossero molto ferrati in storia babbana e che tantomeno guardassero film sulla seconda guerra mondiale nel loro tempo libero. 

- Era il suo modo contorto di ringraziarvi. - Spiegò Lucy, facendo un sorrisetto. - Vi ha paragonato a un eroe babbano. - 

- Devi scrivermi appena arrivi. - Ordinò Audrey. - E devi stare attenta, non devi metterti nei guai, non fare l’eroina, pensa solo a te stessa. - 

- Io starò bene, tu piuttosto promettimi che andrai a stare da Jude o da mamma. - 

- Ti prometto che troverò un posto sicuro anche per me. - Disse Audrey. 

- È meglio se non ti avvicini a casa tua per qualche settimana. - La mise in guardia Percy. - Probabilmente loro torneranno a controllare. - 

Audrey nuovamente non si degnò né di rispondere né di dare un altro segno di averlo sentito parlare. 

Con la coda dell’occhio lo vide i due maghi scambiarsi un paio di frasi sottovoce, poi il rosso agitò la bacchetta con un gesto piuttosto plateale, evocando una piuma e un foglio di pergamena su cui scrisse qualcosa alla svelta. 

- Questo è il mio indirizzo, ma solo per le emergenze. - Disse a Audrey, porgendole il pezzo di carta con l’atteggiamento di uno che si sentiva costretto a farlo. - Se hai bisogno di aiuto saprai dove trovarmi. - 

Audrey afferrò il foglio con una certa stizza e se lo infilò in tasca della giacca giurando a sé stessa che non l’avrebbe mai usato. 

Lei se la cavava da sola. 

- La passaporta si attiverà tra pochi minuti. - Li avvertì Baston, indicando una bottiglia di birra abbandonata accanto a una panchina a pochi metri da lì.

Il gruppo si mosse mettendosi in cerchio attorno a quell’insulso oggetto. Solo Percy rimase fermo accanto ad Audrey, che a sua volta era immobile e tesa come se si aspettasse di assistere a un evento orribile da un momento all’altro. 

Non fu niente di spettacolare, semplicemente scomparvero nel nulla in un vortice luminoso che durò un solo istante, facendo crollare il silenzio della notte su di loro. 

Seguì un attimo in cui il tempo parve fermarsi, poi Audrey si guardò attorno per davvero per la prima volta. - Dove siamo? - Chiese.

- Hyde Park. - Rispose Percy.

Lei sbuffò e senza dire altro iniziò a incamminarsi alla ricerca dell’uscita. 

- Dove stai andando? - Domandò il ragazzo con una certa urgenza, inseguendola. - Hai un posto in cui dormire per stanotte? - 

- Sì. - 

- Forse è il caso che io ti accompagni. - 

- No. - 

- Ma non puoi andare in giro da sola di notte… - 

- Invece posso. - 

- Ma… - 

Audrey si fermò di botto, voltandosi nella sua direzione. - Senti, grazie per aver probabilmente salvato mia sorella dalla vostra orribile prigione o da qualsiasi altra cosa infernale abbiate inventato per rinchiudere quelli come lei, davvero. - Disse, con un inaspettato slancio di sincerità. - Ma non c’è bisogno che tu faccia altro per me stasera. - 

- Non sarebbe per te, sarebbe per me. - 

- Già, è così che funziona l’altruismo: si fa qualcosa di buono per avere in cambio un notevole accrescimento del nostro già spropositato ego. - Rispose lei, alzando i lati della bocca in un ghigno cinico. 

Lui corrucciò le sopracciglia, fissandola con una certa sorpresa dipinta in viso. 

- Ma se proprio ci tieni… allora d’accordo. Fa pure la tua parte da cavalliere ben educato e accompagnami. - Proseguì Audrey, dopo un sospiro. - Però niente conversazione. - Chiarì, prima di  riprendere a camminare.

Percy indugiò per un secondo e poi la seguì senza dire una parola, proprio come gli aveva chiesto lei. 

Quella sarebbe stata decisamente una lunga passeggiata.

Lo sapeva.



 

Non lo so.

Siamo solo al primo capitolo e già la mia pungente insoddisfazione si sta facendo sentire forte e chiara. Ad ogni modo finalmente conosciamo la nostra co-protagonista (o semplicemente protagonista dato che gran parte dei capitoli saranno basati su di lei) e devo dire che mi convince e non mi convince, ma è una cosa che mi capita sempre all’inizio con dei nuovi personaggi. 

So che siamo all’inizio, quindi immagino che non ci siano chissà che cose da dire, ma se vi va di farmi sapere il vostro parere sappiate che mi dareste una grande mano, sia per migliorarmi sia perché spesso manco parecchio di motivazione!

Comunque grazie per aver letto e alla prossima!

J. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. Il jazz ***


Capitolo 2

 

 

Lucy non le aveva scritto. Audrey non aveva notizie di lei da almeno due settimane ormai e questo l’aveva gettata nel panico più totale. 

La vita scorreva come se nulla fosse mai successo, come se quel ragazzo dall’aria impettita non si fosse mai presentato davanti alla sua porta per poi farla teletrasportare in un parco a chilometri da lì, come se Lucy non fosse mai andata via con un gruppo di sconosciuti solo toccando una bottiglia abbandonata. L’unica eccezione stava nel fatto che Audrey adesso non risiedeva più a casa sua ma bensì nella spaziosa e ben ordinata villetta in cui vivevano sua nonna e la sua bisnonna e in cui era cresciuto anche suo padre.

Lì aveva una camera tutta per sé e un pianoforte in salotto da poter usare liberamente. Non aveva bisogno di fare le pulizie o di cucinare per sé stessa, dato che a questo pensava sempre e solo sua nonna Harriette, poteva lasciarsi coccolare un bel po’, per una volta, ma in compenso aveva una serie di rigide regole da seguire: non poteva tornare a casa più tardi delle undici e mezza di notte, non poteva entrare indossando le scarpe, doveva accompagnare le due padrone di casa a messa tutte le domeniche e soprattutto evitare di portare altri strani ragazzi dall’aria ambigua a quella porta. 

- Non vorrai essere sconsiderata come tua madre. - Le aveva detto nonna Harriette quando l’aveva fatta entrare in casa quella notte, le mani poggiate sui fianchi e lo sguardo indagatore di chi cercava di capire di quale orribili colpe si fosse macchiata sua nipote. 

- Io non sono mai sconsiderata. - Aveva risposto lei in tutta tranquillità.

Stando in quella casa, infine, Audrey si sentiva in dovere di ascoltare tutte le storie che raccontava la bisnonna Constance, che con la testa non c’era quasi più: era certa di avere su per giù centotrent’anni e di possedere strani poteri magici paragonabili a quelli di Lucy, che però non si erano mai davvero palesati.

Dunque Audrey passava quasi tutto il suo tempo libero seduta sulla poltrona gialla sistemata in salotto davanti al camino quasi sempre spento, con in sottofondo la voce della vecchia nelle orecchie, che ogni tanto decideva di mettersi a parlare una delle lingue locali del Ghana al posto dell’inglese, facendo apparire sul volto della giovane un'espressione piena di interrogativi.

Di mattina sua nonna Harriette la svegliava con l’odore del caffè e del platano fritto, le preparava persino il pranzo da portare con sé durante le lezioni e puntualmente le ripeteva che non c’era bisogno che andasse a lavoro quel pomeriggio, che poteva concentrarsi solo sul canto, che i soldi non erano un problema. Ma se c’era una cosa che Audrey aveva imparato dall’avere a che fare con sua madre per anni, era che non ci si poteva mai fidare di chi sembrava volerti bene esattamente come non ci si poteva mai fidare di chi invece cercava apertamente di ostacolare la tua strada. 

Insomma, mai abbassare la guardia. 

E poi tenersi occupata per la maggior parte del giorno la aiutava a non mettersi a urlare dall’angoscia di aver perso sua sorella chissà dove. 

Quando però la casa si gettava nel buio, non era solo il fragoroso russare di Constance a tenerla sveglia, ma anche il pensiero fisso di Lucy, magari da sola e impaurita, lontana da lei che aveva il compito di proteggerla. 

Di solito le bastava mettersi le cuffie e ascoltare qualcosa a volume altissimo (aveva corso un rischio tornando a casa sua per recuperare le sue cose, ma ne era decisamente valsa la pena). 

Quella sera in particolare Audrey era nel suo letto a occhi spalancati, rivolti verso il soffitto come se ci fosse proiettato qualcosa di molto interessante. Quando non lavorava, lei, nonna Harriette e la bisnonna Constance cenavano alle sei in punto e alle nove erano già tutte e tre pronte per coricarsi. 

Quella camera era rimasta esattamente come quando era piccola, quando Audrey dormiva lì il giovedì e a fine settimana alterni per poter stare con suo padre: c’erano ancora le sue foto d’infanzia attaccate alle pareti e i suoi vecchi pupazzi. In quel momento il suo zaino era abbandonato assieme alla sua giacca accanto alla scrivania e dalla finestra entrava la luce dei lampioni che illuminavano a giorno la strada. 

Audrey sospirò e rivolse lo sguardo alla sveglia al suo fianco, notando che erano appena scattate le nove e trenta, cosa che la gettò per un attimo nella tristezza: il tempo non passava mai, la notte era ancora molto lunga e probabilmente lei non sarebbe riuscita ad addormentarsi molto presto. 

Si alzò dal letto e si trascinò stancamente verso la finestra. Lì prese a fissare il cielo al di fuori di essa. Era arrivato novembre con i suoi giorni freddi e corti in cui aveva piovuto spesso, ma quella notte non c’erano nuvole e si potevano vedere le stelle. 

Audrey aveva imparato a riconoscere le costellazioni e i pianeti grazie a Lucy, che da sempre era una appassionata di astronomia. Chissà se in quel momento anche Lucy poteva osservare il cielo come stava facendo lei e chissà, magari avrebbero posato lo sguardo sullo stesso puntino luminoso. 

L’ormai familiare morsa dell’angoscia stritolò le viscere di Audrey con più forza del solito. Non poteva continuare a stare all’oscuro, ma non poteva rivolgersi a nessuno, non poteva parlarne a nessuno. 

Se solo fosse stata meno diffidente con quel Percy Weasley, se solo avesse conservato il suo indirizzo con più cura… 

Audrey sgranò gli occhi e si voltò verso la sua giacca abbandonata a terra a pochi metri da lì. La afferrò alla svelta e subito iniziò a frugare nelle tasche tirando fuori un paio di caramelle balsamiche, un biglietto della metropolitana, una volantino di un nuovo ristorante cinese aperto lì vicino e alla fine un foglio stropicciato di pergamena. 

Sì! Pensò mentre lo apriva, svelandone il contenuto. 

Lì, scritto con una calligrafia insolitamente ordinata e ben leggibile, c’era proprio ciò di cui aveva bisogno. 

A quanto pareva la casa del mago era a poca distanza da Portobello Road a Notting Hill, cosa che sorprese Audrey: Weasley non aveva di certo la faccia di uno che passava il tempo libero aggirandosi in un posto pittoresco come quello; piuttosto se lo era immaginato in un minuscolo appartamento situato in un noioso e cupo quartiere dormitorio in periferia. 

Di buono c’era il fatto che fosse a soli quattro chilometri da lì e che in fondo non era nemmeno poi così tardi da non poter azzardare a fargli visita. 

In silenzio e muovendosi nella penombra della sua stanza, Audrey afferrò lo zaino e i vestiti che aveva indossato durante quel giorno appena passato e scivolò in bagno, dove si ritrovò immediatamente davanti alla sua immagine riflessa nello specchio appeso sopra il lavandino. 

Non aveva un bell’aspetto in quel momento, con il pigiama a quadretti rosa e neri in pile e con la cuffia che indossava di notte per non rendere i suoi capelli come quelli di uno spaventapasseri al mattino. 

Si spogliò in fretta e senza fermarsi ancora ad osservare sé stessa, afferrò i jeans, il maglione a righe bianche e verdi che aveva raccattato poco prima in camera sua e li indossò, prima di mettersi lo zaino sulle spalle. Poi si liberò della cuffia e lasciò il bagno, ritrovandosi nuovamente nel corridoio silenzioso del primo piano.

Probabilmente se sua nonna l’avesse beccata a sgattaiolare fuori di casa le avrebbe fatto una di quelle sue infinite ramanzine in cui la metteva in guardia dal non diventare come sua madre, ma in quel momento Audrey decise che non le importava: forse aveva trovato un modo per calmare le sue ansie una volta per tutte. Doveva parlare con quel ragazzo, e doveva farlo subito. 

Scese le scale senza fare il minimo rumore, afferrò le chiavi dell’auto di nonna Harriette e quando passò davanti alla porta della cucina la gatta di casa di nome Misty la salutò con un sommesso miagolio. 

- Ciao anche a te. - Mormorò, prima di uscire di casa. 

Audrey impiegò poco per raggiungere il portone del palazzo in cui probabilmente Percy Weasley abitava. 

Si trattava di un palazzo con la facciata dipinta di verde, un bel posto, con tanto di portiere all’ingresso che le indicò il secondo piano, interno 23A, una porta rossa tra altre quattro porte rosse, la cui targhetta affissa sul campanello diceva "Weasley-Light". 

Audrey esitò per un solo istante e poi bussò e rimase ferma sullo zerbino, tesa e un po’ nervosa senza sapere esattamente il perché. Pochi secondi dopo, avvertì un movimento dietro la porta, che si aprì mostrando un Percy Weasley un po’ diverso da quello che si era presentato a casa sua giorni prima, senza occhiali e con indosso un pigiama quasi più degno del completo che indossava quella volta. 

Audrey aprì la bocca per parlare, ma lui la anticipò afferrandola per un polso e spingendola in casa come se rimanere al di fuori fosse orribilmente pericoloso. Chiuse la porta e poi si voltò verso di lei. 

- Che è successo? - Le domandò. - Sei in pericolo? Ti hanno seguita? - 

Audrey fece un verso sprezzante e scosse la testa. - Intanto datti una calmata. - Lo fermò, iniziando a guardarsi intorno. 

L’appartamento di Percy non era nient'altro che un monolocale di pochi metri quadri ma che manteneva una certa dignità. Era molto ordinato e pulito, il letto era vicino alla finestra, diviso dal resto della stanza da un separè di legno. C’era un divano di tessuto azzurro con davanti un basso tavolino di vimini, un camino acceso, una gabbietta per uccelli in quel momento vuota. La cucina sembrava non essere mai stata usata e tutto l’ambiente sembrava uscito da un pessimo catalogo di arredamento vista la mancata impronta di una personalità tra quelle mura. Non c’erano foto appese alle pareti, tranne una, affissa in qualche strano modo magico al frigorifero, che raffigurava lo stesso Percy in compagnia di una ragazza bionda e molto carina dall’aspetto angelico. Non c’erano quadri, ma c’erano un paio di piante lasciate a morire su una mensola, dei libri piazzati in una piccola libreria insieme a mozziconi di candela.

- Sono qui perché non ho ricevuto nessuna notizia da Lucy, tu sai qualcosa, per caso? - Chiese Audrey, tornando a rivolgere lo sguardo al padrone di casa. 

Percy scosse la testa in fretta. - Ti avevo detto di venire qui solo in caso di emergenza. - Le ricordò. 

- Questa è un’emergenza. - Ribadì fermamente lei. - Non ho notizie di mia sorella da settimane, non so se è ancora viva, se è al sicuro, se sta bene… non so niente. Non sapevo a chi rivolgermi e quindi eccomi qui. Sai, non conosco molti altri maghi, per fortuna. - 

Percy la guardò con occhi stretti e Audrey si domandò se fosse il suo tentativo di scoccare un’occhiata di sottecchi o se semplicemente senza occhiali non vedesse davvero un accidente. Quando poi il ragazzo si affrettò a inforcare gli occhiali da vista, abbandonati sul tavolo nei pressi dell’angolo cottura, accanto a un libro rilegato, la risposta fu per lei ovvia. 

- Vedrò Baston e poi ti farò sapere. - Disse Percy, usando il tono di uno che sembrava assolutamente intenzionato a darle una lavata di capo. - Ma non puoi presentarti qui se non hai una vera emergenza. E per vera emergenza intendo pericolo, pericolo mortale! -

- Dovevo parlarti in qualche modo e dato che vuoi maghi vi ostinate a vivere come se il mondo fosse rimasto fermo nel medioevo non avevo il tuo numero di telefono. - Lo fermò lei. - Comunque era tutto qui, adesso me ne vado, stronzo. -

Percy sgranò gli occhi e per un istante si sentì interdetto. 

Nonostante suo padre fosse notoriamente non solo un grande sostenitore dei babbani ma anche un grande appassionato della loro cultura, Percy Weasley non aveva mai avuto molto a che fare con loro. Certo, aveva incontrato i genitori di Penelope un paio di volte, — la prima in stazione, di ritorno dal loro settimo e ultimo anno, e la seconda durante un brunch per annunciare loro che sarebbero andati a vivere insieme, — ma Percy non si era goduto nessuna di quelle due occasioni, troppo occupato a dimostrare di essere un ottimo partito per la loro unica figlia. 

Ai tempi della scuola le lezioni di babbanologia gli erano sempre sembrate piuttosto interessanti ma, quando settimane prima si era ritrovato a camminare a fianco a Audrey Manning in piena notte e in una Londra fredda e deserta, gli sembrò che tutte le nozioni imparate in quegli anni gli fossero scivolate via dalla mente. 

Lei lo detestava, era palese. 

Ogni volta in cui aveva tentato di intavolare una conversazione affidandosi ai cari vecchi discorsi sul tempo o puntando tutto su qualche aneddoto di storia della magia che aveva letto a Hogwarts, giusto per occupare quell’imbarazzante silenzio (“fa freddo stanotte, eh?”, “in realtà la caccia alle streghe non ha portato perdite al nostro mondo: basta un semplice incantesimo per rendere innocue le fiamme”), Audrey gli aveva rivolto uno sguardo di sufficienza e aveva risposto mugugnando sommessamente.

Alla fine, una volta arrivati davanti ad una graziosa villetta in un quartiere residenziale dove a quanto pareva viveva la nonna di lei, i due si erano dati una gelida quanto salda stretta di mano; poi Percy l’aveva guardata raggiungere il portico, suonare il campanello e aspettare circa un minuto. Quando infine la porta si era aperta e una signora in pigiama era apparsa sulla soglia, assonnata e probabilmente molto sorpresa di vedere sua nipote in compagnia di uno sconosciuto quell’ora della notte, lui se ne era andato, certo che Audrey fosse finalmente al sicuro. 

I giorni successivi a quell’incontro erano stati strani per Percy: solitamente lasciava scivolare dalla sua mente le storie e le vicende di quei nati babbani che tentava di mettere in salvo nel giro di poco tempo, ma quella volta non era andata così. 

Forse perché era stato complicato convincere Audrey a fidarsi di lui, forse perché temeva che facesse qualcosa di stupido come tornare a casa sua, o magari semplicemente perché si sentiva incuriosito da quella strana babbana dall’aria truce. 

Si era domandato anche lui se Lucy fosse effettivamente arrivata a Hogwarts sana e salva o se avesse avuto difficoltà nell’arrivare al castello, se avesse avvertito la sorella maggiore e si era chiesto come se la passasse invece Audrey a casa della nonna. 

Ad ogni modo a lui non dispiaceva lasciarsi distrarre un po’ dal pensiero di quelle due sconosciute: era sempre meglio che rimuginare sulla sua vita, sulla perdita di Penelope o sul timore che un giorno avrebbe visto suo padre a processo perché sorpreso in contatto con qualche indesiderabile, — o peggio, con l’indesiderabile numero uno, Harry Potter. 

Sì, era decisamente meglio cercare di ricordare di che colore fossero di preciso gli occhi di Audrey Manning rispetto a tutto il resto delle cose che affollavano la sua mente in quel momento. 

E ora, guardandola in faccia, si rese conto che non aveva visto male, che Audrey aveva davvero gli occhi di un particolare verde scuro. 

- Sono il tuo unico contatto che hai con il mondo di tua sorella, forse non ti conviene appellarmi con certi termini offensivi. - La ammonì, distolse lo sguardo.

Audrey mugugnò come al solito e incrociò le braccia sul petto. - Be’... allora scusa? - 

Percy aggrottò le sopracciglia come per dire “lascia stare” e poi sospirò. - Vuoi una tazza di tè? - Propose, nel tentativo di distendere le tensioni, anche se con la speranza che lei dicesse di no. 

Audrey mugugnò ancora, l’aria combattuta. Si strinse un po’ nelle spalle, facendosi tornare in mente la sensazione del pungente freddo che aveva dovuto attraversare per arrivare fin lì e all’improvviso l’idea di bere qualcosa di caldo, seppur insieme a quel Weasley, non le parve così male. - Sì. Grazie. - Rispose. 

Percy raggiunse il piano cottura immacolato, prese il bollitore dalla credenza e dopo averlo riempito d’acqua lo colpì con la bacchetta e uno sbuffo di vapore si alzò istantaneamente dall'ugello. 

- Sarai abituata a vedere incantesimi. - Disse, mentre appellava un paio di tazze e due bustine di tè. 

- In verità non molto. - Confessò Audrey, sforzandosi di fare un po’ di conversazione come probabilmente era giusto fare in quei casi. - Lucy è minorenne, non può usare la magia fuori dalla scuola. Ho sempre tentato di farle seguire le vostre regole, anche se con scarsi risultati visto che di tanto in tanto Hogwarts le mandava dei richiami. - 

- Le restrizioni sulla magia per i minorenni sono necessarie. - Disse Percy, e nel frattempo versò l’acqua. Si voltò verso Audrey e le porse la tazza piena e bollente prima di continuare: - Ricordo un po’ tua sorella; ai tempi della scuola eravamo nella stessa Casa, seppur naturalmente in anni diversi. Un tipetto agitato, sì. - 

Audrey annuì senza proferire parola. 

- Se vuoi puoi sederti, prego. - Suggerì Percy, indicando il divano azzurro alle sue spalle. 

Lei emise un basso mugolio di assenso e obbedì, lasciando lo zaino ai suoi piedi, cosa che lui fece un istante dopo, accomodandosi dall’altro capo del sofà, a debita distanza. 

Audrey non odiava il silenzio, non la metteva in imbarazzo star zitta anche se si trovava davanti a uno sconosciuto, ma a quanto pareva questo non era lo stesso per Percy: - Di dove sei? - Le domandò.

- Di Londra. - Rispose lei, che nel frattempo era tornata a guardarsi intorno, stringendo la tazza calda tra le mani. - E tu? - 

- Devonshire. - 

- Sei un ragazzo di campagna. - 

- Vivo qui da anni ormai. - Spiegò Percy alla svelta. - Ma io intendevo dire… di dove sei veramente? - 

Audrey staccò gli occhi dalla fotografia di Percy con la ragazza bionda, per puntarli su di lui. - Sono nata a Londra. - Ribadì. - Mio padre è nato a Londra da genitori ghanesi, mentre mia madre è di Belfast ma ha vissuto qui con me e Lucy per diciotto anni prima di tornare in Irlanda. Ora dimmi, secondo te di dove sono veramente?

Percy arrossì lievemente. - La mia era solo una curiosità. - Balbettò in imbarazzo, ma cercando di darsi un contegno. - Avevo un amico di penna, una volta; era del Botswana e frequentava la scuola di magia del continente africano. Parlava un ottimo inglese. -  

Audrey sospirò. Aveva fatto conversazioni del genere moltissime volte nella sua vita, ma avrebbe mentito nel dire che ci era abituata. - L’inglese è la lingua ufficiale di molti stati africani. Sai… il colonialismo. - Disse, prima di portare la tazza alla bocca. 

- Una grave macchia sulla storia britannica. - Annuì Percy.

Audrey lo fissò per un paio di secondi, alzando entrambe le sopracciglia. - Sembri un politico. - Commentò, e Percy non capì se fosse un complimento o un insulto. 

- Quando ero giovane desideravo diventare Ministro della Magia. - Ammise. 

- Giovane? Avrai sì e no la mia età. - 

- Quanti anni hai? - 

- Quasi venti. Li compirò a dicembre. - 

- Io li ho fatti ad agosto, invece. - Spiegò Percy. - Ad ogni modo intendevo quando ero solo un ragazzino. Quando i miei parenti chiedevano cosa volessi fare da grande io rispondevo sempre che mi sarebbe piaciuto diventare Ministro. - 

- E adesso cosa stai facendo? -

- L’assistente del Ministro. - 

Audrey aggrottò la fronte e scosse la testa senza capire. - Aspetta. Tu sei l’assistente del Ministro della Magia? - Tentò di accertarsi. 

Percy annuì, ma senza alcuna fierezza. 

- Ma non è proprio il Ministero della Magia che vuole liberarsi di tutti i Nati Babbani? - 

- Esatto. - 

- E tu lavori per loro. - 

- Sì. - 

- Direi che sei un problema bello grosso per loro, Weasley. Grosso e insospettabile. - Sogghignò Audrey, guardandolo da capo a piedi. - Devi essere un tipo coraggioso. Fai spesso ciò che hai fatto per me e Lucy? - 

Il viso di lui si adombrò di botto. Audrey lo vide stringere forte la tazza tra le mani e poi bere come se volesse prendere tempo prima di rispondere. - Non spesso quanto vorrei. - Disse alla fine. - Non posso salvarli tutti, altrimenti loro impiegherebbero poco a capire che hanno un grosso e insospettabile problema interno. - 

Anche l’espressione di Audrey mutò radicalmente, diventando afflitta quasi quanto quella di Percy. 

Sei davvero costretto a scegliere chi vive e chi muore, Weasley? Come ci riesci? Questo avrebbe voluto chiedergli, ma decise che forse non era il caso di indagare più a fondo di così. 

- Tu cosa desideravi diventare quando eri bambina? - Domandò lui, riallacciandosi al discorso di poco prima.

- Io ho sempre voluto fare la cantante. - Rispose Audrey, accennando un sorriso per un istante prima di tornare alla sua solita espressione distaccata. 

- E ci sei riuscita? - Indagò Percy. 

- In un certo senso... diciamo che ci sto lavorando. Non voglio diventare famosa. Mi basterebbe guadagnare abbastanza da poter vivere solo con la musica, ma nel frattempo lavoro in un ristorante italiano. - Spiegò Audrey. - A proposito, Lucy mi ha fatto ascoltare alcune band del vostro mondo… le Sorelle Stravagarie sono un palese plagio dei Nirvana, lo sai? - 

- Non so: non ascolto la musica. - Dichiarò Percy, e poi bevve un po’ dalla sua tazza. 

Audrey aggrottò la fronte. - In che senso, scusa? - 

- Semplicemente non la ascolto, non mi piace. - Percy scrollò le spalle.

Lei fu, se possibile, ancor più sorpresa. - Forse non hai ancora trovato il genere che fa per te. - Ipotizzò. - Sai cosa urlava il completo che indossavi la volta scorsa? Urlava “sono un amante del jazz”. - 

- L’unico genere che tollero a piccole dosi è la musica classica. - Rispose lui, come se ne andasse particolarmente fiero. 

- Fidati di me: il jazz. Ce l’hai scritto in faccia. - Rimarcò Audrey, prima di afferrare il suo zaino abbandonato a terra. 

Lo aprì, ci frugò dentro e poi tirò fuori un affare che Percy aveva visto solo sul manuale di babbanologia dell’ultimo anno: Un lettore cd con le cuffie; un particolare strumento, diceva il libro, che i babbani usavano per ascoltare la musica senza disturbare gli altri. 

- Qui ho solo Chet Baker, ma direi che è ottimo per iniziare. - Disse Audrey, porgendogli l’oggetto. - Se non ti piace nemmeno questo allora scusa, ma forse non hai un anima. - 

Percy esitò, fissando il lettore cd con un misto di diffidenza e sorpresa. Tra loro due quella senza anima sembrava proprio lei; tuttavia in quel momento le sembrò molto più umana di quanto non si fosse convinto durante quelle settimane in cui l’aveva pensata. 

Alla fine Percy accettò, allungò la mano e afferrò quell’oggetto di cui ignorava il funzionamento e un secondo dopo lei si alzò in piedi e si rimise lo zaino in spalla. 

- Portamelo di nuovo quando avrai notizie su Lucy. Ah, non venire a casa mia, che mia nonna ha pensato male, la volta scorsa. - Disse. - E niente lettere spedite via gufo: quegli uccelli mi fanno paura. -  

- E come faccio a darti notizie allora? - Domandò lui. 

- Mi scrivi usando la posta comune, mi chiami da una cabina telefonica, che ne so… - Buttò lì Audrey. - Oppure passa al ristorante in cui lavoro, magari a cena o nel pomeriggio. Il posto si trova a Covent Garden, vicino alla Royal Opera House. Si chiama “Bistrot Viva Verdi”; un retaggio del loro risorgimento, a quanto pare. Hanno dieci varianti di lasagna. -

- Sì, magari ti scriverò una lettera. - Tagliò corto Percy. 

- Oh. - Per un attimo Audrey parve delusa, ma si riprese con rapidità tale che Percy si convinse di aver visto male. - Be’, dovrai restituire il lettore cd prima o poi. Anche se potresti impacchettarlo e spedirlo… fai un po’ tu. Adesso è meglio che vada. - Audrey si mosse verso la soglia e poi si voltò di nuovo verso di lui. - Aspetterò la tua lettera. Spero che tu sappia come si spedisce. - 

- Ho eccellente ai M.A.G.O. in babbanologia, so esattamente come comportarmi. - La rassicurò lui, alzandosi in piedi per accompagnarla alla porta. 

- Suppongo che sia una cosa importante, ma non mi importa. - Sospirò lei, con aria vagamente canzonatoria. 

Percy la ignorò, guardandola come spesso aveva guardato Fred e George quando lo prendevano in giro. - Avrai presto mie notizie, e notizie di Lucy. - 

- Ci conto, Oskar. - Fece lei, mettendo una mano sulla maniglia e aprendo la porta. Varcò la soglia e di nuovo si voltò verso Percy. - Allora buonanotte. - 

- Vuoi che ti accompagni? - 

Audrey scrollò le spalle e non disse niente prima di attraversare il pianerottolo verso le scale. - Ci si vede, Weasley. O forse no. - 




 

Tremilanovecentosettanta parole e cosa succede in questo capitolo? Niente. Però siamo ancora all’inizio quindi ci sta, no? Bisogna costruire legami, far interagire i personaggi eccetera eccetera… vabbè. Spero possiate perdonarmi e che il mio inevitabile allungare il brodo non sia così fastidioso. Purtroppo questo è il mio modo di scrivere e di gestire le trame, abbiate pazienza.

Alla prossima! E fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va.

J. 


 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. Odissea ***


Capitolo 3


Nonostante avessero condiviso il dormitorio per sette anni e nonostante le interminabili lezioni di storia della magia che avevano superato seduti fianco a fianco nello stesso banco, Percy Weasley e Oliver Baston non potevano davvero considerarsi amici. 

Prima di tutto non avevano niente in comune: Percy era probabilmente l’unico Weasley sulla faccia della terra a essere totalmente inadatto al volo, al contrario Oliver che non era molto portato per gli studi ma che in compenso aveva un certo talento nel quidditch. 

Percy era preciso e ordinato, il suo letto in dormitorio era sempre ben fatto, i suoi vestiti sempre piegati e sistemati nel baule, mentre Oliver aveva la cattiva abitudine di buttare la sua divisa un po’ dove capitava quando se la toglieva. 

Avevano un diverso approccio anche con le donne: Percy aveva sempre desiderato una brava ragazza, qualcuno da far conoscere ai suoi genitori, per poi sposarsi prima dei venticinque anni e fare dei figli prima dei trenta. 

Si era accorto di Penelope alla fine del quinto anno, era rimasto colpito dal modo in cui lei sorrideva, dalle movenze aggraziate con cui la giovane faceva qualsiasi normale azione, e poi all'inizio del sesto anno l’aveva invitata ad uscire e si erano messi insieme. Oliver d’altra parte aveva deciso che non si sarebbe fidanzato prima dei quarant’anni, che preferiva la scopa alle relazioni, anche se aveva da sempre una tresca per Katie Bell, ex compagna di squadra nonché una tra le sue più care amiche. 

Percy Weasley e Oliver Baston non potevano davvero considerarsi amici, ma dovevano entrambi ammettere che, da quando avevano iniziato a collaborare per mettere in salvo più persone possibili dai ghermidori, tra loro si era sviluppato un certo tipo di… affetto. 

Ogni tanto, di sera, i due si vedevano in pub babbani, lontani dal mondo magico in declino, e lì parlavano di ciò che stava accadendo e soprattutto di quali persone salvare la volta successiva. 

I visi di quelli che non ce l’avevano fatta, di chi andava a processo e poi magari veniva arrestato o ucciso, perseguitavano Percy di giorno e soprattutto di notte, quando la sua testa si riempiva di incubi orrendi in cui spesso apparivano anche i suoi genitori e i suoi fratelli. Li vedeva ad Azkaban, vedeva la Tana distrutta, la sua famiglia sterminata e lui immobile e senza il coraggio di andarli a salvare. 

Durante quelle uscite al pub, Oliver parlava degli attacchi contro i babbani che era riuscito a sventare, degli incantesimi di protezione che aveva gettato sulle case dei suoi vicini, di ragazze e di quidditch, mentre Percy parlava dei processi a cui di tanto in tanto assisteva, della Umbridge, dei mangiamorte che avevano preso posti di spicco, — come Rookwood che era tornato all’Ufficio Misteri o Yaxley al Censimento dei Nati Babbani, — e soprattutto parlava di Penelope, di quando sentiva la sua mancanza, di quanto temeva che il loro amore non sarebbe sopravvissuto a tutti quei mesi, o forse anni, d’assenza. 

A volte a loro si univa anche Katie che, oltre a lavorare al Dipartimento delle Catastrofi e degli Incidenti Magici del Ministero della Magia, aveva anche fornito spesso ospitalità in casa sua alle famiglie di maghi nati babbani, visto che viveva in una grossa fattoria ben protetta sulle coste gallesi. 

- Senti, Weasley. - Stava dicendo quella sera la giovane ex cacciatrice, seduta al tavolo lercio di un pub altrettanto lercio, davanti ad una birra scura e a delle patatine fritte e molto unte. - La tua ragazza si chiama Penelope. Aspetterà. Ti aspetterà. - 

In un angolo del locale un chitarrista dall’aria depressa stava suonando la cover di una triste canzone babbana, cosa che fece sentire Percy ancor più giù di morale. 

- Che c’entra il suo nome? - Chiese, senza capire.

- Fai tanto il saputello e non conosci l’Odissea? - 

- Non tutti abbiamo la possibilità di accedere alla cultura babbana come chi ha uno o più genitori babbani come nel tuo caso, Bell. - La bacchettò Percy, piccato. 

Katie mosse la mano in aria con noncuranza. - Mia mamma insegnava letteratura, quando era ancora viva. - Iniziò a spiegare. - Lei è sempre stata una grande appassionata di libri e quando ero bambina mi raccontava spesso di questo scrittore greco, Omero, che ha scritto questo poema epico, chiamato l’Odissea. È lunga da spiegare, ma ti basterà sapere che c’è questa Penelope che aspetta che il marito torni dalla guerra per anni. Il vero amore non viene spezzato da certe cose. Se ti ama ti aspetterà. - 

Percy, non del tutto convinto, brontolò qualcosa di sconnesso, poi prese una delle patatine unte di Katie e se la mangiò. 

- Oppure potresti darci un taglio e andare avanti con la tua vita. - Si mise in mezzo Oliver, seduto accanto a Katie, facendo un sorrisetto sbilenco. - Gli amori che iniziano a scuola non durano quasi mai per molto tempo. - 

Percy, in tutta risposta, lo fulminò con uno dei suoi sguardi colmi di disapprovazione e rimprovero. - Io e Penny siamo diversi. - Asserì. - Noi due siamo innamorati. - 

- Allora non capisco di cosa ti preoccupi. - Ribadì Katie. - Te l'ho già detto: se davvero ti ama allora ti aspetta. E se proprio non sarà così allora forse non era destino. - 

Percy, sebbene non credesse nel destino, nel fato o nella casualità, si limitò ad annuire. Si sentiva svuotato ogni volta che affrontavamo quella conversazione, eppure era sempre di quello che si ritrovava a parlare alla fine. 

- Se Penelope tornerà a casa con un altro alle calcagna… allora vorrà dire che cambierai montatura di occhiali, ti rifarai il guardaroba e ti rimetterai su piazza. - Disse Baston, annuendo convinto. 

- I miei occhiali vanno benissimo così e anche i miei vestiti. - Obiettò Percy, passando le mani sul tessuto pesante della giacca in tweed che indossava in quel momento. 

- Sì, se punti a quelle nate prima del 1940. - Rise Katie. - Se devi vestirti da babbano almeno farlo bene. - 

Percy liquidò la questione con un pigro gesto della mano, ma scoccò un’occhiata veloce verso di lei. In effetti Katie era proprio brava a fingersi babbana, con quel suo vestito in maglia verde bottiglia, le converse ai piedi e i capelli castani sciolti sulle spalle. A contrario Oliver non si era nemmeno degnato di sostituire il mantello con un cappotto per passare inosservato.

- Senti, Baston… - Disse Percy, dopo aver posato lo sguardo sull’amico. - Ti ricordi di quella ragazzina che abbiamo salvato dai Ghermidori qualche settimana fa? Lucy Manning? - 

Oliver ci pensò su e poi scosse la testa. 

- Avanti, quella che viveva con la sorella! - Tentò ancora Percy. - La ragazza babbana e molto diffidente che ci ha chiesto cosa volessimo in cambio… ha chiamato uno di noi due Oskar! Eravamo a Hyde Park! - 

- Ah sì. - Fece Oliver. - Sì, sì, ricordo. Come si chiama… Andrea? - 

- Audrey. - 

- Audrey, sì, giusto. - Annuì il portiere. - Sì, quella carina, con tutti quei capelli... sono piuttosto certo non portasse niente sotto alla maglietta che indossava quella sera. - 

Katie, indignata, tirò uno schiaffo pieno di irritazione sulla spalla di Oliver. 

- Hey, non è colpa mia se la gente va in giro con i capezzoli al vento! - 

- Non ci ho fatto caso. - Intervenne Percy, tentando di cancellare quell’immagine dalla sua testa. - Volevo sapere se sei in contatto con lei… con Lucy, naturalmente. Audrey è venuta a casa mia giorni fa a chiedere informazioni. - 

- So che è arrivata a Hogwarts sana e salva come tutti gli altri. - Rispose Oliver. - Magari posso far arrivare alla sorella una lettera o cose del genere, vedrò cosa posso fare. - 

- Sì, grazie. Altrimenti credo che lei mi ucciderà o si presenterà di nuovo a casa mia come un erumpent imbizzarrito. - Fece Percy, con un che di melodrammatico. - Quella è pazza, ve lo dico io. Si comporta da pazza. - 

- Pazza? - Fece Katie, aggrottando la fronte. - Voi uomini abusate di quella parola. - 

- Lei è pazza sul serio. - Ribadì Percy. - Un vero caso perso. Si è presentata a casa mia in piena notte, mi ha dato dello stronzo e mi ha prestato il suo lettore cd. - 

Katie sembrò ancor più perplessa. - Wow… ti ha prestato il lettore cd. Una vera folle, da rinchiudere. - Commentò. 

Oliver invece sogghignò divertito. - Poverino… lady tettine d’oro ti turba così tanto? -

Percy alzò gli occhi al cielo e poi si sistemò nervosamente gli occhiali sul naso. - Non mi turba, non in quel senso almeno. - Disse irritato. - È pericoloso per lei e per me, se mi trovassero con una babbana sarebbe finita. Diventerei automaticamente un traditore. - 

- Certo che non ce la fai proprio a rilassarti e a dire qualcosa di stupido di tanto in tanto, eh? - Sbuffò Oliver. 

- Baston, la situazione è complessa. - 

- E pensi che io non lo sappia? Lo so che siamo nella merda, Weasley. - Asserì Oliver, diventando più serio di quanto non fosse mai stato. - Ma se fossi come te, sempre concentrato sul pericolo, sempre in stato di allerta… probabilmente darei di matto. -

Percy sospirò. Gli sarebbe piaciuto poter spegnere il cervello a comando come faceva Oliver, fare qualcosa di stupido o inadeguato come fermarsi a guardare Audrey e trovarla carina, — così, per gioco, — ma non poteva permetterselo per un’infinità di motivi. 

Prima di tutto c’era Penelope nella sua vita. Certo, non aveva notizie di lei da più di cinque mesi, non era nemmeno certo che le cose tra loro sarebbero tornate come una volta, dopo la guerra, ma si sentiva a disagio anche solo a immaginarsi con una donna che non fosse lei. E poi, forse il motivo più importante, stava nel fatto che in quel momento storico e nella sua posizione non poteva nemmeno lasciarsi sfiorare dal pensiero di trovare una babbana anche solo attraente. 

Tuttavia una parte di sé, quella che da sempre lo aveva spinto a fare vivaci pensieri su ciò che avrebbe potuto fosse la sua vita, lo faceva fantasticare su un universo in cui lei gli insegnava ad ascoltare la musica e in cui lui poteva ammettere liberamente di trovarla interessante. 

Audrey sembrava una persona appassionata e tenace. Non aveva né l'aspetto né l'atteggiamento di un essere fragile, dolce e comprensivo come Penelope, e questo un po’ lo intimoriva ma soprattutto lo incuriosiva. Si chiedeva cosa ci fosse sotto tutti quegli strati di commenti pungenti e occhiatacce, e chissà magari c’era qualcosa di bello. 

Peccato che fosse impossibilitato a scavare più a fondo. 

- Be’, secondo me voi due vi compensate. - Disse Katie, scrollando le spalle. - È per questo che siete amici: siete uno l’opposto dell’altro. - 

- Non siamo davvero amici. - Sottolineò Percy, guardando Oliver di sfuggita. - Siamo compagni di guerra. - 

- Io sono amico tuo, Perce. - Fece Baston, aggrottando la fronte e facendo uno sguardo indignato e ferito insieme.

- Ah sì? E da quando? Ricordo che a scuola mi trovavi “petulante”. - 

- In verità ti trovavo petulante, pesante, presuntuoso, pignolo e tantissime altre parole che iniziano per p; tuttavia mi siedo a questo tavolo ogni giovedì per sentirti parlare quasi ininterrottamente di Penelope e tu mi stai a sentire quando parlo del campionato di quidditch anche se non te ne frega un bel niente. Direi che è questo ciò che fanno gli amici. - 

Percy si sentì arrossire e tutto ciò che riuscì a produrre fu un basso borbottio scontento. Non aveva mai avuto molti amici a scuola e in verità non gli era mai importato granché a quei tempi: era certo che la solitudine facesse per lui. 

Non aveva bisogno di essere continuamente circondato di gente, gli piaceva il silenzio, la calma, e praticamente tutti i suoi hobby erano attività da fare in solitaria. Inoltre, durante gli anni così imbarazzanti della sua adolescenza, era solito considerare quasi chiunque non alla sua altezza, 

Da quando poi aveva preso i M.A.G.O. — e da quando se ne era andato di casa — la sua vita sociale si era ridotta all’osso: si era ritrovato a parlare solo con i suoi colleghi e solo di lavoro per anni; c’era solo Penelope per lui e andava bene così… finché lei non se ne era andata. In quei mesi Percy Weasley aveva scoperto una cosa che ancora faticava ad ammettere: in verità la solitudine non gli piaceva affatto come si era convinto da ragazzino.

E poi era arrivato Oliver e assieme a lui Katie. 

- Non parlo sempre di Penny. - Disse, incrociando le braccia sul petto. 

- Be’, in effetti hai ragione. - Annuì Katie. - Parli anche di morte, di dissennatori e dei processi a dir poco inquietanti a cui assisti. -

- Sempre meglio di quando parlava solo di quanto fosse importante il suo ruolo da prefetto e poi da caposcuola. - Disse Oliver, ridendo piano. - Godric… Fred e George erano così bravi a imitarti! Mi mancano… -

Katie scoccò verso Oliver un’occhiata eloquente, Percy invece si irrigidì e non rispose, cosa che fece crollare sui tre un gelido silenzio imbarazzante.

- Senti, Perce, lo so che adesso sarebbe troppo pericoloso per tutti voi se tu tornassi a casa. - Riprese Oliver, appoggiandosi con i gomiti al tavolo traballante, così da sporsi meglio verso l’amico. - Ma posso mettermi in contatto con i tuoi fratelli, dire loro che… - 

- No. - Lo interruppe Percy, categorico. - Non ce n’è bisogno. Quando tutto questo sarà finito… forse… a quel punto parlerò con loro. - 

Codardo, pensò tra sé e sé mentre la sua voce si affievoliva. La verità era che gli mancava il coraggio anche solo di immaginare di tornare dalla sua famiglia. L’orgoglio lo teneva incatenato ed era certo che non sarebbe mai riuscito a chiarire le cose con loro di sua spontanea volontà. A volte, quando incontrava suo padre in ascensore, sperava che Arthur lo prendesse di petto, pregava che fosse lui a fare la prima mossa, così da scrollarsi di dosso quell'ingrato compito, ma ciò non accadeva mai. 

Oliver sospirò e non ribatté. 

- Rimarrei volentieri a sentirvi bisticciare come una vecchia coppia di sposini, ma si è fatto tardi. - Fece Katie, all’improvviso, alzandosi in piedi e dissolvendo l’aria pesante che si era venuta a creare. 

- Ma come, Katie? Di già? - Protestò Oliver, in tono lamentoso. 

- Al Dipartimento delle Catastrofi e degli Incidenti Magici abbiamo un gran da fare ultimamente, e poi c’è anche il lavoro in fattoria, sono stanca morta. - Spiegò lei.

- Anche per me è ora di andare. - Dichiarò Percy, ancora teso e un po’ lugubre come poco prima.

- Che guastafeste. - 

- Tocca a te pagare, vero, Weasley? - Chiese Katie, avvolgendosi in una lunga sciarpa arancione per affrontare il pungente freddo di quella notte di novembre. 

Percy annuì. - Sì, ci penso io. Ci vediamo la settimana prossima. - Disse, mentre anche Baston si alzava in piedi. - Fammi sapere se hai notizie di Lucy Manning, Oliver. - Gli ricordò.

- Passerò da Aberforth in questi giorni, tu nel frattempo di’ pure alla sorella che per quel che ne sappiamo la ragazzina è arrivata a Hogwarts sana e salva. - 

- Sta’ attento. -

- Hey, non sono io quello che fa il doppio gioco qui. - Oliver sorrise, Percy invece no. 

Una volta rimasto solo seguirono un paio di minuti di silenziosa contemplazione del nulla prima che anche Percy riuscisse a trovare la forza di lasciare quel tavolo. Non aveva nessuna voglia di tornare a casa quella sera.

Alla fine si alzò, pagò il conto e uscì dal pub stringendosi nella giacca. L’aria pungente della notte lo colpì in pieno viso e gli fece lacrimare gli occhi da dietro le lenti. Non ci pensò su ma si smaterializzò direttamente davanti alla sua porta del suo monolocale. 

Entrò e si guardò intorno come se fosse la prima volta che metteva piede in quella casa, osservando con occhio critico i pochi mobili che arredavano quello spazio e lasciandosi avvolgere dal silenzio assordante che lo opprimeva quando si ritrovava lì da solo. 

Una volta, nemmeno troppi mesi fa, c’erano le cose di Penelope a dare un po’ di vitalità a quel posto. Dopotutto era lei la Corvonero, era lei quella creativa che aveva dipinto qualche piccolo quadretto da appendere alle pareti, era lei che aveva riempito la sua libreria di romanzi, mettendo tutti i saggi tanto amati da Percy in secondo piano. Una volta c’erano cuscini sul divano, una coperta che la madre di Penelope aveva fatto per loro a maglia, dei soprammobili; c’erano tutte quelle cose inutili che rendono un posto qualsiasi una vera casa. 

Poi lei se ne era andata e lui aveva fatto sparire man mano tutto ciò che non era strettamente funzionale. 

Certo, erano rimaste le piante, ma se c’era una cosa in cui non era mai stato bravo era proprio erbologia e il giardinaggio in generale. Odiava sporcarsi le mani.

Prima di mettersi di coricarsi Percy si spogliò, piegò per bene i suoi vestiti e indossò il pigiama. Poi si sdraiò con il viso rivolto verso il comodino dalla sua parte del letto, dove aveva abbandonato il lettore cd di Audrey. Con un sospiro scocciato lo afferrò, si mise le cuffie e fece partire la musica. 

Non gli dispiaceva il jazz, Audrey aveva avuto ragione, alla fine. E poi era sempre meglio del silenzio o del brusio dei suoi pensieri.



 

Okay, in realtà questo capitolo doveva essere molto più lungo, ma poi rileggendo ho avuto l’impressione che diventasse un po’ pesante, dunque ho deciso di dividerlo in due. Lo so che anche qui non succede niente, ma ho deciso di prendere la storia con calma, di non pubblicare capitoli enormi e lenti (sto scrivendo una fan fiction non un romanzo russo). 

Poi boh, volevo mettere un po’ di amicizia nella vita di sto povero sfigato di Percy, inserire un po’ di legami e altre cose che hanno senso solo nella mia testa. 

La cosa buona è che la parte che avrei dovuto pubblicare ma che alla fine ho diviso è già pronta, quindi direi che uscirà prima di una settimana.

Non mi aspetto chissà che visto la mancanza di azione e l’abbondanza di “pippe mentali” ma se vi va fatemi sapere cosa ne pensate. 

Grazie per aver letto fin qui e alla prossima, 

J. 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. Norwegian Wood ***


Capitolo 4


Una settimana dopo aver prestato il suo lettore cd a Percy Weasley, Audrey Manning venne a patti con una triste verità: forse non lo avrebbe mai più riavuto indietro, a meno che non fosse andata lei stessa a riprenderselo. 

Tuttavia non se la sentiva di presentarsi nuovamente davanti alla porta di quel tale, visto quanta ansia sembrava avergli provocato la volta scorsa. Voleva tenerselo buono, usarlo a piccole dosi per avere notizie di Lucy, non portarlo all’esasperazione o fargli venire un infarto apparendo di nuovo sulla sua soglia. 

Così Audrey Manning iniziò ad abituarsi a camminare per la città e a prendere la metropolitana senza musica nelle orecchie, cosa che la costringeva ad ascoltare le chiacchiere dei suoi compagni di viaggio o, se le andava meglio, gli artisti di strada che intrattenevano la gente nei vagoni. Quando prendeva la macchina di sua nonna, invece, Audrey accendeva la radio e ascoltava con sempre meno disappunto un genere che lei aveva quasi sempre snobbato: la musica commerciale. 

Sì, doveva ammettere che in fondo sarebbe piaciuto anche lei riempire gli stadi, invece che cantare davanti a cento persone al massimo in un jazz club arrangiato in un seminterrato che puzza di alcol stantio. Si ritrovò in questo modo a canticchiare sempre più spesso i Queen o Elton John mentre puliva il bagno o il pavimento del Bistrot in cui lavorava, ma anche mentre a casa si preparava per la giornata che la attendeva, come quel gelido e grigio mercoledì di quasi metà novembre.

- Mamaaa… just killed a man… put a gun against his head, pulled my trigger, now he's dead… mamaaa, life had just beg…

- Audrey? È pronto in tavola! - 

La voce di sua nonna, dal piano di sotto, arrivò alle orecchie di Audrey con la solita urgenza. 

Se c’era una cosa che Harriette adorava fare era sicuramente nutrire sua nipote. 

- Arrivo! - Urlò lei dal bagno, mentre si aiutava con un po’ di gel per dare una forma ai suoi capelli, quel giorno legati in una coda alta. 

Una volta arrivata in cucina, Audrey si ritrovò davanti alla medesima scena che le si palesava davanti quasi ogni giorno all’ora di pranzo: sua nonna ai fornelli, mentre la bisnonna Constance se ne stava seduta a capotavola con la gatta Misty sulle ginocchia. 

- Hai fame, bambina? - Le chiese Harriette, portando in tavola una grossa padella piena di riso diventato arancione grazie allo smodato uso di spezie. 

Nonostante fosse una nonna da quasi vent’anni, Harriette aveva un aspetto molto giovanile. Aveva una sessantina d’anni, quasi non aveva rughe, portava gli occhiali da lettura sempre al collo e i suoi capelli neri e ricci erano tagliati corti per fare in modo che fossero sempre molto ordinati. In realtà tutto in quella donna trasmetteva un certo senso di ordine quasi maniacale: le sue unghie erano sempre smaltate, era sempre vestita e ben sistemata, amava truccarsi pur mantenendo una certa modestia e sapeva esattamente cosa le donasse e cosa no. 

Al contrario, Constance era una vecchia dall’aria stralunata, probabilmente cieca da un occhio e sicuramente un po’ sorda a entrambe le orecchie, con i capelli crespi e ricci come quelli di Audrey, ma che stavano man mano diventando sempre più grigi. Era anziana, sì, ma non così anziana come diceva di essere, ma le avevano diagnosticato la demenza anni fa, quindi in fondo nessuno ci faceva più caso quando diceva di avere centotrent’anni e di avere poteri magici. 

- Io ho sempre fame, quando cucini tu. - Rispose Audrey, quando Harriette riempì il suo piatto di riso jollof. - Anche se questo vuol dire puzzare puntualmente di curry. - 

- Non c’è il curry nel riso jollof. - La corresse la nonna, sedendosi dall’altra parte del tavolo rispetto a lei. - Devi imparare a cucinare, altrimenti come farai quando troverai un marito? - 

Audrey alzò le spalle e afferrò la forchetta. - Cucinerà lui, presumo. O ordineremo da asporto. -

- La preghiera. - Tuonò Constance, poco prima che Audrey si lanciasse all’attacco del suo piatto, parlando con quella sua voce bassa, gracchiante e con uno strano accento. 

Audrey sospirò, abbandonò di nuovo la forchetta e giunse le mani. - Caro Gesù… anzi no, caro Dio… - 

- Padre celeste, benedici i doni alla nostra tavola… - La interruppe Harriette, lanciandole uno sguardo di rimprovero. - Benedici il cibo che stiamo per ricevere come segno della tua bontà… e proteggi questa mia nipote screanzata. Amen. - 

- Amen. - Le fece eco Constance. 

- Amen. - Aggiunse Audrey, afferrando di nuovo la forchetta. - E non sono screanzata. - 

Harriette emise un basso brontolio che alle orecchie di Audrey arrivò come un “sì, sì, come no”, poi disse: - Tuo padre ha chiamato poco fa. Tornerà a Londra per Natale solo perché certo che ci sarai anche tu quest’anno; ha già fatto il biglietto. - 

- Che grande onore. - Rispose Audrey, cercando di celare dietro a un sorriso il suo tono sprezzante. - Quindi lascerà davvero il suo attico con vista sull’Empire State Building per tornare qui, in mezzo alla plebaglia? - 

Sua nonna la guardò male. - Sai benissimo che vive nel New Jersey. - 

- Pff… provinciale. - 

- Sta pensando seriamente di tornare a stabilirsi qui, una volta scaduto il contratto che lo lega alla Juilliard come insegnante. - Continuò Harriette, come se Audrey non avesse mai parlato. 

- E porterà con sé anche Danielle? - Domandò la ragazza. 

- Lui e Danielle si sono lasciati. - Sospirò Harriette, affranta. - Ma non dirlo a tua madre: non voglio che torni a girargli attorno. - 

Audrey scrollò le spalle. - Mamma e Patrick sembrano molto presi l’uno dall’altra, non hai proprio niente di cui preoccuparti, il tuo bambino adorato è al sicuro. - Disse. - E comunque Danielle non mi è mai piaciuta. - 

- Non era male, per essere bianca e irlandese. - Biascicò Constance. 

- Non stiamo parlando di Erin, mamma, ma di Danielle. - La corresse Harriette, con pazienza. - Non te la ricordi? La fidanzata di Jude. - 

- Sono contenta che almeno nonna C non consideri mia madre una sgualdrina. - Fece Audrey, beccandosi uno altro sguardo alterato da parte di Harriette. - Comunque… chi ci sarà a Natale, a parte papà? - 

- Tua zia Tamica, insieme a Michael, Beverly e Joel, e poi forse Elija passerà per un saluto, con la speranza che non ci porti l’ennesima ragazza incontrata in una di quelle comuni per hippie che frequenta. - 

Audrey sorrise. Se la famigliola di zia Tamica spesso la faceva sentire in un po’ in soggezione, con i loro due figli perfetti, — Beverly con la sua quasi laurea in fisica e Joel che era una promessa nella corsa — zio Elijah era invece il suo preferito. Era il fratello più piccolo di suo padre, di soli sette anni più grande di lei, e nessuno sapeva esattamente che lavoro facesse o dove vivesse. Nonna Harriette diceva che Elijah si occupava di animali esotici, che per questo era sempre in viaggio, ma nel corso degli anni lui aveva detto anche di essere stato un artista di strada, un venditore di piante carnivore e un membro della nazionale britannica di cricket. 

Insomma, era un tipo strano e pieno di segreti, ma Audrey era abituata ad avere a che fare con persone così quando si trattava della famiglia di suo padre. 

- Puoi far venire Lucy, se vuoi, se dovesse tornare da quel suo collegio in Scozia. - Aggiunse Harriette. 

- Non credo che tornerà quest’anno. - Audrey scrollò le spalle, come per scrollarsi di dosso l’ansia che il sentire il nome di sua sorella le aveva provocato. 

Era passato circa un mese da quando Lucy era andata via eppure non si era ancora abituata del tutto alla sua assenza e a quella sensazione di angoscia che le provocava pensarla sola e lontana nel pieno di una guerra. 

Dopo pranzo, la giovane aiutò Harriette a sparecchiare, salutò Constance con un bacio sulla guancia e la gatta con una carezza sotto il mento, poi prese le chiavi dell’auto e uscì per andare a lavoro. 

Il Bistrot Viva Verdi non era proprio ciò che ci si poteva aspettare quando si immaginava un ristorante italiano: c’era un grande bancone vicino all’entrata che faceva da bar, caffetteria, e cassa, mentre nel resto della sala c’erano pochi tavoli dallo stile piuttosto moderno e informale. Non c’erano tricolori, né foto o quadri che richiamassero il bel paese, ma in compenso il proprietario, il signor Soleri, sprizzava italianità da tutti i pori, visto che gesticolava parecchio e visto il butto vizio che aveva di toccare le persone con cui si intratteneva in chiacchiere. 

A parte questo era un uomo per bene, addirittura simpatico se eri disposto ad avere a che fare con qualcuno di estroverso a livelli quasi ridicoli. 

Il figlio, Tony, che aveva qualche anno in più di Audrey, era stato messo a lavorare in caffetteria, ma se si occupava anche della cassa e per questo fu il primo a notarla quando entrò: 

- Ciao, Audrey. - La salutò da dietro il bancone, appoggiandosi con i gomiti sul bordo di esso in una posa piuttosto goffa. 

- Ciao, Tony. - Ricambiò lei.

A quell’ora il ristorante era quasi vuoto, se non per un gruppetto di uomini d’affari palesemente alla fine del pranzo. Questo voleva dire che di sicuro la cucina era piena di piatti da lavare. 

La sua amica Anne aveva ragione, Tony era un bel ragazzo, se ci si limitava a guardarlo da lontano, senza interagire con lui. Aveva capelli castani tagliati corti, cosa che metteva in risalto i lineamenti dolci quasi come quelli di una ragazza, occhi color nocciola sopra due zigomi molto alti e un sorriso da fare invidia a chi si affidava alle faccette dentali per avere denti perfetti. Tuttavia, quando parlava, ogni attrattiva che Audrey sentiva nei suoi confronti spariva nel nulla, e non solo per quell’accento italiano molto marcato. Tony emanava sempre un intenso odore di tabacco ed erba, e da quando Audrey lo conosceva non c’era stato un singolo giorno in cui non fosse stato fatto. 

- Mi cambio e poi ci sono. - Annunciò Audrey, camminando verso il bagno riservato ai dipendenti in fondo alla sala.

- Prima mangia, non preoccuparti, eh! - Esclamò il ragazzo, facendo un sorrisetto pigro. 

- Oh, non preoccuparti, ho già pranzato. - 

- Allora vuoi un caffè? - 

- Purtroppo il caffè mi fa venire la tachicardia. Da piccola avevo un soffio al cuore, è meglio evitare. - 

- Allora un pezzo di crostata? - 

- Non ho fame, davvero. - 

- Però… - 

- Audrey! - La voce di Anne arrivò in suo soccorso dalla soglia della cucina. 

Audrey si voltò verso l’amica e la guardò passare velocemente tra i tavoli con indosso la sua divisa da aiuto cuoco con tanto di cappello. 

Anne Ruth Adler, questo era il nome completo della sua migliore amica, aveva l’aspetto romantico di una bambola di porcellana e la faccia di bronzo di chi di certo non aveva problemi di autostima. Erano diventate amiche in seconda elementare, quando Rebecca Duncan aveva attaccato una gomma da masticare sui capelli di Audrey e Anne l’aveva difesa, scatenando una rissa tra ragazzini di sette anni. 

- Odio il mercoledì, ci sono pochi clienti e mi annoio. Per fortuna sei arrivata prima. - Disse con aria scocciata, una volta che li ebbe raggiunti. - A proposito… Tony te l’ha detto? È passato un tizio che chiedeva di te. -

Audrey aggrottò la fronte e scosse la testa. 

Anne allora scoccò uno sguardo torvo al ragazzo. - E ti pareva che non te lo diceva, ‘sto coglione. - 

- Hey, guarda che sono il tuo capo! - Esclamò Tony, per poi scoppiare a ridere. 

- So che non mi licenzieresti mai, Antonio, mio caro. - Sospirò Anne, sedendosi sul bancone. - Nessuno sa pronunciare la parola gnocchi come faccio io. - 

- Che parola strana gnocchi, non credete? - Mugugnò Tony, con aria assente. - Gnocchi, gnocchi, gnocchi… gno-cchi. È davvero strana. Gnocchi, gnocchi, gnocchi… - 

- Sì, d’accordo. - Lo fermò Audrey. - Torniamo a noi: chi era il tizio che mi cercava? Vi ha detto qualcosa? - 

- Era uno parecchio strano. - Spiegò Anne, annuendo pensierosa. - Molto educato e solenne. Sembrava quasi di parlare con il sindaco. - 

- In verità sembrava più un impiegato del catasto. Anzi no! Un impiegato delle poste, sì. - Ritrattò Tony. - Alto e allampanato, capelli rossi, occhiali, portava anche una cravatta… ma dai, chi porta le cravatte oggi? Non proprio un bel vedere, comunque. - 

Audrey alzò entrambe le sopracciglia. La descrizione non lasciava molto dubbi. - Vi ha detto se si chiamava Percy? - 

- Non ci ha detto niente, faceva il misterioso. - 

- Ha fissato il menù per almeno un minuto, ha ordinato un caffè e poi non l’ha nemmeno bevuto. Non è una sorta di molestatore, vero? - Domandò Tony, fissando Audrey con i suoi penetranti occhi scuri e arrossati. - Se ti da fastidio basta che me lo dici, eh. -

- L’unico molestatore qui sei tu, Tony. - Sibilò Anne, alzando gli occhi al cielo.

- Lui è un amico di mia sorella. - Si affrettò a spiegare Audrey. - Uno della sua scuola. - 

- Dovevo aspettarmelo: gli amici di Lucy sono strani. - Asserì Anne. - Comunque gli ho detto di tornare stasera. E non era così male come dice Tony… forse ha solo bisogno di una rimodernata, magari buttare quei pantaloni in velluto a coste coordinati con la giacca per passare a dei jeans come le persone normali. - 

Audrey aggrottò la fronte, perplessa. - Ammiro la tua capacità di vedere del potenziale in tutti quanti, Anne. - Buttò lì con leggerezza. - Ma non sono d’accordo. Si comporta come se avesse sempre un palo ben piantato su per il culo. - 

- Tu hai bisogno di una persona passionale e divertente… come me, ad esempio. Non della versione rossa e lentigginosa del principe Carlo! - Dichiarò Tony. 

Le due ragazze lo fissarono senza capire per qualche secondo. - Non somiglia per niente al principe. - Fece Anne. 

- Forse un po’ il naso. - Disse invece Audrey. - Comunque è meglio se vado a cambiarmi e mi metto a lavoro adesso. - 

- Se ti viene voglia di crostata o caffè dillo pure, Audrey! - Esclamò Tony mentre lei si allontanava. - La caffetteria è aperta! E anche il mio cuore è aperto! - 

Audrey finse di non averlo sentito e sparì dietro alla porta del bagno. 

A quel punto Anne sospirò. - Lo sai che non hai speranza con lei, vero? - Disse a Tony, una volta rimasta da sola con lui. - Probabilmente pensa che tu sia scemo. - 

Tony scrollò le spalle e sorrise con flemma. - Non essere gelosa, Anne. - 

 

Audrey passò le successive ore in fervente attesa. Se quel Weasley era davvero passato di lì allora questo poteva voler dire due cose: o voleva restituire il lettore cd o voleva restituire il lettore cd e darle anche notizie di Lucy. 

Ad ogni modo quel giorno si sarebbero rivisti e questo stava provocando nella giovane uno strano peso all’altezza dello stomaco. Era terrorizzata delle notizie che Percy poteva portare con sé, dell’eventualità che fossero brutte, inoltre si era fatta l’idea che lui non fosse molto ben disposto a incontrarla nuovamente dopo quella sera in cui era praticamente piombata in casa sua senza preavviso. 

Arrivò presto l’ora di cena, pochi clienti e una sonnacchiosa sensazione di pigrizia su tutta la sala. Verso le dieci il locale era già vuoto e Audrey si ritrovò a fissare la porta d’ingresso con aria contrita, appoggiata all’asta dello scopettone che stava usando per lavare i pavimenti a fine serata. 

Di solito lei, Anne e Tony erano gli ultimi ad andare via, e Audrey doveva ammettere che quello era proprio il suo momento preferito a lavoro: il bistrot cadeva in un silenzio rotto solo dalla bassa musica di sottofondo che proveniva dalla radio, nell’aria c’era l’energia di tutti quelli che durante la giornata erano passati di lì e mentre lavava a terra aveva la sensazione che anche la sua mente si ripulisse dai pensieri negativi.

Di tanto in tanto, quando era particolarmente ispirata come quella sera, fingeva che lo scopettone fosse l’asta di un microfono e si esibiva cantando la canzone che in quel momento passava in radio, o peggio, intratteneva elaborati discorsi come se avesse appena vinto un premio importante. 

Audrey sospirò, staccò finalmente gli occhi dalla porta e riprese a pulire il pavimento. 

- Voglio dedicare questo Grammy Awards a mia nonna Harriette e a mia sorella Lucy, entrambe mie grandi fan da sempre, che mi sopportano da anni mentre canto di prima mattina o in tarda notte senza il minimo rispetto per il loro ristoro. - Iniziò a dire, con estrema serietà, senza smettere di pulire. - E naturalmente questo premio è dedicato anche al mio splendido marito Lenny Kravitz e al mio amante Johnny Depp. - Proseguì, fermandosi e immaginando una folla immaginaria davanti a sé. - Lo so, lo so… purtroppo la poligamia è illegale, ma noi tre ci amiamo e nulla può ostacolare l’amore, miei cari, proprio nulla… - 

Intanto, alla radio, le prime note di “Norwegian Wood” avevano appena iniziato a suonare. Non era mai stata una grande amante dei Beatles, ma tanto che c’era… 

- E proprio per questo stasera canterò per voi un piccolo capolavoro della musica pop di metà anni ‘60… 

I once had a girl or should I say… she once had me. She showed me her room isn't it good Norwegian wood? She asked me to stay and she told me to sit anywhere… so I looked around… and I noticed there wasn't a ch… -

- Ehm… scusa? - Una voce alle sue spalle la fece sobbalzare. - Ne hai ancora per molto? - 

Audrey si voltò di scatto, portandosi la mano libera dallo scopettone al petto. Lì, sulla soglia della porta del bistrot era appena apparsa la persona che aveva atteso per tutta la sera, che a quanto pare aveva deciso di farsi viva mentre lei era nel pieno di un imbarazzante momento di follia. 

Percy Weasley, impettito e irritantemente ordinato come al solito, la fissò a lungo da dietro le lenti degli occhiali un po’ appannate dal calore del locale.

- Ma ti sembra il modo questo, Weasley? - Inveì Audrey, dopo qualche attimo di silenzio, andandogli incontro. 

- Ho tentato di annunciarmi con un colpo di tosse, come è lecito fare in questi casi, ma tu eri troppo occupata a fare… qualsiasi cosa stessi facendo. - Disse Percy, in tutta tranquillità, squadrandola da capo a piedi.

Con i capelli legati in quel modo Audrey gli ricordava vagamente un’ananas, ma Percy doveva ammettere che era molto più carina con il viso non più messo in secondo piano dalla sua solita chioma a forma di criniera. 

Indossava quella che doveva essere la divisa del personale di sala, composta da un grembiule rosso su cui era affissa una targhetta con su scritto il suo nome, sistemato sopra ad una maglietta a maniche corte color crema e a un paio di pantaloni neri.

Sotto quello sguardo Audrey si sentì avvampare. - È una vera fortuna per te avermi sentito cantare adesso, perché quando sarò famosa dovrai pagare per farlo. - Dichiarò, sentendosi subito dopo ancora più in imbarazzo. 

Lui non smise di guardarla, ma iniziò a farlo con scetticismo. - Giorni fa hai detto di non voler diventare famosa. - Le ricordò. 

- Ho cambiato idea, non devo darti spiegazioni. - 

- Comunque non sei male. Magari puoi farcela, se ti impegni. - 

- Scusa ma l’opinione di uno che non ascolta la musica non mi interessa. - 

- Bastava un grazie. - Sottolineò Percy, prima di iniziare a frugare nella tasca interna della sua giacca come se essa fosse molto più spaziosa di quanto non sembrasse da fuori. - Ad ogni modo… adesso la ascolto la musica, grazie a te. - Continuò, tirando fuori qualcosa. - Sono venuto per restituirti il lettore cd e per portarti una lettera da parte di Lucy. - 

Audrey sentì il suo cuore saltare un battito. Lasciò cadere lo scopettone a terra e si avvicinò al mago, strappandogli di mano la lettera che aveva appena tirato fuori dalla tasca insieme al lettore cd. 

La aprì in fretta e senza curarsi del fatto che Percy fosse ancora lì in piedi davanti a lei, e nella busta trovò una di quelle fotografie magiche assieme a un foglio di pergamena scritto fitto fitto. La fotografia raffigurava Lucy, che la salutava sorridente accanto al suo non-fidanzato Colin. Stava bene. 

Con il cuore molto più leggero di quanto non fosse mai stato nell’ultimo mese, Audrey lesse finalmente la lettera. Era scritta chiaramente da Lucy, lo si capiva dal modo in cui addolciva la lettera f, dal tratto deciso e dal fatto che non ci fosse molto spazio tra una parola e l’altra. 

Era viva, stava bene. Stava bene anche se a Hogwarts era dura, stava bene perché lei e Colin si erano baciati e ora dormivano fianco a fianco, stava bene ma non vedeva l’ora di tornare a casa. 

Audrey si portò una mano alla bocca, le labbra tremanti e gli occhi lucidi. Si era tolta un peso gigantesco dal petto e quasi le veniva da piangere. 

- Stai… bene? - Le domandò cautamente Percy, cercando di scorgere il suo viso rivolto alla lettera.

Audrey alzò gli occhi dal foglio per puntarli su di lui e tirò su con il naso. - C… cosa? - Domandò a sua volta, cercando di darsi un contegno. 

- Stai bene? - Ripeté il ragazzo. - Lucy sta bene? - 

Audrey annuì in fretta. - Sì, sì… scusa. Sono ridicola, lo so… - Mugugnò imbarazzata. - Ma non puoi capire, se non hai fratelli. - 

- Ho cinque fratelli e una sorella. - 

Audrey chinò la testa da un lato, con fare sorpreso. Non sapeva per quale motivo, ma aveva dato per scontato che Percy fosse figlio unico. E comunque avere cinque fratelli e una sorella non era proprio una cosa molto comune. - Fammi capire, in casa siete nove? - Domandò curiosa. 

Lui annuì e basta. 

- Che coraggio, tua madre. Partorire e crescere sette figli dev’essere stato stancante. - 

- Presumo di sì. - 

- E tu sei il più grande o… - 

- Sono il terzo. - 

- Immagino che sia bellissimo fare parte di una famiglia così numerosa, non si è mai da soli. - Proseguì Audrey, pensando alle feste di Natale e a compleanni pieni d’amore e persone. - Nel mio caso siamo solamente io e Lucy, dato che mia madre vive in Irlanda con il suo nuovo fidanzato, mentre il padre di mia sorella non è mai stato presente. - 

- E tuo padre? - Chiese Percy, così da mettersi al sicuro da altre domande sulla sua famiglia. 

Audrey si strinse nelle spalle e scosse la testa, un po’ come per prendere tempo prima di rispondere. - Lui è un musicista e gira molto, anche se ultimamente si è stabilito in New Jersey, quindi praticamente è dall’altra parte del mondo in questo momento. - Raccontò. - Però va bene così. Mi manda dei soldi una volta al mese e delle cartoline se capita in posti particolari. È il suo modo per dimostrare che mi vuole bene, presumo. Va bene così. - Proseguì annuendo, prima di prendere a fissare un punto non ben definito sul pavimento. 

Non era mai molto in vena di parlare di suo padre o dei suoi genitori in generale, forse perché era un vero e proprio sforzo per lei fingere che le andasse “bene così”. 

D’altra parte Percy, che raramente nella sua esistenza si era interessato davvero alle esperienze altrui e ai loro racconti, troppo concentrato su se stesso per far caso alle altre persone, si rese conto che si trovava davanti ad una piacevole eccezione. 

Sì, doveva ammetterlo: era curioso e pieno di domande. 

Perché Audrey e sua sorella erano così legate? Perché era così ossessionata dalla musica da prestare un lettore cd ad uno sconosciuto solo per fargliene ascoltare un po’? Ma soprattutto perché era andato fin lì per riportarglielo invece di spedirlo come sarebbe stato più sicuro fare?

Probabilmente Oliver lo stava plagiando, con tutta quella spensieratezza e quella voglia di mettersi nei guai… 

Audrey sospirò e si riscosse all’improvviso da quelli che sembravano pensieri particolarmente profondi, tornando a puntare lo sguardo sul viso di lui. In un secondo, quel briciolo di fragilità che aveva mostrato un attimo prima era scomparso. 

- Ti è piaciuto Chet Baker? - Domandò, cambiando completamente la rotta della conversazione. 

Percy abbassò gli occhi sul lettore cd che teneva ancora in mano. - Non era male. - Concesse. - Azzarderei quasi a dire che è stato un ascolto piacevole. - 

- Quindi ce l’hai un anima, in fondo. -

Percy allungò l’apparecchio nella sua direzione di lei, che all’inizio considerò quasi l’idea di lasciarglielo ma che poi lo afferrò. 

- Probabilmente abbiamo un concetto di anima molto diverso. - Disse il giovane. 

- A questo punto dovrei chiederti qual è il tuo concetto di anima, ma non mi interessa. - Dichiarò lei. - Comunque se ti è piaciuto Chet Baker allora di certo apprezzeresti John Coltrane o Miles Davis, però loro non cantano. Oppure potresti ascoltare gli standard che conoscono praticamente tutti… ad esempio “All Of Me”, “Cry Me A River”, roba del genere. - 

Percy la guardò con la tipica espressione di chi non aveva idea di cosa si stesse parlando. 

- Fai sul serio? - Esclamò Audrey, sconvolta e un po’ divertita davanti alla faccia di lui. - Stiamo parlando di gente come Ella Fitzgerald. Che ti facevano ascoltare i tuoi quando eri piccolo? - 

Lui alzò le spalle. - Celestina Warbeck. - 

- E che canzoni fa questa Celestina? - 

- Tendenzialmente canzoni di stampo romantico. - Spiegò Percy, mentre gli tornava dolorosamente in mente sua madre che cucinava sulle note di “mi hai stregato il cuore”. - “Un calderone pieno di forte amor bollente” è molto famosa. - 

Audrey aggrottò la fronte e dopo un paio di secondi di silenzio scoppiò a ridere, lasciandolo di stucco. Percy si rese conto che non l’aveva mai sentita ridere prima d’ora, anzi che non aveva mai sentito ridere nessuno in quel modo tanto cristallino e armonico.

- Un calderone pieno di amor bollente? - Ripeté lei, tentando di tornare seria. - È così… non so, sembra il titolo di un’aria particolarmente struggente di un’Opera lirica, ma anche una canzone di Britney Spears! - 

Percy cercò disperatamente qualcosa di intelligente da dire, con scarsi risultati.

Quella lì lo faceva sentire stupido, — parlava di cose che lui non capiva per la maggior parte delle volte, facendolo sentire fuori dal mondo, — e non solo questa era una novità per lui ma, come ogni novità, non gli piaceva affatto. 

- Piaceva molto a mia madre. - Si giustificò Percy. - Si tratta della sua cantante preferita, non della mia, ovviamente. - 

- Il mondo in cui cerchi di sottolinearlo è tutto dire, Weasley. - Ribatté lei, facendo un sorrisetto di scherno. - Secondo me sei come quelli che in pubblico fingono di detestare le Spice Girl ma che poi, nel segreto della loro camera da letto, cantano “Wannabe” facendo anche il balletto. Comunque non ti giudico. - Aggiunse, alzando le mani in segno di resa. - Grazie di avermi riportato il lettore cd. Ho temuto di averlo perso per sempre. - 

- Restituisco sempre le cose che prendo in prestito. - Disse lui. 

- Davvero ammirevole. - 

- Lo so. - 

- Ero ironica. - 

- Oh. - 

- Già… comunque grazie anche per la lettera. - Disse lei. - Soprattutto per la lettera, a dire il vero. Ti sono veramente grata. Anzi mi chiedevo se… insomma, se io scrivessi a Lucy tu potresti… se vuoi… aiutarmi? - 

Il giovane mago strinse le labbra sottili, assumendo un’espressione tesa che non annunciava nulla di buono. - Io non dovrei nemmeno essere qui in questo momento. - Le disse. - Se qualcuno mi scoprisse finirei in grossi guai. Mi duole ma la risposta è no. - 

L’espressione di lei mutò radicalmente, tornando ad essere vuota e un po’ truce come al solito. - Ah. Va bene. - Si limitò a dire, senza nessuna inflessione. - Allora grazie per ciò che hai fatto e addio. - 

- Se mai dovessi avere delle novità te lo farò sapere. Tu intanto sta’ attenta e se hai bisogno sai dove trovarmi. - Continuò Percy. 

Audrey annuì, poi prese un respiro profondo a occhi chiusi e quando li spalancò nuovamente parlò: - Weasley, è solo una lettera! - Esclamò, in tono di supplica. - Giusto per farle sapere che sto bene anche io, tutto qui. Ti giuro che è la prima e ultima volta che te lo chiedo! Per favore… solo una lettera e poi giuro che non sentirai mai più parlare di me, sparirò, te lo prometto! - 

Percy sentì il suo stomaco attorcigliarsi. Nonostante non parlasse con nessuno della sua famiglia da anni, lui sapeva tutto quanto di loro. Sapeva che stavano più o meno bene, incontrava suo padre in ascensore di tanto in tanto, sentiva le voci di Fred e George a Radio Potter, aveva saputo del matrimonio di Bill con la signorina Delacour. Proprio non riusciva a immaginare come si sarebbe sentito se all’improvviso non riuscisse più ad avere loro notizie. 

- È troppo rischioso. - Asserì, inflessibile. 

- Ma è solo una lettera! - Insistette lei. - Solo una e poi ti lascerò in pace! Lei è una bambina, ed è sola, impaurita… cosa vuoi che succeda? Per favore, Percy. - 

Percy… che strano il mio nome detto da lei, si ritrovò a pensare lui, senza alcun ragionevole motivo.   

- Non posso… - 

- Invece puoi. - Ribatté duramente Audrey. - Per te è una cosa stupida, ma per lei no, e nemmeno per me lo è. È solo una lettera! Se non vuoi interagire con me va bene: la scriverò e poi la metterò nella tua cassetta della posta, così potrai dargliela senza dovermi necessariamente incontrare. - 

- Non è questo il punto. - Si affrettò a chiarire lui. - Tu sei… - 

- Cosa? - Lo spronò la ragazza, quando lo vide indugiare. - Mi spieghi perché mi detesti tanto? Nemmeno mi conosci! - 

Percy sgranò gli occhi. - Io non ti detesto. - Disse, incredulo di doverlo sottolineare. - Anzi, casomai direi che è il contrario: sei tu a detestare me. - 

- Be’, scendi dal piedistallo perché non è così; a stento so come ti chiami, figurati. - 

- Ecco, intendevo proprio questo. - Disse Percy.

Audrey sbuffò e incrociò le braccia sul petto. - Puoi aiutarmi o no? - Chiese, irritata. 

- No, non posso. - 

- Allora togliti dai piedi. - Borbottò lei. - Fai tanto l’eroe e poi te la fai sotto per consegnare una stupida lettera… scommetto che non sei stato smistato in Grifondoro, vero? - 

- Ti dispiacerà sapere che ti sbagli. - Ribatté Percy, con calma, sebbene le sue orecchie avessero assunto una sfumatura rossastra. - E sai una cosa? Sei un’ingrata. - Aggiunse.

- E tu parli come mia nonna. - 

- Ho salvato tua sorella da Azkaban; sai quanto sarebbe durata una ragazzina come lei in quel posto? - Proseguì lui, come se Audrey non avesse aperto bocca. - Probabilmente sarebbe morta dopo pochi giorni, te lo dico io. E stasera sono venuto fin qui per portarti sue notizie, ma non ti basta… tu vuoi di più, perché sei viziata. - 

Audrey strinse gli occhi verso di lui, come se volesse metterlo bene a fuoco o incenerirlo con lo sguardo. - Tu non sai niente di me. - Sibilò, facendo un passo in avanti. - Ma ti sei visto, Mister Privilegio? Quelli come te frequentano Eton e nel pomeriggio vanno a giocare a polo, e poi sarei io quella viziata? Assistente del Ministro della Magia a vent’anni, dimmi come hai fatto? Hai leccato per bene il culo di qualcuno di importante o semplicemente papino ti ha raccomandato? - 

- Sono l’assistente del Ministro perché sono bravo. - Asserì fermamente Percy, stringendo forte le mani in due pugni. - Nessuno mi ha mai aiutato. - 

Audrey alzò i lati della bocca e scosse la testa. - Non ci credi nemmeno tu. - Gli disse. 

Poi si voltò, raccolse lo scopettone e riprese a pulire a terra come se Percy non fosse più lì a pochi metri da sé. 

Cadde il silenzio, rotto solo dalla musica che usciva dalla pessima radio del ristorante che in quel momento stava suonando una canzone allegra e totalmente dissonante con l'atmosfera che si respirava in quello spazio. 

Audrey gli aveva dato del codardo, del leccaculo e persino del figlio di papà. Praticamente lei se lo immaginava come una specie di… Draco Malfoy. 

Era davvero questo ciò che vedeva la gente quando lo guardava? 

Per quale dannato motivo nessuno riusciva semplicemente a riconoscere il fatto che, magari, era arrivato dov’era a quella giovanissima età, semplicemente perché forse era stato bravo? 

Perché non è così, stupido illuso, si rispose nella sua testa. Stupido, illuso e codardo. 

Era ovvio che il Cappello avesse sbagliato con lui.

- Tornerò tra tre giorni. - Disse, di getto. - Scrivi la tua lettera nel frattempo. - 

Audrey di fermò e staccò gli occhi dal pavimento, ma non li rivolse nella direzione di lui. - Davvero? - Si accertò. 

- Sì. - Fu la semplice risposta di Percy. - Ma lo farò solo per questa volta. - 

Lei si voltò finalmente a guardarlo. - Ti ringrazio. - Si limitò a dire. 

Percy annuì e non rispose. Si voltò e uscì dal bistrot, sparendo un po’ come era apparso. 

Quando si ritrovò da solo, sotto il cielo nuvoloso e alla mercé dell’aria gelida della notte, Percy venne colpito da una disturbante consapevolezza: probabilmente non si sarebbe liberato tanto facilmente di Audrey Manning. 


Sì, Audrey che canta Norwegian Wood è un piccolo riferimento al famoso libro di Murakami che si intitola proprio così e si apre proprio con questa canzone dei Beatles (che ci volete fare, sono una radical chic che legge Murakami nelle caffetterie e sulla metropolitana, perdonatemi.)

Comunque la storia si muove, lentamente, ma lo fa. 

Bo, capitolo quattro leggermente più sensato rispetto a quello precedente, ma ditemi voi cosa ne pensate perché ovviamente ai miei occhi è tutto parecchio abominevole. 

Nella mia testa questa fan fiction doveva essere decisamente molto più cupa e presa male, ma ci sarà tempo per quello, anche se devo ammettere che mi manca un po’ il dramma e la tristezza (sì, Hazel e Sirius sto parlando di voi). 

Il vero problema è che non ho uno schema, sto scrivendo senza sapere ciò che deve accadere dopo, quindi ogni tanto ho paura di cadere in qualche contraddizione, ma vabbé, in caso fatemelo notare voi. Ah, sono anche aperta a suggerimenti, in caso.

Grazie per aver letto fin qui, 

J. 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5. Peony ***


Capitolo 5

 

Percy non aveva idea di come fosse successo, ma nel giro di poco divenne il gufo ufficiale di Audrey Manning, che aveva iniziato a intrattenere una fittissima corrispondenza con la sorella Lucy. Dall’altra parte Oliver faceva lo stesso, ma non trovava questo compito stressante quanto invece lo trovava Percy. 

- Ti sembra normale? Tutto questo è contro ogni protocollo! È pericoloso! - Esclamava puntualmente Weasley, ogni volta che incontrava Baston per scambiarsi la posta delle due giovani. 

- La prossima volta puoi sempre dirle di no. - Rispondeva Oliver, con una scrollata di spalle e un sorrisetto divertito nel vedere il rigido Percy Weasley sull’orlo di un esaurimento nervoso per colpa di una babbana. 

Il problema era che Percy aveva tentato parecchie volte di dire di no, cosa che puntualmente gli si era ritorta contro. 

Ogni volta che ricordava ad Audrey quanto quella storia fosse sbagliata e pericolosa, lei prendeva a fissarlo con quei suoi grandi e verdi occhi da cucciolo smarrito, gli parlava del fatto che Lucy era la persona più importante della sua vita, che aveva bisogno di sapere che continuava a stare bene, che per lei era troppo importante, facendolo cedere inevitabilmente. Era impossibile dire di no ad Audrey Manning, e non perché lei fosse chissà quanto convincente, ma perché ti portava ad arrenderti per sfinimento. 

Avevano iniziato con una lettera a settimana, per poi arrivare, verso la fine di novembre, a ben tre, cosa che portò Percy in quel babbanissimo ristorante italiano per molto più tempo di quanto fosse consigliabile. Aveva persino conosciuto la migliore amica di Audrey, una giovane di nome Anne, dall’aria romantica e piuttosto di bell’aspetto, e anche il figlio del proprietario del bistrot, un certo Tony, che ci provava con Audrey in un modo talmente patetico che Percy quasi provava pena per lui.

Ogni tanto era invece lei a presentarsi a casa sua, cosa che all’inizio lo aveva messo un po’ a disagio, dato che Audrey aveva la cattiva abitudine di non avvertirlo mai prima di presentarsi alla sua soglia. Se la ritrovava semplicemente lì, seduta sulle scale davanti alla sua porta, in attesa di vederlo tornare dal lavoro, spesso con del cibo italiano al seguito e con una lettera per Lucy in mano.  

In quelle occasioni Audrey gli parlava di musica, film e romanzi babbani (“quando sono arrabbiata mi chiudo in macchina e ascolto metal tedesco a tutto volume”, “non puoi vivere senza aver visto E.T, ti mancano proprio le basi!”, “davvero non hai mai sentito parlare Dostoevskij? Ti presterò qualcosa e tu lo leggerai!”), e lui la stava ad ascoltare, per poi raccontarle a sua volta qualcosa sul suo mondo, aggiornandola anche su ciò che stava accadendo (“so che anche il Direttore dell’Ufficio delle Relazioni con i Folletti è stato arrestato in quanto nato babbano, e lui era una figura importante al Ministero… non guardano proprio in faccia a nessuno”, “oggi la Umbridge ha fatto condannare cinque persone, sembra quasi che ne goda”). Percy parlava e parlava, ma stando sempre ben attento a non raccontare troppo di sé stesso. 

Cosa avrebbe potuto dirle, dopotutto? Come poteva raccontarle del modo in cui aveva barattato la sua famiglia per la promessa di futuro di successo? Non poteva farlo, non con lei, che considerava le persone che amava più importanti di qualsiasi ambizione e ideale. 

Tuttavia il tempo che spendeva insieme a lei era una parentesi luminosa nelle sue giornate. Audrey era… normale. Ci aveva messo il suo tempo per smetterla di scroccare nella sua direzione occhiate torve e commenti pungenti, ma poi si era mostrata per ciò che era davvero: una semplice e comunissima babbana dagli strani gusti musicali e con una vasta gamma di sapere non magico tremendamente interessante da ascoltare. 

Era lontana dai processi, dai dissennatori e dai mangiamorte; lei non lo conosceva, quando lo guardava non vedeva il perfetto prefetto antipatico e noioso che vedevano tutti gli altri, anzi, sembrava quasi che lei lo trovasse interessante. 

Non sapeva quando esattamente avesse cominciato a farlo ma, ad un certo punto, Audrey aveva preso ad ascoltarlo per davvero e senza quell’atteggiamento di sufficienza con cui si era posta all’inizio. Di solito si sedeva sul suo divano, a debita distanza e a gambe incrociate, e lo stava a sentire per poi fargli domande su quel mondo che per lei stava diventando sempre meno oscuro e misterioso. 

Era una strana sensazione, per Percy. Chissà, probabilmente agli occhi di una babbana persino le relazioni sui calderoni che aveva scritto anni prima potevano essere una vivace e stramba novità. 

.

 

Percy non aveva idea di cosa avessero tanto da raccontarsi Audrey e Lucy, — dopotutto lui e i suoi fratelli non avevano mai avuto chissà che rapporto o che complicità, — e doveva ammettere che un po’ le invidiava per il loro legame. Era certo che Audrey si sarebbe fatta recidere le corde vocali perdendo la voce per mettere in salvo sua sorella da ogni male.

Nonostante avessero ben cinque anni di differenza, Audrey parlava di Lucy come se fosse una sua amica, condividevano passioni e si raccontavano segreti; cosa stranissima per Percy che, quando era un adolescente come Lucy, non si era nemmeno azzardato a dire a uno dei suoi fratelli di avere una fidanzata, tanta era la paura di essere preso in giro come al solito. 

A dicembre, il cielo si illuminò all'improvviso di un candore opalino e abbagliante e una mattina i marciapiedi e i prati dei parchi di Londra si ghiacciarono grazie alle temperature bassissime. 

Con l’avvicinarsi delle feste le strade della città si riempirono di luci e decorazioni, anche sulla porta del Bistrot Viva Verdi apparve una ghirlanda, mentre all’interno un bell’abete pieno di palline. 

Alla radio iniziarono sempre più spesso a suonare canzoni di Natale. Audrey le canticchiava praticamente di continuo e con una tale passione che fece intuire a Percy che forse lei amasse davvero molto le feste.

Al Ministero, invece, non furono affisse decorazioni quell’anno. Solitamente il vischio spuntava negli angoli più impensabili, negli ascensori e sopra ogni singola porta, proprio come la neve incantata che scendeva senza però toccare mai terra, ogni singolo livello aveva un albero di Natale, anche se ce n’era uno davvero gigantesco e infestato da fate proprio all’ingresso. Quel dicembre invece nell’atrio c’era solo l’inquietante statua della magia è potere, nessuna ghirlanda, nessuna aria di festa. 

Probabilmente sarebbe stato uno strazio superare le feste quell’anno, senza nemmeno il Ministero a fargli da casa, pensò Percy, alla fine di una delle giornate più deprimenti della sua vita. 

Aveva assistito a sette processi e nessuno dei sette imputati era stato assolto, e lì aveva assaporato la solita inquietudine nel trovarsi a pochi metri da orde di dissennatori. Aveva incontrato suo padre in ascensore ben due volte e come se ciò non bastasse aveva anche saltato il pranzo per colpa del Ministro, che lo aveva fatto galoppare tutto il giorno al suo posto. Così, alle otto di sera e con il primo livello che si stava pian piano svuotando, Percy si ritrovò da solo nel suo ufficio, abbandonato sulla sedia dietro alla sua scrivania ordinata in modo maniacale, senza la forza di alzarsi. 

Si sentiva stanco, mentalmente scarico. Non aveva voglia di tornare a casa ma nemmeno di rimanere lì un minuto di più del necessario. 

Alla fine si alzò e lasciò l’ufficio nella speranza di non incontrare nessuno e così fu: i corridoi del Ministero erano vuoti a quell’ora, probabilmente le uniche anime rimaste erano gli auror al loro quartier generale qualche livello più in basso. Nel tragitto verso l’uscita, Percy si imbatté solo in un paio di manutentori rimasti fino a tardi per sbrigare chissà che faccende, ma quando mise nuovamente piede nella Londra babbana si ritrovò in mezzo a una folla di persone intente a tornare nelle loro case, totalmente inconsapevoli di ciò che stava succedendo proprio sotto il loro naso. 

C’era una guerra, la gente spariva e moriva, ma loro continuavano con la loro vita senza avere il minimo sospetto. Ogni volta che c’era un attentato ai loro danni, il Ministero si occupava di far apparire il tutto come un tragico incidente. Fughe di gas, attentati, persino un serial killer era più credibile di maghi oscuri bramosi di potere e controllo. 

Senza preoccuparsi troppo di essere visto dai babbani intenti a passeggiare, Percy si smaterializzò in un vicolo, atterrando bruscamente davanti al portone del suo palazzo. Entrò, percependo dentro di sé l’imbarazzante speranza di imbattersi in Audrey, magari lì sul pianerottolo ad aspettarlo come capitava ogni tanto. Si sarebbe messo volentieri a parlare con lei delle differenze che lui proprio non notava tra i generi musicali, piuttosto che ritrovarsi schiacciato sotto il peso di quel silenzioso monolocale. 

- Buonasera, Hermes. - Disse Percy al suo gufo appollaiato nella sua gabbia, non appena entrò in casa. 

L’allocco, come previsto, non ricambiò quel saluto, ma si limitò a puntare gli occhi gialli su Percy. Il ragazzo si mosse lasciando la soglia della porta per raggiungere il frigorifero dove era affissa l’unica fotografia di tutto l’appartamento, quella che lo raffigurava con Penelope. Sembrava passato un secolo da quello scatto, anche se risaliva a poco più di un anno prima. 

Aprendo l’anta di quell’elettrodomestico babbano — che Penny aveva ritenuto essenziale per casa loro, — Percy si trovò davanti alla desolazione più totale. Una carota rinsecchita, un pacco di uova e una bottiglia di succo di zucca erano le uniche materie prime che aveva a disposizione quella sera per cena, a parte del mais in scatola in dispensa. 

Percy sospirò, afferrò il succo di zucca e dopo aver preso un bicchiere dalla credenza se ne versò un po’. 

Poteva uscire, recarsi in uno dei supermercati babbani della zona per fare la spesa, ma fuori faceva freddo e inoltre non aveva sterline con sé. Si sarebbe arrangiato, decise prima di liberarsi della giacca, per poi buttarsi stancamente sul divano. 

Appoggiò il bicchiere con il succo di zucca sul basso tavolino posto davanti al sofà, allentò la cravatta stretta attorno al suo collo e sbottonò i primi due bottoni della camicia che indossava, e poi i suoi occhi si posarono su un libricino di poche pagine, dalla copertina blu, abbandonato al suo fianco. 

Percy lo afferrò e lesse per l’ennesima volta il titolo, scritto sulla copertina plastificata e mal ridotta con piccoli caratteri color oro: le notti bianche, si intitolava. 

Audrey gli aveva prestato quel libro con la stessa passione con il quale gli aveva affidato il lettore cd tempo prima, ma lui non l’aveva ancora nemmeno mai sfogliato, sebbene temesse quasi che lei lo interrogasse a riguardo, prima o poi. 

Non era mai stato un tipo da romanzo, se non quando era solo un ragazzino annoiato dalle interminabili giornate alla Tana in cui i suoi fratelli giocavano quasi ininterrottamente a quidditch e si facevano scherzi. Aveva smesso di leggere quel tipo di libri durante l’adolescenza per sostituirli con biografie di gente che ce l’aveva fatta e saggi che secondo lui l’avrebbero reso migliore in futuro. 

Solo un paio di volte Penelope l’aveva convinto a leggere qualcosa insieme, romanzi d’amore babbani, non così diversi dal libro che aveva in mano in quel momento. 

D’accordo, mi arrendo, si disse. Poi lo aprì notando che Audrey aveva scritto qualcosa sul frontespizio, quel genere di cosa che anche lui era solito scrivere sui suoi libri: “questo libro è di proprietà di Audrey P. Manning, maneggiare con cura”, scritto con la calligrafia più brutta e sbilenca che lui avesse mai visto. 

Quindi aveva un secondo nome? 

Patricia? Pearl? Penelope? 

Doveva assolutamente chiederglielo.

Una volta davanti al primo capitolo, Percy iniziò a leggere le prime righe che descrivevano una notte bella, meravigliosa, — una di quelle notti, caro lettore, che solo la giovinezza può comprendere pienamente… 

E poi il campanello suonò, facendolo tornare bruscamente alla realtà. 

Abbandonò il libro sul divano, raggiunse la porta e quando la spalancò si ritrovò davanti a due grossi cartoni della pizza dietro cui una ragazzina sembrava quasi sparire. 

Grazie, Merlino, pensò Percy, sentendosi ridicolo, quando si rese conto, senza alcuna sorpresa, che si trattava proprio di lei.

- Ciao. - Disse Audrey, mentre entrava in casa senza prima essere stata invitata.

- Ma certo, prego, vieni pure… - Borbottò lui, chiudendosi la porta alle spalle. 

Doveva pur mantenere un’apparenza di fastidio, suvvia! 

- Ho portato la pizza. - Annunciò, come se non fosse già abbastanza palese, lasciando i due cartoni sul tavolo davanti al modesto piano cottura. - E ho anche una cosa che devi far arrivare a Lucy. In verità sono qui per questo, non perché mi piace cenare con te o roba del genere, sia ben chiaro. - Aggiunse, voltandosi a guardarlo. 

- Figurati, non ho mai pensato che ti piacesse. - Sottolineò Percy.

Audrey si spogliò dal cappotto di lana cotta giallo senape e della sciarpa che indossava, abbandonando tutto sullo schienale della sedia prima di sedersi. - Ottimo perché, dico davvero, se non fosse per le lettere non mi vedresti più. - Assicurò con leggerezza tale che lui si domandò se scherzasse o meno. - Adesso però mangiamo, muoio di fame. - 

Percy annuì, prese un paio di posate e poi si sedette davanti a lei. - Puoi sempre infilarle nella mia cassetta della posta, le tue lettere, se incontrarmi ti turba tanto. - Buttò lì. 

- Così da rischiare che cadano in mani sbagliate? Sarebbe pericoloso, Weasley, contro ogni buon senso, mi meraviglio di te. - Rispose Audrey, iniziando a tagliare la sua pizza in quattro spicchi. - E comunque devi finire di raccontarmi di quel congresso di maghi del 1692. - 

Lui quasi sorrise, ma grazie al cielo lei parve non notarlo. - Te l’ho spiegato la volta scorsa: la Confederazione ha scritto lo Statuto Internazionale per la segretezza magica nel 1692 e tuttora il Codice è la legge più importante di tutto il mondo magico, in ogni paese. - Iniziò a parlare, prendendo a tagliare la sua pizza in piccoli pezzi. - Certo, poi ogni Ministero sceglie l’intensità, per così dire, con cui applicare la legge. Ho letto che in alcuni paesi asiatici è fortemente sconsigliato intrecciare legami con i babbani, mentre in SudAfrica sono addirittura vietati i matrimoni misti in quanto rischiano di compromettere la segretezza del nostro mondo. - 

- Non mi sorprende. - Audrey scrollò le spalle e poi morse una fetta. 

- Perché no? - 

- Be’, fino a qualche anno fa c’era l'apartheid in Sudafrica, anche in quel caso erano vietate le coppie miste. - Spiegò lei in tono ovvio. Poi, davanti all’espressione vacua di Percy proseguì: - Non sai di cosa sto parlando, vero? - 

- Devo ammettere che, anche questa volta, mi cogli totalmente impreparato. - 

Audrey sospirò e scosse il capo. - Nel malaugurato caso, e voglio sottolineare che è un esempio e che solo l’idea mi fa rabbrividire, in cui mi fossi innamorata di te e tu avessi ricambiato, la nostra unione sarebbe stata considerata illegale. - 

- Certo, perché sei babbana, l’ho appena detto. - Disse lui, portandosi un pezzo di pizza alla bocca con la forchetta. 

Audrey scosse la testa. - Perché sono nera, idiota. Si tratta di segregazione razziale. - Ribatté. - La nostra storia d’amore sarebbe ostacolata sia nel tuo mondo che nel mio. Davvero triste... - 

- Già. Per fortuna che non siamo Sudafricani. - 

La ragazza alzò un sopracciglio e non disse niente, fissandolo. Lo vide diventare un po’ più rosso in viso e poi spingersi gli occhiali su per il naso con il dorso della mano occupata dal coltello, come faceva sempre quando qualcosa lo metteva in difficoltà.

- Ciò nonostante non avrebbe nessuna importanza. - Ritrattò subito. 

Audrey rise piano. - Oh, certo che no. Io non starei mai con uno che mangia la pizza con forchetta e coltello, non c’è bisogno di una legge razzista che me lo impedisca. -

- È buona educazione mangiare con le posate. - 

- Non in tutte le culture. Non esiste un galateo universale. - 

- Presumo che quello italiano, di galateo, non sia poi così diverso dal nostro. - Obiettò Percy, continuando imperturbabile a mangiare la pizza con la forchetta.

- Mai visto un italiano mangiare la pizza in questo modo, mi dispiace. - 

Lui sbuffò, lasciò le posate sul cartone e afferrò una fetta di pizza, addentandola. - Contenta ora? - 

- Decisamente molto meglio, Weasley. - 

Alla fine della cena, Audrey tirò fuori dalla tasca interna del suo cappotto una di quelle cartoline di Natale con foto di famiglia che i babbani erano soliti spedire durante le feste. 

- Mia madre ci invia questi orribili bigliettini tutti gli anni, da quando se n'è andata a vivere con il suo nuovo compagno. - Spiegò, indicando a Percy la donna dai setosi capelli color miele accanto a un ometto pelato, dall’aria vagamente viscida, entrambi in posa davanti a un grosso albero di Natale. - Puoi farla arrivare a Lucy, magari prima del 25? Nostra madre è orribile per la maggior parte delle volte, ma se fa qualcosa di carino voglio che Lucy lo sappia. -  

- Vedrò cosa posso fare. - Acconsentì Percy, osservando la fotografia. 

Audrey e sua madre non si somigliavano affatto, se non per la corporatura minuta, il taglio e il colore degli occhi e forse la forma rotonda del viso. La signora Manning era molto bella e sembrava una a cui piaceva lasciarsi guardare, con quel vestitino rosso e striminzito che metteva in risalto le forme che avevano un che di innaturale, il trucco che la valorizzava e il sorriso smagliante; tutto il contrario di sua figlia, che invece era quasi sempre insaccata in abiti più larghi della sua taglia che la facevano quasi sparire tra la stoffa. 

- Tua madre è… giovane. - Commentò Percy, senza un motivo reale. 

- Sì, i miei mi hanno avuta a quindici anni. - Spiegò Audrey, poi sogghignò. - Per un attimo ho temuto che dicessi “una gran gnocca”. -

- Non sarebbe appropriato né tanto meno rispettoso nei tuoi confronti. - 

Lei alzò i lati della bocca, facendo un sorrisetto che sapeva di sorpresa. - Se il mio primo ragazzo ai tempi della scuola fosse stato come te allora mi sarei risparmiata davvero molti problemi di autostima. - Disse ridendo amaramente. - Ma comunque lo so che è bella. Lei piace sempre agli uomini. - 

Percy alzò le spalle. - È senza dubbio di bell’aspetto, sì. - Ammise. - Ma c’è modo e modo per dirlo. - 

- Forse somiglia un po’ alla tua ragazza. Sai… per i capelli biondi. - 

Lui aggrottò la fronte. - Come conosci Penelope? - Domandò, perplesso. 

Audrey fece un cenno verso il frigorifero. - L’unica foto di tutto il tuo appartamento. - Disse, guardando il volto sorridente di lei. - Ho pensato che o si trattasse di tua sorella, o di una tua amica da cui sei stato pateticamente scaricato, oppure, appunto, della tua ragazza. Era molto probabile, vista l’espressione che hai in quella foto. Quasi non sembri tu. Insomma, stai sorridendo! - 

- La cosa ti sorprende? - 

- Be’, non sei uno che lo fa spesso, o mi sbaglio? -

Non ultimamente, pensò lui, ma non lo disse. 

- Come è finita con il tuo primo ragazzo? - Le domandò invece, davvero interessato. - Non ci avrà davvero provato con tua madre, spero. - 

- No, non si è spinto a tanto. - Chiarì Audrey, con leggerezza. - Siamo stati insieme per qualche settimana durante il primo anno alle superiori, quindi nulla di serio. - 

- E dopo di lui? - Chiese Percy.

Audrey gli rivolse uno sguardo intenso e indagatore, come se stesse soppesando la risposta da dare. - Dopo di lui ho avuto una grossa e imbarazzante cotta per il mio professore di storia, ovviamente era un’infatuazione non ricambiata. - Raccontò, iniziando a dondolarsi sulla sedia su cui stava seduta. - Poi c’è stata un altrettanto imbarazzante frequentazione di cinque giorni con un ragazzo del campeggio in cui andavo con mia madre e Lucy, stroncata dalla fine delle vacanze... e infine sono uscita con un ragazzo del coro lo scorso anno, per ben tre volte. - Concluse, piegando le sue labbra in un piccolo sorrisetto beffardo e facendo tornare la sedia ben piantata a terra. - Lo so, lo so: ho una vita sentimentale terribilmente appagante, ma non esserne invidioso, Weasley. - 

- Quindi non hai mai avuto una vera e propria relazione. - Osservò Percy, guardandola con un fare un po’ sorpreso. 

- La cosa ti sorprende? - Chiese lei, scimmiottando il tono di lui di poco prima. 

- Non sei poi così male, quindi chiaramente sì. - 

Audrey lo guardò con una delle sue espressioni sarcastiche. - Vacci piano o penserò che mi stai corteggiando. - Buttò lì. - Ma comunque no. Le relazioni non sono roba per me. Tu e Barbie da quanto state insieme, invece? - 

- Si chiama Penelope. - La corresse lui. - Quattro anni, circa. - 

- Passerai il Natale con lei oppure tornerai dai tuoi genitori? - 

- No. Lei è in Spagna in questo momento; è riuscita a scappare via poco prima che la guerra cominciasse. - Spiegò Percy, senza alcuna inflessione che potesse far capire a Audrey se la cosa lo facesse soffrire o meno. - È nata babbana, come Lucy. Non la vedo né la sento da quasi sei mesi ormai. - 

- Quindi andrai nel Devonshire? - Domandò Audrey. 

Lui scosse la testa. - No, no… i miei non sono in Inghilterra quest’anno. - Mentì con facilità. - Sono andati a trovare mio fratello Charlie che alleva draghi in Romania. Io starò qui per lavoro. - 

- Non so se sono più sorpresa dal fatto che hai un fratello che alleva draghi o dal fatto che passerai le feste da solo. - Fece Audrey. - Vuoi… venire da me il 25? - 

Cosa? 

No, aspetta. Cosa?

Audrey Manning sei diventata pazza? Urlò una voce nella mente di lei. 

D’accordo, ultimamente ti sta quasi simpatico, ma… ma… 

- È anche il mio compleanno, di solito unisco le due cose, quindi... - 

Ma la pianti? 

- Sei nata il giorno di Natale? - Le domandò lui. 

Audrey annuì. - Dividere il giorno del compleanno con quello di Gesù è un po’ palloso, dato che non posso decisamente competere. - Disse ridendo sommessamente. - Se vuoi venire non sarebbe poi così strano. - 

Invece sarebbe molto strano, decisamente stranissimo. 

- A tua nonna starebbe bene? -

Audrey annuì. - Di solito Anne è mia ospite durante la cena della vigilia e il pranzo di Complenatale, ma quest’anno Hanukkah cade proprio durante la settimana di Natale e lei deve stare a casa per accendere candele e friggere cose nell’olio, quindi potresti sostituirla. - 

Lo so, ti fa pena, ma ti sembra il caso?

- Sei così stranamente gentile che quasi temo che tu voglia qualcosa in cambio. - Disse Percy, scrutandola.

- Ma quanto sei stronzo! - Esclamò lei, indignata. - Che cosa credi? Che io sia una sorta di mostro senza cuore? - 

- Non saprei, non ti conosco poi così affondo, dopotutto. - Rispose lui. Poi, davanti all’espressione alterata di Audrey aggiunse: - Però a caldo direi di no. Non sei un mostro senza cuore, assolutamente. - 

Lei borbottò e incrociò le braccia sul petto. - Be’, quindi? - 

- Che cosa? - 

- Starai qui da solo a trastullarti in lacrime sulla foto di Barbie Perfettina o verrai? - 

Percy ci pensò su. In verità si sentiva un po’ intimorito da quell’invito, tuttavia lei si era mostrata così disponibile che quasi gli dispiaceva declinare. Inoltre l’idea di passare il giorno di Natale a fissare il soffitto o a lavorare da casa non lo faceva scoppiare di gioia.

- Se pensi che sia il caso… allora va bene. - Disse dopo un sospiro. - Devo portare qualcosa? Come funziona da te? - 

- Come funziona ovunque, Weasley. Porta qualcosa per sembrare educato e metti dei calzini carini, perché mia nonna ha la fobia dei germi e ti farà togliere le scarpe. - Rispose Audrey. - E vestiti un po’ meglio, ti prego. Tipo con dei normalissimi jeans babbani. - 

- C’è altro? -

- Sì. Dobbiamo inventare una storia decente sul perché ci conosciamo. - 

- Frequento il tuo stesso conservatorio. - 

- Ho un pianoforte in soggiorno e a casa suoniamo praticamente tutti: capirebbero che mentiamo in trenta secondi. - 

- Allora sono un tuo collega del ristorante. - Tentò ancora Percy. 

- Potrebbe avere più senso, sì. - Annuì Audrey. - Se poi ti faranno altre domande tu inventa e sii convincente. - 

- Intendi dire tua nonna? Lei potrebbe chiedermi qualcosa di più specifico? - 

Audrey scrollò le spalle. - Sì, mia nonna, o mio padre… o zia Tamica; lei adora fare domande perché è una guardia. - Spiegò con noncuranza. - Ma, mi raccomando, non chiamarla guardia che si offende. Preferisce “poliziotta”. - 

Percy rimase per qualche attimo interdetto. 

Si era appena infilato in un pranzo di famiglia? 

- Quindi ci saranno tutti i tuoi parenti? Non solo tua nonna… - Realizzò. 

- No, non proprio tutti tutti. - Lo tranquillizzò Audrey. - Ci sarà solo mio padre, suo fratello minore e sua sorella maggiore, con i due figli e il marito, ovvio. Sono tutti simpatici, a parte mia cugina Beverley, ma non ti riterrà alla sua altezza e non ti rivolgerà la parola, tranquillo. - 

- Mi sono appena ricordato che il 25 lavoro. - 

Audrey lo guardò, scettica. - Ma piantala. - Lo liquidò, prima di alzarsi in piedi. 

- D… dove vai? - Domandò lui, quando la vide infilarsi di nuovo nel cappotto giallo. 

- A casa, dove vuoi che vada? - 

- Giusto, il coprifuoco alle undici. - 

Audrey annuì e poi si avvolse nella sciarpa, coprendosi per bene. - Allora ci vediamo a Natale… non sindacare! - Esclamò, quando lo vide aprir bocca per ribattere. 

Percy sospirò. - Non voglio assolutamente essere di troppo durante un pranzo di famiglia. - Spiegò, in apprensione. 

- Ma va, mia nonna adora avere ospiti. - Insistette Audrey, alla svelta. - E poi scommetto che tu piaci sempre ai genitori dei tuoi amici, vero? - 

Be’, in effetti… 

- Sul serio, Weasley. Non so se ti è già capitato prima, ma passare il Natale in solitudine è davvero molto triste. - 

Lo so, Audrey, lo so… 

Percy sospirò nuovamente, annuì e si alzò in piedi. Poi, sebbene la porta fosse solo a pochi metri da lì, la accompagnò. 

- Aspetta. - La fermò, poco prima che lei varcasse la soglia per ritrovarsi sul pianerottolo del suo piano. - Per cosa sta la P del tuo secondo nome? L’hai scritto sul libro che mi hai prestato… - 

Audrey alzò le sopracciglia, sorpresa da quella domanda totalmente senza contesto. - Peony. Come il fiore. - Rispose.  

- È particolare. -  

- Già. - Fece lei. - Il tuo nome completo invece qual è? - 

- Percival Ignatius Weasley. - 

Audrey strinse le labbra nel tentativo di non scoppiare a ridere davanti alla serietà, probabilmente non voluta, con la quale l’aveva sentito parlare. 

- Ma solo Percy va bene. - Si affrettò ad aggiungere lui.

- Sì, infatti… Percy. - 

- Peony. - 

- Non ci provare. - 

- Scusa, Audrey. - Ritrattò lui. 

- Ecco, meglio. - Annuì la giovane. - Ci vediamo a Natale? - 

- Sì. - 

Lei fece un verso di assenso. - Ricorda: calzini carini. - 

- Cosa intendi esattamente per “calzini carini”? - 

Audrey scrollò le spalle. Poi girò i tacchi e sparì dalla sua vista, iniziando a scendere le scale. 



 

Avete mai letto una storia che va avanti a capitoli di passaggio? Meno male che ci sono io che vi do questa opportunità, vero? Il punto è che le cose interessanti accadranno dopo, e per dopo intendo dire dopo la battaglia di Hogwarts, quindi resistete, vi prego! 

Non ho molto da dire su questo capitolo… anche se non mi piace chissà quanto devo ammettere che è stato divertente scriverlo. Comunque fatemi sapere voi cosa ne pensate se vi va, sarebbe di grande aiuto! 

Alla prossima,

J. 


 

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Capitolo 7
*** capitolo 6. Complenatale - Parte I ***


Capitolo 6

 

Il fatto che qualcuno stesse suonando senza alcun ritegno Rachmaninov al piano di sotto, di prima mattina e il giorno di complenatale, fece svegliare Audrey con una pungente sensazione di fastidio alle tempie. 

Con gli occhi ancora a mezz’asta, la giovane si rotolò tra le pesanti coperte e guardò la sveglia, appoggiata al comodino sulla sinistra, nella penombra della sua camera da letto. 

Erano appena scattate le otto, ma a nessuno in quella casa sembrava importare: dalla stanza accanto, infatti, Constance stava chiamando a gran voce la figlia, esattamente come tutte le mattine, per farsi potere la colazione a letto, dalla cucina si sentivano rumori di pentole e dal salotto proveniva la melodia del preludio in do diesis, ovviamente suonato da suo padre al pianoforte. 

Audrey sospirò e si rotolò nuovamente, rivolgendo lo sguardo al soffitto. 

Suo padre, Jude, era atterrato tre giorni prima, — dopo quasi due anni lontano da Londra e da sua figlia, — eppure non avevano avuto modo di parlarsi davvero andando oltre ai soliti convenevoli, che alle orecchie di Audrey suonavano quasi sempre come tante parole in una lingua sconosciuta, messe lì per cacciare via il silenzio: “come sta tua madre?”, “il canto come va?”, “ti servono soldi?”, “ti ricordi quando eri piccola…”.

Nessuna vera domanda sulla sua vita, nessun tentativo di conoscerla davvero, nessun segno d’affetto palese, insomma nulla di diverso dal solito. Eppure Audrey non era riuscita a fare a meno di sentirsi un po’ male all’idea che suo padre, l’uomo che aveva contribuito a metterla al mondo, fosse così disinteressato a lei come persona. 

Jude non sapeva quasi nulla di lei e lei non sapeva quasi nulla di lui; erano due estranei, due lontani parenti che si vedevano solo in occasioni speciali, come funerali e matrimoni, e si chiamavano per telefono per farsi gli auguri di compleanno o per le feste comandate. 

Avevano suonato, questo sì, l’avevano fatto davvero parecchio in quegli ultimi tre giorni, dato che quello sembrava l’unico modo che Jude conoscesse per poter comunicare con lei. Avevano suonato e lui l’aveva criticata perché aveva una pessima postura, perché da piccola suonava meglio, perché a suo parere era poco espressiva. 

Fanculo, Jude.

Audrey lo detestava, ma faceva del suo meglio per evitare di vivere a pieno quella sensazione. Non poteva lasciarsi prendere, non poteva immergersi nel suo risentimento, altrimenti non avrebbe resistito, avrebbe pianto e gli avrebbe buttato contro tutta la sua rabbia, che poteva essere riassunta in poche semplici semplice domande: perché non ci sei mai stato davvero? Perché mi hai lasciata da sola con mamma?

Con un sommesso gemito, Audrey si mise a sedere sul letto e poi si alzò, spalancando le tende, illuminando la stanza. Fuori il cielo era coperto da uno strato denso di nuvole bianche che promettevano una abbondante nevicata di lì a breve, cosa che stava contribuendo a dare al tutto un’aria piuttosto natalizia. 

Forse quell’insolito Natale in famiglia poteva rivelarsi persino piacevole, di sicuro più tradizionale di quello precedente, passato insieme a Lucy, mangiando noodles istantanei e guardando “una poltrona per due”. 

Certo, probabilmente sua cugina Beverley avrebbe dato spettacolo elencando i successi accademici che aveva raggiunto negli ultimi anni, per poi guardarla dall’alto in basso per giudicare un po’ il suo aspetto e le sue scelte come faceva tutte le volte che la incontrava, (“sembri una scopa, Audrey, ma mangi?”, “farai mai qualcosa per quei capelli?”, “credi davvero che il conservatorio ti fornirà una vera laurea?”). Forse zia Tamica si sarebbe messa a litigare con suo padre come al solito, mentre il marito, lo zio Michael, avrebbe giudicato Percy senza pietà, perché era così che faceva lui con gli sconosciuti… 

Oh. Percy.

Il pensiero di Weasley sembrò svegliarla definitivamente, facendole sparire il sonno all’improvviso. 

Come le era venuto in mente di invitarlo al pranzo di Natale? Era questa la domanda che l’aveva perseguitata nell’ultima settimana. 

Era vero, le aveva fatto parecchia tenerezza immaginarselo da solo in quel monolocale il 25 dicembre. Audrey aveva pensato a tutte le volte in cui era capitato a lei di restare sola durante le feste, magari con Lucy a Hogwarts e sua madre con l’uomo di turno chissà dove. Si era sentita quasi in dovere morale di invitarlo.

E comunque Percy le stava simpatico, doveva ammetterlo. 

Non sapeva esattamente da quando ma, una sera, vedendolo entrare dalla porta del bistrot, non aveva provato per lui quella naturale avversione mista a fastidio che aveva sentito tutte le volte precedenti in cui se l’era ritrovato davanti. Probabilmente quel vedersi regolarmente aveva contribuito a fare entrare Percy nella sua serrata routine, e solo il cielo era a conoscenza di quanto Audrey adorasse la routine e la prevedibilità delle cose. 

E lui, appunto, era terribilmente prevedibile. 

Audrey sapeva che si sarebbe presentato al ristorante il venerdì e il lunedì, a ridosso dell’orario di chiusura, sapeva che se invece si fosse presentata lei a casa sua, alle otto di sera in punto, allora l’avrebbe trovato lì, ben disposto a raccontarle qualcosa del mondo magico e anche a sentirla parlare di cose che di solito non interessavano a nessuno.

Audrey era persino riuscita ad andare oltre quell’orribile montatura d’occhiali e quei vestiti insensati, riuscendo a vedere ciò che Anne aveva visto ben prima di lei: Percy Weasley non era poi così male, poteva anche quasi considerarsi carino, se lo si osservava per bene e non ci si concentrava sui difetti. 

Dietro a quegli occhiali antichi e totalmente fuori moda, ad esempio, c’erano dei bellissimi occhi azzurri. Le piaceva il colore delle sue labbra, quando non erano piegate in una qualche smorfia di disapprovazione, e anche tutte quelle lentiggini che aveva in viso. Era così curato nell’aspetto, sempre ordinato, insomma il suo esatto contrario, e questo le trasmetteva un certo senso di stabilità. 

Audrey sentì la musica al piano di sotto interrompersi bruscamente, come se suo padre avesse appena abbandonato il pianoforte, cosa che la fece tornare alla realtà. Si guardò rapidamente intorno, poi raggiunse l’armadio e quando lo spalancò si diede un’occhiata critica allo specchio appeso all’interno di una delle due ante. 

Non si era mai sentita bella né tanto meno lontanamente carina. Non importava quante persone le dicessero il contrario, lei non riusciva a vedere nient’altro che difetti.

Non le piaceva il suo naso, a suo parere troppo largo per stare bene nel mezzo della sua faccia a rotonda, non le piacevano le sue labbra, ma in compenso doveva dire che i suoi occhi non erano poi così male. Il vero problema era il suo corpo, spigoloso e privo di qualsiasi rotondità. In quel momento, poi, con la cuffia per capelli e quel vecchio pigiama di pile, sembrava una versione molto più giovane e meno svampita di nonna Constance. 

Audrey non fece quasi in tempo a finire di elaborare quel pensiero che la musica al piano di sotto ripartì. Un triste e malinconico pezzo di Satie. 

Probabilmente non si sarebbe mai più riaddormentata, tanto valeva scendere giù.

Con pochi passi, Audrey raggiunse il corridoio fuori dalla sua stanza, passò davanti a quella di nonna Constance e poi scese le scale alla volta del salotto, seguendo la musica. Una volta lì, la giovane si fermò sulla soglia. Quella mattina la casa era molto più pulita e ordinata del solito: Harriette aveva speso il giorno prima a passare ripetutamente l’aspirapolvere sulla moquette e spolverare i mobili e i tantissimi oggettini su di essi. 

Dalla cucina arrivava quel tipico odore di cibo natalizio, c’era il camino acceso e l’abete era pieno di palline accanto al pianoforte dove, come previsto, suo padre stava ancora suonando, di spalle rispetto a dove si trovava lei in quel momento. 

Audrey lo osservò per una manciata di secondi e poi, come se Jude avesse sentito lo sguardo di sua figlia puntato dritto verso la sua nuca, si voltò verso di lei. 

Suo padre, esattamente come nonna Harriette, aveva una naturale ed eterna espressione austera dipinta su un volto ben scolpito e indubbiamente molto attraente. Era molto alto, aveva le spalle larghe e il corpo di chi sembrava solito fare molta attività fisica, capelli neri tagliati corti ai lati e occhi scuri un po’ infossati che gli donavano uno sguardo piuttosto penetrante. 

Avevano dei tratti in comune, o almeno così diceva la gente, ma Audrey non aveva mai notato chissà che somiglianza, se non per il colore della pelle e un po’ per il naso, che aveva indubbiamente ereditato da lui. 

- Ti ho svegliata? - Le chiese Jude, chiudendo la tastiera del pianoforte. 

- Diciamo che le composizioni di Rachmaninov non sono famose per conciliare il sonno, ecco. - Rispose Audrey, scrollando le spalle. - E poi nonna Constance stava urlando, quindi… non preoccuparti. - 

Jude rimase per un attimo zitto, osservandola. 

Ricordava perfettamente il giorno in cui sua figlia era nata, vent’anni prima. Era stato un inverno rigido, quello, aveva nevicato così tanto che Erin, la mamma di Audrey, aveva quasi rischiato di partorire in macchina, bloccata nel traffico per colpa della tormenta.

Ricordava anche la prima volta che l’aveva presa in braccio, quel fagottino minuscolo ma con la testa già piena di capelli, gli occhi chiusi e quell’odore di neonato letteralmente inebriante. Ricordava di averla guardata e di aver visto in lei la potenziale rovina della sua vita, seppur di contro c’era il biologico sentimento d’amore che l’aveva invaso nello stesso istante in cui aveva notato che sì, si assomigliavano, lei era proprio sua, la sua bambina e lui era suo padre. 

Jude si era sentito terribilmente in colpa per quel terribile pensiero, così tanto da aver trovato una scusa per il quale l’aveva prodotto: era un ragazzino di quindici anni che aveva deluso la sua intera famiglia e messo in grossi guai la sua fidanzatina. 

Peccato che questa scusa non valesse con il resto di tutti i suoi errori. Adesso Audrey era grande, gli parlava appena e lui non aveva idea di come fare per scavalcare quel muro di cinta dietro cui si era rifugiata, probabilmente anche per colpa sua. 

- Buon compleanno. - Le disse, senza nessuna particolare inflessione. 

Certo, Jude, celebra pure il giorno in cui hai smesso di essere un adolescente per diventare un padre, o presunto tale, se questo ti fa sentire meglio con te stesso, pensò tristemente lei, restituendogli lo sguardo. 

- Grazie. - Si limitò a rispondere. 

- Non ti ho preso nessun regalo perché non ho la più pallida idea di cosa ti piaccia, ormai. - Ammise l’uomo. - Cosa ti piace? Possiamo andare a comprare qualcosa insieme, dopo le feste. - 

Audrey assunse uno sguardo raggelante. Suo padre era appena riuscito a demolire il senso dei regali di compleanno in meno di due o tre frasi. - Non ho bisogno di nulla, ma grazie. - Rispose educatamente, alzando i lati della bocca. 

- Ci sarà pure qualcosa che desideri. - 

Fammi pensare… dei genitori decenti? 

- Non ho bisogno di nulla. - Ripeté coriacea. 

Lui non parlò né diede segni di assenso o dissenso. 

Poi, alle spalle di Audrey, comparve la figura minuta e un po’ tarchiata di nonna Harriette, gli occhiali da vista sempre appesi al collo, già truccata e ben vestita come al solito. - Eccoti qui, bambina. - Disse alla nipote. - Stavo giusto per andare a svegliarti per farti gli auguri di complenatale. - 

- Ci ha già pensato papà con Rachmaninov, nonna. - 

Non voleva dirlo così, con quel gelo, con quella distanza. Non aggiunse altro, ma si mosse verso la cucina, seguita da Harriette. 

- Cosa vuoi per colazione? - Le domandò la nonna. 

- Faccio da sola, non preoccuparti. - Ribatté Audrey. - Dov’è nonna Constance? - 

- Sta facendo colazione in camera sua, con la gatta, come tutte le mattine. - Rispose Harriette, riempiendo il bollitore per il tè. - Facciamo delle uova? - 

- Che fine ha fatto il platano fritto? - 

- Serve per il pranzo, facciamo il kelewele(¹) come dolce. - Rispose Harriette, prendendo tre tazze dalla credenza. 

Nel frattempo anche Jude le aveva raggiunte, occupando il suo posto su una delle sedie attorno al tavolo posto al centro della cucina. 

- Tanto per sapere… che si mangia per pranzo, a parte il kelewele? - Chiese Audrey, prendendo le uova dal frigorifero. 

Il bollitore fischiò e nonna Harriette iniziò a riempire le tazze prima di iniziare ad elencare: - Fufu(²), con la zuppa di arachidi, il tacchino ripieno che ti piace tanto, stufato di manzo, patate… - Disse, portando il tè in tavola, per poi sedersi sulla sua solita sedia, accanto a quella vuota di Constance. - Ci sono anche delle polpette di lenticchie, per tuo zio Elijah, che adesso dice che è diventato… com’è che è diventato, eh, Jude? - 

- Vegano. È diventato vegano. -

Audrey aggrottò la fronte e poi iniziò a strapazzare le uova in padella. - È una scelta ammirevole. - Commentò sincera. 

- Una scelta stupida, vorrai dire! - Sbraitò Harriette. - Il tuo amico, quello che verrà oggi… mangia tutto, non è vero? Non ha di questi problemi, spero. -

Audrey scosse la testa. - Se la caverà, in fondo c’è il tacchino. - Rispose con leggerezza. - Certo… potrebbe avere giusto qualche difficoltà con il fufu… nel senso che servirà di sicuro un cucchiaio. - 

- Avrà un cucchiaio, non è un problema. - 

Jude, intanto, dall’altra parte del tavolo rispetto alla madre, si mosse sulla sedia come se essa fosse diventata improvvisamente molto scomoda. - Questo ragazzo… Percy, hai detto che si chiama? - Iniziò, divagando. 

- Mhmh. - 

- Lavora insieme a te in quel ristorante. - 

- Sì. - Asserì Audrey, portando le uova a tavola. 

- È il tuo…. - 

- No. - Lo fermò la giovane, sbuffando e alzando gli occhi al cielo mentre si sedeva. - Non stiamo insieme, l’ho già spiegato alla nonna: verrà a pranzo qui solo perché la sua famiglia è lontana e mi dispiaceva saperlo a casa da solo a Natale. - 

- Volevo solo saperlo, tutto qui. - 

Audrey lo guardò, severa. - Non ti preoccupare, non sono come te e mamma, io. - Si lasciò sfuggire. 

Jude scelse deliberatamente di non rispondere, consapevole della complessità della conversazione. 

Dopo colazione, Audrey aiutò nonna Harriette a sistemare un po’ la cucina e, verso le nove e mezza, il campanello suonò. 

- A che ora hai detto di arrivare, al tuo amico? - Domandò Harriette, allarmata. 

La casa era ancora un disastro e tutti loro erano ancora in pigiama. 

- È solo Anne, tranquilla, deve aiutarmi a piastrare i capelli. - La tranquillizzò Audrey. 

Uscì dalla cucina, attraversò il breve corridoio che la divideva dall’ingresso e spalancò la porta, ritrovandosi davanti alla sua migliore amica, con un piatto coperto da carta stagnola tra le mani e infagottata in un piumino rosso molto imbottito, lo uno zaino sulle spalle che le dava l’aria di una che stava per partire per una spedizione molto pericolosa. 

- Buon complenatale! - Esclamò Anne entrando in casa e togliendosi le scarpe senza che nemmeno ci fosse il bisogno che Audrey glielo ricordasse. Frequentava quella casa da abbastanza tempo da conoscere tutte le regole di Harriette. - Mia madre mi ha costretto a portare i sufganiyot(3), quindi tieni. - Aggiunse, mettendole il piatto tra le mani. 

- Oh, ringrazia tua madre da parte mia. - Disse Audrey, camminando verso la cucina e dando nel frattempo una sbirciata al di sotto della carta stagnola, dove un paio di frittelle simili a krapfen strabordavano marmellata alle fragole. 

- Buongiorno! - Urlò allegramente Anne, varcando quella soglia. - Nonna Harry! Sei un piacere per gli occhi. Buon Natale! - 

- Ciao, Anne. - La salutò Harriette, sorridendole dal vicino al lavabo. - Felice Hannukkah, cara. Siediti. Hai già fatto colazione? - 

- Ne ho fatte già due, in verità. - Disse Anne, dandosi un paio di colpetti sulla pancia. 

- Buongiorno, Anne. - Jude fece il suo ingresso in cucina, arrivando alle spalle della nuova arrivata, che si voltò immediatamente nella sua direzione. 

- Signor padre di Audrey! - Esclamò Anne, facendo un sorrisetto nervoso. - È sempre un piacere guardarla… vederla. Scusi. - 

Jude alzò un sopracciglio con fare perplesso, prima di scoccare uno sguardo verso sua figlia, in cerca di spiegazioni

- Anne ha una cotta per te, non farci caso. - Sospirò Audrey, beccandosi una gomitata da parte dell’amica. - E ci ha portato dei dolci ebraici di Hanukkah. - Proseguì, lasciando il piatto sul tavolo. 

- Sono solo per augurarvi buone feste. - Spiegò Anne. - Anche se probabilmente Gesù non è il verso messia. Ma capisco il fascino… dopo tutto è stato il primo vero comunista, o no? - 

Harriette si portò una mano al cuore, mentre Jude trattenne a stento una risatina. - Avrei detto più socialista, sai? -

- Sarà… io appoggio Anne. - Fece Audrey, scrollando le spalle. - Sapete quella cosa che ha detto Gesù in qualche Vangelo? "Lasciate che i bambini vengano a me”? Di sicuro era perché voleva mangiarseli. Una cosa molto comunista. - 

- Audrey! - Tuonò nonna Harriette, come se temesse di vedere la nipote bruciare tra le fiamme dell’inferno da un momento all’altro. 

- Scusa, nonna. - Disse Audrey, facendo un piccolo sorriso. - Lo sai che Gesù è il mio quarto ebreo preferito dopo Lenny Kravitz, Roman Polański e Anne. - 

- Io vengo addirittura dopo Polański? Sei ingiusta. -

 

Circa tre ore più tardi, Audrey si ritrovò di nuovo davanti allo specchio appeso nell’armadio in camera sua, ancora in pigiama, ma senza la sua solita montagna di capelli crespi, che adesso le ricadevano sulle spalle in ciocche lisce e ordinate. 

Era stata dura, ma ce l’avevano fatta; e il risultato… non le piaceva affatto. 

- Sembri una delle Destiny’s Child(4)! - Esclamò Anne, fiera del suo lavoro e in piedi alle sue spalle, guardandola attraverso il riflesso allo specchio.

- Quindi una donna che ripudia la propria bellezza naturale pur di rientrare in canoni estetici etnocentrici? - Domandò cupamente Audrey. 

Anne alzò gli occhi al cielo e sospirò. -  È stata una tua idea, questa. - Le ricordò. 

- Ero certa che in qualche modo avrebbe fatto bene alla mia autostima, così da poter affrontare quella arpia di mia cugina con più facilità. - Sbuffò Audrey, accigliata, prima di voltarsi verso l’amica. - Devi fermarmi quando mi vengono in mente certe cose… un po’ come faccio io quando tu vuoi farti la frangetta. - 

- Secondo me stai bene, devi solo farci l’abitudine. - Disse Anne, iniziando a dare un’occhiata ai vestiti di Audrey nell’armadio spalancato. - Cosa hai intenzione di indossare, piuttosto? - 

- Una cosa a caso? Magari un maglione natalizio. - 

L’altra la fulminò con lo sguardo.

- Va bene… metterò una gonna o un vestito, se proprio pensi che sia necessario. - Ritrattò Audrey, cercando qualcosa nell’armadio. - Che ne dici di questo? - Domandò, mostrando un grazioso abito a maniche lunghe color carta da zucchero.

- Adatto solo se hai dodici anni e stai per fare il bat mitzvah(5). - Decretò Anne, scuotendo il capo. - Non per affrontare tua cugina stronza che si crede Naomi Campbell. - 

- Sai qual è la cosa più irritante di Beverley? Che non è solo bella, no. Lei è anche intelligente, fa fisica all’università, vuole lavorare al CERN(6). - Borbottò Audrey, alla ricerca di qualcosa di meglio. - È praticamente perfetta… questo è più di tuo gusto? - 

Audrey mostrò all’amica un lungo abito sui toni dell’arancione. 

- Troppo africano. - Sentenziò Anne. 

- Però l’arancione mi sta bene! - Sbuffò lei, per poi tirare fuori un pullover di lana verde, costellato da tanti piccoli fiocchi di neve di stoffa cuciti sopra. - Adoro questo maglione, l’ha fatto nonna qualche anno fa. - Disse, sospirando nostalgica. 

- È decisamente uno dei maglioni più brutti che io abbia mai visto in tutta la mia vita. - Affermò Anne, seria come non mai, prima di piegare le sue labbra in un piccolo sorriso intenerito mentre si lasciava cadere sul letto alle loro spalle. - Però è davvero adorabile, lo ammetto. - 

- Lo so! Potrei indossarlo insieme ai calzini con i procioni che mi hai regalato quest'anno per il complenatale! - Esclamò Audrey, con un certo entusiasmo.

- Modestamente lo sapevo che ti sarebbero piaciuti. - Disse Anne. - Ti conosco, bella mia. Un giorno però mi spiegherai questa tua ossessione insensata per i procioni. Cioè fanno proprio schifo. - 

Audrey aggrottò la fronte, indignata. - Il fatto è che sembrano carini a prima vista, ma in realtà sono aggressivi e portatori di rabbia, proprio come me. - Spiegò, sedendosi al fianco dell’amica. 

- E adorano frugare nella spazzatura. - Aggiunse lei. 

- Giusto, e tu lo sai quanto mi piacciono gli scarti. - Le diede corda Audrey, mentre si toglieva la maglietta del pigiama per indossare il maglione natalizio. 

- Forse è per questo che hai preso tanto a cuore quel Percy. - Buttò lì Anne. 

Audrey fece una faccia perplessa e poi infilò la testa nel maglione. Quando riemerse, rivolse uno sguardo verso l’amica. - Non l’ho preso a cuore. - Sottolineò. 

- Audrey… - 

- Verrà a pranzo perché sennò altrimenti sarebbe rimasto da solo. -

- Audrey. - Ripeté Anne. - Lui ha sei fratelli, no? Possibile che nemmeno uno fosse disposto a ospitarlo per le feste? È un po’ strano, non ti pare? - 

Audrey ci pensò su per qualche secondo. Certo che le pareva strano, e ovviamente ci aveva rimuginato su, l’aveva fatto parecchio, come al solito. Aveva fatto ipotesi e congetture, ma non le era sembrato il caso di indagare più a fondo: non voleva sembrare invadente né tantomeno mostrare nei confronti di Percy più curiosità del dovuto. 

- I suoi problemi familiari non mi riguardano. - Rispose alla fine. - Anche io ne ho. Praticamente non parlo con mia madre e fino a tre giorni fa non vedevo mio padre da due anni, quindi… - 

- Quindi lo hai preso a cuore. - Rimarcò Anne. - È una cosa bella, non te ne devi mica vergognare. - 

- Diciamo che tra figli di nessuno ci si aiuta? - Tentò Audrey, alzando gli occhi al cielo. - Senti, magari suo padre è un riccone anaffettivo tipo mio padre e sua madre una mezza matta come la mia, quindi forse ho empatizzato, forse è vero, ma tutto qui. - Le concesse.

- Oppure hai proiettato te stessa su di lui. - Ipotizzò Anne. - Lo fai sempre: incontri qualcuno che sembra avere difficoltà simili alle tue e lo prendi sotto la tua ala… un po’ come hai fatto con me. - 

- In quel caso sei stata tu a prendere me sotto la tua ala. - La corresse Audrey. - A scuola ero io quella presa di mira, no? - 

- Lo eravamo entrambe, ma non è questo il punto. - Obiettò Anne. 

- E allora qual è? - 

Anne sospirò seccamente. - Che se l’hai preso a cuore puoi ammetterlo, ecco qual è. Non c’è niente di male. Solo che… prima accertati che ciò che hai nella tua testa sia la verità, altrimenti rischi di affezionarti a una tua proiezione, capito? - 

- Ma io non mi affeziono. Ho solo fatto un gesto gentile, per una volta. - 

Anne emise un verso di scettico assenso e nello stesso istante, dal piano di sotto, arrivarono alle loro orecchie delle voci nuove. 

Audrey sospirò: zia Tamica e zio Michael dovevano essere appena arrivati e adesso le toccava fare il suo noiosissimo dovere da brava nipote: scendere giù, salutarli con un bel sorriso sulle labbra, beccandosi tutte le classiche frasi di circostanza che odiava tanto. 

- Andiamo giù a salutare. - Mugugnò, infatti, il tono lugubre, alzandosi in piedi. 

- Sì, è ora che io vada in effetti. - Disse Anne, imitandola. - Non sarà Natale per me, ma ho comunque un pranzo in famiglia che mi attende. -

- Almeno i tuoi pranzi di famiglia sono divertenti. Giocate con il dreidel(7) e il resto. - 

- Nessun pranzo di famiglia è divertente, Audrey. - 

 

──●◎●──

 

Percy aveva dormito male quella notte. Poco e male, a dir la verità. 

Tuttavia, una volta aperti gli occhi, quel 25 dicembre del 1997, non si era sentito affatto stanco né tantomeno assonnato e, anzi, ebbe l’impressione di essere pieno di energie. 

Si era alzato dal letto in un baleno, si era preparato del tè nero e ne aveva bevuto una tazza, affacciato all’unica finestra del suo monolocale. Dopodiché, proprio come se quello fosse un giorno come un altro in cui si doveva semplicemente prepararsi per il lavoro, si era diretto in bagno, affidandosi alla sua solita e ben collaudata routine mattutina. 

Dopo una doccia di dieci minuti, Percy si era così ritrovato a osservare sé stesso in accappatoio, fermo davanti allo specchio appannato appeso sopra il lavandino del bagno pieno di vapore. Essere bello non era mai stata una sua priorità, sebbene tenesse molto ad apparire sempre ben ordinato agli occhi degli altri. Quel giorno però, ne era certo, sentirsi un po’ meglio nei suoi panni gli avrebbe di certo giovato parecchio. 

Non pretendeva di stravolgere i suoi connotati, questo no ma, forse, se fosse stato un po’ più simile a Bill, con quel suo viso da belloccio affascinante e quell’atteggiamento rilassato, allora si sarebbe sentito un po’ meno in ansia al pensiero di ritrovarsi, di lì a poco, nella sala da pranzo di una famiglia babbana durante il giorno di Natale. 

Dovrai accontentarti di quello che hai, si disse, passando la manica di spugna dell’accappatoio sullo specchio appannato, che gli mostrò subito il suo riflesso con contorni molto più definiti rispetto a un attimo prima. 

Forse quel giorno si sarebbe pettinato come piaceva a Penelope, pensò lisciandosi i capelli sulla fronte. 

Alla fine si rasò il viso, — perché va bene sembrare un ventenne come tanti altri, ma mai si sarebbe ridotto a ricalcare lo stile trascurato e decadente che sembrava andare tanto di moda negli ultimi anni, — e poi indossò i vestiti babbani che aveva comprato per l’occasione con l’aiuto di Katie qualche giorno prima. Si trattava di comunissimi jeans e di un maglione che per una volta non era sui toni del melanzana, del marrone o, peggio, del beige, ma di un bel color indaco che, a detta di Katie, si intonava perfettamente ai suoi occhi. 

Poco dopo mezzogiorno, Percy prese il regalo di compleanno di Audrey e la bottiglia di vino elfico da portare in dono alla nonna per ringraziarla per l’ospitalità e si smaterializzò a qualche isolato dalla casa. 

Audrey viveva con sua nonna in quello che si poteva definire senza alcun dubbio un gran bel quartiere. Era costituito principalmente da graziose villette, strade larghe e ben tenute e parchi in cui immergersi un po’ nel verde quando se ne sentiva il bisogno. Sembrava quel genere di posto pieno di opportunità e servizi che un giovane di campagna ambizioso come lui aveva sempre un po’ idealizzato, un posto in cui nei vialetti c’erano sempre bellissime auto ed era impensabile per i bambini indossare vestiti di seconda mano. 

Tuttavia la casa della nonna di Audrey era piuttosto modesta: era su due piani, circondata da un giardino che probabilmente in estate doveva avere un aspetto molto piacevole e curato, con un portico sul davanti sotto cui c’era un tavolo in ferro con la vernice bianca un po’ scrostata che gli dava un’aria piuttosto vissuta. 

Percy arrivò davanti a quella abitazione a mezzogiorno e mezza in punto ma decise di aspettare altri cinque minuti prima di attraversare il vialetto, raggiungendo la porta d’ingresso su cui era stata appesa una ghirlanda. Prese un respiro profondo e, con il regalo per Audrey in una mano e la bottiglia di vino elfico nell’altra, suonò il campanello, aspettandosi di ritrovarsi di lì a poco davanti alla ragazza o al volto severo di sua nonna. 

La soglia si spalancò con un acuto cigolio dopo un istante e davanti al giovane si palesò una sconosciuta che lo accolse con una faccia piuttosto sorpresa. 

Si trattava di una ragazza nera che probabilmente non raggiungeva i venticinque anni, alta e molto formosa, dai capelli scuri e lisci, pettinati con una perfetta riga nel mezzo e occhi di pece, grandi e rotondi che in quel momento lo stavano fissando con perplessità, la bocca carnosa semi aperta che le dava un’espressione confusa. 

- B… buongiorno. - Parlò lui, dopo almeno dieci secondi di imbarazzante silenzio. - Io… ehm… sono qui per… Audrey è in casa? - 

La ragazza alzò le sopracciglia, come colta da un’illuminazione, e poi si voltò verso l’ingresso urlando: - Audrey! -  

- Che vuoi? - Gridò a sua volta la voce di Audrey, da qualche parte in casa. 

- È arrivato il tuo amico! - Strillò in risposta l’altra. 

Audrey apparve sulla soglia con una velocità tale che quasi sembrò essersi materializzata lì all’improvviso. - Ciao. - Disse, sorridente e con il fiato corto. 

Percy la guardò per un breve istante. - Ciao. Hai fatto qualcosa ai capelli. - Osservò. 

- Felice che tu l’abbia notato, dato che ci ho messo tre ore per farli diventare così. - Ribatté lei, portandosi una ciocca dietro ad un orecchio. - Vieni, entra pure. -

- Mi chiedo come potevo non notarlo. - Sussurrò Percy, varcando l’uscio. - Comunque stai meglio al naturale. - 

L’altra soffocò una breve risatina, mentre Audrey aggrottò la fronte, assumendo un’espressione strana che Percy non le aveva mai visto sul volto. Era forse… imbarazzo? 

- Ecco, questa potevi anche risparmiartela. - Disse, piccata. 

- Non vo… - 

- Togliti le scarpe e sistemale lì. - Lo interruppe l’altra parlandogli sopra.

Percy si limitò ad obbedire, domandandosi se quella fosse una qualche strana usanza africana. Solo dopo, quando l’altra si dileguò sparendo dalla sua vista e lasciandolo solo con Audrey, ebbe il tempo di guardarsi attorno, rendendosi conto di non essere mai entrato prima d’ora in un'abitazione babbana. La casa, come ci si poteva aspettare, era addobbata per le feste con vischio e ghirlande, l’arredamento era semplice e funzionale, cosa che rispecchiava a pieno l’aspetto esterno della villetta. 

Alla fine Percy posò nuovamente lo sguardo su Audrey, che a sua volta lo stava osservando con le braccia incrociate sul petto. Si era truccata, notò, adesso le sue ciglia erano più lunghe e c’era del rossetto sulle sue labbra. Era davvero carina, nonostante lo strano maglione che indossava, che poteva essere confuso senza alcuno sforzo con uno di quelli che sua madre aveva fatto per lui da quando ne aveva memoria, anche negli ultimi anni. Anche quell’anno.

- Piantala di fissarmi. - Sbottò lei, all’improvviso, con lo stesso tono di poco prima.

- Non lo stavo facendo. - Ribatté Percy, poi le porse il sacchetto in cui aveva messo il suo regalo. - Questo è per te, per il compleanno. O per Natale, decidi tu. - 

Audrey alzò le sopracciglia, sorpresa. - Non dovevi. - Disse, prendendo il sacchetto. 

- Era il minimo. - Rispose lui. - Questo invece è vino elfico, ma possiamo dire che è vino francese o italiano. - 

- Vino elfico? Ti sei impegnato. - Fece Audrey, mentre intanto dava una sbirciata al suo regalo. 

Si trattava di una specie di cappellino di lana davvero orrendo, verde e viola e con un bon bon bianco cucito in cima. 

- Sì, ero indeciso tra il vino e il whisky incendiario. Il vino mi sembrava molto più azzeccato, di classe, sai... - Spiegò Percy. - Il cappello invece è incantato e funge da scudo. Se mai un mago o una strega ti attaccasse saresti protetta da parecchi incantesimi solo indossandolo. Certo, non dalle maledizioni senza perdono, ma è già qualcosa. - 

- Oh, sì, ho presente. Lucy aveva dei guanti del genere lo scorso anno. - Annuì Audrey, infilandosi il cappello in testa. - Li ha comprati in quel negozio a Diagon Alley… Tiri Vispi Weasley, hai presente? Sono tuoi parenti? - 

Un fremito passò sul volto di Percy in modo talmente rapido che quasi Audrey non ci fece caso, poi lui mosse la testa in modo sconclusionato. 

- Più o meno, sì. - 

- Lucy adora quel posto. - Continuò lei. - Io un po’ meno perché l’unica volta che ci ho messo piede per accompagnarla sono stata completamente sopraffatta dal caos che c’era. Poi uno dei proprietari mi ha spaventata con una bacchetta che si è trasformata in un pollo quando l’ho agitata… doveva essere uno scherzo, ma tutti dicono che non ho il senso dell’umorismo. - 

- Lo dicono anche di me. - 

- Be’, in questo caso hanno ragione. - Lei sorrise in modo beffardo. - Lo hai comprato lì il cappello? Non ti ci vedo proprio a entrare in un posto del genere. - 

Percy si limitò a scuotere il capo. Aveva mandato Oliver al negozio di Fred e George per prendere qualcosa che fosse utile per lei. 

Audrey, colpita dalla inusuale mancanza di parole da parte del ragazzo, si adombrò per un istante. Poi si tolse il cappello dalla testa e lo ripose nel sacchetto. - Be’... grazie. - Disse. 

- Spero che non ti serva mai. Perché altrimenti vorrebbe dire che ti trovi in pericolo e… - 

- Sì, capisco. - Audrey fermò le farneticazioni di Percy in tono perentorio. - Andiamo di là, ti presento tutti gli altri. -

Solo in quell’istante Percy fece veramente caso alle voci che arrivavano dalla fine del corridoio in cui si trovavano in quel momento. - Andiamo. - 

Seguì Audrey cercando di assumere nel frattempo un’espressione rilassata e quando varcò insieme a lei la soglia di una graziosa sala da pranzo con un camino da una parte, un pianoforte a muro dall’altra, addobbata con un bell’abete pieno di palline e con del vischio sopra lo stipite della porta, si ritrovò davanti ad una lunga tavolata di persone piuttosto rumorose che si zittirono nell’esatto istante in cui notarono la sua presenza. 

Con tutti quegli occhi addosso, Percy si sentì arrossire e, dopo un paio di secondi di silenzio tombale, qualcun altro entrò in sala da pranzo, portando con sé un grosso vassoio pieno zeppo di qualcosa di appiccicoso e giallo, simile a puré. 

- Complimenti, caro, sei riuscito a farli star zitti, almeno per un attimo! Dovresti venire qui più spesso. - Esclamò bonariamente una arzilla donna di mezza età con uno strano accento, gli occhiali da vista appesi al collo, appoggiando il vassoio al centro della lunga tavolata, per poi voltarsi proprio nella direzione del nuovo arrivato, porgendole la mano. - Sono la nonna di Audrey, Harriette. - 

Percy la strinse con solennità. - Percy Weasley, molto lieto, signora… signora Manning? - 

- Quello è il cognome della madre di Audrey, ma è inutile che ti dica il mio perché non sapresti pronunciarlo. - Disse Harriette. - Puoi chiamarmi sono Harriette. - 

Percy, che non aveva nessuna intenzione di rivolgersi a una donna più grande di sua madre chiamandola per nome, decise mentalmente che si sarebbe affidato ad un generico “signora”. 

Da lì seguì un rapido giro di presentazioni: la zia Tamica, una donna piccola e tarchiata come Harriette, e il marito Michael, che invece era un omone alto almeno due metri, con una voce profonda e un sorriso molto largo, che gli diede una pacca sulla spalla talmente forte da togliergli il fiato; poi i loro due figli, Beverley (la ragazza che aveva aperto la porta) e Joel (un adolescente smilzo che sembrava faticare anche solo a stare seduto per più di due minuti consecutivi). Il padre di Audrey, Jude, era un uomo di poche parole che si limitò a una fugace stretta di mano e, infine, Percy conobbe Constanze, una vecchia ossuta che in qualche modo gli ricordò la professoressa Cooman, soprattutto nel momento in cui lo afferrò per un polso, iniziando a osservare il suo palmo con molto interesse. 

- Ogni tanto dà di matto, lasciala fare. - Aveva sussurrato Audrey, a quel punto, facendo un sorrisetto di scuse. 

- Dobbiamo aspettare Elijah o possiamo mangiare intanto? - Chiese zia Tamica, quando tutti furono finalmente seduti. 

- Mangiamo. - Concesse nonna Harriette. - Conosciamo Elijah, sappiamo quanto adori le entrate ad effetto. -

Percy, seduto accanto a Audrey sul lato sinistro della tavolata, fissò con lo sguardo perso un punto non meglio identificato di fronte a sé, lasciandosi stringere da una spiacevole sensazione di deja-vu. Dalla cucina proveniva l’odore di tacchino e patate al forno, le voci degli altri erano tante e si sovrastavano creando un chiasso che Percy non sentiva da ormai troppi anni. 

Lo stesso chiasso della Tana. 

Probabilmente, quello, sarebbe stato il pranzo più lungo della sua vita. 



 

Non avete idea della fatica che ho fatto per scrivere questo capitolo e questa è solo la prima parte! Comunque, grazie anche a questo primo maggio appena passato in cui sono stata a casa a fare praticamente nulla, sono riuscita a superare una parte di questo enorme scoglio che rappresenterà una prima piccola svolta di trama (ce l’ho fatto, oh!).

Non ho molto da dire. Il capitolo mi piace a tratti (che è già una grande cosa per me). 

Fatemi sapere cosa ne pensate, se la storia vi sta piacendo eccetera eccetera… la mia scarsa autostima da autrice wannabe ringrazia.

Ah, avrete sicuramente notato tutti quei numerini accanto ad alcuni termini specifici: ecco, sono lì perché una mia amica ha letto questo capitolo e alcune cose le sono sfuggite, così, invece di dare per scontato che tutti sapessero cosa fosse il fufu o chi fossero le Destiny’s Child mi sono presa la briga di scrivere una piccola nota. 

Alla prossima, 

J.




 

Note: 

1. Kelewele: dolce a base di platano fritto, tagliato a rondelle e aromatizzato con un mix di spezie, tipico dei paesi in cui cresce il platano (se vi piace la roba speziata è bono).

2. Fufu: un impasto simile alla nostra polenta, tipico dell’Africa occidentale e di alcuni paesi dei Caraibi. Si mangia con le mani, accompagnato da zuppe e stufati (è bono parte due). 

3. Sufganiyot: frittella ripiena di marmellata che si mangia durante Hannukkah (cose bone parte tre).

4. Destiny’s Child: una sorta di girl band degli anni ‘90 in cui c’era anche Beyoncé. 

5. Bat mitzvah (per i ragazzi Bar mitzvah): momento in cui un bambino ebreo raggiunge l'età della maturità. 

6. CERN: il più grande laboratorio al mondo che svolge la ricerca scientifica sulla fisica delle particelle elementari.

7. Dreidel: un gioco tipico della festa di Hannukkah che somiglia un po’ a una trottola. 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7. Complenatale - Parte II ***


Capitolo 7

 

Circa un’ora dopo, inchiodato a quel tavolo e quasi costretto a ingurgitare quantità notevoli di cibo estremamente speziato, Percy si rese conto che erano molte le stranezze che gravitavano attorno alla famiglia di Audrey, sebbene lei sembrasse proprio non accorgersene. 

Innanzitutto la gatta di famiglia, Misty, era tutt’altro che una semplice gatta: con il suo pelo nero e la coda leggermente piumata, era palesemente un ibrido ben riuscito di Kneazle. 

Poi c’era nonna Constance, con i suoi occhietti neri e pesanti che lo fissavano come se volesse leggergli la mente e quell’atteggiamento un mistico con cui diceva frasi sconnesse mischiando all’inglese parole incomprensibili in chissà quale dialetto ghanese. 

Infine, e forse questo era ciò che l’aveva sconvolto di più, c’era il fatto che quel luogo — sebbene tanto diverso da casa sua — gli ricordasse tanto la Tana. 

Cosa gli era passato per quella testa bacata nell’istante in cui aveva accettato quell’invito? Come aveva potuto pensare che ritrovarsi nel pieno di un pranzo di famiglia l’avrebbe aiutato a non pensare alla propria?

C'era molta intimità attorno a quella tavolata, lo si poteva notare dalla naturalezza con cui tutti si rivolgevano gli uni agli altri, dagli sguardi che si scambiavano e da come le conversazioni venivano fuori, con naturalezza. Tuttavia c’era qualcosa nell’atteggiamento di Audrey che la faceva apparire distante dagli altri, diversa, un po’ come se anche lei fosse un ospite, sebbene quella fosse praticamente casa sua. Rivolgeva a malapena la parola a suo padre e, quando ciò accadeva, lo faceva con educata distanza, come se Jude fosse per lei solo un lontano parente da trattare con rispetto, nulla di più. Zia Tamica e zio Michael, invece, ogni tanto le facevano domande sulla sua vita come se non la vedessero da tempo, condendo il tutto con una bella dose di nostalgia dei tempi andati gettata in racconti risalenti a molti anni prima, spesso sulla misteriosa e confusa infanzia di Audrey. 

Era chiaro: in quella famiglia era lei il pesce fuor d’acqua, un po’ come lo era stato Percy nella sua. 

Dall’altro lato del tavolo, Joel, il cugino di Audrey, stava masticando a bocca aperta nel tentativo di infastidire la sorella seduta al suo fianco, beccandosi però solo qualche occhiataccia da parte dei loro genitori. Qualche posto più in là, invece, nonna Harriette aveva appena finito di riempire i piatti di tutti con quello strano composto simile a purè e con della zuppa che profumava fortemente di spezie, mentre, a capotavola, la signora Constance continuava a tenere lo sguardo fisso su di lui, mettendolo un po’ in soggezione, e lo stesso stava facendo anche Jude, seduto proprio di fronte al giovane mago.

Al suo fianco, invece, Audrey stava parlando con la zia Tamica di una certa lady Diana, morta in un tragico incidente stradale la scorsa estate:

- È stato così triste. Insomma, finalmente era felice, dopo tutti quegli anni in cui Carlo l’ha riempita di corna… passa l’estate in Costa Azzurra con Dodi e poi… puf. È andata.- 

Percy la guardò, ritrovandosi a osservarla più da vicino di quanto non gli fosse mai stato concesso prima d’ora. 

Non erano soliti sedersi fianco a fianco e, in quei rari casi in cui era capitato, lei aveva mantenuto sempre una discreta distanza di sicurezza. Audrey era molto brava a rispettare gli spazi altrui, almeno fisicamente: sapeva quando era il caso di dare una stretta di mano o un abbraccio, non era una di quelle persone irritanti che toccano i propri interlocutori mentre parlano e questo era un bene, vista la poca propensione per il contatto fisico che Percy aveva da sempre. 

Tuttavia in quel momento, stipati uno a fianco all’altra lungo la tavolata al centro della sala da pranzo, averla così vicina da poterla quasi sfiorare non lo stava infastidendo, anzi… 

Era bello osservarla nel suo ambiente, una volta tanto, lontana dal ristorante e fuori dal suo deprimente monolocale. 

Lei era bella, ma Percy fece appena in tempo a finire di formulare questo pensiero che si affrettò a cacciarlo via dalla sua mente. 

Come era arrivato a quel punto? 

Quando esattamente aveva iniziato a trovarla attraente? 

Lo era forse sempre stata? Forse Oliver aveva ragione… 

Ma era pericoloso, sbagliato, senza alcun minimo senso. Stare lì, in quella casa babbana, circondato da babbani, era totalmente senza senso. Il fatto che quella casa, quella tavolata e persino nonna Harriette che gli riempiva il piatto gli ricordasse la Tana non aveva un senso, oltre a essere estremamente doloroso. 

Doveva trovare il modo di allontanarsi, prendere un po’ d’aria, cercare di mettere in ordine i pensieri e, chissà, magari sarebbe anche riuscito a trovare un modo o una scusa per svignarsela senza sembrare maleducato. 

- E il funerale, poi… uno spettacolo davvero triste, quei poveri ragazzi… - Disse Tamica, continuando a parlare della morte di questa fantomatica Lady. 

- Ho quasi pianto quando Elton John ha cantato “candle in the wind”. - Riprese Audrey, le sopracciglia aggrottare in un’espressione corrucciata. - Sul serio: ero a lavoro, stavano trasmettendo il funerale in televisione, e io ho quasi pianto davanti a un cliente. Elton è un grande artista. - 

Un altro insormontabile problema per Percy, nel dover interagire con dei babbani, stava nel fatto che non avesse la più pallida idea di cosa e di chi stessero parlando per la maggior parte del tempo. 

Per fortuna nessuno gli aveva ancora rivolto domande specifiche o dirette. 

- E tu eri con lei, Percy? - Gli chiese Tamica, volgendo lo sguardo nella sua direzione. 

E ti pareva. 

- Q… quando? - Domandò incerto. 

- Il giorno del funerale di Lady D. Eri con Audrey a lavoro? - 

Percy scoccò uno sguardo d’aiuto verso Audrey, ma lei parve non coglierlo. - Il giorno del funerale… certo, ero con lei. - Annuì, cercando di mantenersi rilassato ma di non sembrare nemmeno un completo idiota fuori dal mondo. - Un momento davvero triste per la musica odierna. Abbiamo perso un’artista di talento. - Aggiunse con solennità.

Attorno a lui, i parenti di Audrey si scambiarono degli sguardi perplessi, come se Percy avesse appena detto qualcosa di molto strano. 

- No, aspetta. - Fece Tamica, sorridendo in modo incerto e anche un po’ divertito. - Sai di chi stiamo parlando? -

- Sappiamo tutti che la Principessa del Galles aveva un animo artistico. - Si mise in mezzo Audrey, venendogli in soccorso. - Era un’ex ballerina, la principessa, e sono certa che amasse anche cantare. Voglio ricordare a tutti che siamo un paese monarchico. - 

Percy annuì freneticamente. Sapeva che i babbani avessero una regina, ma la principessa del Galles gli era proprio sfuggita.

Era chiaro che il programma di babbanologia a Hogwarts doveva essere assolutamente rivisto, dato che lui non era capace di passare come un convincente babbano nonostante la gloriosa E con cui aveva superato il M.A.G.O. in quella materia. 

- Da dove hai detto che vieni, Percy? - Domandò Jude.

- Dal Devonshire, signore. Vengo da villaggio collinare chiamato Ottery St Catchpole, ma vivo a Londra da tre anni, circa, per lavoro. - 

- Ed è una cosa tipica della campagna scambiare i membri della famiglia reale per quelli di una band? - Chiese allegramente zio Michael, ma senza nessun vero intento di prenderlo in giro. 

Le orecchie di Percy si fecero un po’ più rosse. 

- Percy ha un senso dell’umorismo tutto suo. - Tentò di giustificarlo Audrey. 

- Dalle tue parti non c’erano ristoranti pronti ad assumerti? - Chiese Jude, di getto. 

- Londra offre indubbiamente molte più possibilità. - Rispose Percy. Poi, rischiando un po’, aggiunse: - Inoltre ci sono i college. -  

No, non avrebbe mai fatto la figura del povero cameriere senza ambizioni.

- Anche io ho dovuto lasciare il mio villaggio per frequentare la scuola, ai miei tempi. - Disse Harriette. - Che cosa studi, caro? - 

Percy esitò, cercando di fare mente locale su quali fossero i campi di studio dei babbani. Pensò ai genitori di Penelope, il signor Light che era un medico e la signora Light che era una biologa, e poi rispose incerto: - Studio scienze… - 

- Politiche. Scienze politiche. - Imbeccò Audrey. - Vuole diventare Primo Ministro. - 

Jude alzò le sopracciglia e annuì. - Un sogno parecchio ambizioso. - Disse. - E quale sarebbe il tuo orientamento politico? - 

Percy temporeggiò: - Questa è un’ottima domanda… -

Aveva solo due possibilità: confondere l’intera famiglia con un colpo di bacchetta o sperare nuovamente nell’aiuto di Audrey che, per fortuna, arrivò un secondo più tardi:

- Possiamo evitare questo interrogatorio, papà? - Disse, mantenendo la solita distanza che assumeva ogni volta che si rivolgeva a Jude. - Ho letto che non è educato parlare di politica a tavola. - 

Jude borbottò scontento in risposta. - Volevo solo assicurarmi che non uscissi con un conservatore razzista, Audrey. - 

- Ma noi non usciamo insieme e ovviamente lui non è razzista. - 

- Conosco tante persone di colore. - Assicurò Percy, certo che quella fosse proprio la cosa giusta da dire in quel momento. 

Davanti a lui, Beverley e Joel fecero una faccia strana, Tamica alzò gli occhi al cielo e Michael sospirò, mentre Jude sembrò raggiungere un nuovo picco di fastidio legato al povero Weasley. 

- Si dice nero. - Sussurrò Audrey nella sua direzione. 

- Non è più educato dire “di colore”? - 

- No, è solo più paraculo. - Lo informò Beverley. - Non te l’hanno mai detto i tuoi amici “di colore”? - 

- Bev… - La richiamò nonna Harriette. 

- Quindi tu non sei il fidanzato di Audrey? - Quella brusca domanda da parte di Joel sembrò arrivare alle orecchie di Percy con qualche secondo di ritardo. 

Il giovane mago si spinse gli occhiali su per il naso, aprì la bocca per rispondere, ma fu Audrey a farlo al posto suo: - Quante volte devo dirvelo? Non stiamo insieme: siamo solo amici. - Disse, sbuffando irritata. 

- Calmati, Audrey, tanto lo sappiamo tutti che non ti si fila nessuno. - Ribatté Beverley, facendo un sorriso sornione. - Neanche uno come questo qui, a quanto pare. - Aggiunse, scoccando uno sguardo verso Percy. 

A quel punto gli occhi di Audrey si ridussero a due fessure nella direzione della cugina. - Magari sono io che non voglio nessuno attorno, ci hai mai pensato? - 

- Questo è ciò che ti racconti per non metterti a piangere al pensiero di avere vent’anni, una sola amica e molte possibilità di morire sola, triste e povera come quei cantanti che ammiri tanto. Buon compleanno, a proposito. - 

- Fottiti, Beverley. - 

- Linguaggio! - Tuonò Harriette. 

Audrey aggrottò la fronte. - Davvero? Lei mi dà della sfigata e ciò che ti preoccupa è il mio linguaggio? - 

- Lascia stare, nonna. - Fece Beverley, con calma. - In fin dei conti conosciamo il modo in cui è cresciuta. Zia Erin è quel che è, no? - 

Al nome della madre di Audrey, Jude sussultò appena come se avesse preso una leggere scosse e si mise in ascolto. 

- Cosa vorresti dire, scusa? - Chiese invece lei, continuando a fissare la cugina con lo stesso sguardo torvo di poco prima. 

- Che nessuno ti ha insegnato come ci si comporta, visto che tua madre era troppo presa da altro per occuparsi di te e di tua sorella. - Spiegò Beverley, parlando come se provasse pena per lei. - I risultati sono chiari: fai tanto la raffinata, ma sembri comunque una appena uscita dal peggior palazzone di Thamesmead. Per non parlare del fatto che sei piena di problemi e di drammi. Chissà se il tuo amichetto qui ne conosce almeno metà. - 

Audrey continuò a guardare la cugina con uno sguardo talmente torvo che avrebbe potuto ucciderla, ma non disse niente, rimanendo tesa e immobile. 

Poteva risponderle a tono, certo, ma questo voleva dire correre il rischio di servire a Beverley l’opportunità per metterla in imbarazzo, magari raccontando qualcosa su di lei, la sua infanzia o, peggio ancora, la sua adolescenza. 

- Ehm… vogliate scusarmi. Io devo… ehm… - Fece Percy, approfittando di quel momento di silenzio per alzarsi da tavola e allontanarsi dalla sala da pranzo tra gli sguardi perplessi di tutti. 

Stava diventando davvero troppo per lui.

- Però… che tipo strano. - Commentò zio Michael dopo una manciata di secondi. - Solo io non me lo aspettavo così? - 

- Così come? - Sbuffò Audrey, irritata, alzando gli occhi al cielo. 

L’uomo scrollò le spalle. - Capelli rossi, lentigini, occhiali… - 

- … bianco. - Proseguì Jude. - Uno dei più bianchi della nostra specie. -

- Evidentemente tu e tua figlia avete gli stessi gusti, Jude. - Disse Tamica. - Ma hai ragione: è decisamente bianco. Bianco come un lenzuolo. - 

- Niente di tutto questo è importante. - Si mise in mezzo nonna Harriette, come in una sentenza. - Sembra un bravo ragazzo; è molto educato. Certo forse un po’ rigido, un po’ fuori dal mondo… ma se ad Audrey piace… -

- Siamo solo amici! - Si affrettò a ripetere la ragazza. 

- Per ora! - Parlò Constance. - È il tuo futuro marito, l’ho visto. - 

Zio Michael e i due figli non sembrarono dare a quella frase insensata più peso del dovuto, mentre Harriette, Jude e Tamica si voltarono verso la vecchia come se avesse appena fatto una rivelazione.

- Questa è pura follia. - Decretò Audrey alzandosi in piedi. - Vado a controllare che non sia scappato per colpa vostra. Anzi, per colpa tua, Bev, che sei un’arpia! - 

- Vai, vai, rincorri pure il tuo fidanzatino! - Esclamò la giovane. - Ho talmente tante cose imbarazzanti da raccontare su di te che forse è meglio se è scappato via! - 

Audrey finse di non averla sentita e lasciò la sala da pranzo come un attimo prima aveva fatto Percy. Una volta sul corridoio, la ragazza notò la porta d’ingresso appena accostata e con pochi passi la raggiunse e uscì. Lì, fuori di casa, la prima cosa che Audrey notò fu la neve che aveva preso a scendere piano piano, imbiancando il giardino e la strada a pochi metri da lì, la seconda fu invece Weasley, seduto sui due scalini che rialzavano il portico dal vialetto, immobile e assorto. 

Audrey lo guardò in silenzio per un po’, ferma sulla soglia, poi si avvicinò e si sedette accanto a lui. - Lo so, mia nonna cucina piccante. - Disse con leggerezza. - Ogni tanto fa bene prendere un po’ d’aria. - 

Lui si voltò a guardarla come se si fosse reso conto solo in quel momento della sua presenza. - Per quanto io non ami il cibo etnico devo ammettere che è un’ottima cuoca. - 

- Dovresti dirglielo. Però salta la prima parte, magari, sai, il cibo “etnico”. - Disse lei, disegnando due virgolette immaginarie in aria con le dita. - Non credo che sia proprio il termine adatto. - 

Percy fece un verso d’assenso. Audrey aveva idee strane che spesso lo rendevano curioso, ma in quel momento non aveva nessuna voglia di farsi spiegare nulla. - Meglio di no. Pare che io non sia molto bravo con i termini. - 

- Io credo che tu voglia così disperatamente piacere a chi ti sta attorno che alla fine ti comporti in modo strano. - Obiettò lei, provando quasi tenerezza per lui. - Perché non provi semplicemente a essere te stesso? - 

Percy sospirò sonoramente. - Perché non piaccio a nessuno. - Svelò. 

- A me piaci. - Dichiarò Audrey. - Come amico. - Si affrettò ad aggiungere. 

Il ragazzo mugugnò e poi sospirò ancora. - Non dovrei essere qui. - 

- Weasley, nessuno dei tuoi compari maghi potrebbe mai pensare che sei a pranzo da dei babbani per Natale, avanti. - Fece lei. 

- Non intendevo questo. - Ribatté lui, con una strana voce. - Non dovrei essere qui in generale. Dovrei essere a casa mia, dovrei essere con i miei genitori e i miei fratelli. C’è la guerra e… e se qualcuno di loro morisse allora io… io non… ho perso troppi Natali e… non riuscirei mai a perdonarmelo… - 

Audrey rimase zitta, guardandolo come se lo vedesse per la prima volta. Chi diamine era quel ragazzino fragile che balbettava e se ne stava rannicchiato su quei due scalini, gli occhi persi tra i fiocchi di neve e l’espressione contrita dipinte in volto? Aveva perso quell’atteggiamento da uomo vissuto che la sapeva sempre lunga e, per la prima volta da quando si erano conosciuti, sembrava così… umano. 

- Perché dici di aver perso troppi Natali? Che significa? - Indagò Audrey. 

Era curiosa, dannatamente curiosa adesso. 

Lui si limitò a scuotere la testa, come per dire “lascia stare”. 

- È successo qualcosa tra te e la tua famiglia? - Tentò ancora lei. 

Percy prima scosse di nuovo il capo e poi prese un respiro profondo e rivelò: - Non parlo con loro da anni. - Parlando come se si fosse appena tolto un grosso peso dalle spalle. 

- Oh. - Mormorò Audrey, continuando ad osservare il profilo di lui. - Da quanti anni, esattamente? -

- Questo è il terzo Natale che passo da solo. -

- Oh. - Fece di nuovo lei. - Ti va di parlarne o… - 

- No. - 

- D’accordo. - Sospirò Audrey, e poi anche lei si mise ad osservare la neve cadere. - Sai… anche io praticamente non parlo con mia madre da anni. - Disse dopo un po’. - Cioè nel senso che abbiamo ridotto il nostro rapporto all’osso molto tempo. Non ci sentiamo mai, né ci scriviamo… nemmeno oggi mi ha chiamata. - 

- Per quale motivo? - 

- Per tante ragioni, sarebbe davvero lunga da spiegare. - 

- Non vuoi dirmelo. - Tradusse lui. 

- Sei perspicace, Weasley, bravo. - Annuì Audrey, facendo un sorrisetto privo di ogni allegria. - Comunque il punto è che ti capisco. Se i tuoi genitori sono orribili, se ti hanno fatto qualcosa di male… io ti capisco. E ovviamente non starei qui a giudicarti dato che… insomma, ti capisco, d’accordo? - 

- I miei genitori non sono orribili, io lo sono. - Rivelò lui. 

Audrey fece una faccia scettica. - Dici così perché è Natale, e le feste sono il periodo più deprimente dell’anno. - 

- Dico così perché è la verità. - Ribatté Percy, con forza. - Tu non mi conosci. - 

- Allora parla, Weasley. Raccontami cosa hai fatto di tanto grave, ti ascolto. - 

Percy distolse lo sguardo dai fiocchi di neve, puntandolo su di lei, che a sua volta lo stava guardando. 

Si sentiva diviso in due: da un lato c’era la voglia di dirle tutto, di buttarle in faccia il fatto di aver ragione: era orribile e voleva quasi dimostrarglielo. D’altra parte però, temeva fortemente la reazione di lei. 

Come poteva raccontare a una come Audrey il modo in cui aveva dato del fallito al proprio padre, di come aveva abbandonato la propria madre e tutti i suoi fratelli per… per cosa, esattamente? Per uno stupido posto al Ministero? Per ambizione? Per il successo? Per rivalsa o per dimostrare di essere qualcuno anche senza di loro, anzi, soprattutto senza di loro?

No, lui doveva tenere duro, mantenersi distaccato e orgoglioso come al solito, altrimenti rischiava davvero di crollare lì, sotto quel portico, sotto lo sguardo di Audrey. 

L’orgoglio lo teneva in piedi.

Alla fine prese un lungo e pesante respiro e scosse la testa, sperando silenziosamente che lei non insistesse. 

Doveva assolutamente riprendersi. 

- Non penso che tu sia orribile. - Disse Audrey, quasi sussurrando, come se si trattasse di un segreto. - Hai salvato Lucy e poi mi aiuti a mantenere i contatti con lei. Scommetto che non lo farebbe chiunque, vista la situazione. -

- C’è chi sta facendo molto di più per quelli come tua sorella. - Rispose Percy, sebbene una parte di lui stesse un po’ gongolando. 

Forse Audrey lo riteneva coraggioso? Probabilmente era l’unica, assieme al Cappello Parlante a pensare questo di lui. 

- Tu stai facendo quel che puoi, è questo l’importante. - Ribadì lei. - Se un giorno te la sentirai mi dirai ciò che credi faccia di te una persona orribile e io potrei raccontarti il motivo per il quale non parlo con mia madre in cambio. Possiamo fare una gara a chi ha la famiglia più disfunzionale, ma qualcosa mi dice che ho già la vittoria in tasca. - 

- Loro non sembrano così male. - Obiettò Percy, facendo un cenno verso la casa alle loro spalle. 

- E devi ancora conoscere zio Elijah, lui è un po’ strano ma credo che lo troverai interessante. Comunque lo so, non sono male… insomma, a parte mia cugina. - Rispose Audrey, scrollando le spalle. 

- Sono del parere che tua cugina si senta un po’ minacciata da te, altrimenti non vedo perché dovrebbe tentare di demolirti in quel modo. Credo sia uno di quei comportamenti inspiegabili da donne. - 

Audrey rise piano. - Che commento sessista, Weasley. - 

- Pensavo che fossimo arrivati al punto di chiamarci per nome, Peony. - 

Lei lo fulminò con lo sguardo. - Che carino: hai bisogno di più intimità? - 

- Sono a casa tua per il pranzo di Natale, direi che chiamarci per nome sia il minimo. - 

Lei produsse un breve verso d’assenso. - Se ci tieni tanto allora d’accordo, mi impegnerò a chiamarti per nome. - Acconsentì. - Anche se sembra quello di una mezza specie di ricco nobile uscito da un romanzo di Jane Austen… Sir Percival Weasley. -

Lui, che non aveva idea di chi fosse Jane Austen, si limitò a tacere in attesa che Audrey aggiungesse qualcosa. 

- Senti, dato che siamo in vena di confidenze… sei pieno di soldi, non è vero? - Parlò infatti lei poco dopo, lasciandolo perplesso. - Vivevi in una tenuta nel Devonshire? - 

Percy le rivolse uno sguardo confuso, quasi divertito, poi scosse la testa. 

Non aveva idea di quale fosse il motivo per il quale Audrey avesse quella assurda convinzione su di lui. Su di lui, che aveva sempre avuto vestiti di seconda mano e libri di seconda mano, su di lui che aveva sempre l’impressione che la povertà gli si fosse incollata addosso ormai. Non importava quanto guadagnasse adesso, non importava quale fosse la sua posizione: si sentiva ancora il ragazzino che indossava una divisa di seconda mano più spesso di quanto volesse ammettere. 

- No, non sono affatto pieno di soldi. Nemmeno lontanamente. -  

- Dicono tutti così, i ricchi di famiglia. - 

- In questo caso è la verità. - Asserì lui. - In casa eravamo nove e mio padre era l’unico con uno stipendio. Non ha mai tentato di fare carriera o migliorarsi… a lui piaceva ciò che faceva, quindi no, ti assicuro che non sono mai stato ricco, nemmeno lontanamente a dire il vero. - Sospirò. - Piuttosto tu: mi è sembrato di capire che tuo padre sia famoso nel suo ambiente. - 

Audrey si strinse nelle spalle. - Be’, però io non voglio niente da lui. - Disse, il tono più gelido di quanto avesse desiderato.

Nel tono di voce di lei, Percy riconobbe il suo stesso orgoglio. 

Anche se per ragioni quasi opposte, i loro conflitti non erano poi così distanti. 

Poi Audrey si alzò in piedi e tese la mano verso Percy. - Torniamo dentro, dai. Mi si arricciano i capelli, con tutta questa umidità. - 

Sebbene non avesse decisamente bisogno di aiuto per lasciare quel gradino, Percy afferrò la mano di lei, rendendosi conto che quello fosse il primo vero contatto fisico avuto con lei da quando l’aveva conosciuta. Non si erano mai toccati prima d’ora, — sempre ben attenti a mantenere le distanze — ma in quel momento, adesso in piedi uno davanti all’altra, quel contatto sembrò insensatamente naturale per lui. 

La mano di Audrey era gelida e sulle sue unghie c’era ciò che rimaneva di uno smalto giallo applicato forse qualche giorno prima. Era una mano minuscola, sembrava quasi quella di una creatura fragile e delicata, cosa che lei assolutamente non era, e Percy se ne ricordò quando alzò gli occhi verso il suo volto. Lei ricambiò quello sguardo, ma senza la solita diffidenza, e quel contatto, quel semplice contatto, sembrò accendere nel petto di lui qualcosa, come una fiammella nell’oscurità della notte. 

- Sei fredda. - Le disse piano.

Audrey sorrise. - Me lo dicono in tanti, ma in verità ho un animo estremamente romantico. - 

- Intendevo dire la tua mano. - 

Lei alzò gli occhi al cielo. - Ma va? Prendi proprio tutto alla lettera, vero? - Disse, usando un tono vagamente derisorio, per poi abbassare lo sguardo sulla mano di lui che teneva ancora stretta la sua. 

Oh. D’accordo, si ritrovò a pensare tra sé e sé, quando si rese conto che non era poi così male quella vicinanza. Peccato che si sarebbe fatta uccidere piuttosto che ammetterlo ad alta voce:

- Potresti lasciarmi andare? Sta diventando strano. - Gli disse, fingendosi infastidita.

Percy arrossì e obbedì all’istante. Fece appena in tempo a lasciarle la mano e a fare un passo indietro che, dalla strada, arrivò il rumore stridente di pneumatici che frenano all’improvviso sul manto stradale ghiacciato. Entrambi si voltarono di scatto e, come se fosse apparso lì dal nulla, notarono un van arancione e piuttosto scassato fermo davanti alla casa. Lo sportello a lato del guidatore si spalancò e dal van uscì un ragazzo poco più grande di loro, alto, con una cascata di treccine nere e viola in testa e una barba incolta che gli dava un aspetto piuttosto selvaggio. Indossava un lungo cappotto di lana, anche quello sui toni del viola, pantaloni di jeans larghi e scoloriti e un paio di occhiali da vista rotondi. Chiuse lo sportello quasi sbattendolo e poi si voltò nella loro direzione, mettendosi le mani sui fianchi e sorridendo bonariamente. 

- Heilà, bambina! - Esclamò in tono allegro. 

Per un secondo, Percy ebbe l’impressione di conoscerlo, anche se non aveva idea di in che modo, poi venne distratto dalla voce di Audrey che gridò qualcosa prima di correre nella direzione del nuovo arrivato per abbracciarlo. 

Fermo sotto al portico, e davanti a quella scenetta, Percy sentì una spiacevole sensazione di fastidio invaderlo, — no, quel tipo non gli piaceva, no no — almeno finché Audrey non tornò verso di lui assieme a quello sconosciuto, presentandolo come suo zio Elijah. 

- Quindi tu… suo zio… ottimo. - Balbettò, sentendosi avvampare. - Io sono Percy. Sono un amico di Audrey. Ho sentito parlare di te molto spesso, è un vero piacere incontrarti finalmente. -

Elijah lo scrutò con interesse e aggrottò la fronte. Poi gli strinse la mano con una presa ben salda. - Percy, eh. - Disse, con noncuranza. - Percy come? - 

- Percy Weasley. - 

Elijah annuì, le sopracciglia ancora aggrottate che gli davano un’espressione difficile da leggere.

Dove ti ho già visto? Si chiese Percy, guardandolo negli occhi, che erano scuri, proprio come quelli del resto della famiglia di Audrey. 

- E dov’è che avresti conosciuto Audrey, Percy Weasley? - Gli chiese Elijah, gelido. 

- Lavoro nel suo stesso ristorante. - Rispose automaticamente lui. - Siamo colleghi. - 

- Dunque Percy Weasley lavora in un ristorante italiano. - Snocciolò Elijah, parlando come se non ci credesse affatto. 

Percy si sentì percorrere da un brivido: il suo stato di allerta, in quei mesi decisamente molto più alto del solito, lo stava mettendo in guardia. C’era qualcosa nello zio di Audrey che gli trasmetteva uno strano senso di angoscia.

Si erano già visti, ne era certo, ma dove?

- Lavoriamo insieme da qualche mese, per questo non ti ho mai scritto di lui. - Disse Audrey, andandogli in soccorso per l’ennesima volta da quando aveva messo piede in quella casa. 

Elijah annuì e poi sorrise in modo meccanico alla giovane. - Ma certo. - Disse. - Avrai tantissime cose da raccontarmi allora. - 

- Probabile. - Sorrise Audrey. - Andiamo dentro? Nonna ha cucinato per te delle polpette di lenticchie. - 

Lo zio mugugnò con assenso, poi scoccò uno sguardo verso Percy. - Tu non vieni? - Gli chiese. 

Percy annuì e poi si limitò a seguirli dentro con una strana sensazione in corpo. 

Dove ti ho già visto? Perché sei così familiare? 

 

- Eccolo qui! - Esclamò Harriette, non appena li vide varcare nuovamente la soglia della sala da pranzo, andando incontro al più giovane dei suoi tre figli per abbracciarlo. 

Elijah sorrise e ricambiò quella stretta. Era bello essere a casa. - Ciao, mamma. Buon Natale. - Le disse, quando si divisero, prima di guardarsi attorno. 

Anche Tamica e Jude si erano appena alzati da tavola per salutarlo, mentre Michael, Beverley e Joel si limitarono a farlo dalle loro sedie. 

- Ma questa barba? - Chiese allegramente Tamica, guardandolo con un misto di perplessità e divertimento. - Sembri un sensatetto. - 

- Scommetto che vive ancora in quel van, quindi effettivamente lo è. - Asserì Jude, sorridendo e battendo una mano sulla schiena del fratello. 

- Hey Jude…- Intonò l’altro. - Don't make it bad… take a sad song and make it better… - 

- Eccolo che comincia… - 

- Su, su, sedetevi tutti! - Esclamò Harriette, ristabilendo l’ordine. - Il pranzo non è ancora finito! - 

- Remember to let her into your heart… then you can start to make it better… - Continuò a canticchiare Elijah, sedendosi accanto ad Audrey, sulla sedia poco prima occupata da Percy. - Non ti dispiace se facciamo a cambio vero, Percy Weasley? - 

- Assolutamente, prego. - Rispose il giovane, senza però smettere di assaporare quella strana sensazione di imminente pericolo. 

Finì in questo modo vicino a nonna Constance, che riprese a fissarlo con insistenza con quei suoi occhietti neri e svampiti, a molte sedie di distanza da Audrey. 

Si ritrovò a guardarla mentre rideva a qualcosa che le stava dicendo lo zio, mentre nella sua testa rimbombava ancora una sola domanda: perché aveva tutta l’impressione di conoscere quel ragazzo?


Che fatica! Questi ultimi capitoli mi stanno davvero uccidendo, giuro, ma nonostante ciò non ho molto da dire a riguardo (oggi le mie inutili note saranno più corte del solito). Piuttosto parlate voi: adoro vedere il vostro punto di vista! Che ne pensate? 

A presto, 

J. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8. Il Serpeverde nascosto ***


Note: 

(1) Uagadou: Scuola di magia più grande d’Africa.

(2) I maghi Africani (ma anche i nativi americani) non usano le bacchette in quanto è considerata un’invenzione europea.


Capitolo 8

 

Il pranzo terminò poco dopo tra discorsi sul calcio, sulla musica e con il tanto atteso scarto dei regali. La famiglia di Audrey si trasferì quasi per intero dall’altra parte della sala da pranzo, dove c’era il divano, una poltrona e il pianoforte, il tutto sormontato dall’albero di Natale addobbato.

Elija, seduto sul vecchio sofà rosso della sala da pranzo, picchiettava nervosamente con le dita sul bracciolo di stoffa. Al suo fianco, il marito di sua sorella stava sonnecchiando alla grande mentre Jude stava soddisfando le richieste decisamente molto pop di Beverley e Joel al pianoforte. Harriette, Constance e Tamica erano sparite in cucina. Audrey invece stava tentando di far suonare la kalimba di legno che lo zio le aveva regalato per il compleanno, seduta sul pesante tappeto che ricopriva il pavimento, assieme a Percy. 

Elijah ci aveva messo dieci secondi a riconoscerlo, dopo che lui si era presentato con quei proverbiali modi pomposi così diversi da quelli dei suoi fratelli. 

Così diversi da quelli di Charlie…

Charlie.

Quanto tempo era passato dall’ultima volta che l’aveva visto? Quanto dall’ultima volta che aveva pensato a lui? 

Troppo, troppo tempo, così tanto che l’immagine di quel ragazzo con la divisa di Grifondoro, fulvo e pieno di lentiggini aveva perso quasi tutti i contorni. Eppure la sensazione legata a quel ricordo sbiadito era sempre la stessa: una morsa invisibile attanagliata al suo stomaco, la punta rovente del rimpianto conficcata nel suo cuore e poi vuoto nel suo petto. 

Si erano incontrati per la prima volta sull'Espresso per Hogwarts, Elijah un ragazzino spaventato dall’idea di iniziare quella nuova vita lontano dalla famiglia, Charlie un esuberante undicenne che invece non vedeva l’ora di arrivare a Hogwarts. Si erano osservati per molto tempo, ai lati opposti della scuola, — uno con la divisa da Serpeverde e l’altro con quella da Grifondoro, — ma avevano imparato a conoscersi davvero solo durante le noiosissime ronde, con i loro distintivi da prefetto appuntati sulla toga. 

La prima volta che Charlie l’aveva baciato, di notte e nel bel mezzo di uno dei gelidi corridoi del sotterraneo, Elijah era rimasto senza parole almeno per due ore, per poi cadere in tutti i cliché tipici di un ragazzino strano che si innamora per la prima volta del belloccio campione di quidditch super popolare a scuola. 

Ma non era questo il problema in quel momento, no. Il suo struggente primo amore perso per paura e distanza non doveva distrarlo dal fatto che si trovava a pochi metri dal segretario del Ministro della Magia in persona, a pochi metri dal nemico, da qualcuno che non doveva assolutamente trovarsi in quella casa in quel momento, non accanto alla sua ingenua, inconsapevole e babbana nipote. 

Elijah posò lo sguardo sui due, facendo rimbalzare gli occhi da Audrey a Percy e viceversa, scoprendo che avevano tutto l’atteggiamento di chi passava di sicuro molto tempo insieme. Lei sorrideva quando lui parlava e lui, a sua volta, la stava a sentire con interesse quando lei faceva lo stesso.  

Ma che cosa voleva Weasley da Audrey? Perché era lì? 

Forse era una spia, forse era stato mandato in avanscoperta, forse il Ministero voleva vendicarsi per tutti quegli articoli contro il regime che Elijah aveva scritto sul Cavillo durante quegli ultimi mesi o magari voleva solo tenerlo d’occhio, così da attaccarlo nel momento più opportuno. Dopotutto non era un segreto che il Ministero e i suoi mangiamorte mal sopportassero sempre più apertamente gli oppositori. 

Rookwood l’aveva già tagliato fuori dall’Ufficio Misteri quando si era rifiutato di lavorare a esperimenti immorali comandati probabilmente dal Signore Oscuro, forse il secondo passo era davvero farlo fuori, farlo sparire come era già accaduto a molti suoi colleghi. Per questo era tornato a casa per Natale: voleva accertarsi che la situazione fosse tranquilla, magari gettare qualche incantesimo di protezione attorno all'abitazione e soprattutto salutare sua madre nel caso in cui qualcosa fosse andato storto…

Dopo un sospiro sommesso, Elijah posò lo sguardo su suo fratello: a contrario di lui e Tamica, Jude non aveva mai dato alcun segno di magia — sebbene ne faceva parecchie ogni volta che si sedeva al pianoforte, — e proprio questa era stata la ragione principale che aveva spinto tutti loro a lasciare il Ghana. 

Se infatti in Gran Bretagna in quegli anni erano i nati babbani ad essere oppressi, in Ghana erano i magonò come Jude ad essere perseguitati, soprattutto quando venivano da una famiglia purosangue e molto importante com’era la loro una volta, prima che il secondogenito venisse al mondo come un babbano qualunque, mettendo il loro potere in dubbio. 

C’era stato un tempo in cui il nome della loro famiglia aveva incusso rispetto, ma anche e soprattutto timore. C’era stato un tempo in cui erano loro ai vertici, serviti da elfi domestici e protagonisti della scena politica. 

Probabilmente se fossero rimasti lì nessuno avrebbe trattato Elijah con sufficienza, come invece era accaduto per anni nella Sala Comune di Serpeverde, dove quelli con cognomi famosi avevano sempre tentato di prevaricare sugli altri. Probabilmente lì sarebbe stato alla stregua di un Malfoy e questo, immaginare quella vita che non aveva potuto avere, gli procurava ancora un terribile peso fatto di rabbia e di tristezza. 

Quando, a undici anni, Elijah si era svegliato con un sasso stretto in mano, (portato in sogno dal preside della scuola di Uagadou1 ), e con una lettera recapitata da un gufo da parte di Hogwarts, (in quanto cittadino britannico), era stata una vera e propria festa in casa sua. Perfino Tamica, che si era tagliata fuori dal mondo dei maghi da quando aveva messo piede a Londra, — troppo testarda o forse insicura per mettersi ad usare una bacchetta come i maghi inglesi(2), — era stata contenta per lui. 

Poi Tamica aveva sposato un babbano a cui aveva nascosto la maggior parte della storia della sua vita e della sua famiglia, aveva dato alla luce Beverley e Joel, entrambi senza un briciolo di magia anch’essi, e tutti loro erano finiti per diventare ufficialmente una famiglia babbana. Una famiglia babbana, una delle tante famiglie di immigrati costrette a sopportare il razzismo sistematico di un’Inghilterra dell’inizio degli anni ‘70. 

Elijah non poteva di certo alzarsi e accusare quel Weasley di essere una spia infame del Ministero senza distruggere le fondamenta di bugie su cui era appoggiato il matrimonio di sua sorella. 

Elijah sospirò nuovamente e dopo aver gettato un’altra occhiata verso il fratello si alzò in piedi. Raggiunse il pianoforte e posò le mani sulle spalle di Jude, che smise subito di suonare. 

- Mi accompagni fuori? - Gli domandò.

Jude fece quel tipico sguardo da bacchettone perfettino che era solito usare solo con lui. - Lo sai che nostra madre non vuole che fumi mentre lei è nei paraggi. - Disse.

- Tu accompagnami. - 

Jude sbuffò e si alzò, lasciando il posto a Beverley che subito prese a strimpellare senza pretese. Seguì il fratello attraverso la casa fino al portico e una volta lì incrociò le braccia, certo che Elijah dovesse parlargli di qualcosa che probabilmente non gli sarebbe piaciuta. In fin dei conti non approvava nemmeno una delle scelte di vita del fratello. 

- Be’, allora? - Lo spronò impaziente. - Cosa hai combinato stavolta? - 

Elijah gli fece cenno di stare calmo. - Per te ho sempre combinato qualcosa. - Borbottò, tirando fuori da una delle tasche del suo cappotto viola una bustina, delle cartine e dei filtri. 

- Non fai sul serio. - Lo ammonì Jude, guardandolo male. - Vuoi davvero farti una canna al pranzo di Natale? - 

Lui ignorò totalmente ogni obiezione da parte del fratello maggiore e un minuto dopo tirò fuori la bacchetta e accese lo spinello con nonchalance. - Non è mica semplice erba babbana, questa. Mi aiuta a pensare e fidati che ne abbiamo bisogno. - Disse, buttando fuori il fumo dal naso, come in una parodia di un dragone. - Te la faccio breve: l’amico di Audrey… Percy. Ecco, lui non fa parte dei buoni. - 

Jude aggrottò la fronte. Cosa? 

- Cosa? - 

- Lavora per il Ministero della Magia e non è un dipendente qualunque, lavora per il Ministro in persona. - Elaborò il ragazzo. - C’è qualcosa sotto. - 

Jude rimase immboline e privo di qualsiasi espressione per un po’, fissando un punto non meglio identificato davanti a sé. - Perché lo pensi? - Domandò brusco. 

- Perché potrei… aver fatto arrabbiare qualcuno a furia di scagliarmi apertamente contro il regime. Il direttore del giornale per cui scrivevo… sua figlia è stata rapita qualche settimana fa. - Spiegò Elijah. - Credo che l’amico di Audrey sia una spia, forse mi stanno tenendo d’occhio. - 

- Mi stai dicendo che per colpa tua, in questo momento, mia figlia è seduta accanto a uno di quei… mangiamorte? - 

- Non so se è proprio un mangiamorte, ma di sicuro è invischiato in cose losche, sì. - Disse Elijah, con quella solita e irritante tranquillità con cui era solito agire e parlare.  

Jude si passò una mano sul volto e sospirò, senza dire niente. 

Lo sapeva; sapeva che c’era qualcosa di strano in quel ragazzo. 

- Comunque non posso fare niente se ci sono Michael, Bev e Joel. Tamica mi ammazza se faccio trapelare qualcosa, lo sai, le rovinerei la vita. - Proseguì allora Elijah, e poi si portò distrattamente la cicca alla bocca, aspirando. 

- Quale sarebbe la tua intenzione allora? - Chiese Jude.

Elijah scrollò le spalle. - Non lo so, ma forse è giunto il tempo che porti nostra madre, la nonna e anche Audrey con te in America. Non sono più al sicuro qui e  da solo non posso proteggerle. - 

- No che non puoi, se te ne vai all’avventura con il tuo furgoncino e se fai di tutto per farti ammazzare! - Sbottò Jude. - Sei un incosciente! Devi tenere un basso profilo in questi casi, dovresti saperlo! - 

- Quindi cosa dovrei fare? Abbassare la testa e obbedire mentre tante persone innocenti vengono deportate o uccise in nome di un presunto fanatico della purezza di sangue? - 

- Sì! - Esclamò Jude. 

- Tu più di tutti dovresti capirmi, dopo quello che abbiamo passato. - Asserì gelidamente il giovane. - Se qualcuno avesse mosso un dito per quelli come te allora probabilmente adesso staremmo festeggiando il Natale in spiaggia a Kokrobite, non sotto la neve in quest’isola di merda, umida e grigia, e nostro padre sarebbe ancora vivo. - 

Jude sussultò, ma decise deliberatamente di ignorare le ultime cinque parole pronunciate dal fratello. Nessuno in casa aveva mai parlato apertamente di loro padre come era solito fare Elijah, e questo spesso lo faceva sentire a disagio. 

- Certo, perché è il clima il problema. Come puoi avere nostalgia di un posto in cui non hai mai messo piede? - 

- Hai sentito cosa ho detto? Nostro padre sarebbe ancora vivo. - Ripeté Elijah. - Tu pensi che sia tutto inutile, ma io non abbasserò la testa, Jude, né adesso né mai. Quindi tieniti questa tua ramanzina per più tardi, eh, che adesso dobbiamo occuparci del ragazzo. - 

- Occuparci? - Rimarcò Jude, con tesa cautela. 

L’altro sogghignò e scosse la testa. Poi si prese tutto il tempo per aspirare un’altra bella boccata di fumo prima di rispondere: - Non voglio ucciderlo, non preoccuparti. - Lo tranquillizzò. - Conoscevo bene uno dei suoi fratelli, una volta, non posso farlo. - 

- Dunque come vuoi occupartene? - 

- Ho parecchie idee, a dir la verità. - Disse Elijah. - Intanto lo interroghiamo, così da capire perché è qui e che cosa vuole… dopo potrei consegnarlo a ciò che rimane della resistenza contro Tu-Sai-Chi. Si tratta del segretario del Ministro della Magia, saprà parecchie cose interessanti che potrebbero essere utili. - 

- E come lo spieghiamo ad Audrey? - 

- Questo è l’ultimo dei nostri problemi. - Disse Elijah, alzando gli occhi al cielo. - Aspetteremo che Tamica se ne vada portandosi dietro anche Mike, Bev e Joel, poi io mi occuperò di Weasley, magari con l’aiuto di mamma. Ci sarà tempo per spiegare tutto ad Audrey o per modificare la sua memoria come abbiamo fatto quella volta in cui mi ha visto trasfigurare il suo gatto in un uccellino… ricordi? Povero Duke… è volato via e non è più tornato… - Rise. - Oppure quella volta in cui è andata a curiosare in soffitta e ha visto il ghoul che la abita… che tempi.  - Aggiunse, ridendo ancora. 

Jude rimase serio, fece una faccia alterata e scosse la testa. - Non punterai ancora la bacchetta contro di lei. - Asserì, perentorio. - L’ultima volta ho davvero temuto che tu l’avessi compromessa per sempre. - 

- I mollicci sono traumatizzanti, per questo è stato più complicato del previsto farglielo dimenticare. Mi chiedo ancora perché abbia paura di quell’uomo, sai? Non era quel tale con cui Erin è stata per una vita dopo di te? Jeff qualcosa… - 

Jude gli gettò un’occhiata a metà tra il disagio e il fastidio e poi cambiò discorso: - Non stiamo parlando di questo. - Tagliò corto. - Audrey dovrà sapere tutto di questa storia. Niente incantesimi di memoria. - 

- Ottimo. - Annuì Elijah. - Sì. Sono sempre stato dell’idea che la verità sia la scelta migliore in ogni caso: capire da dove viene davvero le farà bene, vedrai. In fin dei conti soffre di crisi d’identità da quando è nata, o no? - 

- Sarà solo più confusa. - Sospirò Jude. - Come pensi che possa reagire una babbana nello scoprire di discendere da una famiglia come la nostra? - 

Elijah scrollò le spalle, spense la cicca a terra e poi la raccolse. - Parliamo di Audrey. - Disse in tutta tranquillità. - Ha sempre avuto la sensazione di avere qualcosa di diverso dagli altri. - 

Seguì un lungo attimo di silenzio nel quale Jude si mise a osservare il giardino ormai innevato e quei fiocchi candidi che continuavano a cadere a terra senza sosta. 

Era vero, Audrey era sempre stata consapevole che ci fosse qualcosa in più nelle sue origini, qualcosa di non detto, ma aveva sempre rispettato il fatto che ci fossero grandi segreti in famiglia. Era sempre stata sensibile, simile a nonna Constance, per certi versi, piena di fantasia, quasi come se tutti gli incantesimi che servivano a celare il mondo dei maghi agli occhi dei babbani non funzionassero con lei. 

- Credo che lui le piaccia. Quel ragazzo… Percy. - Mormorò Jude. - Poco fa nonna Constance ha predetto il loro matrimonio. - 

Elijah ridacchiò piano. - Nonna C non è più quella di un tempo. - Disse. - E poi lo sai: niente è davvero già scritto. Il destino non esiste. - 

Di nuovo Jude rimase in silenzio per qualche secondo, come rapito da un pensiero profondo. Poi sospirò: - Se la sta usando solo per arrivare a te giuro che… - 

- Sta’ buono. - Lo fermò Elijah, facendo un sorrisetto vagamente beffardo. - Risolveremo la cosa. Adesso vado a scambiare due chiacchiere con nostra madre, sperando che non dia di matto. - 

- Sapete chi darà di matto a breve? - La voce di Tamica, appena apparsa sulla soglia alle loro spalle, li fece sobbalzare entrambi. - Quel povero ragazzo, ecco chi. Audrey gli sta dando lezioni di solfeggio, e quello a malapena conosce il nome delle note… deve avere proprio una bella cotta per lei per starla a sentire senza fare un fiato. - 

Elijah scrollò le spalle, il volto rilassato e gli occhi vagamente arrossati, mentre Jude scoccò alla sorella maggiore uno sguardo torvo. 

- Viscido bastardo… - Borbottò tra sé e sé. 

Tamica aggrottò la fronte. Non aveva mai sentito Jude dire una parolaccia, mai, in tutta la sua vita. Era sempre stato il più calmo, il più educato, il migliore nello studio e nella musica dei tre; aveva sopperito alla sua mancanza di poteri magici eccellendo in ogni ambito. 

- Avete fumato dell’erba, per caso? - Indagò lei, fissando Elijah dopo aver annusato l’aria.  

- Non io, ovviamente. - Jude alzò le mani in segno di resa. 

- Oggi non sei una guardia, d’accordo? Sei solo mia sorella. - Decise Elijah, usando un tono lamentoso. 

- Si dice poliziotta. - Lo corresse Tamica, alzando gli occhi al cielo. 

- Shhh… guardia. È più poetico. - Fece il più piccolo. Poi so tolse gli occhiali, diede una pulita alle lenti e quando li sistemò nuovamente sul naso chiese: - Quando ve ne andate, tu, Mike e i ragazzi? - 

Tamica lo guardò male e incrociò le braccia sul petto. - Vuoi cacciarci, per caso? Mike non ti è mai piaciuto, lo so. - 

- Ti sbagli. È un golden retriever umano, però lo adoro. - Disse Elijah, facendo un sorrisetto sbilenco. - Come te la cavi con gli interrogatori, signora guardia? - 

Tamica, perplessa da quella domanda strana e senza alcun contesto, guardò i due senza capire. - Me la cavo bene, naturalmente. - Disse. - Perché? Chi devi mettere sotto torchio? - 

- Percy. - 

- L’amico di Audrey? - Si accertò Tamica, posando lo sguardo sul più grande dei suoi due fratelli. - Avanti, Jude, solo perché ci prova con tua figlia? In modo del tutto goffo, poi… - 

- Davvero non hai notato niente di strano in lui? - Domandò l’uomo. - Non sa chi fosse Diana Spencer, probabilmente la donna più famosa del momento, e prima, quando ha visto la televisione accesa in cucina, ha sgranato gli occhi come se si trovasse dinanzi ad una cosa di un altro mondo. Per non parlare della sua faccia quando ha bevuto la Coca Cola. - 

- Forse era una mezza specie di amish. Scommetto che non possono berla. -

- O forse è un mago… - Disse Elijah. 

Tamica sussultò e si voltò verso la porta alle sue spalle. - Non dire quella parola! - Gli parlò sopra. - Anche se fosse… cosa importa? - 

- Non è dalla parte giusta, diciamo così. Lavora per il Ministro della Magia, e tu sai cosa può voler dire questo. - 

Al contrario di Jude, Tamica non fece una piega ma, anzi, guardò il fratello come di solito si guarda un bambinetto che inventa storie di fantasia. - Non avrà neanche vent’anni, suvvia. - Disse. - Al massimo sarà l’addetto al tè, poverino. - 

- Non è l’addetto al tè. - Ribadì Elijah. 

- E tu che ne sai? - 

- Perché è il più giovane assistente del Ministro della storia di tutto il Ministero. Certe voci corrono. - Sbraitò Elijah, scocciato. 

Lei alzò le spalle. - Be’, dunque? - 

- Dunque uno come lui non dovrebbe essere qui. - Rispose Jude. - Elijah teme di essere sotto sorveglianza per via di certi articoli in cui a suo parere si è esposto troppo. Forse non è un caso che quello lì sia amico di Audrey. - 

La donna sospirò. - Quindi vorreste… interrogarlo come due auror? - Domandò scettica. 

- Jude più come una guardia babbana presumo, ma sì. - Dichiarò mollemente Elijah, beccandosi un’occhiataccia da parte del fratello. 

Tamica sospirò di nuovo, ma stavolta scosse anche la testa. - Ho capito: mando Mike e i ragazzi a casa. - Disse. - Vi do una mano. - 

- Sei sicura? Non fai un incantesimo da quanto? Dagli anni ‘70? - Rise Elijah. 

- Il bello di non dover usare una bacchetta è che posso fare tutti gli incantesimi che voglio senza essere notata. - Disse Tamica, alzando gli occhi al cielo. - Non ho mica frequentato quella scuola per rammolliti come te, io. -

Elijah scrollò le spalle e sogghignò. Poi diede una goffa pacca sulla spalla della sorella e si avvicinò alla porta. - Vado a parlare con nostra madre. - Disse in tutta tranquillità. - Tu porta la tua famigliola perfetta a casa, Tamica. Non preoccuparti. Sono affari da mago, al massimo da magonò, non da aspiranti babbani. - 

Lei fece una faccia infastidita ma alla fine annuì. Era inutile, più tentava di stare lontana dalla magia più essa sembrava seguirla. 

Quando il fratello minore scomparve, Tamica si voltò verso Jude, che in quel momento aveva lo sguardo perso verso il giardino. 

- Audrey è una calamita per i guai. - Lo sentì borbottare. 

- Tutti i figli lo sono. - Replicò Tamica. - Ma devo ammettere che la tua ha un certo talento. - 

 

.

 

- Bene, adesso che sai in grande linee come si legge un pentagramma… direi che sei pronto per provare a suonare il brano classico più famoso e inflazionato della storia della musica. - Dichiarò Audrey, sistemando per bene sul leggio del pianoforte un foglio di pentagramma tutto stropicciato. 

- Per Elisa? - Lesse Percy, osservando quel mare di pallini illeggibili segnati su quelle righe, che nella testa di Audrey sembravano avere un senso ma che nella sua invece non avevano nessun significato. 

Il giovane aveva passato gli ultimi tre quarti d’ora ad ascoltare Audrey mentre parlava di come si leggono le note (“fa, la, do, mi negli spazi; mi, sol, si, re, fa nelle righe”) e a capire dove esse si collocassero sulla tastiera (“il do è sempre alla sinistra dei due tasti neri, si riconosce facilmente, è molto intuitivo”), ma doveva ammettere a sé stesso che riconoscerle su quel foglio era più complesso di una traduzione di rune antiche. 

Poi Audrey gli aveva fatto sentire qualcosa e lui era rimasto senza parole per il modo in cui suonare sembrava facile quando era lei a farlo. Era rimasto a guardare le sue mani, così piccole eppure così agili, destreggiarsi tra il bianco e nero di quei tasti con insolita grazia, o con delicatezza o con forza se ce n’era bisogno e si era sentito… non aveva idea nemmeno lui di come si era sentito, ma aveva sentito qualcosa di forte e per un secondo, — per un lasso di tempo della brevità di un battito di ciglia, — aveva avuto l’impressione di essere nel posto giusto: lì, accanto a quella babbana strana che suonava per lui. 

- Non ti far ingannare dal titolo: in realtà Beethoven l’ha scritta per una certa Teresa, una sua allieva con cui ha avuto una tresca. - Spiegò Audrey, usando il solito tono che assumeva ogni qual volta in cui si metteva a raccontare qualcosa che la appassionava. - Secondo me è un po’ il racconto della loro conoscenza, ma tutti si fermano solo alla prima parte, quella più conosciuta. Quindi è diventata solo una canzoncina facile da far studiare ai bambini che si approcciano per la prima volta al pianoforte. -

- Come può essere un racconto senza parole? - 

- Si da il caso che la musica sia un linguaggio. - 

- Un linguaggio che lascia largo spazio all’interpretazione, però. - 

Audrey alzò gli occhi al cielo. - Ma è questo il bello. - Ribatté. - Ci vuole un po’ di fantasia. Adesso pensa alle prime battute: sono così leggere, - disse, accennandole al pianoforte. -  sono quasi timorose, non senti? E sai perché? Perché lui era antipatico, vecchio e a stento si lavava, mentre lei era una bella nobile di diciotto anni davanti al più grande compositore dell’epoca. Nella seconda parte invece è evidente che lui stia cercando di mostrarsi migliore di ciò che è, come all'inizio di ogni relazione romantica, quando l’uomo di turno finge di non essere un pervertito maiale che vuole solo scopare. - 

- Io non sono così. - Obiettò Percy, con indignazione. 

Lei lo liquidò con un gesto della mano. - Sì sì, buon per te e per la tua ragazza Barbie. - Disse, prima di rimettersi a suonare. - Nella terza parte della composizione succede qualcosa… è tutta in minore, senti? Avevano litigato, proprio come lui scrive nella lettera che allega allo spartito. Ora dimmi pure che non è un racconto, forza. - 

Percy rimase a guardarla per pochi secondi e poi le sue labbra si piegarono verso l’alto, quasi di riflesso, ma solo per un istante. 

Lei ricambiò quello sguardo e aggrottò la fronte, vagamente sorpresa. Cos’era stato? Era forse una specie di sorriso, quello? 

Questa sì che è una novità

- Come sai tutte queste cose? - Le domandò lui. 

Audrey scrollò le spalle, tornando poi a guardare lo spartito. - Una volta bazzicavo nella musica classica, per così dire. Suonavo il clarinetto nella banda della scuola, cosa che ha contribuito a rendermi tra le più sfigate dell’intero liceo. - 

- Cos’ha di male il clarinetto? - 

- Il problema è la banda, non il clarinetto. - Spiegò Audrey, facendo un piccolo sorriso che tradì imbarazzo. - C’è molto di peggio… ad esempio Anne suonava il corno francese, poverina. Ma io portavo l’apparecchio, facevo gare di ortografia e andavo molto bene a scuola e me ne vantavo. - 

- Perché non avresti dovuto farlo, scusa? Se la gente è mediocre non è un tuo problema. - 

- Tu passeresti mai il tempo con qualcuno che ti fa sentire mediocre o stupido? - 

Percy divenne pensieroso. In una semplice frase Audrey gli aveva spiegato il motivo per il quale a scuola non aveva nemmeno mai sfiorato la popolarità dei fratelli. 

- Quindi hai smesso di suonare il clarinetto solo perché non volevi sembrare migliore degli altri? - Le domandò, tornando al discorso di poco prima. 

Lei scosse la testa. - Ho detto addio alla musica classica quando ho capito che è un genere musicale per vecchi bianchi, ricchi e annoiati che vanno a teatro a sentire Vivaldi, o a vedere l’Opera, solo per cogliere l’occasione di indossare quel bel vestito di manifattura italiana che hanno nell’armadio da secoli. - Disse con leggerezza. - E poi, quando avevo quindici o sedici anni, Elijah mi ha portata a sentire una cantante in un jazz club e lì ho avuto una sorta di epifania. Volevo essere come lei. - 

Al nome dello zio di Audrey, Percy si guardò attorno, notando che Elijah sembrava essersi volatilizzato, proprio come il fratello. Da quando poi anche zia Tamica e zio Michael se ne erano andati, portandosi naturalmente dietro anche Beverley e Joel, erano rimasti soltanto loro due, da soli. 

- Tuo zio… - Iniziò Percy, con forzata nonchalance, tornando con lo sguardo sul profilo di Audrey. - Sembra un tipo molto particolare. Che lavoro fa? - 

- Nessuno ne ha idea. - Rispose lei, facendo un piccolo sorriso divertito. - Delle volte vorrei essere un po’ più come lui, comprare un van e fare solo scelte poco convenzionali, invece di tentare sempre di essere perfetta. - 

In altre circostanze, Percy si sarebbe messo a dibattere su questo, difendendo le scelte più tradizionali a spada tratta pur cercando di capire il punto di vista di Audrey, così da capirla meglio. In quel momento, però, c’era una questione molto più urgente da affrontare: capire se la famiglia di lei fosse o meno legata in qualche modo con il mondo dei maghi. 

Forse Audrey era una magonò e glielo avevano nascosto per non farla soffrire? Forse Percy aveva incontrato Elijah ai tempi della scuola e per questo gli sembrava così familiare? Magari anche lui lavorava al Ministero e sapeva esattamente davanti a chi si trovava… questo sì che rendeva le cose pericolose. 

Come poteva spiegare la sua posizione senza rischiare di sembrare davvero invischiato negli affari loschi del Ministero? Avrebbero mai potuto credere ad Audrey e alla storia di come si erano conosciuti?

Ma c’era di peggio, molto di peggio. Cosa sarebbe potuto accadere se invece l’intera famiglia di Audrey fosse in verità e in qualche modo dalla parte del Ministero? 

- Il vostro gatto, invece? - Domandò Percy, deciso ad affrontare il discorso, sì, ma con molta calma. - Dove l'avete preso? - 

Audrey aggrottò la fronte e si voltò a guardarlo. - Da una vecchia signora in Surrey. Una tipa strana, la sua casa puzzava di cavolo. Doveva essere un regalo per me, dopo che il mio vecchio gatto, Duke, è sparito, ma mia madre non voleva più animali in casa, quindi… perché me lo chiedi? - Chiese a sua volta, perplessa. 

Percy alzò le spalle e mosse la testa in modo sconclusionato. - È un animale dall’aspetto particolare. - Buttò lì con ostentata leggerezza. - Con quella coda piumata… - 

- È una gatta di una razza molto rara. - Spiegò lei, convinta. 

- Non lo metto assolutamente in dubbio. - Annuì Percy.

Audrey continuò a rivolgergli uno sguardo pieno di dubbio. 

Percy sembrava strano, più strano del solito. Forse non era stata una brillante idea invitarlo al pranzo di Natale, forse lo aveva messo a disagio…

- Mi dispiace se ti ho messo in imbarazzo facendoti venire qui a pranzo. - Dichiarò Audrey, e le parole le uscirono di bocca come un fiume in piena. - Pensavo di fare un gesto gentile… insomma da solo a Natale, sul serio? Speravo che così mi sarei sdebitata per ciò che hai fatto per Lucy, un modo per dirti grazie, però non… - 

Il ragazzo sembrò perplesso. - Credimi, non avevi nulla di cui sdebitarti. - Disse, interrompendola. 

Piuttosto sono io che devo ringraziare Lucy per essersi fatta salvare, così da fornirmi almeno l'illusione di una redenzione. 

- E sei stata molto gentile, lo sei stata davvero. Di cosa ti dispiaci? - Proseguì.

Lei si strinse nelle spalle. - Sembri così a disagio. - Spiegò, adocchiando. - Come se ti sentissi fuori luogo. Sappi che non è così, non sei fuori luogo. Tu piaci a mia nonna. - Aggiunse, facendo tornare subito lo sguardo puntato sullo spartito di Per Elisa.

Adesso sembrava lei quella chiaramente a disagio e la verità era che, in effetti, un po’ lo era davvero. Si sentiva un po’ strana, c’era qualcosa attorno a loro che la faceva sentire come un elefante in una cristalleria. 

- Sono contento di piacerle, allora. - Disse Percy, un po’ incerto, il tono a metà tra un'affermazione e una domanda. 

- Invece credo che a mio padre tu non piaccia per niente. - Proseguì Audrey, pentendosene quasi all’istante. 

- Capirà che sono un ottimo partito, prima o poi. -

Lei aggrottò la fronte, ma non fece in tempo a ribattere che tra di loro si fece spazio di prepotenza zio Elijah, che spinse letteralmente Audrey giù dallo sgabello del pianoforte. 

- Hey! - Esclamò la giovane, guardandolo male. 

- Hanno bisogno di te in cucina, Peony. - La avvertì lo zio iniziando a improvvisare con noncuranza una melodia dalle sonorità allegre al pianoforte. - Vai a fare le tue cose da donna, su. - 

Audrey alzò gli occhi al cielo, sbuffò e, dopo aver incrociato le braccia sul petto obbedì, uscendo dalla sala da pranzo senza preoccuparsi di lasciare Percy tra le grinfie dello zio. 

Fosse mai che nonna Harriette facesse fare qualche lavoro di casa ai suoi due figli maschi… pensò tra sé e sé. 

- Io vado con lei. - Disse Percy, facendo per alzarsi in piedi. 

L’ultima cosa che voleva era restare da solo in una stanza con quello lì. 

- Resta, Weasley, resta. - Lo fermò prontamente Elijah. - Facciamo due chiacchiere. - 

Percy si sentì gelare e mosse piano la testa nella direzione dell’altro, che nel frattempo stava continuando a strimpellare con leggerezza. Sembrava così rilassato, aveva un sorrisetto pigro in volto e emanava un odore strano che Percy aveva già sentito uscire dalla stanza di Charlie, quando ancora viveva con loro alla Tana, prima della Romania. 

Quell'atteggiamento, quella faccia distesa e soprattutto già vista… be’, gli metteva proprio i brividi. 

- Chi sei? - Si lasciò sfuggire, maledicendosi all’istante. 

Elijah allargò un po’ quell’inquietante sorriso, smise di suonare e chiuse la tastiera del pianoforte, voltandosi finalmente a guardarlo. - La vera domanda è: che diamine ci fa qui uno come te, Percy Weasley? - Disse con voce melliflua. 

Domanda più difficile di quella non poteva esserci al mondo. 

- Non so cosa credi di sapere, ma io sono solo un amico di Audrey… - Tentò di dire il giovane, scattando in piedi e allontanandosi di un passo. 

Elijah rise sovrastando la sua voce. Scosse la testa con fare divertito, poi anche lui abbandonò lo sgabello del pianoforte. - Dimmi, Weasley, cosa penserebbe il Ministro se scoprisse che il suo assistente leccaculo se ne sta’ a casa di babbani il giorno di Natale? - Chiese, nascondendo il disprezzo dietro alla leggerezza del suo tono. - Stai rischiando e questo mi da motivo di credere che ci sia qualcosa sotto; quindi te lo chiederò di nuovo e per l’ultima volta: che ci fa qui uno come te? - 

Percy si guardò fugacemente intorno, alla ricerca di una via di fuga, mentre nella manica percepiva la presenza rassicurante della sua bacchetta. 

Quando tornò con gli occhi su Elijah notò che era più vicino e minaccioso che mai. 

- Tu sei… sei un mago? - Si accertò Percy, parlando con la gola secca e il cuore a mille, più teso di quanto non fosse mai stato in vita sua.

- E tu sei un maledetto burattino del Ministero, vero? Che cosa vuoi da noi? - 

Percy alzò le mani in segno di resa e fece un passo indietro, tentando di assumere un tono conciliante: - Ascolta… se solo tu mi dessi il tempo per spiegare capiresti che non sono affatto una minaccia… anzi… casomai potrei essere un’opportunità... - 

Elijah quasi scoppiò a ridere, facendolo rabbrividire. 

Quello lì era pazzo, Percy ne era certo. 

Si mosse bruscamente per sfoderare la bacchetta, ma l’altro fu più veloce: Percy evitò di un pelo un fascio di luce rossa che andò a colpire l’albero di Natale provocando un gran gradasso, non fece in tempo a sfoderare la propria bacchetta che un altro fiotto di luce partì dalla bacchetta di Elijah, stavolta prendendolo in pieno. Percy si sentì percorso da una forte scarica elettrica e cadde indietro, contro il camino.

Tutto si fece buio ma, da lontano, qualcuno gridò. 




 

Non posso credere di essere riuscita a terminare questo capitolo che, naturalmente, non è all’altezza delle mie aspettative. Dal prossimo in poi andrà sicuramente meglio, mi sta trasmettendo buone vibrazioni. 

Comunque… non ho molto da dire oltre al fatto che spero che nulla di tutto questo sembri forzato (nella mia testa aveva un senso, ma poi quando metto le cose su carta mi sembra tutto una grossissima idiozia, mi capita sempre.)

Alla prossima,

J.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9. Il punto di non ritorno ***


Capitolo 9


Come già largamente assodato, la vita di Audrey Manning era un susseguirsi incessante di eventi curiosi. 

La prima volta in cui aveva assistito a uno degli incantesimi di Lucy risaliva a quando la più giovane aveva suppergiù tre o quattro anni. Audrey, che a quei tempi faceva la quarta elementare, — famosa tra le sue maestre per essere una ragazzina con una “fervida immaginazione” — non si era spaventata un granché. Aveva osservato quella barbie levitare in aria, girare su se stessa e poi tornare a terra tra le risate di Lucy, poi subito dopo si era alzata ed era corsa da sua madre per avvertirla del fatto straordinario che era accaduto proprio lì, davanti ai suoi occhi. Erin, naturalmente, non le credette e le sbatté la porta della camera da letto in faccia, troppo occupata in faccende che riguardavano lei e Jeff, l’uomo che aveva vissuto con lui per molti anni, in un continuo andare e venire che faceva fare un sospiro di sollievo ad Audrey e Lucy ogni volta che si toglieva di torno. 

Audrey era certa di aver avuto a che fare con parecchi fenomeni paranormali nel corso della sua vita e c’era una cosa che la giovane credeva di poter affermare senza paura su sé stessa: nulla poteva più sorprenderla. Nulla. 

Tuttavia, il giorno di Natale del 1997, quando la giovane arrivò sulla soglia del salotto di casa di sua nonna, correndo spaventata dal baccano, non fu affatto l’entusiasmo dello scoprire che suo zio era un mago proprio come Lucy a farla gridare.

Aveva affidato Percy a suo zio per cinque minuti e adesso si ritrovava con il giovane riverso a terra, senza sensi, ed Elijah con la bacchetta ancora tesa verso di lui. 

Zio Elijah. Un dannato hippie pacifista che abbracciava gli alberi e adorava gli animali. 

Un dannato hippie pacifista che abbracciava gli alberi e adorava gli animali aveva appena fatto fuori l’unica persona all’infuori della famiglia che avesse mai messo piede in quella casa a parte Anne. 

- L’hai ammazzato! - Urlò Audrey, gli occhi lucidi e spalancati che rimbalzavano nervosi tra lo zio e Percy. 

- È solo svenuto… se non ha problemi cardiaci dovrebbe cavarsela. - Rispose Elijah, come se niente fosse. 

- L’hai folgorato? Dovevi solo interrogarlo! - Sbottò Jude, mentre nonna Harriette si avvicinava a Percy, chinandosi verso di lui per accertarsi che fosse vivo. - Sei sempre il solito! Incosciente, impulsivo e idiota! - 

- Stava per sfoderare la bacchetta, che dovevo fare? - Si difese Elijah.

Audrey, più confusa di quanto non fosse mai stata in vita sua, si voltò verso suo padre. Che diamine stava succedendo? 

- Voi… cosa… voi… magia… - Balbettò, cercando di ignorare la fastidiosa sensazione di non avere più la terra sotto i piedi. 

- È meglio se ti siedi, Audrey. Dobbiamo parlare. - Disse Elijah, buttandosi lui stesso sul divano con una fastidiosissima nonchalance. 

- Tu non mi dici quello che devo fare, hai capito?! - Gridò lei, puntandogli il dito contro con furia. - Tu… l’hai ucciso… tu… - 

- Audrey… ti prego. - Tentò Jude, avvicinandosi. 

- No! Stammi lontano! Statemi lontani tutti quanti! - 

- Percy è vivo e vegeto. - Dichiarò nonna Harriette, provocando in Jude e Audrey un sospiro di sollievo e nessuna reazione da parte di Elijah. Guardò sua nipote dritta negli occhi e riconobbe sul suo viso il terrore e la confusione che solo una situazione come quella poteva provocare. - Bambina… lo so che tutto questo ti sembrerà surreale. - Le disse, paziente. - Ti sembrerà assurdo ma devi sapere che al mondo ci sono delle persone con delle abilità particolari. - 

- Lo so. - Fece bruscamente lei.

- Te lo ha spiegato il tuo amico? - 

- No. - 

- Allora come fai a saperlo? - 

- Lucy. - 

- Lucy? - Ripeté Jude, alzando un sopracciglio. 

- Lucy è una strega. - Spiegò Audrey alla svelta. - E voi siete come lei, eh? Tutti voi… tutti voi siete come lei e io non ne sapevo niente. - 

- È un po’ più complicato di così, piccola mia. - Disse Harriette, avvicinandosi di un passo. - Devi lasciarci spiegare tutto, una volta per tutte. -

Adesso tutto aveva un senso. Avevano un senso i segreti, avevano senso i silenzi, avevano senso le domande a cui nessuno aveva mai dato risposte. Chissà quante bugie le aveva raccontato suo padre, chissà se faceva davvero il pianista, chissà se nonna Harriette era stata davvero un’infermiera da giovane, chissà se suo nonno era davvero morto in un incidente prima che Elijah nascesse e chissà… chissà, chissà, chissà…

Chissà perché suo zio aveva tramortito Percy con la complicità di tutti gli altri. 

Chissà da che parte stava la sua famiglia. 

Aveva troppe domande, la sua testa era affollata, ma ce n’era una che le premeva più di tutte: se la sua era una famiglia di maghi allora perché lei non aveva alcun potere? 

Audrey indietreggiò, andando a sbattere contro suo padre. - Papà... - Disse, voltandosi verso di lui. - Perché? Come… - 

- Cosa sai del mondo magico, Audrey? - Fu Elijah a parlare. 

- So tutto. - Rispose subito lei.

- Quindi saprai che c’è una guerra in corso. - Imbeccò lo zio. 

- Sì, lo so. - 

- Bene. Allora la farò breve: il tuo amico qui lavora per il Ministro della Magia, che è un uomo pericoloso, controllato da Tu-Sai-Chi. - Disse Elijah. - Ho paura che dietro la vostra amicizia ci siano ben altre ragioni, che ti stia usando. -

Audrey fece un verso sprezzante e scosse la testa senza proferire parola. 

- Io mi sono schierato apertamente contro il regime e temo di essere sotto controllo. - Proseguì quindi lui. 

La ragazza strinse gli occhi verso di lui, piena di collera. 

Si trovava davanti al suo zio preferito e tutto quello che voleva fare era schiaffeggiarlo. 

- Pensi che io sia stupida per caso? - Inveì urlando, facendo un minaccioso passo verso di lui. - Credi che io sia un’incosciente che si fida del primo che capita? Pensi che io non sia abbastanza interessante da suscitare l’interesse di qualcuno come te o semplicemente per avere degli amici? -

- Non intendevo dire che… - 

- Invece è proprio quello che intendevi dire! - Lo fermò Audrey. - Perché non hai parlato con me prima di agire? - 

- Temevo che non mi avresti creduto! Io non volevo nemmeno metterti in mezzo, ma Jude non vuole che ti cancelli di nuovo la memoria, pensa che… - 

- Di nuovo? - Gridò lei, portandosi una mano al petto. 

- Quando i babbani entrano troppo in contatto con il mondo dei maghi allora la loro memoria viene cancellata, è la prassi. - Intervenne Harriette. 

Ma Audrey parve non averla nemmeno sentita e continuò a inveire con rabbia contro lo zio. - Pensi che io sia ancora una bambina piccola che ha bisogno di essere protetta e accudita? Tutto questo è folle e irrispettoso e… non potrò mai perdonarvi! La mia vita è una sorta di bugia, è questa la verità? Voi siete una bugia! - 

- Vuoi la verità? Ecco la verità! - Esclamò Elijah, alzandosi in piedi. - Ho trasformato per sbaglio il tuo gatto Duke in un uccellino, lui è volato via e tutti noi ti abbiamo fatto credere che fosse morto grazie alla magia. In soffitta c’è un Ghoul, mangia gli insetti, per questo lo teniamo qui, si chiama Richard, e Tamica gli ha insegnato a leggere e scrivere, è un ottimo modo per comunicare con lui. Ah… nonna Constance è una veggente, anche se non fa una profezia decente da almeno vent’anni, quindi tieni d’occhio quel Weasley che magari davvero finirai per sposartelo… ma ora torniamo alle cose serie: perché ti fidi di lui? - 

Audrey, tremante di rabbia, si sentì totalmente sopraffatta da tutta la situazione ma tentò di calmarsi prendendo un respiro profondo. Dopotutto non c’era molto altro che potesse fare.

- Lucy è stata costretta a nascondersi e Percy l’ha aiutata. Ci siamo conosciuti così mesi fa. - Raccontò, a denti stretti. - E tutti voi… tutti voi siete… tu… io giuro che… - 

- No, aspetta, aspetta... - La fermò Elija, sorpreso. - In che modo ha aiutato Lucy? - 

- Con una di quelle passacose… lui e un suo amico aiutano i nati babbani. - Borbottò Audrey, incrociando le braccia sul petto. - Lucy è nascosta a Hogwarts in questo momento e ci teniamo in contatto tramite Percy, con delle lettere; mi sta aiutando, capisci? Se avesse voluto farci del male sarebbe già successo da tempo. - 

Ci fu un attimo di silenzio in cui Harriette e Jude incollarono lo sguardo su Elijah, che a sua volta guardava Audrey con un misto di sorpresa e disagio. - Be’, allora è ancora un Weasley, dopotutto… - Mugugnò, grattandosi il retro della testa. 

- Quindi non solo hai aggredito un innocente, ma anche uno che sta dalla tua stessa parte, bene! - Sbraitò Jude. 

- Voglio vedere come sareste sopravvissuti se mi avesse fatto fuori, genio! - Ribatté Elijah. - Non siamo bene assortiti, o sbaglio? Una ragazzina babbana, un magonò, una signora di mezza età e una vecchia veggente! - 

- Signora di mezza età, pfff! - Sibilò Harriette, mettendosi le mani sui fianchi e scuotendo la testa, lo sguardo fisso sul più giovane dei suoi figli. - Io ero la curatrice migliore dell’accademia, ai miei tempi, pensi che non sappia difendermi? - 

- Quindi, come sospettavo, non eri un’infermiera. - Disse Audrey, facendo una risatina nervosa, prima di rivolgersi a Jude. - Tu sei un vero pianista o in verità suoni l’organo insieme a Celestina Warbeck? - 

- Io non ho nessun potere magico, Audrey. Per questo anche tu ne sei sprovvista. - Rivelò Jude, atono. - Sono un magonò, una persona con uno o più genitori maghi che però non ha ereditato la magia. È per questo che ci siamo trasferiti, poco prima della nascita di Elijah. In Ghana quelli come me sono perseguitati e uccisi, sono considerati dei difetti di fabbrica da eliminare. - 

Qualcosa nel tono di suo padre colpì Audrey come una ventata d’aria gelata. Jude non si poteva di certo considerare un tipo emotivo. Era stoico, distaccato il più delle volte, come se i normali sentimenti dell’animo umano non lo riguardassero. Ma in quel momento, lì in piedi davanti a lei, Audrey ebbe l’impressione di vederlo davvero per la prima volta. 

Era forse sofferenza quella piega sul suo viso solitamente impenetrabile?

- Quindi non sei nato qui. - Gli disse. 

- No. - Rispose Jude. - Di solito i maghi iniziano a dare segni di magia molto presto, ed è una tradizione africana celebrare il primo incantesimo con una festa che ha lo scopo di presentare il bambino alla comunità. Io in sette anni non ho sperimentato alcuna presenza di magia dentro di me e, più il tempo passava, più nascevano voci a riguardo. Siamo dovuti scappare via. - 

- Devi capire che la nostra non era una famiglia come tutte le altre, bambina. - Proseguì Harriette. - Eravamo molto in vista, molto potenti…. ricchi. Famiglie simili alla nostra avrebbero dato tutto per vederci precipitare, e il sospetto di un figlio magonò era un’ottima occasione per distruggerci. - 

- Be’, ci sono riusciti. - Aggiunse Elijah. 

- Tuo fratello è vivo, siamo vivi. -

- Non tutti. - 

Audrey assunse un’espressione perplessa. - Che vuol dire? - Domandò. 

Jude iniziò ad osservare le sue scarpe come se fossero diventate a un tratto molto interessanti, Elijah si mise ad attendere la risposta di sua madre e Harriette sospirò. 

- Il problema di tuo padre venne alla luce prima che potessimo architettare un’uscita di scena credibile; dovevamo viaggiare alla babbana per essere certi di non essere seguiti. Tamica aveva quindici anni, ma aveva ancora la traccia, Jude era piccolo e io ero incinta, quindi non potevo usare passaporte o altre forme di viaggio simili. Quando si presentarono a casa nostra tuo nonno ha fatto da esca, li ha distratti promettendo che ci avrebbe raggiunto il prima possibile, ma non fu così. - Raccontò. - L’abbiamo perso. - 

- È morto, mamma, puoi dirlo. - Ribatté Elijah, poi si buttò di nuovo sul divano.  

Audrey tacque e divenne pensierosa. 

Per una vita si era immaginata i suoi nonni come due normalissimi giovani andati via dal proprio paese d’origine per mettersi alla ricerca di un futuro migliore, si era divertita davanti alle stranezze dello zio Elijah, aveva bollato suo padre come un anaffettivo uomo di pietra e si era sentita intimorita dai segreti custoditi da zia Tamica, nonna Harriette e nonna Constance. 

Adesso si sentiva strana, come se tutto fosse finalmente come sarebbe dovuto sempre essere ma, d'altro canto, la sensazione che aveva da sempre, quella di non avere radici, sembrava essersi amplificata.

Erano sempre le solite le sue domande: da dove vengo? Di cosa faccio parte?

- Allora… che ne facciamo di lui? - Domandò Elijah, facendo un cenno verso Percy, ancora svenuto a terra. 

Audrey si riscosse dai suoi pensieri e si sentì un po’ in colpa per aver quasi dimenticato della presenza del giovane Weasley in quella stanza. 

- Aspettiamo che si riprenda e poi tu gli darai le tue scuse. - Sentenziò Harriette, scoccando un’occhiataccia al figlio. 

Poi schioccò le dita e il corpo di Percy si sollevò da terra con grazia, davanti all’espressione sbigottita di Audrey. 

- Niente bacchetta? - Domandò. 

- La bacchetta… un’invenzione tutta europea. - Rispose la nonna alla svelta. - Sistemerò il tuo amico in camera di tuo zio finché non si riprenderà. Probabilmente si è beccato una bella commozione cerebrale, è meglio tenerlo sotto controllo. - 

- Hey! Perché non nella vecchia stanza di Jude? - Insorse Elijah. 

- Sbaglio o è merito tuo se ho un ragazzo svenuto in salotto? - 

Elijah borbottò in modo sconclusionato e poi sospirò. - Controlla che non abbia ustioni per via della scossa causata dell’expulso. - Disse, con un’insolita aria colpevole. - In caso ho del dittamo nel van. - 

- Tu hai già fatto abbastanza. - Lo fermò Harriette, camminando verso il corridoio con il corpo di Percy a seguito. - Spera solo che una volta ridestato non voglia denunciarti. Perché in quel caso non potrò proprio fare niente per te. - Aggiunse, e poi sparì su per le scale. 

Seguì un lungo attimo di silenzio in cui Audrey rimase ferma a fissare con lo sguardo vuoto il punto in cui, un attimo prima, giaceva il corpo inerme di Percy. Poi Jude fece un passo verso di lei, attirando la sua attenzione. 

- Ho tantissime domande. - Affermò la figlia, fissandolo di sottecchi. 

- Io e tuo zio siamo qui per rispondere. - 

Audrey annuì e si prese del tempo per capire da dove iniziare. - Mamma ne sapeva qualcosa, di tutto questo? - Domandò. 

Jude scosse la testa. 

- Bev e Joel? Loro hanno dei poteri come zia Tamica? - 

- No, e non sanno niente. Noi siamo una famiglia babbana, sulla carta. - 

- Già. Infatti il tuo ragazzo era al mio processo, chissà se ne ha memoria. - Fece Elija, torvo. - Probabilmente per lui sono uno dei tanti… mi sono dovuto fare in quattro per recuperare il nostro albero genealogico, pur di non finire ad Azkaban. - 

Audrey lo guardò male. Era ancora troppo arrabbiata con lui per potergli rivolgere la parola con calma e senza urlargli contro. - Quindi è così che l’hai conosciuto? Al tuo processo? - Domandò irritata, tentando di darsi un contegno. 

- No, no… andavamo a scuola insieme, seppur in Case e anni diversi. - Rispose Elijah, e i suoi occhi dietro le lenti rotonde degli occhiali iniziarono a vagare per tutta la stanza. - Io ero in classe con suo fratello Charlie. - 

- Charlie? - Fece Jude, guardando il fratello con aria sorpresa. - Ma Charlie Charlie? - 

- Charlie, sì. - 

- Non si assomigliano per niente, a parte i capelli. - Commentò Jude. 

- Be’, direi per fortuna. - 

- Possiamo tornare a noi, per favore? - Sbraitò Audrey, indispettita. - Adesso non è rilevante questo Charlie! - 

Jude scrollò le palle, dando l’onere della risposta a Elijah. Non poteva di certo obbligarlo a rivelare il suo più grande segreto, anche se Jude, in tutta sincerità, non vedeva nulla da dover tenere nascosto nell’omosessualità del fratello minore. 

- Non è rivelate, infatti. - Disse Elijah. 

- Ecco, appunto. - Riprese Audrey, guardando suo padre. - Nonna ha detto che eravamo ricchi. Io ero convinta che voi viveste in delle casette di paglia e che foste in continua lotta con la siccità, la peste e… che ne so, le tribù nemiche… prima di arrivare qui. - 

Jude ed Elijah si scambiarono uno sguardo perplesso. 

- Vivevamo in un piccolo villaggio di soli maghi che sorge su una sponda del fiume Volta, ma non in una casa di paglia. - Spiegò Jude. 

- Infatti: era una casa di fango con il tetto di paglia. - Specificò Elijah. 

Audrey aggrottò la fronte. - Ma è… così triste. - Disse.

Di nuovo i due assunsero un’espressione perplessa. - In realtà è perfettamente normale in un contesto come quello. - Ribatté Jude. - Non c’erano tribù nemiche contro cui combattere e di certo non c’era la peste… come ti viene in mente? - 

- Già, casomai c’è la febbre gialla e il vaiolo di drago, ma decisamente non la peste. Mica parliamo del Madagascar. - 

- Non so perché tu abbia questa idea distorta del tuo paese, Audrey: ci sono villaggi piccoli e rurali, è vero, ma anche grandi città con palazzi, monumenti e università. - 

- A parte che non è il mio paese. - Chiarì subito Audrey. - E poi che vuoi che ne sappia? Tu non c’eri mai per raccontarmelo e nessuno si è mai degnato veramente di rispondere alle mie domande. - 

- Te l’ho detto: adesso siamo qui e puoi fare tutte le domande che vuoi. - 

Audrey sbuffò e incrociò le braccia sul petto. - Allora ditemi: c’è altro che mi tenete nascosto? - 

I due si scambiarono un rapido sguardo. Poi, dopo un attimo di incerto silenzio, Elijah svelò con una scrollata di spalle: - Be’... io sono gay. -

Lei corrugò la fronte con sorpresa. - E da quando in qua? - 

- Da sempre, immagino. - 

- E tutte quelle ragazze che hai portato a casa negli anni? - 

- In verità era sempre la stessa. - Rispose Elijah, facendo un sorrisetto furbo. 

Audrey lo guardò come per dire “in che senso?” e lui continuò: 

- Una mia vecchia amica di scuola ha la capacità di cambiare il suo aspetto a piacimento, quindi era sempre lei, ma camuffata. - Spiegò. - Così non rischiavo di dare l’impressione di impegnarmi sempre con la stessa, illudendo mia madre che prima o poi mi sarei sposato, ma d’altra parte non destavo sospetti di alcun tipo. Lo so, è geniale. - 

- Quindi non sono l’unica a cui tenete nascoste le cose, bene. - Borbottò Audrey. 

- E cosa… cosa ne pensi? - Indagò Elijah, con cautela. 

Audrey incrociò le braccia al petto. - Penso proprio che vi toccherà trovare un modo per farvi perdonare e anche molto in fretta. - Disse.

- Quindi per te non è un problema ciò che ti ho appena detto su di me? - Si accertò lui. 

- Certo che no! Ma per chi mi hai preso? - Sbraitò lei, alzando gli occhi al cielo. 

- Ci faremo perdonare, Audrey, sta tranquilla. - Disse Jude. - Chiedimi qualsiasi cosa e l’avrai. - 

Audrey fece un verso sprezzante e assunse un’espressione di disapprovazione, pronta a lanciarsi in una nuova invettiva su quanto nulla di materiale potesse essere abbastanza per lenire l’imbarazzo di quel pranzo di Natale disastroso e le bugie con cui l’avevano riempita per vent’anni. Alla fine però si limitò a sospirare, stanca.

- Comprami una Delorean come quella di Ritorno al Futuro. - Buttò lì, prima di lasciare il salotto, seguendo sua nonna al piano di sopra. 

 

──●◎●──

 

Da quando si era trasferita a casa della nonna, qualche mese prima, Audrey non aveva mai messo piede nella vecchia camera da letto dello zio Elijah, nonostante essa fosse proprio di fronte alla propria, una volta appartenuta a zia Tamica. 

Harriette aveva l’abitudine di tenere quella porta sempre chiusa e Audrey non si spiegava proprio il perché. Si trattava di una stanza dalle pareti arancioni, con una libreria quasi vuota e una scrivania da un lato, e una cassettiera e un letto dall’altro. C’era un poster di Miles Davis attaccato a una delle pareti e una bacheca di sughero appesa sopra il letto, piena di cartoline dalla Romania e fotografie babbane. Sulla cassettiera, un po’ impolverata e piuttosto consumata dal tempo, c’era ancora la custodia della tromba che suo zio aveva suonato da ragazzino, alcuni spartiti impilati uno sull’altro e qualche vecchio disco in vinile. 

Sul letto, ancora privo di sensi e con una fasciatura fatta alla bell'e meglio che partiva dalla spalla allo sterno, così da proteggere l’ustione provocata dall’incantesimo, Percy giaceva immobile. Audrey, seduta su una sedia al suo fianco, lo fissava in silenzio già da un po’, giusto per assicurarsi che non smettesse mai di respirare, anche se nonna Harriette aveva tentato di tranquillizzarla in tutti i modi. 

- Ha solo una commozione cerebrale - Aveva detto alla nipote, poco prima. - Deve riposare, ma si riprenderà presto, vedrai. - 

Tuttavia Audrey era angosciata. Non perché tenesse particolarmente a lui, sia mai! Semplicemente non voleva essere costretta a guardare i suoi parenti mentre seppellivano il corpo senza vite di Percy in giardino. Aveva già avuto troppe sorprese, per quella interminabile e assurda giornata, essere complice di un occultamento di cadavere non era proprio nei suoi piani.

Inoltre chi mai si sarebbe messo a fare da tramite tra lei e Lucy se Percy fosse morto? Ecco. 

Doveva rimanere in vita.

E poi in fondo, molto in fondo, può darsi pure che poi avrebbe sentito la sua mancanza, chi lo sa. Ma probabilmente no. 

No, no, no. 

Audrey sospirò e si sporse un po’ più verso di lui, osservandolo bene. Senza gli occhiali e con quell’espressione insolitamente rilassata dipinta in volto, poteva quasi considerarsi un bel ragazzo. Peccato per quel corpo gracilino e pieno di lentiggini a cui Audrey aveva potuto dare un’occhiata mentre aiutava nonna Harriette a curare quella brutta ustione frastagliata sul petto di lui. 

Ad ogni modo i suoi pregi non erano affatto legati al suo aspetto fisico. Di lui le piaceva il tono di voce che assumeva quando parlava di qualcosa che lo appassionava, le piaceva che lui la stesse a sentire come se si trovasse davanti a una persona interessante. 

Nessuno l’aveva mai trovata interessante prima d’ora. Persino Anne, sua amica da sempre, non si era mai risparmiata dal dirle che di tanto in tanto risultava un po’ noiosa, troppo rigida, incapace di divertirsi in modo spensierato come facevano tutti gli altri. 

Probabilmente, se Percy fosse morto quel giorno, Audrey non avrebbe mai più trovato nessun altro al mondo disposto ad ascoltarla come faceva lui. 

Percy la vedeva e questo, per quanto scontato per molti, per una come lei, — cresciuta nel totale disinteresse di sua madre e con la distanza emotiva di un padre che non vedeva mai, — era qualcosa che la faceva sentire vera e accettata come non mai. 

E anche lei vedeva lui. Lo vedeva attraverso le etichette del noioso e petulante perfettino, lo vedeva attraverso il suo bisogno maniacale di ordine, sotto a quei vestiti e quei modi pomposi, sotto a quella continua voglia incessante di piacere a tutti quanti per tentare poi di piacere anche a sé stesso. 

Ma lui non doveva sapere niente di tutto questo. Non doveva sapere che in verità lei teneva a lui, che di sera, all'orario di chiusura del Bistrot in cui lavorava, Audrey lo attendeva con una certa febbricitante attesa e soprattutto non doveva sapere che se fosse morto lei ne avrebbe sofferto più di quanto riusciva ad ammettere anche sé stessa. 

Si stava affezionando a lui, ma per fortuna se ne era accorta in tempo. Doveva necessariamente ridimensionare il loro rapporto prima che fosse troppo tardi, prima di prendersi una irrimediabile cotta per lui. 

Audrey sospirò di nuovo e poi tornò con la schiena appoggiata allo schienale della scomoda sedia su cui stava seduta da un bel po’. Un attimo dopo Percy mugugnò nel sonno e poi spalancò gli occhi di botto, come se qualcuno gli avesse gridato in un orecchio di svegliarsi. 

- Ciao. - Fece lei, e la sua voce uscì più ansiosa di quanto avesse previsto. 

Percy si voltò a guardarla. Sembrava confuso, smarrito… 

Tentò di muoversi per tirarsi su, ma Audrey lo fermò prontamente. - No! - Esclamò con un tono che non ammetteva repliche. - Nonna ha detto che hai una commozione cerebrale e che devi stare a riposo! - 

Lui parve ancor più confuso di un attimo prima, si guardò attorno cercando di mettere a fuoco la stanza anche senza occhiali e poi tornò con lo sguardo su di lei. - Che cosa è successo? - Domandò con voce roca. 

Audrey alzò le sopracciglia. Possibile che Percy non ricordasse niente? Questo sì che rendeva le cose molto più semplici.

- Sei… caduto. - Buttò lì, omettendo qualche piccolo dettaglio. - Hai sbattuto la testa e poi ti sei procurato quella brutta bruciatura. -

Percy aggrottò la fronte e solo in quel momento si rese conto di non essere del tutto vestito e della fasciatura imbevuta di una strana sostanza vischiosa, che partiva dalla sua spalla per arrivare allo sterno. 

Mosso da un senso di imbarazzo, si coprì tirando il lenzuolo fin sotto il mento, cosa che fece sogghignare Audrey:

- Ti rendi conto che non hai un granché da mostrare, vero? - Gli disse. - Insomma… quattro peletti e tutte quelle lentiggini… sei sicuro di aver raggiunto la pubertà? - 

Sì, stava tentando di apparire rilassata, calma e a suo agio. Probabilmente senza successo. 

Era rimasta lì, seduta su quella sedia a vegliare su di lui, anche se nonna Harriette l’aveva tranquillizzata dicendo che non ce n’era bisogno, che Percy si sarebbe ripreso presto e molto facilmente. Era rimasta lì e aveva utilizzato quel tempo per pensare alle parole da dire al ragazzo quando si sarebbe svegliato, ma tuttavia adesso non le veniva in mente proprio niente di davvero sensato da dire. 

Percy arrossì. - Io… certo che ho raggiunto la pubertà! - Esclamò indignato. - Anzi, direi proprio che ho raggiunto la piena maturità! -

- Mhmh, certo. - Ribatté lei, con sufficienza. 

Il ragazzo strinse gli occhi nella sua direzione, tentando di metterla a fuoco. Si sentiva estremamente confuso e quando si alzò a sedere lo colpì un violento mal di testa. 

- Devi stare giù, Percy. - Lo rimproverò lei, alzandosi in piedi. - Vado a chiedere alla nonna se puoi prendere qualche antidolorifico babbano… o magari c’è qualche rimedio magico che possa farti star meglio, non lo so. - 

Quelle parole provocarono in lui una strana reazione; di botto emersero nella sua mente annebbiata i ricordi confusi di qualche ora prima: il gatto ibrido, la bisnonna e la sua aria mistica, lo zio di Audrey che sfodera la bacchetta e lo colpisce… 

Non fece in tempo ad aprire bocca che, sulla soglia della porta, apparve la smilza figura di Elijah, che si appoggiò con nonchalance sullo stipite della porta. 

- Ehilà, bentornato tra i vivi. - Gli disse mollemente. 

- Tu! - Esclamò Percy, puntandogli il dito contro. - Tu… Tu! Hai attentato alla mia vita! - 

Elijah non riuscì a trattenersi dal sogghignare. - Esagerato… hai preso solo un po’ la scossa, avanti! - Disse. - C’è stato un equivoco e sono qui  proprio per farti le mie scuse… ma solo perché sono costretto. - 

Audrey guardò male lo zio, poi si alzò e gli chiuse la porta in faccia.

- Hey! Jude vuole che tieni aperta la porta! - Urlò Elijah, dall’altra parte della soglia. 

Lei lo ignorò totalmente. Tornò a sedersi, la schiena dritta e le mani giunte in grembo che le davano una posa molto rigida, guardò Percy e sospirò. - Io sono mortificata per quello che è successo. - Dichiarò, mordendosi un labbro. - È il giorno più imbarazzante della mia vita. - 

- Sapevi che tuo zio è un mago? - Domandò bruscamente Percy. 

- In realtà tutta la famiglia tranne mio padre ha dei poteri, ma io non ne sapevo niente. - Spiegò Audrey. - Elijah pensava che tu fossi… - 

- Lo so che pensava. - La interruppe lui, gelido. - Pensava che fossi dalla parte di Tu-Sai-Chi, come tutti al Ministero, del resto. Sentiamo: in che ufficio lavora? - 

- Non ne ho la più pallida idea, ma in tutta sincerità lui non ha proprio la faccia di uno che fa un lavoro d’ufficio. - Rispose Audrey. - Però andavate a scuola insieme, seppur in anni e Case diverse… dice di essere un vecchio amico di tuo fratello Charlie. -

Percy aggrottò le sopracciglia e si fece pensieroso. 

Charlie era considerato da sempre il più socievole della famiglia. Era capace di intavolare vivaci conversazioni con qualsiasi tipo di essere vivente e ai tempi della scuola non aveva mai fatto distinzioni tra Case. Fu dopo questo pensiero che a Percy tornò in mente l’immagine di uno in particolare dei tanti amici che il fratello aveva portato alla Tana, tantissimi anni prima, quando lui era ancora un bambino annoiato dalla campagna. Non ricordava come si chiamasse in realtà, — sapeva che aveva un cognome difficile da pronunciare, — però Percy ricordava che fosse un Serpeverde e che aveva avuto, ai tempi della scuola, la presunzione di sostituire il professor Vitious nella direzione del coro. E in effetti si trattava proprio di un ragazzo nero, con gli occhiali e l’atteggiamento falsamente rilassato che aveva visto anche nello zio di Audrey. 

Comunque in quel momento non aveva importanza. Voleva solo andarsene a casa. 

- Credo che sia giunta l’ora che io vada. - Dichiarò con solennità. - Se puoi restituirmi gli occhiali, il maglione e la bacchetta te ne sarei grato. - 

Audrey lo fissò con disapprovazione per qualche attimo e poi scosse la testa. - No. - Asserì con semplicità.

- No? - 

- Scordatelo. Sei stato appena folgorato, hai una commozione cerebrale! - 

- Non puoi costringermi a restare; sarebbe un rapimento: non so come funziona tra i babbani, ma nel mio mondo rischieresti di imbatterti in un reato penale che implica una pena dai cinque a dieci anni di carcere. - 

- Be’, non so come funziona tra i maghi, ma nel mio mondo anche l’omissione di soccorso è un reato. - Obiettò Audrey, imitando il tono pomposo di lui. 

- Mi duole avvertirti che non si tratta di omissione di soccorso se chi ha subito il danno non vuole essere curato... - 

- A me duole dirti, invece, che non me ne frega un bel niente, Weasley! - Ribatté duramente Audrey, parlandogli sopra ad alta voce. - Hai un aspetto orribile. Resterai qui finché non starai meglio altrimenti… altrimenti mi metto a piangere! - 

- Questa è la minaccia più stupida che io abbia mai sentito in tutta la mia vita! - 

- Non vuol dire niente visto che hai solo vent’anni e non sei un uomo vissuto! - 

Percy sospirò e si portò le mani alle tempie, iniziando a fare dei movimenti circolari con le dita su di esse. Su una cosa Audrey aveva ragione: non si sentiva in gran forma in quel momento. 

- Pensi davvero che mi possa importare qualcosa se ti metti a piangere, Audrey? - Sbottò irritato. - Per me puoi piangere quanto vuoi, non riuscirai a impietosirmi. -  

Audrey trasalì, lo fisso e piegò le labbra verso il basso. Le era capitato più d'una volta di piangere a comando, — ad esempio durante il terzo tentativo di passare l’esame di solfeggio oppure quella volta in cui l’avevano beccata a rubare un mascara in un negozio quando aveva tredici anni. 

Non piangeva quasi mai in modo spontaneo e naturale, solitamente non usava le lacrime per buttare fuori la tensione o la tristezza. tuttavia in quel momento Audrey sentì il suo petto andare a fuoco e nella gola formarsi un fastidioso nodo. Quando poi percepì i suoi occhi iniziare a pizzicare si sentì sprofondare in un mare di imbarazzo. 

Stava emergendo tutto, tutto quello che aveva accumulato quel giorno, la paura, lo stupore, la rabbia, la confusione. Le tornarono in mente tutte le cose che erano andate storte nella sua vita, l’indifferenza di sua madre, i suoi fidanzati stronzi, la distanza emotiva di suo padre, il suo non sentirsi mal al posto giusto, mai, da nessuna parte. 

Come se ciò non bastasse, si era affezionata a quell’idiota pieno di sé di Percy Weasley, ma era palese il fatto che per lui non fosse lo stesso e che amasse tanto farglielo notare.

 - Non te ne frega niente di me. - Mugugnò lei con voce soffocata, tirando su con il naso. 

Percy boccheggiò. Be’, di sicuro non si aspettava che lei si mettesse a piangere sul serio.

- A nessuno importa di me. - Proseguì Audrey, e poi singhiozzo. - Tutti mi mentono e mi trattano male, e sono noiosa e brutta… e mio zio… lui ha t-trasformato il mio g-gatto in un uccellino e mi ha modificato la memoria per farmi credere che fosse morto! -

Percy, nonostante non fosse affatto un tipo di poche parole, si ritrovò a boccheggiare ancora. Detestava trovarsi davanti a qualcuno in lacrime, lo metteva in imbarazzo. Non sapeva mai cosa dire né come comportarsi: era incapace di trattare con le emozioni umane, non sapeva empatizzare con facilità, figuriamoci consolare qualcuno. 

Si ritrovò così impietrito davanti agli occhi umidi di lei, che in quel momento sembravano molto più verdi di quanto non fossero mai stati. 

- I tuoi parenti ti vogliono molto bene e se ti hanno mentito come dici lo avranno fatto per una buona ragione, vedrai. - Disse Percy con calma. A quanto pareva, ancora una volta, toccava a lui essere quello ragionevole. - Comunque, per quel che può valere, non sei brutta… e di sicuro non sei noiosa. Non conosco molti babbani ma non ho mai incontrato nessuno come te, al di là di questo. -

Percy arrossì, mentre le labbra di lei tremarono, piegate verso il basso, e poi pianse ancor più forte. 

Che ho detto adesso? Si domandò Percy, esasperato. 

- Nessuno a parte te lo pensa! - Esclamò Audrey. - Tutti mi dicono c-che… che sono noiosa e che… e se m-muori allora… non voglio che tu muoia, va bene? - 

- Se la smetti rimango qui. - Disse Percy, di getto. 

Lei tentò di prendere un paio di respiri profondi e annuì freneticamente. Poi si passò le mani sul viso pasticciato dal trucco sciolto dalle lacrime.

Come mai Audrey fosse convinta di essere brutta rimaneva un bel mistero, pensò lui guardandola. 

- Adesso penserai che sono strana… - 

- L’avevo capito già da un po’, non preoccuparti. - Ribatté Percy, concedendole anche un breve sorriso. 

Audrey si sentì avvampare, ma non fece in tempo ad aprir bocca che la porta della camera di spalancò. Sulla soglia comparve nonna Harriette, con un bicchiere in una mano e una piccola pillola bianca nell’altra e, accanto a lei, Jude. 

- Ben svegliato. - Esordì la donna, avvicinandosi a letto mentre il figlio rimaneva fermo sulla porta. - Allora, come ti senti, mio caro? - 

- Di certo potrei star meglio, se suo figlio non avesse attentato alla mia vita. - Si lasciò sfuggire Percy. 

- Siamo tutti molto dispiaciuti per ciò che è successo oggi. Nessuno voleva farti del male, Percy. - Iniziò Harriette, con solenne serietà. - Il mio Elijah può essere impulsivo, è una persona molto particolare, sebbene sia anche e soprattutto un bravo ragazzo. Pensava di proteggere la sua famiglia e io spero con tutto il cuore che tu non voglia prendere provvedimenti contro di lui su quanto accaduto. - 

- Teme forse che io possa denunciarvi? - 

- Ammetto di sì. Questo è proprio ciò che mi preoccupa. - 

- Non potrei denunciarvi nemmeno se volessi, quindi può star tranquilla. - Dichiarò Percy, a denti stretti. - Dovrei spiegare il perché mi trovassi qui con voi il giorno di Natale, dovrei dare spiegazioni anche sulla natura del mio rapporto con Audrey, che è una babbana. Tutto questo farebbe di me un potenziale traditore. - 

Harriette annuì soddisfatta. - Convieni con me che ne perderemmo entrambi, certo. - Disse, prima di spostare gli occhi sulla nipote. - Hai forse pianto, bambina? - Le chiese.

Jude scoccò a Percy uno sguardo molto torvo, cosa che spinse Audrey ad affrettarsi a scuotere la testa, tirando su con il naso. 

Harriette allora porse la pillola che aveva in mano a Percy. - Prendi questa, ti sentirai meglio tra poco. - Disse.

- È un rimedio magico africano? - 

- È paracetamolo. - Rispose Harriette. 

Davanti all’espressione vacua di Percy, Jude aggiunse: - Un analgesico babbano. Stai pure tranquillo, se avessimo voluto ucciderti saresti già morto da un pezzo. - 

- Papà! - 

- Puoi fidarti, Percy. - Riprese Harriette. - Purtroppo non ho molti ingredienti per le pozioni al momento, dunque temo dovrai accontentarti della medicina babbana. - 

Percy guardò Audrey, come per avere una conferma. Lei annuì. 

Probabilmente, proprio come aveva detto nonna Harriette, non poteva far altro che fidarsi. 

- D’accordo. - Borbottò.

Di sicuro suo padre sarebbe stato molto fiero di lui, vista quell’insolita apertura verso quel mondo tanto amato da Arthur. 

Ingoiò quella pillola con l’aiuto di un po’ d’acqua e attese qualche cambiamento. - Allora? Perché non fa effetto? - Domandò poi. 

- Non ha un effetto immediato. - Rispose Harriette. - Adesso riposati. Tra qualche giorno ti sentirai molto meglio. - 

- Farà effetto tra qualche giorno? - Fece Percy, sgranando gli occhi sorpreso.

Harriette sorrise divertita. - Farà effetto tra poco, dovrai riposare per qualche giorno, però. - Disse, tornando sulla porta. - Tra poco tornerò a dare un’occhiata alla tua scottatura. Se hai bisogno di qualcosa non esitare a chiedere. - Aggiunse, lasciando una volta per tutte la camera da letto. 

Quando rimasero in tre, — Percy, Audrey e Jude, — cadde su di loro un denso silenzio imbarazzante. 

Probabilmente quell’uomo lo detestava, pensò Percy osservando il padre di Audrey che a sua volta teneva gli occhi scuri e infossati puntati dritto su di lui. 

- La porta deve rimanere aperta. - Asserì Jude, dopo un po’, per poi scomparire dalla loro vista, portandosi dietro tutta la tensione.  

- Io sono nella stanza qui davanti, se hai bisogno di me. - Disse Audrey, alzandosi in piedi.

- Va bene. - Si limitò a dire Percy. 

Audrey esitò. - Però se vuoi… posso restare qui con te. Se vuoi. - Propose, anche se se ne pentì all’istante. Doveva tenersi a distanza, al sicuro. - Anzi, forse è meglio di no. - Ritrattò, prima che lui potesse aprir bocca. 

- Oh. D’accordo. - 

Lei annuì e poi si fiondò letteralmente fuori da quella camera da letto, chiudendosi la porta alle spalle.

Con un sospiro, Audrey si rese conto che forse aveva già raggiunto il punto di non ritorno. 




 

Heilà, persone!

Credevate di risparmiarvi l’aggiornamento questa settimana, eh? E invece eccomi qui, reduce da giorni infernali in cui me ne sono successe di ogni (da problemi di salute che riguardano me, al mio cane che ha dovuto subire una piccola operazione, ma vabbé, lunga storia). Per questo mi scuso in anticipo per eventuali errori, ma non mi capitava di scrivere in condizioni critiche da molto tempo. 

Finalmente ci siamo tolti questo enorme primo scoglio di trama, io ne sono super felice perché come al solito nulla di tutto questo è all’altezza delle mie aspettative, ma ormai ho capito che la mia insicurezza è patologica quindi fa niente. 

Fatemi sapere la vostra opinione se vi va. Prendetevi un minuto per far felice una povera fanwriter come me. (Giuro che risponderò a quelle del capitolo precedente, sappiate che vi ho letto e che vi adoro)

Alla prossima, 

J. 


 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10. Cicatrici ***


 

TW: menzioni ad abusi in famiglia (nulla di troppo esplicito ma è sempre meglio avvisare)


Capitolo 10


Nei cinque giorni successivi, Percy si prese una vera e propria vacanza da sé stesso che si rivelò insolitamente piacevole. 

Dopo i primi due giorni passati a lottare contro l’imbarazzo di ritrovarsi in una casa piena di sconosciuti e contro il dolore alla testa e alla bruciatura che aveva sul petto, il giovane Weasley iniziò a sentirsi molto più a proprio agio di quanto non si sarebbe mai potuto aspettare. Dopotutto, come già aveva capito durante il pranzo di Natale, quel posto non era poi tanto diverso dalla Tana, sebbene si trovasse in città e fosse molto più grande e ordinato. 

Nonna Harriette tentò di cimentarsi in pietanze inglesi solo per lui, seppur con scarso successo dato che perfino il filetto alla Wellington sapeva vagamente di paprika se lo cucinava lei, mentre Constance iniziò a lanciarsi sempre più spesso in strane predizioni che in comune avevano sempre un finale molto nefasto (“morte e tristezza ti attende! Morte e tristezza!”). 

Elijah prese a comportarsi come se nulla di strano fosse mai successo tra loro, parlandogli come a un vecchio amico e finendo per stargli persino simpatico. Certo, era decisamente un tipo strano: una volta si era seduto al suo fianco, l’aveva fissato a lungo e poi aveva chiesto di Charlie, per poi alzarsi e andare via senza prima ascoltare una risposta. 

Jude lo sottopose invece a un nuovo interrogatorio per capire cosa facesse davvero nella vita e quali fossero davvero le sue aspirazioni: 

- Quindi hai davvero delle ambizioni politiche. - Gli disse una sera, guardandolo torvo dall’altra parte del tavolo della cucina. 

- Una volta ne avevo, sì. - Rispose Percy, provando per la prima volta nella sua vita un certo disagio nel parlare di sé. 

Quando aveva conosciuto il padre di Penelope si era sentito così fiero mentre raccontava del suo lavoro e della sua straordinaria carriera al Ministero, mentre ora quella posizione lo faceva sentire come se avesse addosso l’etichetta del potenziale sostenitore del Signore Oscuro. 

Jude, inoltre, era esattamente l’opposto del signor Light, che era un uomo piuttosto socievole che lo aveva preso subito in simpatia. Il padre di Audrey sembrava una persona tremendamente giudicante, un perfezionista che a tratti poteva sembrare un vero e proprio automa e, a dir la verità, la sua presenza faceva sentire Percy un po’ intimorito. 

Comunque stare in quella casa valeva come tutte le lezioni di babbanologia di tutti e sette gli anni a Hogwarts e anche di più: Percy vide un film per la prima volta nella sua vita, imparò a giocare a scarabeo e scoprì che in alcune famiglie si pregava prima dei pasti e si andava in chiesa la domenica. 

Tuttavia Percy aveva l’impressione che Audrey non prendesse molto sul serio la religione come sua nonna e la sua bisnonna e che anzi si divertisse un po’ a dire cose considerate eretiche per far infuriare Harriette:

- Non è che non ci credo, eh… solo che mi sembra strana l’idea di un Dio che ti fulmina se ti masturbi e ti manda all’inferno se sei gay, quando invece non condanna, che so… lo stupro, l’incesto e il cannibalismo, per così dire. - 

- Audrey! - Esclamava Harriette, esasperata, ogni singola volta. 

- Almeno lei ci viene in chiesa. - Sottolineava Constanze, fulminando con i suoi occhietti brillanti Jude ed Elijah. 

- Be’, sì che ci vengo… ci vengo per il coro e perché il figlio del pastore è proprio un figo. -

Assistere ai loro battibecchi era per Percy divertente e doloroso insieme: quell’aria di familiarità gli era mancata terribilmente in quegli ultimi anni. 

Percy si rese anche conto quasi subito che in verità non in tutti i bagni dei babbani c’erano delle paperelle di gomma, come invece aveva affermato una volta suo padre. In compenso, nel bagno sul corridoio del secondo piano, c’erano tantissimi prodotti per capelli che avevano lo stesso profumo di Audrey. 

Paradossalmente, in quel quadretto di rassicurante ospitalità, Audrey sembrava l’unica a non volerlo davvero lì, anche se Percy stava facendo del suo meglio per non rimuginarci troppo sopra. 

Di giorno lei lo evitava come il vaiolo di drago, inventando scuse per stargli più lontano possibile, (“devo studiare”, “sono stanca”, “sono troppo occupata, scusa”), mentre di sera gli concedeva un po’ della sua presenza guardando insieme a lui ed Elijah un film sul divano in salotto o gli parlava dalla sua stanza attraverso dei vecchi walkie talkie che proprio Percy aveva trovato nella stanza dello zio. 

Durante quelle notti, i due iniziarono a costruire una strana e inaspettata intimità: si perdevano in lunghissime chiacchierate, messi al sicuro dal non trovarsi faccia a faccia come al solito o forse spinti semplicemente dalla stanchezza che li rendeva in un certo senso più disinibiti. 

Ogni tanto lei leggeva ad alta voce e lui la stava ad ascoltare, immaginando nel frattempo un mondo alternativo in cui non c’era una guerra che rendeva il loro legame illegale, in cui era lecito pensarla in modi che gli facevano sperare con tutto il cuore che nessuno attorno a sé fosse un legilimens, un mondo in cui lui non aveva una ragazza e in cui Audrey non aveva quell’apparenza irraggiungibile. 

Audrey Manning non era di certo una persona alla mano, non era dolce, né mite, né simpatica come Penny e, forse, in nessun mondo alternativo Percy avrebbe trovato il coraggio di approcciarsi a lei. 

Tuttavia lui iniziò pian piano ad aprirsi su cose che non aveva mai detto a nessuno prima d’ora. Le parlò della sua infanzia, dei suoi anni a Hogwarts e soprattutto della sua famiglia. Le descrisse ogni singolo membro in modo tanto dettagliato che Audrey ebbe quasi l’impressione di conoscerli davvero alla fine; poi Percy le raccontò di quel brutto litigio che lo aveva allontanato definitivamente da casa e, con gran sorpresa di lui, la giovane non lo giudicò affatto. 

- Lo avrai capito, mio padre è ipercritico. - Gli disse invece, proprio l’ultima notte. - Non sai quante volte mi aspettavo che mi dicesse brava e invece sono stata criticata o corretta. È frustrante. Comunque il tuo caso è un po’ diverso, dato che pare che abbiate sbagliato entrambi… ma sei suo figlio, ti perdonerà. - 

- Non credo che mio padre mi perdonerà mai per ciò che gli ho detto. - Fece Percy a bassa voce, sdraiato nel vecchio letto di Elijah, al buio, il walkie talkie in una mano e l’altra sul suo viso. - Tutte le volte in cui lo incontro al Ministero mi ignora. - 

La sentì fare un secco verso di scetticismo. - Mi sembra di capire che nemmeno tu gli faccia le feste quando lo vedi. - 

- È lui che deve fare il primo passo. - 

- E perché? - Domandò la voce metallica di Audrey. 

- Perché lui è mio padre! - Ribatté Percy, come se questo risolvesse qualsiasi cosa. - A rigor di logica è lui che deve fare il primo passo, non io. -

- E perché? - Ripeté Audrey. - Sei troppo orgoglioso, non ne vale la pena. - 

- Tu perché non chiami tua madre? - 

Per un po’ dal walkie talkie stretto nella mano sinistra di Percy si sentì solo il brusio che gli assicurava che l’apparecchio funzionasse ancora. Poi Audrey sospirò. 

- È completamente diverso. - Disse. - Mia madre non è… una madre. - 

- Cosa vuol dire questo? - 

- Starle lontana è una mia scelta. Lei non mi manca come a te mancano i tuoi, e non dire che non è vero! Ti mancano da morire! - 

Percy si sentì arrossire. Non aveva senso obiettare in alcun modo perché tanto lei lo scopriva sempre. 

Quel modo che aveva Audrey di buttargli addosso le verità più scomode lo faceva sentire vulnerabile. 

- La batteria del mio walkie talkie si sta scaricando. - Disse lei, quando l’apparecchio emise uno strano suono distolto. - Se non mi senti più è per quello. - 

- Vuoi andare a dormire allora? - Domandò lui. 

- Andare a dormire prima di mezzanotte la tua ultima notte qui? E io che volevo passarla facendo discorsi profondi come al solito… noi sì che ce la spassiamo. - 

- Puoi sempre attraversare i due metri che separano le nostre porte. - Gli suggerì lui con leggerezza, certo di ricevere un no come risposta. 

Audrey mugugnò ma sorrise, anche se lui non poteva vederla. - Mi stai forse invitando nel tuo letto? - Disse, fingendosi risentita. - Svergognato… ma per chi mi hai presa? - 

Percy sgranò gli occhi. - Non intendevo dire questo! - Si affrettò subito a esclamare, alzandosi a sedere di scatto. - Ma hai ragione, la mia è stata una proposta inappropriata. Scusami. Spero di non averti messa in imbarazzo o offesa in alcun modo. - 

Questa volta lei rise. - Stavo scherzando. - Disse divertita, mentre si alzava dal letto. - Dammi sessanta secondi e sono da te. - 

- S… sei sicura? Non dicevo sul serio. - 

- Ma come, una volta mi hai detto che non scherzi mai. - Gli ricordò lei. 

- Ogni tanto lo faccio. - 

Audrey sbuffò. - Quindi che vuoi fare? Se ti senti così in imbarazzo lasciamo stare. - 

Ci fu silenzio per almeno dieci secondi buoni e poi Percy rispose: - Ti aspetto qui. - Come se questo gli costasse un grande sforzo di coraggio. 

Audrey abbandonò il walkie talkie sul comodino senza aggiungere altro, attraversò la stanza per raggiungere la porta e poi si fermò di scatto e tornò indietro. Raggiunse l’armadio, spalancò le ante e si specchiò. Si liberò della cuffia per capelli che indossava per dormire e tentò di dare un senso a quella chioma informe legandola in una coda alta come al solito. Poi si sfilò la maglia di quell’orribile pigiama di pile per indossare una canottiera leggera che lasciava decisamente molta più pelle scoperta. 

Sei proprio stupida, si disse, dandosi un’ultima giudicante occhiata, patetica e stupida! 

Alla fine uscì dalla sua stanza, raggiunse la porta che aveva davanti con due passi ed entrò in quella di Percy, dove trovò il ragazzo seduto sul letto ad attenderla, senza gli occhiali sul naso, illuminato dalla luce tenue della lampada appoggiata sul comodino che gettava la stanza in una quieta penombra. 

- Ci hai messo più di sessanta secondi. - Commentò lui, pur di rompere il silenzio. 

Audrey sogghignò. - Ma che carino… sentivi la mia mancanza? - Chiese, prendendolo in giro. Poi si sedette al suo fianco sul letto, con la schiena appoggiata contro la spalliera. 

Percy si domandò dove fossero finiti i pigiami imbarazzanti che le aveva viso sfoggiare le sere precedenti e anche come potesse non sentir freddo, in pieno dicembre, con indosso quella canottiera striminzita dal tessuto molto leggero che lasciava ben poco spazio all’immaginazione. 

Era tutto appena accennato sul corpo di lei, come se non avesse ancora smesso di crescere, come se ci fosse ancora tempo per lei per fiorire davvero. Percy si prese qualche attimo per osservarla, assaporando quella pungente sensazione di desiderio che da qualche tempo aveva iniziato a trapassarlo tutte quelle volte in cui lei era troppo vicina o quando, da solo in quella stanza, lasciava correre la sua mente su cose che probabilmente non sarebbero mai potute accadere. 

Percorse il suo profilo con lo sguardo, arrivò a guardare le sue labbra, scivolò lungo il suo collo e ancor più giù, verso la scollatura di quella maledetta canottiera e la curva appena accennata del seno e… no! 

No, no, no; contegno, per l’amor di Merlino! 

C’erano così tante ragioni che rendevano quell’attrazione che sentiva nei confronti di Audrey sbagliata, ma ce n’era una che spiccava su tutte: Penelope. 

Penelope era scappata via per mettersi in salvo e lui non poteva farle questo, non poteva tradirla, buttare tutto all’aria per una che conosceva da poco meno di tre mesi, lasciarsi prendere da uno stupido impulso come uno stupido adolescente alla prima cotta. 

Penelope era perfetta. Era dolce, era bellissima, era calma, odiava litigare ed era così accondiscendente che spesso Percy si era ritrovato ad annoiarsi davanti a tutti i suoi sì. Su di lei poteva avere il controllo totale, insieme a lei poteva rispettare tutti gli standard che si era prefissato nella sua mente, quelli che secondo lui potevano fare di una coppia la coppia perfetta. 

Voleva tornare a casa dopo il lavoro e stare in compagnia di una persona silenziosa e calma come la sua Penny, parlare della giornata appena trascorsa davanti a una cena per nulla speziata, andare a pranzo a casa della famiglia di lei la domenica e non rischiare di essere ucciso da uno dei suoi parenti; voleva sposarsi, voleva dei figli e voleva andare a quelle pompose cene ministeriali in cui una babbana come Audrey non avrebbe mai potuto mettere piede. 

Eppure proprio quella babbana si stava facendo prepotentemente largo nella sua mente, ficcandogli nella testa l’idea di un futuro completamente diverso da come se l’era sempre immaginato e Percy era certo di aver capito il perché: lei era decisamente carina, lui era un ventenne solo, che non aveva a che fare con l’altro sesso da mesi; passavano troppo tempo insieme e lui… be’ era naturale che prima o poi qualcosa scattasse, no? 

No? 

Era tutto qui. Una stupida infatuazione guidata dall’attrazione fisica e da bisogni non soddisfatti per troppo tempo. 

- No che non sentivo la tua mancanza. - Assicurò lui. - Passiamo così tanto tempo insieme, ultimamente, che sarebbe un po’ strano. - 

- A me un po’ mancherà parlarti prima di andare a dormire, lo sai? - Rivelò Audrey. 

Percy si sistemò seduto in un angolo del letto pur di mantenere una certa ragionevole distanza. - Dovrò necessariamente comprare uno di quei telefoni, allora. - Le disse. 

- Non sapresti usarlo. - 

- Questo lo dici tu, cara. A casa dei miei genitori ce n’era uno e una volta l’ho utilizzato per chiamare Penny. - Ribatté lui, dandosi delle arie. - Non è stato affatto complicato: mi sono scritto ciò che dovevo dire su un foglio di pergamena e tutto è andato liscio. - 

Audrey si voltò a guardarlo e aggrottò la fronte. - La spontaneità è scomparsa dal mondo il giorno in cui sei nato, Weasley. - Disse. - Ma sentiamo: cosa avevi scritto sul foglio di pergamena? - 

Percy si schiarì la gola. - In caso al telefono avesse risposto suo padre allora avrei detto: buonasera signor Light, sono Percy, uno dei compagni di scuola di sua figlia. Per caso Penelope si trova in casa in questo momento? Desidererei parlarle, se non è un problema. - Recitò con convinzione.

Audrey soffocò una risatina e scosse la testa.

- Dove ho sbagliato? - Chiese allora lui. 

- Nessuno parla così tra i babbani, Perce. - Spiegò Audrey, sorridendo divertita. - Devi scioglierti un po’ se vuoi sembrare uno di noi. - Aggiunse, dandogli una leggera pacca su una spalla. 

Percy produsse un gemito sommesso. - Attenta all’ustione. - La ammonì, toccando il punto tra la spalla e lo sterno in cui in quel momento c’era ancora un grosso cerotto. 

- Scusa. - Fece lei. - Nonna Harriette dice che ti rimarrà di sicuro il segno. -

- Già. Tuo zio mi ha sfigurato per sempre. - Borbottò Percy.

Audrey alzò gli occhi al cielo. - Sfigurato… che esagerazione. - Disse. - Quando la tua ragazza tornerà da te potrai raccontarle che te la sei procurata lottando all’ultimo sangue con un crudele mangiamorte. Ti darà un’aria molto più affascinante, vedrai. - 

- Non ce n’era bisogno. - 

- Tu credi? - Fece Audrey. - Sarà che le cicatrici mi piacciono. Anche le mie. - 

- Elijah ha folgorato anche te, per caso? - 

Audrey scosse la testa. - No, no… però ho avuto l’appendicite quindi ho un piccolo taglio qui sulla pancia. - Disse, toccando un punto accanto al fianco destro. - Poi ho una piccola cicatrice su un ginocchio, mentre qui ho qualche segno lasciato dalla varicella, nulla di eclatante. - Aggiunse, tirando un po’ più giù la scollatura della canottiera e indicando dei piccoli segni che aveva all’altezza del petto. - La tua ha una storia decisamente molto più interessante. - 

Percy mugugnò in risposta e la guardò solo di sfuggita.

- Ho anche un tatuaggio. - Proseguì Audrey. - Ma non credo che conti. - 

- Non sembri una tipa da tatuaggio. - Osservò lui. 

- Infatti non lo sono. -

- E dove ce l’hai? -

Audrey si mosse e gli diede la schiena. Lì, poco più sotto della nuca e proprio al centro, c’era il disegno di una piccola peonia dai petali rosa. 

- Molto egocentrico da parte tua, Peony. - Commentò Percy. 

- È una lunga storia. - Ribatté lei, voltandosi a guardarlo. 

- Raccontamela. -

Audrey tornò a dargli le spalle e per un po’ non parlò. - L’ho fatto per coprire il segno di una bruciatura che mi procurò uno dei fidanzati di mia madre, molto tempo fa. - Svelò in tutta tranquillità. 

- Cosa?! - Esclamò Percy, sgranando gli occhi. - Come… perché… perché mai l’avrebbe fatto? - 

- Perché le persone sono cattive e il mondo è un posto orribile. - Disse lei, piano, ma con lo stesso tono rilassato di poco prima. - Non tutte le famiglie sono felici e non tutti i genitori amano i propri figli. - 

- Sì, ma… tua madre… - 

- Te l’ho appena detto: non tutti i genitori amano i propri figli. - Ripeté Audrey. - Mia madre ha iniziato a lasciarmi a casa da sola quando avevo sei anni, Lucy ne aveva a malapena uno. Non mi ha mai abbracciata, consolata o accudita. Pensi che le importasse qualcosa se il suo fidanzato abusava delle sue figlie? Se la cosa ti sorprende tanto allora sei stato davvero molto fortunato con i tuoi. - 

Percy rimase zitto, impietrito dalle parole di lei e dal gelo con cui le aveva pronunciate: doveva essere quello il motivo per il quale Audrey non parlava con sua madre, ma era sorprendente il distacco con cui glielo stava raccontando. 

Sul suo viso, che in quel momento il giovane scorgeva solo di poco, non sembravano esserci particolari espressioni, non era tesa, né a disagio. 

- Se ti stai domandando se qualcuno qui ne sapesse qualcosa… la risposta è sì, solo che l’hanno saputo molto in ritardo, dato che mia madre evitava di farmi stare in contatto con la famiglia di mio padre. - Continuò a parlare lei. - Ho scelto una peonia proprio per ricordare a me stessa che rimango sempre io, nonostante tutto, che non importa cosa la vita mi butterà addosso. Io non mi lascerò mai cambiare dagli eventi. O almeno è ciò che tento di fare. -  

Percy produsse un secco sospiro.

Gli sarebbe piaciuto così tanto avere la capacità di lenire qualsiasi cosa stesse provando lei in quel momento con le parole giuste, avere una frase per circostanze del genere o essere una di quelle persone capaci di stringere qualcuno a sé per farlo star meglio, un po’ come faceva sua madre con lui e i suoi fratelli quando erano bambini. Ciononostante tutto ciò che riuscì a fare fu fissare quella piccola peonia rosa disegnata sulla schiena di Audrey mentre il suo cervello si riempiva di domande che non avrebbe mai avuto il coraggio di porle. 

- È un tatuaggio molto carino, Peony. - Si limitò a dirle a voce bassa. 

- Lo so. - 

Ci fu silenzio, poi lei si voltò verso di lui. 

- Posso restare qui per un po’? - Gli domandò. - Giusto il tempo di prendere sonno... parlare di certe cose mi provoca sempre un po’ d’angoscia. - 

- Tuo padre dorme nella stanza accanto, non so se è il caso. - 

Non che gli dispiacesse averla vicino, soprattutto dopo una delle rarissime occasioni in cui era lei ad aprirsi con lui e non il contrario. Magari lei avrebbe continuato a parlare...

Tuttavia c’era una voce dentro di lui che non faceva altro che ricordargli quanto inopportuno e potenzialmente pericoloso fosse ritrovarsi in quel letto con lei in quel momento. 

- Dovresti temere nonna Harriette, non lui. - Fece Audrey. 

- In effetti nutro un certo timore reverenziale nei confronti di tua nonna. - Ammise Percy. - Ma tuo padre è decisamente più minaccioso. - 

Audrey aggrottò la fronte e scosse la testa. - Secondo me inizi addirittura a piacergli. - 

- Te l’ho detto che prima o poi avrebbe capito che sono un ottimo partito. - 

Audrey alzò gli occhi al cielo. 

- Anche tu piaceresti ai miei, soprattutto a mio padre. - Proseguì Percy. - Lui adora i babbani, ti riempirebbe di domande. - 

- Quindi gli piacerei solo perché sono babbana. -

- È un fattore che contribuisce. - Ribatté lui. - Inoltre non sei bella ma sciocca come tutte le ragazze che mio fratello Bill ci ha fatto conoscere nel corso degli anni; questo sarebbe già molto per loro. - 

- Essere bella e sciocca è il mio sogno da sempre. - 

E invece ti tocca essere solo bella, pensò lui, ma non si azzardò a dirlo. 

- Ad ogni modo queste sono solo chiacchiere sconclusionate. - Disse invece. - Dopotutto è piuttosto improbabile che tu metta piede alla Tana… non so nemmeno se ci tornerò io, prima o poi. - 

- Se continui ad essere ostaggio del tuo orgoglio allora sì: non tornerai mai a casa. - Disse lei. - Se invece ti fai coraggio e li vai a trovare… non li conosco, ma ho il sentore che non esiteranno nemmeno un istante ad aprirti di nuovo le porte. - 

Percy la guardò facendo un piccolo e triste sorriso. Lui non la pensava affatto come Audrey. Era invece certo che la sua famiglia non sarebbe stata mai capace di dimenticare del tutto quel tradimento. 

Audrey lo fissò pensierosa per una manciata di secondi. - Perché non andiamo a trovarli? - Disse poi, di botto. 

- Cosa? - Domandò lui, alzando le sopracciglia con sorpresa. 

- Andiamo a trovarli, ti accompagno. - Replicò lei, entusiasta. - Facciamo una piccola gita in campagna: prendiamo il treno, tu vai a scusarti con i tuoi così ti togli finalmente quest’aria deprimente da cucciolo bastonato di dosso. Poi ci fermiamo in una sala da tè. Dalle tue parti fanno gli scones migliori del paese, lo sapevi? - 

- Non posso semplicemente andare lì e scusarmi. - Obiettò lui.

- E perché non puoi? - 

- Il Ministero li tiene d’occhio, entrare in contatto con loro sarebbe molto pericoloso nella mia posizione. - Spiegò Percy. - Il Ministro potrebbe pensare che sono un traditore, mi sottoporrebbe a uno di quei processi farsa che ovviamente perderei. - 

- Be’, puoi sempre mandare a tuo padre dei segnali.

- Non posso, Audrey. - Tagliò corto lui. - È troppo rischioso, sia per me che per loro. Il Ministero usa sempre la famiglia come arma di ricatto e per questo devo mantenere un basso profilo e sperare che tutto questo finisca presto… non ne posso più. - 

Audrey annuì, stringendo le labbra. - Adesso sembri tu quello angosciato. - Osservò, e poi si sdraiò, come se quello fosse il suo letto. 

Lui rimase zitto e fermo per un po’. Solo dopo una manciata di secondi di rimuginamento su cosa fosse giusto fare a quel punto la imitò, occupando una parte minuscola di letto, contro il muro, così che nessuna parte del suo corpo potesse entrare in contatto con quello di lei nemmeno per sbaglio. 

- Sei proprio sicura che tuo padre non se ne accorgerà? - Le domandò. 

- Anche se fosse non stiamo facendo niente di male, rilassati. - Sbuffò lei, prima di allungarsi per spegnere la luce. - Tu hai una ragazza… - 

Nell’oscurità della stanza, Percy si rese conto che lei era sdraiata rivolta nella sua direzione. Riusciva a distinguere a malapena il suo contorno grazie alla luce fioca dei lampioni fuori casa che trapassava attraverso le tende, ma sapeva che era vicina. 

Così vicina.

Così vicina che sarebbe stato naturale baciarla lì in quel momento, prenderla per mano e accarezzarle il viso; ma Percy si fece sfiorare da quel pensiero solo per un istante, prima di farsi più in là rotolando poi sulla schiena, lo sguardo rivolto al soffitto. 

Non si era mai ritenuto un tipo particolarmente empatico o bravo a percepire i segnali, ma tuttavia aveva l’impressione che forse lei non si sarebbe allontanata se lui avesse tentato di baciarla. E questo era strano dato che da un bel po’ di tempo Percy Weasley si riteneva piuttosto repellente.

Ho una ragazza. C’è una guerra. Audrey è una babbana. 

Questo era ciò che si stava ripetendo nella sua testa. 

Non importava se lei provasse o meno qualcosa per lui, non importava nemmeno ciò che lui provava per lei. Doveva mettere un freno, disegnare dei confini, altrimenti la situazione sarebbe di sicuro degenerata. 

Se qualcuno al Ministero l’avesse scoperto… se qualcuno fosse venuto a conoscenza del fatto che l’assistente del Ministro era invischiato in qualcosa con una babbana probabilmente nessuno dei due avrebbe avuto scampo. 

- Questa non è una buona idea. - Asserì duramente, prima di muoversi per accendere nuovamente la lampada appoggiata sul comodino, illuminando la stanza. 

Audrey fece una faccia perplessa, cosa che lo spinse a proseguire prima che lei potesse aprir bocca: 

- Tu sei molto attraente e io sono davvero lusingato, ma temo che tu abbia frainteso scambiando la nostra amicizia per qualcos’altro. - Disse. - Noi due siamo solo amici, non possiamo dormire insieme o baciarci… o altro. E poi tu… tu sei una babbana. - Aggiunse, e alle orecchie di lei quello suonò quasi come un insulto. 

Audrey lo fissò come se non avesse capito nemmeno una delle parole pronunciate da lui, poi schiuse la bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò e scosse la testa. Si alzò dal letto senza dire niente, raggiunse la porta e poi si voltò verso di lui. 

- Vado a dormire. - Disse in tutta tranquillità. 

Cosa? Tutto qui? Si chiese Percy, sorpreso. Be’, meglio così.

- Se vuoi possiamo parla… - 

- No. - Lo interruppe lei. - Non sprecare il fiato per una semplice babbana, Weasley. È già tutto abbastanza umiliante così, senza che tu ci metta bocca. - 

Percy sentì il suo cuore stringersi dolorosamente nel petto e poi anche lui si alzò dal letto. - Lo sai benissimo che non intendevo dire questo. - Disse, facendo un timido passo nella direzione di lei.

- Non importa. - 

- Ascoltami… non voglio che pensi che… - 

- Non importa. - Ripeté gelidamente Audrey, prima di spalancare la porta. 

Non gli diede il tempo di aggiungere altro che varcò la soglia, sparendo al di là di essa. 

Con l’orgoglio ferito e sorreggendo una montagna di imbarazzo sulle spalle, Audrey tornò in camera sua.




 

Per chi si aspettava la storia d’amore in cui i due si mettono insieme dopo tre capitoli… lo so, vi ho delusi. A mia discolpa posso ricordarvi che sto scrivendo senza un piano, lasciando fare tutto ai personaggi e ahimé hanno deciso questo. 

Percy ha la capacità di gestire i rapporti umani uguale a quella di un piattino da tè, mentre Audrey sta incasinata persa, povera stella, quindi diciamo che ce ne vorrà di tempo e di dramma. 

Vabbé, non ho nient’altro da dire, vi risparmio altre divagazioni cringe, anche se le adoro (in realtà scrivo fan fiction per queste note).

Alla prossima, 

J.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11. La bussola ***


 

Tw: violenza, sangue, cose brutte ma ahimé necessarie. 

 

Capitolo 11


Dopo le vacanze di Natale il tempo iniziò a scorrere molto più lentamente, in un incessante susseguirsi di giornate grigie e innevate. Il 1998 arrivò portandosi dietro una bella bufera di neve: Audrey passò il capodanno a casa con nonna Harriette, nonna Constance, suo padre e lo zio e, qualche settimana dopo, Jude ripartì per il New Jersey. Elijah decise invece di rimanere a Londra: troppo preoccupato per l’aria che si respirava nel mondo magico per riuscire a lasciare la casa di famiglia senza preoccupazioni, si sistemò nella stanza che durante le feste era stata occupata da Percy. 

Da quando Audrey aveva scoperto la verità, tutti in quella casa avevano preso l’abitudine di fare incantesimi senza timore. Nonna Harriette si occupava di pulire la casa imponendo semplicemente le mani, mentre Elijah di tanto in tanto si chiudeva nel suo van a fare esperimenti sulla magia, lamentandosi di quanto gli mancasse il suo lavoro di ricerca all’Ufficio Misteri. 

Insospettito da strane presenze che aveva notato aggirarsi non troppo distanti da lì, il mago circondò la casa di incantesimi di protezione e diede ad Audrey una bussola ammaccata che aveva incantato per far si che le fornisse una via di fuga in caso di pericolo. 

- Tienila sempre con te: ti porterà esattamente dove devi andare. - Le aveva detto. 

Audrey era certa che suo zio fosse un po’ paranoico. Dopotutto cosa potevano volere i Mangiamorte da loro? 

Comunque non le dispiaceva avere sempre un passaggio, visto che Elijah non se la sentiva affatto di mandarla in giro da sola. 

Di tanto in tanto, capitava che Audrey sentisse sua nonna litigare con suo zio nel silenzio sonnacchioso della notte. Lei accusava il figlio di non mantenere un basso profilo, di metterli tutti in pericolo, che doveva smettere di fare ciò che faceva (qualsiasi cosa stesse facendo), e lui di rimando diceva che non poteva far finta di niente, che lì erano al sicuro, che nessuno avrebbe mai fatto loro del male e che, se proprio aveva paura, poteva raggiungere Jude in America. 

Una notte di metà gennaio, Elijah tornò a casa portando con sé un uomo ferito, chiedendo a sua madre di aiutarlo. Harriette allora aveva esitato e inveito contro il figlio, ma poi aveva trasformato la vecchia stanza di Jude, al piano di sopra, in una sorta di pronto soccorso. Iniziò in questo modo a capitare sempre più spesso di ritrovarsi degli sconosciuti e malridotti maghi in casa, cosa che portò Audrey in contatto con cose strabilianti: Harriette sapeva rimarginare ferite, curare infezioni, alleviare qualsiasi tipo di dolore; univa la medicina magica con quella babbana imparata durante i suoi anni da semplice infermiera e sempre, tutte le volte, rimetteva in forze il paziente di turno. 

Di tanto in tanto Audrey la aiutava nelle procedure più semplici che non implicavano l’uso della magia e, davanti ai racconti terribili di chi passava in quella casa, la giovane si rese conto di essere la persona meno coraggiosa di questo mondo: l’idea di andarsene, di raggiungere suo padre dall’altra parte del mondo, la sfiorava ogni volta in cui qualcuno arrivava ferito e spaventato a casa sua. 

Tuttavia c’era qualcosa di più forte dell’attaccamento alla vita a tenerla ancora lì in Gran Bretagna, anche se il mondo sembrava essere completamente impazzito: Lucy. 

Non poteva di certo lasciarla lì e mettersi in salvo senza di lei, che sembrava non avere nessuna intenzione di abbandonare Hogwarts e i suoi amici al loro destino. 

Durante quei giorni folli, Audrey decise che suo zio si sarebbe occupato delle lettere tra lei e sua sorella al posto di Percy, così da poterlo evitare come una brutta variante di spruzzolosi capace di colpire anche i babbani.  

Certo, la corrispondenza era meno fitta, ma ad Audrey andava bene così: avrebbe fatto di tutto per tenersi ben lontana da Percy e soprattutto dall’imbarazzo che provava ogni volta che si incontravano. 

Tra loro sembrava essersi alzato un vistosissimo muro di ghiaccio che li spingeva a comportarsi come due perfetti sconosciuti l’uno con l'altra ma, nonostante ciò, Percy continuava a passare al Bistrot in cui la ragazza lavorava molto più spesso di quanto fosse sopportabile. 

- Sono qui solo per assicurarmi che tu non sia in pericolo e per portarti qualche novità dal mondo magico. - Era questa la versione ufficiale che lui forniva ogni qualvolta in cui lei gli chiedeva con irritazione cosa ci facesse lì. 

Ma la verità era che lei gli mancava. 

Gli mancava, ma non come gli mancava Penelope, non come un’abitudine.

C’era qualcosa di più, qualcosa che non si riusciva a spiegare che lo spingeva sempre lì, che gli faceva venire voglia di raccontare a lei e solo a lei ciò che gli capitava durante la giornata. 

Lei però di rimando era un pezzo di ghiaccio, un po’ come se fosse tornata ad essere quella ragazzina diffidente che aveva incontrato mesi prima. 

Con l’arrivo di febbraio il tempo migliorò: la neve scomparve pian piano dalle strade ma il cielo rimase grigio.

Un giorno Percy uscì di casa e si rese conto che tutte le vetrine dei negozi lungo la strada su cui abitava erano state addobbate da cuori, fiori e piccoli cupidi. Stava arrivando il giorno di San Valentino, ma di buono c’era il fatto che almeno al Ministero non ci sarebbe stata quell’aria melensa quell’anno. 

Tuttavia, quando mise piede in ufficio, la mattina del 14 febbraio, dovette ricredersi. Sembrava infatti che il Ministro avesse una passione ben poco segreta per la festa degli innamorati, cosa che aveva lasciato una grande libertà di festeggiare a tutti gli impiegati. 

Dei piccoli putti incantati, simili a fatine, si aggiravano per i corridoi del Ministero cozzando malamente con l’aria pesante dei tempi di guerra che si respirava da mesi da quelle parti, c’era chi si scambiava dolci e fiori, qualche stendardo tutt’altro che sobrio era apparso qua e là. 

Candace Fernsby, una giovane dipendente dell’ufficio Applicazione delle Leggi Magiche che Percy aveva conosciuto ai tempi del signor Crouch — e che aveva inspiegabilmente una cotta per lui — gli fece trovare come tutti gli anni una scatola di ottimi cioccolatini sulla scrivania, accompagnata da un bigliettino che si mise a cantare una canzone di Celestina Warbeck nonappena Percy lo aprì. 

Poco prima di mezzogiorno, il Ministro si era affacciato nell’ufficio del suo giovane assistente e gli aveva ordinato di andare a comprare al posto suo dei fiori per la moglie, cosa che aveva scioccato Percy: se uno come O'Tusoe si era sposato allora c’era speranza proprio per tutti. 

- Oh Godric… - Mugugnò Katie Bell, quel giorno durante la pausa pranzo, seduta insieme a Percy a uno dei tavoli della caffetteria gestita da elfi del Ministero. - Vorresti dirmi che c’è una donna a questo mondo che trova il Ministro… desiderabile? - 

- Ha detto “moglie”, quindi direi proprio di sì. - Annuì Percy, fissando con contrarietà l’insalata di pollo che aveva sul piatto. 

- Assurdo. - 

- Già… hanno anche una prenotazione in quel nuovo ristorante a Diagon Alley… quello su quella terrazza. - 

Prima di iniziare a collaborare con lei e Oliver per mettere in salvo più persone possibili da Azkaban, Percy non aveva stretto nessun significativo rapporto con gli altri dipendenti del Ministero. Si era ritrovato parecchie volte in quella caffetteria da solo, sperando con tutto il cuore di non vedere entrare suo padre, a consumare un miserevole pasto prima di tornare a lavoro. Ora invece… be’, Percy doveva ammetterlo: era bello avere una amica lì con lui. 

- Tu e Oliver avete programmi per stasera? - Le domandò. 

Katie fece un verso a metà tra lo sprezzante e il divertito, poi strinse la tazza che aveva davanti tra le mani. - Lo conosci, l’amico tuo… - Buttò lì, e poi sorrise e aggiunse: - Non è mica un tipo romantico come il Ministro. - 

Percy rabbrividì e Katie rise.

- Anche i più insospettabili vengono amati e fanno sesso. - Disse divertita. - Chissà se anche Tu-Sai-Chi… - 

Percy sgranò gli occhi e si guardò attorno. Parlare male dell’Oscuro Signore o prenderlo in giro in un luogo pubblico non era affatto una buona idea. - Abbassa la voce! - 

- Scusa, scusa… - Fece lei. - Tu cosa farai stasera? - 

- Lavoro fino alle sette, poi tornerò a casa. - Rispose Percy, perdendo lo sguardo verso il bancone posto sul lato destro del locale, dietro cui c’erano una schiera di elfi che si davano da fare. - Forse vado a vedere come sta Audrey, non la vedo da giorni. - 

La strega sogghignò, come accadeva tutte le volte in cui lo sentiva pronunciare quel nome. Era sempre così: ogni qualvolta in cui Percy parlava di lei, Katie e Oliver lo guardavano come due ragazzini delle scuole medie osservano il loro compagno di classe cotto della ragazzina più carina della scuola. 

- Hai pensato di prendere dei fiori anche per lei? Magari così vi riappacificate. - Suggerì Katie. - Insomma, sei stato un po’ stronzo… -

Percy borbottò un rapido “no”, afferrò la forchetta a lato del piatto e smosse un po’ l’insalata di pollo senza aggiungere altro. 

Katie sbuffò. - La cosa davvero deprimente è che a te lei piace. - Asserì. 

- Anche se fosse non potrei farci niente. - Ribadì Percy. - Io sono impegnato con un’altra donna e lei è una babbana. - 

- Anche mia madre era babbana. - 

- A quei tempi non c’era una guerra. - 

- Erano gli anni ‘70, sì che c’era una guerra. - Obiettò Katie. 

- Ma Tu-Sai-Chi non stava vincendo. - Ribatté freddamente Percy. - Sono arrivati al Ministero, comandano loro adesso, non posso rischiare la vita perché mi sono preso una cotta. Potrebbero uccidermi o ucciderla, in ogni caso non ci sarebbe alcun futuro. - 

- Quindi lo ammetti! - Esclamò Katie. 

- Che cosa? - 

- Che provi qualcosa per lei! - 

Percy le scoccò uno sguardo torvo. - Provo per lei una innegabile simpatia. - Disse. - È molto bella, decisamente interessante e di certo mi sento attratto da lei, tuttavia posso dire con certezza che non c’è altro che questo: una semplice attrazione fisica condita con del rispetto reciproco. - 

- D’accordo, lo prendo come un sì. -

Percy si lamentò sommessamente e decise di dargliela vinta: - Fa’ come vuoi, Bell… - Disse, seppur un po’ infastidito. - Ma ora parliamo di cose serie: come va al Dipartimento delle Catastrofi e degli Incidenti Magici? - 

Katie scrollò le spalle. - I babbani stanno capendo che c’è qualcosa che non va. - Rispose a bassa voce, guardandosi fugacemente intorno. - Il lupo mannaro… quel Greyback… sta facendo parecchi danni in giro. La storiella dell’orso non regge: dove l’hai mai visto un animale selvatico che attacca solo ragazze babbane? - 

- Be’, ha anche attaccato un paio di bambini, mi pare. - 

- In quel caso era più un’arma da sguinzagliare contro chi non era proprio d’accordo con loro. - Spiegò Katie, facendo uno sguardo eloquente. - Comunque gli obliviatori non sanno più dove mettersi le mani, è come se ci fossimo svelati, ormai. - 

Percy sospirò e basta. Si guardò attorno, cercando di allontanarsi dai soliti pensieri catastrofisti in cui tendeva a cadere da ormai parecchio tempo, osservando anche in caffetteria gli effetti di San Valentino. 

Per l’occasione, gli elfi avevano indosso delle divise dipinte di rosa, sulle pareti c’erano stendardi fatti di cuori di cartoncino e in molti erano seduti in coppia a quei tavoli. E pensare che una volta quella festa gli sarebbe anche piaciuta: era l’ennesima occasione per dimostrare a Penny quanto fosse perfetto come fidanzato. Le prendeva dei fiori, la portava a cena fuori e le regalava qualcosa; seguiva la procedura alla lettera e lei sembrava contenta tutte le volte, anche se le cose si ripetevano uguali di anno in anno. 

La nostalgia lo colpì, ma non nostalgia di lei — cosa che lo lasciò un po’ di stucco. 

Percy sentiva la mancanza di tempi in cui il suo unico problema era cercare di essere perfetto per Penny, essere un bravo studente e un buon prefetto a Hogwarts, tempi in cui sopravvivere era scontato e banale. Sembravano passati cent’anni dall’ultima volta in cui si era messo a dormire senza avere paura di ricevere cattive notizie il giorno seguente. 

Dopo un altro sospirò, Percy si alzò in piedi. - Devo andare a cercare un fioraio, adesso. Pare ce ne sia uno ben fornito a Diagon Alley. - Disse cupamente. 

- Il duro lavoro dell’assistente del Ministro. - Ridacchiò Katie. 

- Fosse sempre così allora di notte non avrei più incubi; direi che non posso proprio lamentarmi. - 

- Prendi dei fiori anche per Audrey! - Esclamò lei, mentre il giovane stava per andarsene. 

- Non ci penso nemmeno! - 

Quando arrivò a Diagon Alley, Percy si rese conto che la stradina storta e acciottolata era molto diversa dal luogo brulicante che aveva frequentato fin da bambino. Moltissimi negozi erano sprangati, ma dalla sua ultima visita, qualche settimana prima, ne erano stati aperti di nuovi dedicati alle Arti Oscure. Anche quello di Fred e George, che solitamente era ben visibile in mezzo a tutto quel grigiore, sembrava aver chiuso i battenti. 

Nei vani delle porte erano rannicchiate persone coperte di stracci. Percy le sentì sussurrare nella direzione dei pochi passanti, elemosinando denaro o insistendo di essere veri maghi. 

In nessun angolo di Diagon Alley sembrava esserci traccia di addobbi, cuoricini o atmosfera festosa, — a differenza della città che si era lasciato alle sue spalle entrando nel Paiolo Magico, — tranne che in un piccolo chiosco di fiori accanto al negozio che una volta si occupava di articoli per il quidditch, ormai chiuso. 

Percy si avvicinò, sfilando per la strada tentando di ignorare i mendicanti, e una volta lì si ritrovò davanti ad una donna anziana che aveva tutta l’aria di una che, ai suoi tempi, doveva essere stata bellissima. Lei lo scrutò con grossi occhi azzurri dalle palpebre un po’ cadenti e poi domandò: - Serve aiuto? - 

- Devo comprare dei fiori. - Rispose subito Percy. Non aveva nessuna intenzione di rimanere a Diagon Alley più di quanto non fosse necessario. 

- Sono per la tua fidanzata? - Chiese allora la vecchia. 

- Per la moglie del mio capo. - 

- Non abbiamo una scelta molto vasta quest’oggi, giovane. - Lo avvertì lei, facendo un cenno alle sue spalle, verso l’interno del chiosco che, in effetti, si presentò piuttosto spoglio. - Abbiamo solo queste rose dalle spine avvelenate, ideali da regalare ai propri nemici, qualche bell’esemplare di piante carnivore, aconito… e delle peonie rosa. - 

Percy aggrottò la fronte, guardando la vecchia strega come per chiederle pietà. - Delle peonie, ha detto? - Si accertò, lugubre. 

- Peonie rosa, sì, giovane. - 

Percy annuì. 

Forse l’universo gli stava dicendo qualcosa. 

- Vada per le peonie. Due mazzi, per favore. - 

- Per la moglie del suo capo e per la sua fidanzata? - 

Percy sospirò. - Sì, be’... una cosa del genere. - Buttò lì.

 

.

 

Audrey Manning non era una persona romantica, almeno non lo era alla luce del sole. In verità aveva un’alta considerazione dell’amore e forse per questo le sue relazioni non riuscivano a durare più di qualche settimana. Audrey era del parere che, se proprio doveva esporsi mostrando a qualcuno quei tanti decantati sentimenti, doveva perlomeno essere per una persona speciale, che ne valesse la pena. 

Doveva essere con qualcuno di meglio del suo primo fidanzato, che trovava sua madre molto più attraente di lei, doveva essere meglio del ragazzo del campeggio con cui era andata a letto la prima volta, che si era lamentato tutto il tempo dandole del “pezzo di legno” e che il mattino seguente le aveva dato una pacca sulla spalla per poi sparire nel nulla. Doveva essere meglio anche di quel tale con cui era uscita per tre volte lo scorso anno, che parlava solo di sé stesso e che l’aveva definita “esotica”, pronunciando quella semplice parola con tutta la viscidità del mondo. 

Doveva invece essere per qualcuno che si sarebbe messo a cantare il suo nome per le strade deserte di una New York addormentata come aveva fatto Tony per Maria in West Side Story, doveva essere per qualcuno capace di rivolgerle parole appassionate come Mr Darcy aveva fatto con Elizabeth Bennet e… d’accordo: Audrey Manning era una persona romantica, orribilmente romantica, solo che non lo era alla luce del sole. 

Detestava mostrare affetto in pubblico e faticava a mettere in fila le parole “ti voglio bene” anche quando doveva rivolgerle a qualcuno con cui non aveva un legame romantico. Ovviamente la festa di San Valentino la faceva sentire in imbarazzo, tuttavia — forse per colpa dell’atmosfera creata dalla musica italiana in sottofondo — trovava quasi tenere quelle coppie che ogni anno affollavano il Bistrot Viva Verdi per il 14 febbraio. 

- Mangiare italiano il giorno di San Valentino non mi sembra proprio afrodisiaco, non credete? - Disse, mentre lasciava finalmente il bistrot a fine serata. 

- Sicuramente più afrodisiaco del purè e delle vostre salsicce. - Commentò Tony, il figlio del proprietario, mentre chiudeva a chiave il locale, infagottato in un piumino di un rosso fiammante, il cappellino di lana che nascondeva l’ordinata chioma castana come i suoi occhi e un paio di guanti dello stesso tessuto a proteggergli le mani dal freddo.

- Audrey non ha tutti i torti. - Fece Anne, al fianco dell’amica, coprendosi il naso e la bocca con la lunga sciarpa azzurra che stava indossando, lasciando scoperti solo quei suoi grandi occhi da bambola di porcellana. - Nessuno con un apparato digerente sano avrebbe le forze di spogliarsi dopo aver mangiato una pizza. - 

- E poi è così banale andare a cena fuori a San Valentino. - Aggiunse Audrey. 

Tony annuì. - È vero. Io infatti avrei cucinato per te, con le mie mani. - Disse.

Audrey fece un sorrisetto imbarazzato, annuendo e scuotendo la testa insieme.

Da quando Percy l’aveva rifiutata ancora prima che lei potesse effettivamente farsi avanti, — dandogli della babbana come se fosse un insulto, per giunta — le avance di Tony avevano iniziato a sembrare meno fastidiose del solito. 

Insomma, si trattava pur sempre di un bel ragazzo, un bel ragazzo che aveva una cotta per lei, proprio per lei. Doveva pur voler dire qualcosa, no? Certo, Tony aveva la sveltezza mentale di un cetriolo di mare e il carisma di un cucchiaino da tè, ma Audrey aveva deciso che nulla di tutto questo fosse poi così importante. 

- Sei proprio patetico… - Mugugnò Anne, alzando gli occhi al cielo. 

- Poverino, lascialo stare… - Fece Audrey, guardando il ragazzo con insolita dolcezza. 

Tony scoccò ad Anne una faccia vittoriosa e lei, in tutta risposta, guardò l’amica con uno sguardo perplesso. - Sono preoccupata per te. - Dichiarò, seria. 

Audrey scrollò le spalle con nonchalance e non rispose. 

Faceva piuttosto freddo quella notte, c’era la nebbia e una gelida brezza stava soffiando fastidiosamente sul suo volto. Stringendosi nel suo cappotto di lana cotta giallo, Audrey si guardò attorno, sorpresa di non vedere suo zio Elijah aspettarla a pochi passi da lì, come accadeva tutte le sere da ormai parecchie settimane. 

Era piuttosto tardi, magari si era addormentato e adesso le toccava tornare da sola a piedi, pensò scocciata, ignorando quella punta di preoccupazione che aveva iniziato a farsi notare all’altezza dello stomaco.

- Hai bisogno di un passaggio, Audrey? - Le domandò Tony, mostrando le chiavi della sua auto parcheggiata dall’altra parte della strada. 

Audrey scosse la testa. - Faccio una passeggiata, non preoccuparti. - 

- Facciamo un pezzo di strada insieme, come ai vecchi tempi. - Disse Anne, prendendola sotto braccio. 

Le due ragazze salutarono Tony alla svelta e si incamminarono verso la stazione della metropolitana. 

- Comunque dicevo sul serio prima. - Asserì Anne, dopo qualche attimo di silenzio. 

Audrey aggrottò la fronte e si voltò a guardarla. - A cosa ti riferisci? - 

- Al fatto che sono un po’ preoccupata per te. - Spiegò l’amica. 

- Solo perché mi comporto in modo gentile con una persona? - 

- No, non per questo. - Rispose Anne. - Ti comporti in modo strano in generale, sei un po’ sfuggente, ora che mi ci fai pensare. Solitamente a San Valentino dormivo a casa tua, passavamo la notte a guardare commedie romantiche... - 

- Non posso fare come voglio a casa di nonna, lo sai quanto è severa. - Si giustificò Audrey. E poi c’è il rischio che mio zio compaia dal nulla portandosi dietro qualche mago o qualche strega ferita, proseguì tra sé e sé. - Il prossimo anno organizziamo qualcosa, magari vengo io da te. -

Anne mugugnò scontenta. - Non mi stai nascondendo qualcosa, vero? - Domandò poi. 

Audrey sentì il suo cuore stringersi nel petto. Odiava mentire proprio ad Anne, che di lei conosceva tutto. - Cosa mai potrei nasconderti? - 

- Non lo so. Magari tua nonna fa parte della mafia ghanese. - 

Audrey fece una faccia perplessa e poi rise di gusto. - C0s’è, la versione farlocca della mafia nigeriana? - Domandò ironicamente. 

L’altra però rimase seria. - Audrey, avanti… - Sospirò.

- Mia nonna può far parte della mafia, secondo te? È una signora di mezza età che cucina e rassetta tutto il giorno! - 

- Be’ comunque c’è qualcosa che non mi dici; almeno questo potresti ammetterlo. - 

Audrey sbuffò, si fermò e incrociò le braccia sul petto. Erano arrivate in cima alle scale della stazione della metropolitana. 

- Non mi crederesti mai, Anne, se te ne parlassi. - Disse.

- Mettimi alla prova. - La spronò lei.

La giovane scosse la testa. - Non posso. - Ribatté, guardando la sua migliore amica negli occhi. - Non posso raccontarti niente se non so come dimostrarlo, ma un giorno lo farò, te lo prometto. Fidati di me. - 

- C’entra Percy, non è vero? - Insinuò Anne. - Da quanto è apparso dal nulla è successo qualcosa.  - 

- Lui c’entra solo in parte. - 

- Sì ma… tua nonna è severa ma tuttavia l’ha fatto dormire a casa vostra per una settimana. È strano. - 

- Te l’ho detto: ha avuto un piccolo incidente. - 

- Audrey, quello lì ha qualcosa di strano. - Asserì Anne, decisa. - All’inizio mi piaceva, ma poi… non lo so. Sembra totalmente di un altro mondo, come se venisse da un’altra epoca. Io credo che faccia parte di una setta o roba del genere. - 

Audrey alzò gli occhi al cielo e sbuffò. - È un amico di Lucy, andava a scuola con lei. - Spiegò.

- Be’, anche questa sorta di collegio scozzese che frequenta tua sorella è un po’ strano, non trovi? Insomma… tua madre che la iscrive in una scuola privata? Ti ricordi la nostra, non è vero? Non avevamo nemmeno le porte in bagno. - 

- Mia madre ha sempre preferito Lucy a me. - Ribadì Audrey. - Non c’è nessuna setta. - 

Anne, seppur contrariata, annuì. - Lo sai che in caso di bisogno puoi venire a stare da me, vero? - Le disse, seria. 

- Mi mancherebbe troppo la carne di maiale e i cheesburger. - Disse Audrey, facendo un sorriso pur di rassicurarla. - Nulla contro la cucina kosher, ovviamente, ma una vita senza bacon è una vita che non potrei fronteggiare. - 

Anne aggrottò la fronte e la guardò male prima di incrociare le braccia al petto. 

- Anne, va tutto bene, dico davvero. - Riprese Audrey. - Fidati di me, lo sai che sono una persona responsabile. - 

- Mh-mh. - Fece Anne, per poi sospirare. - Be’, almeno chiamami quando arrivi a casa. - Aggiunse.

- Ma sveglierei i tuoi. - 

- Chiamami lo stesso. -

Audrey sorrise. - D’accordo. - Acconsentì. - Ci vediamo domani sera. - 

- Sì. ‘Sta attenta… -

Dopo un brevissimo viaggio di due fermate in compagnia di un barbone ubriaco, molesto ma piuttosto innocuo, Audrey lasciò la metropolitana per dirigersi finalmente verso casa. Con le mani infilate nelle tasche del cappotto per proteggerle dal freddo, si rese conto che quella sera non aveva con sé la bussola incantata che Elijah le aveva affidato. Probabilmente, se suo zio lo avesse saputo, le avrebbe fatto una ramanzina infinita sui pericoli di quei tempi bui, cercando di spaventarla per renderla più attenta. 

Le strade erano deserte, il silenzio la avvolgeva come una pesante coperta opprimente e quando Audrey si ritrovò finalmente davanti alla villetta tirò un sospiro di sollievo. Di solito non aveva paura della notte, ma in quel momento si sentiva stranamente tesa. Voleva lasciare quella strada al più presto, chiudersi la porta alle spalle e gustare la sensazione di essere al sicuro. 

Attraversò il vialetto, raggiunse il portico e, quando fu abbastanza vicina, un brivido la colse quando si rese conto che la porta era accostata anziché chiusa come sarebbe dovuta essere in piena notte. 

Audrey rimase ferma per una manciata di secondi, incerta sul da farsi. Magari sua nonna l’aveva dimenticata aperta, magari Elijah non l’aveva chiusa facendo avanti e indietro dal van parcheggiato sulla strada… o magari c’era qualcuno in casa, forse dei ladri oppure… oppure dei Mangiamorte.

Con lo stomaco attorcigliato e le mani tremanti, Audrey entrò in casa cercando di non fare rumore, ritrovandosi in un corridoio messo totalmente a soqquadro. Si incamminò verso la sala da pranzo dove udì delle voci sconosciute, lamenti strazianti, delle suppliche… 

- Vi prego… ho dell’oro… moltissimo oro… vi prego… - Stava tentando di dire Elijah, con un tono che Audrey non gli aveva mai sentito usare. 

Poi qualcuno pronunciò una parola che lei non capì e suo zio urlò come se lo stessero spellando vivo. 

Audrey si portò una mano alla bocca e si bloccò nel bel mezzo del corridoio, incapace di muoversi o urlare a sua volta, la testa completamente svuotata dal terrore. 

- Non ce ne facciamo niente dell’oro, traditore. - Disse una voce gelida. Ci fu un colpo seguito da un urlo di dolore e poi la stessa voce aggiunse: - Vogliamo informazioni, solo informazioni. - 

- Io non… non so niente! - Supplicò Elijah. 

- Ma davvero? - Disse una seconda voce, calma e quasi divertita. - Eppure sei un noto traditore del proprio sangue, magari collabori con l’Ordine della Fenice e di certo qui avete messo su un bell’ospedale... avete ospitato parecchi ricercati ma forse, se mi dici tutto ciò che sai, potrei mettere una buona parola facendoti risparmiare un bel soggiorno ad Azkaban. - 

Elijah singhiozzò e non rispose. Poi qualcuno gridò di nuovo una formula e il ragazzo strillò ancora, proprio come poco prima. 

Accadde tutto troppo in fretta: due mani sconosciute presero Audrey da dietro e la tirarono su come una bambola di pezza. Audrey urlò e scalciò, ma ogni suo sforzo fu inutile vista la mole dell'uomo che l’aveva afferrata. 

- Guarda un po’ cosa ho trovato… - Disse tra sé e sé, costringendola a voltarsi.

Audrey spalancò gli occhi, incrociando quelli scuri e spaventosi di lui, che era un uomo dai capelli grigi, arruffati e sporchi, che emanava un odore di sudore e sangue, sostanza che in effetti sporcava la sua bocca e il suo mento come se avesse appena azzannato un animale alla gola. 

La trascinò di peso verso la sala da pranzo dove Audrey, tremante e rigida dalla paura, si ritrovò davanti altri due uomini vestiti di nero che tenevano sotto torchio suo zio, in ginocchio e ricoperto di sangue come se fosse stato brutalmente malmenato, mentre nonna Harriette era riversa a terra in una pozza di denso liquido rosso e viscere. Constance, qualche metro più in là, era svenuta, o forse morta anche lei, ai piedi del divano. 

- Audrey… - Mormorò Elijah, guardandola con terrore. - No, no, no…! Per favore! Lei è solo una babbana, lei non… non… vi prego… no! Lasciatela stare! - 

- Ah, ma certo. - Fece uno dei due uomini vestiti di nero, biondo e grosso, dal viso rotondo e il mento sfuggente, guardando Audrey con un sorrisetto che gli piegava le labbra sottili. - Certo… la nipotina babbana con la sorella sanguemarcio. - Proseguì, per poi alzare gli occhi sull’uomo che teneva ferma la giovane. - Scommetto che il nostro Fenrir qui non vede l’ora di occuparsene, vero, Greyback? -

- Come potrei rifiutare, Rowle? - Ghignò Greyback, accarezzando i capelli di Audrey come se si trattasse del pelo di un animaletto. - Così graziosa… -

- Lasciala stare! Non toccarla! - Elijah urlò dalla rabbia e si alzò in piedi, pronto a scattare verso il lupo mannaro, ma venne fermato dagli altri due, che lo buttarono a terra nuovamente. - Audrey… Audrey, ascolta… guardami… - 

Ma lei non lo guardava né tantomeno riusciva ad ascoltare ciò che lo zio aveva da dire in quel momento. La sua attenzione e il suo sguardo vacuo erano rivolti verso il corpo di Harriette a terra, a pochi passi da dove si trovava lei in quel momento. Vedeva il sangue, ne sentiva l’odore nauseante, percepiva le suppliche di Elijah e i discorsi di quei tre sconosciuti che erano entrati in casa sua quella notte e che avevano ucciso sua nonna profanando il suo corpo come se si trattasse di un mero oggetto, ma sentiva le loro voci ovattate, lontane. Gli sembrava tutto così irreale, lei si sentiva irreale, persa…

- Vuoi vedere più da vicino come ho squartato il corpo della tua cara nonnina, mmh? - Sussurrò Greyback alle sue spalle, spingendola verso ciò che rimaneva di Harriette. 

La costrinse a inginocchiarsi accanto al cadavere di sua nonna, che aveva gli occhi aperti e vitrei rivolti al soffitto, e lì Audrey si sporcò le mani e gli abiti di sangue come se fosse il suo o come se fosse stata lei ad ucciderla. 

- No… - Mormorò con voce spezzata.

Le prese la mano, la strinse e solo allora si lasciò scappare un disperato singhiozzo. 

- Ecco, guarda. L’ho attaccata alla gola e poi l’ho aperta dal collo in giù come la vecchia vacca che era. - Spiegò Greyback, scoprendo i denti appuntiti e luridi in un sorrisetto sgradevole. - Tranquilla… con te sarò più clemente, se fai la brava. - 

Audrey singhiozzò ancora e poi le prime lacrime sfuggirono dai suoi occhi, rigandole le guance. - No… - Ripeté, continuando a stringere la mano di nonna Harriette. - Per favore… -

Intanto, alle sue spalle, Elijah continuava a gridare il suo nome: - Audrey… - La supplicava, fuori di sé. - Audrey… Audrey, ascolta… - 

L’altro mangiamorte, più basso di quello di nome Rowle ma con una lunga faccia storta, colpì il giovane con una fattura, facendolo gemere di dolore. 

- Grazie, Dolohov. - Disse Rowle, con rilassatezza. - Stava cominciando a diventare fastidioso. -

Dolohov fece un grugnito d’assenso. - Quelli della sua razza lo sono sempre. - 

- Già, sono come animali. - Ghignò Rowle, per poi avvicinarsi a Elijah, ancora dolorante a terra. - Portiamo questo sporco traditore ad Azkaban. - 

- Della vecchia veggente che ne facciamo? - Domandò Dolohov guardando Constance, ancora sdraiata vicino al divano.

- Controlla che sia viva, in tal caso la portiamo con noi: l’Oscuro Signore la sfrutterà in qualche modo. -

Il Mangiamorte attraversò la sala da pranzo e smosse Constance senza delicatezza, usando la punta del piede contro la faccia della strega. - Direi che è andata. - Sentenziò. 

Audrey sussultò a quelle parole e si voltò, riuscendo a scorgere il volto affranto di suo zio. Aveva uno zigomo tumefatto, il labbro inferiore spaccato e gli usciva sangue dal naso e dalla fronte, era fragile e indifeso come lei non si sarebbe mai potuta immaginare di vederlo: il ragazzo allegro e sempre rilassato che aveva conosciuto era stato spazzato via e ora al suo posto c’era un uomo con una maschera di dolore calata in volto. Quasi non sembrava lui.

Quella era la fine, Audrey lo sentiva nelle ossa. Sarebbe morta, sarebbero morti entrambi proprio come nonna Harriette e nonna Constance, quel mostro l’avrebbe mangiata mentre Elijah sarebbe morto ad Azkaban, solo e terrorizzato, seppellito sotto una tomba senza nome. 

Le labbra di suo zio si mossero mimando un silenzioso “scusa” prima che Rowle lo tirasse su di peso. 

Scusa per non averla protetta, scusa per non aver mantenuto un basso profilo come Harriette l’aveva supplicato di fare, scusa perché per colpa sua la famiglia era stata dimezzata. 

Che diamine aveva combinato…

- Tu occupati di questa qui. - Ordinò Rowle a Greyback, facendo un cenno annoiato verso Audrey. - Ci vediamo dai Malfoy a missione compiuta. - 

Greyback annuì distrattamente e si leccò le labbra quando posò gli occhi sulla ragazza.

- Audrey… - Fece disperatamente Elijah, mentre Rowle e Dolohov lo trascinavano verso l’uscita. - Audrey, lo sai quello che devi fare, vero? - 

- Sta zitto e cammina, traditore! - 

Quando Elijah e i due mangiamorte sparirono dalla vista di Audrey, accompagnati dal tipico suono di una smaterializzazione, in casa crollò il silenzio.

Audrey alzò gli occhi su Greyback, facendo i conti con il fatto che quella sarebbe stata probabilmente l’ultima faccia che avrebbe visto in questa vita. Pensò a Lucy, a suo padre e a sua madre, pensò ai sogni che non avrebbe mai realizzato e, infine, pensò a Percy. 

Questo sarebbe un ottimo momento per venirmi a salvare, Weasley, pensò tra sé e sé, quando il lupo mannaro si avvicinò, tirandola su, di nuovo in piedi. 

- Siamo rimasti soli, finalmente. - Fece l’uomo, alzando i lati della bocca in quello che doveva essere una mezza specie di sorriso che uscì fuori come una smorfia. 

Audrey non disse una parola ma guardò in basso: i suoi jeans, il suo cappotto giallo e le sue mani erano sporche del sangue di nonna Harriette, lo stesso sangue che macchiava il mento di quell’uomo che era la rappresentazione esatta di tutti i suoi incubi: le tornò in mente così tutto ciò che da bambina aveva dovuto subire, le mani del fidanzato di sua madre che la toccavano dove non avrebbero dovuto, tutte le volte in cui lui si era infilato nella sua stanza nonostante la presenza di Lucy, che dormiva in un letto accanto al suo. In quelle occasioni Audrey non si era mai difesa, mai, neppure una volta, semplicemente rimaneva lì e aspettava che passasse, che finisse: stavolta non sarebbe stato poi tanto diverso. 

Sarebbe finita anche stavolta, ma sarebbe finita per sempre. 

Fu questo pensiero a riscuoterla improvvisamente dal torpore provocato dal senso di irrealtà che l’aveva imprigionata da quando aveva messo piede in casa. 

Non voleva morire; il suo spirito di sopravvivenza era più forte della paura e della disperazione, più forte del disgusto di essere ricoperta di sangue, più forte della voglia di scappare via da quella realtà spaventosa per rifugiarsi in un angolo della sua mente, senza nemmeno provare a combattere. Ma se proprio doveva lasciare questo mondo, allora lo avrebbe fatto con dignità e presenza. 

Le sue gambe si mossero ancora prima di formulare un vero e proprio piano d’azione: si liberò dalla presa fortunatamente debole che Greyback stava esercitando sul suo braccio e corse disperatamente al piano di sopra. Raggiunse la sua camera da letto e si chiuse dentro a chiave, consapevole che al lupo mannaro sarebbe bastato un solo incantesimo per spalancare di nuovo quella soglia. E poi la vide, la salvezza. 

Abbandonata sulla scrivania affollata di libri e fogli, la bussola di Elijah sembrava brillare come se fosse fatta di diamante. Audrey la afferrò, sperando con tutta sé stessa che funzionasse, che la portasse esattamente dove doveva andare, proprio come aveva detto Elijah, ma nello stesso momento la porta si aprì con un cigolio sinistro. 

- Quindi giochiamo alla caccia. - Ringhiò Greyback, facendo uno svelto passo in avanti. 

Audrey sentì il suo cuore saltare un battito. La paura, l’adrenalina e una furiosa voglia di vivere le fece valutare l’idea di tentare l’impossibile saltando giù dalla finestra; magari sarebbe sopravvissuta, magari no, ma qualsiasi cosa sarebbe stata migliore di morire divorata nelle mani di quel mostro. 

Si ritrovò dolorosamente spinta con la faccia contro la scrivania. Greyback, alle sue spalle, le tolse il cappotto di dosso senza badare alle sue suppliche, le strinse forte una mano attorno al collo, affondando le unghie gialle e sporche nella sua carne fino a lasciarla senza fiato. Audrey chiuse gli occhi ricolmi di lacrime e si lasciò andare nella speranza che finisse presto, e poi qualcosa accadde.  

La bussola si illuminò, stretta in una delle sue mani, di un bagliore talmente forte che il lupo mannaro fece un passo indietro, allarmato. Audrey avvertì il pavimento mancarle sotto ai piedi e dopo una forza invisibile che la risucchiava come in un tubo molto stretto. 

Sentì i suoi polmoni svuotarsi come quella sera in cui Percy aveva fatto smaterializzare lei e Lucy a Hyde Park e infine cadde su una superficie dura. 

Le orecchie le fischiavano e ci mise qualche secondo per rendersi conto che si trovava all’aperto, sdraiata, gli occhi puntati al cielo notturno privo di stelle e circondata dalle voci e dai rumori della città. 

Forse ce l’aveva fatta.

Forse era in salvo. 



 

Due parole: che. fatica. 

Perdonate il ritardo ma sono stati giorni un po’ pesanti tra i miei soliti problemi di salute, stanchezza post pride (dopo cinque ore di parata “ballando” Paola e Chiara sotto al sole il mio corpo mi ha letteralmente abbandonata per l’intero giorno successivo) e impegni vari ci ho messo più del solito a scrivere e rileggere. 

In realtà ho scritto una versione di gran lunga più cruda di questo capitolo (cosa che mi ha rallentata un po’) ma poi mi sono ripetuta che è una fanfiction, non il copione di un film splatter quindi vi siete beccati la versione light. Comunque credo che alzerò il rating da giallo ad arancione per sicurezza. 

Grazie per aver letto fin qui e scusate se non ho ancora risposto alle precedenti recensioni (ho notato che ci sono nuovi lettori, che ne dite di farmi sapere cosa ne pensate della storia?)

Alla prossima, spero presto. 

J. 



 
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12. Esattamente dove doveva essere ***


Capitolo 12

 

L’aria gelida le riempì i polmoni e le fece lacrimare gli occhi. Senza il cappotto giallo a proteggerla dalle intemperie, Audrey sentiva freddo. 

- È comparsa dal nulla! All’improvviso! Lo giuro! - 

- È sangue quello? - 

- Qualcuno chiami la polizia e un’ambulanza… - 

- Riesci a capirmi? Parli la mia lingua? -

Se ne stava lì, ferma, sdraiata e tremante sull’asfalto al centro di un marciapiede, con la bussola ancora stretta in mano e circondata da decine di persone preoccupate; persone che quella sera avevano portato la propria metà a cena fuori decisamente senza aspettarsi di imbattersi in una ragazzina ricoperta di sangue e apparsa dal nulla. 

Con il terrore ancora negli occhi Audrey tentò di guardarsi intorno, scorgendo dei turisti, una fila di case color pastello, alcuni negozi e ristoranti.

Notting Hill. 

Percy.

Percy viveva non lontano da lì. 

La bussola l’aveva portata esattamente dove doveva essere

Esalò un faticoso respiro, iniziando a percepire di nuovo ogni parte del suo corpo, come se si stesse ricomponendo dopo essere andata in frantumi. Si sentiva senza forze, le faceva male la schiena e soprattutto la gola, dove erano comparsi dei vistosi segni rossi. 

Si mise seduta a fatica, lo sguardo di tutti ancora addosso e, quando un uomo dai capelli bianchi e la faccia cordiale allungò una mano verso di lei, si ritrasse allarmata. 

- No… - Disse flebile.

Era fuori di sé, fuori di sé dallo spavento, come se non riuscisse più a trattenere tutta la paura accumulata. Teneva quasi di esplodere, di disintegrarsi o di prendere fuoco, voleva urlare e allo stesso tempo sparire, evaporare, diventare niente. 

Forse sarebbe impazzita. Anzi, sarebbe impazzita di sicuro. 

Era un dolore troppo grande, quello, per essere sostenuto da una persona sola. 

Nonna Harriette era morta. 

Nonna Constance era morta. 

Elijah invece era stato portato via. 

E lei era sopravvissuta. 

Era sopravvissuta, era ancora viva. 

Qualcuno le mise una giacca di renna sulle spalle e Audrey sobbalzò. 

- Non… non t-toccatemi! - Tentò di dire scoppiando in lacrime. 

Si alzò, traballante e con le mani avanti, pronta a scattare se solo qualcuno le si fosse avvicinato ancora più del dovuto, mentre l’uomo dalla faccia cordiale si fece di nuovo avanti con cautela. - Sono un medico, posso aiutarti. - Le disse, allungando una mano nella sua direzione. - Sei ferita? -

Audrey piegò le labbra verso il basso e scosse la testa. Nessuno poteva aiutarla.

- Qualcuno chiami la polizia! - Si mise in mezzo una signora anziana, guardando Audrey con circospezione. 

- Ci penso io. - Disse un ragazzo, correndo verso il pub più vicino. 

La giovane si portò una mano alla gola e singhiozzò forte. Non riusciva a parlare senza provare dolore, di certo non aveva le forze per rispondere alle domande di qualche agente babbano che di sicuro l’avrebbe presa per pazza e magari trattenuta.

In fin dei conti cosa avrebbe potuto dire? “Oh salve, agente potenzialmente razzista! Le sembrerà incredibile, ma tre uomini seguaci di un mago oscuro sono entrati a casa mia e hanno dimezzato la mia famiglia! Uno di loro voleva addirittura mangiarmi!”

Audrey si fece spazio tra la folla incredula e poi corse, corse fino a farsi bruciare i polmoni, rotta e confusa, fino a che non raggiunse un vicolo deserto in cui, stremata, si lasciò scivolare contro il ruvido muro di un palazzo. 

Doveva concentrarsi, capire esattamente dove fosse e poi raggiungere casa di Percy senza farsi ammazzare o arrestare lungo il tragitto. Strinse la bussola che aveva ancora in mano come se fosse l’unico appiglio che le era rimasto con l’esistenza e poi la guardò, sperando che le indicasse la via. In quel momento però sembrava un comunissimo oggetto babbano, seppur molto vecchio, una semplice bussola che puntava semplicemente a nord. 

Audrey respirò a fondo e chiuse gli occhi. Da lontano si sentiva il suono fastidioso delle sirene che si avvicinavano: forse qualcuno aveva davvero chiamato la polizia. Quando li riaprì raccolse le forze e si costrinse ad alzarsi in piedi. 

Riprese a correre.

 

Nel frattempo, a qualche isolato da lì, c’era un ragazzo che, svegliato dal via vai di macchine della polizia e ambulanze, se ne stava sdraiato nel suo letto con lo sguardo rivolto al soffitto. 

Se c’era una cosa che Percy detestava del suo monolocale era proprio il quartiere in cui era situato e la vita notturna che si svolgeva proprio sotto alla sua finestra. La gente si ubriacava e litigava, qualcuno chiamava la polizia e il trambusto che conseguiva puntualmente ridestava Percy dalle sue solite otto ore di sonno. 

A Penny, invece, la frizzantezza di Notting Hill era sempre piaciuta. Percy l’aveva accontentata e per questo adesso si ritrovava sveglio e irritato dai lampeggianti blu delle auto della polizia che, filtrando tra le tende, illuminavano il soffitto. 

Sbuffando, il giovane si mise seduto e si voltò verso la sveglia. Era passata l’una da poco. 

La luce che proveniva dall’esterno gettava il monolocale in una quieta penombra che svelava solo i contorni del mobilio. Dal suo letto, Percy riusciva a vedere il tavolo della cucina su cui aveva abbandonato il mazzo di peonie che aveva preso per Audrey e che però non aveva avuto il coraggio di consegnare.

Aveva anche tentato di scrivere un biglietto, prima di rendersi conto che presentarsi da lei con dei fiori il giorno di San Valentino sarebbe stato un po’ traviante. Così, dopo essere passato un paio di volte davanti al bistrot in cui la ragazza lavorava senza trovare però il coraggio di entrare, Percy era tornato a casa, aveva cenato insieme alla sua solita solitudine ed era andato a letto presto come tutte le sere. Era stato un giorno come un altro, quello appena passato, un giorno in più in cui era stato vittima della sua codardia. 

Era in momenti come quello che Percy avrebbe dato qualsiasi cosa per essere meno simile a sé stesso. Se solo fosse stato un tipo più spigliato allora si sarebbe presentato da lei senza nessun timore, le avrebbe consegnato quelle dannate peonie e le avrebbe chiesto di aspettarlo, di aspettare la fine della guerra per provare a stare insieme, o magari se ne sarebbe fregato, l’avrebbe baciata senza remore davanti a quel belloccio idiota che ci provava con lei a lavoro, ribaltando persino la sua avversione verso certe effusioni in pubblico. 

Ma non sarebbe stato da lui. 

Percy si alzò in piedi, indossò gli occhiali e raggiunse la finestra, diede una breve sbirciata fuori per tentare di capire cosa stesse succedendo e, nello stesso istante, la porta bussò forte alle sue spalle, facendolo sobbalzare. 

Il ragazzo esitò per una manciata di secondi, poi afferrò la bacchetta appoggiata sul comodino e si avvicinò furtivo alla porta. Guardò al di là tramite lo spioncino e quando notò Audrey dall’altra parte della soglia si affrettò ad aprire e ad accendere la luce. 

Lei entrò in fretta, come se temesse di rimanere su quel pianerottolo un secondo di più, e quando Percy si voltò a guardarla dopo aver richiuso la porta alle proprie spalle, si sentì gelare: attraverso lo spioncino non l’aveva notato, ma Audrey era coperta di sangue come se fosse scampata per un pelo a una tragica mattanza. C’era del sangue sui suoi jeans, schizzi scarlatti sulla maglietta che indossava e sul viso, mentre le mani tremanti erano completamente ricoperte come se le avesse infilate nelle viscere di un animale. La giacca di renna che indossava, invece, era pulita come se qualcuno gliela avesse gettata addosso solo in seguito, ed era almeno di due taglie più grande. 

Audrey aveva i suoi soliti disarmanti occhi verdi, ma spalancati, lucidi e pieni di puro terrore, puntati su di lui come armi. Sul collo, infine, aveva dei vistosi segni che non lasciavano presagire nulla di buono. 

- Cosa è… c-cosa… - Balbettò lui, facendo istintivamente un passo verso di lei che, di rimando, ne fece uno indietro. 

Percy venne colpito prima dalla paura: - Sei ferita? - Le domandò spaventato. Poi fu il turno della rabbia: - Dimmi chi è stato. - 

Audrey scosse la testa e poi si portò una mano al collo. Aprì la bocca per poter dire qualcosa, producendo un flebile suono. - Ti prego… aiutami. - Riuscì a dire piano, prima di scoppiare in lacrime. 

Il giovane boccheggiò. Mai, in tutta la sua vita, aveva visto una persona piangere in quel modo. Era come ritrovarsi davanti ad un animale indifeso e ferito, non sembrava nemmeno più lei, come se della ragazza che aveva conosciuto non fosse rimasto nient’altro che i contorni un po’ sfocati. Un forte senso di impotenza gli strizzò le viscere. Fece un altro passo in avanti e lei di nuovo si ritrasse. 

- Adesso sei al sicuro. - Le disse, tentando di mantenere un atteggiamento calmo e controllato, guidandola nel frattempo verso il divano. - Siediti… prendo dell’acqua. - 

- No. - Lo fermò lei. - Non andare via… non lasciarmi sola. - 

Percy aggrottò le sopracciglia e la scrutò con apprensione. Forse aveva perso il senno, visto che la cucina si trovava a pochi passi da lì, nella stessa grossa stanza che costituiva il suo monolocale. - Rimango qui con te. - Le assicurò, senza sindacare. 

Lei annuì e basta, poi abbassò lo sguardo sulle proprie mani, ancora sporche del sangue di nonna Harriette. 

Il suo petto si alzò e si abbassò velocemente: le mancava l’aria e le girava la testa, forse stava per morire, o magari era già morta, ma restava il fatto che non riusciva a respirare tanto era sopraffatta. Tutto le sembrava irreale, tutto tranne quel sangue, la sensazione di quel liquido una volta viscoso che si era seccato sulla sua pelle e sui suoi vestiti, l’odore di quel lupo mannaro che sembrava averle impregnato le narici per sempre. Si sentiva sporca, contaminata, compromessa. Non sarebbe mai più riuscita a togliersi da davanti agli occhi l’immagine del corpo martoriato di Harriette, ne era certa. 

- Audrey. - La chiamò Percy, tirandola fuori dall’oscurità in cui stava scivolando senza mai toccare davvero il fondo. - Guardami. Guardami e spiegami cosa è successo. -  

Lei scosse la testa, strinse i pugni e serrò gli occhi. Non poteva farcela, non poteva ripercorrere tutto, non poteva dirlo ad alta voce; non poteva nemmeno rimanere lì. 

- Dobbiamo andare via… o mi uccideranno… morirai anche tu se ci trovano insieme… - Prese a farneticare agitata, scattando in piedi. 

- Audrey, devi stare calma e pensare lucidamente. - 

- Non voglio stare calma! Sono ricoperta del sangue di mia nonna! - Scattò lei, alzandosi in piedi e toccando subito dopo la sua gola dolorante, gli occhi rossi per il pianto e il viso stravolto. - È morta, hai capito?! Sono tutti morti… - 

Percy tirò quasi un sospiro di sollievo nel constatare finalmente che non era di Audrey tutto quel sangue, che almeno fisicamente lei stava bene, anche se la sua anima sembrava distrutta. 

Lei singhiozzò forte e si portò una mano alla bocca. Dirlo ad alta voce faceva davvero tutto un altro effetto. 

Dopo un attimo di esitazione Percy abbandonò la bacchetta sul divano e si alzò senza dire una parola, si avvicinò a lei e la abbracciò di colpo prima che potesse ritrarsi, fregandosene del rischio di sporcarsi col sangue di Harriette, e con l’imbarazzo e la goffaggine di chi non è abituato a quel tipo di contatto. 

Che diamine stai cercando di fare, stupido idiota? Si maledì, quando la sentì irrigidirsi tra le sue braccia. Poi lei ricambiò quella stretta ancorandosi a lui come se ne valesse della sopravvivenza dell’intera razza umana. 

- Moriremo tutti… ci uccideranno. - Disse, disperata. 

Percy rimase zitto, consapevole che nessuna parola avrebbe avuto il potere di farla star meglio o di convincerla che lì era al sicuro. Si staccò da lei quel tanto che bastava per poterla guardare negli occhi e semplicemente scosse la testa. 

- Invece sì! - Ribatté lei, singhiozzando forte. - Se qualcuno ci vedesse insieme allora tu raggiungeresti mio zio ad Azkaban! E loro mi uccideranno! -

- Audrey, devi fidarti di me. Per stanotte resterai qui, ma conosco un posto sicuro, una mia amica ospita chi ne ha bisogno nella sua fattoria in Galles... - 

Audrey scosse la testa interrompendolo. - Non posso… io non posso… perché… il sangue… - Iniziò a vaneggiare, facendo un passo indietro, guardando le proprie mani e le macchie sui suoi vestiti. - Sono ricoperta di sangue… io… sangue… - 

- Lo so… - Fece lui, guidandola piano piano verso il bagno nascosto dietro una porticina dall’altra parte della stanza. - Adesso lo facciamo sparire. Ti darò dei vestiti puliti e ti sentirai subito meglio. - 

Lei non ebbe la forza di obiettare. Aveva la mente totalmente annebbiata. 

Quando si ritrovò davanti allo specchio appeso sopra il lavandino del bagno di Percy, quasi faticò a riconoscersi. Aveva un aspetto orribile, con i capelli sparati da tutte le parti, gli occhi gonfi dal pianto e quel brutto livido sul collo. 

Percy aprì il rubinetto, prese entrambe le mani di Audrey e le pose sotto il getto gelido dell’acqua, lavando via il sangue. - Vedi? Viene via. Andrà tutto bene. - Disse, ma ad Audrey sembrò quasi che stesse consolando sé stesso. 

Tuttavia annuì, con le labbra serrate e piegate verso il basso, lasciandosi finalmente andare alle cure di lui.

Era al sicuro, si ripeteva come un mantra mentre l’acqua diventava rossa e spariva giù nello scarico, senza però portarsi via nemmeno un po’ del macigno che sentiva sul cuore in quel momento.

Percy le pulì via il sangue che aveva sul viso e sul collo con l’aiuto di un asciugamano, con sorprendente intimità e delicatezza. Era inaspettatamente portato per la cura; forse l’avere ben quattro fratelli più piccoli l’aveva reso naturalmente incline all’accudimento o magari era Audrey quella poco abituata a gesti e attenzioni che nessuno le aveva mai dato. 

- Ti uccideranno… loro ti uccideranno se vengono a sapere che mi stai aiutando, Perce. - Continuava a ripetere lei, con gli occhi pieni di lacrime. 

Percy trovava surreale il fatto che Audrey si stesse preoccupando per lui mentre tremava spaventata dopo essere scampata a qualcosa che doveva essere stata davvero molto brutta da vivere. 

Fu una delle rarissime occasioni in cui Percy Weasley non trovò nulla da dire, anche perché lei non sembrava affatto disposta ad ascoltare.

- Ci uccideranno… vogliono ucciderci… - Ripeteva in continuazione, come un mantra.

Alla fine lui le fornì uno dei pigiami che Penny aveva lasciato in casa, raccattato in fondo all’armadio ma che aveva lo stesso profumo del resto dei vestiti di Percy e infine le preparò una pozione che le diede uno strano senso di pace che le fece tirare un grosso sospiro di sollievo.

- Che roba era? - Domandò Audrey con aria assente, quando finì di bere, seduta su una delle due sedie che circondavano il tavolo della cucina. 

- Voi babbani direste che era un ansiolitico, ma i maghi la chiamano “bevanda della pace”. - Rispose Percy, mentre nel frattempo metteva a posto gli ingredienti e un vecchio e ammaccato calderone in una credenza. 

Lei non rispose. Se ne stava lì, in silenzio, a fissare il bicchiere vuoto con aria assente, facendo temere a Percy di aver esagerato con le radici di valeriana. 

- Forse è meglio se dormi un po’. - Le suggerì lui. 

Di nuovo, Audrey non aprì bocca. 

- Pensavo di raggiungere la fattoria di Katie sul presto, domani mattina; non posso mancare dal lavoro senza destare sospetti… non ho mai saltato un giorno negli ultimi tre anni. - Proseguì Percy. 

- Come arriviamo in Galles? - 

- Ci smaterializziamo. - Rispose lui, per poi sedersi sull’altra sedia, dall’alta parte del tavolo rispetto a lei. - So che quella volta è stato parecchio traumatizzante per te, quindi se non te la senti… il mio amico Oliver vola molto bene. - 

Audrey si voltò a guardare Percy come se avesse detto qualcosa di folle. - Vola… vola su una scopa? - Si accertò. 

- Sì. - 

- È meglio se ci smaterizziamo. - 

- Ottimo. - Commentò Percy. - È decisamente molto più sicuro. -

Lei annuì e non parlò, tornando a fissare il bicchiere vuoto appoggiato sul tavolo. Si sentiva così strana… i suoi pensieri si muovevano lenti e densi nella sua testa e aveva la sensazione di non essere del tutto padrona di sé stessa, ma non era certa che le piacesse: aveva perso il controllo per la prima volta nella sua vita e, anche se non poteva sentirlo a pieno, questo la terrorizzava.

Dopotutto però era sempre meglio del terrore con cui era entrata in quella casa qualche ora prima. 

- Sono stanchissima. - Mormorò tra sé e sé. 

- Te l’ho detto, devi provare a dormire un po’. - 

Audrey sembrò pensarci su, poi annuì e si alzò un po’ traballante. - Userò il tuo divano, allora. - Disse. 

- No, sarei un pessimo padrone di casa se ti lasciassi dormire su quel vecchio e scomodo divano. - Ribatté Percy, alzandosi anche lui per poi guidarla verso il letto. 

Audrey non obiettò e si lasciò cadere sul materasso non appena lo raggiunse. - Qui c’è abbastanza spazio per tutti e due. - Constatò. 

Il giovane mugugnò sconclusionato e le rimboccò le coperte. - Sì, sì… - Buttò lì con fare evasivo. - Tu però dormi adesso. - 

- Resta qui. - 

- Solo finché non ti addormenti. - La accontentò lui.

- Possiamo tenere la luce accesa? - 

Percy sospirò e annuì. Era palese che quella notte lui non avrebbe chiuso occhio. 

Alla fine si sdraiò accanto a lei, che a sua volta chiuse gli occhi. 

- Sono fatta. - La sentì sussurrare.

Lui aggrottò la fronte. - Fatta? Cos’è fatta? - 

- È un modo di dire… sai, quando fai uso di droghe… sei fatto. - Spiegò Audrey, nascondendo il viso contro il cuscino. 

- Non me ne intendo, mi dispiace. - 

Lei fece una mezza specie di sorriso avvicinandosi un po’. - Certo che no. Sei un bravo ragazzo, tu. - Gli disse.

- Perché, tu hai fatto uso di molte droghe nella tua vita? - 

- No, non molto. - Raccontò lei con leggerezza. - Insieme a mio zio ogni tanto capitava di fumare qualcosa, oppure c’erano le benzodiazepine di mia madre in casa. - 

- Benzodiazepine. Un termine stranissimo. - 

- Comunque non mi piace perdere il controllo. - Riprese Audrey. - Insomma, tu in questo momento potresti fare di me qualsiasi cosa e io non avrei la forza di oppormi. - 

- Nessuno farebbe mai una cosa del genere. - 

- Te l’ho detto: sei un bravo ragazzo. - Sospirò lei, raggomitolandosi proprio contro di lui. 

Percy avrebbe pagato per avere anche metà della rilassatezza che aveva Audrey in quel momento, ma di certo non potevano essere “fatti” in due. 

Era preoccupato da morire, soprattutto perché lei non si era nemmeno lontanamente azzardata a svelare cosa le fosse accaduto. Non aveva idea di chi le avesse fatto del male, sebbene avesse formulato diverse ipotesi, e questo non poteva far altro che aumentare la tensione che percepiva. 

Da chi si stava nascondendo Audrey? 

- Audrey… ti va di dirmi cosa è successo? - Chiese di getto. 

Quella domanda sembrò riscuotere Audrey dal sonno. Aprì gli occhi e lo guardò per un attimo. No che non le andava di dire cosa era successo, ma quasi più per pigrizia che per dolore: non provava nient’altro che stanchezza in quel momento, nessun dolore, nessuna paura. 

- C’erano i mangiamorte. - Disse semplicemente. - Uno di loro era un mostro e ha mangiato nonna Harriette. L’ha aperta come se si trattasse di un animale da macello, c’era sangue da tutte le parti… mentre nonna Constance… lei credo sia stata uccisa con un incantesimo. Poi gli altri due mangiamorte hanno portato via Elijah e mi hanno lasciata con il mostro. - 

Percy si sentì attraversare da un fremito. Quel racconto non lasciava dubbi su chi fosse questo fantomatico mostro di cui parlava Audrey. Aveva sentito così tante storie simili a quella, ma non riusciva a sopportare che fosse successo proprio a lei.

- Che cosa ti ha fatto? - Domandò, brusco e non del tutto sicuro di volerlo sapere. 

- Ha tentato di uccidermi, ma la bussola di mio zio mi ha salvata. Mi ha fatto arrivare qui da te. - Rispose Audrey. 

- La bussola? Che bussola? - 

- Elijah ha incantato una bussola per far sì che mi portasse esattamente dove dovevo essere. - Illustrò lei. - E dovevo essere qui, a quanto pare. - 

Percy rimase zitto a fissarla. Era sceso a patti già da parecchio tempo con il fatto che si sentisse attratto da lei, ma ciò che stava provando in quel momento… be’, quello era tutt’altra cosa. Aveva rischiato di perderla, di non rivederla mai più e di non sentire mai più il suono della sua voce. Lei si era salvata per un pelo e forse non sarebbe nemmeno stata più la stessa, e ci era voluto tutto questo per far capire a Percy Weasley che quelli che provava per lei erano proprio dei sentimenti, sentimenti reali. 

Fu una dolorosa rivelazione. Non poteva di certo finire per innamorarsi di lei, non in quel momento in cui la storia remava contro a entrambi, anzi forse proprio mai, perché Audrey era decisamente fuori da ogni piano. 

Sfuggiva continuamente dal suo controllo, lo portava all’esasperazione per convincerlo a fare tutto ciò che voleva, aveva quell’umorismo pungente e fastidioso, per non parlare del fatto che si azzardava a correggerlo con quell’aria da maestrina e che voleva fare la cantante invece di trovarsi un lavoro vero. Era affascinante, ma non bella come Penny, non aveva lo stesso viso angelico e tanto meno l’atteggiamento della donna ideale che Percy aveva sempre pensato di desiderare, quella da far conoscere ai propri genitori e da esporre come una sorta di trofeo a quelle pompose cene al Ministero.

Audrey era imperfetta, era babbana e lontana da qualsiasi programma, eppure sembrava quasi tutto già scritto, ineluttabile. 

E a quanto pare lo sapeva persino la bussola di Elijah. 


 

Ehilà, persone!

Okay, questo capitolo è stato particolarmente difficile da scrivere, in fatto nella mia testa c’erano molte più cose che proprio non sono volute venire fuori, quindi temo che sia un po’ scarno di tristezza e angoscia, forse sono andata troppo veloce, non saprei… 

Comunque la parte più complicata è stata capire come dividerlo: in realtà doveva essere più lungo di così, ma poi ho deciso di dividerlo in due parti, quindi la buona notizia è che il prossimo capitolo è già pronto e corretto. 

Bo, non ho molto da dire. Non vedo l’ora che questa parte passi per andare al post battaglia perché credo che quella sarà la mia parte preferita, ma vabbé, niente spoiler (e comunque non ho deciso niente di certo, magari do di matto e me ne esco con qualche colpo di scena senza senso). 

Adesso che è arrivata l’estate e io ho molto più tempo libero (e meno voglia di uscire di casa perché fa troppo caldo) è probabile che gli aggiornamenti saranno più frequenti, ma non vi prometto niente. 

Alla prossima,

J.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13. La fine del mondo ***


Capitolo 13

 

Il mattino seguente Audrey si svegliò con un forte mal di testa e con la sensazione di aver dormito davvero poco. Quando aprì gli occhi la prima cosa che vide furono le iridi gialle del gufo di Percy, che la stava fissando appollaiato sul davanzale della finestra da cui stavano entrando i primi raggi d’alba. Poi udì alle sue spalle il rumore di una radio che tentava di prendere il segnale. 

Quando si voltò notò Percy, che se ne stava seduto al tavolo della cucina già vestito di tutto punto, seppur con due paia di occhiaie violacee sotto gli occhi chiari sormontati da quella montatura di corno, a testimoniare che probabilmente non avesse dormito un granché. Il ragazzo stava battendo la bacchetta su una vecchia radiolina facendo girare le manopole. Ancora abbandonato sul tavolo, infine, c’era il mazzo di peonie che Audrey la sera prima quasi non aveva notato. 

Una cascata di ricordi inondò la mente di Audrey di colpo, ricordi sfogati e lontani, un po’ come un film, come se non fossero capitati per davvero e proprio a lei, come se la sua psiche stesse tentando di proteggerla dal dolore che si accompagnava a essi. 

Si sentiva però molto più lucida: si chiese se fosse il caso di mettersi in contatto con suo padre o con zia Tamica, se qualcuno avesse già trovato i corpi di nonna Harriette e nonna Constance, se la stessero cercando. 

Come se avesse avvertito lo sguardo di lei, Percy alzò gli occhi incrociandoli con quello di Audrey. Lei aveva l’aspetto un po’ stracciato della sera prima, il volto gonfio di sonno, le labbra screpolate e gli occhi arrossati, i capelli che erano schiacciati da un lato e gonfi e cespugliosi dall’altro.

- Oh, sei sveglia. - Constatò Percy, alzandosi in piedi. - Come… come stai? - 

Come stai? Hai davvero chiesto “come stai?” a una persona che ha perso metà della sua famiglia e che è quasi rimasta uccisa in un attacco da parte di mangiamorte solo la sera prima? Pensò Percy, sentendosi arrossire di colpo. 

- Normale, credo. - Rispose Audrey, e la sua voce risuonò bassa e un po’ gracchiante.

- Ho fatto il caffè. - Disse lui, pur di non star zitto. - Prendine una tazza, se ti va… so che preferisci il tè, ma ho finito tutte le bustine. - 

- Il caffè va bene. - Lo tranquillizzò lei. - Che cosa stai facendo alla radio? - 

- Tento senza successo di collegarmi a radio Potter. - Spiegò Percy con un sospiro, guardando l’apparecchio. - Ci provo da mesi, ma sono molto bravi a proteggere le loro trasmissioni. -

- Lucy è fortissima ad azzeccare la parola d’ordine. - Disse Audrey, mettendosi seduta con le gambe fuori dal letto. - Spesso usano i nomi dei membri morti dell’Ordine della Fenice. A settembre hanno usato quello di quel tale… l’assassino. Che poi in realtà non era davvero un assassino… come si chiama? Aveva un nome strano… - 

- Sirius Black? - 

- Sì, lui. - Annuì Audrey. - Conosci qualche altro caduto dei loro? - 

Percy ci pensò su. - Be’... c’è Alastor Moody, venuto a mancare in estate. - Disse, battendo la bacchetta sulla radio. - Moody… no… Alastor? Niente… Malocchio? - 

La radio fece un suono strano, poi una voce metallica iniziò a parlare: - … ci scusiamo per il programma frammentato di questa notte, ma abbiamo avuto un incontro molto ravvicinato con alcuni Mangiamorte, dei veri simpaticoni. - Stava dicendo. 

Percy sgranò gli occhi e le sue orecchie si fecero subito rosse. Conosceva bene quella voce. - È Fred! - Esclamò. 

- Uno dei tuoi fratelli? - 

Percy annuì in fretta e alzò il volume.

- Ora siamo in un posto sicuro, ma prima di salutarci vorrei dedicare la nostra attenzione ai caduti degli attacchi di massa di questa notte. - Proseguì la voce di Fred.

- È così incosciente! - Sbraitò Percy, indignato. - Esporsi in questo modo…! Che ha in testa? -

- Sshh! - Lo zittì Audrey, saltando giù dal letto e raggiungendo il tavolo della cucina mentre la voce alla radio elencava i nomi delle vittime: 

- Ci hanno lasciato Jessica e Sara Wilson, sorelle nate babbane di Leeds, Jason Foley, rinomato medimago del San Mungo, Luke, Muriel e Clay Mulligan, scovati e uccisi nello Yorkshire mentre cercavano di raggiungere un posto sicuro e in fine la famiglia… come si pronuncia? N…krumah? - 

- Credo sia N'krumah, tutto attaccato. - Rispose un’altra voce. 

- È Remus Lupin! - 

- Shhh!

- La famiglia… N'krumah, Harriette e Constance, per la precisione. Il figlio Elijah, noto sostenitore della nostra resistenza, è stato purtroppo deportato ad Azkaban, mentre la nipote babbana, Audrey, risulta tutt’ora scomparsa. -

Percy guardò Audrey cercando di decifrare qualcosa nel suo sguardo perso e nelle labbra contratte. Se la sera prima lei era stata totalmente presa dal panico, in quel momento era impenetrabile. 

- Non supererò mai questa cosa. - Disse piano, lasciandosi cadere sulla sedia.

Percy spense la radio, anche se a malincuore. Gli sarebbe piaciuto rimanere ad ascoltare la voce di suo fratello ancora per un po’. - Tu superi tutto. - Le disse. - Lo hai detto tu, non ti lasci cambiare dagli eventi, no? Per questo hai quel tatuaggio sulla schiena. -

- ‘Stavolta è diverso. - Ribatté lei, scuotendo la testa e posando lo sguardo sul mazzo di fiori abbandonato sul tavolo: quelle peonie avevano sicuramente visto giorni migliori. - Questo è… troppo. È troppo anche per me. Non so cosa fare… - 

Percy fece per allungare una mano nella sua direzione, ma poi si ritrasse dandosi dello stupido. - Non voglio sembrare presuntuoso, ma io so cosa fare, invece. - Le disse. - Ho avvertito la mia amica del nostro arrivo, ci stanno aspettando. Rimarrai in Galles fino alla fine della guerra, lì sarai al sicuro. -

- E se non finisse mai? - Domandò Audrey. - Se vincesse Tu-Sai-Chi… -

- In tal caso aiuterò te e Lucy a lasciare il paese, ma non accadrà. - Assicurò lui. - Devi fidarti di me. Fidati di me. -

Fu lei questa volta ad allungare una mano verso di lui. Percy, dopo un attimo di esitazione, la afferrò e la strinse brevemente nella sua. Proprio come a Natale, quel contatto fu naturale e spontaneo come se si fossero già incontrati e presi per mano un’infinità di altre volte in un’altra vita. 

- Io mi fido di te. - Mormorò Audrey, ritirando la mano per poi sfiorare i petali vellutati di una delle peonie. 

Percy si sentì arrossire di botto. Chissà cosa pensava Audrey del fatto che lui tenesse in casa un mazzo dei fiori di cui lei portava il nome. 

- Erano per te… le peonie. Le ho prese ieri per scusarmi. - Le disse rigidamente, pur di dare una spiegazione, sebbene lei non avesse fatto nessuna domanda. - Temo che io ti abbia offesa, in un certo senso, quell’ultima sera in cui sono stato ospite a casa tua. - 

Audrey mugugnò sommessamente, un suono che poteva dire qualsiasi cosa, e non lo guardò. In quei due mesi aveva sperato con tutto il cuore di non incappare mai in quel discorso.

- Tra noi le cose sono diventate strane, dopo, e io sono consapevole di aver sbagliato le parole. - Proseguì lui. - Ti avrò dato l’impressione di essere un fanatico del sangue puro, ma sappi che il fatto che non sia una strega non c’entra niente, o almeno non come pensi tu. - 

Audrey sospirò e finalmente alzò lo sguardo. - Non mi devi nessuna spiegazione, lo so che non sei uno di quelli. - Disse. - È stato tutto un grosso e imbarazzante errore di comunicazione. Io non ci ho mai provato con te, quella sera. - Proseguì, abbozzando un piccolo sorriso. - Alla fine credo che sia tu quello che ha frainteso. - 

Sul viso di Percy passò una sequenza di espressioni diverse in una manciata di secondi. Divenne sorpreso, pensieroso e poi deluso, alla fine si ritrovò a guardare Audrey negli occhi, con le labbra semi aperte come se fosse sul punto di dire qualcosa e avvampò vistosamente.

Quanto era stato stupido e pieno di sé per arivare a pensare che una come lei potesse anche solo lontanamente interessarsi a uno come lui? 

Non era mica bello come Bill, lui, non era divertente come il resto dei suoi fratelli, non era affascinante e nemmeno coraggioso, di certo Audrey poteva aspirare a qualcuno che fosse di gran lunga migliore di lui: un ragazzo che la facesse ridere e che fosse capace di capire la musica e l’arte come lui invece non riusciva a fare, uno che fosse bello e prestante e spigliato. 

- Quindi tu non… - 

- Abbiamo passato molto tempo insieme, mentirei se ti dicessi che l’idea non mi sia mai balenata di mente… ma no. - Lo anticipò Audrey. - Pensandoci lucidamente ho capito che siamo troppo diversi per andare oltre. Lo hai detto tu, sono babbana e tu un mago. - 

- Ma questo non implica un problema in tempi di pace… - Tentò di dire lui. 

Audrey fece un cenno con la mano, fermandolo con aria perentoria. - Veniamo da due mondi diversi, siamo diversi sotto ogni punto di vista, ma anche se non fosse così non ci sarebbe spazio per altro, né ora né mai. Siamo entrambi decisamente troppo incasinati. -

Percy rimase zitto e impassibile, assumendo l’espressione stoica che aveva imparato a piantarsi in faccia durante quegli ultimi mesi al Ministero. 

- Se sono stata un po’ fredda… - Continuò Audrey. - Be’, diciamo che sentirsi sbattere in faccia quanto tu sia poco desiderabile sia sempre un po’ dura, non credi? Una questione di orgoglio. - 

- Ma tu sei desiderabile! - Esclamò Percy. - Sei molto desiderabile! O almeno credo che tu lo sia per gli altri. - Si affrettò ad aggiungere.

Lei scrollò le spalle e basta. 

- Quindi tu quella sera non ci stavi provando con me. - Si accertò lui.

- Direi proprio di no. - Assicurò Audrey, con talmente tanta sicurezza che quasi si convinse da sola. - Non devi preoccuparti: non mi sono presa una imbarazzante quanto inopportuna cotta per te. Sarebbe davvero troppo strano. - 

- Oh. - Fece lui, e poi annuì. - Ottimo. -

- Sì. - 

- È un bene. - 

- Lo è. -

- Sarebbe stato davvero complicato, altrimenti, con la guerra e Penny e il resto. - 

- Mhmh. - Tagliò corto Audrey, alzandosi in piedi. - Prendo un po’ di caffè. - Disse, nel tentativo di sembrare rilassata e a proprio agio. - Comunque i fiori sono carini, peccato che tu non me li abbia portati. - 

- Forse se fossi passato a casa tua le cose sarebbero andate in modo diverso… forse avrei potuto… limitare i danni. - 

Audrey si versò il caffè e poi si voltò nuovamente verso di lui. - Possiamo non parlarne? - Domandò, seria. - Non ce la faccio, per adesso. - 

Percy annuì e basta.

Lei si portò la tazza alle labbra e bevve. Per qualche istante ci fu silenzio, ma non un silenzio pesante e difficile da sopportare. Era il silenzio di chi aveva raggiunto ormai un adeguato livello di intimità. 

- Partiamo non appena sei pronta. - Disse poi Percy.

Audrey lasciò la tazza nel lavabo, prese un respiro profondo annuì. - Io sono pronta. - 

 

Comparvero in cima a una collinetta al sorgere del sole, lei stretta nella giacca di renna che qualche sconosciuto le aveva messo sulle spalle la sera prima, lui avvolto in un pesante mantello di lana. Ormai smaterializzarsi per Audrey era diventato quasi normale, seppur sempre molto spiacevole. 

Faceva freddo, il vento profumava di mare anche se il mare non si vedeva. Audrey si guardò attorno, notando che non c’era traccia di anima viva e tanto meno di una fattoria. Erano nel bel mezzo del nulla, vicini a un grosso faggio spoglio che dominava quella bassa collina, l’erba secca sotto le loro scarpe era ghiacciata, ma c’erano delle premure che spuntavano qua e là dando del colore alla terra spenta. 

- Abbiamo avuto un atterraggio perfetto, stavolta. - Dichiarò Percy, soddisfatto. - Avanti, andiamo. - 

Lei aggrottò. - Dov’è la fattoria? - Chiese, perplessa, quando lui iniziò a incamminarsi. 

- Prenditi del tempo e poi la vedrai. - Rispose Percy, senza fermarsi. 

Audrey sospirò e lo seguì, camminando sul terreno scosceso con un po’ di difficoltà. Si poteva dir tutto su di lei tranne che fosse una ragazza di campagna. Poi, all’improvviso, qualcosa accadde: come se fosse stato messo lì da una mano invisibile uscita dal folto strato di nuvole grigie sopra le loro teste, comparve dal nulla un enorme casolare rosso mattone a poco meno di cento metri da lì. Più Audrey si avvicinava, gli occhi sgranati dalla sorpresa e la bocca semi aperta dallo stupore, più spuntavano dettagli: la staccionata bianca tutt’attorno alla proprietà, un’altra piccola struttura adiacente a quella principale simile a una stalla, un paio di mucche che pascolavano in un recinto insieme ad alcune capre, delle galline che si aggiravano libere, beccando proprio davanti al portico. C’era anche una vecchia altalena appesa a uno dei rami più bassi della quercia che cresceva in giardino.

Quando arrivarono alla staccionata, Percy aprì una sorta di cancelletto di legno ed entrò nel cortile, mentre Audrey esitò su quella soglia.

- Allora? - La spronò lui, voltandosi a guardarla con un sopracciglio alzato. 

- Io… hem… galline. - Mugugnò Audrey, facendo un cenno verso i volatili. 

Percy fece una faccia perplessa. - Le galline? - Ripeté. 

Lei annuì. Era piuttosto certa di non aver mai avuto a che fare con una gallina viva prima d’ora e no, quei loro occhietti, quelle zampe artigliate e i loro becchi non la convincevano affatto. - Puoi mandarle via, per favore? - 

Percy si lasciò scappare un sorrisetto divertito, poi scacciò gli animali al grido di “sciò, sciò!” e subito dopo la porta d’ingresso del casolare si spalancò. Una ragazza dai capelli castani e lisci raccolti in una lunga treccia venne fuori, fermandosi sotto il portico di legno. Indossava una di quelle lunghe vesti da strega ed era piuttosto alta e altrettanto magra, tuttavia aveva una faccia molto comune. 

- Ce l’avete fatta. - Esordì. - Stavo quasi per volare fino a Londra per venirvi a cercare. - 

- Scusaci, Katie, ma è stata una nottata difficile. - Rispose Percy, prima di voltarsi verso Audrey, che se ne stava ancora al di là della staccionata. - Audrey, lei è Katie. Katie… - 

- Molto piacere. - Si fece avanti la strega. - Sono davvero dispiaciuta per la tua perdita, dev’essere stato terribile. Sappi che qui nessuno potrà farti del male. - 

Audrey indugiò per un secondo, guardando l’altra con un’espressione difficile da decifrare. Era questo ciò che la attendeva da adesso in poi? Sconosciuti a cui dispiaceva per la sua perdita e frasi fatte a cui non sapeva come rispondere?

Si limitò ad annuire evasiva, poi strinse la mano di Katie e si presentò. 

- Percy mi ha parlato così tanto di te che mi sembra di conoscerti già. - Le disse poi la giovane, con un bel sorriso che le allargò il viso sottile. - Vieni, andiamo dentro. - 

- In realtà non parlò così tanto di te. - Si affrettò a chiarire Percy, camminando al fianco di Audrey verso l’entrata. 

L’interno del casolare era proprio come ci si aspettava che fosse una casa di campagna. La rustica cucina era la prima cosa che si vedeva non appena si varcava la soglia: una grande stanza con al centro un lungo tavolo di legno dall’aria vissuta e circondato da sedie del medesimo materiale, un piano cottura da un lato e un camino acceso dall’altro, il lavello pieno di piatti che si stavano man mano lavando da soli. 

Era tutto molto caotico, diverso dalla casa di nonna Harriette. L’aria non profumava di spezie ma bensì di porridge e legna arsa. 

Seduto a capotavola, vestito come si vestirebbe un qualsiasi contadino babbano, c’era un uomo di mezza età alto e secco come Katie, ma con i capelli color paglia e gli occhi chiari, che stava facendo colazione. 

- Buongiorno, signor Bell. - Lo salutò Percy non appena lo vide. 

- Weasley. - Fece l’uomo. Poi guardò Audrey. - Un altro dei tuoi trovatelli, mh? - 

- È la ragazza di cui abbiamo parlato, papà. - Disse Katie, alzando gli occhi al cielo senza farsi notare. 

- Ah, certo, la babbana. - Annuì. - Nessun pregiudizio, mia moglie era come te. Abbiamo persino l'elettricità, eh. Falle vedere, Tittie. - 

Katie sbuffò e poi illuminò la cucina premendo l’interruttore. - Abbiamo l’elettricità. - Ripeté scocciata, prima di rivolgersi a Audrey. - Vuoi far colazione o preferisci che ti mostri subito la tua stanza? Sarai esausta... - 

Lei si voltò a guardare Percy come se si aspettasse che fosse lui a rispondere al suo posto. Quando lui fece una faccia eloquente, come per dire “allora?”, Audrey decise per la seconda opzione. 

- Io non… non ho molta fame. - Disse.

- Bene, andiamo su, allora. - Decise Katie. 

L'afferrò per una mano come se fossero amiche da una vita e la trascinò al piano di sopra, seguite da Percy. Salirono le scale e poi si ritrovarono all’inizio di un lungo corridoio con quattro porte da un lato e quattro dall’altro.

- Sei stata fortunata, non abbiamo molti ospiti in questo momento. - Raccontò la padrona di casa, muovendosi lungo di esso. - Ogni tanto Oliver dorme qui, lo conosci già Oliver, no? Gli unici residenti fissi, a parte me e mio padre, sono i Cattermole: padre, madre e i tre figli. Spero che ti piacciano i bambini. - 

- Non ho nessun problema con i bambini. - Buttò lì Audrey. - In realtà volevo ringraziarti per l’ospitalità… spero di esservi utile in qualche modo, anche senza una bacchetta. - 

Katie sorrise. Intanto avevano raggiunto l’ultima porta sulla destra, la più lontana dalle scale. - Abbiamo già ospitato dei babbani prima d’ora, il lavoro che c’è alla fattoria non fa differenze. Puoi fare praticamente tutto, ma prenditi il tuo tempo per ambientarti. - Rispose. - E non devi ringraziarmi, assolutamente: facciamo quello che possiamo per limitare i danni. - 

Mise una mano sulla maniglia e spalancò la soglia. Dentro la camera si presentava arredata con il minimo essenziale: un letto con la spalliera in ferro, un armadio di legno, una scrivania e una sedia. Le pareti erano di un bianco sporco, non c’erano appesi dei quadri, ma la finestra che dava sul giardino inondava lo spazio di luce grazie ai raggi del sole appena sorto. 

- Eccoci qua. - Fece Katie. - Nell’armadio ci sono vestiti puliti, in bagno troverai uno spazzolino nuovo, sapone... una sorta di kit di benvenuto, ecco. Se hai bisogno di qualcosa di specifico ti basta chiedere, il paese dista da qui una ventina di minuti di cammino. Per quanto riguarda i pasti… si pranza a mezzogiorno e mezza, si cena alle sette in punto. Ultimamente sta cucinando il signor Cattermole, qualche giorno fa ha fatto una shepherd pie perfetta. - 

- Reginald Cattermole cucina? - Domandò Percy, perplesso. 

- Sì, ed è anche bravo, te l’ho detto. Però ti conviene stare alla larga dalla cucina finché lui sarà ospite qui, non vorrei che ti avvelenasse. - Rispose Katie, facendo un sorrisetto divertito. Poi si rivolse a Audrey. - Quando il signor Cattermole lavorava alla manutenzione, al Ministero, Percy lo trattava malissimo. - Spiegò.

- Non lo trattavo malissimo, solo che… - Percy abbassò la voce per non farsi sentire. - È proprio incapace. Mi sono dovuto sbarazzare da solo dell’infestazione di doxy nel mio ufficio perché lui non sapeva come fare, per non parlare della pioggia nell’ufficio di Runcorn. - 

- Eri una persona orribile, ecco la verità. - Ribadì Katie. Dopo si voltò a guardare Audrey e aggiunse: - Non ti preoccupare, adesso è cambiato, è una persona completamente diversa da quel ragazzino insopportabile e pieno di sé che era qualche anno fa. - 

Non sapendo cosa rispondere, Audrey si limitò ad annuire. 

- Comunque adesso ti lascio sistemare. - Proseguì Katie, con apprensione. - Tu lavori oggi, Weasley? - 

- Sì, meglio non destare sospetti, lo sai. - Rispose lui. 

Katie annuì, fece un ultimo sorriso a Audrey e poi lasciò quella stanza lasciandoli soli. 

Dopo un po’ Audrey sospirò e si lasciò cadere sul letto con aria stanca. - Devi andartene per forza, vero? - Domandò, alzando lo sguardo su Percy. 

Lui annuì e poi si sedette al suo fianco. - Verrò qui a trovarti ogni sera. - Assicurò. - Ti ambienterai presto, vedrai. - 

Lei annuì. - Potresti far sapere a Lucy che sto bene? Se dovesse aver sentito il programma alla radio di questa mattina sarà preoccupatissima. - 

- Certo, ci penso io. - 

- Non so come comportarmi con mio padre, invece. - Proseguì Audrey. - L’unico modo che ho per contattarlo è tramite un telefono, ma ho paura che fargli sapere che sono viva possa metterlo nei guai. -

- Credo che per ora sia meglio per te sparire di scena, almeno per un po’. - Le consigliò Percy. 

Audrey annuì nuovamente, ma stavolta non parlò. 

Anche lui tacque, guardandola di tralice e percependo una strana ma tanto agognata atmosfera di calma attorno a loro, come il silenzio dopo un violento acquazzone. Forse per questo non voleva andarsene, non voleva lasciarla lì da sola, ma voleva solo toccarla, abbracciarla come la notte precedente. 

Questo lo faceva sentire stupido e anche un po’ in colpa, perché lei era triste, era distrutta, mentre lui non riusciva a far altro che pensare a quanto la desiderasse. 

Non ci poteva essere spazio per certe cose in guerra. 

E poi, ormai lo sapeva, lei per lui non provava nulla di tutto questo. 

Doveva farsela passare.

- È meglio che vada. - Disse Percy, alzandosi in piedi. 

Audrey mugugnò in risposta e poi mosse la mano come per dire ciao. 

Fu difficile per Percy lasciare quella stanza, ma lo fece, chiudendosi la porta alle spalle. Una volta rimasta sola, Audrey si tolse di dosso la giacca di renna che stava indossando, abbandonandola sul letto, poi si alzò. Diede un’occhiata ai vestiti nell’armadio scoprendo che consistevano quasi tutti in abiti da strega che sembravano venire da un’altra epoca, lunghe gonne e qualche raro jeans troppo grande per starle bene addosso. Poi aprì la porta del bagno, dove scoprì la presenza di una piccola vasca. Audrey aprì l’acqua e usò tantissimo sapone per creare la schiuma. Si spogliò lasciando sul pavimento il pigiama che Percy le aveva dato la sera prima e si specchiò attentamente passando la punta delle dita sui segni che aveva sul collo, scoprendo anche qualche livido. 

Percepiva il suo corpo in modo diverso, si sentiva diversa. 

Era diversa. 

Forse dopotutto si era lasciata cambiare dagli eventi. 

Alle fine si immerse nella vasca riempita quasi fino all’orlo e lì vi rimase assaporando un senso di solitudine mai sperimentato prima. Era viva, ma lontana da tutto e da chiunque la amasse. Si domandò se qualcuno la stesse già cercando, se suo padre fosse già stato informato e se sua madre fosse preoccupata almeno un po’, anche se le risultava difficile crederlo. 

Audrey rimase a mollo finché l’acqua non divenne fredda. Uscì dalla vasca, si asciugò e indossò una di quelle lunghe gonne e un maglione infeltrito. Quando si affacciò alla finestra notò che il sole era ormai sorto del tutto anche quella mattina e che, in giardino, c’erano tre bambini, un maschio e due femmine, che giocavano come se il mondo non fosse appena finito. 



 

Ehilà, care persone!

Questo è un capitolo di passaggio ma direi decisamente necessario. Non ho grandi considerazioni per oggi, ma se vi va fatemi sapere cosa ne pensate, sia del capitolo che della storia in generale, sarebbe bello. 

Grazie per aver letto fin qui, come al solito ❤️

Alla prossima,

J.

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Capitolo 15
*** Capitolo 14. The Winner Takes It All ***


Capitolo 14

 

Nelle settimane successive, Audrey passò moltissimo tempo da sola in quella stanza a girarsi e rigirarsi nel letto, rimuginando su quanto era accaduto e assaporando la mancanza di una vita che in quel momento le sembrava essere stata di qualcun altro. 

Di notte il silenzio della campagna diventava assordante per lei, di giorno invece la fattoria diventava fastidiosamente rumorosa. Il gallo cantava alle sette in punto, ma Audrey era consapevole del fatto che il signor Bell lasciasse il letto molto prima per raccogliere le uova per tutti e per occuparsi del bestiame, soprattutto dei cavalli alati che allevava per mestiere. La prima volta che Audrey ne aveva visto uno si era quasi sentita mancare: c’erano così tante cose del mondo dei maghi che le sembravano ancora assurde, ma con il passare dei giorni fece sempre meno caso ai figli dei Cattermole che giocavano a quidditch in cortile o agli incantesimi con cui Katie era solita sparecchiare la tavola la sera. 

Comunque il fatto che in quella casa ci fosse vissuta una babbana solo qualche tempo prima era una vera fortuna per Audrey. Nella mansarda c’era ancora una vecchia televisione sistemata tra due librerie piene zeppe di romanzi. Lì c’era anche un giradischi che vantava una collezione invidiabile di album degli ABBA e un pianoforte molto scordato a cui Audrey non ebbe il coraggio di avvicinarsi più di una sola volta. 

Come un gatto che deve abituarsi al nuovo appartamento, Audrey iniziò a lasciare la sua camera da letto a poco a poco, costringendomi a interagire con gli altri.

La famiglia Cattermole era composta da cinque persone: la mamma Mary, una signora sulla trentina con i capelli neri e l’aspetto mite, il papà Reginald, un uomo piccolo con i baffi e la faccia da furetto, che aveva più o meno lo stesso temperamento della moglie, e i tre figli: Maisie, Ellie e Alfred, rispettivamente di dodici, nove e sette anni. Anche loro, come il padre, sembravano un po’ dei roditori, ma avevano tutti e tre i capelli scuri e lisci della madre. 

Il signor Bell, invece, era un uomo dall’aria un po’ rozza. Katie non sembrava andare molto d’accordo con il padre, mentre Audrey provava simpatia nei suoi confronti: una sera, a cena, quando la signora Cattermole, guardandola, le aveva chiesto da dove venisse per davvero, il signor Bell aveva grugnito e aveva risposto al posto della giovane dicendo “che non la senti come parla? Questa qui è di Londra!”

Di tanto in tanto, proprio come le aveva detto Katie, Oliver Baston faceva loro visita e dormiva lì, nella camera della padrona di casa, scatenando il fastidio del signor Bell: “io e mia moglie abbiamo dormito insieme la prima volta da sposati!” inveiva tutte le volte. 

Audrey usò ciò che restava del mese di febbraio per rimettere insieme i pezzi di sé stessa e per elaborare il lutto. A distanza di due settimane si rese conto di non ricordare quasi niente di quella notte, anche se aveva incubi ricorrenti in cui si ritrovava sporca di sangue e da sola in uno spazio vuoto. Ogni tanto, specialmente di notte, scattava una sorta di allarme mangiamorte: i seguaci del Signore Oscuro erano sulle tracce di chi andava e veniva da quella casa e più di una volta erano arrivati a tanto così dallo scoprire la loro posizione. In quei momenti Audrey cadeva in uno stato di ansia paralizzante e solo allora le tornava tutto in mente: il corpo di sua nonna, le grida di suo zio, la viscosità del sangue e quel lupo mannaro spaventoso in cui ormai erano racchiuse tutte le sue paure.

Quasi tutte le sere, Percy si smaterializzava nei pressi della proprietà dei Bell. 

Lui e Audrey sembravano essere tornati a quella settimana dopo le feste di Natale. Passavano di nuovo più tempo insieme di quanto fosse davvero necessario, seppur raramente da soli. Lei era infinitamente più triste rispetto a quei giorni lontani e lui infinitamente più impacciato, nonostante si fossero ormai chiariti sul fatto che tra loro non ci sarebbe mai stato nient’altro che quella amicizia. 

Percy si sentiva… confuso: da un lato questo lo sollevava, ma dall’altro si sentiva un vero idiota. Anche se Audrey avesse ricambiato quell’interesse cosa avrebbe potuto fare? Dare una pacca sulla spalla di Penelope e lasciarla, dopo quattro anni, mentre lei si nascondeva dai mangiamorte? Questo era troppo perfino per lui che di voltafaccia se ne intendeva. 

Audrey d’altra parte faticava a ignorare quella piacevole e al contempo fastidiosa stretta che la attanagliava ogni qualvolta si trovavano troppo vicini. Si ripeteva che ciò che provava per lui era solo la conseguenza di ciò che stava passando, che lui era l’unica persona davvero amica in quel mare di solitudine e che per questo, solo per questo, aveva la sensazione di essere ormai completamente vittima di un sentimento che detestava provare. 

Non era mai in vena di parlare, né di loro due né di ciò che era successo alla sua famiglia. Ascoltava di malavoglia i resoconti che Percy le faceva su ciò che stava accadendo nel Mondo Magico: non voleva sentir parlare di guerra e di morte e quando Percy se ne rese conto imparò a lasciare la realtà fuori da quella fattoria. 

Lei si stava creando un piccolo universo fatto di vecchi romanzi impolverati, vinili e vita di campagna. Le galline smisero di farle paura e agli inizi marzo la sua presenza nella fattoria iniziò a essere meno statica. 

Superata la paura delle galline le fu facile capire che avere a che fare con gli animali, il fango e l’orto non era poi così tanto male. Le piaceva parlare con il bestiame, cantare loro delle canzoni accarezzando i loro manti, tanto che arrivò a pensare che, in fondo, la scelta vegana dello zio Elijah non fosse poi così strana. Tuttavia, quando aveva deciso di chiudere ogni rapporto con la carne, il signor Cattermole si era sentito molto in difficoltà: 

- Adesso che cosa cucino? - Si domandava disperato, valutando nel frattempo l’ennesimo modo fantasioso di preparare le patate.

Comunque la città le mancava enormemente. Le mancavano le lezioni in conservatorio, il suo lavoro al ristorante e un balsamo che fosse adatto ai suoi capelli. Le mancava persino la chiesa, quelle domeniche in cui sua nonna la costringeva a indossare uno di quegli abiti tradizionali, le mancava fufu per pranzo, e soprattutto le mancavano nonna Harriette e nonna Constance, anche se spesso faceva finta che fossero vive, che quella fosse solo una mezza specie di vacanza. Quando invece sentiva parlare di dissennatori, — creature che avevano il brutto vizio di aggirarsi attorno alla proprietà, proprio come i mangiamorte che erano sulle tracce di chi era ospite in quella casa, facendo guastare il tempo e mettendo tutti di malumore — la mente di Audrey finiva sempre su suo zio. Tutti erano dell’idea che non sarebbe stato più lo stesso se mai fosse sopravvissuto ad Azkaban. 

Arrivò la primavera, quell’anno insolitamente calda, cosa che portò Audrey a passare gran parte del tempo all’aperto. Scoprì che l’odore del mare che sentiva non era frutto della sua immaginazione, ma che la fattoria in realtà si trovava sulla costa del Galles. Di domenica, quando né Katie né Percy lavoravano, in compagnia anche di Oliver si prendevano il rischio di lasciare per qualche ora la fattoria per andare in spiaggia. Lì passavano lunghi pomeriggi in cui Audrey si sentiva un po’ meno sola e un po’ meno perduta. Lì erano solo quattro ragazzi normali che passavano del normalissimo tempo insieme. 

- Quindi anche tu puoi abbronzarti? - Le chiese Percy, quel pomeriggio d’inizio maggio, seduto  accanto a Audrey, sulla sabbia fredda. 

In acqua Oliver stava facendo il bagno nonostante i quindici gradi, mettendo in mostra il suo corpo da atleta, mentre Katie se ne stava sul bagnasciuga. 

Audrey si voltò a guardare Percy facendo una faccia perplessa. - Certo che mi abbronzo. - Disse. 

- E come funziona? - 

- Come funziona? Guarda che non sono mica un alieno, funziona proprio come funziona per te. - Ribatté lei, piccata. - Divento più scura e se non metto la crema solare posso bruciarmi, esattamente come chiunque. - Spiegò, prima di tornare a guardare Oliver, che in quel momento stava uscendo dall’acqua con indosso dei boxer con tante piccole pluffe stampate sopra, con le movenze un modello in una pubblicità di profumi. 

Forse grazie al sole che stava man mano tramontando rendendo l’aria satura di luce arancione o forse per le goccioline d’acqua che gli accarezzavano il corpo, ma il ragazzo aveva indubbiamente un certo fascino, Audrey doveva dargliene atto. 

- Per la barba di Merlino! - Esclamò Percy, fissando Audrey con lo sguardo truce di chi era stato pugnalato alle spalle. - Fai sul serio? -  

Lei aggrottò la fronte. - Di cosa parli? - Gli chiese, confusa.

- Di te, che mangi con gli occhi Oliver! - Rispose Percy. - Pensi che sia bello, non è così? - 

Audrey si sentì arrossire. Era stata palesemente colta sul fatto. - Mh, sì. - Gli concesse, con studiata noncuranza, scrollando le spalle. - È un bel ragazzo. - 

- Guarda che lui e Katie stanno quasi insieme! - 

- E quindi? Lenny Kravitz ha una ragazza; tuttavia ogni volta che passa il videoclip di una sua canzone su MTV io non mi azzardo a cambiare canale, e non perché mi piace la musica che produce. - 

- Ah…! Lenny Kravitz, quello che somiglia a tuo padre! - 

Audrey fece una faccia confusa. - Non somiglia per niente a mio padre. - Obiettò. 

- Sono entrambi neri. -

- Che vuol dire? A parte che mio padre è dieci volte più scuro di Lenny Kravitz… e poi tu e Oliver siete entrambi bianchi, eppure lui è così… - e indicò il portiere, - mentre tu sei così. - Concluse, facendo un cenno verso Percy. 

- Così come, di grazia? - 

- Siete diversi. - Disse Audrey, divertita. - Lui è tutto muscoli, simpatia e spontaneità, mentre tu sei più riflessivo, sei uno con la testa sulle spalle. - 

- Parli come mia madre. - Fece Percy, lugubre. 

- Comunque il mio era un complimento. - 

- Figuriamoci se invece volessi insultarmi, allora. - 

- E perché dovrei farlo? Sei praticamente il mio unico amico in un mare di solitudine. - 

Percy tacque, osservando il profilo di lei, illuminato dal mite sole di marzo. Quasi non somigliava più alla ragazza che avevano incontrato mesi prima: sembrava essersi rimpicciolita, ma forse era solo più magra dato che non mangiava nulla o quasi.

- Oliver e Katie sono tuoi amici. - Le ricordò. 

- Li conosco da troppo poco tempo per dire che sono miei amici. - Ribatté lei. 

- Però con Katie puoi parlare delle tue cose babbane: lei è un’esperta. - 

Audrey fece un verso scettico ma non riuscì a ribattere in tempo che la voce di Oliver attirò la loro attenzione: - L’acqua è fantastica! - Esclamò, camminando verso di loro seguito da Katie.

Poi, quando fu abbastanza vicino, si scrollò come un cane, schizzando Percy. Audrey e Katie risero, davanti l’espressione irritata dell’ex prefetto.

- Hey! - Sbraitò Percy. 

- Scusa, amico. - Fece Oliver, sorridendo, sedendosi tra lui e Audrey. - Volete restare qui a guardarci mentre io e Katie ci divertiamo, oppure vi decidete ad avvicinarvi all’acqua? - 

- Non ci penso nemmeno. - Dichiarò Percy. 

- Passo. - Disse Audrey. - Vorrei evitare di fare la fine di Leo Dicaprio in Titanic. - 

Percy, Katie e Oliver la guardarono senza capire. Succedeva spesso quando Audrey si metteva a parlare di cose babbane. 

- Sul serio? - Fece la giovane, incredula. - Il film è uscito qualche mese fa! Con Dicaprio! Colonna sonora di Celine Dion! Katie, non dirmi che nemmeno tu hai idea di cosa io stia parlando! - 

- Io non ho quasi mai idea di cosa tu stia parlando. - Ammise Katie, teatralmente contrita. 

- Nel film Dicaprio muore assiderato per salvare Kate Winslet, visto che la loro nave ha preso un iceberg in pieno ed è affondata nel bel mezzo dell’oceano atlantico. - Spiegò Audrey. - Non voglio fare la sua stessa fine. - 

- Ma l’acqua non è così fredda. - Obiettò Oliver. 

- Resta il fatto che non ho un costume. - 

- Nemmeno io. - Rispose allegramente il ragazzo, indicando verso il basso. 

Audrey avvampò di colpo e ridacchiò nervosamente.

- Infatti è meglio se ti rivesti… - Fece invece Percy, scoccandogli un’occhiata torva. 

- Noiosi. Noiosi entrambi. - Decretò Oliver. 

- Io in verità devo tornare alla fattoria. - Disse Audrey alzandosi in piedi. - Lo sapete che non mi piace tornare con il buio. - 

- Vengo con te. - Fece Percy, e anche lui si alzò. - Non vorrei che ti imbattessi in qualche dissennatore o peggio. - 

- Oh sì, così magari puoi mostrare anche a Audrey la forma che prende il tuo patronus. - Sogghignò Oliver. 

Percy aprì la bocca per ribattere, ma Audrey lo anticipò: - Sembra una storia divertente. - 

- Il patronus di Percy è un pavone. - Svelò subito Katie. 

Audrey rise: - Chissà perché non sono sorpresa. -

- Ma certo: perché io mi pavoneggio… sì, sì, davvero divertente. - Sbuffò Percy, alzando gli occhi al cielo e assumendo una sfumatura più rosata in viso. 

- Be’... sì. - Disse Katie. - “Guardatemi, ho preso dodici M.A.G.O.”... - 

- “So tutto sui babbani, ho preso una E in babbanologia…”. - 

- “Sono troppo intelligente per il quidditch!” - 

- Non ho mai detto una cosa del genere! - Esclamò Percy. 

- Tranquillo: qui ti vogliamo bene anche se sei un po’ presuntuoso, vero, ragazzi? - Fece Katie, guardando prima Oliver e poi Audrey. 

Lei scrollò le spalle. - Ha salvato mia sorella dalla deportazione e me dalla morte, credo di essere più o meno costretta a volergli bene, arrivata a questo punto. - 

Lui fece una faccia strana, ma non ribatté. - Dai, andiamo. - Disse solo, iniziando ad avviarsi verso la duna. 

- Ci vediamo più tardi. - Audrey salutò Katie e Oliver alla svelta e poi raggiunse Percy spiccando una corsetta. 

La strada che collegava la spiaggia dalla fattoria era una via sterrata che attraversava l’aperta campagna per poco più di due chilometri. Audrey e Percy la percorsero quasi in totale silenzio, con lei che calciava sassi o raccoglieva fiori di campo mentre lui apriva la strada. Di tanto in tanto Percy si voltava a guardarla, giusto per assicurarsi che tenesse il passo, e la scopriva a giocare con i petali dei fiori che raccoglieva come una bellissima ninfa rapita da un pensiero dal sapore dolceamaro. Quando Audrey si accorgeva dello sguardo di lui allora si riscuoteva e lasciava cadere il fiore che teneva in mano come se fosse stata beccata a fare qualcosa di imbarazzante; sorrideva appena e a si avvicinava a lui iniziando a camminare al suo fianco. 

Arrivarono alla fattoria quando ormai il sole era tramontato e si imbatterono come prima cosa nei figli dei Cattermole che giocavano in giardino, mentre i genitori li tenevano d’occhio dal portico. 

- Buonasera. - Li salutò Percy, mentre seguiva Audrey in casa. 

Reginald gli scoccò uno sguardo torvo come al solito, mentre Mary mormorò un saluto quasi impercettibile. 

- Certo che ti odia proprio. - Bisbigliò Audrey, una volta varcata la soglia. 

- Come dargli torto, per lui sono la personificazione del male. - 

Audrey lo scrutò per bene. - Tu? Con quella faccia? Secondo me dovresti restare per cena e fare dei complimenti al suo stufato di verdure. - Disse, con leggerezza. 

- Meglio di no. - 

- Comunque è presto per andare via. - Ribatté lei. 

Percy sospirò, guardandola. Perché non puoi semplicemente chiedermi di restare? 

- Sì, è presto. - Le disse. 

- Al signor Bell non dispiacerà se resti un po’ più del solito. - 

- Al signor Bell… già. - 

- E anche a me. - Disse rapidamente lei, e poi aggiunse: - Andiamo di sopra? Ho trovato una cosa interessante nel mobiletto su cui sono sistemati i vinili della madre di Katie. - 

- Andiamo. - 

Quando arrivarono nella mansarda, in quel momento illuminata dagli ultimi raggi dell’imbrunire grazie al lucernario che occupava gran parte del tetto scosceso, Audrey si accucciò davanti a quel piccolo mobile di legno tarlato e aprì le ante mostrandone il contenuto: una vasta scelta di vino elfico, idromele e whisky incendiario si palesò davanti a loro. 

- Vuoi affondare i tuoi dispiaceri nell’alcol? - Domandò Percy, perplesso. 

Audrey scrollò le spalle. - Perché no, sono pur sempre mezza irlandese. - Disse con leggerezza. - Il signor Bell ogni tanto si siede sul divano, si scola qualcosa e ascolta The Winner Takes It All degli Abba a ripetizione pensando a sua moglie… davvero triste. - 

Ci fu un attimo di silenzio e poi Audrey si alzò in piedi, con una delle bottiglie di idromele stretta in una mano. - Dici che gli dispiacerebbe? - 

- Considerando che sembra fornito quanto i Tre Manici di Scopa… direi con quasi totale certezza che no: non gli dispiacerebbe. - Fece Percy. 

Audrey lo guardò con sorpresa ma poi sorrise. - Allora anche tu hai un animo ribelle, in fondo… - Si lasciò cadere sul divano e Percy la imitò subito dopo. - Si può usare la bacchetta come apri-bottiglia? - 

Percy rispose tirando semplicemente fuori la bacchetta e facendo sparire il tappo nel nulla, con l’espressione di chi era certo di aver compiuto qualcosa di strabiliante. 

Audrey, come davanti ad ogni incantesimi, fece una faccia sorpresa, poi disse: - Alla salute. - E bevve, per poi passare la bottiglia a Percy, che esitò per qualche istante.

- Così, senza un bicchiere? - 

- Quanto sei snob. - 

- Quanto sei irlandese. - 

- Stai facendo il razzista con la parte sbagliata delle mie origini. Evoca dei bicchieri se proprio muori dalla voglia di usare le buone maniere. -

Percy non se lo fece ripetere due volte e in un attimo comparvero due bicchieri di vetro tra le loro mani, che lui riempì di idromele. 

Audrey bevve e poi storse il naso con disapprovazione: - I vostri alcolici sono davvero pessimi. - Dichiarò, guardando il liquido dorato che danzava nel suo bicchiere. 

- Troppo forte per te? - 

Lei soffocò una risata. - Sembra la tisana della buonanotte di nonna Constance. - 

- Be’, tu vacci piano lo stesso. - Mugugnò Percy, guardandola di sottecchi. 

Audrey scrollò le spalle e si portò nuovamente il bicchiere alle labbra. Poi sospirò: - Mi manca casa. - Disse all’improvviso parlando piano, come se gli fosse tornato in mente e all’improvviso un doloroso ricordo. - Mi manca la mia vita… indossare dei vestiti normali. - Proseguì accarezzando il tessuto dell’abito che indossava in quel momento, raccattato nell’armadio della sua stanza. - E mi manca la musica, tanto. - 

- C’è il pianoforte. - Tentò Percy, facendo un cenno verso lo strumento impolverato.

- È scordato. - 

- Allora puoi mettere quei dischi e cantarci sopra. - 

Audrey ridacchiò appena. - Mi ci vedi a cantare gli Abba? - 

- Ti vedo a cantare qualsiasi cosa, sei brava. - 

Lei lo guardò perplessa per una manciata di secondi. - Sei già ubriaco. - Disse.

- Ci vuole molto di più di qualche sorso di idromele per farmi ubriacare, temo. Dicevo sul serio: sei brava e sei consapevole di esserlo. - 

Audrey mugugnò e abbassò lo sguardo verso il bicchiere. - Tu non capisci niente di musica. - 

A quel punto sul viso di lui comparve un sorrisetto. - Non puoi dire semplicemente “grazie”, come ogni altra persona normale? - La punzecchiò. 

Audrey si limitò a scrollare le spalle e poi bevve. - Mh… direi proprio di no. - Dichiarò dopo. - Sai cos’altro mi manca? Un balsamo adatto ai miei capelli. Giuro che darei qualsiasi cosa per riuscire a pettinarmi. - 

Percy si limitò a guardarla senza dire niente per qualche istante. In effetti quella sua particolare chioma aveva decisamente visto momenti migliori: in quel momento Audrey teneva i capelli legati in una coda bassa che le dava un’aria un po’ trascurata e da cui sfuggiva qualche ciocca crespa. 

Lui esitò ma poi allungò la mano prima ancora di pensare di farlo e, con una naturalezza sorprendente, sfiorò con le dita quella ciocca pericolosamente vicina al viso di lei. 

Probabilmente in un altro consenso Audrey sarebbe scattata, avrebbe allontanato quella mano con stizza e dichiarando a gran voce di non essere un animaletto grazioso da accarezzare, ma rimase immobile e zitta come se si fosse fatta di pietra. Percepiva la mano di Percy che sfiorava delicatamente la sua guancia; batté le palpebre un paio di volte, come se stesse cercando di riscuotersi, e poi si sentì arrossire nel rendersi conto che lui era decisamente troppo vicino. Era una questione di centimetri: sarebbe bastato sporgersi un po’ più in avanti per posare le labbra su quelle di lui, sarebbe bastato raccogliere un po’ di coraggio, buttarsi, rischiare. 

- Li ho sempre trovati graziosi, i tuoi capelli. - Le disse Percy, e la sua voce suonò diversa, per nulla impostata. 

- Grazie. - Mormorò Audrey, muovendo appena le labbra. - A me piacciono i tuoi. - 

- Però a te piace Oliver. - Ribatté Percy, tornando a stringere il bicchiere con entrambe le mani. 

Audrey alzò gli occhi al cielo. - Non mi piace Oliver. - 

- Pensi sia bello. - 

- È bello, ma non mi piace in quel senso. - Chiarì Audrey. - A me… ecco, a me piace un’altra persona, credo. - 

Percy corrucciò le sopracciglia. - Un’altra persona? - 

Lei si strinse nelle spalle e non rispose, ma vuotò il bicchiere con un sorso. Quel dannato idromele non bruciava affatto nella gola, ma aveva reso d’un tratto ogni suo pensiero più leggero.

Alzò lo sguardo su Percy e un piccolo sorriso piegò le sue labbra. - Lui è di gran lunga molto meglio di Oliver. - Disse. - Conosce tantissime cose e ha così tante sfaccettature che credo proprio non riuscirò mai a conoscerlo davvero e del tutto. Ed è bello pure lui, solo che in modo diverso. - 

Percy la fissò per un secondo e poi deglutì a vuoto, rendendosi conto di avere la gola terribilmente secca. Si portò il bicchiere alle labbra e bevve. - In modo diverso… come? - Domandò poi.

- Ha una bellezza più discreta. - Spiegò Audrey. - Tenta di nasconderla dietro ad un carattere particolare e a un paio di occhiali da secchione saccente, ma in verità è una persona meravigliosa. - 

Percy non aprì bocca all’inizio. 

No, non poteva parlare di lui, si disse, continuando a guardarla negli occhi. Non poteva essere lui perché lui non era una persona meravigliosa, perché già una volta si era illuso di poterle piacere, perché se fosse stato lui allora tutto si sarebbe complicato: non sarebbe riuscito a resisterle, stavolta avrebbe ceduto.

- È un ragazzo molto fortunato se ha la tua attenzione. - Mormorò Percy, fissando il suo bicchiere ancora intonso.

Audrey lo guardò con aria afflitta. Perché diamine non riusciva a capire? 

Scosse appena la testa ma un improvviso rumore di passi su per le scale, alle loro spalle, non le diede il tempo di aprir bocca. Quando si voltò verso la porta notò la presenza di Katie e Oliver, con il fiato corto e uno sguardo strano. 

- Che è successo? - La anticipò bruscamente Percy, alzandosi in piedi. 

Oliver prese un respiro profondo. - Aberforth ci ha mandato un patronus. - Disse. - Harry, Ron e Hermione sono a Hogwarts, forse… forse ci sarà una battaglia, anzi di sicuro ci sarà una battaglia. - 

- Una battaglia? - Insorse Audrey, sentendo il suo cuore saltare un battito. - Voi mi avete assicurato che Hogwarts era un posto sicuro… Lucy… Lucy è lì, non può esserci una battaglia se mia sorella è lì. - 

- Stanno già evacuando la scuola, non devi preoccuparti di questo. - Rispose Katie in tono conciliante e teso allo stesso tempo

- Sì, ma… ma… - 

- Ci penso io a Lucy. - Percy lasciò il bicchiere che aveva in mano sul tavolino davanti al divano e rivolse a Audrey uno sguardo fermo. - Mi assicurerò io stesso che sia al sicuro, la porterò qui. - 

Lei fu scossa da un moto di gratitudine che però fu subito sostituito da un’altra paralizzante emozione: la paura. 

- La porti qui e poi resti? - Domandò, con voce sottile. - Tu non combatterai, vero? - 

Percy si sentì gelare davanti a lei e a quel tono che suonava quasi come una supplica. Audrey stava soffrendo, era di nuovo impaurita e confusa come quando aveva bussato alla porta, ricoperta del sangue di Harriette. - Devo andare. - Si limitò a dirle, facendo un rigido passo verso la porta. 

Audrey rimase ferma e zitta, sebbene dentro di sé qualcosa urlava di fermarlo. 

- Se qualcosa dovesse andare storto… - Iniziò Katie. - Ci sono dei soldi babbani nascosti in una scatola di biscotti, nella credenza. Tu e i Cattermole dovrete usarli per darvi alla macchia. - 

Audrey strinse le labbra piegate verso il basso e annuì senza emettere un suono. 

Fissò Percy, che si era fermato sulla soglia insieme agli altri due, sperando con tutta sé stessa di non vederlo fare un altro passo lontano da lei. Poi lui alzò la mano come per salutarla e in modo impacciato sparì dalla sua vista, seguito da Oliver e Katie. 

Tutto qui. 

Nemmeno una parola. 

Nemmeno ciao

Niente di niente.

Audrey si lasciò cadere di nuovo sul divano e sospirò, reprimendo le lacrime. 

Una battaglia. Una battaglia a Hogwarts. 

Oh, Lucy… 

Passarono all’incirca dieci secondi di spettrale silenzio finché un rapido susseguirsi di passi su per le scale non attirò di nuovo la sua attenzione. Si alzò in piedi e si voltò verso la porta, dove notò la presenza di Percy. Aveva il fiato corto come se avesse fatto le scale a due a due e le sue guance erano vistosamente arrossate. 

- Forse morirò stanotte. - Disse di getto, mentre tentava di riprendere fiato. - Ma non posso, non posso morire se prima non... - 

- No che non puoi morire, razza di idiota che non sei altro! - Lo interruppe lei con furia, per poi aggirare il divano. - Cosa credi di fare, eh? Vuoi andare lì, a giocare alla guerra? Ti rendi conto di quanto sia pericoloso? Tu sei… sei… sei un incosciente, ecco cosa sei! Quindi adesso vai a prendere mia sorella e poi… poi torni qui… e poi… - 

E poi accadde. 

Percy mosse un rapido passo verso di lei cancellando la breve distanza che li divideva, la afferrò per le spalle e poggiò le labbra su quelle di lei con rude veemenza. Durò un secondo, forse anche meno, e fu proprio Audrey a fare un passo indietro per rivolgergli uno sguardo smarrito. 

Percy la fissò a sua volta in attesa di vederla reagire. L’aveva baciata, — l’aveva baciata davvero! — e adesso persino il Signore Oscuro gli faceva meno paura. 

Tuttavia l’ansia lo invase di colpo: cosa gli era saltato in mente? 

Prese fiato e si preparò a scusarsi, — oppure, conoscendola, a beccarsi uno schiaffo, — ma Audrey rimase ferma guardarlo perplessa per quella che parve un’eternità prima di fare un timido passo verso di lui. 

In tutta la vita aveva baciato solo altre due persone prima di lui e mai, neppure una volta, Audrey aveva fatto qualcosa di concreto per far sì che ciò accadesse. Lei non baciava, casomai si lasciava baciare se proprio doveva, ma in quel momento… sì, in quel momento si sarebbe volentieri allungata verso le labbra di lui per poter replicare, se solo ne avesse avuto il coraggio. 

- Fallo di nuovo. - Ordinò perentoria. 

- C… cosa? - Balbettò Percy. 

- Quello che hai appena fatto. - 

Percy si sentì fremere a quella richiesta, ma non se lo fece ripetere due volte: il mondo sparì quando le loro labbra si incontrarono di nuovo: c’erano solo loro due, soli in quella fattoria sperduta nelle campagne del Galles, il gusto dell’idromele sulla bocca di lei, la morbidezza della pelle del suo collo e quelle piccole mani che in quel momento erano goffamente appoggiare sul petto di lui. Percy pensò che anche se il Signore Oscuro, o Penny, o chiunque altro, fosse stato lì presente ad osservarli, lui non se ne sarebbe accorto e, soprattutto, non gliene sarebbe importato niente. 

Per Audrey fu invece come riemergere dalle profondità del gelido abisso in cui sembrava essere piombata da mesi: forse la vita poteva avere ancora un senso se sentiva dentro di lei qualcosa di diverso dal solito lancinante dolore. Forse quella notte la guerra sarebbe finita, sarebbe tornata a casa e avrebbe potuto finalmente raccontare a Lucy di come si era innamorata di quel mago dai vestiti improponibili e dai capelli rossi. 

Forse c’era ancora speranza. 

Quando si separarono Audrey notò che Percy era arrossito in modo molto vistoso e si lasciò scappare un piccolo sorriso che sparì alle parole di lui: 

- A-adesso… adesso devo andare. - Esalò Percy. 

Audrey lo guardò intensamente. Ti prego, no… pensò disperata. - Perce… per favore… -

- Ci vediamo tra poco. - La interruppe lui, facendo un passo indietro. - Aspettami qui. 

Stavolta lei si costrinse ad annuire, le labbra strette e piegate verso il basso e un nodo stretto nella gola. - Ti aspetto qui. - Ripeté. 



 

Lo so. 

Lo so: questo ritardo è imperdonabile, soprattutto dopo aver detto che in estate avrei pubblicato più spesso. Purtroppo nelle ultime settimane me ne sono successe di ogni (anche cose belle, non temete), e il tempo mi è scivolato via senza nemmeno che me ne rendessi conto. 

Comunque alla fine ce l’ho fatta, ho scritto questo capitolo (che in realtà non doveva nemmeno andare così ma okay) e ovviamente non sfiora nemmeno le mie aspettative. 

Spero vivamente di riuscire a scrivere e pubblicare il prossimo in tempi più brevi, ma non vi assicuro niente. 

Fatemi sapere cosa ne pensate e perdonate ancora questa lunga assenza. 

(Mi siete mancat*)

J.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 15. La battaglia ***


Capitolo 15

 

La prima visita di Percy al Testa di Porco risaliva al mese di giugno dell’anno prima, quando Oliver lo aveva spinto in quella pseudo organizzazione di ribelli con la scusa di una burrobirra in un luogo tranquillo. Quel giorno di tanto tempo fa la locanda era vuota e in effetti anche nei mesi successivi non era mai stata particolarmente affollata. La clientela di Aberforth Silente era indubbiamente variegata, ma non si poteva di certo affermare che quello fosse un pub di successo. Per questo, quando Percy varcò la soglia della locanda quella sera di maggio, si ritrovò sorpreso davanti ad un vastissimo gruppo di ragazzini in pigiama, probabilmente appena scappati da Hogwarts. 

- Ce l’avete fatta! - La voce di Aberforth sovrastò il baccano e, non appena vide Oliver, Katie e Percy entrare, si precipitò da loro facendosi largo tra gli studenti terrorizzati. 

- Scusa il ritardo, Abe. - Fece Oliver. - Il nostro Percy, qui, ha perso tempo per salutare la sua amata ragazza babbana. - 

Percy gli tirò una gomitata e si sentì arrossire appena, per poi parlare al vecchio mago prima che esso potesse dire qualcosa a sua volta: - Come possiamo essere utili, signor Silente? - Domandò. 

- La battaglia sta per iniziare, ma uno di voi mi serve qui, per portare i ragazzini lontani, in salvo, lontani dalla scuola. - Affermò Aberporth.

Percy si guardò fugacemente intorno, cercando il viso della sorella di Audrey tra tutti quelli dei giovani studenti che in quel momento affollavano la locanda. Nessuna traccia. - Io devo proprio andare a Hogwarts. - Dichiarò. 

- Resto io qui. - Si propose Katie, per poi rivolgersi a Oliver e Percy: - Voi due andate, ragazzi, ci vediamo a Hogwarts tra poco. - 

Percy vide Oliver tergiversare, teso e serio come non lo era mai stato, ma quando si mosse allora lo seguì senza sindacare verso il passaggio dietro al ritratto, da cui continuavano ad andare e venire maghi, streghe, studenti e studentesse. 

Nel passaggio, stretto e ingombro, l’aria sembrava brillare di eccitazione e paura. Percy si ritrovò spesso a schivare visi conosciuti di alcuni ex compagni di scuola man mano che saliva quelle scale di pietra levigata e all’improvviso, come la punta di un attizzatoio incandescente, si rese conto che di certo quella notte si sarebbe ritrovato davanti alla sua famiglia al completo. 

Era ovvio che fossero lì, tutti loro, era ovvio che gli avrebbero rivolto quegli sguardi torvi come quel Natale di qualche tempo prima, quando aveva messo piede alla Tana insieme al ministro, ed era ovvio che lui, di nuovo, non sarebbe riuscito a dire una parola. 

Era stato così stupido, così stupido… e forse sarebbero morti senza nemmeno riappacificarsi. 

Forse sarebbe morto e suo padre l’avrebbe ricordato per sempre come quel figlio ingrato che gli aveva dato del fallito. 

Oliver, a pochi passi da lui, si immobilizzò di scatto, tirandolo fuori dal suo flusso di pensieri. - Io torno da Katie. - Disse in tono ansioso, voltandosi verso Percy. - Non posso… non posso lasciarla, capisci? Tu va… Ci vediamo al castello non appena avremo evacuato tutti gli studenti. - 

- Se vedi la sorella di Audrey… - 

- La spedirò dritta a casa, lo so. - Lo anticipò Oliver, dandogli una pacca sulla spalla. 

Percy annuì frenetico. - State attenti, Hogsmeade sarà piena di mangiamorte. - 

Oliver fece un sorrisetto e scrollò le spalle, prima di passargli accanto per percorrere il percorso appena battuto al contrario, lasciandolo da solo. 

Lì, in mezzo a quel passaggio scavato nella roccia fredda, la mente di Percy tornò a correre veloce, ma si riscosse sbuffando e riprese a camminare finché, a pochi passi da lui, non vide la luce. Non fece in tempo a guardarsi attorno, non ebbe un momento per capire, varcò la soglia che dal tunnel portava al castello, inciampò sull’ultimo gradino e cadde producendo un gran frastuono. 

- Sono in ritardo? È già cominciato? L'ho saputo solo ora e… - 

Alzò lo sguardo, e quando vide chi stava ricambiando quell’occhiata confusa, Percy tacque come se qualcuno l’avesse appena pietrificato. Era certo che si sarebbe imbattuto in loro quella notte, ma non così, non così all'improvviso, non così da vicino

Passò lo sguardo su ognuno di loro: notò che Ginny era cresciuta rispetto all’ultima volta che l’aveva vista, che i suoi capelli erano più lunghi e la sua espressione molto sicura; si rese conto che Ron era alto quanto lui ormai e che sua madre invece sembrava un po’ emaciata (probabilmente quei mesi di guerra non erano stati facili per nessuno di loro). Guardò Fred e George, poi Bill e la giovane e bellissima donna con cui ormai suo fratello era sposato, notò che c’era anche Harry e poi, solo all’ultimo, i suoi occhi si posarono su suo padre. 

Arthur Weasley, impalato e teso accanto a Remus Lupin, guardò il figlio, ma senza la solita e ormai conosciuta espressione distante che l’uomo aveva avuto ogni qualvolta in cui Percy l’aveva incontrato in ascensore al Ministero. 

Ti prego, papà, di’ qualcosa… pensò disperatamente il giovane, dite qualcosa, qualsiasi cosa… dite qualcosa perché io non ce la faccio.

- Alors… come va il picolo Teddì? - Esordì Fleur, quasi come se l'avesse sentito pensare, rivolgendosi a Lupin.

Lupin batté le palpebre, esterrefatto. Probabilmente quel silenzio aveva fatto sentire a disagio anche lui. - Io... oh... sì... sta bene! Sì, Tonks è con lui... a casa di sua madre. - Disse ad alta voce, e poi tirò fuori una fotografia dalla giacca e la mostrò a Flaur e a Harry. - Ecco, ho una foto… - 

- Sono stato uno scemo! - Le parole uscirono dalla bocca di Percy ancor prima che potesse pensarle, e le pronunciò così forte che per poco la foto non cadde di mano a Lupin. - Un idiota, un imbecille tronfio, sono stato un... un… - 

- Un deficiente schiavo del Ministero, rinnegato e avido di potere. - Concluse Fred.

Percy deglutì. - Sì! - 

- Be', non potevi dirlo meglio di così. - Dichiarò Fred, poi fece un passo in avanti e gli tese la mano. 

La signora Weasley scoppiò in lacrime. Corse avanti, spinse via Fred e strinse Percy in un abbraccio soffocante, mentre lui le dava pacche sulle spalle, lo sguardo puntato sul padre.

- Mi spiace, papà. - Mormorò.

Il signor Weasley batté le palpebre in fretta, poi anche lui corse ad abbracciare il figlio.

No, non se lo meritava, non si meritava quell’amore, pensò Percy quando sentì i suoi occhi pizzicare fastidiosamente. Li aveva rinnegati, se n'era andato gridando loro quanto li odiava, aveva dato a suo padre del fallito e aveva spezzato il cuore di sua madre mandando indietro ogni suo regalo. Eppure i suoi genitori lo stavano stringendo come quando da bambino aveva bisogno di essere consolato dopo le prese in giro dei suoi fratelli.

No, non se lo meritava, non se lo meritava affatto. 

- Che cos'è che ti ha fatto tornare in te, Perce? - Chiese George, quando i signori Weasley lo lasciarono andare. 

- Era un po' che ci pensavo. - Rispose Percy, asciugandosi gli occhi sotto le lenti con un angolo del mantello da viaggio. - Ma dovevo trovare un modo di venir via e non è facile al Ministero, sbattono in prigione traditori uno dopo l'altro. Sono riuscito a mettermi in contatto con Aberforth, mi ha fatto sapere che Hogwarts stava per dare battaglia, e così sono tornato. - 

- Be', ci aspettiamo che i nostri prefetti prendano il comando in simili circostanze. - Declamò George, in una buona imitazione dei modi più pomposi di Percy. - Adesso andiamo di sopra, o ci perderemo tutti i Mangiamorte migliori. - 

- Quindi adesso sei mia cognata? - Chiese Percy, stringendo la mano a Fleur mentre correvano verso la scala con Bill, Fred e George.

- Oh oui. - Cinguettò Fleur. - È stato un vero dispiashere non vederti tra gli invitati. - 

- Già, ti sei perso un grande evento, oltre ad aver fatto piangere nostra madre per l’ennesima volta. - Buttò lì George. 

- Io non… mi dispiace, io… sono stato davvero un… -

- Per non parlare delle cugine veela di Fleur. - Sogghignò Fred, interrompendolo, mentre tutti insieme raggiungevano la Sala D’ingresso.

- Forse è meglio se ci dividiamo per tenere d’occhio le vie d’accesso al castello. Dobbiamo organizzarci in coppie, così tutti i passaggi saranno coperti. - Dichiarò Bill, una volta in cima alle scale. - Io e Fleur ci occuperemo del lato sud del castello: così facendo riusciremo a tenerli fuori più a lungo possibile mentre la scuola viene evacuata. -

- Stavo giusto pensando di andare insieme ad Angelina sulle mura. - Disse George, annuendo. - Vieni con me, Freddie? - 

Fred assunse un’espressione insolitamente pensierosa, poi fece un sorrisetto che tradì qualche sottinteso e scosse la testa. - No, vai tu con lei. - Rispose, prima di voltare lo sguardo verso Percy. - Tu starai con me, eh, Perce, non vorrei vederti passare di nuovo al lato oscuro. - Aggiunse con un tono tale che l’altro non capì fino a che punto fosse serio. 

Percy sospirò e poi si guardò furtivamente attorno: c’era un grande via vai, ma di Lucy nessuna traccia. 

Poteva davvero dire di no a uno dei suoi fratelli per andare a cercare quella ragazzina? 

Audrey mi ucciderà… 

- Andiamo. - Dichiarò, alzando gli occhi al cielo. 

Si divisero: Fleur e Bill corsero verso l’uscita del castello, mentre George si allontanò sparendo dopo aver svoltato a sinistra. Dopo un attimo di smarrimento, Percy seguì il fratello minore. 

Passarono davanti a una serie di ritratti e le figure dipinte corsero con loro, maghi e streghe con gorgiere e calzebrache, armature e mantelli, si stipavano nelle tele altrui, urlando notizie raccolte in altre parti del castello. Quando arrivarono alla fine di quel corridoio, l'intero edificio tremò.

La battaglia era vicina, così dannatamente vicina…

La battaglia era vicina e se l’indomani avesse trovato il corpo senza vita di Lucy… be’, non se lo sarebbe mai perdonato. Audrey non l’avrebbe mai perdonato.

- Devo fare una cosa. - Affermò Percy, quando il fratello si voltò per assicurarsi che stesse bene. - Devo trovare una persona… devo andare, scusa, Fred... - 

Si voltò, pronto a raggiungere la Sala Grande, e Fred, fronte aggrottata per la perplessità, lo seguì per poi domandare: - Devi trovare una persona? Chi? -

- La sorella di una mia amica. - Rispose alla svelta Percy, percorrendo al contrario il corridoio pieno di studenti presi dal panico. - Lei è qui per causa mia. Pensavo che sarebbe stata al sicuro e invece… - E invece probabilmente in questo momento è in mortale pericolo…

- È qui a causa tua? - Fece Fred, scettico. 

Percy… il solito esagerato teatrale, pensò. 

- Sì, io e Oliver… io e Oliver Baston... - Ribadì Percy. - Io e Baston l’abbiamo portata qui insieme a tanti altri nati babbani. Pensavamo sarebbero stati al sicuro, tutti loro, e invece no; ci sarà una battaglia e lei non può morire o sua sorella mi ucciderà. - 

- No, aspetta… cosa? - Lo fermò Fred. -  Tu hai collaborato con Oliver Baston per… salvare delle persone? Per salvare dei nati babbani dal Ministero? - 

Percy arrestò il suo passo e sospirò prima di voltarsi verso il fratello minore. - Hai l’aria sorpresa. - Osservò risentito. 

- Certo che ho l’aria sorpresa! - Esclamò l’altro. - Noi pensavamo che… - 

- Che cosa? Che fossi d’accordo con quel che stava capitando? Che fossi dalla parte di Tu Sai Chi? - 

- Be’... sì. - 

Percy arricciò le labbra e chinò il capo, iniziando a fissare la punta delle sue scarpe come se fossero diventate improvvisamente molto interessanti. - Lo so… già, l’avrei pensato anche io. - Farfugliò arrossendo. - Io… mi dispiace tanto… - 

- Perché non ci hai detto niente? - Lo interrogò duramente Fred. - Perché non hai cercato di farci capire da che parte stavi? Un segno, qualsiasi cosa… potevi passare in negozio. - 

- Invece non potevo, siete stati sotto controllo per tutto il tempo. - Rispose Percy, e poi sospirò e alzò gli occhi, puntandoli in quelli di Fred. - Io ho cercato di fare la mia parte, ho cercato di redimermi in qualche modo, e lo so… ciò che ho fatto non cancellerà mai gli errori che ho commesso. Non mi potrò mai perdonare per ciò che… - 

- Smettila. - Lo interruppe bruscamente Fred. 

- Ma… - 

- Non iniziare. - 

- Sì, ma… - 

- Davvero, Percy: sta’ zitto. - Fred mise su un’aria di rimprovero. - Ci sarà tempo, dopo, per tutto questo, per il tuo autoflagello, per piangerti addosso eccetera eccetera; e contaci: né io né gli altri ci dimenticheremo presto ciò che hai fatto, ma stanotte non è il momento. Cerca di superarla restando in vita e poi, dopo… dopo pensiamo al resto. Resta concentrato sul restare vivo, adesso. - 

Percy rimase zitto per qualche istante, fissando il fratello minore con un’espressione perplessa dipinta in volto. Sembrava così serio. 

Fred aveva ragione: doveva restare vivo se voleva davvero farsi perdonare, per chiedere davvero scusa a suo padre e per sentirsi di nuovo degno dell’affetto di sua madre. E poi… be’, Audrey. Lei lo stava aspettando, glielo aveva detto mentre lo fissava con quei suoi bellissimi occhi verdi e spalancati puntati nei suoi. 

- Adesso andiamo a cercare la sorella di questa tua amica, su, Weatherby. - Proseguì Fred con nonchalance, tornando a muoversi lungo il corridoio. 

Arrivarono in fondo e svoltarono a destra. Lì Percy si guardò intorno e si sentì mancare: i Mangiamorte erano entrati a Hogwarts, e due uomini incappucciati, proprio in quel momento, stavano camminando minacciosamente verso di loro. 

- Uno per uno? Siamo fratelli, è importante condividere. - Fece Fred, con leggerezza, mentre sfoderava la bacchetta. 

Sul volto di Percy comparve un piccolo sorrisetto. - Andiamo. - Annuì facendosi avanti. 

I primi getti di luce scoccarono dalle bacchette dei mangiamorte. Percy schivò una fattura e rispose con un incantesimo che fece indietreggiare l’uomo contro cui stava duellando. Il cappuccio cadde dalla testa del mangiamorte, scoprendo una fronte alta e capelli striati. 

Percy non si sentì affatto sorpreso nel vedere quella faccia conosciuta in quel contesto. 

- Ah, Ministro! - Urlò prima di scagliare una fattura contro O'Tusoe, che lasciò cadere la bacchetta e portò le mani al petto, in evidente difficoltà. - Le ho detto che do le dimissioni? - 

- Hai fatto una battuta, Perce! - Gridò Fred, quando il Mangiamorte con cui stava combattendo crollò colpito da tre diversi Schiantesimi. 

Harry, Ron e Hermione erano appena comparsi per aiutarli e adesso O'Tusoe era caduto a terra e minuscole spine gli spuntavano dappertutto; sembrava che si stesse trasformando in una specie di riccio di mare. 

Fred guardò Percy con allegria. - Hai davvero fatto una battuta, Perce... l'ultima che ti avevo sentito fare era… -

Erano tutti vicini: Harry, Ron, Hermione, Fred e Percy, i due Mangiamorte ai loro piedi, uno Schiantato, l'altro Trasfigurato; e in quella frazione di secondo, quando il pericolo pareva temporaneamente lontano, il mondo andò in pezzi. 

Percy sentì un forte spostamento d’aria colpirlo e in un secondo si ritrovò a terra, ricoperto di detriti. Sbatté le palpebre dietro le lenti crepate degli occhiali, percepì il vento, e questo gli fece capire che il fianco del castello doveva essere appena esploso. Si mise a sedere e si guardò attorno: era come se tutto attorno a lui avesse rallentato. 

Vide Hermione che cercava di rimettersi in piedi in mezzo a quella devastazione a qualche metro da lì, poi Harry e Ron, infine abbassò lo sguardo, proprio lì dove il corpo di Fred giaceva esanime. 

Si trascinò con fatica verso il fratello. Forse era svenuto, magari era gravemente ferito ma non… no, non poteva essere… 

- Fred? - Lo chiamò scuotendolo, quando gli occhi lo fissarono senza vederlo. - No… no… no! No! Fred! No! - 

- Percy, non puoi fare nulla per lui! Dobbiamo… -

Qualcuno parlava e lo toccava, ansioso di portarlo via di lì. Ma nulla aveva importanza, nulla aveva senso se non proteggere il corpo di Fred, almeno quello… almeno il suo corpo.

Vide Harry chinarsi per prendere il corpo di Fred sotto le ascelle e questo quasi lo sollevò: si alzò dal cadavere del fratello e insieme, curvi per evitare le maledizioni che arrivavano dal parco, trascinarono Fred fuori dalla linea del fuoco. Lo deposero in una nicchia lasciata vuota da un'armatura. 

Percy voleva restare lì, voleva vegliare su quel corpo di suo fratello fino alla fine, assicurarsi che nessuno lo toccasse o lo dissacrante, ma in fondo al corridoio ricoperto di polvere e di pietre, con i vetri delle finestre polverizzati, qualcosa attirò la sua attenzione: un ragazzina gracile, bionda e dalla faccia conosciuta stava correndo, inseguita da un uomo alto e con la bacchetta spiegata. 

- Rookwood! - Urlò, inseguendo a sua volta il mangiamorte che aveva sotto tiro la giovane Lucy. 

Doveva salvarla; sì doveva salvare almeno lei, almeno lei… doveva riportarla da Audrey a tutti i costi, perché Audrey non doveva provare mai il dolore che stava dilaniando il cuore di Percy in quel momento. 

Fred.

Perché lui? Perché proprio alla loro famiglia?

Perché?

- Lasciala stare! - Urlò forte, prima di scoccare un incantesimo che colpì il mangiamorte sulla schiena, facendolo crollare a terra. 

Lucy non ebbe il tempo di dire una parola né di ringraziarlo. Percy scavalcò il corpo del mangiamorte e si avvicinò a lei fissandola con un’aria di duro rimprovero. 

- Non dovresti essere qui, sei minorenne, devi andare via. - Le disse, afferrandola per un braccio e trascinandola via. 

Lei mugugnò irritata e si liberò da quella presa. - Dov’è Audrey? - Domandò. 

- Al sicuro. - 

- Al sicuro? E come può essere al sicuro senza un mago a proteggerla? - 

- Ti dico che è al sicuro. - Tagliò corto Percy. - Adesso tu te ne vai, chiaro? Non puoi stare qui, non posso tenerti d’occhio… - 

Lucy scoppiò a ridere, interrompendolo. - Tenermi… tenermi d’occhio? - Esclamò, con un fare vagamente nervoso. - Audrey te lo ha chiesto vero, di tenermi d’occhio? - 

- Sì. Lei è tua sorella maggiore e devi ascoltarla. - 

- Voi due siete uguali; è per questo che vi piacete, eh? - Fece la ragazzina. - Adesso scusa, ma devo trovare Colin… ci vediamo a battaglia finita, Weasley. Rimani vivo, spezzeresti il cuore di mia sorella altrimenti, e poi io dovrei ucciderti. Sai, lei ha una grossa cotta per te. - 

- Noi non… lei non… STUPEFICIUM! - Gridò Percy, schiantando un mangiamorte che stava arrivando alle spalle di Lucy. - Non è il momento né il luogo adatto per parlare di questo. - Aggiunse. 

Lucy sogghignò divertita. - Hai la mia benedizione. - Gli disse con leggerezza. Poi  mosse un paio di passi, quel tanto che bastò per allontanarsi di un metro. 

Accadde tutto in fretta: un lampo intenso e scarlatto colpì la giovane facendo cedere immediatamente le sue gambe con un gemito doloroso. 

No no no no! 

Percy sussultò a quella vista pietosa, boccheggiò e si inginocchiò al suo fianco, attaccato alla speranza che fosse ancora viva. E difatti lo era. Percy fu felice nel vedere che Lucy respirava, ma quella gioia svanì nel momento stesso in cui la guardò negli occhi. 

Eccoli lì, gli occhi della morte. 

Occhi verdi, come quelli di Audrey, grandi e spalancati… terrorizzati. 

Percy non aveva mai visto una maledizione del genere, probabilmente era un incantesimo che lo stesso Mangiamorte che lo aveva lanciato aveva inventato, qualcosa di talmente oscuro da lasciarlo senza parole. 

Lucy tremò e rantolò tra le sue braccia, più pallida e con il viso rivoltò al soffitto mezzo distrutto. Sembrava come se nel suo corpo tutto stesse lentamente cedendo dall’interno, facendola soffrire come nessun essere umano avrebbe mai dovuto soffrire. 

Lei tentò di parlare, producendo solo un basso gemito di dolore.

- No… non parlare, non ti sforzare. - Le disse piano, stringendo la sua mano - Starai bene… devi resistere finché non… ti prego… ti prego, no… - 

Lei staccò gli occhi dal soffitto per puntarli nei suoi e strinse la presa, come se avesse paura che Percy potesse lasciarla lì a morire da sola. 

Intorno a loro si continuava a combattere, ma a Percy non importava: avrebbero potuto ucciderlo in quell’istante e non se ne sarebbe preoccupata. 

Tutto quello che riusciva a vedere, la sola cosa a cui riusciva a pensare, era a Lucy che moriva dolorosamente tra le sue braccia, lì a rinnovare il dolore già presente nel suo cuore. Sentì la stretta di lei farsi più debole, il suo sguardo più assente e, nello stesso momento, Percy percepì gli occhi bruciare. 

Non poteva lasciarla morire. Come avrebbe potuto guardare Audrey negli occhi, poi? Cosa diamine aveva fatto… era colpa sua. Lucy era in quel castello per colpa sua, solo sua… 

- Ti prego… no… - Mormorò con la voce rotta. - Io… cerco aiuto… io… - 

- No. - Soffiò lei, stringendo dolorosamente la sua mano. - R… resta qui. - 

Percy si limitò ad annuire, trattenendo il pianto. 

Lei invece sospirò: - Weasley… - Disse piano. - Audrey… lei… - 

- Ci penso io a lei, sì. - La anticipò Percy. - Te lo prometto. - 

Lucy annuì, poi batté le palpebre, lo sguardo più vuoto ed annacquato, il volto sconvolto da una smorfia di dolore. Non disse nient’altro, emise solo un lungo e doloroso respiro, i suoi occhi si fecero fissi e vuoti e poi la sua espressione si rilassò di colpo. 

Percy alzò lo sguardo. Davanti a lui lo spettacolo pietoso della battaglia diede il meglio di sé: lampi di luce, urla e corpi a terra, corpi morti e feriti. 

Si alzò in piedi e prese in braccio il corpo di Lucy, stupendosi di quanto fosse leggera e immaginando già il momento in cui avrebbe dovuto dire ad Audrey che sua sorella era morta davanti a lui. Percy decise che le avrebbe mentito: avrebbe detto che Lucy era morta senza soffrire, che nemmeno se ne era accorta, che se ne era andata in pace. 

Così, con quel cadavere sulla sua spalla, Percy Weasley camminò tra i duelli come se fosse diventato d’un tratto invisibile. Nessuno sembrava notarlo. 

Alla fine lasciò Lucy in una piccola nicchia simile a quella in cui, qualche metro più in là, giaceva il corpo di Fred. Si chinò a sistemarle i capelli dietro le orecchie e dopo averle dato un ultimo sguardo fece per voltarsi, quando fu raggiunto da uno schiantesimo che gli fece fare un volo di diversi metri. Sbatté violentemente contro il muro e tutto si fece buio. 


 

Heilà, persone!

Come è andata l’estate?

Lo so, speravo di pubblicare questo capitolo molto prima ma, come al solito, nella mia testa funzionava di gran lunga meglio e, tra perfezionismo e impegni, eccomi qui dopo venti giorni circa. 

Non vedo l’ora di liberarmi di questa parte: non sono granché con le scene di azione, sono più per l’introspezione e le prese male… che arriveranno, arriveranno molto presto. 

Comunque sono felice che nonostante questo brusco rallentamento questa fan fic continui a essere seguita; quindi grazie, grazie per le recensioni, grazie a chi segue/preferisce/ricorda la storia. 

Al prossimo capitolo, 

J. 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 16. Quella mattina ***


 

Capitolo 16

 

Il sole stava sorgendo sul castello distrutto e la Sala Grande si stava man mano bagnando della luce dell’alba. 

La McGranitt aveva risistemato i tavoli delle Case al loro posto, ma nessuno era più seduto nell'ordine giusto: erano tutti mescolati, insegnanti e allievi, genitori, fantasmi ed elfi domestici; un centauro era disteso in un angolo a riprendersi, mentre un gigante guardava dentro la Sala da una finestra rotta e la gente lanciava cibo nella sua grande bocca ridente. 

Percy Weasley era seduto su una delle panche da un po’ — Bill da una parte e Ginny dall’altra, — ma non sapeva nemmeno lui come ci fosse finito. 

Ricordava di aver ripreso i sensi in un corridoio distrutto, si era trascinato in Sala Grande dove la tregua stava permettendo loro di sistemare i caduti con dignità, poi di nuovo la battaglia ed ora erano lì, erano insieme, stretti nel loro dolore, tutti uguali con le loro chiome rosse e le loro lentiggini. Eppure Percy si sentiva terribilmente fuori luogo. 

La battaglia era finita, ma non sembrava così per sua madre, che si muoveva come posseduta da un’energia insana: andava avanti e indietro, aiutava i feriti, nutriva chi era affamato… 

Lo fa per non pensare a Fred, si disse Percy, mentre la guardava aggirarsi come una trottola tra la folla. 

Suo padre, invece, sembrava arrabbiato, abbandonato sulla stessa panca dei figli, lo sguardo vuoto e la bacchetta ancora stretta in pugno.

E poi c’era George. 

George era… diverso. Come se non fosse del tutto vivo. Se ne stava lì, seduto dall’altra parte del tavolo, con Angelina Johnson al suo fianco, zitto, con un’espressione vuota dipinta in volto e una tazza di tè davanti, vuota anch’essa. 

La battaglia era finita. 

Percy aveva intravisto il corpo morto di Tom Riddle poco fa e si era sentito felice; e poi disperato. 

La battaglia era finita, ma niente sarebbe tornato come un tempo. 

Fred era morto. 

Fred. 

Era morto.

Percy aveva cominciato a ripetere quelle parole nella sua testa senza un perché, come una sorta di macabro mantra, da quando si era ripreso.

Fred era morto e la sua famiglia non si sarebbe mai più ripresa.

Fred era morto e Audrey aveva perso sua sorella.

Fred era morto ma sarebbe dovuto morire lui.

Fred era morto e lui non riusciva a entrare in sintonia con il dolore dei suoi genitori e dei suoi fratelli. 

Perché? Perché lui? Perché loro?

Percy si alzò facendo un sospirò. - Io… vado a vedere se c’è bisogno di una mano per spostare i corpi. - Farfugliò, ma nessuno sembrò dargli ascolto. 

Tanto meglio, si disse, prima di attraversare la Sala Grande a passo svelto. 

I caduti della battaglia erano stati sistemati nella Sala d’Ingresso, in attesa di venire trasportati al San Mungo, proprio come i moltissimi feriti. Oliver, Katie e Aberforth stavano coordinando tutto, mentre intere squadre di medimaghi sembravano aver invaso il castello con le loro tuniche verdi e azzurre.

Percy passò accanto a quella fila di cadaveri senza abbassare lo sguardo su nessuno di loro. Non voleva rivedere il viso di suo fratello e nemmeno quello di Lucy. Poi raggiunse Katie, che se ne stava in piedi vicino alla porta con un foglio di pergamena in mano e disse: 

- Fammi fare qualcosa. - Esordì. 

Katie alzò lo sguardo e poi alzò le labbra in un sorriso davvero triste. - Percy… stanno per portare Fred al San Mungo. - Gli disse. - Stai con la tua famiglia. - 

Percy si sentì la gola secca quando tentò di deglutire. Come poteva spiegare che stare con la sua famiglia in quel momento gli frantumava il cuore? Come poteva dire di sentirsi un estraneo tra i suoi fratelli? 

- Io non… non ci riesco. - Rispose semplicemente con la voce spezzata. - Lasciami fare qualcosa, ti prego. Qualsiasi cosa. - 

Katie sospirò. - Torna a casa e avverti Audrey e i Cattermole che è finita, questo sarebbe molto utile. Saranno preoccupatissimi. - 

- No. - Rispose bruscamente Percy. - No… Audrey… sua sorella è morta. È morta stanotte e io non credo di farcela… - 

Codardo, sei un maledetto codardo. 

- Oh. Oh… - Fece Katie, assumendo un’espressione contrita. - Se non te la senti di parlarle allora ci pensiamo io o Oliver, non preoccuparti. - 

Percy annuì in fretta. - Sì… io non me la sento. Non me la sento per niente. - 

Già, perché sei un codardo. Dovresti andare lì, guardarla negli occhi e dirle di aver condannato Lucy il giorno stesso in cui l’hai portata a Hogwarts per tentare di salvarla. 

- Percy. - La voce di Katie lo riportò bruscamente alla realtà. Quando alzò lo sguardo, si rese conto che l’amica aveva poggiato una mano sulla sua spalla. - Devi andare al San Mungo con i tuoi fratelli e i tuoi genitori adesso. - 

- Voglio dare una mano qui. - 

- Lo so. Lo so… - Sospirò Katie. - Ma il dolore esige di essere sentito. - 

Percy prese un paio di profondi e faticosi respiri e poi annuì e scosse la testa insieme. Fosse stato per lui, in quel preciso istante, avrebbe dato qualsiasi cosa per smettere di sentire ciò che stava provando.

- Bell, vieni a darmi una mano. - La voce di Aberforth Silente, che se ne stava fermo sulla porta con un foglio di pergamena in mano, fece riscuotere Percy. 

- Sì, Abe, eccomi. - Rispose alla svelta Katie, prima di rivolgere nuovamente lo sguardo all’amico. - Stai con la tua famiglia, Perce, va bene? - 

Lui si limitò ad annuire e un attimo dopo si ritrovò da solo in quella Sala d’Ingresso piena di cadaveri. Si guardò rapidamente intorno, ma prima che potesse anche solo pensarci, le sue gambe si mossero. 

Iniziò così a camminare per quei corridoi distrutti, senza una meta e totalmente scollegato da sé stesso; attraversò la galleria delle armature e si ritrovò nella Sala dei Trofei. Lì, tutto sembrava essere rimasto intatto: le targhe e i premi vinti dagli studenti erano ancora conservata nelle teche di cristallo, non c’era traccia della battaglia appena finita e soprattutto c’era silenzio. Un meraviglioso e rassicurante silenzio. Era come essere precipitato in un’altra dimensione e Percy sarebbe rimasto volentieri lì per sempre. 

Dopotutto quello era sempre stato il suo rifugio per anni: era lì che andava, ai tempi della scuola, quando diventava tutto troppo… troppo. 

Se ne stava lì, guardava i trofei e si ripeteva che ne valeva la pena, valeva la pena beccarsi le prese in giro e avere pochi amici, perché lui eccelleva, perché anche il suo nome un giorno sarebbe stato importante e conosciuto. 

Rimase in piedi e immobile per una manciata di secondi, fermo davanti ai premi che la squadra di quidditch di Grifondoro aveva vinto negli anni. Le coppe vinte durante gli anni da capitano di Charlie, i nomi dei membri della squadre, il nome di Fred tra i battitori… 

Poi il rumore di passi provenienti dalla galleria delle armature adiacente attirò la sua attenzione. Quando si voltò verso la porta notò la presenza di una ragazza. Non era sporca e sconvolta come chiunque avesse partecipato alla battaglia, ma Percy ci mise comunque qualche attimo per riconoscerla. Notò che i suoi capelli biondi non erano mai stati più lunghi di quanto non fossero in quel momento, ma non era cambiato proprio niente sul bel viso di Penelope.

- Oh… Percy… - Soffiò lei commossa, buttandosi letteralmente tra le sue braccia. - Sono arrivata solo ora, sapevo che ti avrei trovato qui. - 

Percy si lasciò abbracciare, assumendo nel frattempo un’espressione un po’ perplessa. Non sapeva esattamente quando avesse smesso di pensare a lei. Ricambiò quella stretta quasi con cortesia e poi si rese tristemente conto che lì, in quel momento e con la propria fidanzata tra le braccia, non provava proprio nulla. 

Si staccò da lei e fece un passo indietro, scrutandola. Penny era sempre la stessa: aveva ancora l’aspetto innocente di chi non aveva vissuto nessun orrore nella sua vita, era così sana, intoccata, bellissima.

La guardò negli occhi, quei bellissimi occhi grandi e color cielo che però in quel momento non gli erano da conforto. 

Tutto quello a cui Percy riusciva a pensare dopo quasi un anno di lontananza da lei era Fred. 

E Audrey. Le labbra di Audrey, i suoi capelli, il suo corpo. Avrebbe dato qualsiasi cosa per stare con lei in quel momento, ma allo stesso tempo sapeva di non poter più guardare il suoi occhi senza sentirsi attraversare moralmente dal senso di colpa. 

- Come… come ti senti? Sei ferito? - Gli chiese Penny, incerta.

Percy scosse la testa, il suo volto vacuo e privo di ogni espressività. - E tu come stai? I tuoi genitori? - 

- Sto bene, stanno bene. Stiamo bene, ma solo grazie a te. - Rispose lei, facendogli un dolce sorriso e accarezzandogli piano una guancia. - Mi sei mancato così tanto... sono stati mesi terribili senza di te. Tutti i giorni ascoltavo radio Potter pregando di non sentire il suo nome, è stato… oh, Perce, adesso però sono qui, va bene? - 

Percy annuì in modo impercettibile, e sempre con quel piccolo sorriso che le piegava le labbra rosa, Penny si mise sulle punte e lo baciò. 

Fu breve, goffo e strano per Percy, che si allontanò per primo, ma non per Penny, che invece sembrava al settimo cielo per aver ritrovato il suo grande amore anche in quell’inferno. 

- Penny, io non so se… - 

- Andrà tutto bene da ora in poi. - Lo interruppe lei, stringendogli le mani. - Adesso sono qui, siamo insieme, questa è la cosa più importante. - 

Percy la guardò intensamente, poi scosse la testa. - Fred è morto. - Dichiarò. 

Le sopracciglia chiare di Penny si aggrottarono. - Oh no, Perce. Mi dispiace tanto… è terribile, davvero terribile…cosa posso fare per te in questo momento? Come stai? Se posso fare qualcosa per te o la tua famiglia… - 

Ti prego, smetti di parlare… 

Percy fece un passo in avanti e premette le labbra su quelle di lei all’improvviso, senza grazia né dolcezza. Lei approfondì quel contatto con entusiasmo, incrociando le braccia attorno al collo di lui e facendo aderire i loro corpi, cosa che fece sentire a Percy l’urgente bisogno di farsi indietro. 

- Devo andare al San Mungo con la mia famiglia, il corpo di Fred sarà trasportato lì tra poco, insieme a quello di tutti gli altri. - Disse lui, senza nessuna inflessione. 

- Vengo con te. - Si offrì Penny. 

- Non so se è il caso. - 

- Non voglio lasciarti solo ad affrontare una cosa del genere. - Ribatté fermamente lei. - Te l’ho detto, sono di nuovo qui, non ti lascerò. - 

Percy, senza la forza di sindacare, acconsentì con un cenno della testa, riprendendo poi a fissarla per una manciata di secondi. Come poteva dire alla sua fidanzata perfetta e amorevole di essere innamorato di un'altra persona? Come poteva spezzare il cuore purissimo di Penelope, che lo aveva aspettato e che era corsa da lui non appena aveva avuto l’occasione?

Forse ci sarebbe stato tempo per quello, dopo. 

 

.

 

Audrey si era resa conto che qualcosa non fosse andata come previsto quando, passata la mezzanotte, si era ritrovata da sola sotto il portico, a fissare la minacciosa oscurità della campagna che, circondando la fattoria dei Bell, si estendeva a perdita d’occhio davanti a lei. Era rimasta lì, seduta al vecchio e traballante tavolo da esterno, cercando conforto nelle tazze di tè caldo che di tanto in tanto la signora Cattermole le aveva portato, era rimasta lì con la speranza di veder comparire Percy dal nulla. 

Percy, insieme a Lucy. 

Era rimasta lì, aveva guardato in totale silenzio il cielo puntellato dalle stelle tanto care a sua sorella, pensando a quanto Lucy avrebbe adorato quel cielo, così diverso da quello di Londra di notte. 

Quel silenzio non era stato interrotto neppure una volta dal tipico suono di una smaterializzazione, e adesso il sole era sorto e né di Percy, né di Lucy (e nemmeno di Katie e Oliver) c’era ancora stata traccia. Eppure la battaglia era finita, avevano vinto, lo aveva detto la radio. 

Ma allora perché? Perché si trovava ancora sola sotto quel portico, a fissare le prime luci del giorno che illuminavano il prato ormai fiorito che circondava la fattoria? 

Perché Lucy non era lì ad abbracciarla in quel momento? Perché non erano tornate a casa? Qualcosa era andato storto, non bisognava essere particolarmente sensibili per capirlo. Audrey lo sentiva, lo sentiva nella pelle. 

- Abbiamo finito il tè, ma abbiamo ancora il caffè. - Una voce alla sua sinistra la fece voltare verso la porta d’ingresso della casa. La signora Cattermole era sulla soglia, con in mano una tazza fumante, il viso accartocciato di chi aveva passato l’intera nottata in bianco. - Ne vuoi un po’? - 

- Grazie, signora Cattermole. - Rispose Audrey, cercando di apparire tranquilla. 

La donna appoggiò la tazza sul tavolo e poi, dopo un attimo di esitazione, si sedette su una delle tre sedie rimaste libere attorno ad esso e prese a osservare Audrey per qualche silenzioso secondo. 

In quei mesi aveva imparato a conoscerla e poteva dire di provare una certa simpatia ma anche una certa apprensione per quella ragazzina babbana. Audrey era arrivata in quella casa terrorizzata e ora, proprio qualla mattina, sembrava un guscio vuoto. Forse tutta la paura degli ultimi mesi era riuscita a spezzarla alla fine. 

Era stanca Audrey; stanca della sofferenza e del lutto, stanca di quella vita reclusa, stanca di sentire la mancanza di sé stessa, della sua migliore amica Anne, di suo padre e suo zio e persino di sua madre. Era stanca di sognare la morte di sua nonna e di fingere di non provare niente per quell’idiota che le aveva promesso che sarebbe tornato e che invece in quel momento sembrava perso nell’etere.

- Mi sono resa conto di amare il mio Reg durante la prima guerra magica. - Parlò improvvisamente Mary, tirandola fuori dai suoi pensieri. - Anche in quel caso, in quanto nata babbana, la mia sopravvivenza fu messa a dura prova. I mangiamorte si divertivano a fare strage di babbani, sai? Reg aiutò me e la mia famiglia a stare al sicuro. - 

Audrey tirò su i lati della bocca senza sapere cosa dire e tacque. 

- Quando si sopravvive a qualcosa del genere si crea un legame indissolubile… un po’ come per te e il giovane Weasley. - 

Audrey aggrottò le sopracciglia, poi un sorrisetto imbarazzato piegò le sue labbra. - Io e lui non… lui in realtà ha una fidanzata di vecchia data. - Farfugliò. 

Mary fece una faccia scettica. - Mio marito non è d’accordo, ma secondo me lui è uno di quelli buoni. - Proseguì, ignorando totalmente le sue parole. - Uno di quelli da presentare alla propria madre. - 

La giovane fissò assorta la tazza piena di caffè davanti a lei per qualche istante. Non aveva pensato molto a sua madre negli ultimi mesi, non quanto aveva pensato a nonna Constance, nonna Harriette e lo zio Elijah. Tuttavia era abbastanza certa che lei non la stesse cercando in quel momento, anzi, probabilmente non si era nemmeno resa conto che le sue figlie erano sparite dalla circolazione. 

Questa consapevolezza strinse il cuore di Audrey in una morsa. Si sentiva così sola… 

- Mia madre non è quel tipo di madre. - Disse piano.

Ma non fece in tempo a elaborare quella frase ulteriormente che un suono molto familiare, secco e improvviso attirò la sua attenzione. 

Audrey sorrise ancor prima di voltarsi verso il giardino, aspettandosi di vedere il viso di sua sorella e Percy, entrambi sani e salvi, magari stanchi ma vivi. Ma quando lo fece, quando si voltò in quella direzione, fu solo Katie Bell a rivolgerle lo sguardo. 

Audrey ricambiò quell’occhiata: era così palese che la giovane strega fosse appena sopravvissuta all’inferno. Katie aveva i vestiti sporchi di terra e polvere, c’erano delle macchie scarlatte sulla manica destra della sua feste e una ferita vicino alla tempia piena di sangue raffermo, mentre i suoi occhi erano arrossati e stanchi. 

No, ti prego, pensò Audrey, mentre la sua espressione mutava radicalmente. 

Si alzò in piedi: - Dove sono? - Chiese bruscamente, camminando verso la ragazza. 

- Audrey… - Tentò di dire Katie, cauta. 

- No, okay? No. - La interruppe subito Audrey. - Dov’è Lucy? Perché non l’hai portata con te? - 

- Audrey, forse è meglio se… - 

- No! - Esclamò lei, fermandola di nuovo. - No, non cominciare, non farlo. Dimmi dov’è, dimmelo e basta. Dimmi dove sono tutti e due! - 

Katie fece uno sguardo di apprensione e sospirò, chiedendosi quali fossero esattamente le parole giuste da dire in quella circostanza. Le tornò in mente all’improvviso la mattina in cui venne a sapere che sua madre non ce l’aveva fatta, le parole esatte di suo padre, dette senza nessuna delicatezza, che la colpirono in faccia come uno schiaffo. No, non voleva quello per Audrey, non voleva guardarla negli occhi e dirle solo che sua sorella, la sua sorellina di quindici anni, che era morta ammazzata in una battaglia che non avrebbe nemmeno dovuto combattere. 

- Lucy… il suo corpo… - Balbettò, maledicendosi. - Il corpo di Lucy è al San Mungo in questo momento… mi dispiace tanto, Audrey. -

All’inizio Audrey non ebbe nessuna reazione in particolare, ma poi fissò Katie come se non avesse capito nemmeno una parola e scosse la testa. 

- Mi dispiace… mi dispiace tanto. - Tornò a parlare l’altra. - La battaglia è stata davv… - 

Audrey alzò una mano, facendo bloccare Katie a metà della frase, chiuse gli occhi e ancora scosse la testa. - Katie… ti prego. - La supplicò, piegando le labbra verso il basso. 

- Mi dispiace, Audrey... - Ripeté Katie, sentendo i suoi occhi pizzicare davanti a tutto quel dolore e prendendola una mano. 

La giovane dapprima tentò di liberarsi dalla presa della mano di Katie, ma poi la strinse ancor più forte, quasi come se avesse paura di vederla sparire davanti ai suoi occhi, e singhiozzò. Aveva la mente completamente annebbiata, mentre le gambe si erano fatte improvvisamente molli, come se fosse sul punto di svenire. Si guardò attorno, rendendosi conto che quella era proprio una bella giornata, una giornata di primavera. Faceva caldo, gli uccelli e gli insetti volavano e strisciavano, le galline nel pollaio facevano rumore e lei non riusciva a crederci: il mondo stava continuando a girare anche se sua sorella era morta.

Sentiva la presenza di una mano artigliata infilata nelle sue viscere; il dolore sembrava così reale, così insopportabile e destabilizzante che per un attimo si dimenticò di sé stessa.

Aveva così tante domande, eppure sembrava essersi dimenticata come si usasse la voce per parlare, e dubbi rimbombarono nella sua testa come proiettili impazziti: Lucy era morta soffrendo? Chi l'aveva uccisa? Perché la scuola non era stata evacuata? E poi… 

- P… Percy? - Chiese, con la voce soffocata, alzando di nuovo lo sguardo appannato sul viso di Katie. - Anche lui è… è… - 

- No, no. - Si affrettò a rispondere lei. - Percy sta… è vivo. Anche lui si trova al San Mungo in questo momento… suo fratello Fred purtroppo non ce l’ha fatta… - 

Audrey mugugnò qualcosa, annuendo con aria assente, per poi allentare la stretta sulla mano dell’amica. Si sentiva così confusa e distaccata, come se fosse finita in un orribile sogno da cui però sembrava non riusciva più a svegliarsi, come se qualcosa dentro di sé si fosse irrimediabilmente rotto. Era troppo. 

- Cosa… cosa devo fare adesso? - Domandò, dopo un respiro profondo, assaporando la strana sensazione di avere il petto completamente vuoto. - Devo andare da Lucy, vero? E da Percy. Avrà bisogno di me. - 

Io ho bisogno di lui… 

- Posso accompagnarti al San Mungo, se vuoi. - Propose Katie, fissandola con uno sguardo preoccupato. - Ma se hai bisogno di più tempo non c’è problema. Puoi restare quanto vuoi. - 

Audrey scosse solo la testa, poi si voltò verso la casa. Lì, sotto al portico, la signora Cattermole stava guardando verso di lei e Katie con una certa apprensione. 

Era finita. La guerra era finita. Sarebbe tornata a casa sua. 

Sarebbe tornata a casa senza Lucy. 

Non ci sarebbe stata più sua nonna pronta a friggere del platano per lei, non avrebbe mai più ascoltato le strane storie di nonna Constance né avrebbe mai più rivisto il sorriso sbilenco di suo zio Elijah. 

Che ne sarebbe stato di lei, adesso che era rimasta sola? 

- Andiamo al San Mungo. - Disse lentamente, girandosi nuovamente verso Katie. 

Katie annuì, poi la afferrò per un braccio e un attimo dopo tutto diventò nero.



 

L’insensatezza di questo capitolo non me la spiego nemmeno io. Non mi andava di farvi leggere di una battaglia di cui teoricamente avete già letto quindi… ecco queste circa tremila parole, il vuoto totale. Mi è uscito così, abbiate pietà e vi prometto che il prossimo sarà migliore. 

Non so se si nota, ma ho una bella crisi creativa in atto: ho tante idee ma scarsa capacità di metterle in atto e questo si riflette su questa storia e anche su altre cose che ho pensato di scrivere. 

Ringrazio chi sta continuando a seguire nonostante il rallentamento negli aggiornamenti, non sapete quanto sono utili i vostri feedback per continuare nonostante tutto. 

Alla prossima,

J.

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Capitolo 18
*** Capitolo 17. Non avrebbe funzionato ***


Capitolo 17


Audrey si sentì premere da tutte le parti, la stessa spiacevole sensazione delle volte precedenti: non riusciva a respirare, come se fasce di ferro le stringessero il petto. Le pupille le vennero ricacciate nella testa, i timpani premuti più a fondo nel cranio, e poi, quando sentì nuovamente il terreno sotto i suoi piedi, aprì gli occhi. Lei e Katie erano appena apparse in un vicoletto stretto e deserto. 

Audrey guardò in alto, verso lo spicchio di cielo grigio stretto tra i due palazzi che svettavano uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra, poi un odore di umidità e sporcizia le riempì le narici, un odore così diverso da quello dei prati attorno alla fattoria. Almeno Londra sembrava essere rimasta la stessa. 

- Vieni, andiamo. - Ordinò Katie, prima di muoversi verso la strada principale, un lungo viale pieno di negozi e persone prese dalle proprie compere, per poi raggiungere un vecchio grande magazzino di mattoni rossi chiamato Purge Dowse Ltd. 

Il luogo aveva un’aria trascurata e misera: nelle vetrine c’erano solo alcuni manichini scheggiati con le parrucche di traverso, disposti a caso, vestiti alla moda di dieci anni prima. Enormi cartelli sulle porte polverose dicevano “chiuso per ristrutturazione”.

Katie accostò il viso alla vetrina, guardando un manichino bruttissimo, mentre il suo respiro appannava il vetro. - Buongiorno. - Disse con cortesia. - Siamo qui per… sa, la battaglia. - 

Audrey guardò Katie con un misto di perplessità e diffidenza, ma si ritrovò con la bocca spalancata quando vide il manichino annuire appena prima di fare un cenno con il dito snodato. 

Poi Katie la prese per la manica della veste da strega — totalmente inadatta a una babbana come lei — che indossava in quel momento e insieme passarono attraverso quello che parve un velo di acqua fredda, per uscirne caldi e asciutti dalla parte opposta.

Audrey si guardò attorno: non c’era traccia del brutto manichino o della vetrina, ma si trovavano in quella che sembrava una grande sala di accettazione, con file di maghi e streghe seduti su traballanti sedie di legno, alcuni erano sporchi, sanguinanti e sotto shock, altri erano impauriti e con il bisogno folle di sapere cosa ne era stato dei loro cari stampato in volto. 

Maghi e streghe in vesti verde acido andavano su e giù per le file di sedie, facendo domande e prendendo appunti su blocchetti di pergamena. Audrey notò il simbolo che portavano ricamato sul petto: una bacchetta e un osso incrociati.

- Mia figlia… sì, mia figlia di chiama si chiama Angie, per caso avete una ragazza bionda di nome Angie Goldman tra i feriti della battaglia? - Stava chiedendo una strega a uno dei curatori dell’accoglienza, con una disperazione tale da far accartocciare le budella di Audrey.

- E mio fratello…! Lui è stato deportato ad Azkaban due mesi fa, ma so che la prigione è stata liberata, vi prego… avete notizie? - Domandò un giovane mago, parlando sopra alla strega che cercava la propria figlia. 

- Di qua. - Fece Katie, camminando tra la folla. 

Audrey la seguì oltre una doppia porta lungo un corridoio in cui erano allineati ritratti di famosi Guaritori, illuminato da bocce di cristallo piene di candele che fluttuavano vicino al soffitto, simili a enormi bolle di sapone. Altri maghi e streghe in vesti verde acido correvano lungo quel corridoio su per delle scale che Katie imboccò seguita naturalmente anche da Audrey. 

Arrivarono così all’ultimo piano, dove tantissime persone erano state raggruppate lungo un corridoio pieno di porte. Lì c’era un’aria diversa rispetto al resto dell’ospedale: un mormorio basso e costante riempiva l’ambiente, ma nessuno chiedeva al curatore fermo vicino all’entrata informazioni sui propri familiari. Quelle persone sembravano così… stanche, rotte. 

- Mi scusi. - Mormorò Katie al curatore. - La stanza di Lucy Manning? - 

Il curatore sfogliò il blocchetto di pergamena che aveva tra le mani e poi annuì dopo un sospiro. - Sì… siete parenti? - Domandò scrutando le due. 

- Lei è la sorella. - Rispose Katie, facendo un cenno verso Audrey. 

Il curatore la fissò per un istante con un certo sospetto. - Non sembra per niente. - Osservò. 

Audrey ricambiò quell’occhiata di sottecchi. - Padri diversi. - Rispose, con l’aria arresa di chi aveva dovuto dare risposte simili a quella domanda davvero tantissime volte. 

L’uomo sospirò di nuovo. - La terza qui sulla sinistra. - 

Audrey non disse niente ne fece cenno di aver capito, semplicemente raggiunse quella porta, ma poi esitò sulla soglia. 

- Vuoi che ti accompagni? - Le domandò cautamente Katie, al suo fianco. 

- No, non ti preoccupare. - Rispose lei, senza guardarla. - Devi stare con tuo padre, Katie, e con Oliver. Io me la cavo. - 

- Non te la cavi, tua sorella è… - 

- Lo so, lo so. - La interruppe Audrey, stavolta voltandosi verso di lei. - Grazie per tutto quanto, davvero, ma adesso voglio stare da sola con lei. -

- Audrey… - 

- Sto bene. - Insistette Audrey, alzando i lati della bocca. - Però se vedi Percy… se lo vedi puoi chiedergli di venire da me, se se la sente? - 

- Lo vado a cercare. -

Audrey annuì e senza indugiare oltre varcò finalmente quella soglia, ritrovandosi all’interno di una stanzetta con una piccola finestra in alto davanti a lei, unica fonte di luce, dove era stato sistemato un solo letto, su cui era adagiato il corpo di Lucy. 

Audrey rimase ferma ad osservarla da lontano per qualche istante, pensando che forse, finché non l’avesse vista per davvero, allora ciò le era capitato non poteva essere vero. Alla fine però le sue gambe si mossero prima ancora che lei pensasse di fare un passo e in un attimo si ritrovò ai piedi di quel letto. Guardò sua sorella da quella distanza per qualche altro attimo e poi raggiunse il lato destro, dove c’era una sedia di legno su cui si sedette. 

Audrey aveva sentito così tante volte dire che i morti avessero l’aspetto di persone addormentate: lei non aveva mai visto molti cadaveri nella sua vita, ma quelli che aveva visto — il corpo senza vita di nonna Harriette e quello di nonna Constance — non le erano mai sembrati semplicemente addormentati. E nemmeno Lucy lo sembrava. 

Il pallore del suo incarnato rivelava lividi e vene scarlatte, aveva gli occhi chiusi ma gonfi, infossati e circondati da ombre scure, come erano scure le labbra semiaperte come se fossero alla ricerca di un ultimo respiro. Audrey le prese la mano e la strinse, percependo la pelle fredda e dura. 

- Svegliati. - Le sussurrò. - Per favore… svegliati, Lucy… dobbiamo andare a casa. - 

Non poteva essere la mano di Lucy, quella. 

Non era più lei. Non era più la sua sorellina. 

Non c’era rimedio a quello. 

Lucy se ne stava lì, stesa e immobile, come un guscio vuoto e nulla sarebbe più tornato a essere come prima.

E adesso doveva chiamare sua madre, organizzare un funerale… sì, perché altrimenti chi avrebbe pensato a tutto questo? Lucy doveva avere un bel funerale, un funerale degno di lei… un funerale che gridasse al modo che quella era un’ingiustizia, una morte insensata e che forse non avrebbe mai avuto un vero responsabile. 

Audrey rimase lì, inchiodata a quella sedia per molto più tempo di quanto se ne fosse poi resa conto, ripetendo a Lucy di svegliarsi, che senza di lei non ce l’avrebbe fatta, scuotendola e piangendo, finché non si arrese.

Alla fine si alzò da quella sedia con le gambe molli, gli occhi che bruciavano e un dolore pulsante alla testa, si lasciò il cadavere di sua sorella alle spalle e si ritrovò in un attimo nel corridoio ancora fitto di gente. 

Si guardò attorno, scrutando i visi di chi come lei aveva perso qualcuno, persone stanche e stremate esattamente come lei, e poi lo vide, a qualche metro da lei: Percy e quella che doveva essere la sua famiglia; erano riuniti vicino l’entrata di una delle tante stanze adibite a camera mortuaria. 

Audrey notò che si somigliavano tutti tra loro, e che erano proprio come se li era immaginati. La ragazza dai lunghi capelli di fuoco e lo sguardo duro doveva essere Ginny, la donna piccola e panciuta doveva essere la signora Weasley, mentre l’uomo che sembrava una versione vecchia e stempiata di Percy doveva essere il signor Weasley. Poi c’era un bel ragazzo con una brutta cicatrice in volto, accompagnato da una giovane altrettanto bella, dall’aria molto aristocratica… quello doveva essere Bill, accompagnato dalla moglie. Il più triste e spento, poi, doveva essere George, seduto a terra con la schiena contro il muro, accanto a due ragazzi, anch’essi dai capelli rossi: chissà chi era Charlie e chi Ron. 

Quando tornò con lo sguardo su Percy, Audrey si domandò se fosse il caso o no di avvicinarsi. Lo conosceva e già immaginava i suoi pensieri, i suoi sensi di colpa, e come lei aveva bisogno di lui, anche lui aveva bisogno di lei, ne era certa. 

Poi una ragazza le passò accanto; teneva in mano due tazze fumanti che emanavano odore di caffè, era bionda, molto carina, e puntava dritta verso i Weasley con passo sicuro. Quando li raggiunse, la ragazza diede una delle due tazze a Percy, che ricambiò con una mazza specie di sorriso stanco. Fu in quel momento che Audrey la riconobbe. Era la ragazza della foto appesa al frigorifero di Percy, Penelope. 

Audrey rimase ferma a fissarla da lontano, la bocca socchiusa e gli occhi stretti in due fessure incredule, assaporando dentro di sé una strana sensazione di disagio a cui non seppe dare un nome. Rimase lì, immobile nella speranza che gli occhi di lui incontrassero i suoi. Quando ciò accadde, quando i loro sguardi si incrociarono tra la folla, Audrey alzò timidamente una mano in cenno di saluto. Percy ricambiò quell’occhiata per un brevissimo istante, prima che Penny richiamasse la sua attenzione parlandogli. 

Quanto era stata stupida, pensò Audrey, per poi voltarsi, pronta a lasciare quella corsia infernale. Quanto era stata ingenua a pensare di potersi fidare di lui, di potersi fidare di qualcuno. 

Era così abituata a non essere amata né voluta, eppure si sorprendeva ancora: la vita non le aveva già insegnato abbastanza?

Quanto sei ingenua, Audrey, quanto sei stupida

Si sentiva completamente scollegata da sé stessa come aveva imparato a fare da bambina, quando erano solo lei e Lucy contro tutto il resto di un mondo che appariva orribile ai loro occhi. E forse era vero, il mondo era orribile e lo era ancor di più adesso che Audrey sentiva di aver perso ogni ragione per continuare a muoversi attraverso di esso. 

Nessuno la voleva, nessuno aveva bisogno di lei ormai. 

Voleva solo tornare a casa, anche se non sapeva quale fosse casa sua ormai. Poteva tornare nella casa in cui aveva vissuto con Lucy e sua madre per quasi tutta la vita, oppure poteva tornare a casa di nonna Harriette, sedersi sulla vecchia poltrona di Constance e rimanere lì per sempre, lì su quella poltrona, diventare parte di essa. 

Chissà, magari si sarebbe trasferita in Irlanda da sua madre o in New Jersey da suo padre… ma magari nessuno dei due l’avrebbe voluta con sé.

Scese le scale e attraversò la sala dell’accettazione, che si presentò a lei un po’ meno affollata rispetto a quando ci aveva messo piede qualche ora prima. Quando lasciò l’ospedale si ritrovò in quella strada piena di persone intente a fare compere. Audrey si voltò: lì dove poco prima c’era l’ospedale dei maghi, adesso c’era di nuovo quella vetrina dismessa con quel brutto manichino. Guardò la sua immagine riflessa sulla vetrata impolverata e di nuovo, come le capitava ormai molto spesso, faticò a riconoscere quella ragazzina triste che le ricambiò lo sguardo. 

Poi qualcosa accadde, Audrey notò uno strano gioco di ombre su quella vetrina da cui, un secondo dopo, emerse qualcuno. 

Percy. 

Il giovane respirava forte come se avesse corso, e aveva l’aria sconvolta e stanca come mai prima d’ora. 

Solo in quel momento, guardandolo da vicino, Audrey notò che Percy aveva i vestiti e i capelli sporchi di polvere e terra, una delle due lenti degli occhiali scheggiate e del sangue che gli sporcava la tempia e gran parte del lato destro del viso. 

La battaglia era incisa su di lui, sulla sua pelle, nei suoi occhi… 

I due si fissarono in silenzio a lungo, eppure lei lesse sul viso di lui più di quanto Percy non sarebbe mai stato capace di dirle e lui sentì lo stesso ricambiando con lei quello sguardo. 

Poi Percy prese fiato e disse di getto: - Mi dispiace tanto per Lucy. - 

- A me dispiace per Fred. - Rispose semplicemente lei. 

Il ragazzo scosse la testa con fare contrito. - Non l’ho protetta… mi dispiace, Audrey… mi dispiace… - Proseguì, puntando gli occhi sempre più appannati verso il basso. Non poteva mettersi a piangere davanti a lei. - Te l’avevo promesso… - 

Ma Audrey lo guardò impassibile. - Smettila, Percy. - Incalzò. 

- Io l’ho portata a Hogwarts, era mia responsabilità... - 

- Smettila, dacci un taglio. - Ripeté lei, stavolta con la voce incrinata, chiudendo per un attimo le palpebre e scuotendo piano la testa. 

Non era arrabbiata con lui, anzi era certa che Percy avesse fatto tutto il possibile per tentare di salvare Lucy, lo sapeva. Eppure adesso non riusciva a guardarlo senza provare quel dolore incolmabile, senza vedere nei suoi occhi gli orrori di quegli ultimi mesi. Era così irrimediabilmente legato al massacro della sua famiglia e alla morte di Lucy, alla disperazione e alla perdita, che Audrey faticava a vedere, dietro tutto questo, il ragazzo che, solo la notte prima, aveva baciato come se da quel contatto dipendesse la sopravvivenza di tutti. 

- Non è colpa tua, so che è una cosa a cui sei abituato a pensare, ma non è colpa tua, nulla di tutto questo lo è. - Rimarcò Audrey con forza. - Hai fatto tutto il possibile, io lo so, ti conosco. -

Percy la fissò addolorato per una manciata di secondi. Non era questo ciò che voleva sentirsi dire e si chiese per quale dannatissimo motivo lei non gli stesse urlando contro in quel momento, come invece si meritava. 

Percy non capiva. Non capiva perché tutti continuavano a comportarsi con lui come se niente fosse successo, come se negli ultimi anni non avesse fatto un errore dopo l’altro, come se non avesse condannato a morte una ragazzina innocente, e molti altri come lei, con la promessa di tenerli al sicuro. 

- Devo tornare a casa, adesso. - Disse Audrey, strappandolo dai suoi dolorosi pensieri. 

- Ti accompagno. - Si offrì prontamente Percy. 

Lei sospirò. - Tu devi stare con la tua famiglia… e la tua fidanzata. - Gli disse.

Percy parve avere un attimo di smarrimento, poi scosse la testa in modo frenetico e fece un passo in avanti. - No… no, tra me e Penny non… - 

- Senti: lascia stare. - Lo fermò Audrey, riprendendosi la distanza. - Questa cosa… me e te… non avrebbe funzionato; non adesso almeno, non dopo tutto quello che abbiamo passato. Non avrebbe funzionato, Perce. - 

Percy la guardò dritto negli occhi, consapevole che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima occasione per farlo. - Audrey… non è così, lo sai. - 

- Invece è così. - Rimarcò lei in tono perentorio. - Non posso, non ce la faccio. - 

Percy sospirò. Era difficile per lui ammetterlo, ma sentiva che in fondo Audrey avesse ragione. Non poteva funzionare, non dopo la battaglia, non dopo tutto quel dolore, non dopo aver visto Lucy morire in quel modo. Come avrebbe potuto tenerglielo nascosto per sempre? E lui come avrebbe potuto piangere Fred in santa pace e nel frattempo amarla come lei si meritava di essere amata? 

Era diviso in due: da un lato sentiva forte il bisogno di avvicinarsi a lei, stringerla e dirle che l’amava, che l’amava tanto, che l’avrebbero superata insieme, ma dall’altro sentiva un peso che gli piantava i piedi ben fermi a terra, impedendogli di muoversi. 

Era cambiato tutto in una sola notte: era cambiato il modo in cui lei lo stava guardando e appariva tutto così sbagliato, sbagliato e senza senso. 

- Vado a casa adesso. - Disse lei, piano. - Abbi cura di te. - 

Percy si limitò a scuotere la testa piano, senza dire niente, anche se in quel semplice gesto risuonava forte ciò che avrebbe voluto dirle: resta. 

Resta, Audrey, resta con me. 

Questo le avrebbe detto, se solo ne avesse avuto la forza, se solo Fred non fosse morto, se solo Lucy fosse stata ancora viva. Ma non disse niente, né addio, né una parola per fermarla. Rimase lì, fermo, la guardò voltarsi nella direzione opposta alla sua e iniziare a camminare fino a sparire tra la folla, lasciandolo solo. 

 

.

 

Audrey si ritrovò davanti alla porta di casa di nonna Harriette quando il sole fu a un passo dal tramontare, senza però sapere esattamente come ci fosse arrivata. Aveva camminato, di questo era certa: lo sapeva soprattutto perché le gambe le dolevano molto, perché si sentiva stanca, anzi sfinita, tuttavia aveva percorso la strada dal San Mungo a quella vietta ordinata e ben asfaltata senza nemmeno rendersene conto. 

Non si sentiva in lei e per questo abbassò lo sguardo, osservando i suoi palmi. Il suo corpo era ancora il suo corpo, non era morta come era morta Lucy, eppure sentiva che la vita ormai fosse una cosa passata ormai. 

Non sapeva neppure perché fosse lì e non a casa sua, la casa della sua infanzia da cui Percy l’aveva portata via tanti mesi prima; lì dove c’erano le sue cose e le cose di Lucy, e dove magari avrebbe trovato qualche sterlina per chiamare sua madre o suo padre da una cabina telefonica. Si era ritrovata lì senza preavviso, era lì anche se non aveva più nessun dannatissimo senso.

Nel vialetto era ancora parcheggiato il vecchio van sgangherato di Elijah, rimasto a prendere polvere dall’ultima volta in cui lui c’era entrato, mentre il giardino si era riempito di erbacce. Quella casa che adesso si ergeva davanti a lei aveva tutto l’aspetto di un posto abbandonato e triste da cui mai più sua nonna sarebbe uscita, da cui non sarebbe uscito più nessuno. 

Chissà se almeno qualcuno aveva ripulito la chiazza di sangue lasciata dal corpo smembrato di Harriette. 

Audrey respirò profondamente e poi mosse qualche passo verso il portico, rendendosi conto di non avere con sé le chiavi per aprire la porta che le sbarrava la strada. 

Poi si ricordò del mazzo di chiavi che nonna Harriette aveva l’abitudine di nascondere nei vasi pieni di fiori, ormai secchi, che adornavano il portico o sotto lo zerbino impolverato. Guardò in basso e solo in quel momento si rese conto che proprio lì, proprio accanto allo zerbino, c’erano due paia di scarpe, uno da uomo e l’altro da donna. 

Possibile che ci fosse qualcuno in casa? 

Il braccio di Audrey si mosse prima ancora che lei potesse finire di formulare quel pensiero, bussò alla porta e attese nervosa. Poco dopo avvertì un movimento dietro la soglia, che si spalancò di scatto. Apparve sull’uscio una donna, una donna giovane e di bell’aspetto, bionda, pallida, dagli occhi verdi spalancati come se si trovasse davanti a un fantasma. Non la vedeva da troppo, forse da almeno un anno se non di più, ma non era diversa da come se la ricordava: era truccata e pettinata in modo impeccabile come al solito e indossava un paio di jeans a bassa vita e una maglietta a righe rosa e bianche che non le copriva la pancia e che le dava una vaga aria da Britney Spears. 

- Mamma…? - Balbettò Audrey, perplessa di vederla proprio lì.

Prima ancora che riuscisse a formulare per bene quella parola, la mano di sua madre scattò verso la sua faccia, colpendola e lasciandola di stucco. 

- Dove sei stata? - Gridò Erin fuori di sé, afferrandola per il braccio e facendola entrare in casa. - Dov’è Lucy? E come… come sei vestita? - 

Audrey la guardò confusa, le dita che sfioravano la guancia dolorante. Che diamine ci faceva sua madre a Londra? Ma soprattutto che diamine ci faceva lì, in casa di sua nonna? 

Aprì la bocca per parlare quando una voce attirò la sua attenzione alle spalle di Erin:  

- Audrey? - 

Audrey alzò lo sguardo, incontrando la figura di suo padre, fermo in piedi sulla soglia che divideva la cucina dal lungo corridoio d’entrata. Jude a contrario di Erin non aveva un bell’aspetto: indossava un vecchio pigiama infeltrito e probabilmente non si rasava da giorni o settimane; aveva le occhiaie, era molto più magro di quanto non fosse mai stato e i suoi capelli non erano corti e ordinati come al solito, ma crespi e gonfi. 

- Audrey… sei vera? - Le chiese Jude con labbra tremanti, aggrottando le sopracciglia. 

Audrey annuì e basta; aveva la gola annodata e sentiva un pesantissimo peso sul petto, una sensazione mai provata prima. Poi suo padre si mosse e in pochi passi la raggiunse e la abbracciò, facendola sussultare. Ricambiò quella stretta con qualche secondo di ritardo, rendendosi conto che mai, almeno a sua memoria, suo padre l’avesse abbracciata prima d’ora. 

- Sono vera. - Sussurrò Audrey, più a sé stessa che all’uomo. - Sono io, sono viva… sono viva, papà… - 

Jude la abbracciò forte e poi fece un passo indietro, guardandola in faccia come se volesse memorizzare ogni millimetro del suo volto. Audrey sentì gli occhi bruciare, assaporando nel frattempo più emozioni di quanto fosse capace di elaborare. 

- Papà… nonna Harriette… lei… mi dispiace… - Mugugnò Audrey. - Mi dispiace, mi dispiace così tanto… e Elijah… lui magari è ancora vivo… magari… - 

Jude strinse le labbra e gli occhi gli si riempirono di lacrime, poi scosse la testa e annuì insieme, in fine la abbracciò di nuovo. 

L’aveva creduta morta, il suo cuore si era dilaniato per quella perdita e per mesi aveva rivissuto nella sua testa tutti gli errori che aveva fatto con lei. Aveva pensato a tutte quelle volte in cui si era lasciato sfuggire un’occasione per dirle che le voleva bene, a tutte quelle volte in cui aveva messo la carriera prima di sua figlia, a tutte le volte in cui non aveva lottato per averla vicina e per essere presente nella sua vita. Ma adesso Audrey era lì, adesso sarebbe stato tutto diverso. 

- Dov’è Lucy? - Domandò di nuovo Erin, frantumando l’incanto. - Dov’è? Dove l’hai lasciata? Dove siete state tutto questo tempo? - 

Audrey si voltò verso sua madre di scatto e la fissò per qualche istante, cercando di trovare la frase giusta. - Lucy è morta. - Rispose alla fine, priva di ogni inflessione. 

Era così strano da dire.

Le labbra di Erin tremarono e poi si portò le mani alla bocca, le sopracciglia aggrottate le diedero un’aria improvvisamente spaesata. - Che cosa le hai fatto? - Domandò con furia, facendo un minaccioso passo verso Audrey. 

- Cosa le ho fatto? - Ribatté Audrey, e la bocca le si piegarono in un piccolo sorrisetto amaro. - Come ti viene in mente che io possa averle fatto qualcosa? Io?

- L’avevo affidata a te! - 

- Avresti potuto fare la madre! - Inveì Audrey. - Avresti potuto proteggerla, portarla con te in Irlanda, ma il tuo stupido marito bifolco non ci ha mai volute e adesso Lucy è morta, capito? Morta! L’hanno ammazzata! - 

Erin la guardò con gli occhi ridotti a due fessure, piena di rabbia, per poi fare un passo in avanti. - Tu… inutile ingrata che non sei altro… non parlarmi così! Inutile, stupida… -

- Adesso basta. - Ordinò Jude, mettendosi tra le due, rivolto verso Erin. - È meglio se te ne vai, Erin. - 

La donna lo fissò con incredulità. - Cosa… perché? - 

- Fuori di qui. - Ripeté lui, stavolta con un tono più perentorio, spingendola verso la porta. - Vattene, esci da questa casa. - 

Erin si ritrovò a boccheggiare perplessa. Aveva sempre considerato il padre di sua figlia come una persona debole, incline all’accondiscendenza come nessun altro. Era incapace di imporsi su qualcuno ed era sempre stato così calmo, così educato, da essere insopportabile. 

- Non puoi cacciarmi, Jude, lei è mia figlia. - 

- Ma è anche mia figlia e questa è casa mia, quindi posso eccome, Erin. - Ribatté l’uomo, sempre più duro man mano che parlava. - Non puoi parlarle in questo modo davanti a me, non te lo posso lasciar fare. - 

Erin fece un verso di sdegno. - Dove sei stato tutti questi anni, Jude? - Gli domandò tagliente. - Compari adesso, dopo anni in cui ti sei limitato a mandare cartoline per il suo compleanno, e vorresti dirmi come comportarmi con lei? Tu non la conosci… è un’ingrata, una ragazzina viziata e incapace. Adesso Lucy non c’è più e di chi è la colpa? È la sua la colpa, ecco di chi è! - 

Audrey sentì quelle parole nella sua carne come se ogni singola sillaba l’avesse trapassata. Forse Erin non aveva tutti i torti, forse se non l’avesse mandata a Hogwarts… 

Non voleva sentire più niente, né le accuse né il dolore di sua madre, non voleva sentire il senso di colpa e nemmeno quel vuoto dilaniante che la stava risucchiando dall’interno da quando Katie le aveva detto di Lucy. Voleva solo sdraiarsi, chiudere gli occhi e dormire per molto molto tempo. 

Guardò sua madre e poi suo padre, dopo si voltò e raggiunse la scale. Raggiunse il piano di sopra lasciandosi i due alle spalle e senza dire una parola e una volta nel bel mezzo del corridoio si ritrovò davanti alla porta della stanza in cui una volta dormiva nonna Harriette; la spalancò e una volta entrata si lasciò cadere su quello che una volta era il suo letto. Era tutto così ordinato e pulito, proprio se Harriette avesse passato l’intera giornata a rassettare, ma c’era un odore diverso, l’odore di una stanza che ormai non accoglieva più nessuno da un po’. 

Audrey si sdraiò e finalmente chiuse gli occhi. Si sentiva invecchiata di cent’anni. 

E poi una domanda risuonò nella sua mente: come sarebbe potuta andare avanti? 



 

Eh, pensavate che mi fossi dimenticata di voi? E invece no, eccomi qui. 

Ebbene sì, porterò avanti questa fanfiction fino alla fine nonostante questa mia piccola crisi creativa. Probabilmente i tempi saranno un po’ dilatati come in questo caso, ma non temete, arriveremo alla fine (pare un po’ una minaccia, ammettetelo ahaha) 

Non so cosa dire tranne che questo capitolo mi è costato fatica. L’ho riscritto una cosa come dieci volte e ci sono parti che mi piacciono ma altre in cui proprio… comunque da qua in poi si aprirà un nuovo capitolo della narrazione (praticamente tutte le mie storie hanno due atti, non so perché ma mi viene sempre di fare così), quindi ne vedremo delle belle (anche delle brutte, sapete quanto amo il dramma).

Spero di riuscire a pubblicare il prossimo capitolo da meno di un mese ma non vi assicuro niente. Per adesso vi saluto e ci vediamo alla prossima.

J. 


 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18. Congelata nel tempo ***


Ammetto che non so bene da dove cominciare: ho avuto una vera e propria mancanza di ispirazione in questi ultimi tempi, probabilmente dovuta al fatto che sono stati mesi parecchio impegnativi dal punto di vista psicologico (in realtà tutti i cambiamenti che ho avuto sono stati positivi, ma sono pur sempre cambiamenti, no?) Comunque non voglio star qui ad ammorbarvi con la mia vita, quindi veniamo a noi! 

Ho deciso di dare una svolta diversa alla trama quindi dimenticate gli ultimi due capitoli. 

Ricapitoliamo: la guerra è finita come è finita; Lucy è morta, Fred è morto, Audrey e Percy si sono dati quello che sembrava un addio. 

Cosa succederà adesso? 

Ecco. 

Vi tocca leggere 😏

Fatemi sapere cosa ne pensate, se preferite questa linea narrativa o la precedente, sono sempre aperta a pareri e consigli! 

Un abbraccio, 

J.




 

Capitolo 18

 

28 aprile 2001

 

Appena fuori l’uscita principale dell’aereoporto, una ragazza se ne stava seduta su una grande valigia blu elettrico, la faccia stanca di chi era appena sopravvissuto a un lungo viaggio e con addosso abiti totalmente inadatti al clima dell’Inghilterra in primavera. Il cielo sopra la sua testa piena di piccole treccine scure era infatti coperto da uno strato di nuvole grigie che non promettevano nulla di buono. Imbarcarsi su un aereo per Londra con quel vestito in kente* arancione e blu addosso non era stata un’ottima idea, dopotutto. A vederla così era più che palese che quella ragazza fosse appena arrivata in da chissà quale paese africano. 

Con un sospiro annoiato, la giovane si voltò verso l’entrata dell’aereoporto da cui andavano e venivano persone di continuo, tutti con un tipo di fretta diversa. Se c’era una cosa che non le era mancata dell’Europa era proprio quella continua precipitazione con cui tutti si muovevano. Lei non aveva fretta, sebbene star lì ad aspettare l’annoiasse, appariva piuttosto rilassata. Ma quando il telefono squillò nella sua tasca, la giovane lo afferrò prontamente e, dopo aver visto il nome sul display, se lo portò all’orecchio per rispondere. 

– Pronto? –

– Per Salazar, Audrey… hai un’aria così africana adesso. – Disse una voce maschile e allegra dall’altra parte. 

Lei sorrise e si guardò attorno. Solo in quel momento notò, dall’altra parte della strada, suo zio Elijah che la aspettava all’interno di una macchina rossa dall’aria costosa che non gli si addiceva affatto. 

Sebbene avesse sei o sette anni in più della nipote, Elijah sembrava molto più vecchio: era come se quei mesi che aveva passato ad Azkaban durante la guerra fossero stati anni per lui. Adesso, al posto delle treccine nere e viola che era stato solito sfoggiare anni prima, aveva lasciato crescere i suoi capelli senza curarsene troppo, cosa che, insieme a quella folta barba scura, gli dava un aspetto piuttosto difficile da dimenticare. Portava ancora gli occhiali e lì sul collo, si poteva intravedere il tatuaggio con il suo numero da prigioniero. 

Era stato meraviglioso per Audrey quando se lo era ritrovato davanti alla porta della vecchia casa di nonna Harriette, magro, sporco e distrutto, qualche giorno dopo la battaglia di Hogwarts. Ma era stato devastante scoprire che Elijah aveva perso gran parte della sua luce. 

Audrey si alzò dalla valigia, ripose il telefono in tasca e attraversò la strada per raggiungerlo. Lui intanto era sceso dall’auto e, dopo aver caricato la valigia di lei nel portabagagli, la strinse in un fortissimo abbraccio. 

– Stai così… bene! – Esclamò il mago quando fece un passo indietro, con un tono che arrivò alle orecchie di lei come un po’ incredulo. 

Non erano stati anni facili, questo Audrey non poteva fare altro che ammetterlo, e forse suo zio era contento di vederla meglio di come era partita tempo prima. 

Ci aveva provato, dopo la guerra, a tornare alla sua vita di sempre. Aveva ripreso con il conservatorio e aveva lasciato che suo padre Jude si prendesse cura di lei, aveva rivisto la sua migliore amica Anne e per un po’ era tornata a lavorare con lei al Bistrot Viva Verdi, ma era difficile se non impossibile tenere tutto ciò che le era capitato in un angolo remoto della sua mente. Dopotutto non poteva parlarne con nessuno all’infuori dei membri della famiglia che le erano rimasti. Così aveva preso le sue cose e aveva viaggiato a lungo, aiutata dai soldi che suo padre le mandava ogni mese, ovunque lei si trovasse, alla ricerca di qualcosa che tutt’ora le mancava. Aveva visto di tutto, era entrata in contatto con ogni tipo di popolo e di cultura, eppure lì, davanti a suo zio e al numero da prigioniero che lui aveva tatuato sul collo, si rese conto che tutto ciò che non aveva affrontato due anni prima era ancora lì, immutato. 

– Mi piacciono i tuoi nuovi capelli. – Fece Elijah, afferrando una delle treccine. – Sono lunghissimi. –

– Sono finti. – Rispose Audrey, facendo un sorrisetto, mentre entrambi entravano in macchina. – La donna che me li ha fatti ci ha messo sei ore. –

Elijah sbuffò dal naso e poi mise in moto l’auto. – Io, con la magia, ci avrei messo dieci secondi. – 

Audrey mugugnò in risposta. Negli anni aveva sviluppato una certa avversione alla magia. 

– Dov’è papà? Pensavo venisse lui a prendermi oggi. – 

– Jude sta sistemando la tua stanza, l’abbiamo usata come magazzino negli ultimi tempi. – Spiegò Elijah. – Ma dimmi, dove vuoi andare prima di arrivare a casa? – Le domandò poi. 

– Da Lucy. –

Il viaggio dall’aereoporto al Brompton Cemetery fu uno dei viaggi più stressanti che Audrey avesse mai affrontato. Il caos e la fretta così tipica dell’Occidente la colpirono in pieno viso come uno schiaffo e solo una volta lì, nella calma di un cimitero, riuscì a tirare un sospiro di sollievo. 

La tomba di Lucy era come tante altre lì attorno: la lapide in ardesia scura aveva il nome della giovane, la data della sua nascita e quella della morte incise sopra, c’era anche una bella fotografia in cui Lucy sorrideva e dove appariva di qualche anno più giovane rispetto a quando era morta, i capelli chiarissimi che le incorniciavano il volto magro, gli occhi luminosi che sembravano vedere davvero. 

Lucy Siobhan Manning. 

20 febbraio 1982.  

2 maggio 1998. 

Non c’erano fiori né tantomeno oggetti lasciati da chi la amava, niente di niente, e questo intristì un po’ Audrey, che si ritrovò all’improvviso a pensare al funerale di sua sorella, cosa che non le capitava da tempo. Era stato quel giorno l’ultima volta in cui aveva visto sua madre, e pochissimi erano stati quelli che avevano partecipato alla cerimonia, cosa che l’aveva trafitta con l’ennesima triste consapevolezza: erano sole, loro due, era sola soprattutto Lucy, che aveva avuto una madre che era quel che era e un padre che non aveva mai conosciuto. 

– Di tanto in tanto io e tuo padre veniamo qui per portarle dei fiori e per togliere le erbacce. – Elijah alle sue spalle parlò. – Capita che incontriamo un ragazzino… forse andava a scuola con lei… un ragazzino con i capelli color topo, con la faccia triste. – 

Audrey annuì, senza distogliere lo sguardo da quella fredda pietra mortale. – Sarà il fratello del ragazzo che le piaceva, Danny Cannon. Suo fratello Colin è morto a Hogwarts come lei. – 

Elijah sospirò. Non capiva come fosse possibile che Audrey fosse capace di parlare di ciò che era capitato quel due maggio con così tanto gelo. Da una parte la invidiava, invidiava il distacco che lei era riuscita a mantenere con quell’orribile periodo, ma dall’altra era preoccupato che lei non l’avesse affatto elaborato. - Audrey… - La chiamò, nel tentativo di capire cosa provasse. 

– Come sta Percy? – 

Quella domanda colse Elijah totalmente alla sprovvista. Negli ultimi anni non c’era stata nemmeno una volta in cui Audrey avesse chiesto notizie di Percy Weasley. 

– Anche lui mi chiede spesso di te, lo sai? – Asserì, facendo un sorrisetto.

– Quindi ora siete amici? – Ribatté Audrey, voltandosi verso lo zio mantenendo un tono e un’espressione disinteressata. 

– Non siamo amici, no. - Chiarì Elijah. – Ma lo incontro negli ascensori del Ministero ogni tanto, e lì mi chiede di te, di come stai e dove sei. –

– E tu cosa gli dici? – 

Il ragazzo scrollò le spalle. – Che te la cavi. – 

Audrey tornò a guardare per un attimo la lapide di Lucy, poi sospirò e si voltò di nuovo verso lo zio. – Be’, quindi come sta? – Rimarcò. 

– Immagino stia bene, non lo so. – Buttò lì Elijah. – Lavora nel dipartimento dei trasporti magici adesso; una vera regressione di carriera visto il suo precedente impiego, ma l’ha preso molto sul serio: sembra sempre molto indaffarato, quando lo vedo. – 

Audrey tirò su i lati della bocca in un timido sorriso. – Sì, molto tipico di lui. – Disse.

Elijah aggrottò le sopracciglia e piegò il capo verso sinistra, fissandolo come farebbe un cane curioso. – Sei ancora innamorata di lui. – Disse tagliente.

Lei scosse la testa, alzò gli occhi al cielo e poi prese a camminare verso l’uscita dal cimitero. – Non sono mai stata innamorata di lui. – Si affrettò a chiarire. – Mi piaceva, ecco forse questo sì. Ma sai perché? Sai perché forse un po’ mi piaceva? – Proseguì, tutta piccata. – Perché ero sola e triste, e lui… be’, lui c’era per me in quel momento. Percy è un bravo ragazzo, ma in condizioni normali, ovviamente, non mi sarei mai potuta sentire affine a uno come lui, no, no… era un brutto periodo, tu lo sai, e poi... – 

– Percy sarà alla cerimonia per l’anniversario della battaglia, tra qualche giorno, a Hogwarts. – La interruppe bruscamente Elijah, andandole dietro. 

Lei non sembrò fare una piega, ma continuò a camminare tra le lapidi disseminate, dritta dritta verso l’uscita. – E tu che ne sai? – 

– Lo scorso anno era lì. Insieme alla famiglia e alla sua ragazza. – Svelò Elijah. 

Solo a quel punto il passo di Audrey si arrestò. – Quindi lui e Penny stanno ancora insieme. – Disse, pensierosa. 

– Se Penny è una ragazza bionda e riccia allora direi proprio di sì. – 

Audrey annuì in fretta e poi si rimise in moto. – Posso venire anch'io a quella cerimonia a Hogwarts o sono troppo babbana per mettere piede in quella scuola? – Domandò, una volta lasciato il cimitero. 

– Accompagnata da un mago puoi andare ovunque. –

Lei annuì. – Sai, non sono mai stata in Scozia prima d’ora. – 

– Devi assolutamente rimediare. –

– Direi proprio di sì. – Annuì Audrey. 

Poi alzò gli occhi sopra la sua testa. 

Il grigiore così tipico di Londra era nettamente peggiorato e il freddo si era fatto ancora più intenso. 

– Andiamo a casa, prima che si metta a piovere. –

 

.

 

La fine della guerra aveva rappresentato, per il lato paterno della famiglia di Audrey, una vera e propria svolta. Innanzitutto Jude aveva deciso di lasciare il New Jersey per tornare a vivere lì in Inghilterra solo per star vicino alla figlia, la casa di nonna Harriette e nonna Constance era stata venduta a una famiglia babbana inconsapevole degli errori accaduti tra quelle mura, e loro tre (Audrey, Jude ed Elijah) si erano ritrovati in un altro bel quartiere residenziale di Londra, pronti a instaurare una nuova routine. 

Vista da fuori, la casa sembrava piuttosto normale: nessuno, davanti a quella porta di legno marrone, avrebbe potuto pensare che lì, in quella villetta da perfetti e noiosi borghesi bianchi, ci vivesse una famiglia di neri tra cui un mago, un pianista classico e, di tanto in tanto, una ragazzina sui vent’anni che si sentiva totalmente persa.  Almeno da fuori, tutto appariva come doveva essere: estremamente normale. Si trattava di una grande abitazione quadrata, a due piani, con il tetto di tegole scosceso e un bel giardino che la circondava, posta accanto ad altre abitazioni quadrate e più o meno identiche, che si estendevano, una vicina all’altra, ai due lati della strada alle spalle di Audrey. 

Elijah varcò per primo il cancelletto che divideva il marciapiede dal giardino, tirandosi dietro la grossa valigia di Audrey. Lei lo seguì con in viso l’espressione di chi si stava chiedendo cosa ci facesse lì. Quella finta normalità le era stata stretta dal primo giorno dato che, da quando Harriette e Constance erano morte e da quando c'era stata la battaglia, nulla poteva più considerarsi normale. Tuttavia suo padre non la pensava così e sembrava aver iniziato a vivere in funzione di un rapido ritorno allo status quo. 

Quando varcarono la soglia, ritrovandosi in un ordinatissimo ingresso in stile minimalista, Audrey sentì dei rumori al piano di sopra e poi lungo le scale alla sua destra. Poi Jude apparve dinnanzi a loro all’improvviso, con la solita aria austera di sempre, così simile a quella di nonna Harriette. 

– Audrey! – Esclamò, facendo un sorriso che non gli si addiceva granché. – Finalmente! Pensavo che vi fosse persi per strada! Stai bene? Come è andato il volo? - 

Non si vedevano da anni e, quando lui la abbracciò, Audrey rimase sorpresa come tutte le volte in cui ciò accadeva: dopo una vita di assenza era ancora un po’ strano per lei il fatto che suo padre le volesse bene e che glielo dimostrasse. 

Quando Jude fece un passo indietro, Audrey lo osservò per un attimo: era sempre uguale, i capelli cortissimi, ricci e neri, gli occhi scuri un po’ infossati e l’aspetto di uno che si prendeva molta cura di sé stesso. 

– Ciao, papà. – Lo salutò alzando i lati della bocca per sorridere. – Sto… bene. Il volo è andato bene, e io sto bene. – 

– Sei tornata per restare, spero. – Asserì Jude, squadrandola da capo a piedi.

Audrey esitò.

Di certo non era quello il suo intento: il suo piano fino in quel momento era quello di rimanere a Londra per qualche giorno, andare spesso sulla tomba di sua sorella, per poi partire alla volta di qualche altro paese lontano per dimenticarsi di sé stessa. Tutto questo, naturalmente, a spese di suo padre che, bisognoso di dimostrarle l’affetto che non le aveva mai dato, la riempiva di soldi e di cose materiali. 

A ventiquattro anni suonati, dunque, Audrey si ritrovava senza un lavoro e con un’istruzione lasciata a metà, dato che non aveva mai terminato i suoi studi in conservatorio. 

L’unica cosa su cui avesse mai puntato, l’unica cosa in cui fosse mai stata brava, la musica, sembrava averla abbandonata il giorno in cui la battaglia di Hogwarts era terminata: non aveva più cantato né toccato un pianoforte da allora e davanti a sé Audrey non vedeva più nessun futuro brillante in quel mondo. 

Era finita, quel treno ormai era passato per lei e questo la faceva sentire un totale fallimento. Restare a Londra non faceva altro che ricordarglielo. 

– Io… hem… vedremo. – Bofonchiò. – Ecco… sono un po’ stanca. – Aggiunse, così da tirarsi fuori da una eventuale conversazione scomoda. – Sai, il volo… – 

– Oh sì, ho dovuto sistemare tutta la tua stanza. – Disse Jude. – Elijah l’aveva riempito con tutte le sue stramberie da mago. – Bisbigliò, come se il fratello lì presente non potesse sentirlo. 

– Tutta invidia, la tua, tutta invidia… - Fece infatti, bonariamente, Elijah.

– Allora vado di sopra, se non ti dispiace. – 

– Va pure, Peony. - 

Le labbra di lei si piegarono in un sorriso timido. Nessuno la chiamava mai così. 

Un tempo era Percy che lo faceva. 

 

La sua camera da letto era al piano di sopra e affacciava direttamente sulla strada. Non era particolarmente grande né tantomeno vistosa, anzi somigliava un po’ alla sua vecchia stanza nella casa in cui aveva vissuto con Lucy e sua madre molti anni prima. Il letto a una piazza e mezza era sistemato contro una delle pareti dipinte di colore malva, un poster con la faccia di Nina Simone le ricordava il tempo in cui per le sue orecchie c’era un solo tipo di musica degna di essere ascoltata, mentre dalla parte opposta una scrivania sgombra, una libreria piena di romanzi che Audrey aveva già letto, mentre in un angolo era abbandonata la sua vecchia tastiera, tutta impolverata, che forse non funzionava nemmeno più. 

Dopo un attimo di esitazione che Audrey trascorse ferma sulla soglia, decise di muovere qualche passo verso l’armadio dall’altra parte della stanza. Aprì le ante rivelando un bel po’ di vecchi vestiti, di lei e di Lucy, riposati su stampelle o piegati e sistemati su dei ripiani in legno. Tra quelli c'era anche il vecchio abito di Katie Bell con cui era tornata a casa subito dopo la fine della guerra. Non l’aveva mai più indossato da quando se lo era tolto di dosso quella mattina. 

Audrey accarezzò quel ruvido tessuto con la punta delle dita, lasciandosi invadere dai ricordi di un periodo che quasi aveva l’impressione di non aver vissuto davvero. Erano passati anni, la vita era andata avanti. Percy era tornato con la sua Penny, Elijah aveva ricominciato la sua vita dopo Azkaban, suo padre si era trasferito a Londra per lei e lì componeva e insegnava pianoforte, persino la sua amica Anne, che non vedeva da tempo, si era sposata e da poco aveva avuto un bambino. 

Tutti avevano un ruolo, tutti erano andati avanti, tutti tranne lei che, come quel vestito, sembrava essersi congelata nel tempo. 


 

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Capitolo 20
*** Capitolo 19. La celebrazione I° parte ***


Capitolo 19



 

2 maggio 2001

 

C’era stato un tempo, nemmeno così tanto tempo fa, in cui Percy Weasley aveva amato le celebrazioni e le cerimonie. C’era qualcosa che lo rassicurava nei riti che si ripetevano sempre nello nello stesso modo, nello stesso luogo, ogni anno. Erano delle sicurezze, delle costanti che si alternavano nel tempo, e non c’era niente di meglio per una mente ben organizzata e incline alla routine come la sua, che una sana e ben collaudata routine. Tuttavia la celebrazione che ricorreva ogni due di maggio da quando la guerra era finita non l’aveva mai sopportata. Non trovava proprio niente di tranquillizzante nel dover mettere piede a Hogwarts ogni anno per un motivo così triste: ormai quel luogo per lui aveva cambiato faccia e, ogni qualvolta era costretto a tornarci, Percy doveva sforzarsi di mantenere un contegno che di solito non faticava ad avere. 

Comunque sua madre teneva a quella ricorrenza molto più di quanto ormai tenesse al Natale e lui non voleva ferirla ancora, non voleva dare l’impressione che non gliene fregasse nulla, quindi non c’era niente da fare: anche quel giorno si sarebbe smaterializzato ad Hogsmeade insieme a Penelope per partecipare alla celebrazione di quello che ormai era definito da tutti come il giorno della memoria. 

– Perce? Hai fatto? – 

La voce ovattata di Penny, dall’altra parte della porta, lo fece riscuotere dai suoi pensieri. Probabilmente, lì sotto la doccia, aveva perso la cognizione del tempo.

Chiuse l’acqua e, una volta indossato l’accappatoio di spugna, si ritrovò davanti allo specchio. – Sì, ho quasi finito. – Disse, rivolgendosi verso la porta.

Penny non rispose, così Percy tornò con lo sguardo sulla superficie dello specchio appannata dal vapore. Non vedeva bene la sua immagine riflessa ma non gli dispiaceva granché. Non si era mai considerato particolarmente gradevole agli occhi ma, ultimamente, appariva a sé stesso molto peggio del solito. 

Forse era perché stava iniziando a stempiarsi come suo padre, pensò passandosi una mano tra i capelli color carota. 

Chissà cosa ci trovava Penelope in lui, pensò.

Era stato complicato tra loro, dopo la fine della guerra. Percy ci aveva messo mesi anche solo per tornare ad avere una vita presumibilmente normale, anche se di normale ormai non c’era un bel niente. Ci aveva messo anni per sentirsi più o meno di nuovo sé stesso. Penny comunque non l’aveva mai abbandonato, mai, neppure nei momenti di maggior sconforto. Penny era rimasta, non aveva fatto una piega nessuna delle volte in cui lui l’aveva spinta via, troppo addolorato per la morte di Fred per amarla. 

Lei non era come Audrey, che non si era nemmeno presentata a testimoniare a suo favore durante il processo a suo carico, in quanto presunto collaboratore del Ministero corrotto. Eppure era capito spesso che Percy si perdesse nel pensare come sarebbe stato se solo Audrey fosse rimasta. 

Per i primi mesi dopo la battaglia, Percy le aveva scritto delle lettere, lettere a cui però non aveva mai ricevuto risposta. Era persino andato a cercarla a casa della nonna, per poi scoprire che la casa era stata venduta a una famiglia di babbani, lo stesso la vecchia casa in cui si era presentato la notte in cui  l’aveva conosciuta. 

Erano passati più di tre anni da quando l’aveva vista l’ultima volta, fragile e stanca fuori dal San Mungo. Di lei non aveva più notizie da allora e più passava il tempo più i dettagli del viso di lei si affievolivano. 

Audrey nei suoi ricordi era ormai una massa informe di capelli scuri e ricci, occhi verdi, una voce cristallina, piccole mani gelide e labbra troppo morbide per essere dimenticate, niente di più, niente di meno che questo. Faticava a dire il suo nome ad alta voce e c’era una parte di lui che si emozionava ancora quando ripensava alle canzoni di Chet Baker. Quando poi incontrava lo zio di Audrey — così diverso dal ragazzo che aveva conosciuto e profondamente segnato dai mesi ad Azkaban – al Ministero per chiedergli della nipote, lui gli rispondeva fornendo risposte di circostanza: “Audrey sta bene”, “viaggia molto”, “te la saluto la prossima volta che la vedo”. 

Lei stava bene, se lo era fatto bastare; doveva dimenticarla e andare avanti.

C’erano momenti in cui Percy si sentiva un po’ egoista: vivere con Penny, fare progetti con lei mentre una parte del suo cuore era rimasta tra le mani di Audrey era quanto di più orribile potesse fare a una donna che lo amava davvero e che non lo aveva mai lasciato solo. Ma non poteva farci niente; per quanto Penny fosse perfetta per lui c’era sempre un pezzo della sua mente che rimaneva ancorata alla vita che per un secondo aveva immaginato con Audrey. 

Lui che tornava a casa e la trovava lì a cantare o a suonare qualcosa… lei che gli cucinava qualche cibo africano pieno di spezie… e poi i loro bambini… sarebbero stati dei bambini bellissimi se avessero preso da lei… 

Probabilmente se lei fosse tornata da lui in quel preciso istante, allora Percy ci avrebbe messo cinque secondi a lasciare Penelope, così da dare un’opportunità a quella vita che aveva solo potuto immaginare. 

E questo lo faceva sentire la persona più orribile del pianeta.

Percy scosse la testa, si asciugò e si vestì in fretta. 

Quando uscì dal bagno ritrovò Penny ad aspettarlo in cucina. 

Si erano trasferiti in quella casa qualche mese dopo la fine della guerra, una casa più grande del vecchio monolocale, nell'Oxfordshire, lontano dal caos di Notting Hill. L’aveva comprata il padre di Penny per la figlia e aveva molte più stanze di quante fossero necessarie, un giardino ben curato che la circondava tutta ed era arredata in stile liberty come piaceva a Penelope. Entrambi erano sempre stati piuttosto portati negli incantesimi di pulizia e per questo quella casa profumava sempre ed era sempre molto ordinata. 

Quella mattina il tavolo della cucina era apparecchiato per la colazione, cosa che non accadeva quasi mai dato che, in giornate più comuni di quella, né Penny né Percy avevano il tempo per mangiare prima di andare a lavoro.  

– Ci hai messo una vita. – Parlò Penelope, non appena lo vide, con aria di rimprovero. – Il té si sarà raffreddato. – 

– Non fa niente. – Rispose lui, sedendosi al suo posto, davanti a una tazza ricolma di té nero.

Poi il giovane si mise a dare un’occhiata alle pietanze che imbandivano la tavola. Penny aveva fatto delle uova strapazzate, pancetta fritta, pancake e anche del porridge, aveva tagliato della frutta e l’aveva sistemata su un bel piatto quasi come fosse una decorazione. Probabilmente la strega si era data da fare nel tentativo di addolcire quella pessima giornata al proprio fidanzato e, per quanto Percy apprezzasse il gesto, non ne capiva l’utilità. Non era questo ciò di cui aveva bisogno, non aveva bisogno di cibo presentato in modo elaborato, né di tovagliette dall’estetica impeccabile, né di servizi da té di classe come quello che Penny aveva tirato fuori quella mattina. 

– Andiamo a pranzo dalla tua famiglia, dopo la cerimonia? – Domandò Penny, seduta dall’altra parte del tavolo rispetto a lui. 

Percy alzò gli occhi dalla sua tazza per postarli su di lei. Era così bella anche quella mattina, con quei capelli chiari e folti sciolti sulle spalle, gli occhi color cielo appena truccati, la pelle diafana e priva di imperfezioni, e quell’abito da strega sull’indaco. 

Quando Penny aveva messo piede alla Tana per la prima volta, dopo un bel po’ di tempo dalla fine della guerra, aveva impiegato pochissimo tempo a conquistare i cuori di tutti. Probabilmente lei era l’unica cosa di Percy che i suoi genitori e i suoi fratelli sembravano apprezzare, o almeno questo era ciò che pensava lui. Dopotutto era così bene educata, era simpatica e dolce, inoltre era abbastanza intelligente da sapersi adattare ovunque con una certa facilità. 

– A te va di andarci? – Gli chiese lui. 

– Perché no? – 

Percy si fece sfuggire un mugolio difficile da tradurre. 

– Lo sai che tua madre ci tiene. –

– Lo so. – 

– Va bene. Ci andiamo quindi? – 

– Come vuoi. – 

Penny sospirò e guardando Percy si ritrovò a scuotere la testa con aria risentita. 

Lui era cambiato da quando la guerra era finita, ma non solo nel carattere. Certo, era diventato decisamente più taciturno e triste, più introverso di quanto non fosse mai stato, aveva perso gran parte della sua saccenza, ma il suo viso e la sua espressione… be’, lì c’era la differenza più lampante. Non lo vedeva sorridere in modo genuino e spontaneo da troppi, troppi anni, e ormai non riuscivano nemmeno più a parlare come erano sempre stati abituati a fare. Ma Penny lo amava, per questo rimaneva lì con lui, lo amava così tanto che era certa che potesse farlo abbastanza forte per entrambi. Tuttavia aveva come l’impressione che lui stesse nascondendo qualcosa, aveva la sensazione che custodisse un orribile segreto, che tenesse dentro di sé qualcosa di cui non poteva parlare a nessuno. 

– Ci saranno sicuramente anche Oliver e Katie, a Hogwarts. – Tornò a parlare la ragazza. – Non ci posso credere che si sposeranno. – 

Percy annuì e basta, alzando i lati della bocca. A lui non sembrava così surreale che Oliver e Katie avessero deciso di sposarsi. Dopotutto erano ufficialmente insieme dalla fine della guerra.

– Lui le ha regalato un anello davvero bellissimo! – Proseguì Penelope. 

– Ah sì? – 

– Sì, sì. – Annuì lei. – Stanno insieme da poco rispetto a noi due, eppure… – 

Percy si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo. Erano mesi che Penny non faceva che parlare velatamente di matrimonio, figli e altre cose che, fino a pochi anni prima, Percy era stato certo di volere proprio con lei. 

– Noi due potremmo iniziare a pensarci davvero, no, Perce? - Penelope pronunciò questa frase quasi con timidezza, accennando un piccolo sorriso.

Poi vide Percy portarsi la tazza alla bocca per poi riporla subito sul piattino e alzarsi. 

– Sì… vedremo. – Buttò lì. – Ora però dobbiamo andare, non voglio fare tardi. – 

Penelope lo guardò affranta, poi sospirò. 

In mattine come quella, quel muro di ghiaccio tra loro era troppo spesso per essere attraversato, persino per una come lei. 

 

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Dal momento stesso in cui era tornata a casa, solo qualche giorno prima, Jude si era reso conto di una cosa: sua figlia non era più la stessa di quando era partita e questa non era una cosa del tutto negativa. 

In quegli anni Audrey aveva fatto pace con metà delle sue origini, aveva imparato a parlare un po’ di francese e un po’ di swahili, aveva maturato una sicurezza che prima non avrebbe mai potuto vantare e appariva decisamente calma e rilassata per la maggior parte del tempo. Troppo calma e rilassata, ora che ci pensava bene. 

Ogni volta che Jude ripercorreva nella sua mente la vita che aveva avuto sua figlia soffermandosi con più attenzione agli eventi degli ultimi anni, non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che lei fosse così… normale. 

Insomma la vita di Audrey era un susseguirsi di abbandoni ed eventi spiacevoli: il suo rapporto con suo padre era appena nato dopo anni di assenze e silenzi, non vedeva sua madre da molto tempo ormai, sua sorella minore era morta. Aveva anche assistito agli omicidi di sua nonna e della sua bisnonna ed era quasi morta tra le mani di un lupo mannaro, ma quella mattina, la mattina in cui cadeva l’anniversario della battaglia di Hogwarts e della morte di Lucy, lei se ne stava seduta tranquilla su una delle sedie che circondavano il tavolo in cucina, mangiando del porridge. 

Accanto a lei, Elijah beveva da una tazza di té e anche lui appariva piuttosto rilassato, seppur molto più ordinato del solito e con indosso una solenne veste da mago nera al posto dei suoi abiti babbani solitamente molto appariscenti.

Attorno a loro c’era silenzio ma, sebbene né Audrey né Elijah ne sembrassero infastiditi, Jude avrebbe fatto qualsiasi cosa per romperlo. E così fu: 

– Hai intenzione di trovare un lavoro o di tornare a studiare, Audrey? – Disse all’improvviso. 

Elijah tossicchiò e poi scoccò uno sguardo al fratello prima di posare lo sguardo sulla nipote, che invece non aveva fatto una piega. 

– Sinceramente non so nemmeno se rimarrò a Londra. – Disse. 

– Audrey, hai ventiquattro anni, anche se non hai intenzione di rimanere devi iniziare a pensare al tuo futuro. – Ribatté Jude. – Non puoi gironsolare per sempre senza una meta. – 

– Se è per i soldi puoi anche smettere di darmene. – Asserì gelidamente lei. – In fin dei conti sono riuscita a sopravvivere per vent’anni senza il tuo aiuto. – 

– Non è per i soldi, è per te. – Dichiarò l’uomo, più duramente di quanto avesse voluto. – Quali sono i tuoi piani? Vuoi tornare in conservatorio? O magari preferisci il college? Oppure posso trovarti un lavoro in qualche etichetta discografica… – 

Audrey lo interruppe con un verso sprezzante. – Certo, mi trovi un lavoro così sarò per sempre la raccomandata figlia del pianista famoso. – Sbuffò. 

– E allora cosa vuoi fare? – Insistette Jude. 

Audrey incrociò le braccia e fissò suo padre con uno sguardo di fuoco. 

La risposta alla domanda che lui gli aveva posto era “non ne ho idea”. Audrey non sapeva cosa voleva fare. Dopotutto quei quattro anni persi si erano fatti sentire e ora si ritrovava senza una direzione, in un mondo di gente realizzata, un mondo in cui tutti avevano un posto, tutti tranne lei. Non era mai stata brava in niente se non nella musica, era l’unica cosa in cui era stata capace di eccellere, ma quella vecchia passione sembrava ormai appartenere a un’altra epoca, a un’altra lei. E poi cosa poteva pretendere lei, a ventiquattro anni suonati, in un mondo di Britney Spears e Spice Girls?

– Troverò un lavoro, va bene? – Disse, cercando di mantenere una voce e un atteggiamento distaccato. – Ma non voglio il tuo aiuto, cazzo, non voglio più niente da te. – Si alzò in uno scatto di rabbia e uscì dalla cucina lasciando da soli suo padre e suo zio attorno seduti al tavolo.

Passarono una manciata di secondi, poi Elijah scosse la testa, guardando il fratello maggiore con un’aria insolitamente seria. – Dovevi tirare fuori il discorso proprio stamattina, Jude? – Gli domandò. 

– Lei si comporta come se fosse un giorno come un altro. – Borbottò Jude. – E anche tu fai lo stesso. –

Elijah fece un sorrisetto un po’ amaro. – Ma non lo è. Questo non è un giorno come un’altro. – 

Jude sbuffò e si portò una mano al volto. – Sbaglio sempre con lei. – 

– Mh… non sempre sempre. – 

– Wow, grazie. – 

– Non c’è di che. – Disse Elijah. – Audrey troverà il suo posto nel mondo, non ti preoccupare. – Non aggiunse altro, ma si alzò dal tavolo lasciando la cucina. 

Appena fuori dalla porta d’ingresso, sotto il portico, Audrey lo stava aspettando a braccia conserte e con gli occhi lucidi. 

– Andiamo? – Disse lei, non appena percepì la sua presenza, tirando su con il naso. 

Elijah la guardò, poi le asciugò gli occhi con le mani. – Ti si scioglie il mascara così. – Le disse. – Sei molto carina, direi che Percy non ha scampo. – Aggiunse poi, sogghignando divertito. – Quante volte ti sei cambiata, ventitré? – 

– Ma piantala. – Fece lei, scuotendo la testa. – Piuttosto tu, sei così ordinato… Pensi di incontrare l’uomo della tua vita oggi? – 

– Chi lo sa, magari anche io ho una cotta per un Weasley. – 

– Io non ho una cotta per nessuno Weasley. – Precisò Audrey. 

– Giusto... giusto. Tu non hai una cotta in effetti, tu sei innamorata. – 

– Elijah, giusto che… – Audrey non fece in tempo a terminare la frase che suo zio la afferrò saldamente per un braccio. 

La sensazione fu la stessa di sempre, quella forte pressione la prese all’improvviso, si sentì mancare la terra sotto ai piedi e, un attimo dopo, si ritrovò stesa su un rigoglioso prato verde e umido, con il viso rivolto al cielo nuvoloso. Quando si mise a sedere, si ritrovò di fronte al più bel paesaggio che avesse mai visto. Il Lago era cristallino e incastonato tra altissime montagne. Dall’altra parte dello specchio d’acqua si stagliava, in cima a una delle vette, un enorme castello con molte torri e torrette. Audrey si voltò, rendendosi conto che dietro a lei si estendeva un piccolo villaggio che doveva essere Hogsmeade.

– Allora, che te ne pare? – Le domandò Elijah, quando comparve davanti a lei, tendendogli la mano. 

Audrey si alzò, si stiracchiò e si guardò attorno. Si sentiva un po’ strana, confusa, distaccata dalla realtà ma anche come se non dovesse essere lì. – Non lo so… forse dovrei tornare a Londra… –

– Sì, è l’effetto degli incantesimi di protezione, andrà meglio tra poco. – 

– Sì ma… no, dobbiamo tornare indietro. – 

Elijah la prese per mano e la trascinò verso il villaggio. – Fai un bel respiro profondo, Audrey, respira la magia, eh. – 

– Ma… – 

– Adesso ci facciamo una bella passeggiata e vedrai che starai subito molto meglio, non preoccuparti, su su. Devi abituarti. Per fortuna siamo partiti prima… – 

Elijah guardò Audrey con un po’ di preoccupazione. Sembrava sotto l’effetto di qualche strana sostanza e si guardava in giro con occhi sgranati come se temesse qualcosa. 

Forse non era stata una grande idea portarla lì quella mattina, ma dopotutto non era mai stato famoso per essere quello responsabile. 

Se la sarebbero cavata, in qualche modo. 



 

Ve lo avevo detto che sarei stata più veloce questa volta, no? Quindi eccomi qui! 

Lo so, un capitolo cortino ma perché no? Secondo me ci sta perché offre entrambi i punti di vista dei nostri protagonisti, inoltre è un bel ponte per ciò che accadrà nel prossimo, senza rischiare di fare un capitolo gigantesco e pesante da leggere. 

Fatemi sapere cosa ne pensate, la vostra opinione è molto importante per me <3

J. 


 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20. La celebrazione II° parte ***


Capitolo 20


Nonostante Hogsmeade fosse stata presa letteralmente d’assalto da chi come loro erano in attesa di andare a Hogwarts per assistere alla celebrazione, quella mattina il pub Testa di Porco si presentava mezzo vuoto come sempre. Tuttavia, oltre alla solita clientela, un gruppetto di giovani, due maschi e due femmine, avevano deciso di occupare uno dei pochi tavoli traballanti e sudici disseminati per il locale. 

Percy, che sedeva sulla sedia che dava le spalle all’entrata, guardava Oliver Baston, seduto proprio davanti a lui, con aria assente, a destra Penny e a sinistra Katie, anche loro sedute attorno a quel tavolo con una tazza di pessimo tè sotto il naso. A parte loro, che avevano instaurato la tradizione di vedersi in quel pub la mattina del due maggio, poco prima della celebrazione, c’erano due uomini incappucciati seduti al bancone, un gruppetto di vecchi maghi già ubriachi e una strega interamente coperta da un fitto velo nero in un angolo vicino al camino spento. Aberforth Silente, più vecchio e più burbero di tre anni prima, serviva da bere alla clientela e fingeva di pulire bicchieri e bancone con un panno che necessitava un bel lavaggio. 

Il Testa di Porco non era cambiato affatto: era ancora polveroso, sporco e con una clientela un po’ strana. 

– Dovete spiegarmi perché continuiamo a venire qui ogni anno. – Disse Penelope, facendo riaffiorare Percy dai suoi pensieri. 

Oliver e Katie si scambiarono un rapido sguardo tra loro, poi il ragazzo guardò Percy come per dire “forza, rispondile tu”. 

Ecco, se Penelope era adorata dalla famiglia di Percy, non si poteva di certo dire che ricevesse lo stesso trattamento dagli amici dello stesso. Katie era dell’idea che Penny non fosse poi così adatta al giovane Weasley, mentre Oliver trovava quella sua aria da principessina accomodante un po’ irritante. 

– Te l’ho detto, abbiamo fatto amicizia con il signor Silente durante la guerra. – Disse Percy, guardando la ragazza. 

Penny si guardò attorno con aria vagamente disgustata. – Lo capisco… tuttavia non è un posto così accogliente. Il tè potevamo prenderlo da Madama Piediburro. – 

Seguì un attimo di silenzio, poi Oliver aprì la bocca pronto a cambiare discorso, ma venne interrotto da Percy: 

– Tu non hai fatto la guerra, non hai combattuto quella notte, quindi non puoi capire i legami che si creano in quei momenti. – Disse di getto. –Tu non hai visto ciò che abbiamo visto noi, tu non hai perso niente… –  

Gli occhi di Penelope lo fissarono intensamente, come se volessero passargli attraverso. Era questo il problema. Secondo Percy lei non aveva sofferto abbastanza, non aveva perso abbastanza. Tuttavia Penelope sentiva che in quella guerra aveva perso l’unico che avesse mai amato, anche se lui era ancora lì fisicamente. 

Non rispose, facendo cadere la questione nel vuoto. 

– Non è poi così male il tè, in fin dei conti. – Buttò lì Katie. 

– Sì, è decisamente speziato. – Annuì Oliver. – Be’, che si dice all’Ufficio Trasporti, Perce? – Domandò poi. 

– Nelle ultime settimane siamo stati oberati di lavoro. – Raccontò il giovane. – Al Dipartimento degli Auror temono attacchi da parte dei nostalgici di voi-sapete-chi ogni volta che si avvicina il due maggio, pensano che possano mettere in atto qualcosa usando una o più passaporte; questo vuol dire passare dodici ore al giorno in ufficio. – 

– Non che a te dispiaccia, vero, Weasley? – Lo prese in giro Oliver.

– Non succede nulla di simile da un bel po’, ormai: gli auror sono un po’ paranoici. – Disse invece Katie, con tranquillità. – Insomma, quasi tutti gli ex Mangiamorte sono stati arrestati. –

– Già, quasi tutti. – Sottolineò Percy, tetro. – Altri invece sono stati prosciolti, come i Malfoy. – 

– Conosci Harry, è incline al perdono più di noi. – Affermò Oliver. 

– Non stava a lui decidere chi fosse perseguibile e chi no, ma a quanto pare la parola del prescelto è legge. – Ribatté Percy. – Fosse stato per me li avrei arrestati tutti, dal primo all’ultimo. – 

– So che la famiglia Malfoy ha donato un bel po’ di galeoni per costruire al San Mungo un reparto che si occupi dei traumi di guerra. – Disse Penny. – Ci sono dei magipsicologi, dei curatori e tutto il resto, usano delle terapie babbane unite alla magia. È un bel gesto, no? – 

È il minimo. – Tagliò corto Percy. – E poi queste cose… questi psicologi… tutte stupidaggini. Come se possa bastare una chiacchierata con uno sconosciuto per superare tutto. –

– Io ci sono stata ed è stato utile. – Obiettò Katie. 

Percy fece un verso un po’ sprezzante, ma non parlò. 

– E anche tu ne avresti bisogno. – Proseguì quindi Katie. 

– E perché mai? Io sto benissimo. – 

Katie e Oliver si scambiarono uno sguardo di sfuggita, poi lui alzò le sopracciglia e lei scosse la testa piano. – Sei un concentrato di rabbia repressa, probabilmente sei pure depresso. – 

– Percy sta bene. – Li tranquillizzò Penny, poggiando la mano su quella del proprio fidanzato. – Se ci fosse qualcosa che non va lo saprei, me lo direbbe. – 

– Sicura di essere stata smistata in Corvonero? – La interrogò Katie, tagliente. 

L’altra strinse gli occhi della sua direzione, guardandola male. – Cosa intendi dire, mia cara? – 

– Che non guardi al di là del tuo adorabile nasino perfetto. – 

– Katie, basta. – Si mise in mezzo Percy, perentorio. – Penelope ha ragione, non c’è niente che non va. Io sto bene, lei sta bene, stiamo tutti bene. – 

– Ah, se lo dici tu. – Sospirò Oliver. Poi qualcosa lo attirò, qualcuno che doveva essere appena entrato visto la folata di vento che aveva accompagnato l’espressione confusa del giovane. – Oh Merlino… c’è Audrey. – Mormorò, seguendo con gli occhi la nuova arrivata. 

Percy che aveva la tazza in mano, sobbalzò talmente forte da rovesciare metà del liquido contenente in essa sul suo completo da mago, ma non si voltò.

Katie e Penny invece sì, la prima con aria allegra e l’altra con aria perplessa. 

– Chi è Audrey? – Domandò infatti Penelope. 

A quella domanda seguì un gioco di sguardi tra Oliver, Katie e Percy. Quest’ultimo tossicchiò in difficoltà, senza fornire una risposta. 

– Audrey è una mia amica. – Disse Katie, cogliendo al volo il fatto che Penny non sapesse assolutamente niente di quella specie di tresca che Percy aveva avuto in sua assenza. Posò gli occhi sulla babbana e la osservò parlare in modo confuso con uno degli stregoni al bancone. – A me sembra un po’ strana. – Mormorò, finendo a guardare Percy dritto negli occhi. 

Fu solo in quel momento che lui trovò il coraggio di voltarsi a guardarla. Lei era lì, vestita da un giacchetto primaverile verde scuro, un abito di maglia bordeaux sotto di esso, un paio di calze nere velate e una piccola borsa che penseva dalla sua spalla sinistra. I capelli che adesso erano una cascata di treccine lunghe, piccole e scure, le incorniciavano quel suo bel viso che in quel momento stava ospitando un’espressione molto confusa. Non si era impegnata molto per non apparire babbana.

Ma che diamine ci faceva a Hogsmeade da sola, senza un mago o una strega al suo fianco? Come era arrivata fin lì nonostante gli incantesimi anti-babbani? 

– Scusi… – La sentì dire, rivolgendosi a uno dei due stregoni incappucciati seduti al bancone. — Sa per caso dirmi come posso recarmi a Londra? – 

– Londra, dici? – Fece l’uomo, dopo averla scrutata da capo a piedi. Poi scoccò un’occhiata all’amico al suo fianco e aggiunse: – Ti ci portiamo noi. – 

Audrey sembrò sul punto di dire di sì, ma poi fece un passo indietro, scosse la testa e si guardò attorno, mantenendo quell’aria confusa. 

La sua mente si discostò all’improvviso dal pensiero fisso di dover tornare a casa al più presto possibile, come se fosse stata rapita da qualcosa di più impellente, quando si rese conto di essere osservata, dall'altra parte del locale, da due occhi conosciuti che però non vedeva da molto tempo. 

Percy Weasley, il ragazzo per cui quella mattina aveva deciso di vestirsi un po’ meglio del solito e addirittura di truccarsi, era lì a pochi metri da lei, e lei non si sentiva per niente in sé. 

Notò subito dopo la presenza di Oliver, Katie e di quella ragazza bionda che ricollegò in un attimo a Penelope, e poi decise di muovere piano una mano in cenno di saluto verso di loro. Si avvicinò timidamente ai quattro, incerta sul da farsi. 

– Audrey! Oh Merlino… da quanto tempo! – Esclamò allegramente Katie, alzandosi in piedi per salutarla con un abbraccio. – Come stai? Che fai da queste parti? – 

Audrey si prese almeno cinque secondi buoni prima di rispondere. – Sono qui per la celebrazione. – Disse, come se le fosse tornato in mente solo in quel momento. – Ciao… ciao, Percy. – Aggiunse, anche se se ne pentì all’istante. 

Doveva riprendersi, in fretta anche. 

– Io sono Penelope, la fidanzata di Percy. – Si mise in mezzo la bionda, facendo un sorriso tirato, prima che il ragazzo potesse anche solo pensare di aprire bocca, allungando la mano affusolata verso Audrey. 

Lei gliela strinse. – Io sono Audrey. – Si presentò. 

– Che nome grazioso. – Commentò Penny, scrutandola. 

Non era particolarmente bella: era bassa e magrolina, il suo naso probabilmente era troppo largo per stare bene al centro di quel viso piccolo, gli occhi erano troppo grandi, ma indubbiamente di un bel colore. Non era il tipo di Percy, eppure il modo in cui lei si era rivolta a lui, proprio come se lo conoscesse, aveva fatto nascere in lei un fastidioso dubbio. Chi era Audrey? Perché Percy non l’aveva mai nominata in quegli ultimi tre anni?

Audrey fece un respiro profondo e poi si rese conto che quel senso di confusione che l’aveva accompagnata dal momento in cui aveva messo piede in quel villaggio si stava facendo man mano meno prepotente. 

– Scusate… credo che gli incantesimi respingi-babbani mi abbiano dato un po’ alla testa. – Si giustificò. 

– Sei babbana? – Domandò Penelope, sorpresa. – Come vi conoscete, allora? Come conosci Percy? – 

Audrey guardò prima Katie e Oliver, poi posò lo sguardo su Percy, fissandolo per lasciare a lui la risposta. 

– Ci siamo conosciuti durante la guerra. – Spiegò il giovane. – Sua sorella Lucy era una strega nata babbana. – 

Audrey annuì dandogli ragione, sentendosi poi sprofondare in uno stato di tristezza. Il sentimento che li aveva legati probabilmente era stato così fugace e insensato per lui che non si era nemmeno preso la briga di parlare di lei alla sua ragazza. Nella vita di Percy Weasley non c’era più alcuna traccia di Audrey Manning, lei non era nessuno, non era niente per lui. Ma dopotutto cosa pretendeva? Era stata lei ad allontanarsi, ad abbandonarlo… 

Ma come avrebbe potuto guardarlo negli occhi se anche in quel momento, a distanza di tre anni, la sua faccia non faceva che ricordarle Lucy, la guerra e la sofferenza che aveva provato? Non si sarebbe mai liberata di quella sensazione e ora ne era certa, era certa che la sé stessa del passato avesse ragione: non poteva funzionare tra loro. 

– Devo andare a cercare mio zio. – Disse Audrey, sforzandosi di apparire serena e rilassata. – È stato bello rivedervi. – 

– Ti diamo una mano a cercarlo. – Si offrì Oliver, alzandosi in piedi, e Katie lo imitò. 

– No, ragazzi. Mi sento molto meglio ora. – Li rassicurò lei. – Davvero io… devo andare. Magari ci vediamo a Hogwarts, eh… – 

Non lasciò il tempo a nessuno di dire altro, ma filò via talmente veloce che quasi sembrò sparire nel nulla. 

Seguì un lungo attimo di silenzio in cui Percy fissò la tazza che aveva davanti, poi sospirò, scoccò un’occhiata di scuse a Penny e si alzò in piedi. 

– Qualcuno deve pur seguirla, non posso lasciarla vagare da sola per Hogsmeade. – Disse, a modo di giustificazione. 

– Stai scherzando, spero. – Lo fulminò Penny. 

Lui prese un respiro profondo e poi scosse la testa, colpevole. – Vi raggiungo alla celebrazione più tardi. – 

Penelope, perplessa più di quanto non fosse mai stata in vita sua, vide spuntare sulla bocca di Katie uno strano sorrisetto vittorioso, anche Oliver non sembrava per niente sorpreso dal comportamento dell’amico. Un attimo dopo, Percy era uscito dal locale. 

Nella folla fuori da Testa di Porco, localizzò Audrey quasi all’istante, di nuovo confusa come poco prima. La rincorse e, quando la afferrò, lei si voltò verso di lui con un misto di paura e sorpresa dipinto in volto. 

– Cosa… cosa vuoi? – Fece lei, liberandosi da quella presa. 

– Cosa voglio? – Ripeté Percy, sgomentato. – Non puoi andare in giro da sola in un posto come questo, è pericoloso per te! – 

– Fatti gli affari tuoi, torna da quella! – 

– Quella? –

– Sì, quella… Penelope! – Sbottò Audrey. 

Percy alzò le sopracciglia, perplesso, poi si spinse gli occhiali su per il naso. – Lascia che ti aiuti a cercare tuo zio. – Rispose con calma. 

– No, va bene? Stammi lontano. – 

Audrey riprese la sua marcia, svoltando in un vicoletto meno frequentato nella speranza che lui smettesse di seguirla. Tuttavia Percy tenne il passo. 

– Ti rendi conto o no che ti stai mettendo in pericolo? – 

– So badare me stessa. – Lo zittì lei, senza nemmeno voltarsi.

– Nel mondo babbano forse, ma qui è diverso e lo sai. – Replicò Percy 

Lei si fermò, si girò verso di lui e lo guardò male. – Ma quanto ti piace fare l’eroe che salva la donzella in pericolo, eh? – Sibilò, arrabbiata, facendo un passo nella sua direzione. – Ma io non ne ho bisogno, lo capisci questo? Torna dalla tua ragazza perfetta, che sicuramente gradirà i tuoi servigi più di me. – 

– Dunque è questo il tuo problema. – Constatò lui, fissandola di sottecchi. – Sei sparita per tre anni, davvero ti aspettavi che sarei rimasto solo ad attendere il tuo ritorno per tutto questo tempo? Chi ti credi di essere? –

– Nessuno. – Asserì freddamente Audrey. – Non sono nessuno per te dato che la tua ragazza non sa nemmeno che esisto! – 

– E cosa avrei dovuto dirle, mh? – Sbottò Percy. – Che ero innamorato di te? Che dopo cinque anni insieme, mentre lei si nascondeva per sopravvivere, io desideravo un’altra persona? Tu mi hai spezzato il cuore, mi hai lasciato da solo nel momento peggiore della mia vita e ora compari così, da nulla, e ti permetti di avere pretese su di me? Sei così egoista. – 

– Torna da lei, Percy, lasciami in pace. –

È quello che farò, infatti. – Dichiarò lui, con quell’orgoglio malsano che lo contraddistingueva e che per anni lo aveva tenuto lontano dalle persone che amava e che lo amavano. 

– Allora vai, che aspetti? – Lo spinse Audrey. – Torna da lei, dato che è perfetta, a contrario di me! – 

– Sì, infatti Penny non è una stronza viziata ed egocentrica come te! – 

– Sarò anche una stronza viziata ed egocentrica, ma almeno non ho una vita noiosa e borghese come la tua! –  

– Tu non sai più niente di me, e comunque la mia vita mi piace tantissimo! – 

– Non ci credi nemmeno tu! – 

Si stavano letteralmente urlando contro, ma tutto quello a cui Percy riusciva a pensare era che, se fossero stati in una casa, soli, allora non avrebbe frenato quella voglia di zittirla baciandola, come quella prima e unica volta in cui aveva avuto l'occasione di farlo. Quella tensione, quel fuoco che provava quando se la trovava davanti, era rimasto immutato, e gli era mancato anche se ammetterlo lo faceva sentire stupido, debole, schiavo di una passione che non voleva accettare. 

– Andiamo, ti riporto da tuo zio. – Le ordinò, con il fiato corto. 

Audrey scosse la testa e tirò su con il naso. – No. – 

– Audrey, non rendere le cose più complicate di quanto già non siano. – 

– Voglio andare a casa. – Specificò lei. – Questo posto… mi sento impazzire. – 

– Bene, allora ti riporto a Londra. – 

Gli occhi della giovane scattarono sul suo viso. – Non c’è bisogno… – 

– Non fare storie. – La rimproverò lui. – Ti riporto lì e poi me ne vado, visto che, a quanto pare, non vedi l’ora di liberarti di me nuovamente. – 

– Sei tu che mi odi. – 

– Magari ti odiassi, sarebbe tutto più semplice. – Ribatté il ragazzo. – Non ti lascerò vagare per Hogsmeade da sola, quindi hai due scelte: o andiamo a cercare tuo zio, o ti riporto a Londra. –

– Perché non puoi semplicemente lasciarmi in pace? – Insistette Audrey. 

Perché ho giurato a tua sorella che mi sarei preso cura di te, perché mi manchi, perché preferisco litigare con te che passare momenti sereni con chiunque altro. 

– Non starei tranquillo a immaginarti da sola, sotto gli effetti degli incantesimi respingi-babbani. – Disse semplicemente Percy. – Sono molto potenti, non bisogna scherzarci su. – 

Audrey sbuffò, scosse la testa e infine annuì. 

Dopotutto era solo un passaggio. 

Dopo essersi smaterializzati atterrarono in un vicolo di Notting Hill, poco distante dal vecchio monolocale di Percy. Audrey si guardò attorno, un po’ scossa ma con la mente molto più sgombra, e poi guardò lui, in attesa che le dicesse qualcosa. 

– Vivi ancora qui? – Gli chiese infine, quando si rese conto che Percy non aveva nessuna intenzione di aprir bocca. 

– No, i genitori di Penny hanno comprato una casa per noi a Oxford. – Rispose lui. 

Audrey aggrottò le sopracciglia come se quella notizia l’avesse scossa. 

Li immaginò insieme, immaginò Percy in una bella casetta di provincia circondata da un giardino grazioso, immaginò la sua fidanzata perfetta, così bella, consapevole di sé stessa, con un buon lavoro e una vita già tracciata davanti a sé. Era questo ciò che Percy probabilmente aveva sempre desiderato, eppure sembrava così infelice. Certo, poteva darsi il caso che non lo fosse, che quello era solo ciò che lei voleva vedere: lui, infelice senza di lei, proprio come lei si sentiva infelice senza di lui. 

Forse Percy aveva ragione, era una stronza viziata ed egocentrica, ma soffriva perché lui era andato avanti, aveva una vita, mentre lei non aveva raggiunto niente, si sentiva sola, fallita, inutile.

– Mio padre e i miei zii hanno venduto la casa di mia nonna, dopo quello che è successo. – Raccontò.

– Lo so, ti sono venuto a cercare lì, una volta. – Svelò lui. – Ti ho anche scritto delle lettere. – 

– Sì, lo so. – 

– Non mi hai mai risposto. – 

Audrey lo guardò colpevole. – Non ne avevo la forza per farlo. – Ammise dopo un po’. 

– Sì, capisco. – Fece lui, senza sforzarsi minimamente di apparire credibile. – Non hai avuto la forza nemmeno di venire al mio processo, dopotutto. – 

– Ma ho scritto al vostro Ministro per raccontare la mia versione dei fatti… come hai aiutato Lucy e il resto. – 

Percy fece una faccia sorpresa. – Non lo sapevo. – Ammise. 

– Pensi davvero che ti avrei lasciato finire ad Azkaban dopo tutto ciò che hai fatto per me e mia sorella? – 

Percy scosse la testa con fare un po’ rassegnato. Dal suo punto di vista il suo operato aveva creato solo danni, visto che Lucy era morta proprio tra le sue braccia. 

– Ti ringrazio di averlo fatto. – Disse, distante. 

– Figurati. – 

– Casa tua è distante da qui? – Le chiese Percy. 

Lei scosse la testa. – Giusto qualche fermata di metro. – Rispose. 

– Bene. Allora io vado. – 

– Sì. Ciao… – 

– Ci vediamo. – 

Audrey annuì, ma non si mosse, aspettando di vederlo sparire nel nulla. Tuttavia nemmeno Percy mosse un muscolo. 

Non voleva andarsene, non voleva tornare a Hogsmeade, trovarsi costretto a spiegare tutto a Penelope e poi assistere a quella stupida celebrazione. Non aveva bisogno di una cosa del genere per ricordarsi che quel giorno, tre anni prima, suo fratello era morto insieme a tanti altri, perché in lui quello era un pensiero fisso, la prima cosa a cui pensava appena apriva gli occhi al mattino, l’ultima prima di andare a dormire la sera. Eppure lì, davanti ad Audrey, quel pensiero si ridimensionava.  

– Percy. – Lo richiamò lei, tirandolo fuori dalla sua spirale di pensieri. – Senti… ti va un frappuccino da Starbucks? – 

Percy la guardò come se avesse appena parlato in una lingua sconosciuta. – Cos’è un frappuccino da Starbucks? – 

 

Qualche ora più tardi, dopo aver bevuto la bevanda più strana e zuccherata della sua vita e dopo aver preso la metropolitana per la prima volta in assoluto, camminando in una vie residenziale piena zeppa di villette a schiera, la domanda che Percy si pose fu un’altra: come diamine era potuto succedere che fossero quasi le quattro del pomeriggio e che lui fosse ancora lì a Londra insieme ad Audrey?

Aveva saltato la celebrazione e il pranzo alla Tana, aveva lasciato Penelope da sola, ma in compenso aveva passato la giornata migliore degli ultimi tre anni. Aveva l’impressione di essere in un’altra dimensione, una dimensione in cui non c’era stata nessuna guerra, in cui Fred e Lucy erano ancora vivi e in cui loro erano solo due ragazzi normali, in un mondo normale. 

Lei gli aveva raccontato tutto sui suoi viaggi e poi l’aveva ascoltato parlare delle novità del mondo magico come nessun altro sapeva fare. Quella capacità che aveva solo Audrey di ascoltarlo l’aveva colpito ancora, come la prima volta, gli aveva fatto percepire quel piacere di essere visto, di essere preso in considerazione, di contare qualcosa. La sua opinione contava alle orecchie di Audrey, le sue parole erano importanti, e non si sentiva noioso né pedante. 

– Comunque questa è casa mia. – Disse lei, quando si ritrovarono davanti all’ennesima villetta a schiera, uguale a quella precedente e a quella dopo ancora.

– Oh, bene. – 

Audrey sorrise. – Vuoi entrare? – Gli domandò. 

Percy ci pensò su. – Penso sia meglio che io vada. – Disse, dopo un sospiro. 

– Ma certo. – Si affrettò a dire lei. – Però grazie per avermi accompagnata. Quegli incantesimi respingi-babbani mi stavano mandando fuori di testa. – 

– Figurati. È stato divertente, in fondo. – 

– Solo in fondo? Ma come? Pensavo che avessi trovato la metropolitana molto spassosa. – Ridacchiò lei. 

– La metropolitana è un incubo. – Precisò Percy, seppur sorridendo. – Sul serio, come fate a spostarvi su un mezzo del genere? Tutti appiccicati l’un l’altro… orribile, assolutamente orribile. Non che stare vicino a te sia orribile, – si affrettò ad aggiungere, – anzi è piuttosto gradevole quella parte… ecco, poteva andarmi molto peggio, tutto qui... – 

– Oh, indubbiamente. — Annuì lei, facendo un sorrisetto imbarazzato. 

È stato bello rivederti. – Tornò a parlare Percy. 

– Anche per me. – Rispose Audrey. – E poi adesso sai dove abito, quindi… ecco passa a trovarmi, se ti va. Mi troverai qui. – 

– Certo, volentieri. –

Lei sorrise. Si sentiva strana. Da un lato c’era la giornata appena trascorsa, quel senso di appartenenza e familiarità che aveva percepito camminando al fianco di Percy per ore, ma dall’altro tutto ciò che l’aveva portata ad allontanarsi da lui c’era ancora. Aveva un debole per lui e con questo ci aveva già fatto i conti, ma dove l’avrebbe portata? Lui viveva con la sua fidanzata perfetta, viveva con lei in una casa perfetta, conducendo una vita perfetta, probabilmente le cose non gli andavano così male se aveva resistito con Penelope per tre lunghi anni. 

Forse doveva farsi gli affari suoi, non interferire così da non ferirlo ulteriormente, limitarsi a essere amici, o meglio, conoscenti. 

Dopotutto lui era un mago, lei una babbana, avevano due vite diverse e la sola cosa che li aveva uniti davvero era stato il grande trauma che li accumunava. 

– Perce, mi dispiace tanto, per tutto. – Si lasciò sfuggire lei, guardando in basso. 

– No, è a me che dispiace. – 

– Per cosa? – Chiese Audrey, tornando a guardarlo in faccia. 

Percy esitò. Mi dispiace per Lucy, di non essere riuscita a salvarla, avrebbe voluto dire, ma in fine rispose: – Non lo so. Forse mi dispiace che ci siamo persi in questi anni. – 

– Ora sono qui. Possiamo… essere amici. – 

Percy annuì e basta. 

– Forse è una domanda stupida ma… hai un telefono per caso? – Chiese dunue Audrey. – Potrei lasciarti il mio numero così mi avvisi prima di passare. – 

– Mio padre ha un telefono, da qualche parte nel suo capanno. – Disse Percy. 

La ragazza annuì in fretta, aprì la borsa a tracolla che aveva con sé e poco dopo tirò fuori una penna. Poi afferrò una delle mani di lui e scrisse qualcosa sul palmo pallido. – Ecco. Nel caso volessi tirare fuori il telefono di tuo padre dal capanno e mettere alla prova le tue conoscenze sulla babbanologia. – Disse allegramente. – C’è sia il mio numero personale, sia quello di questa casa. Scegli tu quale chiamare. – 

Percy guardò i numeri che Audrey gli aveva appena scritto sulla mano e poi annuì. – Allora, come direste voi babbani, “ci sentiamo”. – 

Audrey rise piano, poi oltrepassò il cancelletto che divideva il giardino dal marciapiede, si voltò una volta per salutarlo con la mano e raggiunse il portico. Quando sparì dietro alla porta di quella casa, Percy guardò di nuovo il numero scritto sul suo palmo e sospirò. 

Doveva tornare a casa e questo voleva dire solo una cosa: affrontare Penelope e tutti gli errori che aveva fatto con lei. 



 

Devo dire che questo capitolo non mi soddisfa molto, anzi in generale questa parte della storia non mi fa impazzire. Siamo finalmente arrivati alla parte due della nostra narrazione (praticamente tutte le mie storie sono strutturate così, ma giuro che non lo faccio apposta ahahah). 

Fatemi sapere voi che ne pensate, datemi consigli che ne ho davvero bisogno! 

Alla prossima, 

J.




 

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Capitolo 22
*** Capitolo 21. Dobbiamo parlare di Percy ***


Capitolo 21

 

Penelope Light era sempre stata una persona paziente. Lo era stata fin da bambina, quando era considerata un po’ strana dai figli degli amici dei suoi genitori e sopportava in silenzio le loro angherie, quando a scuola cercava di non sentire la noia nello studiare cose che sapeva già o che semplicemente non le interessavano. 

Era stata paziente a Hogwarts, quando aveva scoperto che nemmeno lì sarebbe stata davvero una delle tante, in quanto nata babbana. 

E poi era stata paziente con Percy, che ci aveva messo mesi a rivolgerle la parola e altrettanto tempo a dichiararsi a lei. 

Era sempre stata paziente, accondiscendente, una brava bambina che non dava problemi, una figlia modello, un’ottima studentessa. Era convinta che se fosse stata abbastanza buona, se avesse modificato la sua personalità a immagine e somiglianza di chiunque le stesse vicino, allora nessuno l’avrebbe mai lasciata da sola, nessuno l’avrebbe mai tradita o criticata.

Eppure non era abbastanza, perché tanto lei non era mai abbastanza

Non era stata abbastanza per i suoi genitori nemmeno con i voti altissimi che aveva avuto a scuola, perché lei era una strega e nessuno in famiglia capiva i suoi successi, nessuno li capiva nemmeno ora che, giovanissima, era tra i migliori curatori del San Mungo. 

E, a quanto pareva, non era stata abbastanza nemmeno per Percy, visto che l’aveva lasciata sola per rincorrere una sconosciuta, sparendo per tutto il giorno e mettendola in una posizione molto difficile con la famiglia Weasley. Il pranzo alla Tana era stato un incubo, una tempesta di domande su dove fosse finito Percy, domande a cui nemmeno lei sapeva dare una risposta. 

Seduta su una delle sedie della cucina di casa sua, Penny stava quindi immaginando ogni scenario possibile. 

Magari, mentre lei era lì a struggersi, lui stava scopando con quella troietta. 

Magari era caduto in un fosso ed era morto. 

Magari l’aveva semplicemente lasciata e non l’avrebbe più rivisto. 

Gliene aveva perdonate così tante, era passata sopra a così tante cose che si sentiva stupida a sorprendersi così di ciò che era successo poche ore prima. Dopotutto di segnali ce n’erano stati, anche se lei si era rifiutata categoricamente di vederli: Penelope non ricordava l’ultima volta in cui Percy avesse sprecato un gesto di tenerezza nei suoi confronti. Raramente facevano l’amore ma, quando capitava, consisteva tutto in un gelido e fugace rapporto fisico, alla fine del quale Percy si voltava dall’altra parte, mentre Penny rimaneva a fissare il soffitto con aria ferita dalla totale indifferenza di lui. 

Non c’era una cosa nella loro relazione che andasse bene, ma l’amore rende ciechi, e Penny, anche in quel momento, non voleva vederci niente.

Quando sentì la porta d’ingresso della casa aprirsi, la giovane diede un’occhiata all’orologio appeso a una delle pareti. Erano quasi le cinque del pomeriggio e lui era appena tornato a casa. 

Lei non parlò, non disse una parola nemmeno quando Percy apparve sulla soglia della cucina, mortificato. 

– Ciao, Penny. – Le disse, cauto. 

Penny attese un attimo prima di parlare, poi prese un respiro profondo e si alzò in piedi. – Cosa vuoi per cena? – Domandò candidamente, facendogli un sorriso. 

Percy strinse gli occhi dietro alle lenti degli occhiali, fissandola come se lei avesse appena parlato in un'antica lingua sconosciuta. – Cosa voglio per cena? – Ripeté perplesso. 

– Sì, tra poco è ora di cena. – Rispose tranquillamente lei. – Io ho mangiato molto a pranzo alla Tana, quindi non ho fame… ah, a proposito: ho detto alla tua famiglia che non sei venuto oggi per impegni di lavoro assolutamente impossibili da rimandare. – 

Percy, sempre più sorpreso, la guardò in silenzio per un attimo, senza parlare. Penelope aveva gli occhi arrossati e le labbra turgide. Aveva pianto, questo era certo. 

– Penny, dobbiamo parlare. – Iniziò. 

– No. – Lo interruppe la strega, assumendo all’improvviso un tono raggelante. – Non voglio sapere niente, Percy. Qualsiasi cosa sia successa, io non la voglio sapere. – 

– Penelope, per favore… – 

– No! – Urlò lei, stringendo i pugni. Era tremante e rigida, i suoi occhi chiari e arrossati avevano appena ripreso a inumidirsi. – Non farmi questo, Perce… non raccontarmi niente, ti prego… ti prego, facciamo finta di niente e andiamo avanti. –

Percy, incredulo, scosse la testa. Tornando a casa si sarebbe aspettato una lunga e violenta discussione, si sarebbe aspettato pianti e urla, ma Penny, lì ferma davanti a lui, sembrava non avere nessuna intenzione di lasciarlo andare. 

Si sentì soffocare, immobilizzato da una forza invisibile intenzionata a fargli a vivere quella vita per sempre, in quella casa, insieme a Penelope.

– Non possiamo andare avanti. – Disse, nervoso. – Non possiamo fare finta di niente, Penny. Non ce la faccio più… – 

Penny sospirò e tirò su con il naso, poi si mosse, fece il giro del tavolo, ritrovandosi in un attimo davanti a lui. – Qualsiasi cosa sia successa oggi… io ti perdono. – Disse. 

– Ma io non voglio che mi perdoni! – Sbottò Percy, facendo un passo indietro. C’era qualcosa di così inquietante in lei, nel suo tono, nella sua accondiscendenza. – Non voglio che mi perdoni, Penny. Io me ne voglio andare. È finita, lo capisci? Basta. – 

Le labbra di lei tremarono, poi il suo viso fu scosso da un fremito. – Ti prego, Perce… no. – Mormorò, mentre una lacrima le rigava il viso. – Io ho fatto di tutto per te… ho amato per entrambi, ho sopportato di tutto… ho pensato che forse ti fosse successo qualcosa di orribile durante la guerra, sono stata paziente… e ora tu… tu mi vuoi lasciare per quella ragazza? Ma dov’era lei mentre stavi male? Dov’era durante il funerale di Fred? Io c’ero, Percy. Nessuno ti amerà mai come ti amo io, nessuno. – 

– Ma io non voglio essere amato così. – Asserì Percy. 

Lo sguardo di lei si fece più duro. – Non sai quello che dici. – Ribatté stizzita. –  È quella puttana che ti ha confuso le idee. – 

Percy trasalì. – Non chiamarla così. – Le intimò. – Lascia fuori Audrey da tutto questo, sono io qui quello in torto, solo io. – 

Penelope fece una risata vuota di allegria, si asciugò gli occhi con il dorso della mano e tirò su con il naso. – Oh, Percy… che ti ha fatto quella lì per ridurti in questo stato? Hai rubato gli ultimi tre anni della mia vita e tutto quello che riesci a fare è difenderla! – 

– Lei non c’entra niente. – Rimarcò fortemente Percy. 

– Hai ragione, è con te che me la devo prendere. – Annuì Penny. – Sei tu il traditore bastardo qui. – 

– Io non ti ho mai tradita, Penny, mai. – Giurò il giovane. – Ti rispetto troppo per farti una cosa del genere, rispetto troppo il sentimento che ho provato per te negli anni. – 

– Tu non hai idea di cosa sia il rispetto, ma dovevo capirlo… visto come ti sei comportato con la tua stessa famiglia anni fa! – 

Percy sussultò appena a quelle parole. Eccolo, il suo punto debole. 

– Non sei una persona fedele, non sei leale. – Proseguì Penelope, scuotendo la testa, lo sguardo truce. – Ma io ti amo… ti amo, e sono stata così stupida da non vedere chi sei davvero dietro questa tua aria da uomo d’onore… e quella ragazzina con cui te la spassi… sei caduto davvero in basso. – 

– Ti ho detto di lasciala fuori! – Esclamò Percy. – Sei arrabbiata con me, Audrey non c’entra niente, lo vuoi capire o no? E te lo ripeto: non ti ho tradita. C’è stato un bacio, una volta sola, prima della battaglia, perché ero certo che sarei morto quella notte. Nulla più di questo. Ho sbagliato tutto negli ultimi tre anni, ho sbagliato a tornare con te, ho sbagliato a far finta che lei non fosse mai esistita, e spero davvero che un giorno tu possa perdonarmi, ma non ti ho tradita; non con il mio corpo, almeno. – 

– Non mi importa niente di tutto questo. – Disse Penny, dopo aver preso un respiro profondo. – Possiamo risolvere tutto. – 

– Forse non hai capito. – Fece lui, coriaceo. – Tra noi due è finita, io me ne vado. – 

– Tu non puoi andare via! Non puoi lasciarmi! – Esclamò la ragazza, prendendolo per le spalle. – Capisci cosa stai facendo? Cosa dirò ai miei genitori? Hanno comprato questa casa per noi! – 

Percy la spinse via. – Non me ne importa niente di cosa diranno i tuoi genitori! Sono stanco di questa tua mania per le apparenze, sono stufo! Non dovevo tornare con te, ma sai perché l’ho fatto? Perché non riuscivo a dirti di no. Non sono tornato con te perché ti amavo, Penny… io amavo un’altra donna! Ma tu eri sempre lì… non mi hai lasciato il tempo né lo spazio per soffrire. Eri sempre lì… e io pensavo a lei. – 

– E adesso la ami? – Singhiozzò Penelope. – L’hai amata per tutto questo tempo? –

Percy annuì e espirò di botto come uno che si era appena tolto un peso dal petto. 

Penelope invece pianse, si portò le mani al viso e tremante domandò: – Che cos’ha di così speciale? – 

Lui alzò i lati delle labbra e scosse la testa. – Tutto. – Sussurrò, semplicemente. – Lei non è perfetta, anzi è quanto di più lontano avessi mai immaginato per me stesso. Lei è una di quelle che odia i bambini, non sa cucinare, non è per niente convenzionale. Ma c’è qualcosa in lei… come se la sua presenza nella mia vita fosse scritta nel mio destino. Per questo la amo. La amo e basta, senza ragioni. – 

Penelope si lamentò come un animale ferito. – Non te ne andare… – Mormorò, con la voce soffocata dal pianto, avvicinandosi a lui. – Ti prego, Perce… risolviamo tutto insieme… non mi lasciare. –

Lui scosse la testa e indietreggiò. – Io me ne vado. – Disse. 

Si voltò, percorse il tratto di corridoio che divideva la cucina dalla porta d’uscita, Penny, disperata, subito dietro di lui.

– Non troverai nessun’altra come me! – Esclamò lei mentre lui lasciava quella casa. 

Quando Percy si ritrovò in strada, sotto la luce fioca così tipica dell’imbrunire, senza più un posto in cui stare e con nessuna delle sue cose a seguito, si sentì improvvisamente libero. Da quel momento in poi poteva essere ciò che voleva, aveva davanti un milione di scelte diverse e poco importava cosa avrebbe detto la gente, cosa avrebbero pensato i suoi genitori e quelli di Penelope. 

Camminò lungo il marciapiede senza guardarsi indietro, senza un piano, finché non calò la sera. Non aveva soldi babbani con sé, dunque l’unico posto che potesse dargli del cibo e un degno riparo per la notte era il Paiolo Magico. 

Quando si ritrovò lì, seduto su uno degli alti sgabelli messi in fila davanti al bancone, a guardarsi attorno, Percy percepì per la prima volta una spiacevole sensazione di vuoto. 

Alcune vecchie erano sedute in un angolo e sorseggiavano un bicchierino di sherry, una di loro fumava una lunga pipa. Un omino col cappello a cilindro stava parlando al vecchio barman. Una mago e una strega sui trent’anni faticavano a tenere sotto controllo i loro cinque figli. Sembravano tutti parte di qualcosa, tutti tranne lui. 

Forse aveva fatto un errore, forse era stato precipitoso. Guardò i numeri scritti sul suo palmo e decise in quel momento che sì, avrebbe chiamato Audrey, ma prima si sarebbe preso il tempo per respirare, per capire chi diamine era quando era solo, quando non aveva un ruolo da recitare. 

Il sordo brusio delle conversazioni attorno a lui fecero da colonna sonora ai suoi pensieri tristi finché Percy non si alzò dal bancone lasciando qualche galeone sopra di esso e uscì. Forse no, quella notte non doveva rimanere da solo. Ma dove poteva andare? Non poteva di certo tornare a casa e spiegare a sua madre che aveva lasciato Penelope… tutti in famiglia la adoravano e nessuno l’avrebbe capito. Non poteva nemmeno andare da Audrey, che viveva con il padre e lo zio e che aveva ritrovato solo da poche ore. 

Alla fine la sua scelta ricadde sui suoi unici veri amici: Oliver e Katie, che vivevano nella fattoria della famiglia di lei in Galles, quella in cui Audrey era rimasta nascosta durante la guerra. 

Percy si smaterializzò lì, ritrovandosi avvolto nell’oscurità della collinetta su cui l’abitazione sorgeva. Attraversò il prato umido e, quando si ritrovò davanti alla porta d’ingresso, bussò. 

Attese poco e poi la soglia si aprì con un cigolio. Katie, in pigiama e sorpresa dalla presenza dell’amico, lo fissò senza dire niente per una manciata di secondi, dopo gli sorrise e lo invitò a entrare.

– Tu e Penelope vi siete lasciati? – Domandò. 

– Sì. – Rispose tranquillamente lui. 

Katie annuì. – Be’, finalmente direi. Facevate proprio schifo insieme. –

Percy mugugnò una risposta che poteva voler dire qualsiasi cosa, poi chiese: – Posso restare a dormire qui stanotte? – 

– Puoi restare quanto ti pare. – Lo tranquillizzò Katie. – Andiamo di là, Oliver vorrà sapere tutto. Lo sai quanto ama spettegolare. – 


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I due mesi successivi furono per Percy l’occasione perfetta per prendersi del tempo per autocommiserarsi e per pensare a tutto quello che nella sua vita non era andato come aveva previsto. Aveva venticinque anni e la vita  adulta non gli aveva regalato nessuna delle cose che aveva sognato da ragazzino: faceva un lavoro che non lo soddisfava, viveva nella casa di campagna della famiglia di una delle sue pochissime amicizie, aveva lasciato la sua storica fidanzata ma nessuno nella sua famiglia ne era a conoscenza. 

Katie diceva che fosse tutto normale, che dopo una lunga relazione malsana era normale sentirsi un po’ persi e rimuginarci su. Tuttavia Percy aveva fatto del rimuginare la sua specialità, passando gran parte del suo tempo a porsi una vasta gamma di domande: come era arrivato a quel punto? Quale era stato l’esatto momento della sua vita in cui le cose avevano iniziato ad andare male, ma male sul serio? Forse quando aveva lasciato la sua famiglia? Quando aveva conosciuto Audrey? Quando Fred era morto? Oppure quando aveva scelto di tornare con Penelope nonostante la mancanza di sentimenti nei confronti della giovane? Ma soprattutto, perché si sentiva così triste?

Aveva la sensazione di aver rotto una diga: il fiume di sentimenti negativi che aveva incanalato e celato con successo in quei tre anni sembrava aver rotto gli argini, invadendo ogni parte del suo corpo e della sua mente. Si sentiva in balia di qualcosa di oscuro e pensante che tramava per portarlo sempre più a fondo. 

Non era solo tristezza, era qualcosa in più, qualcosa che, in quel momento, nella mente di Percy, non aveva ancora un nome. 

Nei giorni successivi all’incontro con Audrey, i numeri che lei aveva scritto sul suo palmo iniziarono a farsi man mano meno marcati, fino a sparire del tutto. All’inizio aveva deciso di aspettare qualche giorno prima di chiamarla, finché non passarono settimane e poi mesi. Un giorno, forse avrebbe trovato la forza di presentarsi davanti a casa sua, ma sentiva che non era quello il momento. Non aveva niente da offrirle se non tristezza e angoscia, ogni tanto faticava persino ad alzarsi dal letto per andare a lavoro: che senso aveva pensare di poter costruire un rapporto sano in quel momento?

Alla fine di giugno, Percy sembrava condurre la sua vita di sempre, senza però più una casa sua in cui stare e declinando con maestria ogni invito a pranzo che sua madre gli faceva. 

A luglio, infine, il mago lasciò la fattoria dei Bell, sebbene Katie fosse molto preoccupata per lui, e si trasferì in un piccolo appartamento non troppo lontano dal Paiolo Magico, di proprietà di una vecchia babbana che gli aveva proposto un affitto abbordabile. Fu in quel periodo in cui riuscì a confessare ai suoi genitori che tra lui e Penelope era finita, e mentre suo padre aveva liquidato la questione dandogli una pacca sulla spalla, la signora Weasley aveva vissuto la cosa come un piccolo lutto:

– Una ragazza così bella, così educata! – Aveva esclamato, contrita. – Vi dovevate sposare, e tu te la sei fatta scappare! – 

Molto più spesso di quanto avrebbe avuto il coraggio di ammettere, Percy pensava a Audrey, chiedendosi per quanto tempo ancora quella tristezza lo avrebbe tenuto bloccato, lontano da lei. 

Katie e Oliver erano convinti che si stesse autosabotando, che l’odio che sentiva nei confronti di sé stesso fosse più forte dell’amore che provava per lei, che fosse depresso. Forse avevano ragione, o forse Percy aveva solo paura di avvicinarsi a chi l’aveva già ferito una volta, nemmeno lui riusciva a capirlo. Restava il fatto che non se la sentiva di vederla in quel momento; anzi non se la sentiva di vedere nessuno. 

Ma mentre lui tentava di raccogliere i cocci della sua vita con scarso successo, Audrey si era rassegnata all’idea che fosse finita lì, che non l’avrebbe mai più rivisto. 

L’idea di aver chiuso con lui, stavolta in modo pacifico, da buoni amici, la faceva sentire un po’ più in pace rispetto alla volta precedente, tre anni prima. Iniziò a pensare a lui un po’ più raramente, e quando capitava non sentiva più quel vuoto nel petto, così tipico di una perdita. 

All’inizio di giugno le capitò di sedersi al pianoforte di suo padre, scoprendo di essere ancora capace, di avere ancora quel dono, cosa che la portò a recuperare pian piano un rapporto con la musica. Era un po’ come tornare in bicicletta dopo parecchi anni dell’ultima volta: la sua voce aveva perso agilità, ma era ancora la sua voce, era ancora capace di usarla.

Aveva così trovato un piccolo locale in cui esibirsi ogni giovedì, dove veniva pagata in birra e “visibilità”. La birra non era poi così male, ma per quanto riguarda la visibilità… be’, lasciava un po’ a desiderare dato che la clientela del locale era costituita principalmente da persone che il più delle volte non la ascoltano nemmeno. 

Jude, che non approvava molto la scelta di sua figlia, non faceva altro che ripeterle di rimettersi a studiare, che in futuro avrebbe potuto insegnare canto, cosa che però non sembrava entusiasmare molto Audrey. 

A luglio Jude partì per esibirsi in alcuni concerti in giro per gli Stati Uniti, lasciando Audrey ed Elijah a Londra, sperando di non ritrovarli in qualche guaio al suo ritorno. 

In uno di quei lenti e afosi pomeriggi estivi, Audrey si ritrovò sul divano insieme a suo zio, con indosso una canottiera leggera e un paio di pantaloncini di un vecchio pigiama di tessuto rosa che avevano visto decisamente giorni migliori, una scatola di cereali in grembo e l’aspetto di una che non si guardava allo specchio da un po’. Elijah, al suo fianco, se ne stava a petto nudo, con lo sguardo perso nel vuoto dietro le lenti degli occhiali, e una lunga pipa tra le labbra da cui veniva fuori un denso fumo bianco. 

Faceva caldo, troppo caldo per essere produttivi.

– Adoro le vostre droghe. – Dichiarò Audrey, masticando a bocca aperta i cereali che stava mangiando. – Voi maghi siete fortissimi quando si tratta di irretire i sensi. – 

– Irretire i sensi? Ma come parli? – Rise Elijah, passandole la lunga pipa. 

– Parlo come parlerebbe Percy. – Rispose Audrey, con nonchalance, dopo aver aspirato una lunga boccata di fumo. 

– Ah, Percy. Percy Weasley. – Annuì il ragazzo, con aria assente. – Non ti ha mai richiamato. – Constatò.

– Sì, grazie per avermelo ricordato. – Disse lei, soffocando una piccola risatina. – Sai, meglio così però. – 

– E perché mai? – 

Audrey scrollò le spalle, passò nuovamente la pipa allo zio e con la mano di nuovo libera prese un’altra manciata di cereali e se la portò alla bocca. – Perché poi magari ci saremmo messi insieme e avrei dovuto farci sesso. – 

Elijah la guardò perplesso. – E quindi? – Chiese ridacchiando.

– E quindi non voglio farlo. – Spiegò Audrey, come se fosse ovvio. 

Il mago si mise a sedere rivolto nella direzione di lei, visibilmente interessato. – Vuoi dirmi che non l’hai mai fatto prima d’ora? – 

Audrey sbuffò e alzò gli occhi al cielo. – Certo che l’ho fatto. – Chiarì, con voce strascicata. – Negli ultimi tre anni anche fin troppo, ora che ci penso… ma un conto è il sesso fatto tanto per fare, un altro è l’intimità. Con Percy sarebbe stato così, capisci? Intimità. Non mi piace l’intimità. – 

Elijah la osservò con curiosità. – Wow… sei proprio incasinata. – Disse, con aria assorta. 

– Già… lo so. Questo perché mio padre è stato assente, mentre mia madre preferiva scopare con ogni sconosciuto che le rivolgesse la parola invece che darmi affetto. – Spiegò Audrey. — Anche Percy è incasinato. – Continuò. – Non verrebbe fuori nulla di buono. La nostra relazione sarebbe incasinata, il sesso incasinato, i nostri bambini incasinati… – 

– Però sarebbero bambini bellissimi. – Disse Elijah con leggerezza. – Dimmi, secondo te sarebbero neri? – 

– E chi lo sa… chi lo sa. – 

– Secondo me no. – Sentenziò Elijah, mettendosi la pipa tra le labbra. 

– Spero che abbiano i capelli rossi come i suoi. – Audrey sorrise sognante.  

– Magari succederà, perché tu sei anche irlandese. – 

– Oooh… è vero! – Esclamò Audrey. – Sono irlandese, è vero… ma basta parlare di me, che non sono abbastanza fatta per non deprimermi. – Continuò sogghignando. – Come va con quel ragazzo che ti piace? – 

Elijah prese una profonda boccata di fumo e poi passò la pipa alla ragazza. – Intendi dire Charlie? – Domandò rilassato. 

– Che ne so come si chiama? –  

– Sì, Charlie. Il fratello di Percy. – 

Audrey tossì come se il fumo le fosse andato di traverso, battendosi una mano sul petto. Quando si voltò verso lo zio aveva gli occhi lucidi e sgranati e la bocca aperta dalla sorpresa. – Charlie quello dei draghi? – Si accertò. – Charlie quello dei draghi, il fratello di Percy… è gay? – 

– Sì, be’, non dichiaratamente gay. – Spiegò Elijah. – Lui è gay quando nessuno lo guarda. A Hogwarts ha avuto persino una fidanzata. –  

Audrey scosse la testa con disapprovazione. – Male, molto male. – Sentenziò, aggrottando le sopracciglia, prima di affondare la mano nella scatola di cereali. – Non ti merita. – 

– Nemmeno Percy ti merita. – 

– Ben detto! Anzi sai cosa ti dico? Credo sia giunto il tempo di… –

Il campanello suonò e Audrey lasciò quella frase a metà. Abbandonò la pipa e la scatola di cereali sul divano, si alzò barcollando e si diresse all’ingresso. Quando la spalancò, ritrovandosi davanti la faccia conosciuta di Oliver Baston, si pentì di essere andata ad aprire quella porta in quelle condizioni. Si sentì arrossire e, prima ancora che lui potesse aprir bocca per parlare, disse: 

– Che ci fai qui? Come sai dove abito? – 

Oliver liquidò quella domanda con un gesto sbrigativo della mano. Poi entrò prima ancora di essere invitato a farlo e disse: – Dobbiamo parlare di Percy. – 


 

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Capitolo 23
*** Capitolo 22. Chiudi gli occhi e pensa all'Inghilterra ***


Capitolo 22


Con in mano un cartone di pizza, Audrey Manning se ne stava lì, ferma e tesa davanti alla porta chiusa dell’appartamento di Percy Weasley, da almeno cinque minuti. Sapeva perché si trovava lì, sapeva cosa doveva fare, tuttavia non si sentiva la persona più adatta a portare a termine l’arduo compito di tirare fuori Percy dallo stato di apatia in cui, secondo Oliver Baston, riversava da settimane. 

Non ne era capace, lei non sapeva consolare le persone, era un dato di fatto. Dopotutto era una di quelle persone a cui viene da ridere durante i funerali, evitare il dolore era una specialità per lei e proprio non riusciva a capire perché per Percy questo non funzionasse. 

Per la seconda volta allungò il dito verso il campanello tenendo il cartone della pizza in bilico su una mano sola, e per la seconda volta lo abbassò sbuffando. 

Magari non era in casa, pensò, prima di voltarsi per sedersi sconfitta sulla scalinata che portava al piano di sopra, proprio accanto a quella porta. In fin dei conti erano appena le sei del pomeriggio di un giovedì qualunque che probabilmente Percy aveva speso al Ministero. 

Senza pensarci troppo, Audrey aprì il cartone. All’interno la pizza margherita che aveva comprato poco prima per mangiarla insieme a Percy per cena si stava man mano raffreddando. Ne prese una fetta, la addentò e nello stesso momento sentì dei passi rimbombare per quelle scale. Un attimo dopo, come se fosse apparso dal nulla, Percy spuntò sul pianerottolo, con l’aria stanca di chi aveva appena finito di lavorare e con l’espressione sorpresa dipinta sul volto di chi quel pomeriggio non si aspettava visite. 

Audrey lo guardò, la fetta di pizza ancora in mano, sentendosi arrossire. Lui ricambiò quello sguardo, alzando un sopracciglio, per poi spingersi gli occhiali su per il naso con fare imbarazzato. 

– Che ci fai qui? – Le chiese bruscamente. 

Audrey abbandonò la fetta di pizza nel cartone, lo richiuse e si alzò in piedi, tenendolo con entrambe le mani. – È un piacere anche per me vederti, Percy. – Lo prese in giro lei, guardandolo di sottecchi. 

Percy sospirò e non rispose. Tirò fuori invece un paio di chiavi dalla tasca della sua giacca, ne infilò una nella toppa della porta e spalancò così la soglia. – A questo punto deduco che tu voglia entrare. – 

– Se me lo dici con questo tono allora la risposta è no. – Ribatté lei, piccata. 

Percy borbottò sommessamente e poi le fece segno di entrare. 

Audrey obbedì e una volta varcata l’entrata si ritrovò in una stanza davvero piccola che fungeva sia da salotto che da cucina, arredata alla bell'e meglio con vecchio divano di pelle beige, un tavolo, un piano cottura con sopra un piccola credenza marrone. Non c’erano molti oggetti, nulla era stato incorniciato e appeso sulle pareti bianche che necessitavano di una rinfrescata ma era tutto molto ordinato, come se in realtà lì non ci vivesse proprio nessuno. 

Audrey lasciò il cartone della pizza sul tavolo e continuò a guardarsi attorno, notando un piccolo corridoio sulla sinistra da cui si poteva scorgere a quella che doveva essere la camera da letto. 

Percy si tolse la giacca che stava indossando e la appese a un piccolo appendiabiti vicino alla porta d’ingresso. Audrey, guardandolo, rimase zitta, in attesa che fosse lui a parlare. Tuttavia il ragazzo non aprì bocca e fu dunque lei a interrompere il silenzio:

– Oliver mi ha detto che non stai tanto bene ultimamente. – 

Percy sbuffò. – Ah, quindi è lui che ti ha detto dove abito. – Rispose, incrociando le braccia sul petto. 

La guardò, notando che aveva sciolto i capelli dalle treccine che portava l’ultima volta che l’aveva vista. Era carina, l’estate le donava parecchio, o forse le donava quella canottiera troppo stretta e troppo fina sotto cui era certo lei non indossasse proprio niente, o magari quella gonna di jeans davvero troppo corta per essere legale. 

La moda babbana non aveva senso ai suoi occhi e alla fine Percy decise che era meglio guardare altrove. 

– Mi sono preoccupata per te. – Disse lei. – Come… come stai? – 

Percy scrollò le spalle. – Sto bene. – Rispose. – E tu? –

– Anche io bene. – Audrey annuì. – Alla fine non mi hai chiamata. – Gli fece notare.

– Non ne ho avuto modo, lo sai che non ho un telefono. – 

Audrey lo guardò, certa che stesse mentendo. – Siamo a Londra, Weasley, è pieno di cabine telefoniche. – Ribatté, irritata. – Pensi che io sia stupida? La verità è che non hai voluto chiamarmi. – 

– Anche se fosse? Tu non hai risposto alle mie lettere per tre anni. – Le ricordò lui. 

Audrey fece un verso sprezzante. – Ne abbiamo già parlato. Io ero distrutta, non potevo… – 

– Io sono ancora distrutto, Audrey. – Svelò lui, prima di abbassare lo sguardo, come se il suo pavimento di piastrelle marroni fosse diventato d’un tratto interessante. – È questa la differenza tra noi due. Tu stai bene, ora, io no. – 

Sul viso di Audrey cadde un velo di incredulità. Era davvero questa l’impressione che dava? Sembrava una persona che stava bene? 

– Be’, non è così. – Gli disse, calma. – Ho ventiquattro anni, non ho amici, non ho un lavoro né prospettive, la mia famiglia è stata dimezzata… mia madre non mi parla da tre anni perché crede davvero che Lucy sia morta per colpa mia, perché non l’ho tenuta d’occhio, dice. Quindi no, non sto bene, Percy, non sei l’unico a soffrire qui. – 

È stata colpa mia se tua sorella è morta. – Asserì Percy.

Lei scosse la testa. – Smettila, non ha senso nemmeno pensarlo. – Lo rimproverò. 

Gli occhi di lui scattarono di nuovo sul viso di lei, tristi e vuoti come Audrey non li aveva mai visti. – Sai come è morta tua sorella? – Domandò di getto. 

È stata uccisa, pensi che io non lo sappia? –

– Io ero lì, Lucy è morta davanti ai miei occhi. – Rivelò Percy, con rabbia, parlandole quasi come se volesse ferirla o allontanarla. – È morta perché io l’ho portata a Hogwarts, perché io sono stato incapace di proteggerla durante la battaglia. Quindi dillo pure a tua madre, dille che, se proprio c’è un responsabile per la morte di Lucy, allora quello sono io, non tu. – 

Audrey lo guardò con la bocca semi aperta e le sopracciglia aggrottate. La morte di Lucy era stata un mistero in quegli anni. Sembrava che sua sorella fosse semplicemente morta in battaglia senza essere vista da nessuno, sola, caduta come tantissimi altri. Le domande senza risposta che Audrey aveva rinchiuso nell’angolo più remoto della sua mente tornarono a galla in un attimo: Lucy aveva sofferto? Ma soprattutto chi l’aveva uccisa? 

In quel momento Percy non sembrava nella condizione più adatta a parlarne. Era così diverso dal ragazzo controllato e poco emotivo che Audrey aveva conosciuto tempo prima: adesso sembrava davvero sul punto di andare in mille pezzi. 

– Non è colpa tua. – Tentò di dire Audrey facendo un timido passo verso di lui, anche se le sembrava scontato doverlo sottolineare. – Nulla di tutto questo è colpa tua… –

– Tu non capisci! – Esclamò Percy, ritirandosi. – Pensavo di fare la cosa giusta, ero certo di star compensando il fatto di essere uno smidollato accecato dall’ambizione, invece no… se quella sera non fossi venuto a cercare te e la tua famiglia allora forse Lucy sarebbe ancora viva! – 

– O magari no, magari saremmo morte entrambe! – Obiettò lei. – Santo cielo, Percy, ragiona! – Audrey sbuffò e incrociò le braccia. – La notte in cui nonna Harriette e nonna Constance sono state uccise, ti ricordi? Io ero certa che sarebbe stata la fine anche per me. – Riprese, dopo aver fatto un respiro profondo. Non parlava di quelle cose da troppo, troppo, tempo. – Poi mi sono ritrovata a casa tua e tu ti sei preso cura di me… mi hai portata in salvo, in ogni modo in cui potessi farlo. Ero persa, completamente persa, e non sarei mai sopravvissuta a tutto quel dolore senza di te al mio fianco, lo capisci o no questo? Sei una brava persona. –

Lui scosse la testa. – Non è vero. – Disse. 

Audrey si avvicinò di nuovo a Percy, che stavolta rimase fermo, con gli occhi puntati verso il basso. 

– Perce, ti prego… – 

– Sarei dovuto morire io. – La fermò lui, impietoso. 

Audrey aggrottò la fronte. – Cosa? – Domandò, sperando di non aver sentito bene. 

– Dovevo morire io, non Lucy… non Fred. Sarebbe stato meglio così per tutti. – 

Lei scosse la testa con rabbia. – Non puoi crederci davvero. – Disse. 

– E perché no? Fred aveva degli amici, una fidanzata, una famiglia che lo amava e un lavoro che adorava, mentre tua sorella aveva quindici anni, una vita davanti… ma io? Io non ho niente. Fin ora non ci avevo mai pensato perché c’era Penny, perché lei mi faceva sentire utile in un certo senso, avevo un personaggio da recitare, mentre ora non so più niente di me. So solo che non dovrei essere vivo. – Ribatté lui, poi fece un sospiro e continuò. – Vorresti davvero farmi credere che non daresti la mia vita in cambio di quella di Lucy? –

Audrey sembrò scossa da quella domanda e lo fissò furiosa. – Come puoi farmi una domanda del genere? – Domandò con il gelo nella voce alterata. – Pensi che non avrei sofferto se tu fossi morto quella notte? Pensi che la tua famiglia non avrebbe sofferto? – Lo interrogò urlando. 

– Non come stanno soffrendo per Fred! – 

– Sai qual è il tuo problema, Percy? È che tu sei un egoista. – Riprese Audrey, facendo un passo minaccioso verso di lui. – Sei profondamente egoista perché preferiresti preferito morire e far soffrire tutti piuttosto che rimanere qui ad affrontare il tuo dolore e i tuoi eventuali sbagli! –

– Se fossi morto in battaglia almeno mi sarei riscattato e ai miei genitori sarebbe passata subito, mentre tu… – 

– Io cosa? Mi avresti spezzata per sempre, lo vuoi capire o no? – Lo fermò lei, fuori di sé. – La verità è che nessuno doveva morire, nessuno! Ma sono morti, Perce, sono morti e noi siamo vivi, e io vorrei così tanto prenderti a schiaffi… prenderti a schiaffi finché non torni in te, perché pensare che nessuno avrebbe sofferto per la tua morte è la cosa più idiota che tu possa credere! E forse sì, sei depresso e non puoi capirlo, non è colpa tua ma… ma come puoi credere che il mondo sarebbe un posto migliore senza di te? Sarebbe solo più insensato di quanto già non sia adesso, perché sei l’unica cosa positiva che mi sia rimasta di quel periodo orrendo, l’unica cosa che mi fa pensare che magari sopportare tutto quello che ho dovuto sopportare abbia avuto un senso. Ha avuto un senso perché ti ho conosciuto, perché io… perché io ti amo... – 

Percy Weasley, che di certo non era un uomo di poche parole, rimase ammutolito e scosso per almeno dieci secondi buoni, fissandola con un misto di scetticismo e incredulità per più tempo di quanto fosse stato normale. C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirle per risponderle; che per lui era lo stesso, che aveva sperato per mesi e mesi di ritrovarsi una sua lettera tra la posta, che non vedeva nessun futuro soddisfacente se non con lei, ma tutto quello che uscì dalla sua bocca fu: – Capisco. – 

Audrey batté le palpebre come se volesse metterlo a fuoco meglio, sentendosi avvampare. – C-come amico. – Balbettò. – Ti amo come un amico. – Chiarì, per poi fare un passo verso la porta. – Forse è meglio se me ne vado ora. Ciao. Ci si vede. Ciao. – 

Percy la guardò senza dire né fare niente e poco dopo la ragazza si ritrovò di nuovo sul pianerottolo, con la porta chiusa dietro di lei. 

Audrey si nascose il viso tra le mani, cercando di reprimere la voglia di mettersi ad urlare lì, su quelle scale. Voleva sparire per la vergogna, essere capace di smaterializzarsi molto, molto lontano da lì, cambiare paese, faccia e nome. Che le era passato per la testa? 

Doveva finire lì, qualsiasi cosa ci fosse tra loro non aveva senso di continuare; doveva andare avanti, buttarsi quegli ultimi anni alle spalle, magari trovarsi un ragazzo che non gli facesse venire in mente il fatto che sua sorella era morta, che sua nonna era morta e che pure lei, a un certo punto, aveva rischiato di morire, e che non rispondesse dicendo “capisco” dopo un suo ti amo. 

Stava quasi per scendere il primo gradino quando sentì la porta della casa di Percy aprirsi di nuovo. Audrey si voltò in quella direzione, dove lo squadrò, ancora gonfia di imbarazzo. 

– Che c’è? – Gli chiese, cercando di apparire normale, anche se la sua voce uscì fuori molto più acuta di quanto non fosse normalmente. 

– Anche io. – Disse Percy con urgenza, andandole incontro. 

Lei aggrottò le sopracciglia. – Anche tu cosa? – 

– Anche io ti amo, ma non come amica. – Spiegò il giovane. – Ti amo come nelle canzoni babbane. Ti amo anche se non vorrei amarti, perché tu meriti nettamente di meglio, una persona normale, qualcuno che venga dal mondo babbano e che capisca sempre tutto quello che dici, con un telefono e un’auto e… – 

E Audrey lo baciò così, senza preavviso, quasi come per zittirlo. Fu diverso dalla prima volta in cui le loro labbra si erano incontrate: non c’era disperazione in quel loro contatto, non c’era la paura di non rivedersi mai più, ma quel loro bacio fu più come un sinfonico crescendo di dolcezza e ardore, una danza celestiale tra anime affamate di amore e riscatto.

Lentamente, con gesti che sembravano sacri e antichi come il tempo stesso, Percy prese il viso di Audrey tra le sue mani, come se volesse custodire l'essenza della sua bellezza per l'eternità, e facendo un passo indietro la guardò come se la vedesse per la prima volta. 

Lei accennò un sorrisetto timido, poi abbassò gli occhi e fece un passo indietro. 

– Cosa non faresti per farmi star zitto, eh? – Disse ironicamente lui. 

Audrey rise e scosse la testa e Percy sentì il suo cuore riempirsi di una strana e sconosciuta pace. Probabilmente lei era l’unica al mondo a trovarlo divertente.

– Audrey… questa cosa tra noi forse non… – Tentò di dire lui. 

– Non mi importa niente. – Lo fermò prontamente Audrey. 

– No, Audrey, dico davvero. – Riprese fermamente Percy. – Quello che ti ha detto Oliver è vero, io non sto bene in questo momento. – 

Lei lo guardò senza capire e tacque.  

– Non so se posso darti quello che meriti, quello di cui hai bisogno. – Continuò il giovane. 

– Ho abbastanza sale in zucca per capire cosa è meglio per me. – Rispose Audrey, con forza. – E se non ci proviamo, Perce, questa cosa tra noi due sarà un rimpianto, io lo so. – 

Percy sospirò, poi annuì piano. – Vuoi… vuoi tornare dentro? – Domandò dopo qualche secondo di silenzio.

– Sì. – Audrey annuì e un attimo dopo varcò di nuovo la soglia della casa di Percy. 

Lì si guardarono per un istante e poi fu lui ad avvicinarsi per baciarla di nuovo.

Anche quel bacio fu diverso da quello precedente: Audrey sentì una sensazione di calore partire dal basso per poi avvolgerla tutta, la sua testa si svuotò all’improvviso di ogni timore, lasciando posto a qualcosa che non riuscì a riconoscere. Era come se la sua soglia di inibizione si fosse abbassata all’improvviso, facendole pensare cose che, in condizioni normali, le avrebbero procurato un forte senso di imbarazzo e disagio. 

Solo quando arrivò nella camera da letto di lui, senza sapere esattamente come ci fosse arrivata, l’incanto finì, facendola tornare alla realtà. 

 

Tutto quello che sapeva sugli uomini l’aveva imparato da sua madre che, nemmeno a dirlo, non era di certo un modello a cui ispirarsi quando si trattava di relazioni e sana sessualità. 

Le aveva parlato del sesso come un mezzo per avere attenzioni, soldi, magari anche un tetto sulla testa o un buon lavoro, e semmai qualcosa nell’atto non le fosse piaciuto allora doveva “chiudere gli occhi e pensare all’Inghilterra”, esattamente come aveva fatto la regina Vittoria. 

Il trucco di Audrey invece consisteva del canticchiare una canzone nella sua testa finché il ragazzo di turno non finiva, ritrovandosi per la maggior parte delle volte a fissare il soffitto e a chiedersi cosa ci fosse di sbagliato in lei, perché non le piaceva, perché non ci trovava niente di così speciale. 

Aveva fatto così anche tutte le volte in cui qualche fidanzato di sua madre si era spinto troppo oltre con lei.

Percy smise di baciarla all’improvviso, facendola riscuotere dai suoi pensieri. La scrutò con uno sguardo indagatore per qualche secondo e poi disse: 

– Non dobbiamo fare niente se tu non vuoi. – 

Probabilmente aveva notato il suo distacco.

Audrey parve sorpresa. – I-io non lo so. – Balbettò in imbarazzo. 

Ed era vero: c’era una parte di lei che voleva di più di quei baci, che voleva slacciare uno ad uno i bottoni della camicia di Percy, che voleva che lui la toccasse ovunque. Ma, d’altra parte, aveva paura. Di cosa non lo sapeva. 

– Non voglio forzarti a fare nulla. – Disse Percy, accarezzandole il viso con il dorso della mano. – È importante per me che tu stia a tuo agio; deve piacere a entrambi, no? – 

– Sei gentile. – Esalò Audrey, un po’ incredula. 

Lui aggrottò le sopracciglia. – Questa è la normalità. – Rispose. – Con che razza di ragazzi sei uscita finora? – 

– Tu sei sicuramente unico nel tuo genere, Weasley. – 

– Dovrai abituarti, Peony. – Ribatté lui, poi fece un passo indietro. – Andiamo a mangiare la pizza che hai portato? – 

Audrey prese un respiro profondo annuì. Si sentiva così sollevata, così al sicuro, che quasi le veniva da piangere. 



 

Lo ammetto, questo capitolo poteva uscire fuori molto meglio, ma dopo giorni di correzioni e riletture mi sono resa conto che meglio di così non posso fare. 

Spero in un vostro feedback, anche perché siamo più o meno agli sgoccioli! 

Alla prossima, 

J. 

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