Petit Maxime

di lili1741
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
"Il partageait rarement les jeux et les plaisirs de ses camarades ; il aimait à être seul pour méditer à son aise et passait des heures entières à réfléchir"
                                                                                               (Charlotte de Robespierre)


Era un ragazzino di sedici anni, basso, che dimostrava meno della sua età e sembrava essere rimasto confinato in un limbo tra l'infanzia e l'adolescenza, ma il suo sguardo era oltremodo serio mentre i suoi grandi occhi verdi scuro, un poco arrossati a causa delle serate passate a studiare disperatamente teologia, algebra e latino, fissavano come ipnotizzati la bacheca del cortile interno del liceo Louis-le-Grand. Cercava di mostrarsi impassibile, ma il suo cuore batteva all'impazzata e addirittura, in un momento di oblio, si grattò la testa, scompigliandosi la parrucca diligentemente acconciata e turbando in modo buffo il suo aspetto perfettamente curato e quasi perfino civettuolo.
“Ce l'ho fatta...” sussurrò, incredulo ma anche pieno di orgoglio.

Sulla bacheca era appeso un foglio su cui era riportata una classifica.
In cima alla lista campeggiavano due nomi:
1.    Maximilien Derobespierre
2.    François Soulet de Brugière
Certo, il suo cognome era scritto sbagliato, come sempre. Nemmeno i coltissimi professori del Louis-le-Grand potevano tollerare che lui, il più povero di tutti gli alunni del prestigiosissimo collegio parigino, avesse il cognome vagamente nobiliare “de Robespierre”. Ma Maxime, proprio il più povero di tutti, aveva vinto di nuovo.
Si era posto un obiettivo. Si era impegnato, aveva studiato giorno e notte per vincere quel concorso, come dimostravano i suoi occhi arrossati in maniera inquietante. E ce l'aveva fatta, proprio come quando pochi mesi prima aveva vinto il Concours Général, la competizione studentesca più importante di tutta la Francia. Ma questo concorso era, se possibile, anche più importante...

“Bravo Maxime!” lo acclamò gioiosamente una voce molto acuta, a cui si unirono subito altre voci, benché meno entusiastiche. Maxime si girò e vide Camille sorridente, che lo attendeva a braccia aperte per un abbraccio.
Maxime non si sottrasse.
“Grazie, grazie Camille... sono così stanco, tutto ieri con Tito Livio...” biascicò, stretto in quell'abbraccio che gli permetteva di sentire l'odore di biscotti e di lavanda che emanava il suo amico Camille. All'abbraccio si unirono due o tre studenti, che proposero addirittura di portare Maxime in trionfo a fare un giro intorno al cortile. Rinunciarono a causa della  decisa reazione di quest'ultimo, che fortemente arrossito li pregava di non sollevarlo da terra, e si congedarono da lui dopo ulteriori congratulazioni. Solo Camille gli rimase accanto, dandogli la mano in silenzio.

Il ragazzino si fermò a guardare il cielo grigio di quella giornata parigina. Sembrava quasi il cielo della sua Arras, notò. Gli uccelli volavano bassi, permettendo a Maxime di osservare ammirato le evoluzioni nell'aria fresca e ventosa.
“Pare che ci aspettino giorni di pioggia” disse uno dei suoi colleghi rimasti nel cortile a guardare la classifica.
“Soulet, ciao” lo salutò lui, risvegliato un po' alla sprovvista dalle sue fantasticherie.
“Robespierre, ciao” rispose l'altro, facendogli il verso con un lieve sorriso sardonico. “E così il nostro piccolo Marco Bruto ha avuto tanta fortuna da vincere...”
Maxime si morse il labbro e sgranò gli occhi.
“François, dai, non essere così cattivo con Maxime!” si lamentò, ma sempre con un sorriso sulle labbra, il piccolo Camille.
“Non ti preoccupare, Camille” reagì Maxime, sempre con gli occhi sgranati e fissi verso il cielo plumbeo. “Anche il tuo amico François sa bene che la gente come me non ha mai fortuna, ha solo buona volontà. La sorte non mi ha mai regalato niente ed io ho rimediato con l'impegno.”
François scoppiò in una fragorosa risata, che rimbombò sulle pareti del cortile allontanando gli uccelli in volo. Maxime si morse nuovamente il labbro, crucciato.
“Certo, certo, tu sei una povera vittima, Robespierre: il Fato ce l'ha con te perché sei troppo perfetto, troppo puro per questo mondo. Ma non cantare vittoria troppo presto, perché in quanto secondo anche io sono ancora in gara per leggere il messaggio per l'Incoronazione di Sua Maestà” concluse Soulet, senza più alcuna traccia di ilarità sul volto, ma anzi quasi con ferocia.
E, mentre si allontanava verso l'atrio della scuola, girandosi per un ultima volta verso Maxime sibilò: “E ricordati, Robespierre, che io per te sono il barone Soulet de Brugière, o al massimo solo Soulet. Non permetto che un “figlio del peccato” come te mi chiami per nome. Non ne sei degno.”

Maxime sbiancò soltanto, ma le sue mani iniziarono a fremere per la rabbia.
“Crepa...” sussurrò a denti stretti.
 Camille strinse la sua destra più fortemente, per fargli sentire la sua vicinanza, e gli disse guardandolo negli occhi: “Non fare così. François è un bravo ragazzo, è solo invidioso di te. Credo sia normale... ma tu devi dimostrarti superiore a queste cose.”
“Non è facile, Camille. Tu sei benvoluto da tutti, non puoi capire come ci si senta.” protestò lui.
“Ma cosa direbbe Tiberio Gracco se ti vedesse così? Penserebbe che tu non rispetti i boni mores!” esclamò ridendo il più giovane dei due, scuotendo i capelli corvini.
“Hai ragione” ammise Maxime, sorridendo. “Ma adesso per festeggiare dobbiamo comprare dei pasticcini, io e te!”
Camille lo guardò con quello sguardo un po' strabico ma molto affettuoso che gli era abituale nei momenti di gioia.
“Ma devi lasciarmeli prendere davvero pieni di panna, questa volta!” concluse, avviandosi con passo lieto verso l'uscita.
                                                                                             

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Aveva nelle orecchie ancora il suono delle risate e le mani ancora un po’ appiccicose per lo zucchero e profumate di chantilly quando rientrò al Louis-le-Grand. Camille, proprio un bambino, come si diceva spesso fra sé e sé Maxime, descriveva fra gli scoppi di risa la meravigliosa consistenza e il sapore divino dei bigné ripieni alla crema che il suo amico gli aveva offerto.
Mentre Maxime lo ascoltava spensierato come era raramente, sentendo la sua testa leggera e un sentimento distinto d’euforia agitarsi nel suo petto, a stento contenuto dalla tela nera del suo abito, vide un giovane uomo, parimenti vestito di nero, che gli veniva incontro.
“Buongiorno, padre Petitjean”, lo salutò, senza essersi ancora totalmente ricomposto.
“Maxime, Maxime, complimenti!” lo apostrofò eccitato quest’ultimo.
Padre Petitjean, che da giovane era stato compagno di studi di suo padre, era il professore che Maxime più amava e che più credeva in lui, dandogli sostegno e fiducia.
Camille, al suo arrivo, assunse un’aria grave da persona seriosa ma il religioso, con un sorriso appena accennato, gli fece capire che non era necessario.
“Grazie mille, Padre” lo ringraziò Maxime, arrossendo nuovamente al ricordo della sua importante vittoria.
Petitjean gli diede un buffetto, poi gli disse: “E quel che è meglio è che ora il direttore vuole avere un colloquio con te, per capire se davvero ti meriti questo onore. Da parte mia non ne dubito…”, e poi abbassando la voce fino a renderla un sussurro: “… però lo sai che Soulet è un osso duro, e soprattuto è un ragazzo di buona famiglia, con tante conoscenze e tanti sostegni…”
Maxime lo guardò seriamente, questa volta per davvero, e nei suoi grandi occhi verdi bottiglia si vedeva la più ferrea determinazione.
“Se non ti dispiace, Maxime, il direttore vorrebbe vederti subito, data l’importanza della situazione.”, riprese il prete, riprendendo il consueto tono di voce.
“Certo, certo, quando vuole…” biascicò Maxime, impreparato, cercando di rimettere a posto la parrucca e di ripulire il proprio abito dai granelli di zucchero.
“Allora andiamo, forza!”, esclamò l’altro con un sorriso incoraggiante, per poi prenderlo per mano e condurlo a passo spedito per il corridoio.
Prima di entrare in una porta laterale il ragazzo si girò a salutare Camille, che facendogli cenni con le mani, gli disse: “Buona fortuna!”

Dieci minuti più tardi, Maxime si ritrovava seduto nello studio del direttore, padre Rohault de Fleury. Era proprio come se lo aspettava, come era necessario che fosse lo studio di un uomo così grave: scuro, con tappezzeria verde scura, una stampa raffigurante il Re e vari quadri di Storia Sacra. Tra il direttore e Maxime, come per tenere le distanze, stava un’immensa scrivania di legno di ciliegio. Padre Rohault lo aveva accolto con un sorriso curioso e lo aveva fatto accomodare su una sedia molto più grande di lui, in cui gli sembrava di spofondare.
Lo aveva squadrato attentamente, a lungo, mentre Maxime, imbarazzato da quello sguardo penetrante, si guardava colpevole le dita appiccicose e pensava alle risposte che sarebbe stato più conveniente dargli.
“Derobespierre, che dire? Sei una delle nostre più fulgide glorie, complimenti!”, proruppe il direttore, d’un tratto. Era un uomo di mezza età, ancora di bell’aspetto, dallo sguardo penetrante e il portamento affascinante: una via di mezzo tra un uomo di Chiesa e un uomo di mondo.
“Grazie Direttore, ne sono molto onorato”, disse il ragazzino, come di prammatica.
Il direttore aspettò a stento che finisse di parlare.
“Derobespierre, questa volta non è come per il Concours Général”, disse, con voce sibilante. Maxime si sentì inspiegabilmente raggelare. “Non si tratta solo di te, stavolta, ma del buon nome di questo Istituto e, diciamoci la verità, anche della mia carriera. Se scelgo te per rivolgere il nostro omaggio al Re per la sua incoronazione, mi assumo una responsabilità. Lo sai questo, vero figliolo?”
“Lo so, Padre”, disse Maxime. Si era aspettato un interrogatorio, ma non una sorta di processo inquisitoriale. La cosa stava prendendo una brutta piega.
“Siamo soli ora, come vedi”, riprese Rohault, risfoderando il suo sorriso inquietante. “Quello che mi dici, rimarrà tra noi, non influirà minimamente sulla tua carriera scolastica qui al Louis-le-Grand, non ti preoccupare. Puoi dire tutta la verità.”
“Io non mento mai”, dichiarò il piccolo Robespierre, con aria grave. Il suo sguardo fermo mostrava che stava dicendo la verità. “O almeno, mento il meno possibile.”
“Non ne dubito, figliolo”, sibilò l’uomo. “Dicono tutti che sei un ragazzo serio, calmo, intelligente, onesto. Mi hanno detto che ti chiamano “il Romano”, tanta è la tua virtù. Ma non si sa mai… a volte le persone nascondono sgradevoli sorprese.”
“Posso rispondere a qualsiasi domanda, Padre,” affermò Maxime, quasi con aria di sfida.
“Allora partiamo dalle più semplici: come ti chiami?”
“Maximilen-Marie-Isidore de Robespierre.”
“Anni?”
“Sedici.”
“Santo cielo, figliolo, avrei detto dodici da tanto sei mingherlino… non sei malato, vero?” disse con una smorfia tra il divertito e il preoccupato padre Rohault.
“No, Padre. Sono pallido e magro di costituzione. Gli occhi rossi sono dovuti allo studio, soffro di congiutiviti. Niente di grave.”
“Da dove vieni?”
“Da Arras, nell’Artois. Sono un borsista del Collège d’Arras.”
“Va bene, Derobespierre. Ora parlami dei tuoi genitori.”
Ecco, pensò Maxime: siamo passati alle domande difficili.

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