Un Canto di Natale

di Rucci
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Carola di Vigilia ***
Capitolo 2: *** Il Canto del Dragone ***
Capitolo 3: *** Il Canto di Pegaso ***
Capitolo 4: *** Il Canto della Fenice ***
Capitolo 5: *** Il Canto del Cigno ***
Capitolo 6: *** Il Canto di Andromeda ***
Capitolo 7: *** Un Canto di Natale ***



Capitolo 1
*** Carola di Vigilia ***


Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

Capitolo 1. Carola di Vigilia

Dove si legge tutti assieme un bel racconto e si parla di feste.

 

 

 

La lunga gamba del Pontefice di Atena aveva smesso di penzolare, interessata, da tempo. Pareva avere qualche raro momento di ripresa quando gli elementi gotici si facevano più forti, alimentando la suspense del racconto; ma erano ormai minuti che persino il gotico era stato soffocato dal buonismo dilagante. Senza sapere se i più provati in quella stanza fossero i ragazzi o lui stesso, arrivò alla fine con il mento stancamente appoggiato sulla mano, diligentemente cantilenando:

“Con gli Spiriti non ebbe più a che fare; ma se ne rifece con gli uomini, e di lui fu sempre detto che non c'era uomo al mondo che sapesse così bene festeggiare il Natale. Così lo stesso si dica di noi, di tutti noi e di ciascuno! E così, come il piccolo Tim diceva…” Qui ebbe un attimo di cedimento, le sopracciglia che si alzavano automaticamente al nominare il personaggio più melenso del romanzo. Esitò, abbassò le palpebre, e chiuse il libro con un tonfo secco. Ma non censurò nulla, terminando con un tono tra l’annoiato e il pedante: “Dio ci protegga tutti e ci benedica.”

Shun rialzò con un piccolo scatto la testa dalla spalla del primo a cui si era appoggiato: i suoi grandi occhi verdi erano puri e sinceri, ma non c’era nemmeno dubbio alcuno sul fatto che si fosse ingloriosamente addormentato. Seiya, invece, che era stato il suo cuscino per tutto quel tempo, pareva non essersene accorto:

“Beh. Bello.”

Vittoriano, avrebbe spregevolmente commentato Ikki, se fosse stato un inglese cinico.

“Spazzatura”, si limitò a borbottare, senza essere udito da nessuno, a parte forse Hyoga, che gli lanciò uno sguardo non proprio di approvazione. La Fenice non se ne curò, mani in tasca e sguardo da duro. Hyoga di Cygnus poteva rimanersene a baloccarsi per sempre con romanzi sentimentali, festeggiamenti natalizi e pure bambole di porcellana, per quel che gliene riguardava. Ma non vedeva perché lui dovesse mostrare gradimento.

“Beh… è una bella storia…” pigolò Shun, forse per rimediare ai suoi pochi minuti di sonno.

Seiya aveva un parere ben preciso: “A me piacevano i fantasmi.”

“È un racconto da leggere ai bambini” intervenne Shiryu, tanto pacatamente che entrambi i ragazzi gli rivolsero subito l’attenzione. “Contiene una morale ben precisa.”

“Sì, direi di sì.” Shion di Aries cercò per una volta in vita sua di mostrarsi neutrale, scavallando e accavallando le gambe con un sorriso dolcissimo. Per niente promettente. “Ed ecco che vi è stato letto un racconto edificante, proprio come la dolce Atena mi aveva chiesto di fare per intrattenervi. È molto indaffarata con i preparativi della festa.”

Aveva esattamente quel tono di voce che faceva intuire con tutti i crismi che non l’avrebbe fatto per nessuno, se non per la propria dea. In effetti pareva a sua volta provato, sotto la maschera disinvolta. Ma continuò come se nulla fosse: “Ringraziate lei, dunque.”

“Ah, la ringrazierò eccome” minacciò una voce fosca dal fondo della stanza. Nessuno ebbe dubbi sul proprietario.

“Ikki!” Seiya si arrampicò fin sullo schienale del divano, mentre Shun nascondeva educatamente uno sbadiglio nella mano. “Sei ancora qui? Ma questo è un record!”

“Il miele mi ha incollato i piedi al pavimento” fu la sarcastica risposta. Tuttavia, Seiya rise, anche un po’ troppo forte, ma di cuore.

“Il nostro lupo solitario! Bada che se continui così non riceverai nessun regalo di Natale.”

“E che vuoi che m’importi.”

“T’importerà, quando domani noi saremo sommersi di pacchi colorati e tu te ne starai in un angolo a calciare la neve!”

“Seiya…” Shun si adoperò subito per cercare di contenere il ragazzino, che evidentemente dopo essere stato tanto tempo fermo su un divano in silenzio sentiva il bisogno di riattivarsi. In tutti i sensi. Infatti, mentre parlava a macchinetta, si era allungato fino a salire a cavalcioni sullo schienale. Shion, mentre riponeva il libro, gli lanciò uno sguardo decisamente perplesso.

“Tsk” fu comunque il laconico commento del lupo solitario.

“Il Natale è una bella festività” giunse le mani Shun, attirando l’attenzione del gruppetto. Shion ne approfittava più che altro per spolverare i libri. “Non solo per i regali. È una bella occasione per ritrovarsi tutti assieme.”

“Già. Peccato che il Natale non sia una festività prettamente giapponese.”

“Nemmeno ateniese” chiosò l’autorità massima, giusto per dovere di cronaca, spolverandosi pure il pince-nez. Ne osservò le lenti da vista, ora pulite. Tutti e quattro i ragazzi – Ikki non se ne diede la pena – si rivolsero verso di lui.

Era la prima volta in tanti anni di onorata carriera che il Pontefice Shion si trovava alle prese con dei preparativi di feste natalizie. Se le sue dita sapevano maneggiare la fine polvere di stelle, i suoi occhi leggere gli astri e le costellazioni di tutto l’emisfero, e i suoi sensi trascendere l’umano, bene, tra le sue competenze non v’era quello di addobbare un enorme abete posto proprio di fronte alla statua di Atena Parthenos. Quando l’aveva visto lì dov’era, un colpo al cuore per la sorpresa e assieme per la blasfemia sconvolgente del gesto, si era a stento trattenuto dal mettersi le mani nei capelli.

Sinchè non aveva visto la stessa Atena trotterellare allegra nei suoi scaldamuscoli rossi a dirigere le operazioni.

Allora si era ricordato che era cresciuta in Giappone.

“Beh, ma noi giapponesi siamo fatti così!” stava infatti ridendo allegramente Seiya. Passò a sedersi sul bracciolo, dondolandosi appena. Shun si alzò per raggiungere con un sorriso benevolo il fratello, ostinatamente appoggiato al davanzale della finestra, come a distanza di sicurezza.

Shiryu confermò, prendendo il posto di Shun: “È vero.”

“Facciamo nostre molte feste altrui.”

Solo il lato kitch, annotò mentalmente il sommo Pontefice mentre riponeva gli occhialini, con una sinteticità e aderenza alla realtà invidiabile. Ma non si sarebbe mai permesso di infrangere i sogni d’infanzia di innocenti ragazzini, né di argomentare nulla, non dopo il dissidio verbale avuto con Death Mask riguardo alle decorazioni di vischio. Facevano un po’ a pugni con l’arredamento consueto, in effetti.

“Sì, come il Natale…”

“O San Valentino!”

“È vero, anche San Valentino!” Shun giunse di nuovo le mani, piegandosi leggermente verso l’altra finestra, dove stava appoggiato un altro ragazzo. “Hyoga-kun ha ricevuto un sacco di cioccolata, questo San Valentino! Non è vero?”

Hyoga, apparentemente imbarazzato, si limitò a un vago cenno di assenso. Seiya, ovviamente, colse subito. E ghignò, con aria adorabilmente sbarazzina – quella che o ti fa prendere a schiaffi da subito, o sei salvo per tutta la vita.

“Bene, bene. Il nostro latin lover.”

“E piantala, Seiya.” L’algido biondo, notoriamente molto più incline alle emozioni di quanto non lasciasse presagire, si mise subito sulla difensiva. Seiya seppe di avere la vittoria in pugno.

“Certo che ne hai parecchie, che ti girano attorno, eh?”

“Pensa per te” fu la risposta, tra un mugugno e l’altro, che parve accontentarlo. Infatti il ragazzo rise, assolutamente spensierato, sebbene nella stanza un po’ tutti si chiesero quando Seiya avrebbe realizzato di avere due o tre conti in sospeso con qualcuna, lì fuori. Tutti tranne Ikki, a cui non gliene poteva fregare di meno, e Shion: l’unica donna che al momento vorticava nei suoi pensieri era l’inserviente addetta alla sua vasca da bagno. Aveva bisogno di un bagno caldo. Ma tanto.

“E Shunrei?”

“Come?”

“Non viene, Shunrei? Alla festa di Natale, intendo.”

Shiryu guardò Seiya come perplesso, per appena una manciata di secondi. Poi sorrise, rassicurante:

“Non è mai venuta al Grande Tempio. Non sapendo se le sarebbe stato consentito l’accesso, ha preferito rimanere a Goro-ho.”

Shunrei l’aveva salutato come sempre, con un sorriso e una carezza. Sembrava serena, nella piccola casa accogliente della cascata, non avvezza alla città, non avvezza ad altro che non fosse quel limbo quieto di terra. Shiryu era andato, perché Saori l’aveva chiamato. Lei era restata, sorridendo.

“Ma figurati se non la lasciano venire!” Seiya lo distolse dalle sue riflessioni. “No, Shion?”

“Mmmh?”

“Shunrei.”

“Chi?”

Seiya aprì la bocca per sillabare meglio il nome. Per fortuna Shion lo prevenne – stava semplicemente pensando con desiderio alle sue vasche termali – altrimenti l’avrebbe preso come grave insinuazione sulla sua vecchiaia. Lì non sarebbe stato risparmiato nessuno.

“Oh, la ragazza di Goro-ho. Ma naturalmente, Doko me ne ha parlato. Perché non è qui?”

“Ha preferito rimanere a casa, Pontefice.”

“Oh, ma poveretta. Sarà lì da sola” i grandi occhi dell’antico cavaliere d’oro saettarono in qualcosa che, seppure attutito dal fare conciliante, aveva l’aria del rimprovero. “Avresti dovuto insistere di più.”

Shiryu lo raccolse, quello sguardo. Non era tipo da passare leggermente sulle cose, e quel rimprovero l’aveva colpito. Non ci aveva assolutamente pensato.

“Seiya-kun” intervenne Shun, non appena vide Shiryu pensieroso. “Di sicuro Shiryu ci avrà pensato. Siamo ancora in tempo per…”

“Non siete in tempo per un bel niente, ora.” Li interruppe la voce dolcissima e minacciosa di Shion, che finalmente torreggiava su di loro. Alzarono tutti lo sguardo. Aveva in volto il sorriso sornione del gatto che si è appena sbafato un salmone. “Adesso basta parlare di ragazze, bambini.”

Un rossore comune avvampò le gote di tutti. Tranne che quelle di Ikki.

Lui cercava solo di andarsene, e da un pezzo.

“È la vigilia di Natale, e a quanto sono stato indottrinato dalla nostra amabile dea, la mezzanotte va passata sotto le coltri. Santa Claus non sarà contento se vi vedrà curiosare in giro per tutta notte. Quindi sciò, a letto.”

Ikki non se lo fece ripetere due volte. Imboccò l’uscita, ovviamente non per dirigersi alla stanza che era stata preparata per lui, ma per farsi un giro. Seiya si stiracchio, Shiryu lo accompagnò, appena più pensieroso del solito. Hyoga aspettò Shun.

Shion, finalmente libero dalle sue incombenze, li lasciò andare. Nel pomeriggio aveva accolto i cinque santi che più si erano distinti in quell’epoca di miracoli, i cavalieri che Atena teneva sul palmo della mano, per fare loro da guida nel Santuario addobbato a festa. Li aveva alloggiati, nutriti ed edificati con un bel racconto, come una madre premurosa, e ora erano liberi di andarsene dove più gli aggradava. Lui sicuramente si sarebbe fatto un bagno.

 

“Buonanotte” salutò per primo Shiryu, infilandosi nella propria stanza.

I ragazzi lo salutarono, senza risparmiare qualche occhiata complice fra di loro.

“Ci sta ancora pensando.”

“Non ti preoccupare per lui.”

“Mi dispiace, avremmo dovuto pensarci anche noi, forse…”

“Non ti crucciare, Shun. Sai com’è fatto Shiryu. Se le parole di Shion l’hanno davvero fatto pensare, non perderà tempo e agirà di conseguenza.”

Seiya annuì solennemente, alle parole di Hyoga. Poi sbadigliò, finendo per sfregarsi gli occhi.

“Vabbè, a questo punto me ne vado a dormire anche io.”

“Di già, Seiya?”

“Mica ho fatto il pisolino dopocena, io.”

Shun arrossì un bel po’, sotto lo sguardo curioso di Hyoga. Evidentemente Seiya si era accorto eccome di essere stato usato come cuscino per gli ultimi due capitoli del racconto.

“Buonanotte! E aspettatemi per i regali!”

“Buonanotte, Seiya-kun.”

“Buonanotte.”

Hyoga, dopo aver augurato la buonanotte a sua volta, si voltò per salutare anche Shun. Ma lui si era appoggiato alla finestra del corridoio, osservando in maniera quasi insistente al di fuori. Lo raggiunse, silenziosamente.

“Che cosa guardi?” gli domandò dopo un po’.

“Oh, nulla. Tutto.” Sorrise, poi carezzò il vetro freddo con le dita, placidamente. “Dove sarà andato Ikki?”

“Starà rientrando, non preoccuparti.”

Appoggiato al davanzale, Hyoga pensava ai fatti suoi, nel silenzio placido. La sera, attraverso le ampie vetrate, era scurissima, ma le luci blu della notte si riflettevano su un marmo talmente bianco che pareva di essere intrappolati in un palazzo sulla luna. Il silenzio era leggero, per niente opprimente. Hyoga seguì lo sguardo di Shun sino a carezzare con un brivido il roseto dai petali chiusi, scintillante nella notte. Le spine erano crudeli, e non riportavano alla mente lieti ricordi. Quello Cygnus lo sapeva bene.

Quando il cavaliere di Andromeda si rese conto che i loro sguardi avevano coinciso, sussultò appena, come a distogliere gli occhi dell’altro anche dai suoi pensieri. Si voltò verso di lui, sorridendo, e domandando, quasi frettolosamente:

“Secondo te nevicherà, domani?”

“Come?”

“Stavo pensando… domani è Natale, no? Quindi guardavo fuori e pensavo: nevicherà? Me lo sai dire, Hyoga-kun?”

Per un attimo Hyoga fu tentato di domandargli a cosa stesse pensando veramente.

Invece dopo un attimo di pausa allungò le braccia allenate ad aprire le finestre, senza cambiare espressione, nonostante fosse appena in maniche corte. Shun invece emise un lieve gemito di sorpresa, stringendosi nel maglione: faceva davvero molto freddo. Ma non abbastanza, stimò il ragazzo più grande, in piedi davanti alla finestra. Osservò con attenzione la lievissima pioggerellina che poteva scorgere solo sul davanzale, e non nella notte nera, che oscurava il resto. Non rispose subito.

“Può darsi” mentì.

“Che bello. Sarebbe veramente bellissimo se nevicasse per Natale.”

“Ehi, voi due. Volete prendervi un accidente?”

Hyoga si voltò, appena scocciato dal tono di voce sin troppo burbero.

“Ecco. Che ti avevo detto?” si rivolse a Shun, invece che rispondere a chi li aveva interpellati, chiudendo con forza le finestre.

“Ikki-nii-san!”

“A letto, Shun. È tardi.”

“Non stai dando il buon esempio, Ikki.”

Hyoga ricevette la migliore occhiataccia della serata, ma non se ne curò granché. Serrò bene la maniglia, che non passasse il freddo.

“Tsk. Tanto non c’è niente, in questo posto.”

“Vai a dormire anche tu, nii-san?”

“Mh. Vai anche tu, Shun.”

“Sì!”

Ikki scompigliò affettuosamente i capelli al fratello minore, pur mantenendo un’aria di assoluta serietà. Salutò con un cenno del capo Hyoga, e dopo gli ultimi convenevoli con Shun si ritirò.

Il cavaliere di Andromeda rimase solo, dopo che anche Cygnus fu andato, con un ultimo saluto. Lui, che aveva avuto tanto sonno prima, andava a letto per ultimo. Così pensava, almeno, ed era quasi la mezzanotte, mentre si lavava scrupolosamente i denti.

Al momento d’infilarsi a letto, ormai a metà nel mondo dei sogni, pensò confusamente che non aveva sentito come andava a finire il Canto di Natale, anche se sicuramente la storia l’aveva già sentita, molto, molto tempo prima… ma fu un ultimo pensiero confuso, prima di addormentarsi.

 

 

 

 

 

The Carol

 

Quanto tempo che non riscrivo il Christmas Carol! Sono così feliceh!

È quasi tradizione per me rispolverare il Christmas Carol di Dickens – come la maggior parte delle persone, infatti, amo il Christmas Carol pur odiando Dickens – e lo faccio ogni anno, a Natale, nel fandom che al momento mi sta stravolgendo l’esistenza. Saint Seiya me la sta stravolgendo da parecchio, ma ancora non era incappato in questa trappola mortale, se non per una lemon Rhada/Kanon scritta a quattro mani con LeFleurDuMal l’anno scorso, ma ehi, non era assolutamente un Christmas Carol. Il titolo era ironico e c’erano solo due uomini che si davano da fare a letto.

 

Questa volta il Fluff impererà come Dio comanda!

Ed essendo io particolarmente in spirito natalizio, vi annuncio che questa amabile carola sarà di sette capitoli, e che verranno pubblicati ogni martedì e venerdì, a partire da oggi, sino al giorno di Natale (un venerdì, appunto).

Un piccolo augurio per tutti quelli che mi/ci seguono – Gold Insanity vi ama – e ai soliti affezionati a cui io sono davvero tanto grata. A voi!

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Capitolo 2
*** Il Canto del Dragone ***


Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

 

 

Capitolo 2. Il Canto del Dragone

Dove si scopre che la Cina non è solo panda e bambù.

 

 

 

Shiryu, nonostante non lo desse a vedere in compagnia dei suoi amici, era stanco per via del lungo viaggio che aveva dovuto compiere in solitaria, dalle pendici della cascata di Goro-ho sino alle scalinate candide del Santuario. Si era avventurato da solo, come era abituato a fare, senza lamentarsi. E aveva viaggiato a lungo.

Fu per questo che dovette farsi un poco forza, per rimanere sveglio, fin da quando i pensieri risvegliati da Shion avevano cominciato a farsi strada nella sua testa: il viso sorridente di Shunrei, sola sulla montagna, acquisiva ora tutt’altro aspetto. Cercò di rimanere sveglio per pensare, per riflettere almeno un poco su quello che gli era stato detto, su cosa poteva fare, ancora, ma l’ora era troppo tarda: il suo fisico stanco ebbe il sopravvento.

Dormì parecchio, o almeno così gli parve.

Shiryu!

Tanto che non si aspettava assolutamente di venire svegliato di soprassalto.

“Shiryu!”

Una voce. Squillante.

Ma non solo una voce.

Anche una serie di tonfi sullo stomaco piuttosto decisi.

“Shiiii-ryyyyy-uu!”

“Cos—?”

“Finalmente, Shiryu! Credevo che non ti saresti più svegliato!”

“Chi…?” Il ragazzo sbatté le palpebre, confuso, strappato al sonno in maniera così insolita che faticò a distinguere da subito la figura che trillava il suo nome. Figura che presto mise a fuoco, svelta e piccola com’era, appallottolata sulla sua pancia. “Kiki!”

“Sorpresa!”

“Che ci fai qui?”

“Una sorpresa, ti ho detto!”

Shiryu sospirò, abbandonando la nuca sul cuscino. Per essere una sorpresa, era una sorpresa: era un po’ di tempo che non vedeva il piccolo Kiki, ma di certo aveva trovato la maniera più originale per organizzare un ritrovo.

“Kiki, ma… è tardi!” si ricordò, in un momento di lucidità. Il sommo Mu l’avrebbe rimproverato, se l’avesse trovato a gironzolare per il Santuario a notte fonda. O almeno così pensava. Si raddrizzò, seduto, scuotendosi il sonno di dosso, mentre il bambino gli scendeva dalla pancia per sgattaiolargli a fianco, veloce come uno scoiattolo. “Non dovresti essere a letto?”

“No!” Se mentiva, mentiva con disinvoltura. “E poi non è tardi, per il tuo viaggio. In realtà, è il momento migliore.”

“Viaggio? Che viaggio?”

“Shiryu, ascoltami.” Il bambino sgambettò, tornando a sedersi sulle sue ginocchia, ora che il ragazzo era seduto. Shiryu sbatté gli occhi, davanti alla luminosità innaturale dei suoi occhi; nella penombra, aveva un sorriso da folletto. “Stanotte riceverai la visita di tre spiriti.”

“Tre… spiriti?”

“Ma come, Shiryu!” Kiki gonfiò le guance, in segno di disapprovazione. Shiryu notò che il peso sulle sue gambe era quasi inesistente. Complice il sonno, la confusione, rimase a guardarlo mentre lo rimproverava, come se lo meritasse. “Dovresti saperlo! C’è lo Spirito del Natale Presente, quello del Natale Passato, quello del Natale Futuro. E tutti e tre hanno qualcosa da mostrarti.”

“Oh” sospirò lui, come scrollandosi di dosso altro sonno. Lo fece a lungo, poi allungò una mano, conciliante, ai capelli del bambino. Ora era molto più chiaro. “Ora capisco. Hai sentito anche tu il racconto? Dove ti eri nascosto?”

Kiki gonfiò ancora di più le guance, se possibile. Pareva offeso.

“Io sono venuto qua ad avvisarti, e tu parli d’altro!”

“Kiki, non capisco… stavo dormendo, e…”

“E adesso è il momento di svegliarsi! Seguimi!”

Era corso giù dalle sue ginocchia senza che lo sentisse. Solo in ritardo, come se l’immagine fosse più veloce del suono, sentì il suo scalpicciare veloce e il tintinnio di campanelli. Ma non indossava campanelli…

“Kiki!” abbassò subito la voce, dopo averlo chiamato. Gli altri stavano di sicuro dormendo! “Kiki! Aspetta!”

Incerto, Shiryu si levò dal letto. Senza mettersi niente addosso oltre alla lunga casacca che già gli faceva da pigiama, si affrettò a seguirlo. Non poteva lasciarlo girare da solo per la Tredicesima Casa, il palazzo del Sacerdote e della divina Athena. Di certo non avrebbe dovuto essere lì. L’avrebbe fatto dormire con lui, magari – anche se il sonno ormai, curiosamente, era svanito…

Si ritrovò alla soglia dei gradini di marmo.

L’aria era fredda.

Di Kiki nessuna traccia.

“Ti stavo aspettando” scandì, al suo posto, una voce proprio accanto a lui.

Shiryu si voltò lentamente, sorpreso. Il vento freddo di dicembre lo sferzava, ma non avvertiva freddo. Si accorgeva a malapena del lembo morbido della tunica che gli carezzava i piedi.

“Shura?”

Un sorriso composto, e il Cavaliere della Decima Casa si scostò dal muro a cui era appoggiato.

Shiryu non lo vedeva da parecchio tempo. Anche durante la salita del mattino precedente lui e gli altri, guidati da Shion di Aries, avevano percorso passi silenziosi in case silenziose. Certamente i Gold Saint non erano assenti, ma non si erano manifestati. Shura, adesso, in quella notte fonda e buia, lo stava aspettando ai piedi della Tredicesima, con lo stesso sorriso con cui Shiryu lo ricordava nei momenti più disperati delle sue battaglie.

“Shura…” sentì qualcosa d’indefinibile sciogliersi nel petto, gioia sincera, onore, e forse anche commozione. “Desideravo rivederti.”

“Anche io, Shiryu. Vieni con me.”

“Ah… aspetta. Hai visto passare Kiki?”

Un battito di ciglia, composto. Poi si avviò, come se la risposta fosse superflua.

Shiryu, sorpreso, non disse niente. Lo seguì e basta.

“Il giovane allievo di Mu” tentò di spiegare, dopo qualche passo. Era talmente sorpreso dallo strano incontro che senza porsi problemi, come se fosse del tutto normale, seguiva a piedi nudi nel freddo i passi di Shura, che non si accompagnavano ai gradini di marmo. Avevano preso un sentiero scosceso dalla vegetazione indefinibile, nel buio. “Era qui. Almeno credo. Non l’hai visto?”

“No” rispose semplicemente.

Shiryu, stranamente, accettò quella risposta come se risolvesse ogni cosa. Continuò a camminare, confuso: “Stiamo andando…?”

“Un po’ lontano. Vedrai.”

“Dove mi stai portando?”

“Indietro.”

La risposta era quanto mai enigmatica, ma Capricorn non aveva un tono di voce da lasciar presagire ulteriori spiegazioni. Ciononostante, le sue parole non erano né secche né brusche: rispondeva preciso, sincero. E lasciava intendere che presto avrebbe verificato con gli occhi.

“Indietro?” non poté tuttavia trattenersi dal domandare Shiryu, sempre più confuso. Non che lo lasciasse trasparire molto, abituato al controllo estremo su sé stesso, ma un intontimento generale lo intorpidiva. Colpa del sonno?

Shura non parve prendersela a male per l’ennesima domanda. Continuò a camminare.

“A volte è indispensabile, guardare indietro. Ricordi il tuo passato, Shiryu?”

“Certo che lo ricordo.” Shiryu avvertì distintamente il terreno sotto i suoi piedi farsi più morbido. Strano. Abbassò lo sguardo, ma con il buio non vedeva molto. La terra era morbida, più morbida del suolo arido di Grecia. Presto si accorse di camminare sopra un tappeto di aghi di pino. Trattenne la sorpresa.

“Non puoi ricordare ogni cosa.”

“I-io…”

“Quindi io te la mostrerò.”

Come Shura ebbe pronunciato quelle parole, con somma calma e una strana, impercettibile dolcezza, il suo braccio forte rivelò delle luci nell’ombra, scostando una fronda d’albero particolarmente fitta. A Shiryu mancò quasi un battito: “L’orfanotrofio! Ma come… non possiamo essere qui!”

“Possiamo. Stai sognando, Shiryu.”

“Sognando?” boccheggiò il ragazzo, seguendo come automaticamente i passi dell’uomo che lo conduceva. “Io sto…?”

“Questo è un sogno, e io sono qua per mostrarti un Natale che hai trascorso anni fa. Avvicinati alla finestra.”

Le luci sfavillanti e i lampi di rosso catturarono l’attenzione di Shiryu tanto da eclissare qualsiasi altra domanda. Rimase ipnotizzato dai bagliori oltre il vetro, improvvisamente catturato dai ricordi.

“Questo… era un Natale di molti anni fa. Prima che venissimo mandati lontano, prima che…”

“Chi c’è, che riconosci?” domandò pacatamente Shura. Non si muoveva da dov’era rimasto, in piedi, come una statua o un fantasma. Ma era una presenza incredibilmente rassicurante.

“Ci sono tutti i ragazzi dell’orfanotrofio. Stanno aiutando le ragazze più grandi ad organizzare una cena di festa. Era un’occasione per distrarre i bambini. C’è…” un sorriso increspò le labbra del santo di bronzo, conferendogli un’aria ancora più matura, serena. Si prese una pausa, e poi descrisse la scena davanti ai suoi occhi, nemmeno accorgendosi di completarla a memoria, prima che le figure si muovessero davvero davanti ai suoi occhi. “C’è Seiya, che cerca di aiutare ad addobbare l’albero. Non è mai riuscito a farlo senza rompere qualcosa, ma ci metteva sempre molta buona volontà. Credo. Anche se forse era solo ansia di partecipare a sua volta.”

“E poi?”

“Poi… c’è Hyoga, in un angolo. Era il primo Natale che passava lontano da casa” si ricordò, gli occhi attenti sul mondo oltre la finestra. Cominciava a ricordare moltissime cose. “Era arrivato da poco all’orfanotrofio. Era chiuso e schivo, e non parlava quasi con nessuno. Lui e Seiya si azzuffavano spesso. Se ne stette per conto suo per tutte le feste, sostenendo che non era affatto Natale, che la data era sbagliata. Oh, e lì c’è anche Shun. E Ikki. L’inverno era talmente freddo da costringerlo a rimanere al caldo, quando spesso girovagava per conto suo. Stanno preparando la tavola.”

“E tu, dove sei?”

“Oh.” Sorrise, scorgendosi. “Sono a togliere le decorazioni dalla scatola. E ad arginare i danni di Seiya.”

“Me l’aspettavo” commentò laconicamente Capricorn. Quando Shiryu si voltò verso di lui, vide che stava sorridendo.

“Perché… perché mi stai facendo vedere questo?”

“Eri felice?”

“Eravamo bambini soli” rispose seriamente lui, una mano al vetro della finestra, opaco. Guardò un’altra volta dentro, una scena chiassosa illuminata dalle luci artificiali. “Non avevamo granché. Ma anche per questo ci bastava poco. Un’occasione di festa era più che sufficiente per essere felici, anche se a malapena sapevamo cosa fosse, il Natale.”

“Ha molta importanza?”

“Eh?”

Shiryu si riscosse e si voltò, avvertendo la figura a lui famigliare allontanarsi. Sino ad ora non l’aveva distinto bene, nel buio: ora, guardandolo illuminato dal rettangolo di luce della finestra, lo vide dirigersi verso un’altra strada ancora, i passi silenziosi, un mantello candido a drappeggiargli le spalle.

“Shura.”

“Seguimi. Non abbiamo finito.”

Se era davvero un sogno, Shiryu si ritrovò a domandarsi che cos’era che nel sogno gli stava ora attanagliando lo stomaco, se una semplice nostalgia per il passato o qualche presentimento che aleggiava negli occhi della sua guida. Aveva colto il suo sguardo mentre volgeva il viso in avanti: erano occhi che guardavano fermi davanti a sé, e contemporaneamente gli occhi più malinconici che avesse visto. Si domandò se fosse quello ad acuire il senso di nostalgia che stava provando allontanandosi da quell’inaspettato ricordo.

“Non hai più festeggiato il Natale, da quella volta.”

“Come? Davvero?” I ricordi d’infanzia, come sempre, tendono a scalare gli anni, ad unirsi in maniera disomogenea. Shiryu cercava gli occhi di Shura, che non trovava, ora che si stavano risommergendo nel buio della notte. Rumore di fronde.

“Sì. Non faceste in tempo ad organizzare il Natale successivo. Andasti in un luogo dove quello era l’ultimo del suoi problemi.”

E con somma meraviglia del cavaliere, il paesaggio che si apriva dietro il verde era ancora una volta diverso. Shura lo stava conducendo per un sentiero di labirinti, ed ogni ramo si affacciava su un’illusione diversa. Oppure quello era veramente un sogno, e stava sognando anche le carezze fresche e taglienti delle foglie di bambù, sul viso.

“Goro-ho.”

“Certo è che il saggio maestro, nonostante l’affetto per te e la mente svelta nel corpo vecchio, non ha mai pensato ad addobbare un albero.”

“No, certo che no” Shiryu sorrise appena, anche solo all’idea. I suoi occhi non riuscivano a staccarsi dalla roccia imponente che sovrastava la cascata. La luna era nitida in cielo, lui, poco più grande di come si era visto correre a raccogliere palle di polistirolo che rotolavano per tutta la stanza, ora sfidava le acque millenarie di una cascata. Era completamente solo, lui e l’acqua scrosciante, nell’aria fredda e verde. Non sembrava affatto Natale, anche se a giudicare dal freddo e dall’odore della terra era per forza quel periodo dell’anno. Shiryu si ritrovò a riflettere, abbassando lo sguardo. Poi si voltò deciso verso Shura, l’avversario, l’amico, la guida.

“Shura, tu… cosa stai cercando di dirmi?”

Gli occhi di Capricorn, nella sera, erano completamente neri.

Lo scrutarono a fondo, senza un perché, prima di saettare per un attimo in alto, verso la scena che avevano abbandonato. Shiryu, istintivamente, lo seguì.

“Andiamo.” Si sentì afferrare per un polso, prima che riuscisse a distinguere qualcosa di significativo. “Non c’è più niente da fare, qui.”

“Che cosa…?”

Qualche cosa gli era sembrato di avere visto.

Per la prima volta, si oppose a lui, girando il collo all’indietro, cercando di guardare ancora.

Una bambina…

“Non c’è più niente da fare” ribadì pacato il santo d’oro, conducendolo gentilmente eppure con pugno di ferro. Le foglie si chiudevano di nuovo attorno a loro. Il buio blu della notte permetteva a malapena d’intendersi con i respiri. Shiryu si domandò se il blu si sarebbe aperto di nuovo sulla Grecia, o su quale altro posto lontano. Con sua immensa sorpresa, avvertì i propri piedi poggiarsi sulla roccia nuda e umida.

“Shura? Shura?”

“Il mio tempo è finito, Shiryu. Verrà qualcun altro, a prenderti.”

“Shura!” gridò, stavolta, il ragazzo, irrazionalmente. Si voltò istintivamente all’indietro, da dove proveniva la voce. Con suo immenso sollievo, lo vide. Una figura affilata, all’ombra della cascata.

Shiryu lo fissò a lungo, senza capire il perché di quel senso acuto di nostalgia che provava nel guardarlo. Non si era mai accorto di quest’ombra nella figura del cavaliere, che pure aveva vissuto di zone nere, nel suo passato. Ma Shiryu l’aveva sempre visto forte, glorioso e risplendente, e vederlo tagliare l’ombra sul punto di svanire era qualcosa che gli stringeva la bocca dello stomaco. Gli rivolse uno sguardo accorato, come a pregarlo di non lasciarlo; finalmente Shura gli sorrise.

“Non temere. Hai già capito molto più di quanto tu creda.”

“Shura, aspetta! Ci rivedremo?”

“Per questa notte, no. Ma tu temi troppo, Shiryu…. e adesso, non è proprio il caso di farsi intimidire.”

E così, con un sorriso misterioso, con quella strana dolcezza, si dileguò nell’acqua, lasciando di sé solo una macchia oscura dietro lo scrosciare rombante della cascata. Il cavaliere del Dragone vi si gettò, senza pensarci due volte, del tutto istintivamente. La notte a Goro-ho era terribilmente rumorosa, nel suo silenzio.

“Shura! Shura! Aspetta! Che cos’è che devo capire? Che cosa…?’”

“Che cosa dovresti capire?” Lo apostrofò una voce durissima, che senza dubbio non era quella di Shura. Shiryu si fermò appena in tempo, sbigottito, il viso ad un palmo dagli spruzzi violenti della cascata. Ma non fece in tempo a ritrarsi, perché quella macchia di nero emerse senza preavviso, spaventandolo come il vento furioso spalanca una porta. Lo colpì in pieno, non molto lontano da dove Kiki aveva allegramente saltellato con tutto il suo peso per svegliarlo.

Come Shiryu fu schiantato a terra, incredulo e sdegnato, realizzò che quello che aveva preso era un calcio dritto allo stomaco. E che la figura sgangherata che torreggiava su di lui, grondante d’acqua, la conosceva.

“Bene, bene. Guarda chi si rivede.” Una risata scomposta e gracchiante, molto lontana dalla voce distante e raccolta di Shura. Shiryu digrignò istintivamente i denti, sebbene non avesse voluto. “Te l’ho già detto che ho un debole per le entrate in scena?”

“Death Mask!” ruggì il Dragone, rimettendosi presto in piedi, dolorante e umiliato. Questa proprio non se l’aspettava. Oltretutto trovava il remake della cascata assolutamente fuori luogo. “Tu qui!”

“Di nuovo, eh? Immagino il piacere che ti faccia.” Snudò i denti quello, occhi di brace nel buio. Pareva estremamente, se non oscenamente compiaciuto dalla trovata. Non esattamente nello stesso stato d’animo era Shiryu il Dragone.

“Perché sei qui? Parla!”

“Canta, canta, stai allegro, sono qui per te, moccioso!”

Beffardo, Death Mask emergeva alla luce della luna come se fosse il figlio stesso del demonio. Quella sua andatura piegata, storta, simile davvero ad un granchio, lo faceva apparire ancora più minaccioso, si rese conto Shiryu con un brivido. Le sue braccia penzolavano apparentemente inerti, e potevano infierire colpi del tutto imprevisti. Non era come trovarsi davanti un avversario in postura d’attacco. Era molto peggio. Istintivamente, s’irrigidì.

Passarono lunghi istanti di silenzio, finché Death Mask, evidentemente soddisfatto del turbamento che aveva seminato, lo lasciò crudelmente in sospeso per dargli le spalle.

“Seguimi.”

“Perché…”

“Ho detto seguimi. Niente storie. Ho dieci minuti. E cinque li userò per fumarmi una sigaretta.”

“Ma che cosa…” Shiryu storse il naso, del tutto involontariamente. Lo seguì, anche se affatto di buon avviso. Lo scrutò a fondo, la sua schiena nervosa e l’andatura che tratteneva forza. Si ricordò di quello che aveva detto Kiki. “Tu sei… lo Spirito del Natale Presente.”

Minchia. Detta così sembra davvero una stronzata.”

Shiryu spalancò gli occhi.

Che ne era della dolce malinconia di Capricorn?

Dell’atmosfera tanto rarefatta e poetica che aveva saputo creare?

A ramengo, grazie a Cancer, che gli fece cenno con un grugnito in direzione della casetta arroccata sulla roccia, dove erano arrivati tra una bestemmia in italiano e l’altra – forse rivolta a Shiryu, forse rivolta ai sassi scivolosi, forse a nessuno. Shiryu si avvicinò, senza per questo abbassare la guardia un istante; anche se Death Mask pareva più intenzionato a frugarsi in tasca che a concedergli un grammo della sua attenzione. Frugò rumorosamente in entrambe.

“Ebbene?” cercò di mostrarsi sostenuto, Dragone.

Non poteva permettersi di chinare il capo di fronte a chi, nonostante i trascorsi passati, si ostinasse a mantenere un contegno tanto provocatorio e beffardo. Ne andava del suo onore.

Cancer si grattò.

“Sai, quelli come te mi fan pena.”

“Come hai detto?”

“Quello che ho detto.” Un lampeggio furioso, sconquassato. Una fiamma di accendino. Death Mask aveva trovato la sua sigaretta, e l’odore inquinava l’aria. Probabilmente erano le sigarette più pregne di catrame che la Grecia potesse produrre. Erano sigarette comprate al porto, in un baracchino. Shiryu non riusciva a distogliere lo sguardo da lui, pur manifestando aperta ostilità. Fremeva di collera, che quell’uomo era tanto bravo ad scoperchiare. “Non mi aspetto che tu capisca. Eppure dovresti, se sei quel santone che tanto ti vanti di essere. Ecco, la vedi là dentro?”

Shiryu tacque, aspettandosi quello che stava per vedere.

Una donna sola, in una casa fredda. Non c’era bisogno d’altro, per provare rimorso.

Non era il momento migliore per litigare con Cancer: cercò di non mostrarsi debole, ma mai come in quel momento si era sentito sciocco e colpevole. Shunrei, rincantucciata sotto le coperte, dormiva, anche se l’avrebbe fatto per poco: Shiryu si accorse della luce rosata, che da un Est lontano preludeva all’alba. Troppo preso dagli avvenimenti, si ricordò che da quando Death Mask aveva preso il poso di Shura, in quel modo tanto grottesco, il cielo era cambiato. Quello era il presente: in Grecia la notte sprofondava, in Cina il giorno avanzava.

Un commento sarcastico lo riportò alla realtà:

“Buon Natale, ciuridda!

“Smettila!” S’infuriò Shiryu, il viso e il petto accesi da un bruciore spiacevole, forte. “Proprio tu, parli! Sono capace di accettare un rimprovero; ma non se viene da uno come te! Vuoi umiliarmi?”

“Ohi, di che parli, Dragone.” Death Mask gli soffiò in faccia una boccata di pessimo fumo, più beffardo e soddisfatto che mai. “Sarò l’ultimo qui a farti una predica. Personalmente, la mocciosa mi sta anche sui coglioni. Non è quella che ti ha salvato, l’ultima volta che ci siamo visti? Bene, io avrei preferito di gran lunga scaraventarti nella fossa degli sfigati, e non dire che non l’avrei fatto.”

Un'altra bella boccata coronò quel discorso.

“Tu non sai che cosa vuol dire. Non sai cosa siano sentimenti nobili come…”

“La gratitudine?” suggerì lui, un ghigno crudele.

Quella andò a segno come un pugnale arroventato.

Shiryu non si era mai sentito così in tutta la sua vita.

“Hai ragione, che ne capisco io. Ma anche tu hai un bello fare lo splendido.” Rigirò abilmente il filtro arraffandolo tra pollice e indice, quello spirito chiassoso e insensibile. Aspirò con malcelata soddisfazione. “Per me con la tua morosa puoi farci quel che ti pare, anche usarla come straccio per lavare i pavimenti. E mica solo per Natale. Non è per la storia del Natale. La storia del Natale è una minchiata. Non l’hai sentito quel che ti ha detto Shura, eh? Pensavo che Shura lo ascoltassi, sei orbo, non sordo. Ti ha detto anche lui che è una minchiata.”

Shura non aveva detto proprio così, in verità.

Ma aveva sussurrato, al suo orecchio, se era davvero importante. E Shiryu dovette ammettere la verità.

“No. No, non è il Natale quello importante.”

“No, infatti. Quelle scassa minchia sono il presepe, sfinciuna, pesce, vino, sfinci, scacciu e chi minchia ne può più. Ci si alza alle nove di sera e fuori stanno ancora cantando. Poi mi chiedono perché ammazzo la gente.”

“Non è neanche quello!” ribatté Shiryu, più che altro confuso per aver capito un decimo di quel che aveva detto. Proprio quando cominciava a perdere le staffe, Cancer l’aveva steso con un’uscita insensata. Che a lui pareva perfettamente normale, dalla concentrazione tattica con cui tirava su gli ultimi residui di tabacco prima di arrivare al filtro: “Ah no? E che è?”

“È…”

“No, guarda. Non ho voglia di sentire la tua carola. Ti metterai a parlare come i tordi in chiesa. Se hai capito, và dal vecchio e lasciami andare che ne ho piene le palle.”

“Death Mask…” ribollì il ragazzo, i pugni stretti. Mai nessuno era stato talmente bravo a mandarlo fuori dai gangheri. Death Mask alzò a malapena la faccia, buttando la sigaretta usata giù nella cascata. Un altro modo dei cento modi di ingraziarsi i padroni di casa.

“Guarda che è lassù” gli fece notare, rificcando le mani in tasca. “Io me ne vado.”

Shiryu volse la testa verso l’alto.

Ma quello era il luogo dove…

Si girò di nuovo di scatto, per apostrofare nuovamente Death Mask. Ma quello, ovviamente, se ne era già sparito. Se ne rimase lì qualche minuto con l’amaro in bocca, una sensazione strana e pungente. Faticò, ma tornò con gli occhi alla finestra della capanna, esitando ad avvicinarsi. Non sapeva nemmeno se voleva vedere Shunrei svegliarsi, oppure no. Non sapeva più molte cose. Le finestre ora erano scure, e lui distolse lo sguardo, forse intuendo qualcosa.

Non si voltò più verso l’alto. Rimase fermo.

“Shiryu…”

Conosceva quella voce, ovviamente. Sospirò, a lungo, abbassando il capo.

Non sapeva se ce l’avrebbe fatta a reggere sino in fondo. In un certo senso, poteva essere più crudele degli altri.

“Shiryu. Figliolo. Guarda in alto, o non mi vedrai.”

“Maestro…”

Il sorriso di Doko sapeva essere molto confortante. Aveva occhi grandi e saggi, proprio di quelli che sapevano accompagnare i sorrisi. Shiryu sentì quasi le lacrime salirgli agli occhi, riconoscendoli nel viso giovane di un ragazzo poco più grande di lui, ma dall’animo secolare. Rese grazie, nel pensiero e a voce alta, per la sua presenza. E fece per inchinarsi.

“No, Shiryu, avanti” sorrise comunque, il vecchio maestro, il mantello che sventolava nel vento della cascata. Tutti i suoi abiti erano spinti dal vento, ma il cappello di paglia, fido compagno, rimaneva fermo sulla sua testa, trattenuto per sicurezza da una cordicella. Con quel grande copricapo in testa, sempre uguale, sdrucito dagli anni eppure incrollabile, era più che mai lui.

Shiryu annuì, decidendosi ad avvicinarsi.

“Maestro… non mi sarei mai aspettato…”

“No? Davvero, Shiryu?” saltellò giù con enorme disinvoltura, il vecchio tornato giovane. “E perché no?”

“Se avessi saputo prima che i tre spiriti che sarebbero giunti eravate…” esitò, appena, ma poi proseguì: “…voi… allora avrei pensato a voi, per primo. Il mio venerabile maestro, compagno del mio passato…”

“Sarò anche compagno del tuo futuro, Shiryu, se me lo permetterai.” Brillavano allegri, gli occhi vecchi, sul viso luminoso di un giovane. Shiryu non trovò subito le parole per rispondere. E sì, sentiva che quella era la scelta giusta, che dopo il piccolo viaggio che aveva fatto solo con lui avrebbe potuto fare lo sforzo di proseguire. Ora era chiaro.

“Sono pronto, allora. Per tutto ciò che volete mostrarmi.”

“Bene. Ti mostrerò un gioco di prestigio, allora.”

“Che cosa?” Shiryu sbatté gli occhi verdi, una, due volte, discretamente sorpreso. Non disse niente neppure quando il mantellone lo avvolse, coprendolo sino ai piedi. Non era proprio quello che si aspettava.

“Uno, due, tre.”

E fu luce.

Una mattina abbagliante.

“Maestro!” gridò Shiryu, sorpreso dalla luce improvvisa.

“Niente panico, figliolo. O cadremo dal tetto.”

Il valoroso Dragone s’immobilizzò. E non aveva tutti i torti. Avvertì con chiarezza di trovarsi molto, molto in alto.

“Non guardare ancora giù. O sì. Ora sì.”

Shiryu aprì gli occhi, con uno sbuffo appena nervoso. Il maestro non era tipo da tirargli simili giochetti, non lo era mai stato. O la situazione lo divertiva particolarmente, o non c’era nessun rischio effettivo. Si decise a guardare in basso.

“Ma questa città… non la conosco.”

“Io ci sono stato, invece. Un po’ di tempo fa. È Hong Kong.”

“Hong Kong?” sillabò lui, sbalordito. “È una vera metropoli…”

“La tua Tokyo la batte ancora, tuttavia. Quasi del doppio. Vedi qualcuno di famigliare, laggiù? O preferisci che scendiamo?”

“Scendiamo, maestro.”

Dolcemente, Doko lo prese per mano. E Shiryu non seppe come, ma velocemente scesero, non con la velocità dei santi di Atena, ma con quella del sogno, impalpabile e sincopata. Scesero come spiriti attorcigliandosi ai tubi e alle scale di metallo, alle luci al neon e alle decorazioni rosse e verdi, o di un bianco sporco, o di un oro falso, tutto esagerato. La città, contagiata dall’occidentalismo come ogni grande metropoli, era estrema anche in questo.

Il maestro lo precedeva, per le strade affollate, il mantello che sventolava bello largo, nonostante la folla, e il cappello sempre fedelmente calcato in testa. Shiryu lo seguiva, i piedi nudi sull’asfalto. Non sentiva né dolore, né duro, né freddo. Erano due fantasmi che attraversavano la corrente.

“Non prendere male quello che stai per vedere, Shiryu. Ma è importante che tu lo sappia.”

Shiryu non fece in tempo a domandare che cosa, perché non la riconobbe, a colpo d’occhio.

Era più alta. Aveva i capelli sciolti, e più corti. Stava in piedi davanti a una vetrina. Non sorrideva. In realtà, era abbastanza assente.

La folla le scorreva attorno senza sfiorarla. A Shiryu pareva che fosse l’unica persona ferma, in quel marasma, come un sasso in mezzo al corso del fiume.

Lentamente, la ragazza si girò, distogliendo lo sguardo dalla vetrina. Controllò l’orologio. Shiryu riconobbe quegli occhi che aveva visto grandi e umidi, e stretti nelle risate.

Doko rimaneva fermo in piedi, placidamente, senza guardare l’allievo. Dato che non parlava, parlò per primo, stringendosi nel mantello:

“Sai? Credo sia ancora sola.”

Shiryu riuscì a malapena ad annuire. Non volle aggiungere altro.

L’antico maestro incrociò le braccia sul petto e proseguì, come doveva fare:

“Posso mostrarti Goro-ho, ma hai guardato per un attimo attraverso la finestra, mentre io ero già lì, non è vero?”

“Sì.”

“Che cos’hai visto?”

“Era deserto.”

“E impolverato. E marcente. È vuoto. Se n’è andata.”

“Sì. Sì, lo so.”

“E tu?” domandò più delicatamente, come se fosse ancora bambino, mentre Shunrei se ne andava, affrettando i passi verso un punto che sembrava privo di senso, nella folla di persone. “Pensi di essere con lei?”

“No” sillabò appena, il Dragone. Raddrizzò le spalle, lo sguardo serio, ma senza orgoglio. “Il Santuario mi avrà chiamato a sé.”

Doko sorrise di nuovo, paziente, lo sguardo mite. Ancora non allungava un braccio di conforto, nonostante avvertisse chiaramente qualcosa, seppur di infinitamente piccolo, spezzarsi in profondità del suo allievo. Il suo allievo che non parlava mai di Shunrei, ma i cui occhi la guardavano a lungo, anche quando nemmeno la luce li raggiungeva.

“Sei un discepolo che mi ha sempre reso fiero, Shiryu. Hai già capito ogni cosa.”

“Non ci vuole molto, in verità.” Dragone chinò il capo, molto oltre l’umiltà, in quel momento. “È il mio dovere. E l’avete detto voi. Sembra ancora sola.”

“Non capisci? Non è con nessun altro.”

“Piuttosto, preferirei.”

“Shiryu, Shiryu. Che sciocchezza.” Nonostante l’aria dolce, qualcosa nella voce di Doko faceva intuire molto di più di un affettuoso rimprovero. Shiryu lo guardò. Era più fermo che mai, con quelle braccia incrociate. In quel momento, nel suo corpo svelto e giovane, si ergeva solido come una montagna che sbarra il passo a migliaia di armate. “Non lo preferiresti affatto. Nonostante la lontananza ed il tempo, certe cose non passano. Non dire mai che preferiresti la persona amata felice con qualcun altro, che infelice con te. È un sentimento disonesto.”

“Parlate come se sapeste.”

Un sorriso vecchio, mentre gli occhi tornavano giovani. Ogni cambio di espressione sul viso di Doko catturava Shiryu in un sogno dentro un sogno. Ed era stato Doko a parlare di sogni, davanti alle torce accese nella buia, nera notte di Hades, mentre cieco Shiryu rantolava sulle scale per raggiungere l’amato maestro che andava a morire per mano di Shion.

Doko sapeva.

“Vieni. Desidererai vedere altro.”

“No.”

“Desidererai vedere come sei.” Gli tese la mano, incoraggiante. “Sei cresciuto anche tu, Shiryu. Ti sei fatto un uomo alto, distinto, amato dalle genti. Presiedi la Casa della Bilancia, quando sono assente, e la presiederai quando il mio cuore cesserà di battere per cause naturali, se Athena lo vuole; ed addestri giovani generazioni tramandando le nostre storie, le vostre storie, perché siano pronti ad affrontare nuove guerre, o, come Atena auspica, la sempiterna pace. Non vuoi vedere?”

“No… no.”

“No?”

“No. Tutto questo mi è bastato.”

Lasciò cadere la mano, morbidamente, in quella ruvida di Doko; il maestro si fermò, già in procinto di partire, stupito. Poi lentamente gli sorrise – forse il sorriso più sincero sino a quel momento – e Shiryu finalmente gli sorrise di rimando, anche se debolmente.

“Ho visto abbastanza.”

“Molto bene. Non ti chiederò, dunque, se hai compreso.”

“Potete chiedermelo.”

“No. Me lo dimostrerai. Sei un discepolo che mi ha sempre reso fiero, Shiryu. Mi renderai fiero di nuovo.”

“E se facessi la scelta sbagliata, maestro?”

La figura di Doko era così ferma, e così colorata, in mezzo alla folla. Adesso erano loro due, il sasso in mezzo al fiume. Non si pronunciò, ma non abbandonò l’espressione serena.

“Torna a dormire, Shiryu.”

Un groppo in gola, Shiryu sentì che il sogno stava per finire. La folla si stava dileguando. Sarebbe tornato il buio, non più quello blu di Grecia, né l’argentato candore di Goro-ho. E al risveglio, cos’avrebbe fatto?

Chiuse gli occhi, per non vedere il maestro svanire assieme a tutto il resto.

Zai jian, roshi.”

Zai jian.

 

 

 

 

 

The Carol

 

E così, la prima carola è quella di Shiryu. Domandona: che ne dite?
Mi sono cimentata con una serie di personaggi affatto famigliari, per me, per cui spero che apprezzerete lo stesso. Ho cercato di fare un po’ ordine nella mia testa e di lanciarmi. Non è stato facilissimo.

È chiaro che come fan ho preferenze smaccate per un personaggio, un altro o un altro ancora; altri mi riescono facili da muovere, altri meno. In questo primo Carol non compare nessuno dei miei prediletti, ma credo che sia meglio così: un po’ perché mi sentivo tipo in erasmus, un po’ perché è stata una bella sfida, un po’ perché è un cast molto omogeneo e che secondo me, a dispetto delle diversità interne, funziona.

Poi, se devo dire la verità, a me i cocchini di Atena piacciono tutti quanti. ._. *GOLD* …E non è carino, Dokino? <3 E sì, dello shonen ai vago ce lo dovevo pur spruzzare. Owww, l’amore a distanza… ;O;

 

Shinji: Sì, hai visto come lo Spirito Natalizio mi ha permeata? <3 Incredibile, faccio l’albero con anticipo, scrivo le carole, spargo fluffiness. Ho un problema. Sarà stata la nostra playlist.

Himechan: Oooh, che meraviglia! Ma grazie, carissima! *O* Sì, il Carol di per sé fa già quasi strike, speriamo di essere all’altezza del soggetto per distribuire mielosità natalizie a destra e a manca. I bronzini mi aiuteranno. Sono fatti per questo. *C* <3
Kijomi
: Prego. E ora sotto con le tartine. *^* *terrorismo*

Sakura2480: Sì, poveretto, non se lo meritava un colpo così. Ma tu che diresti se ti ficcassero un abete nel mezzo del tuo tempio pagano, eh? Grazie per l’incoraggiamento, spero anche andando avanti continui a piacere. <3

LeFleurDuMal: Saori deve avere un paio di quelle robe. E certo che Ikki ha ragione. Ikki ha sempre ragione. Ma cosa ti lamenti per Seiya? È colpa tua! Ehi, voi, là fuori! é_è Sappiatelo! Il Seiya che scrivo è colpa sua! Sua!

Malu Lani: Gli hint Hyoga/Shun sono la cosa più godibile dell’universo. Ora che lo so, li sfrutterò come un’arma di distruzione di massa! Eccoci qui al capitolo dopo, i tuoi commenti vanno benissimo come sono. *O* Sono dolci!

Regina di Picche: Grazie, tesoro, che bello averti anche qui. Mi fai dei complimentosi, sui personaggi. Cielo, speriamo di tenere sempre botta. Ma sì, oggi di media è il giorno che si fa l’albero, no? Cedi! Cedi! *C*

Pucchyko_girl: No! Fermati! Ci oscureremo in un mondo di melassa! ...OMG il Natale. Scamperemo?

 

 

Vogliate scusarmi per il totale nonsense dei sottotitoli ai capitoli. Sono stata istigata.

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Capitolo 3
*** Il Canto di Pegaso ***


Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

 

 

Capitolo 3. Il Canto di Pegaso

Dove Seiya non ha granché fortuna con le donne.

 

 

 

Forse fu proprio mentre Shiryu smetteva di agitarsi nel sonno che Seiya apriva gli occhi, di botto.

Se fosse stato per empatia con il compagno nella stanza a fianco o perché davvero aveva avvertito qualcosa di strano, non seppe mai dirlo: certo fu che eretto, sveglio, si accorse subito della presenza che oscurava la finestra.

Non c’erano luna né stelle in quella nuvolosa notte di Vigilia, ma i contorni della sagoma alla finestra erano comunque netti, solidi, nel buio. Seiya li riconobbe perché per molti anni si era svegliato di soprassalto a quella maniera, e talvolta con quell’identico buio a circondarlo. Motivo per cui si rigirò immediatamente, sotterrandosi nelle coperte sin sopra i capelli, in un riflesso automatico:

“Noo... Marin nooo… ti prego, altri cinque minuti…”

“In piedi, Seiya.”

“No, gli allenamenti a notte fonda no!”

“Seiya! In piedi!”

Se era un sogno, era molto più che vivido. Pareva proprio la voce di Marin.

Autoritaria come Marin. Perentoria come Marin. Imperiosa come Marin.

“In piedi, ho detto!” Le coperte furono strappate di dosso a Seiya, che, con un tonfo, si ritrovò proprio ai piedi dell’intruso. Che era davvero Marin.

“Ma... Ma… Marin, sei davvero tu! Che cosa…?”

“Siamo già abbastanza in ritardo, Seiya. Muoviti.”

“Eh…?” Si massaggiò la testa, il ragazzo, strappato dal sonno in maniera sin troppo brutale. Cercò, come al solito, occhi che erano inespressivi vuoti di metallo, e non poteva certo indovinarne l’espressione. Ma si era abituato a farlo, tanto che per lui non era nemmeno più strano: aggrottò le sopracciglia, così, sperando di scorgere pietà anche in una maschera: “Ma non dobbiamo allenarci, vero?”

“No.”

“Ah, per fortuna.”

“Mi seguirai, non è vero, Seiya?”

“Beh, avrai avuto un buon motivo…” si affrettava già Seiya, che in realtà dalla maestra non era abituato a ricevere dolci domande, quanto più ordini e scappellotti sulla nuca. Un saltello, ed era entrato dentro i calzoni. “…per venirmi a svegliare a quest’ora. No?”

Si scosse di dosso il sonno, scuotendo la testa spettinata.

Marin, dietro di lui, impenetrabile, le braccia incrociate, parve apprezzare la sua solerzia:

“Mh!”

“Dove andiamo?”

“C’è un piccolo viaggio, che dovrai affrontare, Seiya.”

“Un viaggio? Ma non posso, domani…”

“Tornerai entro stanotte. Non temere.”

Un sospiro sconsolato, e il santo di Pegaso, vestito e presentabile – si era cambiato frettolosamente in un angolo della stanza – raggiunse la maestra, le mani in tasca. Marin adottò da subito un buon passo, aprendo la porta e precedendolo lungo il corridoio.

Tutto era silenzio. Seiya gettò un’occhiata distratta alla porta di Shiryu: chissà se la notte gli avrebbe portato consiglio.

Lui seguiva la giovane donna davanti a lui, non curandosi di reprimere, ogni tanto, uno sbadiglio. Già pensava a quale improbabile missione avrebbe dovuto affrontare. E naturalmente sperava davvero di tornare prima che gli altri si svegliassero: la gara a chi arrivava prima sotto l’albero era qualcosa che assolutamente non voleva perdersi.

“Ti devo avvisare, Seiya, su chi incontrerai lungo il tuo cammino.”

Erano fuori. Il ragazzo si ricosse, con un brivido nel freddo della sera, lo sguardo sui capelli rossi di Marin. Nel buio, assumevano le sfumature più strane. Si fece attento, dacché da quando erano usciti, i passi della donna santo conducevano giù per la scalinata delle Dodici Case, e si apprestavano ad attraversare la prima senza avvisarne il custode, Aphrodite dei Pesci. Ma con somma sorpresa di Seiya, non vi era che vuoto; le torce ardevano per rischiarare il buio, la casa era abitata e presieduta, ma un silenzio quasi innaturale vi regnava.

“Chi incontrerò? Quali nemici?”

“Nemici?” La voce di Marin rimbombava appena, da dietro la maschera. Oltrepassarono il Tempio, seguendo le scale per raggiungerne altri. Per qualche motivo, Seiya intuì, dentro di sé, che si sarebbero fermati presto. “Per te nessun nemico, questa volta, da affrontare, Seiya. Solo amici.”

“Affrontare… i miei amici?”

“Farti guidare da loro. Non temere, sarai presto indietro. Il tempo di un sogno.”

Ecco che come lo disse, Seiya si accorse della distanza troppo esigua tra una Casa e l’altra: ci stavano mettendo troppo poco per affrontare il lungo percorso che collegava i templi. Eppure davanti a sé la distesa di scalini era sterminata come sempre. Rimase in silenzio, quindi.

“Lo Spirito del Natale Passato non fa parte del tuo passato, forse. Ma c’è sempre stato.”

“Che cosa?”

Credendo di non aver sentito bene, Seiya si avvicinò, sbattendo gli occhi.

“Lo Spirito del Natale Presente” proseguì lei, marciando “è il miglior consigliere. Ascoltalo con grande attenzione.”

Un tetto, sopra la loro testa. Una nuova casa oltrepassata. Seiya si rese conto con grande meraviglia di non sapere più dove si trovasse. Quale tempio dello Zodiaco aveva appena sorpassato? Quale lo attendeva?

“Lo Spirito del Natale Futuro ha occhi indomiti, ma che vedono molto lontano.”

Qui Marin si fermò, il vento che le agitava furiosamente i capelli. Seiya si accorse di non sentire freddo come avrebbe dovuto. Incespicò, un passo avanti, stupito, e i suoi passi terminarono sui marmi della Nona Casa dello Zodiaco.

“Marin…!”

“Ascolta questo terzo spirito, Seiya, se possibile, con ancor maggiore attenzione. Lui ti vuole bene. Lui ti consiglierà nel modo giusto.”

“Marin, aspetta! Ma questo è…?”

“Addio.”

“Marin! Marin!”

Si ritrovò solo.

Rimase ad ascoltare l’eco fra le colonne, fermo. Senza nessuno lì con lui.

Passarono un paio di minuti, o almeno così gli parve. Mosse qualche passo, come intontito. Si guardò attorno come se non avesse mai visto quel posto prima d’ora; e invece lo conosceva, ah, conosceva quei muri antichi su cui ora scorreva la mano, pure nell’aria surreale che lo circondava. Vagò minuti e minuti ancora, a quel modo, come si cerca l’uscita di un labirinto, il palmo sempre appoggiato alla parete. Finché incontrò una crepa e poi un dislivello, e muro che si sbriciolava sotto le dita. Alzò lo sguardo, intuendo di cosa si trattasse.

L’iscrizione.

Giovani cavalieri…

“Seiya di Pegasus. Sei infine giunto.”

“Questa voce! Tu sei…” Il giovane santo di bronzo si voltò, incredulo. L’uomo che l’aveva

mille volte guidato, come pura stella, in passato, era lì davanti a lui, in carne ed ossa. E sorrideva, benevolo. Come! Si riferiva a lui, Marin, nelle parole che gli aveva rivolto prima di sparire? Colui che è sempre stato, sicuramente non poteva essere che quell’uomo: il cavaliere che solo con il suo spirito si era fatto sprono di tutti i guerrieri, baluardo della verità. Seiya rimase fermo dov’era, riuscendo solo a balbettare: “Aioros… Aioros di Sagitter!”

Il sorriso si fece luminoso, l’uomo fece alcuni passi. Gli mise una mano sulla spalla.

“Bentrovato, Seiya.”

“Aioros, non sai… che cosa significhi, per me, essere qui con te, in questa notte. Oh, ti ringrazio di essere qui. Marin mi ha detto che dovrò affrontare…”

“Un viaggio, giovane Seiya. Ma è così. Seguimi sino ai piedi della scalinata dello Zodiaco.”

“Mi accompagnerai tu?”

“Certamente. E chi altri?”

“È un lungo tratto. Come potrò ritornare in tempo? Marin mi ha detto che entro domattina io sarò di ritorno.”

A queste parole, Aioros non fece che sorridere. In una maniera splendida.

“È giusto, ciò che dici. Perciò prendi la mia mano. Non ti farò attendere oltre.”

Incredulo, Seiya allungò le dita a sfiorare il palmo ruvido del guerriero più anziano. Lo fece con riserbo, con rispetto. Ma Aioros lo prese forte, protettivo e accogliente, e lo trascinò con sé come se fosse stoffa, un lembo di mantello nel vento. Scomparirono tra le colonne tagliate dalla luce delle torce.

“Aioros! Che cosa…?”

“Guarda. Riconosci questo luogo?”

Non erano nei corridoi del Tempio del Sagittario. Le colonne si erano fatte portici, la sabbia dell’arena volava radente al suolo freddo. Seiya, molto più giovane e molto più malconcio di com’era in quel momento – lì ad occhi spalancati per mano ad Aioros – se ne stava in un angolo a strappare la poca erba sopravvissuta ai margini del campo. Aveva un’aria stizzosa e arrabbiata, e non interrompeva nemmeno per un attimo il movimento brusco delle mani, sebbene i fili freddi e taglienti le stessero graffiando.

“Seiya! Seiya!”

Una nuova figura lo raggiunse, proprio davanti agli occhi dei due viaggiatori.

Seiya non tentò niente di niente. Stette zitto e basta, non osando quasi muoversi.

Marin, anch’essa più giovane – dèi, quasi bambina – raggiungeva il bambino più piccolo nella sera fredda di Atene. Un inverno di molti, molti anni prima.

“Che cosa stai facendo?”

“Niente!”

“Sei arrabbiato.”

“Non sono arrabbiato!”

“Seiya! Smettila di fare così!”

“Un anno. Un anno fa ero all’orfanotrofio con mia sorella, e i miei amici. Era un orfanotrofio, ma almeno ci volevano bene!”

“Ascoltami…”

“Abbiamo solo addobbato l’albero e mangiato tutti assieme. Perché noi queste cose non le possiamo fare? Perché non possiamo festeggiare il Natale?”

“Te l’ho già spiegato.” Marin cercava di tenere un tono pacato, che Seiya conosceva molto bene. “Devi dimenticare la vita che hai condotto sin’ora. Non è niente di simile a quello che troverai in questi anni. È una vita dura, diversa. È inutile che io ti faccia delle illusioni, come se tu fossi ancora a casa: comportati da futuro cavaliere, e rientra. Devi dormire, o domani sarai a pezzi.”

“Non voglio dormire!”

“Seiya! Fai i capricci, allora?”

“No! Lasciami in pace!” gridò, allora, una voce che rimbalzò per tutta l’arena. Il bambino gettò per terra l’erba strappata e corse via, lontano. Marin rimase ferma a guardarlo allontanarsi; l’avrebbe ritrovato solo la mattina dopo, addormentato su un albero. Decisamente scomodo, per riposarsi.

“Ebbene?” scandì una voce profonda accanto a Seiya, che era rimasto imbambolato a guardare la scena.

“Ah” si riscosse lui. Lasciò piano la presa al polso forte di Aioros, che non si era reso conto di continuare a stringere. Arrossì appena, come colto in fallo: “Ero solo un bambino! Era normale che facessi i capricci. Adesso non li farei più.”

Rise di cuore, Sagitter. Una risata di pieno petto, che incoraggiò Seiya ad andare avanti:

“Davvero. Posso giurarlo.”

“Tu, Pegasus…” Seiya era assolutamente, sconfinatamente ammirato dal portamento che Aioros teneva in ogni suo gesto. Ora s’incamminava lento, verso i gradoni di pietra, il mantello fluttuante. Nessuna armatura a ricoprirlo, solo una tunica, eppure risplendeva come oro, nella notte. Lo seguì, confuso, salendo un paio di gradoni tra invisibili spettatori. “Sei un santo pieno di valore. Ottimi sentimenti albergano il tuo cuore. Non ti ho voluto mostrare questo Natale passato per rimproverarti.”

“No?”

“No.” Gli sorrise di nuovo, quasi con tenerezza. Come si sorride al fratello minore che, faccia spaurita e biscotti rubati in mano, si aspetta una punizione tremenda. “Dimmi, coraggio: perché eri arrabbiato?”

“Perché…” Il ragazzo ci pensò su, stranito. Come faceva a ricordarselo? “Non lo so. Perché…”

“Forse” suggerì gentilmente lo spirito, contemplando i gradoni dell’arena con grande serietà. Scelse un percorso, salendo ancora, facendosi seguire. “Forse perché non avevi ricevuto nessun regalo.”

“No! Che sciocchezza. Nemmeno all’orfanotrofio ricevevamo regali. Eravamo troppi.”

“Forse, allora, la giovane Marin era stata troppo brusca.”

“No. No, era stata anche più gentile del solito, quella sera.” Seiya si grattò la nuca, imbarazzato. Cercava di stare dietro ad Aioros. “Ho preso delle sberle in faccia per molto meno.”

“Dunque, vediamo” procedette spedito l’altro, con la disinvoltura con cui qualcuno molto prima di lui doveva aver camminato sulle acque. Pegasus era internamente sconvolto dal modo solenne che aveva di farlo. Senza dubbio, lui un giorno avrebbe voluto essere come lui. Assolutamente. “Non era egoismo, dunque: non era per i regali. E non era ingratitudine, poiché sei grato alla tua maestra. Di che cosa si tratta allora?”

“Io…” cercò le parole, il ragazzo più giovane. Era sempre un passo indietro a lui. Non faceva che salire! “Io… ero solo un bambino! Avevo nostalgia di casa!”

Aioros si fermò. Quando si voltò, sorrideva di nuovo.

Un sorriso calmo, pacato, caldo come gli occhi caldi.

“Era questo.”

“Sì… era questo.”

“Il Natale per te è la casa.”

“Lo era. Tanto tempo è passato, da quando… oh, non importa.”

“Per ora, questo è più che sufficiente” gli confidò Aioros di Sagitter, come se fosse un segreto importantissimo. Seiya rimase lì, senza parole, un gradino sotto di lui, guardandolo sorridergli e confidargli segreti che non erano segreti. Aioros risplendeva, come la stella polare. Aioros lo stava guidando verso qualcosa.

“Aioros, tu sei… lo Spirito del Natale Passato?”

“Sì. Avevi bisogno di me, Seiya. Ma ho già fatto quello che dovevo, vedi? Tu hai compreso.”

“Di già? Resta! Sono qui da solo, e non so come tornare indietro!”

“Non sei solo. Qualcuno già ti attende, proprio là, due spalti più in basso. Non farlo attendere.”

“Come? Un altro… spirito?” sussurrò il ragazzino, abbassando la voce. Era incredibile, assurdo e senza un perché. Ma funzionava. Era come aveva detto Marin. Era come nel racconto letto da Shion. Solo, senza i balli sotto il vischio e le carrozze e tutte quelle altre cose da film d’epoca. “Davvero?”

“Sì. Vai da lui. Noi ci rivedremo al tuo risveglio.” Una mano sul capo, gli carezzò i capelli, affettuosamente, come un padre. “Giovane cavaliere della speranza.”

Quasi commosso, Seiya lo guardò svanire. Lo fece così, piano piano, davanti ai suoi occhi. Come un fantasma. Cacciò un sospiro nervoso e incredulo nell’aria, rumorosamente. Si guardò le mani, guardò il cielo nuvoloso, scuro. Si sfogò, sopracciglia corrucciate, ad alta voce:

“Di certo devo stare sognando.”

Stai sognando. Non hai sentito quello che ti ha detto Aioros?”

Pegasus abbassò il capo, quasi senza stupirsi neanche. Poco sotto di lui – esattamente come gli aveva detto lo Spirito del Natale Passato – c’era qualcuno che dimostrava decisamente meno fretta; qualcuno seduto a gambe larghe, imponente e assieme rassicurante. Si apprestò a raggiungerlo subito, incuriosito. Se davvero stava sognando, allora tanto valeva giocare fino in fondo!

“Chi sei?” cercò di rendere la voce il più profonda e scenografica possibile, cercando di imitare la gravità che aveva palpato in Sagitter. Era pur sempre il protagonista. Si sarebbe fatto valere.

“Sono lo Spirito del Natale Presente” tuonò l’altro, battendolo di gran lunga su tutti i fronti: possente e maestoso, Aldebaran del Toro lo aspettava a braccia incrociate. Sulla sua voce, nulla da dire.

“Aldebaran! Sei tu!” Seiya scese gli scalini di buona lena. Faceva piacere incontrare gli amici, anche se solo in sogno. Dimenticò anche all’istante la questione della voce scenografica. “Che piacere vederti!”

“Come stai, Seiya?”

“Non c’è male. Ma devo svegliarmi prima di tutti per correre a vedere i regali.”

“Ci tieni tanto, ai regali?”

“A dire il vero no. È solo bello correre per il corridoio spintonando Hyoga.”

In verità, non era tanto sicuro che Hyoga si sarebbe lanciato con la foga di un tempo a rotolarsi con lui sul parquet che sbucciava le ginocchia. Hyoga non faceva più nulla con la foga di un tempo, quando era piccolo, vivace e con la faccia di una polpetta di riso imbronciata. Forse solo arrossire di botto, quello sì. Ma Seiya doveva essere veramente, veramente bravo a trovare la cosa giusta da dire, e qualche volta succedeva persino per caso. Accantonò da parte quei pensieri, per il momento, comunque.

“Allora… sto sognando, vero?”

“Mh-mh.”

Seiya guardò Aldebaran. Rimaneva fisso nel suo proposito di acquisire, un giorno, fra qualche anno – contava di metterci poco – la disinvolta solennità di Aioros. Era perfetto, era sontuoso, era greco. Dalla curva del pollice da discobolo alla punta dei riccioli a forcipe. Ma Aldebaran, per Atena: Aldebaran era maestoso. Avrebbe voluto assomigliare anche ad Aldebaran, un giorno.

“Non guardare me, Seiya.” Esibì uno sguardo più ironico di quanto non volesse lasciar trasparire, il saggio Toro. Senza muovere nulla a parte i muscoli del collo – Seiya ammirò anche quelli, ambendo ad averne di simili, un giorno, sempre molto prossimo, naturalmente – indicò verso il centro dell’arena. Pegasus eseguì, spostando lo sguardo, obbediente.

“Aspettiamo qualcuno?”

“Sì. Qualcuno che dovresti conoscere. Qui comincia il difficile, Seiya di Pegasus. Il tuo Natale Presente non è un granché.” Aldebaran non chinò il capo, ma lo guardò negli occhi, come solo lui sapeva fare. Sensibile e schietto, assieme: “Hai dei conti in sospeso, lo sai?”

“Dei conti in sospeso? Io? Con chi?”

“Ah, dovresti dirmelo tu.”

“Nessun nemico ho lasciato impunito!”

“No, certo che no.”

Seiya rimase perplesso. Ci pensò. Ricaricò:

“E nessun amico lasciato senza soccorso!”

“Oh, per Atena, nemmeno. Ovvio che no.”

Più che perplesso. Sbatté gli occhi:
“E… quindi?”

“Quindi zitto e guarda.”

Spiazzato dalla gaia tranquillità con cui aveva pronunciato quelle parole, Seiya tacque. Non trascorse molto tempo, ad ogni modo, prima che la risposta ai suoi quesiti si presentasse: una donna era venuta a prenderlo nel sogno, una donna venne a spezzarlo a metà. Il santo poggiò le mani, serio, sulle ginocchia, quando riconobbe Shaina e lo scintillio feroce della maschera alla luce delle torce: erano più fiammeggianti che mai, le torce, nel vento di dicembre. Camminava nella sua solita maniera, le curve dei fianchi estremamente pronunciate, nei passi. Teneva il viso appena chino. Sembrava fosse venuta lì senza uno scopo. Non si accorse di loro.

“Non ci può vedere, vero?”

“No.”

Altro silenzio. Seiya cercava di capire che cosa, che cosa si volesse da lui, questa volta. Aioros aveva detto che per il momento lui aveva compreso – non gli era ben chiaro che cosa, ma di Aioros doveva fidarsi per forza – e forse anche Aldebaran intendeva fargli capire qualcosa. Naturalmente, gli era subito stato chiaro il significato di conto in sospeso, non appena aveva riconosciuto la donna nella notte. Le frenetiche battaglie che avevano condotto dagli abissi marini agli inferi i santi di bronzo non avevano lasciato né spazio né tempo a quella piccola, grande questione. Questa spina dal sentimento indefinibile. Una donna che gli aveva rivolto parole d’amore.

Lentamente come aveva camminato sin lì, Shaina alzò il viso, senza curarsi dei due seduti immobili sugli spalti. Per lei non esistevano.

“Che cosa ci fa qui a quest’ora?”

“Quello che fa ogni donna innamorata, Seiya” rispose pacatamente Aldebaran, confermando solamente i suoi pensieri. Tuttavia, Seiya non si aspettava tanto. Strinse le mani sulle ginocchia. “Non riesce a dormire, sapendoti qui. Non riesce a non pensarti. La sua testa vortica di domande a cui nessuno ha dato risposta. Certo, il silenzio di un uomo genera di per sé una risposta; ma talmente vaga, talmente ambigua che la poveretta vaga in continuazione da amare certezze ad altrettanto amare speranze. E questo la tormenta.”

Seiya osservò ogni cosa.

Osservò le mani stringersi a pugno e il viso restare fermo in direzione della Tredicesima Casa, tanto più in alto, tanto più lontano.

Osservò la maschera strapparsi, le lacrime scorrere e l’espressione di un viso dolce trasformarsi in rabbia e poi frustrazione e generare altre lacrime.

Aldebaran, invece, per riserbo, tenne gli occhi chiusi. Anche se era solo uno spirito.

“Aldebaran… non serve che me le fai vedere, queste cose. Io… lo so.”

“Non mi sembra, Seiya. O almeno, sì. Le sai. Ma vederle è un’altra cosa.”

“Sì. Credo di sì. Mi dispiace. Mi sento così desolato. Non so cosa fare.”

“Non sai quali sono i tuoi sentimenti? Basterebbe sapere questa piccola cosa, per risolvere tutto.” Aldebaran riaprì gli occhi su di lui, mentre una maschera cadeva a terra, violentemente, cozzando contro la terra dura. Seiya alternava inquieto gli occhi da lui a lei, muto. “Basterebbe davvero. Decidi una risposta per quella ragazza, Seiya. E dagliela. Qualsiasi risposta, che rispecchi quello che pensi. Qualsiasi risposta; ma dagliela.”

“Io…” Pegasus abbassò lo sguardo, per non guardare più nessuno dei sue. I rumori che avvertiva, fisici, forti, lo turbavano nel profondo. Sapeva che in quello stesso momento, mentre lui dormiva nel suo letto, nell’arena deserta risuonavano acuti i singhiozzi, e forte la terra raspata. Non lo immaginava. Non lo aveva mai immaginato, e questo lo colpì. Era vero quello che diceva Aldebaran: sapere non è la stessa cosa che vedere. Deglutì. “Io credo di essere ancora troppo confuso, da quello che Shaina mi ha detto. Io non lo capisco. Non capisco lei. Io… forse sono troppo giovane, per queste cose. Troppo inesperto. Non ci penso. Non voglio spezzarle il cuore. Non voglio neppure illuderla. Non so che cosa fare.”

“Ma questa” sorrise Aldebaran, fiero nella notte. “Questa è già un’ottima risposta.”

“…che cosa? Che cosa dici, Aldebaran? Non potrei dirle una cosa del genere!”

“Potresti eccome. È un buon inizio.”

“Mi ucciderebbe!”

Rise, e le risate tonanti coprirono i singhiozzi, che come avvertendole diminuirono. Seiya scorse una schiena scossa appena da qualche singulto. Poi distolse lo sguardo. Erano come lampi di visione. Questa parte del sogno si stava facendo confusa, e non capiva perché. Era davvero come in quei sogni in cui le immagini si sovrappongono. Dov’era Shaina? Aldebaran sorrideva.

“Non ti ucciderà affatto. Avrà una risposta, che placherà i suoi tormenti. Cesserà di sentirsi ignorata. Sentirà dalle tue labbra la tua confusione e sarà disposta a capirla. Quantomeno saprà cosa provi, e cesserà di sentire il tuo silenzio come un peso. Parlale, Seiya. Primo passo per diventare un uomo. Mh?”

“Aldebaran… non so se ne sono in grado…” Cominciava a girargli la testa. Il ragazzino se la prese tra le mani, cercando di rimettere a fuoco qualcosa, qualsiasi cosa. Andavano bene anche i gradoni dell’arena. “Non so se ne sono…”

“L’indecisione non è propria di un cavaliere: farai bene ad esserne in grado, Seiya. Altrimenti non sai che cosa ti aspetta.”

“Che… che cosa?”

Alzò la testa, e tutto vorticò.

Tutto, di colpo.

“…cosa mi aspetta?” domandò, tuttavia, sforzandosi, col presentimento che fosse importante.

“Ah, questo… non è compito mio, mostrartelo.”

E sul sorriso di Aldebaran scese il nero.

Un nero profondo, in cui quasi ronzava l’eco di tutto quello che era stato.

Seiya rimase come incosciente, come se il sogno si fosse interrotto, e ne provò una grande angoscia, nei pochi, confusi secondi di niente. Sentiva di aver smarrito la parte importante. Marin gli aveva detto: ascolta il terzo degli spiriti con più attenzione di tutti…

Urla e grida di folla lo sovrastarono, e le sue palpebre si spalancarono.

Alzò il capo di scatto, un dolore circolare alle tempie, come quando il sonno prende per pochi istanti in posizione eretta: il suo collo si era mosso automaticamente all’indietro, svegliandolo di botto. Spalancò gli occhi su un pubblico sterminato, in una mattina tersa d’inverno. Ansimò, e il suo fiato creò vapore. Accanto a lui, uomini delle età più diverse vociavano grida d’incitamento. Sveglio, incurante del dolore alle tempie, si alzò in piedi sulle gradinate per scorgere il combattimento che si stava svolgendo sul campo, e trasalì: quello era lui! Il cuore gli martellò in gola ad un ritmo fortissimo: non riusciva a vedersi bene, da quella distanza. Era combattuto da una curiosità feroce e l’assurdo desiderio di non volere vedersi affatto.

“Bensvegliato. Usciamo da questa folla.”

Una mano lo prese per il polso. Con sua grande sorpresa si girò per vedere chi lo stava trascinando con sé, ma nella confusione non riusciva nemmeno a vederlo, nel rumore delle ovazioni scatenate non era riuscito a riconoscere la voce. Pensò freneticamente, quasi con disperazione: aveva bisogno di un viso amico sopra ogni altra cosa, perché l’angoscia che gli era nata in petto col buio lo mordeva cieca allo stomaco.

Nessun nemico, questa volta, da affrontare, Seiya. Solo amici.

Lo Spirito del Natale Futuro ha occhi indomiti, ma che vedono molto lontano.

Il batticuore aumentò. Spropositatamente.

Poteva sbagliarsi, ma…

Lui ti vuole bene. Lui ti consiglierà nel modo giusto.

“Aioria!” gridò, più forte che poteva.

Si morse le labbra, chiudendo gli occhi mentre veniva strattonato fuori dalla folla.

Aveva così bisogno di Aioria. Se non fosse stato lui…. se non fosse stato lui…

“Apri gli occhi, Seiya. Da quando ti fai spaventare da un po’ di spintoni?”

Pegasus riuscì solo ad esibirsi in un’atroce faccia da schiaffi, di fronte a Leo. Vergogna: con un sorriso divertito, il suo senpai lo canzonava. Con un affetto senza pari.

“Aioria! Per fortuna sei tu!”

Per la prima volta da quando era un moccioso, Seiya sentì il distinto bisogno di buttarsi fra le braccia di qualcuno. Non lo fece solo perché non se lo sarebbe mai perdonato per tutta la vita.

Aioria, il forte, generoso Aioria, però, scintillò gli occhi verdi, alla sua espressione smarrita, e senza abbandonare il sorriso sicuro gli diede una stretta forte e affettuosa alla spalla. Seiya tirò su con il naso e si sentì rinfrancato. Quella era bastata.

“Animo, Seiya. Non la senti tutta questa gente? È qui per te!”

“Per me?”

“Guarda. Questo è quello che ti attende per un Natale futuro. Molto, molto futuro.”

Pegaso abbagliava, nel sole scintillante. Era tutt’uno con il cielo. Volava.

Seiya tacque vedendo quell’uomo alto e slanciato piegare sotto colpi puliti un avversario di grande forza. Riconobbe anche quell’avversario, i capelli lunghi e neri saettare nell’aria come lingue di drago. Sentì l’aria vibrare dei loro colpi, nitida e forte, e vide Dragone cadere. Per un millesimo di secondo.

“Non ci posso credere.”

“È stato un lungo scontro amichevole. Ma alla fine hai vinto tu.”

“Quello… non…”

“Shhht. Guarda.”

Shiryu!” scandì il vincitore, tendendo una mano forte all’altro. Le grida festose risuonavano per tutta l’arena. “Grande prova.”

“Ti ringrazio, Seiya. Ma hai vinto tu.”

“Per un soffio” ammiccò quello, un caldo sorriso. Shiryu ricambiò, appena, rimettendosi in piedi con grande eleganza. Lontano, Seiya, accanto alla figura rassicurante e salda di Aioria – dea, per fortuna non lasciava la presa sulla sua spalla – non poté fare a meno di notare quanto fosse diventato alto. Rispetto a quel giorno, ovviamente. Ed entrambi i contendenti si guardavano negli occhi, stringendosi la mano, alti e belli nella piana bianca dei duelli.

Quella scena possedeva un fascino impagabile. Erano loro e non erano affatto loro. E adesso Seiya vedeva sé stesso mettere una mano sulla spalla di Shiryu e soffiare un saluto troppo rapido, correndo poi di fretta altrove, verso un punto dove teneva fisso lo sguardo.

“Vuoi vedere dove stai andando?”

“Puoi portarmici?”

“Certo. Vieni con me.”

E così, Seiya correva nell’arena che aveva calpestato innumerevoli volte.

Il sole era così forte, l’aria così fredda da sembrare davvero un sogno.

Passarono oltre Shiryu, che non era più Shiryu, e guardava ogni cosa con una malinconia che Seiya non ricordava. Passarono per alberi dal tronco ruvido e colonne diroccate. Calpestarono la brina senza lasciare orme.

Seiya ormai correva, per stare al passo con Aioria, che lo conduceva sicuro e senza esitazioni. Avrebbe davvero, davvero voluto essere come lui. Andava bene anche non avere l’aura principesca di Aioros, o l’imponenza grandiosa di Aldebaran; il cavaliere del Leone, umano più che mai, camminava celando anni di pianti e insicurezze, e contemporaneamente camminava imprimendo tutto sé stesso in ogni passo, come se marchiasse il suolo. Come se non esistesse il tornare indietro.

Seiya la strinse, la mano di Aioria. Neanche fosse dentro un incubo.

“Non sei andato lontano” parlò basso, quasi complice. Sorrise appena, un cenno sbrigativo in avanti. “Guarda là.”

Shaina!

“Che cosa vuoi?”

Il Santo di Pegaso era cresciuto, questo era certo. Membra conosciute si erano irrobustite saldando il corpo di un uomo giovane, più grande, più forte, più uomo. Eppure, l’espressione del volto era irriconoscibile. Gli stessi occhi castani, gli stessi ciuffi ribelli sul viso; ma non avevano niente a che fare con quell’espressione di dolore.

“Shaina, ti prego, fermati! Ascoltami!”

“Te l’ho già detto, Seiya. Vattene. Sono ancora in tempo per ucciderti.”

“Non lo farai.” Questo sembrò farla andare su tutte le furie. “Non così. Shaina, tu devi ascoltarmi. Tu mi fuggi. E tu sai quello che devo dirti. Ti prego…”

“Menzogne. Sono stanca.” Il portamento di Shaina, più bella e altera che mai, era immobile come quello di un serpente in punta. Era una postura di difesa, ma non avrebbe esitato ad attaccare al minimo cenno brusco. Era di pietra. La maschera ancor più minacciosa.

“No! Tu devi credermi, invece!”

“Io non ti devo nulla. E ora vattene.”

Lo schiocco sordo di una porta fu come un colpo inferto in pieno fianco, per Seiya. Si fece più vicino ad Aioria, come a pregarlo di non scomparire. Se fosse scomparso lui, avrebbe smarrito sé stesso, e si sarebbe trovato da solo con quell’altro sé più grande, più adulto, più capace, più orribilmente solo, che si ritrovava a sbattere pugni contro il muro incapace di fare niente con le parole. Aveva provato molte emozioni, nella sua giovane vita, Seiya di Pegasus, ma non era pronto a vedere le lacrime bollenti e amare che sanno scatenare sentimenti del genere. Quello di cui doveva essere preda, in quella mattinata troppo tersa nel futuro, era in grado di deformargli il volto in una maschera di dolore e squassargli il petto, mentre si prendeva la testa fra le mani. Era così irriconoscibile che dovette sussultare, quando Aioria tentò di riscuoterlo.

“A… Aioria.”

Si era smarrito. Recuperò il respiro. Si ricordò di essere vivo e di non trovarsi davvero lì.

“Questa” sancì brevemente Aioria “è solo una possibilità di futuro. Lo sai, vero? Nulla è già stato scritto.”

“Ma… è terribile. Davvero terribile.”

“No. Sei diventato ciò che promettevi di diventare. Un guerriero forte e coraggioso, un vero e proprio faro. Un punto stabile. Solo, non sei stato in grado di conciliare i tuoi sentimenti. I silenzi hanno generato incomprensioni, che hanno rovinato irreparabilmente qualcosa. Quella che stavi guardando prima era una scena che potrebbe avere mille perché e mille soggetti di discussione. Ma quello che risaltava era chiaro: non esisteva fiducia. Non esisteva comprensione.”

Seiya si guardò le mani, senza commentare niente. Gli pareva strano essere lì, ed essere altrove.

Per fortuna, non vedeva più sé stesso. Ma la sua espressione si era stampata a fuoco nella sua mente.

“Questa, ripeto, è solo una delle possibilità che ti si aprono in futuro. Potrebbe darsi che tu non ti innamorerai di Shaina. Forse ti innamorerai di qualchedun’altra. Forse neppure mai lo farai. Ma…” Questo lo disse con profonda autorità, il cipiglio severo. Forse imitava suo fratello. “Non credo proprio.”

“Pe-perché?”

“Perché tu sei troppo simile a me.” In quel momento, qualcosa si sciolse. Qualcosa di molto grosso. Con un nuovo sorriso, abbassando gli occhi per un minuto, Aioria proseguì: “Hai il cuore caldo, sei governato dalle passioni. Troverai l’amore. Ti attanaglierà sin nelle viscere. Ti prenderà e strapperà il cuore e tu non potrai farci proprio niente. È che sei ancora giovane, Seiya. Di questo di sicuro non devi e non puoi rimproverarti. C’è tempo. Ma…”

“Ma? Allora… allora come devo fare? Sai dirmelo, Aioria?”

“Devi essere onesto, devi affrontare i problemi che ti si presentano.”

“Anche quando non so come fare?”

“Va bene anche non sapere come fare. Basta pensarci sopra. Vedrai che qualcosa caverai. Sei un ragazzo in gamba. Ma mai, mai e poi mai ignorare il problema. Mi sono spiegato?”

“Sì. Sì, ti sei spiegato benissimo.” Barcollò, tuttavia, impallidendo appena. Da quando le cose avevano cominciato a vorticare, sotto lo sguardo di Aldebaran, sentiva un gran mal di testa. Anche dall’arena al fitto degli alberi aveva dei vuoti di memoria. Le scene si sovrapponevano.

“Ti sentirai stanco. Vuoi tornare a dormire?”

Seiya alzò gli occhi verso quelli di Aioria.

Si rese conto che da quando l’aveva preso per mano e tratto dalla folla, come suo fratello prima ancora lo aveva fatto scomparire tra le colonne della Nona Casa, era la prima volta che lo guardava per bene. Osservò gli occhi seri e il volto pulito, e lo riconobbe, e si fidò.

Annuì, deciso.

“Ci vediamo al tuo risveglio, allora.” Il cavaliere di Leo sorrise ancora, chiudendo poi placidamente gli occhi. Seiya sentiva che stava cedendo, lasciando che il dolore alle tempie si oscurasse per sprofondare nell’incoscienza. Ora che aveva capito, poteva andare. Ora che aveva compreso, non c’era più niente da rincorrere. Annuì ancora, scoprendo che non riusciva più a parlare.

Poi si riaddormentò.

 

 

 

 

 

The Carol

 

Somme scuse. Non sono riuscita a postare il Terzo Canto entro la mezzanotte di venerdì, come avevo promesso, ma sono stata impegnata più del previsto, oggi. Sono andata ad assistere ad una laurea e mi sono divertita a fare la first lady, quindi potreste avercela con me, ma la laurea era in Ingegneria Elettronica, voglio dire. Sono scusata, direi, dato che sono stata punita con un sacco di circuiti.

Povero Seiya. Non intendevo farla così angst fino a che i personaggi mi hanno fatto ciao ciao con la manina e hanno cominciato a muoversi da soli. Sino ad ora tra l’altro gli Spiriti dei Natali Presenti sono quelli che risollevano l’atmosfera generale, ma!, io vi ho promesso del fluff, ricordate. E fluff sarà. Non v’è dubbio. Abbiate fiducia in me.

 

Kijomi: Tesoro, credo che questo sia stato il commento più lungo che tu abbia mai lasciato in anni e anni di sfaccendata osservatrice di EFP! Me ne bullerò in eterno! *O* Sì, ribilancia il karma. E non sfuggire a Shiryu. È un bilancino sì, eh! <3

Shinji: Gli imbizzarrimenti ci vogliono, dai, senza non saprei più stare. Grazie per i complimenti, non odiare il povero Biscio—Dragone, spucciati tutti gli spucciabili e prosegui dickensianamente nella lettura! *C* Tivvibbì! ;O;

Kagura92: Muwahahahah! Muwahahah! Ebbene sì! Lo ammetto! Mi hanno assoldata tutte quelle infami ditte produttrici di dolciame natalizio! Scherzi a parte, tesoro, è bello riaverti qui. :) Speriamo ti lasci soddisfatta. <3

Pucchyko_girl: Grazie di tutto, felice dell’entusiasmo, felice della coccolosità che traspare. Ma i moniti! Santo cielo, ormai dovresti averlo appurato che lo spam di crack in questa zona non funziona! Tu ci provi, ci provi, ma guarda come io lo spolvero via. *spolver* *C*

BianchiD: Ciao! Arrivano, arrivano tutte, questa ha ritardato ma è stato un caso! *^* Spero proprio che ti piaceranno anche le altre, specie quelle di Shun e Ikki, dunque. Attendiamo! :D

Himechan: LOL, Shura diventerà un idolo pop. O jpop. Hanno sempre quell’aria un po’ depressiva, poveri. Ma vabbè, a parte questo ti ringrazio di nuovo per i complimenti, che sono sempre carinissimi, e ti abbraccio. <3 Alla prossima.

Malu Lani: Oh cielo, non sia quanto mi rassicurino i commenti su Shiryu! non avendolo mai trattao prima sai com’è, c’è l’ansia da prestazione. Questa cosa m’inorgoglisce molto. Per Seiya credo che la faccenda sia un attimo diversa, ma, tutto sommato, speriamo di non aver fatto un pasticcio! *O* Un bacio!

Regina di Picche: Grazie, le tue rassicurazioni sono infinitamente preziose. *O* Come dicevo su, questo era il turno di Seiya, e ahimé, Seiya andrebbe curato per non farlo cadere nello stereotipo classico del raccomandato. O anche tenerlo. Che a me piace. Ma magari fare in modo che sia più facile simpatizzare con lui. XD <3 Attendo pareri!

 

 

 

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Capitolo 4
*** Il Canto della Fenice ***


Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

 

 

Capitolo 4. Il Canto della Fenice

Dove veniamo trascinati nei peggiori bar di Tokyo.

 

 

 

A differenza degli altri, Ikki era già sveglio quando il primo dei suoi visitatori notturni gli fece visita. O almeno così credeva.

Non si era messo ancora niente, addosso, oltre ai pantaloni neri da tuta con cui dormiva: se intendeva fare qualcosa, ancora sembrava rinviare il momento; seduto sul letto con i gomiti appoggiati alle ginocchia, aspirava quasi impercettibilmente, a piccoli sbuffi, dalla sigaretta immobile fra le sue labbra. Era perfettamente fermo. Non aveva bisogno di usare le mani, il filtro stretto tra i denti.

Nessun rumore per minuti e minuti. Poi, un lieve scatto della maniglia, e una figura biancovestita si svelò, lentamente, emergendo dall’oscurità del corridoio. Ikki aggrottò le sopracciglia. Tra tutte le persone che poteva aspettarsi – ed arano tante, in fin dei conti – questa proprio non rientrava nella sua top ten:

“Che ci fai, qui?”

“Ikki” lo rimproverò dolcemente una voce femminile che lui conosceva sin troppo bene. “Stai fumando.”

“Ho aperto la finestra.”

“Non è per quello.”

Ikki squadrò la nuova arrivata da capo a piedi e dai piedi al capo, deciso a non farsi intimidire.

Non la liquidò: stava in guardia, perfettamente deciso a non sottovalutarla. Nessuno l’avrebbe mai detto – e lui ci teneva particolarmente che non si sapesse – ma Phoenix non avrebbe avuto esitazioni ad indicarla come il suo più acerrimo nemico. La sua nemesi numero uno.

Poiché lui era tipo che non amava le regole, e Lei, al momento, era la Regola. E una Regola a cui doveva sottostare.

Oltretutto, era una Regola che vestiva come una bomboniera.

“Ikki, suvvia, spegni quella cosa” intimò Saori, infatti, dolcissima. I suoi grandi occhi lo guardavano limpidi, senza sfumatura di rimprovero. “Il pontefice Shion si arrabbierà.”

“Sai che m’importa” borbottò quello. Ma la spense, nel posacenere sul comodino. L’aura di Atena lo stava soverchiando. Maledizione. Troppo rosa tutto in una volta. “Allora? Che vuoi?”

Saori sorrise, per niente scoraggiata dal fatto che le si rivolgesse apertamente usando il tu. Da quando quei ragazzi erano diventati i suoi guerrieri e la sua luce, poco le importava, in verità, delle distinzioni formali. Inoltre, sapeva che non reagendo affatto Ikki di Phoenix si sarebbe imbestialito ancora di più. Sfoderò l’espressione più amabilmente cortese del suo repertorio, e infatti quello s’irrigidì.

“Io sono venuta solo a farti un annuncio. Stai sognando, Ikki, e molte cose ti appariranno in sogno. Volevo solo che mi vedessi, prima. Ci tenevo tanto.”

“Vaneggi? Quale sogno? Io sono sveglio da oltre un’ora.”

“Questo lo credi tu.” Scosse lentamente il capo, Saori. Chiuse, finalmente, la porta dietro di sé. Ikki si trovò intrappolato in una stanza senza vie di fuga con la Bomboniera. Ah, ma c’era sempre la finestra. “Non è carino da parte tua covare propositi del genere, comunque. Per fortuna ti sei addormentato prima che lo facessi.”

Ora sì, lo stava rimproverando! Phoenix strinse le labbra, duro.

Come diavolo faceva a sapere quel che voleva fare, alzato in piena notte?

“Ad ogni modo, non sono qui per rimproverarti. Temo che ci sarà già chi lo farà al posto mio.”

“Beh, allora non farlo!” sbottò quello, incapace di trovare una risposta migliore. La fissò, torvo.

Atena, leggiadra, procedeva verso l’altra, ampia finestra della stanza, quella ancora chiusa. Lisciò con la piccola mano guantata le pieghe della tenda, sospirò.

“Oh, Ikki, il tempo è così breve.”

“E allora dimmi cosa vuoi da me e poi vai, no? Non ti capisco.”

“Desideravo solo vederti, prima che partissi.”

“E dove dovrei andare?”

Un leggero, dolce rumore di corda che scorre. Saori aveva tirato le tende, e Ikki non avrebbe prestato così tanto caso a quel minimo rumore, se esso non gli avesse spalancato le porte su un lungo corridoio buio. Tacque.

“Quella non era così, prima.”

“No” rispose tranquillamente lei. “Eppure ti ho detto che stai sognando. Prenderai questa strada?”

“Ho scelta?”

La guardò negli occhi, andando subito al sodo.

Lei era ferma, e seria, ma non severa. Non rispose.

Fu allora che tutta la stanza assunse contorni più densi, quasi come se si stesse chiudendo attorno a lui. Diventava più stretta; non era più il posto in cui doveva stare. E non ci volle molto per distinguere in quelle sensazioni tanto pressanti le volontà superiori del mondo onirico, dove chi dorme ha ben poco controllo sugli avvenimenti.

Nel sonno o in veglia, Ikki di Phoenix era abituato a rispondere quando si chiedeva qualcosa da lui: con un assenso senza parole, e un passo avanti, o con un sardonico diniego. Ma era anche abbastanza sveglio da capire quando non era in suo potere accettare o rifiutare.

Passarono diversi secondi di silenzio, in cui i suoi occhi arsero, nel buio della stanza. Fermo come un animale braccato, guardò nuovamente Atena negli occhi. Sentì la stanza fremere. Si mosse.

“Fai attenzione” sentì Saori sussurrare, come se fosse già lontana.

Senza esitazioni, con passo sbrigativo, aveva imbucato il nero di quella porta che non esisteva.

Si ritrovò solo, senza vedere. Si fermò, per ascoltare. Niente.

In quel momento si rese conto che si era rimesso in viaggio, per l’ennesima volta. Allora riprese a camminare, nella mente ancora la figura bianca di Atena nel buio. Che cosa voleva dire?

Quando la luce lo riaccolse, non era esattamente la luce che si aspettava: gialla e pallida, illuminava malamente l’angolo più dimenticato di una città che di solito non dorme. Era un quadro innaturale, dalle tinte nere, grigie e blu, ritratto nella china densa di una storia che si apre nei sobborghi. Il vento soffiava, trascinando nella sua corsa carte imbrattate e lattine vuote, che sfregavano cui marciapiedi con un eco continua e rimbombante. Ikki si guardò attorno, attentamente. Il posto non gli era nuovo. Rimase fermo, solido, in attesa: e non dovette aspettare granché.

“Sei arrivato. Vieni.”

Prima di prestare attenzione al suo interlocutore, si guardò alle spalle: era appena uscito da un vicolo, sporco e buio. Non certo da un corridoio di un ricco tempio. Strinse le labbra, senza lasciare trasparire emozioni, e si rivolse alla sua sinistra, dove stava appoggiato chi aveva appena parlato:

“Sì. Non avevo scelta.”

Poi, senza aggiungere altro, lo guardò prendere distanza dal muro e uscire senza fretta allo scoperto, sulla strada, dove nessuno avrebbe mai camminato. Il biancore della sua figura, in mezzo a tutto quel nero e quella luce debole e malsana, semplicemente sconvolgeva.

Shaka, ovunque si trovasse, era capace di risplendere. Non sapeva se fosse a causa della sua natura che gareggiava con quella divina, o per la Luce che si vantava di possedere; Ikki, semplicemente, lo guardò stagliarsi sul marciapiede imbrattato, perfettamente candido, dalla pelle intoccabile ai lunghi capelli d’oro. Era completamente vestito di bianco, in un modo in cui non l’aveva mai visto: sembrava un’indefinibile fusione tra abiti occidentali ed eccentricità orientali. Una mantella lo ricopriva morbida appuntata attorno al suo collo, nascondendo quella che probabilmente era la giacca di un completo più sobrio.

“Vieni?” gli domandò, semplicemente.

E Ikki lo seguì. Saettò lo sguardo, all’erta, quando vide una persona scivolare fuori da una porta malridotta, ma quello non li aveva notati.

Si rese conto che non erano soli, che figure inquietanti, uomini di cui non vedeva bene il volto, nello scuro, popolavano quei vicoli: era solo un quartiere più brutto di molti altri. Ed era notte.

“Ti ho detto che non ho scelta, mi pare” rimarcò comunque, poco dopo, lo sguardo fisso davanti. Camminavano come se non ci fosse pericolo, in quei chiaroscuri minacciosi, pur incrociando figuri non troppo raccomandabili. In un’altra occasione Ikki si sarebbe ben guardato le spalle.

“Sì, in un certo senso sì. Eppure no.”

“Poche storie, Shaka. Dove mi stai portando?”

“Ti sembrerà strano, Ikki” sfilava al suo fianco, placido, senza rallentare l’andatura. Il tacco delle sue scarpe batteva, ritmico, sul marciapiede. Anche lui guardava avanti. “Ma sono qui per portarti nel passato. Poi ti lascerò, perché qualcuno ti mostri il presente. E poi ancora, vedrai il futuro.”

“Non mi lasciavo influenzare dalle favole neppure da bambino” sbottò Phoenix, duro, riconoscendo immediatamente le orme di quello stupido racconto di Natale che era stato costretto ad ascoltare. Fulminò istintivamente due macchie di uomini in un angolo buio che erano scoppiate in risate ubriache. “E ora dovrei sorbirmi tutto questo?”

“Sarà dome dici” sorrise quello, senza lasciare trapelare nulla di quel che pensava. E Ikki era pronto a scommettere un braccio che dietro quella faccia carina stava sogghignando, il bastardo. “Eppure siamo qui. E io devo mostrarti il passato. Hai freddo?”

“No” rispose sbrigativamente lui. Era a torso nudo, ma non provava niente di niente.

Shaka proseguì, dunque, come se nulla fosse: “Ho dovuto scegliere un Natale Passato, e, credimi, non è stato facile. Poi ho pensato che non sarebbe servito a nulla tornare troppo indietro. Tu, meglio di ogni altri, Ikki, fai costantemente i conti con il tuo passato.”

“Perché proprio tu?” mormorò per tutta risposta il giovane, che si muoveva con scatti di belva, circospetto. Preferì domandargli quello, che parlare di sé. Non lo gradiva molto.

Shaka lo osservò, impenetrabile, camminando.

Nella luce gialla che illuminava male le strade e le poche persone, la pelle abbronzata di Ikki assumeva tonalità ancora più scure. Era fatto per mimetizzarcisi, in quelle strade. Per scivolare via come un’ombra. Rialzò lo sguardo avanti, con un vago sorriso: “Perché? Non mi vuoi?”

“Era una domanda.”

“Siamo arrivati.”

Ikki si fermò, aggrottando le sopracciglia.

“Qui?”

“Qui.”

“Hai detto che non saremmo tornati indietro.”

“Non troppo. Non abbiamo fatto molta strada, infatti. Taci. Ascolta.”

Non ci sarebbe stato bisogno di dirlo: un rumore assordante, di vetri infranti, riempì l’aria. Tutti i cani del circondario abbaiarono. Ikki si voltò di scatto da dove aveva sentito il fracasso, e Shaka con lui, voltandosi più lentamente. Un vocio eccitato, grida roche a coprire l’ululato dei cani, un gruppo di giovani uomini a crocchio festeggiava sguaiatamente la grande impresa. Ikki aguzzò gli occhi, il cuore già più pesante. Cominciava a ricordare, e la sua memoria era raro che lo tradisse.

“Cos’è tutto questo baccano?” Sentire la propria voce, però, sentirla scandire nell’aria parole come sassi scagliati con violenza lo fece raggelare. Anche se non si mosse di un millimetro, accanto a Shaka. “Che state facendo?”

“Un po’ di casino, daime. Vedrai che ora verranno.”

“Idioti” ruggiva bassa, la sua voce, più di quanto ricordasse. Non li stava ancora aggredendo: era il ringhio del lupo che puntava gli occhi sull’orso. “Questo è sporco lavoretto da ladruncoli.”

“Ma no, non prendiamo niente…”

“Si fidi, daime, adesso arriveranno. Stavamo solo perdendo un po’ di tempo.”

“Fate come volete.” Sprezzante, Ikki si stagliava alla luce dei lampioni, intagliato nella penombra come fosse di pietra. Lui stesso, poco lontano, si riconobbe e assieme non si riconobbe: appena adolescente, non sembrava affatto un adolescente, le vene in risalto sulle braccia, lo sguardo nero. Il gruppo a cui si era rivolto si era praticamente zittito, dalla gran baldoria che faceva prima, e neppure gli aveva ordinato di smettere. Li stava semplicemente ignorando. “Siete un branco di mocciosi.”

“Che cosa succede, qui, eh?”

“Ehi, voi laggiù… lo sapete dove siete?”

“Vi siete persi, bambini?”

Tre uomini, e uno aveva già il coltellaccio a serramanico bene in vista. Gli altri due chissà cosa avevano in serbo, invece. Tutta storia da scoprire.

L’intero gruppetto di ragazzi, tuttavia, sogghignò. Tutti, tranne Ikki, in piedi immobile, che rivolse loro lo stesso sguardo che si riserva agli insetti più schifosi.

“Non lo sapete che questa è la notte di Natale?” scimmiottò l’uomo che aveva parlato per primo, facendosi avanti, gran nuvole di vapore dalla sua bocca. I denti d’oro baluginarono alla luce incerta. Ikki, dalla testa del suo gruppo, lo guardò con niente meno che disprezzo. “Perché non siete a casa, dalla mamma? Babbo Natale non vi porterà i regali.”

Rise, sguaiatamente.

E prima che potesse finire, un destro micidiale lo atterrò, con uno scrocchio stridente, da raggelare. Chissà che cos’aveva rotto. Il gruppo di ragazzi, attonito dall’incredibile velocità con cui il loro capo si era mosso, ci mise poco a fare cerchio attorno a lui. Ma allora era già scoppiato il finimondo. Altri uomini dalle facce piene di cicatrici stavano accorrendo, le urla a riempire i vicoli bui.

Merda!

Bastardo! Prendetelo! Prendeteli tutti!”

Con somma calma, invece, uno dei ragazzi si staccò dal cerchio e affiancò Ikki.

Da lontano, lui lo riconobbe, stringendo i denti. I capelli scuri, spioventi sulle spalle. Lo sguardo nero come la pece. Come quello del suo alter ego, piegato come una tigre al centro della strada, le nocche insanguinate. Sentì e contemporaneamente ricordò, in un’eco moltiplicata dal sogno, il sussurro al suo fianco, mentre uomini e ancora uomini si scagliavano contro di loro, chi con una calibro 9 in mano, chi con i tirapugni di ferro, per spezzar loro i denti:

“Al tuo ordine, daime.”

Se lo ricordava.

Non chiuse gli occhi, anche se sapeva quale spettacolo l’attendeva.

Ricordava perfettamente quell’appellativo, daime, con cui i reietti di Death Queen Island avevano deciso di onorarlo. Era l’appellativo onorifico riservato ai capifamiglia della yakuza, la mafia giapponese.

Ricordava che i black saint l’avevano appreso e ripetuto sulla piega di labbra sardoniche, nelle riunioni dense di fumo dei bassifondi di Tokyo, quando si erano mescolati con questi uomini ricchi, violenti e crudeli. Si rese conto di somigliare loro in maniera rivoltante: bastava essere forte, saper uccidere, non avere pietà. Aveva imparato tutte e tre le cose, nel suo addestramento di santo devoto alla Giustizia, e quasi con sarcasmo vi si era gettato, feroce e inarrestabile.

Ricordava come ci si erano sparsi, in quei bassifondi, bagnando le mani nel sangue dei mafiosi e talvolta degli innocenti. La Guerra Galattica si faceva attendere. E quei mesi di atroce attesa li aveva trascorsi stringendo patti ed alleanze, lui, il daime, per annegare nell’odio e ancora nell’odio, prima di andare a riprendersi la sua vendetta, memore dei preziosi insegnamenti: Odia, Ikki.

Ricordava il massacro di quella notte.

Cigno Nero, dopo aver avuto l’ordine che tanto agognava, non aveva avuto riguardi; ne abbatté quanti più poteva. Era assetato. Era bramoso di compiacere il suo daime. E i rumori, i rumori di quel vicolo: i suoi seguaci, i suoi neri seguaci dalle armature d’ombra, specchio grottesco dei suoi fratelli, frantumavano ossa umane senza pietà. Mafiosi, reietti – nient’altro che feccia – agonizzavano a terra in un lago di sangue. Lui, dopo il primo colpo sferrato, non aveva fatto più niente, o quasi, bevendo immobile la vista della strage.

La banda aveva reagito alla provocazione, invaso il loro territorio.

Loro li avevano annientati con tutta la crudeltà possibile.

E Shaka, maledizione.

Shaka svettava bianco come un angelo, in un mare di nero e grigio e rosso che imbrattava i muri. Non diceva una parola.

Ikki era una statua, gli occhi immobili sulla scena. Non si era mai visto da fuori. Non si aspettava niente di diverso. Sorbì tutto senza una smorfia sulle labbra.

“Buon Natale.” Si sentì terminare, sardonico, schiacciando sotto il piede la testa dell’ultimo sopravvissuto. La feccia che aveva osato ricordargli qualcosa di vagamente simile a una casa, o un genitore. “Tagliamo la corda. Sbrigatevi, idioti!”

Il tocco gentile di Shaka gli fece voltare il viso quando ormai stavano sparendo nella notte, e lo fece con decisione. Ikki era rigido, i muscoli contratti, l’espressione di pietra. Era tornato straordinariamente simile a come si era visto, feroce aguzzino. Shaka aprì gli occhi.

“Guardami.”

Lo guardò.

Non parlò, tuttavia.

“I tuoi fratelli sanno di tutto questo?”

“No.” Uscì a fatica, ma si riprese presto: “Non gliel’ho mai detto.”

“Nemmeno a Shun?”

“Soprattutto a Shun.”

“Dovresti.”

“No.”

Le mani delicate e forti lo lasciarono. Ikki sentì i muscoli, piano piano, rilassarsi, sciogliendosi dalla tensione di acciaio che ci era conficcata in ogni nervo. Shaka era così bianco, in mezzo a tutto quello schifo. Luminoso da riposare gli occhi. Gli parve di capire perché proprio lui, ora.

Strinse i denti, forte.

“Era questo quello che volevi dirmi? A che cosa servirebbe, ora? Ci faccio i conti, con quello che sono stato. Continuamente. L’hai detto tu stesso, prima. O forse lo sono ancora. Chi può dirlo?”

“No, non lo sei.”

“Chi può dirlo?” ringhiò, guardandolo come se volesse sbranarlo.

“Lo dico io” tagliò corto lui, assottigliando gli occhi azzurrissimi, per la prima volta. Altero, lo trapassò come se fossero lame di una scimitarra. Una mano alla spalla, secco, sciolse con un solo gesto il drappo che lo avvolgeva, quel mantello candido così strano sul completo elegante. Senza che potesse dire nulla, lo circondò con la sua morbidezza e il suo profumo, tanto forte da essere pungente. Sapeva di molto lontano.

“Cosa…?”

“Vai a casa, ora. C’è qualcuno che ti aspetta, lì.”

“Nessuno mi aspetta, a casa.”

“Stasera sì.”

Ikki rimase immobile a guardarlo. Non disse nulla, ma c’era una richiesta implicita, nell’essere così restio a lasciarlo. Sentiva i piedi inchiodati al marciapiede.

“Non durerà a lungo. E devi andarci preparato. Non è di certo qualcuno che ti aspetteresti.”

“Va bene, andrò” orgoglioso, si drappeggiò la mantella sulle spalle. “Ma di questo affare non avevo bisogno.”

“Fa freddo, stasera “ rispose semplicemente Shaka, dritto, guardandolo dall’alto in basso senza superbia, per una volta. Gli sorrise. “Farà freddo anche domattina. Cerca di dormire con qualcosa addosso.”

Finalmente, Ikki ebbe una reazione più umana, avvampando. Lo nascose storcendo la bocca in un’espressione oltraggiata, da incenerirlo sul posto.

“Ah, e così saresti tu, mia madre.”

“Se desideri…”

“Oh, vai al diavolo!” Gli diede le spalle platealmente, e dopo quest’insulto tonante se ne andò davvero, maledicendolo secco e burbero come al solito. Shaka si limitò a sorridere, sornione, ancora una volta, senza lasciarlo con lo sguardo sinché non sparì alla sua vista.

Ma Ikki nel frattempo imboccò diverse strade, senza voltarsi indietro, una dopo l’altra, un macigno in petto; e non certo per il freddo. Il viaggio fu breve, perché lui era veloce e ansioso di svegliarsi. Molto ansioso.

Trovò la porta aperta, come non sarebbe stato naturale. La spalancò e prese fiato per apostrofare con malagrazia chiunque ci si fosse trovato dentro; ma il sogno aveva superato di gran lunga ogni sua aspettativa. Strabuzzò gli occhi, incapace di spiccicare parola. Vuoto totale.

“Oh, bentornato a casa. Ti sembra questa l’ora adatta? Sei ancora un ragazzino, sai?”

Ora, Ikki di Phoenix con Aphrodite dei Pesci non ci aveva mai avuto a che fare. Ma qualche riserva ce l’aveva.

Prima di tutto, fattosi in precoce età un misantropo della peggior specie, mal tollerava la presenza in casa propria di qualcuno, in generale, oltre a lui; figuriamoci di un perfetto sconosciuto.

In secondo luogo, quello aveva cercato di ammazzare il suo adorato fratellino.

Infine, dopo tutto quello che aveva già subito nella prima parte della nottata, lo stava forse prendendo in giro, il bastardo?

Fuori da casa mia!” ruggì, pronto già a scagliargli addosso l’Horyu Tensho, fantasma dei Natali Presenti, Futuri o Congiuntivi che fosse. L’avrebbe spianato a terra e sostituito lo zerbino all’ingresso. L’avrebbe sparato fuori dalla finestra, allargandola ed aprendo così un ottimo condotto di aereazione supplementare.

“Ti scaldi troppo alla svelta” gli fece amabilmente notare lo spirito, che al contrario sembrava perfettamente a suo agio. Era seduto sul divano con l’aria affascinante dell’ospite d’onore al party più esclusivo, le gambe elegantemente accavallate. In più, era vestito in maniera incredibilmente elegante. Ikki boccheggiò a lungo, senza riuscire a trovare insulti peggiori di dannato bastardo o maledetto finocchio. Se li rigirò in testa senza riuscire a decidere quale sputargli addosso, tanto era sconvolto, così che Aphrodite ebbe tutto il tempo per scavallare e riaccavallare le gambe.

“Che diavolo ci fai in casa mia?” riuscì a ringhiare alla fine.

“Sono qui per darti una mano, pulcino” lo vezzeggiò ironicamente Aphrodite. Sembrava spassarsela un mondo, il viso fine appoggiato al dorso della mano, a godersi i cambi di espressione sempre più paonazzi del cavaliere della Fenice. “Mi dicono che ti batti solo con gli avversari più duri.”

“Tsk! Appunto. Levati dai piedi.”

Per niente scoraggiato dai suoi modi sgarbati, Aphrodite sospirò, come davanti ad un bel film. E fece una considerazione apparentemente divagante: “Non funziona, con me. Hai un modo di fare così carino. Sai, mi ricordi moltissimo qualcuno, proprio quando aveva la tua età. Due teneri mostriciattoli bercianti.”

“Stà attento a come parli, Pisces!” berciò, per l’appunto, lui, più forte di prima.

Lui gli sorrise, bello in maniera scandalosa.

Ikki sentì di odiarlo.

“Allora, siamo pronti?”

“Per niente! Non vengo da nessun’altra parte, con te! E non so cosa mi trattenga dal metterti le mani addosso! Quello che hai fatto a Shun…”

“Quello che Shun ha fatto a me.” Gli occhi azzurri di Aphrodite lo trafissero, tra l’indignato e il divertito. “Quel ragazzino mi ha ucciso, Phoenix. Dovrei essere io ad avere delle rimostranze.”

“Tsk! Te lo meritavi.”

“Che tenero. Hai il complesso del fratellino minore.”

“Giuro che un’altra parola e ti…”

“Guardati attorno, testolina.” Una mano tra i capelli, una presa di ferro. E unghie da checca dritte nella cute, valutò Ikki, rigirato come un calzino. Sbatté gli occhi, guardandosi attorno come la mano lo conduceva, troppo sorpreso per replicare. “Che cosa vedi?”

“Vedo casa mia” ringhiottò, proponendosi di ucciderlo una volta libero. “Che domanda è.”

“Aha. Guardala bene, che c’è una bella luce. Mentre dormi, è mattino, qui. Com’è, casa tua, spiumottino?”

“Più bella della tua” ringhiò più roco, rispondendo ormai per pura ripicca – con una provocazione assolutamente inutile, tra l’altro. Aphrodite sorrise, deliziato dalla sua impertinenza che si faceva involontariamente più infantile, mano a mano che s’infuriava. Davvero gli ricordava qualcuno.

“Mh-mh. E spoglia. E vuota.”

“Oh, al diavolo” gli scacciò la mano dalla testa, finalmente, con un poderoso schiaffo dei suoi. Aphrodite ritirò almeno in tempo le dita, con lo sguardo accondiscendente del maestro che perdonerà la manata del bambino. “Non mi sembri il tipo da venire qui e fare la morale agli altri!”

“No” sbuffò quello, appoggiando il peso su un fianco, elegante, affettando eccessiva noia. Checca, rimarcò internamente Ikki, studiandolo con espressione corrucciatissima. “Affatto. Sono qui solo per darti fastidio.”

“Ci sei riuscito. Puoi andartene.”

“Oh, non ancora. Devo sincerarmi che tu l’abbia osservata per bene.”

“L’ho fatto. L’ho osservata. Adesso vattene.”

Se ne stava in piedi in mezzo alla stanza, Ikki, le gambe aperte ben piantate, la mantella bianca a coprigli le spalle. Ne avvertì vagamente il profumo, mentre si voltava bruscamente per fissare male l’intruso, e ricordò le strade nere dei sobborghi.

Pisces non era tipo da farsi impressionare dalle occhiate truci, comunque. Passò con calma studiata la mano sul tavolo, come preparandosi un discorso. Era tutto l’opposto del giovane bronze, slanciato, posato, i capelli che ricadevano in onde morbide sulla linea delle spalle.

“La solitudine non è necessariamente un male. Si ha bisogno di rimanere soli. Ma il tuo non è il mero bisogno di rimanere solo. A volte fuggi. Volevi alzarti, questa notte, di soppiatto, e lasciare il Santuario, sfuggire alla festa piena di luci e di persone a cui non sei abituato.”

“Che cosa? Come…” Ikki boccheggiò. Poi si ricordò che anche Saori l’aveva rimproverato, in anticipo, per il suo proposito, pur non dicendogli apertamente quale.

Come aveva fatto a sapere?

Poi si ricordò che quello era davvero un sogno. E capì di non poter ribattere alle parole di Pisces. Doveva solo ascoltarlo. Digrignò i denti, frustrato.

“E tutto questo” proseguì infatti lui, ironico, altero e certamente con meno morale di lui, ma bello da riempire la stanza intera con i suoi occhi e la sua voce. Quanto lo odiava. “Tutto questo per fare ritorno ad una casa fredda e vuota. È inutile che te la prendi con me, Ikki di Phoenix. Prenditela con te stesso. Ti senti davvero tanto marcio da non riuscire ad affrontare una favola e i regali sotto l’albero?”

Taci!” riuscì finalmente ad urlare.“Taci! Fuori! Vattene subito!”

“Oh, come vuoi.” Un sorriso che si allungava, qualcosa di molto più autentico sotto la maschera compassata. La trappola dietro i modi affabili. Pisces si rivelava squisitamente crudele. “Io ho finito.”

Ikki si accorse che Aphrodite, senza nessuno stratagemma, senza l’uso di abili artifici scenici né ricorsi a visioni o suggestioni, era riuscito a sconquassarlo sin nel profondo. Prima l’aveva blandito, poi irritato, poi provocato, e come lui aveva raccolto la provocazione ecco che si ritrovava con la sensazione bruciante di uno schiaffo. Rimase lì, in piedi, fermo, ansimando di rabbia. Lo Spirito del Natale Presente, sgradito ospite, fantasma dalla bellezza irritante, raccoglieva il mantello e camminava lungo l’atrio della sua casa come se fosse propria. L’invitato d’onore. Sfilò sino alla porta con impeccabile grazia.

“Buon Natale, Phoenix.” Sfarfallò le ciglia delicate, prima di un ultimo sguardo penetrante. E come se non fosse altro che un uomo, senza niente di più che il suo impeccabile contegno, aprì la porta, ne uscì e se la richiuse alle spalle, con uno scatto secco.

Ikki rimase fermo a lungo, sentendosi come nel centro esatto di un vortice.

Non seppe mai quanto tempo passò prima di sentire rumori che non fossero i suoi respiri pesanti e attoniti. Alzò gli occhi, e alla finestra il cielo scuriva di nuovo. Rimaneva scuro. Forse albeggiava. Il tempo si era distorto nuovamente, e lui rimaneva fermo.

Le mani strette al mantello bianco, senza provare freddo, arretrò, sino a trovarsi con la schiena contro la parete bianca. Vi si appoggiò. Scivolò seduto, in basso, guardando il pavimento, cercando di ricollegare i pensieri fra loro; ma il ticchettio dell’orologio lo distraeva terribilmente. Si fece tanto rumoroso che dovette alzare il mento, riportando lo sguardo alla porta.

Tenne il tempo, concentrandosi su quel minuscolo ticchettio. Contò sino a dieci. Schiuse le labbra, osservò la porta cigolare e aprirsi, il buio rischiararsi di nuovo, la giornata stabilirsi in un momento fermo: tardo pomeriggio, il cielo scuro. Due sagome di uomini ora occupavano la porta.

Non una. Due.

E Ikki capì benissimo il perché.

“Voi siete venuti a mostrarmi il futuro?”

Annuirono contemporaneamente. Ikki li avrebbe creduti divisi da uno specchio, eppure li aveva conosciuti di persona: ciononostante, trattenne un brivido. Li aveva conosciuti, ma non li aveva mai visti l’uno accanto all’altro.

Sotto i suoi occhi, entrarono assieme, impeccabili in giacca e cravatta. Entrambi.

“Cos’è, una specie di scherzo?”

Prima Shaka, poi Aphrodite. Entrambi, così diversi, indossavano un completo di taglio occidentale. Ora, anche Saga e Kanon, le spalle larghe fasciate da stoffa nera. Se prima non l’aveva notato, ora Ikki cominciava a sentire una dolorosa fitta alla bocca dello stomaco, una fitta che sapeva d’ironia e anche di disgusto. Erano proprio tutti tirati a lucido, proprio come nelle riunioni di mafia. E lui ne aveva viste tante. Addosso a Saga, l’usurpatore, e Kanon, il cospiratore, l’effetto era amplificato.

E l’immagine era così speculare da dare i brividi.

“No, non lo è” rispose sbrigativo il primo che parlò, e Ikki riconobbe quegli occhi impazienti. Così facendo, distinse subito i due gemelli, Kanon alla destra, Saga, ancora silenzioso, alla sinistra.

“Perché proprio voi due?” domandò, cauto, senza muoversi.

“Credo che tu lo sappia bene.” Avanzò, Kanon, verso di lui. Quando sorrise, gli regalò uno strano affetto, con lo sguardo, affetto che mise anche nella presa della mano, salda, da uomo adulto. Ikki sollevò un sopracciglio, sentendosi afferrare al braccio:

“Che cosa vuoi fare?” poi spostò lo sguardo anche su Saga, stranamente sospettoso: “Che cosa volete fare?”

“Niente” rispose lui, somma calma sui suoi lineamenti. Lui non sorrise affatto, ma i suoi occhi erano limpidi, nel guardarlo: “Forse un gioco.”

“Forse un gioco di ruolo. Forse un gioco delle parti” aggiunse Kanon, conducendolo ad alzarsi in piedi. “Devi spostarti, però. Segui me.”

“Gioco di ruolo?” Ikki saettava lo sguardo da Kanon, che lo allontanava dalle scale, a Saga, che rimaneva fermo, seguendoli colo spostando il viso. “Gioco delle parti? Cosa dite? Spiegatevi!”

Saga abbassò gli occhi, sotto il suo sguardo. Allungò le mani a sistemarsi il nodo della cravatta, già impeccabile. Si girò e non volse più loro lo sguardo.

“Saga…?” sbottò Ikki, incredulo. Sollevò lo sguardo verso Kanon, che lo spostò dal fratello per rivolgerlo a lui. “Kanon!”

“Noi e nessun altro, Ikki” sussurrò quello, la mano salda sulla sua spalla. “Lo sai anche tu perché, Ikki. Noi siamo simili.

Ricordi di ombra e di oscurità, di forze del male, come una corrente fredda. Ikki tacque.

Rasenti a una parete, la stanza si spiegava davanti ai loro occhi. Osservavano Saga, nei pressi del tavolo, che con una carezza distratta lo lisciava, dando loro le spalle. Ikki sentì senza motivo il battito del proprio cuore accelerare, e cercò disperatamente di capire che cosa avesse di diverso.

“Saga! Cosa…?”

“Shht. Non ti può più sentire.”

Saga!” esclamò una quarta voce, molto più tonante. Tutti e tre si voltarono verso la porta, e Ikki spalancò gli occhi. Ora la scena era molto più chiara. Ora acquisiva un senso.

“Ikki” scandì pacatamente Saga, avvicinandosi alla scarsa luce pomeridiana che filtrava ora dalla porta. Il nuovo arrivato entrò ed accese le luci, ed Ikki, quello accanto a Kanon, notò benissimo tutto quel che c’era da notare: l’arredamento, di poco diverso, ma quanto bastava; il calendario, e gli anni di più che segnava; sé stesso, sempre più alto e scuro di pelle, lenti scure a nascondere gli occhi e barba di due giorni sul mento.

Ma quello lo impressionò al di sopra di ogni cosa fu Saga.

Saga, composto in piedi ad attendere il suo rientro a casa, ospite inatteso in visita, aveva gli stessi occhi di sempre, profondi come il mare; ma lo incorniciavano nuove, impercettibili rughe, da cui non riuscì nemmeno con la forza a distogliere lo sguardo. Rughe, su quel volto da immortale! E con sua enorme sorpresa, c’era del bianco a spruzzargli le tempie, che carezzava i capelli sempre lunghi e sinuosi, curvi, un torrente in piena. Sorrise al giovane che si trovava davanti, che non sembrava altrettanto sorpreso, in un gesto cordiale. E rimasero fermi in piedi a guardarsi.

“Che ci fai qui?” borbottò Phoenix, accogliente come sempre.

“Desideravo vederti.”

“Potevi avvisarmi.”

“Così che non ti saresti fatto trovare? No, Ikki…” Non si fece scortese, Saga, ma sospirò, appena. “Devo parlarti.”

“Siediti. Ti faccio un caffè.”

“No, non rimarrò a lungo. Volevo domandarti una cosa.”

“Domanda.” Era diventato ancora più sintetico, Ikki, se possibile. Dal suo angolo si osservava appendere la giacca, chiudere la porta, guardandosi con gesti apparentemente distratti attorno. Sembrava voler tenere sotto controllo ogni cosa, lì dentro. “Ti ascolto.”

“Ti rivedremo mai più, al Santuario di Atene?” domandò Saga, subito, con la dolcezza di un padre che chiede al figlio di tornare. Ikki storse la bocca, ma non lo fece per maleducazione nei suoi confronti. Infatti si diresse alla macchina del caffè, deciso ad offrirglielo comunque.

“No. No, non tornerò.”

“Ma perché, Ikki?”

“Perché non sono fatto per quel posto. Vuoi una sigaretta?”

“No, non ora, grazie. Perché dici di no? C’è qualcosa che ti trattiene, qui?”

“Sono fatto così.” Gettò un’occhiata alla finestra, Ikki. Parlò con voce roca e appena strascicata, togliendosi finalmente gli occhiali da sole. Li appoggiò sul ripiano della cucina. “Né più né meno. Ci sono gli altri, lì. Sapranno cavarsela alla grande.”

“Ikki... che cosa c’è che non va?”

Trascorse qualche attimo di silenzio. Ikki sentì la mano di Kanon stringere ancora sulla sua spalla, rassicurante, a ricordargli dov’era. Lasciò andare un sospiro nervoso, e si guardò rispondere: “Non c’è niente che non va. Semplicemente, mi sento fuori posto.”

“Fuori posto?”

“Tu” smise di lavorare con le mani alla caffettiera, facendosi improvvisamente tagliente. Era evidentemente sulla difensiva. “Tu dovresti sapere bene come mi sento.”

Reietto. Traditore. Trasudava implicito da ogni parola.

Saga incassò come una ferita nel fianco, infatti, barcollando appena.

E Ikki non sembrava affatto contento di avere dovuto infierire a quel modo.

“E qual è, il tuo posto” si fece più severo, ora Saga. Dea, Saga. Era invecchiato, anche se di poco. E quant’era ancora forte, mentre si ergeva. “Quale, se non il Santuario? Questo?”

“Questo quartiere” ribatté allora Ikki, caricando più d’astio la voce, voltandosi a guardarlo dritto negli occhi. E infilò la stoccata: “E tutto il territorio ed Est della Tokyo Tower.”

Si erse, staccandosi dal ripiano della cucina.

Era un uomo, adulto e incredibilmente forte. E completamente disgustato dal mondo.

“Come vedi, un posto ce l’ho. E anche bello ampio.”

“Ikki, sbagli.”

“No! L’ho sempre detto. Ogni volta, e nessuno mi ha mai ascoltato. Non sono con voi. Non combatto con voi. I reietti come me non diventano maestri, non assistono ai cerimoniali, non benedicono le folle. Se Shun o uno dei miei fratelli rischierà la vita, se dovrò con queste mani combattere ancora per chi voglio salvo, lo farò. Ma non potete chiedermi più di questo. Non sono mai stato parte del Santuario.”

“Sbagli. Anche tu ne sei parte. Atena ti vuole con sé. Tutti ti vogliono con sé. Sei stato riaccolto molto, molto tempo fa.”

“No. Non m’interessa.”

“Come puoi parlare così?”

“Ikki, tu non ti senti ancora perdonato” interloquì una voce, che non era quella di Saga. Il ragazzo alzò di scatto la testa, verso Kanon: rilassato, appoggiava le spalle alla parete, guardando la scena di fronte a sé. “Non ti senti ancora perdonato, altrimenti non saresti ancora così scostante. Non ti senti ancora perdonato, perché, forse, qualche zona d’ombra ancora c’è.”

“Anche tu come Shaka” ringhiò Ikki, basso, distogliendo lo guardo dalla discussione, che proseguiva, imperterrita, nella stanza. “Vorreste che mi liberassi di tutto. Come posso? È un carico troppo grande, ed è troppo tardi per parlarne, ormai. Quello che è stato è stato.”

“Ma se tutto lo sporco viene epurato, Ikki, come puoi pensare di non trascinartelo dietro per sempre?” abbassò gli occhi, Kanon, limpidi come non li aveva mai visti. Era serio. E non pareva parlare per forme retoriche. Lui aveva affrontato l’arma di un dio, per farlo.

Ikki si morse le labbra.

E la porta di casa si chiuse, con un tonfo. Alzò la testa: Saga se ne era andato. La discussione non aveva avuto grande esito. Non avevano urlato, ma si erano già separati, e la Fenice, inquieta, vagava per la stanza, in preda a grande turbamento. Si diresse a passi pesanti verso l’atrio.

“Inoltre, Ikki…” sussurrò la voce di Kanon.

Scosse vigorosamente la giacca che aveva appeso all’ingresso, infilò una mano nella tasca interna.

Aprì un cassetto della cucina, trascinandosela dietro, la sgomberò degli oggetti più inutili.

“…tutto ciò di cui non ti liberi…”

Estrasse una pistola. Una calibro 9.

Ce la sbatté dentro, con espressione astiosa.

“…ritorna.”

Ikki si sentì cadere.

Al tuo ordine, daime.

Non sapeva cosa pensare. Non sapeva quel che vedere.

Soprattutto, erano tutte cose che si aspettava; se le sentiva rombare nel sangue da quella notte di massacro che aveva dovuto rivedere, lui, nero come la notte, al fianco di Shaka, bianco e immacolato. Ricordò, come in un sogno scomposto, la figura più bianca di tutte, che mentre lui l’apostrofava malamente diceva: Volevo vederti, prima che partissi. È importante.

Imprecò a denti stretti, la testa che scoppiava: credeva che sarebbe stato in grado di reggere il peso di tutto, di tutto quello che gli si fosse parato sulla strada. Che avrebbe pagato. E invece cercavano ancora di trattenerlo. Si divincolò, rabbioso, d’improvviso: “Kanon, lasciami.”

Cercavano ancora di non lasciarlo scivolare.

“Kanon! Lasciami!”

Ingenui. Sciocchi. Maledizione. Maledizione a loro.

Kanon non lo lasciò affatto. Sorrise, come se stesse per tirargli un magnifico scherzo.

E improvvisamente sentì le membra appesantite dal sonno che stava per ripiombargli addosso.

“Lasciami… dannazione…”

Chiuse gli occhi. Sarebbe tornato all’incoscienza, e allora non sarebbe più riuscito a scappare. Nel nero, cercò con un ultimo scatto rabbioso, fiacco, di liberarsi, ma Kanon nel suo sogno sorrideva, astuto.

Scordatelo, daime.

 

 

 

 

 

The Carol

 

Ora capirete pure perché il capitolo su Seiya volevo buttarlo più in caciara: se il Canto del Dragone sarebbe stato di certo malinconico, quello della Fenice era già in progetto che fosse bello pesante. Tuttavia, alleggerendo troppo Seiya temo che gli avrei fatto decisamente un torto; e proprio non se lo meritava.

Daime è davvero l’appellativo con cui vengono apostrofati i capi yakuza. Con un numerino a precederlo, chiarifica la sua posizione in gerarchia (es. sandaime = terzo capo) Deriva dal feudale daimyo. Ikki si sarebbe gasato moltissimo a sentirsi chiamare daimyo, mentre spaccava la faccia alla gente, ma dubito che i black saint, pur infervorati ed esaltati quali sono, si siano dati la pena di andare a ripescare dal medioevo giapponese: hanno sentito dagli altri yakuza daime, e Ikki era il loro daime. {grazie mille a LeFleurDuMal per il supporto durante la ricerca del termine esatto! *C*}

Basta, ho finito: potete lanciarmi i pomodori.

La storia di Ikki impelagato nella yakuza è farina del sacco mio – e non solo mio *coff* –  e non di Kurumada, quindi potete aprire le vostre casse di articoli da ortofrutta e scagliarli su di me, e non su di lui. Ma non provate a negare che Ikki non vi faccia sesso in versione mafiosa perché è perfettamente inutile. Bacini. <3

(E SAGA. DEA. SAGA SULLA QUARANTINA. DEA. DEA. DEA.) *questo capitolo era fan service per l’autrice*

 

Kijomi: Grazie, mia cara, per la splendida citazione. Ora goditi l’apparizione di Aphrodite, che, prego, facciamo notare che non ha avuto bisogno di alcun numero da cabaret per farsi notare. Solo la sua beltà e la sua amabile perfidia. <3

Shinji: No, no, non perdiamo la reputazione, spucciamo il ronzino di nascosto mentre nessuno ci vede! Grazie, tesoro, la tua approvazione ormai per me è importanteh, e lo sai. Spero che gradirai tutto il fan service di quest’ultimo Carol, e specialmente il fan service Gemini. Credo che farò una oneshot con Saga e Kanon in completo a quarant’anni solo per annegare nella mia stessa bava.

LeFleurDuMal: Oh, no, commenti troppo lunghi per una risposta approfondita! ;O; Maledetta! Farò così! GRAZIEGRAZIEGRAZIE<3 *cascata di bacini* Ewwwwwww! Prometto che risolverò tutto quanto! È Natale! U__U

Sakura2480: Dickens penso che cercherebbe di forzarsi ad avere pietà di me nonostante tutto il boy’s love che spammo, e mi manderebbe a spalare carbone. Ma ti ringrazio lo stesso. <3 E voilà, aggiornamento puntuale! ;D

Himechan: Ma Seiya è solo bistrattato, povera gioia. Speriamo di aver tenuto su Ikki come si meritava, che quello lì di solito me lo coccolo sin troppo, vah, non vorrei aver esaurito l’inventiva. …mafiahhh. *si fa i viaggioni*

beat: Beat, mia cara, ma tu sei troppo buona! *O* Non so che cosa dire, hai lasciato un commento tanto dettagliato che posso solo ringraziarti e sperare di avere fortuna anche con i prossimi. Questo è stato un parto, e non sto scherzando. Ho dannato veramente molto per avere un risultato decente. Fammi sapere prestissimo. ;)

Pucchyko_girl: Sono entusiasta di aver fomentato comportamenti sovversivi in assemblea! *C* Brava, brava! E scusa per l’attesa, anzi! XD Riferisci alla Luvi che in periodo natalizio sono già sufficientemente ingozzata, difatti l’ultimo capitolo lo scriverò rotolando ripiena di cenone di Vigilia. Alla prossima!

BianchiD: Guarda, Seiya e Marin era un po’ che volevo vederli in azione, anche perché Marin è una tosta forte! XD Sentivo il bisogno fisico di farla interagire. Grazie per il commento! :)

Kagura92: Anche qui commento lunghissimo, esauriente, ricco di complimenti, e a cui posso solo rispondere che beh, adesso arrivano persino i nostri cocchini, speriamo di non lasciarci le penne. Io spero per i prossimi due di non fare una faticata paragonabile a questa, perché ti assicuro che questo capitolo mi ha fatta dannare. Speriamo che il risultato valga. Bacione!

Malu Lani: Oh! No! No! Basta! Arrossisco! Oddio! Dai, basta così… *si oscura in un mondo di BLUSH* …ma grazie davvero! I riferimenti li hai colti tutti, le corrispondenze fra personaggi pure, forse anche qui qual cosina troverai. Er metà sono volute, per metà s’incastrano da sole… che delirio! Alla prossima tesoro!

 

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Capitolo 5
*** Il Canto del Cigno ***


Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

 

 

Capitolo 5. Il Canto del Cigno

Dove la bora ci porta di qua e di là senza riguardo.

 

 

 

Hyoga capì che era un sogno subito, da quando poggiò il piede a terra, nel silenzio ovattato della notte nera. Lo capì dall’immobilità innaturale delle cose, prima ancora di spalancare la finestra e venire rapito dal vento: soffiava forte, nel sogno, il vento, molto più forte di quanto in realtà non battesse sui tetti dei templi candidi, in Grecia. Se lo ricordava bene.

Oltre la finestra c’era il bianco, che nella notte nera si faceva azzurro, scuro, per sterminate piane illuminate dalle stelle. Chiuse gli occhi, e, come li riaprì, fu esattamente dove si aspettava.

“Hyoga! Sei arrivato presto.”

“Jacob.”

Gli occhi azzurri del giovane si aprirono presto a cercare quella voce famigliare che aveva parlato. E lo vide immediatamente: Jacob era proprio lì di fronte a lui, sempre uguale a sé stesso, allo Jacob dei ricordi di Hyoga. Piccolo, affondato nel pelo folto del cappuccio che lo teneva al caldo, uno o due denti mancanti nel sorriso largo. Aveva ancora i denti da latte, Jacob, il piccolo conducente di slitte, che incitava i cani e spalancava gli occhi davanti al ghiaccio millenario che, sotto i pugni di Hyoga, si frantumava come vetro.

“Siamo in Siberia?”

“Sì, Hyoga. Sei arrivato presto, molto presto.”

“Devi dirmi qualcosa, Jacob?”

Hyoga sapeva che i sogni di quel genere non accadevano perché li si cercasse, o perché la fantasia li mettesse assieme: quel genere di sogno – nitido, limpido, in piena coscienza – ti viene a cercare sotto le coperte per bisbigliarti all’orecchio qualcosa d’importante. Forse le persone care lontane, forse quelle scomparse stanno cercando di avvisarti. Il viso di Hyoga era calmo, e perfettamente tranquillo, ma interrogava Jacob con la serietà che si addice a un cavaliere delle lande ghiacciate.

“Io no, Hyoga. Ma sono contento di vederti. Anche che sei venuto presto.”

Sorrise, allora, Cygnus, avvicinandosi al bambino: “Anche io. Allora mi devi portare da qualche parte?”

“Sì. Sali sulla slitta. Anche se sai correre molto più veloce dei cani!” rise allegro il piccoletto, facendo fare un salto alle redini. Hyoga annuì, e, senza nessuna particolare espressione, salì.

Gli animali erano all’erta, l’aria fischiava. Il ragazzo non sapeva bene cos’aspettarsi da quell’azzurro sterminato che la slitta fendeva. Non disse nulla, non si mise in guardia, non si guardò attorno, ma era notte, e la notte, nei sogni, non prometteva nulla di buono. La notte era l’oscuro e il nascosto, l’inconscio, il desiderio e la paura.

Alzò la testa a guardare le stelle, schiudendo appena le labbra, bevendo il vento che non sentiva. Come sospeso.

Si mise a delineare le costellazioni con gli occhi, perdendosi nei meandri della sua mente.

Era la prima volta che vi s’immergeva così coscientemente, sulle scie della neve.

Riconobbe le costellazioni meccanicamente.

“Siamo quasi arrivati.”

Orsa maggiore.

“All’isba?”

Orsa minore.

“Sì. Lì incontrerai il primo dei tre spiriti. Ma tu sei forte, Hyoga. Non è vero che sei forte?”

Lira.

“Tre spiriti?”

Croce del Nord.

“Lo Spirito del Natale Passato, lo Spirito del Natale Presente, lo Spirito del Natale Futuro.”

Cefeo.

“Come nel Canto di Natale.”

Cassiopea.

“È qui.”

Andromeda.

La slitta frenò.

Jacob sorrise, con i suoi adorabili dentini da latte. Ne mancava qualcuno, come sempre. Hyoga lo fissò a lungo, poi gli allungò una carezza sulla testa, attraverso il cappuccio imbottito.

“Grazie, Jacob.”

“Ci vediamo, Hyoga!”

E la slitta ripartì, lasciandolo da solo con gli spiriti. Hyoga non aveva paura. Sapeva solo che la notte, nei sogni, non porta niente di buono. Si voltò, alla ricerca di una figura a cui fare riferimento; c’era l’isba, sola in mezzo all’immensa Siberia. Nient’altro.

Vi girò attorno, attento. Sapeva che Jacob era stato un messaggero, un ponte che il suo inconscio aveva scelto per portarlo lì, proprio lì. Proprio in quel luogo, in quello e in nessun altro. E quale altro, d’altro canto, avrebbe potuto risvegliare memorie importanti? Ricordava perfettamente il Natale in Russia, anche se confondeva un anno con l’altro. Era impossibile non scinderlo dal Natale in Giappone, così diverso…

“Maestro, maestro Camus!”

Hyoga appoggiò le mani sul vetro spesso della finestra, guardando all’interno. Era come appoggiare le dita su uno scrigno, ugualmente freddo, da tastare tra le dita sino al momento di scoperchiarlo. Gran parte del suo passato per lui non era che questo: memorie custodite in un cofanetto prezioso, da aprire con cura e serbare nascosto; la similitudine di sensazioni lo provò tanto che dovette chiudere gli occhi.

“Non ascoltatelo, maestro Camus! Ho ragione io!”

“No, ho ragione io!”

“No, io!”

“No, iooo!

“Ragazzi, un po’ di contegno. Su che cosa discutete?”

“Hyoga dice cose stupide” riassunse Isaac, non trovando di meglio da argomentare.

Hyoga riaprì gli occhi, allora, per guardare attraverso i vetri gelati. Camus dell’Acquario, maestro e mentore, sorrideva conciliante ai due bambini che si agitavano a tavola. Isaac – oh, lo ricordava bene, Isaac – prima di essere un ragazzo fiero e muscoloso era stato un bambino sveglio e scattante, e, come tutti i bambini, facile a scaldarsi. Nulla a che vedere, però, con l’altra pallina bionda saltellante al suo fianco: “Non è vero! Non è vero! Non dico cose stupide! È Isaac che dice le stesse cose che dicevano in orfanotrofio, ma sbagliavano, si sbagliavano tutti! Dice che Nonno Gelo abita in Finlandia! Secondo me lo dice solo perché ci abitava lui, in Finlandia! Non è vero! Nonno Gelo conosce tutte le strade di Mosca, e non vola sulla slitta! Va a piedi!”

“È vero, invece, abita in Lapponia! E non si chiama neanche Nonno Gelo, ti ho detto… Maestro Camus, ditegli qualcosa!”

“E non è neanche vero che ha il vestito rosso! Nonno Gelo ha il mantello blu! E la veste blu!”

“Maestro Camus! Non sta zitto!”

Non solo non stava zitto. Il futuro cavaliere del Cigno si era praticamente arrampicato sulla tavola, le sopracciglia contratte in un’espressione serissima. E stava anche, ad occhio, per raggiungere la soglia degli ultrasuoni: “Ma maestro Camus, è Isaac a dire cose stupide! Secondo voi le renne possono volare?”

“Ma vuoi stare zitto?” Isaac storse la bocca e si tappò le orecchie.

“Hyoga, Isaac. Con calma, per carità.” Camus ebbe la buona idea di placare gli animi, una mano a capoccia. Abbassò entrambe le testoline calde, riscuotendo il silenzio. “Parlate di Santa Claus, non è vero?”

Hyoga, fuori dalla sua finestra, ebbe quasi un singulto.

Il maestro Camus, l’algido, grande e forte maestro Camus non poteva avere più dell’età che aveva lui adesso. Se ne rendeva conto solo ora, dopo tanti anni, a guardarlo con le mani sulla testa di due bambini.

“Ah, visto che anche maestro Camus lo chiama così? Avevo ragione io.”

“No, Isaac. Santa Claus è solo il nome con cui è più conosciuto.”

Una carezza veloce ad entrambi, con cui Aquarius la ebbe vinta, e un nuovo sorriso, estremamente adulto. Camus si allontanò di nuovo per andare a controllare il pentolino sul fuoco, senza smettere di parlare: “Qui in Russia Santa Claus non passa la notte di Natale, bensì quella di Capodanno. E Hyoga ha ragione a dire che qui non si chiama neppure Santa Claus. Lo chiamano Died Moròz, Nonno Gelo, e porta i doni senza la slitta. Cammina…”

“Cammina a piedi per tutte le vie di Mosca!” s’intromise Hyoga, gli occhi brillanti. Come dimenticandosi dell’acceso diverbio, si rivolse a Isaac come se gli stesse raccontando una favola: “Tutto carico dei suoi pacchi! Altro che renne.”

“Smettila con quella storia delle renne.”

“Ma Isaac, sei tu che credi che le renne volano.”

“Smettila! Non ho detto questo.”

Era arrossito come un peperone, il piccolo guerriero dei ghiacci.

Hyoga rise, mentre Camus continuava a rimestare in un pentolino, senza fretta.

“E in orfanotrofio, Hyoga?” interloquì dopo un poco. “Dicevano le stesse cose di Isaac?”

“Sì, maestro. E ci facevano festeggiare il Natale in una data strana.”

“Non è una data strana. So che tu probabilmente l’hai sempre festeggiato in gennaio, ma in Occidente il Natale cade il 25 dicembre, non come in URSS, che ha un calendario diverso. Il Giappone ha acquisito questa festività dalla cristianità cattolica.”

Hyoga all’epoca ci aveva capito poco.

Solo che gli altri avevano un calendario fatto male.

“Ma è sbagliato.”

“No, Hyoga. È solo diverso.”

 E con questa saggia considerazione, fu servita la cioccolata in tazza.

Hyoga e Isaac si zittirono di colpo, perché non sarebbe ricapitato presto di poter godere di una rarità del genere. Muti, anche quando le ebbero in mano esitarono per fissare con occhi da bambola il liquido denso e dal profumo delizioso che riempiva la stanza. Camus sorrise di nuovo, appena.

Sapeva benissimo che i ragazzi non si aspettavano abeti addobbati, né regali avvolti in carte luminescenti. Avevano imparato da un pezzo, bambini non più bambini, che genere di vita stavano per intraprendere: proprio per questo, in virtù della loro assenza di pretese, aveva estratto dalla dispensa quello che era più unico che raro potere procurarsi, in quella landa senza vita, e offrirglielo così, senza spiegazioni. Era stata una bella pensata, a giudicare dai faccini inebetiti dal profumo dolce.

“Maestro Camus. La cioccolata è per Nonno Gelo?”

“Sì. Diciamo di sì.”

E con questo, ebbero il benestare che serviva loro. Affondarono voracemente i cucchiai per accaparrarsi la cioccolata, a sprezzo del pericolo di scottarsi la lingua. Infatti se la scottarono parecchio.

“Ma Nonno Gelo…” riprese a conversare Isaac, incuriosito, ora che il dibattito era stato sedato e blandito con la cioccolata. Intanto dava aria anche alla lingua scottata. “…come fa a portare i regali tutto da solo, se non ha la slitta?”

“Ha un’assistente” rispose prontamente Hyoga, a bocca piena.

Camus, in silenzio, lasciò la stanza. Hyoga, all’improvviso, si sentì avvolto da una pesantezza fredda, consapevole, che gli fece piegare le dita sul vetro. Chiuse gli occhi, il cuore che batteva forte, aspettandosi di sentire cigolare la porta. La sentì.

“Uno solo?”

“Una sola” corresse la sua vocetta da dentro. “Ed è giovane e bella.”

“Giovane e bella” confermò una voce più profonda, al suo fianco, ora. Hyoga annuì, la fronte ormai contro il vetro. Lo Spirito del Natale Passato era uscito da quella casa accogliente per raggiungerlo. “La piccola Snjegòrushka.”

“Sì.”

“Ci credevi, Hyoga?”

“Sì, maestro Camus.”

“Credi che sia qui per rimproverarti?”

“No. La vostra voce è calma, e non lo credo affatto.”

“Allora perché non ti volti a guardarmi?”

Hyoga lo fece, lentamente, ma solo perché era restio a togliere gli occhi da quella scena calda. Vi si era immerso come in un racconto già letto molte volte, ma sempre amato. Guardò in viso Camus, scuro nella notte siberiana, ma dagli occhi luminosi. Non era più giovane come quando l’aveva preso per mano e condotto ai ghiacci eterni che doveva imparare a sfondare; era il Camus rigido e altero che presiedeva il tempio dell’Acquario in cui era morto. Ma non c’era severità in lui, ora.

“Scusate. È bello rivedervi, maestro.”

“Di nuovo, santo di Atena, ti perdi in ciò che è stato.”

“Non l’ho fatto apposta. Questa volta, è un sogno. Credete che me lo sia andato a cercare?”

“No. Ma come ogni volta che sfiori il tuo passato, tu indugi.”

Snjegòrushka?” vociò Isaac da dentro, squillante come un campanello. “Che nome è?”

“È un nome bellissimo! Snjegòrushka vuol dire fiocchetto di neve…”

“Ti ricordi di Snjegòrushka, Hyoga?” domandò Camus, sulla voce dei bambini. Hyoga annuì, senza una parola. Quindi proseguì lui, quasi con dolcezza, nel vento della bora che lo rendeva quasi indistinguibile, nel buio. Ma Hyoga aveva la sua voce, la sua ferma voce: “L’hai vista, questo Natale di qualche anno fa. I tuoi occhi stanno per alzarsi dalla tazza e posarsi su di lei. E poi correrai fuori nella neve, chiamandola a gran voce. Ti ricordi?”

Un rumore di porta che sbatte. Isaac lo chiamava, agitato. Hyoga non ebbe bisogno di guardare per vedere il bambino che era stato correre a perdifiato nella neve, inseguendo una visione.

“Ho sempre creduto che mia madre fosse Snjegòrushka.”

“Mh.” Camus sembrava sorridere. “Perché?”

“Perché era giovane, e bella. Perché disponeva per me i regali sotto l’abete addobbato. Perché si muoveva come un fiocco di neve, danzando per le vie di Mosca.”

Il vento soffiava, forte. Hyoga non guardava Camus in viso.

“Ho creduto di vedere mia madre, fuori, nella neve.”

Cadde un silenzio che non era un silenzio, riempito dalle grida dei bambini, e poi, soffocato, di qualche singhiozzo. Non c’era bisogno di guardare, per ricordarsi dell’angoscia che l’aveva preso in mezzo al buio e al gelo, la figura sfuggente di Natassia riapparsa per non tornare; e anche se non l’avesse ricordata, poteva perfettamente indovinare. Camus rimase in silenzio a lungo; poi si avvicinò a Hyoga, allungando una mano, pallida e delicata, al suo viso.

Il santo di Cygnus spalancò gli occhi, pure nel vento, a quel gesto tanto affettuoso. Camus non disse nulla, i capelli tanto rossi nell’aria, sorprendenti come un’aurora boreale. Lo accarezzò lentamente, però, il viso contratto in un’espressione sera.

“Hyoga, apparterrai sempre a questo posto. Quello che ti volevo dire, dopo tanto tempo, è che ritengo che tu sia pronto per una prova ulteriore, dopo tutto quello che hai passato. Dopo tutto quello che è stato detto. Dopo che abbiamo alzato la mano l’uno verso l’altro…” abbassò la voce in toni quasi impercettibili. “…affinché tu potessi diventare tanto forte da superare il tuo passato. Ora ti resta solo una cosa da fare, dopo averlo superato.”

“Che cosa… che cosa, maestro Camus?”

Gli occhi di Camus scintillarono, nel buio. I singhiozzi infantili riempivano l’aria, sempre più vicini: stavano rientrando in casa. Il quel momento, Hyoga seppe che stava per lasciarlo. Schiuse le labbra, allungò le mani per trattenerlo, pentendosi di non aver capito subito: voleva parlare, voleva parlare ancora con lui…

Ma Camus, due dita fredde sui suoi occhi, gli abbassò le palpebre, con una carezza.

Non dimenticarlo.

Il vento cessò.

Improvviso come si era alzato.

“Maestro…?” chiamò Hyoga, nel buio. “Maestro!”

“È rimasto.” Scandì una voce conosciuta, che fece rilassare subito a Hyoga i muscoli. Si era involontariamente teso, pronto a scattare. “È rimasto in Siberia, che è il tuo passato, giovane santo. Adesso sei nel tuo presente, al Santuario. E quello di cui hai bisogno è una guida.”

Cygnus si rese conto di poter aprire gli occhi. Lo fece, lentamente, stupendosi e contemporaneamente non stupendosi affatto di chi si trovava di fronte. Un sorriso accogliente, lo stesso di quando aveva spalancato la via alle Dodici Case, come un prato ricolmo di fiori. Eppure, avrebbero incontrato la morte.

“Sommo Mu.”

“In persona. Ti starai chiedendo perché io.”

“Non… mi ero posto nessuna domanda del genere.”

“La risposta, Hyoga di Cygnus, è…” raccolse il mantello, il Santo dell’Ariete, aprendogli la via alle scalinate, come aveva fatto molto tempo prima. Sembrava un mago, un mago dal sorriso dolce, che srotolava un tappeto incantato. “…il luogo stesso.”

In silenzio, Hyoga lo seguì. Le scale parevano infinite, ma poteva solo seguirlo.

Mu era le scale, e assieme, la guida. Dietro di lui, Hyoga compì un viaggio lunghissimo che durò un battito di ciglia.

“Il luogo? Questo?”

“Sarò tua guida.”

“Per il Santuario?”

“Sì. Perché il tuo presente, più che mai, è qui.”

“Spiegati, sommo Mu. Te ne prego.”

Le colonne bianchissime nella notte si moltiplicavano. Nessuna angoscia a pervadere il cuore di Hyoga; il ragazzo camminava, instancabile, ma lentamente impercettibili nodi cominciavano a sciogliersi, dentro di lui. Tante piccole domande che non sapeva di avere in testa e nel cuore.

In quella lunga salita per il bianco e l’oro, le pose tutte a Mu, che con incredibile naturalezza rispondeva. Cominciando con un sorriso, e parole dolci.

Così simile al suo maestro, Shion, dalla pelle luminescente e gli occhi di stelle, lo condusse sempre più in alto, senza fare rumore: “Più che mai, ora, tu appartieni a questo luogo.”

“Non capisco.”

“Tu capisci, invece. È che ancora non vuoi vedere.”

“Che cosa?”

“Che il tuo passato è altrove” un passo dopo l’altro, gradino dopo gradino. Hyoga proseguiva, gli occhi grandi, la bocca semichiusa, come ad assorbire le verità che gli venivano rivelate dal custode delle porte del Grande Tempio. “E che il tuo presente è qui.”

“Perché adesso mi trovo in questo luogo.”

“Adesso più che mai. Ma sono solo per porte che si dischiudono per il futuro. Lo sai.”

“Maestro Camus mi ha detto…”

“Non il maestro che hai incontrato in sogno.”

“No. Me l’ha detto giorni fa.”

“Che cosa ti ha detto?”

“Che ha in serbo qualcosa per me.”

“Tutti noi abbiamo in serbo qualcosa per voi, giovane Cygnus. Ma forse tu ne sei il più consapevole.”

“Perché?”

“Perché hai visto il tuo maestro, nell’isba lontana, hai visto i suoi occhi e la sua voce. E ti sei riconosciuto.”

A Hyoga batteva forte il cuore. Camus. Che nell’isba aveva appena la sua età. Era come lui.

La comprensione cominciava a scorrere, a fluire attorno al suo cuore, dentro la sua testa, e non riusciva a parlare. Fissò Mu.

“Era lui ed eri tu. Santi di Atena. Maestri.”

Fissò il Santuario.

“Sono ancora troppo giovane per essere un maestro.”

“Non è vero. E l’hai capito esattamente in quel momento.”

Erano alle porte del Tredicesimo Tempio. Era stato un viaggio durato il tempo di un soffio. Mu non si fermò neppure allora, infilandosi tra le porte solide, scivolando silenzioso nei corridoi. Il sogno si faceva tanto più nitido, da quelle scalinate bianche senza tempo, alle porte dietro le quali dormivano i fratelli di Hyoga. Parve come riscuotersi, il quel momento, quasi fosse sveglio e stesse camminando la notte preso da insonnia. Ma davanti a lui c’era Mu.

Allora capì perché Mu.

Perché Mu era il luogo.

Mu di Aries che aveva loro spalancato le porte del Santuario, nella mente di Hyoga, era il Santuario stesso. E anche il suo presente lo era: santo di Atena, maestro.

Maestro?

“Mu. Mu, c’è qualcosa che vuoi dirmi?” esclamò, cercando di raggiungerlo. Mu sfiorava dolcemente la maniglia di una porta, come se avesse paura di disturbare il sonno di chi la occupava. Hyoga aveva la testa che frullava di pensieri. Cercò di afferrarlo. “Che cosa significa, maestro? Che cos’ha in serbo Camus per me? Tu lo sai?”

“Lo sai anche tu, ormai l’hai capito. È inutile che continui a farmi domande.”

“Ma così io non saprò mai…”

“No. Il mio compito era solo quello di farti comprendere qualche cosa, nell’infinito groviglio si sentimenti che ti porti sempre appresso. Quello che verrà, è già futuro. E io dunque non ho più senso di essere. Domanda a chi verrà dopo di me.”

“Stai per andartene?”

“Oh, sì.” Il sorriso di Aries era dolcissimo, ma non voleva dire nulla. Hyoga si chiese perché non l’aveva mai notato prima. “Ma prima devo farti vedere qualche cosa ancora, Cygnus.”

La maniglia, piano, senza un suono, si abbassò.

Hyoga non riusciva a ricordare di chi fosse quella stanza.

“Non solo il Santuario e le sue scalinate di marmo occupano la tua mente, nel tuo presente. C’è qualche cosa d’altro ancora che hai lasciato insoluto. Su cui il tuo pensiero vaga e non si sofferma.”

“Io…”

“Entra ed affrontalo. Ti basteranno gli occhi. Cygnus, tu già sai: io non ho dovuto fare niente. Solo metterti in grado di vedere.

E improvvisamente, quella porta chiusa assunse un grande significato.

Hyoga deglutì: sapeva, sapeva eccome. Ma ancora non vedeva.

“Buona fortuna” sussurrò Mu, un ultimo sorriso che si dileguava. Chissà se era per incoraggiamento, chissà se per scherno. Lo facevano molti sogni crudeli.

Hyoga si ritrovò dentro, fermo immobile.

Shun dormiva profondamente.

Lui rimase in silenzio a lungo, deglutendo, in difficoltà. Abbassò gli occhi. Li rialzò su di lui.

Dormiva placido, sommerso dalle coperte, appena rannicchiato. Era come aveva detto Mu: davvero Cygnus non aveva bisogno di comprendere, di nuovo: solo di vedere. La sua presenza lì era già un’ammissione molto più grande di qualsiasi pensiero tenuto nascosto nel suo cofanetto prezioso.

“Beh, carino è carino, non trovi?”

Pensò di perdere almeno tre anni di vita.

Quando si voltò verso la figura che sedeva in un angolo, gambe accavallate e sorriso scanzonato, lo fece tenendosi la mano sul cuore, vergognosamente colto di sorpresa. Aveva praticamente i capelli ritti in testa.

“Mi… Milo! Sei tu!”

“Sono lo Spirito del Natale Futuro” sciorinò lui, con l’aria di divertirsi un mondo. “E sono qui per mostrarti il futuro. Quante cose in sospeso, Hyoga, quanta confusione ti hanno messo in testa. Io sarò più tranquillo, lo prometto.”

“Ma… io… ah… hm… e Shun…?”

“Oh, dorme. Non ci sente. Vieni con me. Ce ne andiamo molto più lontano da qui!”

Con sua somma sorpresa, Milo lo prese subito per mano. Fu un contatto caldo, genuino, svelto: gli strizzò l’occhio, e lo trascinò via. Un’ultima occhiata a Shun, e Hyoga fu travolto dalla neve, uscendo dalla porta. Lanciò un gemito di puro sbigottimento.

“Nevic—ah!

“Ah, sì, quest’inverno ha nevicato molto!” Milo rise, senza smettere di tenerlo per mano. Praticamente, correva; tanto che Hyoga non capiva neppure dove fossero. Per quanto la sua rigidità gli impedisse un contatto tanto confidenziale, così, all’immediato, il Cigno, col groppo in gola, dovette per forza aggrapparsi a lui, per tenergli dietro. Finì per sentirsi di nuovo bambino, stretto per mano a Milo, che correva nella neve senza un problema al mondo, tenendolo forte per non lasciarlo andare. Non era una sensazione spiacevole.

“Milo!” riuscì a gridare, nella corsa. Fiocchi di neve vorticavano tutt’attorno a loro, e ancora più attorno, a circondarli, c’era la città. “Dove mi stai portando?”

“In un posto che non conosci!” esclamò, la voce caldissima. Hyoga lo strinse di più, quasi vergognandosene.

“È il futuro? Che cosa vedrò?”

“Qualcosa di bello” promise Milo, due occhi azzurri scintillanti, nella neve. Il mare nel bianco. Hyoga rallentò il passo con lui, incredulo, con il fiatone, quando gli fece una rivelazione sorprendente: “Perché ho deciso di mostrarti solo il futuro che ti meriti.”

“Che… che cosa?”

“Tu devi capire, Hyoga” Milo si avvicinò al davanzale della casa che avevano raggiunto. Allegramente, quasi, ne spolverò giù la neve, per avvicinarsi, e curiosare oltre il vetro. “Devi capire che il futuro ha in serbo solo meraviglie per i giovani come te. Vieni, vieni a vedere.”

“Quindi questo vuol dire… che non è proprio il mio futuro?”

“Certo che lo è” gli fece cenno nuovamente di avvicinarsi. “Se saprai comportarti a modo.”

“Mmmh.”

“Quel ragazzino, Andromeda, che stavi guardando attentamente nel sonno…”

Hyoga, che aveva cominciato a darsi da fare per raggiungere Milo, gli scarponi che affondavano nella neve, si bloccò, assumendo un’interessante tonalità color fanale. Non riuscì a spiccicare parola. Milo, per tutta risposta, notandolo, ghignò: “È carino.”

“Hm.”

“Perché non gli dici quello che ti frulla in testa da un po’?”

“Perché… non so. Perché sono ancora confuso” riuscì a tirare fuori, sorprendendosi anche solo del fatto di riuscire a dirlo. Senza dubbio, era un sogno. Boccheggiò, cercando aria fresca, e poi chiuse gli occhi. Dirlo a Milo, nella neve che cadeva, a larghe faloppe, era così semplice, così naturale: “Non è semplice esprimere quello che sento.”

“E così preferisci tenerlo tutto per te. È vero. È sacro. È prezioso. Ma comporta grossi rischi. Perché non ti abbandoni, per una volta, a seguire l’istinto al primo colpo?”

“Perché sono fatto così” borbottò piano, Cygnus, riuscendo finalmente ad accostarsi a lui, i piedi a scrollare la neve che gli si accumulava addosso. Mentre lo diceva si sentì tanto, incredibilmente, vergognosamente adolescente. Milo dovette pensare la stessa cosa, dalle pacche intenerite con cui lo fece avvicinare di più, sfregandogli affettuosamente la schiena. Come un fratello maggiore.

“Lo so, Hyoga. Però la vita ti può riservare davvero grosse sorprese. Guarda dentro.”

Hyoga esitò, prima di guardare. Con espressione concentrata, allungò una mano a ripulire il vetro dalla brina e dallo strato di vapore addensato al di fuori. Dentro, rimaneva leggermente opaco, ma quanto bastava per guardare. Trasalì, al vedersi seduto su una poltrona, a leggere chissà cosa, le spalle curve.

“Quello sono io.”

“Eh, sì.”

Suonò il campanello. Hyoga, da chinato che era, si alzò, stiracchiandosi, per andare ad aprire la porta. Lui stesso, da fuori, più piccolo, poté vedersi meglio, un giovane adulto dal passo disinvolto, a proprio agio nella propria casa. Si guardò attorno, distogliendo un attimo lo sguardo. Sì, era Tokyo. Ora non aveva più dubbi.

“Ehi. Buon Natale” lo distrasse la propria voce, all’interno, incredibilmente diversa. Sensuale, calda, addirittura: era accompagnata da un sorriso sulle labbra che non si era mai visto in volto.

“Buon Natale a te!” trillò un’altra voce conosciuta, anche questa più bassa. Ma Shun non era capace per natura di rimanere troppo rigido: lo vide entrare a grandi passi, e, per prima cosa, buttargli le braccia al collo, ridendo.

“Hai fatto presto.”

“Io faccio sempre presto” increspò le labbra in una piega imbronciata letteralmente adorabile, Andromeda, sotto gli occhi increduli di Hyoga, che guardava da fuori e lo riconosceva, e assieme non lo riconosceva affatto. L’altro, però, senza alcun imbarazzo né perplessità di alcun tipo, gli cinse morbidamente i fianchi, allargando il sorriso.

“Sì, sì. Sempre.”

“Bene. Mi hai preparato gli ingredienti per i biscotti?”

“Sì.”

“E tutto l’occorrente?”

“La cucina è tua.”

Vedersi con uno sguardo talmente profondamente innamorato, per un adolescente, è dura. Hyoga, incredulo, non sapeva se arrossire sino alla punta delle orecchie, boccheggiare sconvolto, alzare le sopracciglia sino ai limiti della propria costellazione. Probabilmente stava facendo tutte e tre le cose, considerata l’aria divertita che prendeva Milo a sbirciare le sue reazioni.

Shun rideva, cristallino. Non era la stessa risata alta e innocente in cui poteva irrompere adesso, a uno scherzo divertente, alla gioia di vedere un prato ricolmo di fiori. Era più matura, profonda, ma sempre incredibilmente chiara. Con sommo sgomento di Hyoga, il cavaliere di Andromeda gli diede l’assalto arrampicandosi con implacabile destrezza fra le sue braccia, sino a ritrovarcisi appollaiato in mezzo. Gli passo le braccia attorno al collo, con un sorriso altrettanto adorabile quanto il primo che gli aveva rivolto.

“Allora? Non mi ci porti?”

“Ah, subito” si sentì sbuffare, scherzoso. “Cosa non si fa per una teglia di biscotti.”

“Veramente sono per tutti!” protestò, acuto, l’altro, senza riuscire a mascherare l’ilarità, ma la voce andava già sfumando: si stavano spostando altrove, senza troppi impedimenti nonostante il groviglio strano che avevano formato. Hyoga si vide sollevare Shun dall’onere di camminare con le proprie gambe da una stanza all’altra, e lo portava in cucina in braccio.

“Beh, niente male, Hyoga. Qui avrai venti, ventun anni, all’incirca. L’età del tuo maestro, direi. Hai visto che bell’uomo che sei diventato?”

“Non capisco” borbottò quello, fermo piantato davanti alla finestra come un lampione “se sono diventato il suo… fidanzato, o il suo schiavo a vita.”

Milo rise, di cuore, a quel tentativo di sdrammatizzare. E fu quello che ci voleva, perché Hyoga prese a grattarsi la testa, imbarazzato, sì, ma accennando un sorriso. Almeno aveva alleggerito un po’.

“Probabilmente entrambe le cose” dichiarò serissimo lo Spirito del Natale Futuro, gatto sornione appoggiato al davanzale. “Prenderà presto possesso di te e non potrai più tornare indietro.”

“Parli come se sapessi.”

“So di quel che parlo.”

“Milo, io… ti sono grato per questa visione del futuro. Anche se non so se si avvererà.”

Hyoga abbassò gli occhi azzurri sul davanzale la neve cadeva talmente fitta e a larghi fiocchi che si sentiva letteralmente ricoprire. Attorno a lui non c’era più niente: la casa, la città. Niente.

Abbassò le palpebre. Chissà cosa sarebbe successo, a lasciarsi sommergere dal bianco. Così morbido e puro, per sempre…

“Si avvererà, Hyoga. Non sono apparso nei tuoi sogni per darti delusioni: si avvererà se saprai comportarti nella maniera giusta. Se saprai ammettere i tuoi sentimenti, che già conosci, perché ho visto l’emozione con cui hai guardato in questa finestra; se oserai finalmente sperare, bambino disilluso; se avrai il coraggio di levare la voce.”

“La fai così facile…”

“No. Non è facile. Non è stato facile neppure per me. Ma che cos’altro potevo fare?”

Hyoga si voltò lentamente, nella neve. Tutto era bianco, enormemente bianco.

Milo sorrideva, spirito durato nella neve: “Combatti, Cygnus, per ciò in cui credi. Se io ho piegato il custode delle energie fredde, il Maestro dei Ghiacci, oh, tu non avrai bisogno di arrivare a tanto. Fidati.”

E poi rise. Una risata bellissima, piena.

Hyoga li vide, Scorpio e Aquarius, senza vederli.

Schiuse la bocca, ammaliato, senza sorprendersi.

“Milo…” un sussurro, appena. “…tu credi?”

“Io credo sempre.” Milo abbassò la voce, catturando il suo sguardo, magnetico, le labbra dischiuse. Sembrava talmente interessato, così fisso e immobile, che il Cigno non riuscì a distogliere l’attenzione da quegli occhi, paralizzato. “Non te lo ricordi, Hyoga? Me l’hai detto tu. Tempo fa. Sogno non è sinonimo d’impossibile. In quel momento ho capito, e l’ho sempre pensato, che noi due, in fondo, ci assomigliamo.”

Non serviva altro, ora, mentre il vento non era più vento.

La bora l’aveva portato in tre posti diversi, tutti lontani, e ora si placava.

“Allora io…”

“Allora tu devi tornare, Hyoga, ed essere felice. Camus ti ha insegnato a fare tesoro del tuo passato, dopo averlo superato, perché ormai sei pronto per farlo. Mu ti ha insegnato ad aprire gli occhi sul presente. Io voglio che tu ora sia felice.”

Hyoga sentì gli occhi riempirsi di lacrime, ma non poté piangere.

Il freddo aveva reso insensibile le sue guance, il suo volto.

Si accorse che la neve l’aveva davvero ricoperto.

Che finalmente avrebbe saputo com’era, perdersi in un mondo bianco, freddo e lucente. E puro, come l’idea stessa della purezza. Pulito e confortante. Chiuse gli occhi, respirando come se respirasse per l’ultima volta.

“Chiudi gli occhi e dormi, bambino” sentì l’ultimo sussurro, e chissà se era di Milo, di Camus, o di sua madre, addirittura, dagli echi di un tempo lontanissimo. “Sarà un meraviglioso Natale.”

Il vento smise di soffiare.

E il silenzio calò come neve.

 

 

 

 

 

The Carol

 

Buongiorno a tutti! Aggiorno con due giorni di ritardo rispetto a quanto avevo promesso, con tante sentite scuse e facendo gli occhioni grandi e umidi per farmi perdonare. Sono stata indaffarata.  È Natale non solo per questi spuccini, ma anche per le povere mortali che tra lo studio, la gente da spucciare prima delle vacanze, i parenti da sedare, la neve da spalare, i regali da comprare, le visite da fare, i prodotti di Lush da provare (ho i capelli tutti vaporosi che sanno di cocco! Weee! *C*) non sanno più dove stanno di casa, a momenti. Infatti mi sono portata dietro il capitolo da finire in chiavetta e sto pubblicando in trasferta. Vogliatemi bene! ;O;

 

Il sogno di Hyoga è quello che ha e avrà, credo, il maggior numero di caratteristiche del sogno, vero e proprio. Ho cercato di rendere l’ambiente molto onirico, credo che si adatti al personaggio: sfumato, sentimentale, evocativo. Mah, che dire, spero di aver fatto un buon lavoro. Non è stato facile neppure questa volta, considerata la grande carica affettiva che sto cominciando ad avvertire verso questo personaggio; ma attendo i vostri giudizi. :)
Ce la metterò tutta per consegnarvi il prossimo capitolo – il penultimo – in tempo! Per Natale farò carte false pur di pubblicare la conclusione: avrete tutto il fluff che non avete avuto sino ad esso, lo giuro.

Un bacione e un grazie a tutti; specialmente a LeFleurDuMal, da cui sono stata ampiamente contagiata per le atmosfere suggestive di Neve; non citarla è impossibile, considerato il contesto. Bacioni a cascate. Anche a Shinji, che in play mi tiene uno Shun che va oltre… va oltre… va oltre. Grazie davvero.

 

No, Jacob non è il palestrato di New Moon ma quel paciughino che accompagna Hyoga ovunque in slitta.

, la costellazione di Andromeda è nell’emisfero boreale e non è strano che Hyoga la veda; in realtà non è nemmeno lontanissima da quella del Cigno. In questo caso non sono io a fare fan service.

, i russi festeggiano davvero Natale a quel modo e il loro folklore mi uccide di tenerezza.

, Milo è un amore. Lui e Camus sono davvero mampapà e mamma. *luv*

 

LeFleurDuMal: Saga quarantenne doveva comparire, prima o poi. È un erotic-concept troppo grande per rimanere sconosciuto al mondo. Ma che figo è? Sì, prima o poi dovremo riprendere in mano la yakuza, la mafia, i templi buddhisti e pure Las Vegas. Gh. Ma abbiamo tutta la vita per noi, mon amour. =ç=

Kijomi: Sì. Lo so. <3 Ti amo.

Shinji: Sì, Shin, non è splendido? Ora abbiamo praticamente tutti i feticci sessuali in comune! *O* La nostra amicizia uscirà rinsaldata da tutto questo! (?!) Dopo tutto il fan service e la mafia, ora ti sottopongo questa cosa spiumeggiante; ormai l’era dei pennuti si è aperta, tanto vale spararcela. :D Un bacio a te!

beat: Guarda, nemmeno io avrei dato mezzo soldo bucato a Ikki e Aphrodite. Nel senso, ma chi li vede mai interagire? (giustamente) E invece guarda qua. Andrebbero avanti per ore. Da non credere. Nemmeno io so cosa dire a parte ringraziarti enormemente per  i bei commenti che mi fai, che guarda che mi lusingano tantissimo! ;_; Non smettere maih!

Himechan: Grazie mille e baci a te, cara! Ikki è palesemente nel suo ambiente naturale, dovevamo vederlo prendere a botte un po’ di gentaglia o troppo Dickens, caramelle e spuccioserie poi ci rubano l’anima. A presto! <3

BianchiD: LOL, è vero, Ikki è il più Scrooge di tutti! Speriamo non incontri mai il piccolo Timmy! Un grosso grazie e alla prossima. XD

Kagura92: Alla faccia della stanchezza! È una recensione bella e davvero sentita. Devo ringraziarti tanto, per tutte le sfumature che cogli. L’ultima frase che mi hai lasciato mi ha dato una soddisfazione immensa: dovrei solo riscriverla così se volessi riassumere in una parola tutto ciò che ho scritto. Grazie.

Regina di Picche: Ebbene, Seiya ha risvegliato il pucciume necessario, e Ikki è entrato in grande stile, di modo che una fan che lo sa apprezzare rimanga soddisfatta. :D Questo è più che sufficiente, anzi. Che le atmosfere siano diverse è inevitabile, anzi è il bello: Ikki per natura è molto più oscuro degli altri. Attendevo con ansia di scrivere un capitolo noir. XD Alla prossima e non crucciarti… come vedi sono in ritardo anch’io. O_o

 

 

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Capitolo 6
*** Il Canto di Andromeda ***


Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

 

 

Capitolo 6. Il Canto di Andromeda

Dove si cerca di fare passare Shun al Lato Oscuro.

 

 

 

Pandora era esattamente come Shun la rammentava, riflessa nei suoi ricordi di bambino troppo piccolo e in quelli di Ikki, bambino troppo grande: capelli scuri e lisci ad incorniciare un viso delicato e grandi occhi d’ametista in cui si poteva affondare per sempre.

Un invito pericoloso.

“Pandora-san?”

“Fratello mio.”

Chissà da quanto era sveglio; dal nero più profondo del sonno senza sogni si era ritrovato seduto sul letto, le mani in grembo e gli occhi aperti sulla figura nerovestita al centro della stanza. Gli aveva sorriso, dolce, con tutta la grazia della signorina di buona famiglia che dimostra sin troppa indulgenza verso il ritardatario più affascinante della festa.

“Fratello mio amato, è bello rivederti.”

Shun non rispose niente, per un poco. L’istinto gli diceva di rimanere fermo, di non rispondere neppure, fin quando non sarebbe stato necessario; sembrava un sogno, un sogno strano e grottesco, un gioco dell’oca, in cui un tiro sbagliato del dado riportava alla casella di partenza. Schiuse appena le labbra, fissando con occhi grandi la donna che lo chiamava fratello bramando il suo corpo per Hades, dio dei morti.

“Pandora-san. Non sono la persona che cerca” scandì, piano, nella stanza buia. Così buia. Non era più un neonato in fasce, si disse quasi meccanicamente: poteva risponderle. Senza nessuna espressione in particolare sul viso, senza malizia, Shun la guardò trasparente: “Se ne vada. Per favore.”

“No, fratello mio. Non stasera.”

La finestra ritagliava un angolo blu senza luci, nel pieno della notte. Pandora si avvicinò, frusciando, le vesti pesanti e scure ad oscurare a turni i piccoli punti chiari della stanza, rare macchie lattiginose: troppo lontano da lì, le torce ardevano, a rischiarare le scale.

“Non sono la persona che cerca, Pandora-san” ripeté Shun, senza ancora muovere un dito. “Non so perché sia qui. Non so che cosa vuole da me. Non posso aiutarla.”

“Shht.” Due dita, chiare e seriche, si posarono sulle sue labbra. Shun spalancò ancora di più gli occhi. “Quanta fretta. Non a me devi dire queste cose, amato fratello. Ma io rimarrò qui ad aspettarti, sappilo. Tutto il tempo che ci vorrà.”

Aspettarlo?

Lo sguardo di Shun era talmente eloquente che Pandora sorrise. Era talmente vicina che il ragazzino poteva sorbire direttamente dai capelli il suo profumo di fiori, denso e pesante, come di viola, o gelsomino.

“Lasciati guidare, prima, da tre spiriti. Conosci i tre spiriti del Natale?”

“Gli spiriti del Natale!” poté finalmente parlare, lui, sorpreso. Appoggiò le mani al bordo del letto, intossicato dal profumo. Esitò un attimo, solo per quello. La guardò dritta negli occhi, cercando di capire. “Ma questo è un racconto… io che cosa…?”

“Sì. Passato, Presente, e Futuro. Loro, oh, loro sapranno trovare le parole, fratellino mio adorato. Ascoltali con attenzione. Fa quel che ti dicono. Non faranno nulla contro la tua volontà: saranno tue le scelte. E al termine di tutto, io sarò qui ad aspettarti…”

La voce si fece bisbiglio, come vento tra le foglie secche.

“Pandora-san! No! Io non posso…!”

Shun si alzò in piedi di scatto, cercando di non perdere di vista Pandora. Era importante, si rese conto, terribilmente importante non lasciarla fuggire. Staccandosi di botto dal letto si lanciò al centro della stanza, e poi alla porta, per cercare di raggiungerla.

I corridoi del Tredicesimo Tempio erano ampi e scuri, nella notte, ma perfettamente rassicuranti; ciononostante, Shun avvertì un incredibile senso di freddezza, lì dov’era, in piedi, i piedi nudi sul pavimento duro. Sembrava persino più piccolo di quanto già non fosse. E Pandora era sparita.

Come se fosse tutto perfettamente normale, Shun rientrò nella propria stanza, raccolse il maglione a maglie larghe che aveva piegato sulla sedia, se lo infilò sopra il pigiama a righe. Si abbottonò, diligentemente, tirando fuori il colletto. Si infilò le pantofole. In soldoni, fece tutto quello che avrebbe fatto un bravo bambino per non prendere il raffreddore, prima di riaprire la porta e uscire in una pericolosa fuga notturna alla ricerca della sacerdotessa dei morti.

Quanto prima aveva ardentemente desiderato che Pandora si dileguasse alla sua vista, ospite inattesa e pericolosa, ora sentiva di doverla a tutti i costi ritrovare: voleva farsi spiegare le sue parole, era necessario sapere qualcosa di più su questi tre spiriti, e, soprattutto, su cosa c’entrasse con lui quella favola natalizia, quella stessa che Shion aveva letto loro nel pomeriggio freddo e senza neve della vigilia di Natale, appena poche ore prima.

“Pandora-san?” chiamò, vagamente, tentando assieme di non alzare troppo la voce per non farsi sentire dagli altri. “Pandora-san? La prego, ritorni. Deve dirmi di più. Deve dirmi…”

S’interruppe, cogliendo uno spiraglio di luce tagliare il buio, poco più avanti a lui. Inequivocabilmente, una porta socchiusa.

Spalancando gli occhi per sfruttare più che poteva l’unica fonte di illuminazione, Shun affrettò il passo scalpicciando il più silenziosamente possibile: non voleva fare rumore. Camminò sopra tutti i tappeti. Appoggiò la mano delicatamente sul legno intarsiato, aspettando col fiato sospeso chissà che cosa. Proprio quando stava cercando di decidersi se aprire o meno, una voce dall’interno lo interpellò: “Avanti, avanti. Non stare ad aspettare lì fuori.”

Shun sussultò, impercettibilmente. Ma poiché era stato interpellato, aprì la porta, spingendola piano, sbirciando subito all’interno, senza nessuna idea di che cosa aspettarsi. La voce che aveva parlato, di tonalità bassa e allo stesso tempo cantilenante, era decisamente troppo virile per essere di Pandora. Una volta dentro, sbarrò gli occhi, incredulo: quel posto non apparteneva certo al tempio di Atena.

Sembrava un’illustrazione di un libro di racconti per bambini, nei suoi colori quasi dipinti ad olio. Immense ricchezze e tesori colmavano la stanza, dal sapore antico, europeo, tutto illuminato da una luce bassa e calda, proiettata sia dal camino scoppiettante che dal lampadario al soffitto. Sullo scranno prezioso al centro, con aria allegra e svagata, stava appollaiato un uomo che Shun aveva visto a malapena una volta, di sfuggita, in un delirio di morte: aveva tentato di sopraffarli al Muro del Pianto, poi Hyoga si era parato sulla sua strada, ergendo muri di ghiaccio in difesa dei fratelli che prendevano la via dell’Elisio.

Minosse, giudice infernale.

“Minos-san?” tentò, limpidamente confuso. Era così strano vederlo in quel momento, in quella stanza, così vestito, in quell’atmosfera festosa, che gli venne stupidamente naturale onorarlo di un appellativo di cortesia. In tutt’altro contesto non gli sarebbe venuto mai in mente. Sbatté più volte gli occhi, vedendolo allungare sul viso un ghignaccio bianco da spaventapasseri; ma strano a dirsi, non sembrava minimamente minaccioso.

“Proprio io, Andromeda. Siediti, siediti. È la vigilia di Natale. Non ci risparmiamo in festeggiamenti. Rune! Porta del vino.”

“Sì, sommo Minos.”

Shun spalancò ancora di più gli occhi. A forza di sorprese strampalate di quel genere, se li sarebbe ritrovati della dimensione di due piattini da caffè.

Rune se lo ricordava bene, l’aveva affrontato al Tribunale dei Morti, accanto a Seiya. Era stata una parentesi tragicomica, quasi surreale, che agli occhi di Shun si era conclusa con lo specter che, senza nessuna apparente ragione, dopo averlo guardato bene era scappato urlando. Adesso lo stesso specter si affaccendava su e giù per la stanza, fra i suoi ori e le sue decorazioni, indaffarato come una cameriera solerte, in netto contrasto con la faccia seria da impiegato modello.

“Rune? Rune-san?”

Rune sbiancò e decise di evitare di guardarlo negli occhi. A quanto pare non aveva dimenticato l’infelice episodio della testa di Hades che gli parlava. Minos rovesciò la testa all’indietro, in una risata gutturale e priva di gioia, ma decisamente divertita.

“Lascialo lavorare. Posso offrirti del vino?”

“Oh, no, grazie, non bevo.”

La conversazione era più che mai surreale.

Almeno, era tra Shun di Andromeda e Minos di Griffon.

Ed era incredibilmente gaia.

“Oh, che disdetta. Troppo giovane, invero. Tskch. In Norvegia, non fa granché differenza. Non è vero, Rune?”

“È così, sommo Minos.”

“Oh. È giusto” si illuminò Shun, credendo finalmente di capire qualcosa. Pur nell’assurdità del tutto, ovviamente. “Rune-san è il procuratore di Minos-san.”

“E il mio luogotenente. E il mio vice. E il mio sostituto. E copia le mie lettere, e rimesta il carbone nella mia stufa” elencò Minos con aria apparentemente distratta. Con ogni probabilità stava solo motteggiando – senza dubbio in maniera strana e contorta – riferendosi al sottopagato Bob Cratchit, ma Shun era decisamente troppo giapponese per cogliere una citazione del genere: sbatté gli occhi senza sapere cosa dire, mentre Rune serviva con aria afflitta un calice di vino rosso al suo signore. Quello ridacchiò grottescamente, accavallando le gambe e accomodandosi ancora di più sul suo bel trono.

Sembravano davvero dipinti, nei loro colori caldi e ornati di decori opulenti. A Shun, che rimirava senza ragione il lungo manto di ermellino che ricopriva il terribile gigante di Hades, venne da pensare al Principe Giovanni di Robin Hood. Associazione mentale quanto mai deleteria.

“Minos-san, mi perdoni: credo di avere appena capito qualcosa. Lei per caso è…” Non vide l’espressione di Minos che si girava a guardarlo: troppi capelli spioventi sul viso, oscuravano quasi completamente gli occhi. Shun deglutì: “…lo Spirito dei Natali Passati?”

“Eccellente intuizione. Sì, sono lo Spirito dei Natali Passati. E sono l’unico ad avere un assistente. Non puoi immaginare tutto il lavoro che ci si trova ad affrontare nel catalogare minuziosamente il passato; ah, tutta burocrazia…”

“Oh.”

Non che quest’ultima informazione interessasse molto a Shun; tanto più che Rune pareva essere lì solo per il divertimento personale di Minos, che studiava con un ghigno sardonico tutte le espressioni facciali del suo procuratore, specie nei pressi del loro piccolo, dolce ospite. Il Balrog pareva non aver rimosso il trauma; il motivo del tuo sacro terrore, invece, se ne stava seduto compito, guardando entrambi in paziente attesa.

“Sono qui per mostrarti alcuni Natali del tuo passato. Sei pronto?”

“Oh, sì.” A Shun pareva persino un bel viaggio. “Sì, sono pronto. Ma perché? Qual è il motivo di tutto questo?”

“Pazienta, Andromeda. Pazienta. Rune. Apri il libro.”

“Sì, sommo Minos.”

Venne aperto un libro, che passò di mano in mano; da quelle delicate di Rune a quelle ferme di Minos, senza sfiorare quelle piccole di Shun, si spalancò, fermandosi a pagine aperte, non su fitti appunti vergati a china, bensì su un’illustrazione colorata di giallo e rosso.

“Avvicinati e guardala meglio.”

Shun allungò il visino, un misto tra eccitazione, curiosità e timore. E quello che accadde fu indescrivibile.

Profumo di torta, di aghi di pino quasi secchi, e assieme di polvere, polvere sul polistirolo, sulle cupole di vetro delle luci che andavano pulite, rumori di piatti di plastica che si separavano, sgangherati, passi, passi, passi, rumorosissimi passi, risate e grida, una voce femminile che si faceva sentire più delle altre, luci, luci, lo sguardo di suo fratello, piccolo, occhi grandi, espressione concentrata.

“Ikki-nii-saaan!”

“Non ora, Shun.” Ma una carezza sulla testa, che sapeva di buono. “Hanako-san ti chiama.”

Sììì!

Ancora profumi, adesso di ragazza. E della stoffa del grembiule.

Occhi neri neri, sorriso bianco.

“Shun-kun. Mi aiuti a portare i regalini?”

Sììì!

“Oh, Shun-kun. Sei così carino.”

Risate contente.

Passi, passi, passi. Di corsa. Qualcosa che si rompe. Le ragazze sgridano i malfattori. Lui no, lui porta i pacchetti e riceve carezze. Fuori dalla finestra vede la neve.

“La neve! La neve!”

“Oh, Shun-kun, hai ragione! Nevica!”

“La neve!”

Corsa verso la finestra. Odore di freddo e di vetro. Si assembrano tutti. Rischia di cadere. Si aggrappa a qualcuno. Affonda la faccia in capelli biondi. Stringe gli occhi, strattonato via fuori dal gruppo dal bambino con i capelli biondi. Troppi bambini alla finestra vogliono vedere la neve. Di nuovo profumo di ragazza, carezze tra i capelli. Capelli chiari chiari disordinati, nessun sorriso: “Stai attento.”

“Ehi. Ce l’hai con mio fratello?”

“Ikki-nii-san, no! Sono stato io! Sono caduto addosso a Hyoga-kun.”

“Non m’importa niente. Ehi! Mi hai sentito?”

La ragazza tiene Ikki, con un sorriso indulgente, ma lo tiene. L’altro bambino li guarda senza una parola e se ne va. Shun guarda i capelli biondi. È da quando è arrivato che li guarda. Nessuno in Giappone ce li ha così. Gli correrebbe dietro, ma sa che non parla quasi con nessuno. Gli dispiace.

“Shun, vieni con me. Mi hai sentito, Shun?”

“Andromeda.”

La voce bassa stacca da tutto.

Shun rialza la testa, come se riemergesse da sott’acqua. Ha il respiro corto e gli occhi spalancati.

“Troppi ricordi tutti assieme…” ghigna Minos, una mezzaluna, il sorriso bianco, le mani ingioiellate voltano pagina. Shun boccheggia. “Ne troveremo altri.”

“Era l’orfanotrofio. Ero io. Era… confuso.”

“Eri un bambino. Che cos’hai capito?”

“Oh… beh… poco. In verità.”

“Due cose.” Gli occhi di Minos rilucono, nella stanza piena d’oro. Rune lo fissa senza una parola, le mani a sorreggere il volume da sotto. “Eri un bambino facile da sopraffare. Ma eri anche un bambino molto amato: questo ti proteggeva. Tuo fratello ti proteggeva. Le ragazze dell’orfanotrofio ti proteggevano. Eri carino ed adorabile. Il tuo candore ti ha sempre salvato.”

“Ma non… non è vero. Non è una cosa che facevo apposta.”

“Certo che no.” Un nuovo disegno, sotto i suoi occhi. Shun si avvicinò, irresistibilmente attratto, e la voce di Minos lo ricatapultò dentro: “Ti viene naturale.”

Ora caldo.

Caldo asfissiante.

Shun!

Ora freddo, senza cognizione, senza causa. Mani più tiepide sulle spalle, poi sulle proprie mani. Voce vibrante da dietro una maschera di ferro, risuona di respiri concitati.

“Starò più attento.”

“Fallo! Sono così in pena per te, Shun.”

“Sorridi, June, ti prego. È Natale. Non senti i canti, lontani?”

“Lontano, troppo lontano da qui. Lascia che ti annodi più stretta quella benda.”

“Sto bene.”

“Non hai voluto ferirlo e ora sei tu il ferito.”

“Mi piacerebbe vedere ancora una volta la neve.”

“Non qui, lo sai. Vuoi festeggiare il Natale?”

“Voglio…”

“Ti ci porterò. Un giorno. Quando entrambi saremo liberi. Il maestro ci vuole bene, lui ci addestrerà sino a che non saremo forti e liberi di andarcene dall’isola di Andromeda. Allora verrò con te a vedere la neve. Fino ad allora, Shun, ti prego: fai attenzione!”

“June…”

“Shun, promettimi che ce la metterai tutta. Io non voglio…”

“Te lo prometto. Ti prego, June: non piangere.”

Una risata a cascata, che non era quella di June, sicuramente: Shun rialzò il volto allo stesso modo di prima, la testa vorticante. Il suono del tomo che si chiudeva, con un tonfo, lo risvegliò definitivamente.

“L’isola di Andromeda” sussurrò, gli occhi persi in un punto lontano, avanti a sé. Minos sogghignò, carezzando la preziosa rilegatura di cuoio. “June. Oh, June. Anche lei mi ha sempre protetto.”

“Naturalmente.  Ti amava. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per te. E il tuo candore, la tua purezza, Andromeda, oh: anche lì ti hanno salvato.”

“Minos-san, la smetta, la prego. Parla come se…”

“Come se fosse una cosa brutta? Affatto.” Gli occhi di Minos lampeggiarono, gialli, attraverso la folta frangia. Occhi di rapace. Shun, improvvisamente, ebbe un brivido. Si alzò dalla sedia, vi si accostò, tenendolo d’occhio. Si era forse dimenticato chi era? Il Giudice Infernale sorrise, una lunga fila di denti bianchi, la voce che si faceva melliflua. “Al contrario, per il nostro signore è la qualità al di sopra di tutte. Andromeda, indubbiamente tu sei l’uomo più puro del mondo.”

“Cosa vuole?” Shun saettò gli occhi da lui a Rune, e da Rune a lui, di nuovo. “Cosa volete?”

“Dimostrarti che il tuo posto, giovane confuso, è sul trono del nostro regno.”

“No! Lo sapete! L’avete sempre saputo! Non sono io…”

“Sei tu, e lo sai perfettamente. Rune.” Voltò il capo appena, Minos, ottenendo l’attenzione completa del suo attendente. “Apri la porta. Il giovane Andromeda sembra ansioso di andarsene.”

“No, io… prima voglio delle risposte. Perché tutto questo? Che cosa state cercando di fare? Hades è morto.” Ebbe un brivido lui stesso, mentre lo diceva. Sgranò gli occhi, come per invitare Minos, impenetrabile, al suo contrario, a leggervi dentro per provare la sua sincerità. “Hades non esiste più. Non potrà più tornare sulla Terra. Perché allora tornare da me?”

“Hades è morto” scandì lentamente Griffon, questa volta senz’alcun accenno di divertimento nella sua voce. Si era fatto fosco, un’aura fredda lo avvolgeva. Tutta la stanza si era fatta fredda. Tutti i colori si stavano spegnendo. Shun arretrò, avvertendo il sogno farsi incubo, il cuore in gola. “Hades è morto, ma esiste ancora. Hades è la Morte, e la Morte è eterna. Hades tornerà. Forse ci vorrà del tempo. Privo del suo corpo divino, solo spirito, solo essenza, risorgendo dalle cavità più buie della terra. Tornerà.”

Allungò una mano in avanti. Shun fece come per pararsi, tutti i senti all’erta, ma quello spalancò solo di più la porta. Un soffio di vento spense tutte le candele. Minos lo guardava negli occhi, raggelante, nel buio.

“E ora và. Non mancare di aprire l’altra porta.”

E come fu fuori, nel corridoio, spinto da Minos e dal vento sgarbato, che lo invitava ad uscire, Shun si fermò a guardare la porta richiudersi, con uno scricchiolio spaventoso. Aveva ancora un nodo alla gola, il cuore martellante nelle tempie. La paura, non poteva negarlo, l’aveva attanagliato sin nelle viscere.

Trovando la forza chissà dove, si voltò. Forse perché qualsiasi cosa era preferibile allo scuro del corridoio, ora non più rassicurante come prima, afferrò subito e senza esitazioni la maniglia della porta che si trovava di fronte, all’esatto opposto di quella da cui era uscito. La spalancò, anzi, i denti stretti: qualsiasi cosa ci fosse in serbo per lui, la voleva affrontare. Aveva paura, in qualche modo; ma Pandora gliel’aveva detto: non faranno nulla contro la tua volontà.

E se era la sua volontà, che volevano manipolare, lui l’avrebbe tenuta salda come solo un cavaliere di Atena poteva fare.

“Sorpresa! Buon Natale!”

“Ah?”

Fece a malapena in tempo a dirlo, ah: gli piovve in testa una fronda di foglie non bene identificate, che per metà lo punsero anche in maniera fastidiosissima, conficcandosi nella cute. Trattenne un gridolino di dolore e sorpresa solo perché oltre il verde, al di là dei confusi movimenti festosi, avvertì e sentì la strabordante luce calda che aveva visto nell’altra stanza prima che tutto si oscurasse, tanto accogliente da scaldargli la pelle. Quando riuscì ad alzare l’imbarazzante copricapo che gli era stato cacciato in testa, si accorse di essere coperto di agrifoglio.

“Ehm… chi…?”

“Sono lo Spirito del Natale Presente!” Tuonò una voce virile, con l’evidente orgoglio di chi si è calato nella parte. Si fece poi più sogghignante, in perfetta atmosfera specter: “L’hai fatto arrabbiare, eh, il caro vecchio Spirito dei Natali Passati? Erroraccio. Non fare mai arrabbiare Minos. Per fortuna che questo era un sogno, pulcino di santo.”

Shun sbatté più volte le palpebre, cercando di riconoscere il nuovo spirito: ma proprio era sicuro di non averlo mai visto in vita sua. Sapeva solo che tra i capelli mori arruffati spuntava ancora più agrifoglio che dai suoi, e forse anche del vischio. I suoi occhi erano incredibilmente mobili, voraci.

Non abbandonava il sogghigno. Coraggioso, per uno bardato a quella maniera.

“Oh” s’illuminò poi, timidamente. Cercò anche di sistemarsi la corona in testa di modo che magari non gli trapassasse almeno il cervello. Che fatica. Questo sembrava davvero carico di buone intenzioni. “Forse ho capito. Se Pandora-san mi ha chiamato, e le guide sono tre… il primo era Minos-san… e di sicuro incontrerò Rhadamantis-san…”

“Sì?” gli diede corda lui, più che altro tanto per farlo contento.

Shun non vi badò: “Voi dovete essere… Aiacos-san?”

“Che delizioso bambino educato. Non stare impalato sulla porta. Entra.”

Sgomento, Shun entrò. Non riusciva neppure più a fare a meno degli appellativi onorifici, nonostante non capisse più se i Tre Giganti Infernali di Hades lo volessero festeggiare o lo volessero morto. E non tanto per l’orribile trasfigurazione e le minacce di Minos, quanto per quella corona di agrifoglio assassina. Come faceva Aiacos-san a reggere in testa la sua?

“Come Spirito del Natale Presente, è mio dovere metterti davanti a una scelta.”

Aiacos spiccò un piccolo balzo, raggiungendo uno scranno del tutto simile a quello di Minos. Shun, intimidito quanto era necessario, si sedette di nuovo obbediente sulla sedia. Che altro poteva fare? Per un attimo si immaginò da fuori, piccolo, occhi grandi, sperduto nel suo pigiama, nelle sue ciabatte e nel suo maglioncino, e con quel cespuglio in testa. La Garuda invece non pareva porci la benché minima attenzione.

“La risposta è no, Aiacos-san.”

Aiacos lo guardò quanto meno perplesso, come si fu accomodato. Shun non aggiunse nulla per buona educazione, ma non era proprio convinto che ci si dovesse sedere così, su un seggio del genere e in generale in qualsiasi altro posto: il giudice invece dondolava con grande noncuranza una gamba da sopra il bracciolo, e non pareva affatto fuori posto. Con ogni probabilità, non aveva riserve a farlo neppure in tribunale, passando in rassegna le anime dannate. Consolante.

“Non sai nemmeno cosa ti volevo chiedere.”

“Minos-san me l’ha fatto intuire.”

“Ah! Ma è un colpo basso! Quell’inutile borioso mi ruba il lavoro!”

“Mmmh.”

Shun non seppe bene che cosa dire nemmeno questa volta. Per ora, i Giganti Infernali di punti in comune ne mostravano: un’improvvisa e completamente arbitraria confidenza nei modi di fare, e la passione per la teatralità.

“Ti ha mostrato anche il presente, già che c’era? No, perché quand’è così, faccio prima a spazzolare il banchetto in tavola e poi mettermi a dormire. Vuoi?”

“Oh, no, grazie. Non si crucci, Aiacos-san. Minos-san non mi ha fatto vedere niente a parte il passato.”

Shun si domandò intensamente perché si trovasse lì seduto in pigiama a consolare un giudice infernale, mentre quello borbottando decideva di servirsi direttamente dalla tavola imbandita che occupava quasi tutta la stanza. Si guardò attorno, appena, senza distogliere gli occhi più di tanto dall’uomo davanti a lui: aveva imparato durante la precedente visita che era meglio non abbassare la guardia. Aiacos, tuttavia, sembrava più intento a riempirsi il piatto di pollo e patate.

“Sicuro? C’è anche la frutta. Uva, fichi, datteri, frutta secca, canditi. Non fare complimenti. È Natale!”

“No, grazie, davvero. Ho cenato poche ore fa.”

“Dolcetti?”

“Il Pontefice Shion ci ha riempiti di pan di zenzero.”

“Buono, il pan di zenzero. Niente, allora. Peccato. Sicuro?”

“Sì” sospirò Shun, nuovamente, intrecciando le mani in grembo. Ci mancava solo che il terzo generale di Hades si preoccupasse che fosse denutrito.

“Peccato. Roba buttata. Hai idea di quanti paesi al mondo soffrono la fame?”

“Sì, Aiacos-san. Lo so.”

“In Nepal, per esempio” affilò gli occhi il Gigante, staccando un boccone dalla forchetta con avidità, e tuttavia senza togliere gli occhi da lui. “In Nepal chi non ha niente sgranocchia le zecche che si gratta via di dosso.”

Shun strinse le mani sulle ginocchia, raggelato da quell’improvviso cambio di tono. Non si chiese perché parlava del Nepal. Non poteva sapere, e non se lo chiese: non riusciva a staccare gli occhi dal viso di Aiacos, che senza battere ciglio continuò a masticare.

“Lo… lo so, Aiacos-san.”

“E non solo in Nepal.”

“Sì.”

“In Mongolia. In Indonesia, in Thailandia, in India. In quasi tutta l’Africa. Nell’America Latina. Ovunque ci siano zecche da spulciare.”

“Aiacos-san…”

“Un buon pranzo di Natale, non c’è dubbio. Hai idea di quanti milioni di persone siano, Andromeda? Hai una vaga idea della loro sofferenza? Hai subito un addestramento molto duro, al largo di coste africane. Dovresti ben conoscere i morsi della fame. Non hai pietà di loro?”

“Certo che ne ho.” Shun rispose subito, limpido, senza esitare minimamente nonostante il tono con cui gli era stata posta la domanda: per lui pietà non possedeva alcun connotato negativo, e lo mostrava con orgoglio. “Tutti noi ne abbiamo. Facciamo il possibile.”

“È poco, ragazzino. Continuano a morirne a frotte. Ma i più sfortunati non sono quelli che muoiono. Sono quelli che restano in vita con i crampi.”

Detto questo, Aiacos si alzò. Nel suo modo, era imponente. Le foglie spinose fra i capelli non lo facevano sembrare affatto ridicolo: somigliava ad uno stregone. Uno stregone che veniva da terre lontane.

“Tu, piccolo, puoi fare tanto. Il tuo cuore puro e dolce spasima per fare qualcosa. Allora noi ti diciamo che puoi fare qualcosa. Puoi alleviare le sofferenze di tutti, se vuoi, con una parola sola puoi sollevare il mondo intero dal suo fardello.”

Shun sentì distintamente il sangue pompargli a velocità incredibile lungo le tempie. Aiacos sorrise, sghembo, abbandonando il piatto sul tavolo. Si ripulì e le mani, stavolta con fare incredibilmente elegante e misurato. Si portò il tovagliolo alla bocca, avvinandosi a lui, girandogli attorno. lo gettò sul tavolo, gli mise le mani sulle spalle.

“Accogli il Sire Hades. Conduci l’umanità intera tra le braccia della Morte, e cessa una volta per tutte i dolori che è costretta a subire sulla Terra.”

Silenzio. Le parole del giudice suonavano irrimediabilmente giuste: Shun era impietrito, immobile, come se non osasse muovere un dito. Per un attimo, il suo interlocutore era diventato qualcosa di immenso.

Sorrise scaltro, Eaco, il più giovane dei figli di Zeus a sedere tra i Giudici dei Morti.

Attese la risposta, che tardava. I pugni di Shun erano bianchi, sulle ginocchia.

“No.”

“Come?”

“No.”

Per la miseria. Aiacos sollevò un sopracciglio.

Pandora gli aveva raccontato che nel Settecento era stato molto più facile.

“Mi rispondi di no, quindi.”

“Sì. No. Non voglio. Non lo farò mai. Io sono un santo di Atena. Io combatto per la vita e la speranza. Io sono al mondo per aiutare il mondo a cambiare. Non a morire.”

“D’accordo, d’accordo” commentò quello, inaspettatamente, alzando le braccia in segno di resa.

“D’a… d’accordo?”

“Come ti ha detto la bella sacerdotessa dell’Ade, Andromeda” sussurrò Aiacos, mentre la stanza si rabbuiava. “Non faremo nulla contro la tua volontà. E io ho adempiuto al mio compito. Hai detto no. E sia.”

Shun si alzò. Di nuovo il vento cominciava a penetrare dalla finestra, a spegnere le candele. Shun, gli occhi grandi, rabbrividì, anche se Aiacos non era spaventoso come Minos. In un qualche modo, lo era ugualmente.

“Cosa… cosa devo fare, adesso?”

“Prendere la prima porta a sinistra. Che domande.”

Il vento premette solido contro i suoi vestiti leggeri. Shun rabbrividì, smarrito, i capelli che gli frustavano il viso nel freddo. Di fretta, si diresse verso la porta. Si voltò di sfuggita verso Aiacos, stregone nero al centro della stanza. Non aveva smesso di fissarlo, un sorriso strano, affatto sconfitto. Afferrò con una mano scura il lembo della tovaglia drappeggiata sul tavolo, i piatti tremarono. Diede un violento strattone. Allora Shun chiude la porta più velocemente che poté, per non sentire il fracasso, i cocci che andavano in pezzi.

Sconvolto, corse tanto velocemente verso la porta alla sua sinistra che non seppe dire se dentro quella stanza fosse davvero successo il finimondo, o se se lo era semplicemente immaginato. Se quelle stanze, una volta chiusa la porta, esistevano ancora oppure no. Varcò la soglia della terza tremando, pallido, ansimando come se avesse corso per tutte le scale.

“Benvenuto.”

“Ah…”

Un ansito. Un altro. La luce del caminetto non era fragorosa come quella delle altre due stanze. L’uomo lo attendeva seduto in poltrona, le gambe virilmente accavallate, le mani metodicamente giunte in grembo. Il suo sguardo era micidiale. Shun rimase inchiodato sulla soglia, capace solo di muovere gli occhi.

“Riprendi fiato.”

“Sì… sì.”

“E ora siediti.”

Meccanicamente, Shun si avvicinò. Chiuse la porta. Si diresse verso di lui, lo spirito che sedeva tranquillamente in poltrona, e che ora aveva chiuso gli occhi, come assorto in meditazione. Shun fece pochi passi, appena intimidito; si portò le mani alla fronte, si graffiò le dita con le spine dell’agrifoglio. Si liberò della corona che aveva in testa, grande, grottesca, con un piccolo strattone e un gemito di dolore. Si sedette in poltrona con aria afflitta. Di nuovo, non sapeva bene cosa dire.

Rhadamantis non parlava. Rimaneva seduto di fronte a lui.

Il ragazzino, giovane ed esperto, piccolo e grande, lo fissava, con occhi privi di domande, solo puliti e chiari. Si guardarono per un poco, senza parlarsi. Shun abbassò gli occhi solo per riavviarsi i capelli, per staccare le poche foglie rimaste incastrate. Le poggiò una per una sul tavolino di fronte a sé. Si lisciò il pigiama, sulle ginocchia. Giunse le mani in grembo, come lui, ma con le ginocchia unite, composto. E parlò lui per primo:

“Rhadamantis-san. Perché io?”

Ci fu un breve silenzio.

“Non c’è un perché” cominciò quello, con la voce cavernosa che Shun aveva sentito comandare all’Inferno stesso: era l’uomo più terribile che avessero mai affrontato, e lo ricordava con un brivido. Ora parlava pacato, tranquillo, nel suo completo elegante, a suo agio nella poltrona comoda. Nessuno sfarzo, nessuna esibizione, nessuna luce chiassosa. La penombra li accoglieva. “Il perché lo sai: Hades, per quanto incompreso, è un dio puro. Il più caritatevole e misericordioso degli dèi. Tu gli somigli. Egli ha scrutato nel tuo cuore, e non ha scelto altri che te.”

“Ma io lo rifiuto. L’ho già rifiutato una volta. Posso farlo ancora. Non ho più paura.”

“Lo so.”

“Perché, allora? Perché questo sogno? Perché cercarmi, ancora?”

Un sorriso, allora, affilato come quello di un drago.

Talmente consapevole da penetrare come un coltello.

“Perché voi siete fedeli alla vostra dea, e noi al nostro dio, Andromeda. Lo amiamo, e vogliamo il suo ritorno.”

“Minos-san ha detto che tornerà.” Si sporse, Shun, sentendo riannodarsi un groppo in gola. Era quello che gli premeva sin dall’inizio. Strinse la presa sui braccioli della poltrona. “È vero?”

“Non come credi tu.” Rhadamantis cambiò posizione alle gambe, con disinvoltura. “Ma qualcuno dovrà pure governare sulla Morte. E la Morte non cambia sovrano.”

Shun avrebbe meditato a lungo, su quelle parole. Ma perlomeno, fu consolato dal fatto che non era come temeva: Hades non era vicino, non era pronto a riattaccare. Dal tono con cui parlava Rhadamantis, pareva quasi, anzi, che non ne fosse neppure intenzionato.

“Ma tu, ora? Non vuoi sapere del tuo futuro?”

Shun schiuse le labbra, improvvisamente rischiarato. Il futuro! Non aveva neppure mai osato immaginarlo! Ora che tutto era in pace, ora che Atena aveva promesso un mondo di luce, lui vedeva solo cose belle, davanti a sé, e non lo nascose, domandando con la meraviglia di un bambino: “Può mostrarmelo? Posso davvero vederlo? Mi piacerebbe tanto.”

“Non sarei così ansioso, fossi in te.” Due occhiacci cattivi, quelli che aveva puntato addosso. Shun si raggomitolò nella poltrona, intimidito dal cipiglio minaccioso del Giudice. “O farai la stessa fine di Scrooge. Ricordala attentamente, e in base a questo rispondimi.”

Shun non si sentiva molto Scrooge, a dire il vero. Si morse le labbra e annuì, automaticamente. Ma c’era una cosa che doveva dire a Rhadamantis. Assolutamente. Aspettò educatamente il momento migliore per introdursi nella conversazione.

“Fino ad adesso ti è andata bene, Andromeda.”

“Io…”

“Hai parlato con lo Spirito del Natale Passato, e con quello del Natale Presente.”

“Sì…”

“Ora sappi che c’è un motivo per cui sono io, lo Spirito del Natale Futuro.”

“Lei…”

“Io sono molto, molto meno indulgente di quei due perditempo.”

“Mh…”

“Perciò…”

“Rhadamantis-san?”

“Che cosa c’è?”

“Io… in realtà… purtroppo…” Shun affondò letteralmente nei cuscini, quasi cercando di rimpicciolirsi. Alzò grandi occhi umidi sul suo immenso interlocutore, sperando con tutto il cuore di non deluderlo. “Io mi sono addormentato, durante quella parte.”

Questo non era evidentemente previsto.

Rhadamantis piombò in qualcosa che era molto oltre il silenzio.

“Mi dispiace” pigolò il Guerriero della Speranza, rincantucciato nella sua poltrona.

Rhadamantis si raccolse le tempie con la mano. Massaggiò, delicatamente. E alla fine decretò, con voce possente ma stranamente calma, quella di un diplomatico inglese al termine di un’importante ambasciata: “Non fa niente. Forse è meglio così.”

“Eh? Davvero?”

“Sì. Non ti farò vedere nulla, del tuo futuro.”

“Eh? Ma… Rhadamantis-san… se ci teneva tanto… io posso vederlo, sa? Non si preoccupi! Solo, mi dispiace di essermi addormentato proprio durante la sua parte. Non ho fatto apposta. Sicuramente è stata molto interessante.”

“Dickens non è mai interessante. Solo molto edificante per moralisti e casalinghe. Alzati.”

La Viverna lo precedette, oscurando con la sua stazza le luci del caminetto. Torreggiava su di lui in maniera affatto rassicurante, ma non pareva particolarmente alterato.

“Ah… sì!”

“Ti riporto a dormire.”

“Eh? Che cosa? Io pensavo…”

“Sei invero l’uomo più puro, Andromeda, e Hades lo sapeva, perché ha guardato nel tuo cuore. Ma il tuo temperamento è troppo diverso dal suo.” Rhadamantis camminò fino all’angolo opposto della stanza, sino a sfiorare con la grande mano la maniglia di una porta più piccola delle altre, che Shun non aveva affatto notato. Si trascinò dietro di lui in pantofole. Tratteneva quasi il respiro. “Solo chi può comprendere l’infinita pietà del Signore dei Morti lo può servire fedelmente. Tu appartieni a qualcun altro. Non saresti mai tutt’uno con Lui. E noi non vogliamo questo.”

“Quindi…” sussurrò, incredulo, il ragazzino, stringendosi nel maglione. Non faceva affatto freddo, però. Nessun vento a penetrare nella stanza, né a spegnere i fuochi. Rhadamantis lo guardava senza sorridere, ma onesto. Con la schiettezza dei nemici. “Quindi posso fare ritorno.”

“Puoi.”

Aprì la porta. Dava sulla stanza da letto di Shun. Era esattamente come l’aveva lasciata.

Il ragazzo entrò, meravigliato, confortato dal calore. Rhadamantis rimase sulla soglia. Lo apostrofò un’ultima volta, duro, ma senza essere sgarbato:

“D’altro canto…” Shun alzò gli occhi verso di lui, spostandoli stupiti com’erano dal suo lettino intatto. “Non hai ceduto. Non hai assaggiato il cibo del mondo dei morti.”

“…eh?”

Rhadamantis, l’implacabile Rhadamantis, sogghignò.

“Sia Minos che Aiacos te ne hanno offerto, ma tu hai rifiutato.”

Improvvisamente Shun ricordò.

Persefone e il melograno.

Il vino, la frutta candita.

E sbiancò, anche.

“Saggio, da parte tua” allargò il sogghigno, la Viverna crudele, che aveva perfettamente capito che si era trattato solamente di un caso. Richiuse la porta piano, fino a lasciarne quasi uno spiraglio, da cui lo guardava con i suoi occhi gialli. “Altrimenti, non ti avremmo lasciato andare così facilmente.”

Shun di Andromeda, nonostante il temperamento mite e delicato, non era certo il tipo incline allo svenimento. Come tutti, aveva un fisico abituato a sopportare ben di peggio.

Tuttavia, quando la porta si richiuse e il buio – rassicurante, stavolta – di Atene immerse la stanza in una naturale coltre notturna, le ginocchia gli cedettero e si lasciò cadere sul letto, la testa che gli vorticava impazzita al pensiero di ciò che aveva rischiato. Urlò, i nervi scoperti, quando sentì una mano sulla spalla.

“Fratello mio.”

“Pandora-san! Basta così! Io… io…”

“Ti avevo solo promesso che sarei rimasta ad aspettarti.” Sorrise, sorniona, Pandora, la signora della notte. Con mani delicate lo fece stendere, gli rinfrescò la fronte, chiuse i suoi occhi increduli. Shun non capiva. Non capiva perché si lasciasse fare tutto questo. Finché la voce di Pandora gli sussurrò all’orecchio, intossicandolo col suo profumo di viole e gelsomini: “Tranquillo. È solo un sogno.”

Solo un sogno.

Shun allungò le mani a stringere le lenzuola, ma non le trovò. Sentì caldo. Capì di essere sotto le coperte. Capì che vi era sempre rimasto. L’odore di fiori lentamente svanì. Dal nero sui suoi occhi schiuse le ciglia, la testa pesante, le membra intorpidite come se avesse dormito sino a quel momento.

Gli parve di scorgere dei capelli biondi, ma non era stato aperto nessun libro.

Si riaddormentò subito, stremato dall’ora tarda. E dormì a lungo, senza più sognare.

 

 

 

 

 

The Carol

 

Come prevedibile, ormai sforo rispetto ai termini previsti e non mi riesce di finire i capitoli entro le date che avevo buttato lì. Vabè. Vedo che non ho inflitto nessun trauma a nessuno, quindi andrò implacabile avanti a fare come mi viene. Penultimo capitolo! Quello di Natale invece uscirà in tempissimo, assolutamente: non ho intenzione di mettere piede fuori di casa prima di Santo Stefano, sappiatelo. Che fatica stare al mondoh.

 

Il canto di Shun ovviamente è il più surreale e quello che stacca di più: il cast è strano.

Ovviamente tutto ciò è voluto e in realtà dovrebbe creare un contrasto abbastanza buffo con gli altri, alle prese con gli spiriti loro amici che cercano di aiutarli a correggere i propri errori, e Shun, che per una volta che non ha fatto un bel niente si ritrova tra questa gentaglia a dover spiegare che tipo no, non è intenzionato a fare per secondo lavoro il Dio dei Morti. Alla fine è venuto un po’ inquietante lo stesso, a sprazzi, ma immagino che non si potesse fare altrimenti. Quelli lì mettono paura. Sono i Cattivi.

 

, Shun lo rendo più giapponese degli altri, vedi appellativi onorifici etcetera. Non posso farci niente. È evidentemente più giapponese degli altri, per quanto mi riguarda. Hyoga è troppo straniero, Shiryu è troppo cinese, Seiya troppo informale, Ikki troppo maleducato. Tutto detto con molto amore. <3

 

beat: E via, un po’ si deve alleggerire sempre, secondo me. Specie sì, piazzando a tradimento che fa sempre bene. E sì, il freddo e la neve hanno giocato pro. Kyaaa, Nonno Gelo! *O* Anche a me questa cosa ha intenerito a morte. È più atletico di Babbo! Fa jogging!

Shinji: Grazie per i complimenti, tesoro! çOç Anche e soprattutto sulla scrittura, che è sempre cosa buona e giusta. Sì, la disillusione è uno dei temi chiave di Hyoga, che sia contenuta nel nome appunto è indicativo, ci ho battuto sopra, direi. In quanto al suo percorso… beh, sì. Per forza è così. <3

Himechan: Grazie! La neve qui è caduta a sporte e senza dubbio ha aiutato nella realizzazione di questo capitolo… mentre questo è molto più cccattivo. Dimmi cosa ne pensi anche qua! >*< Un bacino!

winnie343: Ti ringrazio! :) Oh, è importante ricevere pareri anche non filoshonen-ai, così si vede se la fic funziona lo stesso! *O* Grazie ancora, quindi.

LeFleurDuMal: Sì, Mu era lì apposta a dare tregua, anche se per quanto mi riguarda quella parte è molto straniante. Milo e Camus ci volevano, punto. Nonno Gelo lo devi usare assolutamente. Non vedo l’ora di leggere il prossimo capitolo di Neve. Pciù. <3

Kijomi: E infatti ti crediamo tutti: Shun è pericolosissimo. Sai bene che non lo sottovalutiamo. E io non faccio preferenze! …forse. Un po’.

Kagura92: Mmh, a Mu è stato affidato un ruolo un po’ particolare. Non so, spero di avere reso bene anche lì. Mu può essere estremamente impersonale, per chara, lo vedo bene come simulacro del Santuario stesso. Agli occhi dei bronze soprattutto. Poi chissà come m’è venuto! *C* Per il resto mille grazie per i complimenti. Arrivano sempre dritti dritti.

E Hyoga fa da schiavo a vita/principe azzurro dall'ottava casa, se non prima. E' lui che non se n'è accorto. <<< …e qui posso solo quotarti. *O*;;;;;;

 

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Capitolo 7
*** Un Canto di Natale ***


Un Canto di Natale

Un Canto di Natale

 

 

 

Capitolo 7. Un Canto di Natale

Dove il Pontefice senza dubbio ha un gran da fare.

 

 

 

Niente di meglio che svegliarsi tardi, una mattina d’inverno, tra coperte morbide e calde, la luce pallida e azzurra che filtra dalla finestra. Giornata uggiosa, per quel Natale.

Shion sfarfallò le lunghe ciglia più volte, senza muovere altra parte del corpo che non fossero le palpebre. Ogni variazione di posizione avrebbe comportato una modifica alla conformazione che la trapunta aveva preso, e al momento il Sommo Pontefice di Atena era un piccolo, dolce bruchino avvolto nel suo bozzolo. Niente e nessuno l’avrebbe fatto schiodare da lì almeno per i prossimi dieci minuti. Niente e nessuno.

“Prima io! Prima io, prima io, prima io!”
“Aaah! Seiya-kun!”

Contò fino a dieci.

“Non mi batterai, Shun! Guarda qua: scivolata!”

“Seiya-kun, non così forte! Sveglierai tutti!”

Poi sino a venti.

“Aaaascivolooo—

Il piccolo, dolce bruchino stese le sue gambe di un metro e passa per buttarsi giù dal letto, spalancare la pontificia porta e sfanalare con i suoi occhioni rosa chiunque stesse facendo quel baccano anormale in un luogo sacro. Non che ci volesse molto, naturalmente.

Giovani cavalieri che qui siete giunti” sillabò, citando impropriamente – ad Aioros, qualche piano più in basso, fischiarono vagamente le orecchie – e poi tornando sul prosaico: “Che accidenti state combinando?”

“Shion!” gli occhioni nocciola di Seiya brillavano come tante, tante luci di Natale. A Shion venne quasi male. “Buon Natale!”

“Sì, caro, un buon Natale a te. Credo. Cosa ci fate lì per terra?”

“Sono caduto in scivolata. Shun si è fermato ad aiutarmi.”

“E perché stavi procedendo in scivolata?”

“Per batterlo sul tempo correndo verso l’albero!”

“Seiya-kun” gemette sconsolato Shun, che lo stava spazzolando e cercando di rimettere in piedi. Formavano un ben caratteristico quadretto, quei tre – uno in piedi, gli altri nemmeno – nel corridoio della Tredicesima Casa, il Tempio di Atena, tutti e tre in pigiama. Per la precisione, Shion in camicia da notte.

“Per favore!” Anche a Shun brillarono gli occhi, comunque, di commovente lucentezza: “Non è una gara!”

“No… ma arrivo prima io!”

Una finta scaltra, quella di Seiya di Pegasus. Scivolò sotto il braccio di Shun, lo dribblò con abilità, scansò l’indignato Pontefice che torreggiava su di loro, e schizzò verso la sala grande il più velocemente possibile.

Shion sgranò gli occhi, e, boccheggiando, si voltò per cercare sostegno in Andromeda, che, più mite, di certo un po’ imbarazzato dallo scarso contegno dell’amico d’infanzia, si sarebbe scusato per entrambi.

Peccato che Andromeda già trotterellasse dietro al compagno di merende, trillando: “Aspettamiiii!

L’antico cavaliere di Aries incrociò le braccia, sconvolto.

“Ragazzini.”

“I regaliii!”

“Ci sono davverooo!”

“Kyaaa!”

Poi sbuffò e scosse le spalle, senza ancora spostarsi da dov’era. Anzi, fece dietrofront e andò a procurarsi un ottimo tè verde, con tutta la calma di questo mondo. Zuccherò, nonostante le raccomandazioni di Doko di sorbire il suo aroma in tutta la sua pungente autenticità. Zuccherò molto. Poi, tazza in mano, papaline ai piedi, scalpicciò svogliato sino alla sala in cui aveva letto quello svenevole racconto ai cinque bronze saint, due dei quali stavano ora facendo la lotta sotto l’abete addobbato. Sospirò, si appoggiò allo stipite, prese un sorso di tè. Ah, il Natale.

“No, Seiya-kun! No!” Contro ogni aspettativa e pronostico, era Andromeda a sopraffare l’amico e avversario, al momento: lo sovrastava, tutto bene avvolto nel suo pigiamino a righe, infagottato a sua volta in un maglione, praticamente seduto sulla sua schiena, e s’imponeva. Con la determinazione di un orsetto di gomma, ma s’imponeva:“Non si può aprire i regali finché non ci saranno tutti!”

“Ma Shun! Non ho corso per niente! È una gara e lo sai benissimo! Lo sanno tutti, è legge universale. Dammi qua. Dam—”

“No-ooo!”

Seiya, sotto lo sguardo ormai indifferente del Sommo Pontefice, si contorceva come una tarantola. Alla fine si dovette calmare, ma attaccò un broncio formidabile, che mirava a piegare le difese di Andromeda puntando sulla compassione. Inaspettatamente, Shun non cedette; però sbatté gli occhi, cambiando espressione nel portare una mano alla sua guancia: “Seiya-kun, ma… cosa ti sei fatto?”

“Eh? Oh? Roba da non crederci.”

“Che cosa?”

“Mi è caduta una mensola addosso mentre dormivo.”

“Mentre… che…?”

“Forse mi sono portato troppe cose da casa. Ma l’elmo della prima armatura di Sagitter, quello dell’armatura falsa, ti ricordi, nel senso, lo dovevo portare, volevo farlo vedere ad Aioria e…”

“Oh, no! Che male ti sarai fatto! E che spavento a svegliarti di soprassalto!”

“E chi si è svegliato? Ero nel bel mezzo di un sogno davvero incredibile, che se te lo racconto nemmeno ci credi, e stavo parlando con Aldebaran quando tutto ha cominciato a diventare nero ed offuscarsi, e per il resto del sogno ho avuto una nausea da capogiro e capivo la metà. Poi stamattina mi sono svegliato e avevo un’asse di legno in faccia e l’elmo sulla pancia. Buon Natale!”

“Oh, Seiya-kun… sei incorreggibile… dovresti…”

Ma non si seppe mai cosa Seiya avrebbe dovuto fare. Shun era stato catturato, una falena di fronte a una lampada alogena: lasciò andare Seiya, lanciò un urletto deliziato, accorse alla finestra, gli occhi grandi come palle da biliardo. Seiya piantò una sonora craniata a terra, ma botta più, botta meno…

“Ahi! Che ti prende?”

“La neve! La neve, Seiya-kun! Nevica! Nevica!”

Persino Shion alzò gli occhi dalla tazza di tè per sbirciare dalla finestra. Effettivamente, nevicava. Che strano. Sino al giorno prima le nuvole ingombravano sì il cielo, ma la temperatura era ancora relativamente mite, in quel Mediterraneo continuamente battuto dai venti. Ora fiocchi freddi e candidi punteggiavano il mattino ancora scuro, grandi come batuffoli di cotone: uno spettacolo bellissimo a vedersi.

Seiya cedette e ridacchiò, intenerito alla vista: “Non sei cambiato.”

Ricordava il piccolo Shun correre a capofitto verso le finestre dell’orfanotrofio, tra le grida dei bambini, arrampicandosi sul termosifone: era sempre il primo a vedere la neve.

“Hyoga-kun me l’aveva detto.” Scintillava, Andromeda. “Che forse avrebbe nevicato.”

“Magnifico” commentò Shion, rimarcando la sua scettica presenza all’angolo della stanza. “Lo useremo per le previsioni meteo.”

Non ci fu tempo di reagire a tanto sviante sentenza, perché l’altra porta della sala, quella che dava sull’ingresso principale, si spalancò in un botto.

“Seiya! Shun!”

“Shiryu! Ma… da dove salti fuori? Da quanto sei sveglio?”

“Perdonatemi.” Shiryu aveva i capelli pieni di neve, era infreddolito, disorientato e pallido come un cencio, forse proprio per il freddo. Ma sorrideva in una maniera inarrestabile, spontanea, bianchissima: “Sono tornato!”

“Tornato? E dove sei stato, si può sapere?”

Shion non aveva parlato, ma capì praticamente subito. Allungò il niveo collo e sbirciò dietro le spalle del Dragone. E poi sbottò: “Era ora!”

Shiryu parve riscuotersi, con un sobbalzo: “Oh. Pontefice Shion. Buon… buon Natale!”

“Buon Natale a te, Shiryu. E anche a te, cara. Che gioia.”

Seiya e Shun spalancarono gli occhi in perfetta sincronia, ricreando perfettamente un’atmosfera da recita di scuola materna: il maestro che vagliava le prove generali con disappunto, Giuseppe appena entrato in scena, i due angioletti che simulavano stupore, e Maria con l’aria colpevole di chi si è appena dimenticato la battuta.

In realtà, Shunrei era abbastanza stravolta da Atene-Goro-ho andata e ritorno, pur avendo beneficiato solo della seconda tratta: se lo stesso Shiryu, rallentato ad una velocità percettibile dall’occhio umano, si guardava in giro come se si fosse bruciato un bicchiere di grappa, si poteva ben immaginare lo stato psicofisico di lei. Sorrideva, quello sì. I capelli appena appena scomposti. Per sorridere, sorrideva. Shion sospirò e le allungò dietro una sedia.

“Benvenuta.”

“Grazie.”

Vi crollò.

“Shunrei-san!”

“Shunrei! Ma che bello vederti qui!” Seiya si fece immediatamente festoso, raggiungendo lei con un gran sorriso e Shiryu con una pacca sulle spalle che avrebbe reso orgoglioso Sagitter. Shiryu non smetteva di sorridere come se il vento gli avesse congelato la faccia, ma probabilmente la ragione non era quella. “Così, sei andato a prenderla? Tutto in una notte? Caspita! Ti deve aver fatto vedere i sorci verdi, eh?”

Shunrei, interpellata, e incoraggiata da un occhiolino amichevole di Seiya, balbettò: “Oh, io… ecco… è stata una tale sorpresa…”

Non solo la visita, ad occhio e croce, ma anche il viaggio: Shion sospirò. Ragazzini scriteriati. Chissà quanto tempo ci avrebbe messo a riprendersi. Tuttavia sorrise, un grazioso sorriso sornione, al pensiero che le sue parole della sera prima, quindi, avevano sortito un qualche effetto. E alla fine, ad ammetterlo proprio sottovoce, aveva persino un non so che di romantico.

“Shun” sospirò il Pontefice, riassettandosi la stola pensate che si era buttato sulle spalle, e ottenendo l’attenzione di Andromeda. “Fammi un piacere, vai a fare un tè per questa poveretta. Starà gelando.”

“Sì!” rispose prontamente lui, alzandosi pronto per eseguire quel che gli era stato detto. Sapeva dove trovare l’occorrente, e in caso contrario, Atena lo avrebbe guidato, poco ma sicuro.

Pochi minuti dopo, canticchiava di fronte al fuoco sotto al bollitore, quasi rallegrandosi che le ancelle quel giorno dormissero sino a tardi – disposizioni di Saori-san. A quel modo, quel Tempio tanto grande dava più un’impressione di casa.

Si strinse nel maglione, sorridendo contento, pensando ai regali di Seiya, alla decisione di Shiryu, a Shunrei al caldo e soprattutto al suo fianco. Voltò il capo verso la finestra.

Chissà se suo fratello e Hyoga dormivano ancora; di sicuro, si stavano perdendo uno spettacolo sorprendente. La neve cadeva sempre più fitta, creando una trama, e lui chiuse gli occhi, in perfetto silenzio, eccetto i rumori che provenivano dalla sala, allegri. Non pensò ai sogni: in quel momento, l’unica cosa che importava era essere lì. Un sorriso fiorì spontaneamente sulle sue labbra, mormorando un muto grazie. Il presente era radioso, e la neve bellissima.

 

Hyoga non aveva osato salire sullo Star Hill, monte sacro il cui accesso era proibito ai santi di Atena; ma diciamo che ci era andato molto vicino. Se c’era un perché da ricercare, nell’aria fredda che aveva alleggerito la mattina di Atene, quello era lui. Sarebbe bastato a Shun uno sguardo più attento, fuori dalla finestra, per vederlo: una figura, nella nebbia, ma talmente leggiadra; se non un uomo, un pallido cigno dalle ali spiegate, pronto a prendere il volo sul pelo dell’acqua.

Ma d’altro canto, a Hyoga non importava affatto di essere visto.

“Ti ho visto” scandì bassa una voce che non poteva appartenere a nessuno se non all’unico, oltre a lui, che di tanto in tanto inseguiva la solitudine lontano dagli altri. Hyoga abbassò la testa, incrociando lo sguardo di Ikki sulla scalinata. Non mutò espressione. Semplicemente, entrambi continuarono a camminare sinché le loro strade non s’incrociarono e proseguirono assieme. “Lassù.”

“Qualche problema?” domandò il giovane, senz’alcun’increspatura nella voce. Gentile, anzi.

“Umpf. No, affatto. Dovrei?”

“No. Fai la strada con me?”

“In un unico, maledetto posto si può stare, qui.”

Hyoga sorrise, richiudendo gli occhi. Si infilò le mani in tasca, e procedette al fianco di Ikki per fare ritorno al Tredicesimo Tempio. Atena li avrebbe raggiunti di lì a poco.

“Già.”

“Ma sono uscito, oh se sono uscito.”

“Per fare cosa?”

“Per fumarmi una sigaretta. Non hai idea di che cosa capiti se provi ad accendertene una là dentro.”

“Shion è venuto a sgridarti?”

“Tsk! Ci mancherebbe!”

La discussione cadde nel vuoto, ma a Hyoga parve di aver raggiunto un punto importante. Senza motivo. Quindi non parlarono oltre.

Un’altra cosa che Cygnus pensò, però, fu che poteva incontrare solo Ikki, su quelle scale, e con lui fare ritorno. Ikki che non poneva domande di cui non voleva veramente la risposta, e che sapeva rispettare il silenzio. Ritornavano al Tempio e all’atrio caldo dove li aspettavano regali, tepore, qualche schiamazzo, e Shun che ridendo eccitato avrebbe indicato la neve fuori dal vetro, e…

Hyoga scosse la testa.

“Che c’è?”

“Niente.”

“Hmm.”

“Quasi dimenticavo, Ikki: buon Natale!”

“Buon che…? Ah, se lo dici tu.”

“Avanti, non fare il cinico.”

“Io, no. E a te? Li porta ancora, i regali, Nonno Gelo?”

Ragazzi!” Seiya irruppe proprio in mezzo ai due, con una carica da far sospettare che avesse preso lo slancio lungo tutto l’atrio della Tredicesima, con somma gioia del Pontefice. “Ma dove eravate? Dentro! Che per colpa vostra non ho ancora potuto aprire i regali!”

“Li aprirai oggi pomeriggio, Seiya!” sbottò Hyoga, che per qualche incomprensibile motivo era diventato rosso come un peperone. Seiya sogghignò: qualcuno doveva aver toccato un nervo scoperto, e a giudicare dalla faccia di Ikki, doveva essere stata una cattiveria sapientemente calibrata.

“Oggi pomeriggio non posso. Oggi pomeriggio… uhm… scendo. Ho un impegno.”

“Ma che impegno e impegno!”

“Devo andare… uhm. A fare gli auguri di Natale. Che dite, ci sarà gente all’arena?”

“Con questo freddo? E come no. Qui al Santuario sono una manica di fanatici.”

Seiya annuì energicamente.

Manica di fanatici.

Perfetto.

Shaina sicuramente era lì.

E anche Marin. Chissà se l’avrebbe picchiato.

O se l’avrebbe picchiato Shaina. O tutt’e due.

Al momento davvero non voleva pensarci.

“Chi arriva primo ai regali li scarta tutti!” urlò invece, voltandosi con una contorsione da record per cui si servì delle spalle di Hyoga e Ikki, e dopo una mezza capriola già schizzava verso la sala grande. “Sono in vantaggio!

“Moccioso” grugnì Ikki, ben piantato sulle sue gambe. Figurarsi.

Questo è tutto da vedere!” rilanciò invece qualcun altro, già adeguatamente provocato e riscaldato, facendo la gioia di Seiya, che aveva aspettato a lungo quel momento. Per la gran contentezza, volarono gomitate storiche.

“…Seiya-kun! Hyoga-kun! Ma cosa fate!”

Seiya e Hyoga che si azzuffavano come ragazzini; quell’incapace di un Pontefice che aveva tutta l’aria di essere sull’orlo dell’esaurimento nervoso; Shun a cui avrebbe dovuto impedire di trasformarsi in un redivivo Piccolo Tim; Shiryu che non contento della sua singola presenza si era portato dietro la Shirya. O come diavolo si chiamava. E la bomboniera doveva ancora arrivare!

“…mocciosi” si corresse la Fenice, con uno sguardo di puro disprezzo.

Poi, come se niente fosse, s’incamminò verso di loro.

 

 

 

 

 

The Carol

 

Non ho niente da dire, avete avuto il vostro fluff, spero. Ah, come mi sento soddisfatta.

Le citazioni, qui, sono multiple, tutte collegate ai precedenti capitoli; magari anche minime, ma se le cogliete tutte è più carino. :D Tante scuse al povero Shion, che provvederemo a sommergere di coperte per il prossimo sonnellino, e tanti baci a voi, a chi legge, a chi commenta (questi ovviamente sono più bravi, buoni e belli eccetera), a chi ha messo fra i preferiti e chi fra le seguite. Un grazie di cuore.
E Buon Natale! <3

 

Shinji: Certo che Persy sta bene! Ma Shun ha ancora da fare, via, in questo mondoh. E sì, i Tre Giganti sono la Morte. Ma in molti sensi, eh. Io non credevo che sarei arrivata ad adorarli tanto. Illusa. Grazie di tutto, tesoro. Grazie grazie grazie. À toi. <3

LeFleurDuMal: Senti, non ho colpa dei tuoi problemi con Minos. Anche se dovrei scriverci un saggio sociologico. Beccatelo così com’è, qui e altrove. E certo che Aiacos è sexy. Aiacos è un sex symbol. E anche Rhada lo è. Kanon sarà felice di accoglierlo fra le sue forti braccia. Sono tutti e due fantasmi del Natale Futuro! °C° *SE NE ACCORGE ORA* Sono colleghi! Si spalmeranno sulle scrivanie dell’uffic—mi sto lasciando trasportare.Buon Natale, mon amour. çOç

beat: Guarda, Shun ha il destino di essere o trattato con insofferenza o idolatrato sino allo spasmo. Non sono per nessuno dei due: va capito un po’ come tutti gli altri, credo. Io ci provo, sia tributandogli il giusto che ironizzando quando si deve. Spero di fare bene, la tua recensione incoraggia! *O* I tuoi complimenti comunque sono sempre meravigliosi. Ti mando tanti baci e tantissimi auguri per le feste! >O<

Himechan: Grazieee! Eh sì, niente Mondo di Zucchero per Shun. ‘sta cosa in realtà mi fa molto ridere, si è destreggiato bene in un ambiente dark, diciamo che spande abbastanza luce da difendersi bene! XD Un bacio e grazie di tutto!

Kijomi: Ti incarto Shun in una pasta di mandorle, se vuoi. Aiacos rulla. èOé

li_l: Questo commento è adorabile. Mi hai fatta davvero sorridere, e di cuore; io ti ringrazio tanto, ti abbraccio e ti tormento: SPIUMOTTINOSPIUMOTTINOSPIUMOTTINO. Muwahahah. No, dai, basta. Tanti auguri anche a te!

Kagura92: Sì, sì! Tu ascolta Rhada! Rhada sa! In realtà il Canto di Natale di Dickens lo si legge anche volentieri – per di più è corto, e poi ormai è un classico. Insomma, non lo sconsiglio a nessuno. :D (ma solo quello!) Per il resto ti quoto dappertutto, sì, sì, sì. Grazie. Che bello quando tutto arriva al lettore esattamente come l’ho concepito. Sei sconvolgente. Due bacioni sulle guance, tanti auguri, tanto amore! See you! <3

 

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