"Il partageait
rarement les jeux et les plaisirs de ses camarades ; il aimait
à être seul pour méditer à
son aise et passait des heures entières à
réfléchir"
(Charlotte de Robespierre)
Era un ragazzino di sedici anni, basso, che dimostrava meno della sua
età e sembrava essere rimasto confinato in un limbo tra
l'infanzia e l'adolescenza, ma il suo sguardo era oltremodo serio
mentre i suoi grandi occhi verdi scuro, un poco arrossati a causa delle
serate passate a studiare disperatamente teologia, algebra e latino,
fissavano come ipnotizzati la bacheca del cortile interno del liceo
Louis-le-Grand. Cercava di mostrarsi impassibile, ma il suo cuore
batteva all'impazzata e addirittura, in un momento di oblio, si
grattò la testa, scompigliandosi la parrucca diligentemente
acconciata e turbando in modo buffo il suo aspetto perfettamente curato
e quasi perfino civettuolo.
“Ce l'ho fatta...” sussurrò, incredulo
ma anche pieno di orgoglio.
Sulla bacheca era appeso un foglio su cui era riportata una classifica.
In cima alla lista campeggiavano due nomi:
1. Maximilien Derobespierre
2. François Soulet de
Brugière
Certo, il suo cognome era scritto sbagliato, come sempre. Nemmeno i
coltissimi professori del Louis-le-Grand potevano tollerare che lui, il
più povero di tutti gli alunni del prestigiosissimo collegio
parigino, avesse il cognome vagamente nobiliare “de
Robespierre”. Ma Maxime, proprio il più povero di
tutti, aveva vinto di nuovo.
Si era posto un obiettivo. Si era impegnato, aveva studiato giorno e
notte per vincere quel concorso, come dimostravano i suoi occhi
arrossati in maniera inquietante. E ce l'aveva fatta, proprio come
quando pochi mesi prima aveva vinto il Concours
Général, la competizione studentesca
più importante di tutta la Francia. Ma questo concorso era,
se possibile, anche più importante...
“Bravo Maxime!” lo acclamò gioiosamente
una voce molto acuta, a cui si unirono subito altre voci,
benché meno entusiastiche. Maxime si girò e vide
Camille sorridente, che lo attendeva a braccia aperte per un abbraccio.
Maxime non si sottrasse.
“Grazie, grazie Camille... sono così stanco, tutto
ieri con Tito Livio...” biascicò, stretto in
quell'abbraccio che gli permetteva di sentire l'odore di biscotti e di
lavanda che emanava il suo amico Camille. All'abbraccio si unirono due
o tre studenti, che proposero addirittura di portare Maxime in trionfo
a fare un giro intorno al cortile. Rinunciarono a causa della
decisa reazione di quest'ultimo, che fortemente arrossito li pregava di
non sollevarlo da terra, e si congedarono da lui dopo ulteriori
congratulazioni. Solo Camille gli rimase accanto, dandogli la mano in
silenzio.
Il ragazzino si fermò a guardare il cielo grigio di quella
giornata parigina. Sembrava quasi il cielo della sua Arras,
notò. Gli uccelli volavano bassi, permettendo a Maxime di
osservare ammirato le evoluzioni nell'aria fresca e ventosa.
“Pare che ci aspettino giorni di pioggia” disse uno
dei suoi colleghi rimasti nel cortile a guardare la classifica.
“Soulet, ciao” lo salutò lui,
risvegliato un po' alla sprovvista dalle sue fantasticherie.
“Robespierre, ciao” rispose l'altro, facendogli il
verso con un lieve sorriso sardonico. “E così il
nostro piccolo Marco Bruto ha avuto tanta fortuna da
vincere...”
Maxime si morse il labbro e sgranò gli occhi.
“François, dai, non essere così cattivo
con Maxime!” si lamentò, ma sempre con un sorriso
sulle labbra, il piccolo Camille.
“Non ti preoccupare, Camille” reagì
Maxime, sempre con gli occhi sgranati e fissi verso il cielo plumbeo.
“Anche il tuo amico François sa bene che la gente
come me non ha mai fortuna, ha solo buona volontà. La sorte
non mi ha mai regalato niente ed io ho rimediato con
l'impegno.”
François scoppiò in una fragorosa risata, che
rimbombò sulle pareti del cortile allontanando gli uccelli
in volo. Maxime si morse nuovamente il labbro, crucciato.
“Certo, certo, tu sei una povera vittima, Robespierre: il
Fato ce l'ha con te perché sei troppo perfetto, troppo puro
per questo mondo. Ma non cantare vittoria troppo presto,
perché in quanto secondo anche io sono ancora in gara per
leggere il messaggio per l'Incoronazione di Sua
Maestà” concluse Soulet, senza più
alcuna traccia di ilarità sul volto, ma anzi quasi con
ferocia.
E, mentre si allontanava verso l'atrio della scuola, girandosi per un
ultima volta verso Maxime sibilò: “E ricordati,
Robespierre, che io per te sono il barone Soulet de
Brugière, o al massimo solo Soulet. Non permetto che un
“figlio del peccato” come te mi chiami per nome.
Non ne sei degno.”
Maxime sbiancò soltanto, ma le sue mani iniziarono a fremere
per la rabbia.
“Crepa...” sussurrò a denti stretti.
Camille strinse la sua destra più fortemente, per
fargli sentire la sua vicinanza, e gli disse guardandolo negli occhi:
“Non fare così. François è
un bravo ragazzo, è solo invidioso di te. Credo sia
normale... ma tu devi dimostrarti superiore a queste cose.”
“Non è facile, Camille. Tu sei benvoluto da tutti,
non puoi capire come ci si senta.” protestò lui.
“Ma cosa direbbe Tiberio Gracco se ti vedesse
così? Penserebbe che tu non rispetti i boni
mores!” esclamò ridendo il più giovane
dei due, scuotendo i capelli corvini.
“Hai ragione” ammise Maxime, sorridendo.
“Ma adesso per festeggiare dobbiamo comprare dei pasticcini,
io e te!”
Camille lo guardò con quello sguardo un po' strabico ma
molto affettuoso che gli era abituale nei momenti di gioia.
“Ma devi lasciarmeli prendere davvero pieni di panna, questa
volta!” concluse, avviandosi con passo lieto verso l'uscita.
|