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Caro
Pegasus, quando stringerai tra le mani questo foglio di carta, su cui scrivo
adesso, a fatica e con il cuore in gola, il mondo in cui hai vissuto per anni
non ci sarà più. Io non ci sarò più. E tutto ciò che resterà sarà una
lettera di carta ingiallita, che forse non lenirà il tuo dolore, per la nostra
separazione, ma spero possa servire per farti sentire meno solo, per ricordarti
di me, ogni volta in cui le nubi del presente offuscheranno i tuoi ricordi, e
per dirti grazie, per tutto quello che hai fatto per me e per gli uomini in
questi anni. Mi sei stato accanto, fedele e sincero, come un cane segue il suo
padrone, come un amico offre la spalla all’altro, compagni leali, ali della
stessa aquila in volo verso l’infinito. Mi hai aiutato, sorreggendomi ogni
volta in cui credevo di non riuscire più a volare, sostenendomi da lontano,
incitandomi a non cedere, dandomi, anche solo con il tuo pensiero, un motivo
per non arrendermi, per continuare a combattere, per continuare ad essere
Atena, Dea degli uomini e della giustizia.
È
strano come soltanto adesso mi accorgo di non esserla mai stata fino in fondo.
Di aver vissuto più come un essere umano che come una Divinità. Forse perché
non l’ho chiesto io, al fato, di assurgere a tale rango, né ho chiesto che su
di me ricadessero i destini di questo mondo, obbligata a veder combattere i
Cavalieri che tanto ammiro e che tanto desidero proteggere. I Cavalieri che
tanto amo. Perdonami, Pegasus, se ti farò soffrire. Perdonami se non sono forte
abbastanza per affrontare un addio, ma ci sono cose per le quali neppure gli
Dei sono preparati, cose che preferiamo fuggire, nascondendoci tra le piaghe
del tempo, sperando che un ricordo possa unirci per sempre.
So che
verrai ad Atene! Forse per salutare Castalia, forse sperando di trovare Sirio o
Andromeda, o forse per vedere me. Sì, sono certa che verrai! Non siamo mai
stati separati così a lungo, fin da quando siete tornati dal vostro
addestramento, e confesso che anche a me strania questa situazione, questa
lontananza da Nuova Luxor, dalla città in cui sono cresciuta e diventata una
giovane donna, una giovane Dea ancora alle prese con un’accettazione interiore
che stenta ad arrivare. Avrei voluto tornare, Pegasus! Avrei voluto tornare a
Luxor, distendermi sul morbido letto di Villa Thule, conversare col nonno nel
ricostruito planetario o passeggiare lungo la spiaggia, lasciando che i
delicati granelli di sabbia scivolassero tra le dita dei miei piedi, e magari
tenerti per mano al mio fianco. Ma Mur non me lo ha permesso, né Libra, né
Ioria, né Virgo. Indebolita dal freddo di Asgard, e dalla sopportazione delle
piogge di Nettuno, i Cavalieri d’Oro hanno insistito affinché rimanessi qua, ad
Atene, luogo da me stessa fondato millenni addietro, all’alba dei tempi, luogo
in cui dovrei effettivamente sentirmi a casa. Sicura e protetta, circondata da
una schiera di eroi valorosi e premurosi servitori, qua al Grande Tempio dovrei
davvero stare bene, dovrei davvero essere felice. Eppure, a quanto pare, così
non è. Né credo lo sarà più ormai. Poiché il tempo per essere felici è già
trascorso, un battito d’ali di fronte alla tempesta della mia vita.
Ricordi
una delle nostre prime conversazioni? Sul destino, e su ciò che le stelle hanno
riservato ad ognuno di noi. Un ruolo nel mondo. Un posto nel cosmo, in questo
splendido e meraviglioso universo che ci attornia e di cui facciamo parte a
nostra volta. Avete odiato mio nonno per molti anni, perché vi ha separato
dalle persone care e obbligato ad andare lontano, a trascorrere anni di
privazioni e tormenti, per conquistare un’armatura che forse non avevate ancora
ben chiaro cosa rappresentasse. Ma era nel suo destino agire così. Avete odiato
anche me, e ben lo comprendo, poiché avete visto nel mio viso soltanto l’incarnazione
di un vuoto esistenziale, che non poteva colmare l’infanzia che vi era stata
rubata, né il dolore che a causa mia avete dovuto sopportare. E forse, ne sono
certa, conoscendo il vostro nobile cuore, avete odiato anche voi stessi, per
non aver capito, per essere stati immaturi, come era vostro diritto essere,
essendo soltanto dei bambini, per non aver compreso ciò che andava al di là
dell’esteriore, il vero disegno insito in tutto questo. Atena e i suoi
Cavalieri, uniti per sempre da un filo di speranza che ci legherà alle genti di
questo mondo, che le farà sorridere, che le aiuterà ad alzare lo sguardo al
cielo ogni volta in cui il dolore della vita sembrerà abbatterle a terra.
Abbiamo combattuto per molto tempo, contro tutti i tiranni che hanno osato
schiacciare le libere genti, per imporre i loro oscuro dominio, abbiamo
combattuto a lungo, e lo abbiamo fatto insieme. Ma adesso, quel tempo è finito.
Quel tempo deve finire.
Ho
dato ordini precisi, a Mur e a tutti gli altri Cavalieri riuniti al Grande
Tempio, pregandoli di non farvi avvicinare, di tenervi lontani, di mandarvi
via, di evitarvi una nuova guerra di cui persino io non riesco a vedere la
fine. O forse, poiché la temo, spero in questo modo di lasciarvi fuori. È il
mio modo, questo, per ringraziarvi per tutto quello che avete fatto per me, per
le battaglie che avete combattuto, per liberarmi e per difendere la giustizia.
Grazie, Pegasus, e addio. Non posso vedervi lottare ancora, non posso vedervi
rischiare la vita un’altra volta, in una guerra che forse altro non sarà se non
un massacro totale, un’immensa carneficina contro la grande ombra proveniente
da est. Un’ombra che, più grande di Gemini o Nettuno, a niente mira se non
all’instaurazione di un secondo inferno su questo nostro splendido pianeta.
Combatterò
Pegasus, e lo farò anche per te! Per ringraziarti per essere stato al mio
fianco in questi anni di battaglie, e per avermi ricordato cosa significhi
essere un mortale, e come tale soggetto al lento ma inesorabile trascorrere del
tempo. Vorrei averne avuto di più, di tempo, da trascorrere con te, e con i
Cavalieri tuoi amici, poiché quel poco che ci è stato concesso, privi di
affanni e di pensieri di guerra, è stato bello, è stato davvero degno di essere
vissuto. Combatterò anche per questo, per il tempo che ci verrà rubato quando
la grande ombra calerà su tutti noi, privandoci della speranza di avere un
futuro, della speranza di una luce alla fine del tunnel.
Addio
Pegasus, concludo così una lettera che nient’altro voleva essere se non il
saluto di una Dea che non si è mai sentita tale. Di una Dea che forse si è
sentita più un essere umano, innamorata degli amici e dei compagni con cui ha
avuto l’onore di condividere una parte del suo cammino, innamorata di un nonno
che l’aveva adottata per caso, sapendole donare l’amore per la vita e per le
cose semplici, innamorata di un mondo terreno che avrebbe voluto conoscere di
più. Non ho rimpianti per quello che ho fatto, poiché alla giustizia ho dato
tutta la mia vita, fino al profondo del mio animo, e agli uomini ho donato il
mio amore. Ma se davvero dovessi sceglierne uno, se davvero dovessi confessare
ciò che veramente non sono mai stata in grado di provare, allora lo dirò.
Essere donna. E amare, perdendo me stessa in un amore. Bello, impossibile,
tragico, etereo, ironico, con tutte le sfumature che soltanto in questo
splendido mondo umano si possono ritrovare. Addio Pegasus, e grazie, poiché tu,
oltre ad essermi rimasto accanto e ad aver creduto in me, sei stato l’unico che
sia riuscito a farmi sentire tale. In quei pochi momenti trascorsi insieme, tu
ed io, mi è sembrato di ritrovare l’aroma di un’epoca infinita, il sapore di un
tempo che credevo perduto e che invece è rimasto dentro di me. E così sarà per
sempre.
Anni addietro, quando ero
ancora una bambina, ricca di sogni e di belle speranze, lessi un libro nella
biblioteca di mio padre, un libro di una scrittrice inglese del Diciannovesimo
Secolo. “I grandi sentimenti talvolta
assumono le apparenze dell'errore, e la grande fede, le apparenze
dell'illusione” scrisse George Eliot. Ma io non le credetti. E la maledissi,
gettando il libro nel fuoco ardente del caminetto e correndo via piangendo,
fino a trovare rifugio tra le braccia di mia madre, che non perse tempo a
consolarmi, come in molte altre volte in cui le avevo dato motivo per
preoccuparsi per me. Mi sembrava impossibile che un sentimento, in cui un uomo
riversava tutto se stesso, tutte le sue emozioni, tutta la sua esistenza,
potesse essere un errore. Né poteva essere possibile, mi dissi quel giorno
perso ormai tra la polvere del tempo, che una fede generasse un’illusione.
Perché la fede alberga dentro di noi, stretta attorno al cuore, avvinghiata in
un vincolo eterno che plasma la realtà circostante, la realtà in cui noi
proiettiamo la nostra stessa fede. La realtà che forse è soltanto un’illusione.
Una beata apparenza. La stessa illusione in cui ho vissuto per tredici
lunghissimi anni. La stessa bastarda illusione che ha sterminato la mia
famiglia, la mia vita e adesso ha ucciso me stessa.
Stanca,
percorro questo oscuro tunnel, ove soltanto risuonano i miei passi, nel
macerato silenzio della mia anima, lasciando indietro tutto ciò che ho creduto
fosse santo, tutto ciò per cui ho creduto valesse la pena vivere, e morire.
Tutto ciò per cui ho permesso che la mia vita fosse stravolta, che i miei amori
fossero dimenticati, che la mia felicità venisse cancellata. Tutto ciò che, a
ben guardare, non mi ha dato niente, se non un inferno nel cuore.
È strano,
sorrido adesso, mentre ripenso a quanto fanaticamente ho servito il mio Signore
per tutti questi anni. A quanto intensamente mi sono adoprata per lui, per
aiutare colui che avevo contribuito a risvegliare, con le mie maledette mani.
Sorrido, perché piangere è adesso impossibile. Persino le lacrime mi sono
negate, poiché per anni ne ho fatto a meno. Per anni le ho represse, nascoste,
celate nel mio cuore, persino di fronte al corpo straziato dei miei genitori,
dei miei servitori, degli animali che popolavano il castello di Heinschtein. E
forse è giusto che adesso, che realmente vorrei disporne, non mi siano
concesse. Un privilegio riservato agli uomini, da cui mi sono esclusa anni fa,
scegliendo le ombre. Forse Dio, l’unico vero creatore di questo mondo, colui
dal quale tutti gli Dei discendono, in esso fondendosi e specchiandosi, ha
deciso che questa fosse la mia pena, che questo fosse l’ultimo martirio che
dovevo sopportare. L’ultimo di una lunga serie di male che mi sono autoinflitta,
di una lunga serie di tenebra da cui non sono stata forte abbastanza per
fuggire. Perché forse non l’ho voluto.
Cammino,
in questo tunnel, lasciando le ultime luci della Giudecca dietro di me,
lasciando i frammenti di un mondo destinato a scomparire per sempre, perché,
chiunque vinca questa guerra, non potrà sorridere né sentirsi realmente
vincitore. E dovrà confrontarsi con un’era che è ormai volta al tramonto.
Un’era a cui ormai non appartengo più. L’illusione coltivata per anni, la speranza
che il mondo, adesso sporco e triste, potesse trasformarsi in un paradiso
meraviglioso, ove la paura della morte fosse bandita, è ormai distrutta. Poiché
se Ades vincerà questa guerra, il pianeta diventerà un secondo inferno, dove
agli uomini verranno continuamente inflitte pene crudeli, dove ripetutamente
saranno obbligati a fronteggiare gli errori del loro passato, senza mai trovare
pace, senza mai trovare quiete, senza mai giungere a disporre, anche solo per
un momento, di quell’agognata felicità, di quell’abbraccio di infinito a cui
l’umana stirpe dannatamente aspira.
Madre!
Padre! Presto ci ritroveremo e forse allora, se troverò la forza per fissarvi
negli occhi, rea dell’omicidio dei miei stessi cari, mi inginocchierò di fronte
a voi, come un uomo china il capo davanti a Dio, e vi chiederò perdono, vi
supplicherò di concedermi il vostro perdono. Poiché adesso non vi è altro che
voglio. Adesso non vi è nient’altro che potrebbe salvarmi da me stessa. E
accetterò, sì lo ammetto, accetterò i vostri insulti, i vostri rimproveri, i
vostri calci sul mio viso sporco di sangue e di vergogna. Li sopporterò in
silenzio, stoica, come in silenzio ho assistito al vostro massacro, come in
silenzio ho acconsentito a spalancare le porte all’ombra sull’intera Terra. Possiate
perdonarmi! Un giorno…
Prima di
rivedervi, prima che i fedeli servitori di Ades mi uccidano per il mio
tradimento, dimentichi dei favori e delle grazie che a loro ho concesso, vi è
un ultimo uomo che vorrei vedere. Un ultimo uomo con cui vorrei parlare, anche
solo per un attimo, poco il tempo che mi sarà concesso. L’uomo che mi ha
ricordato cosa siano i sentimenti, i grandi sentimenti, e la fede, in un sogno
di speranza, in un futuro splendente. L’uomo che sfidato un Dio, soltanto per
salvare un fratello, e che, di fronte ai miei occhi indolenti e colpevoli, ha
risvegliato in me i ricordi di un mondo composto da mille sfumature, di colori
e di emozioni, un mondo così simile all’infanzia che mi è stata rubata.
Questo
rosario, che stringo adesso in mano, e che vorrei fosse una corona di spine,
per poter sentire nuovamente il dolore, per poter vedere il sangue sgorgare
fuori dalle mie mani con il suo colore rosso scarlatto, è tutto ciò che sono
riuscita a salvare. Tutto ciò che ho recuperato dai detriti e dalla polvere
della Giudecca, sotto i quali avrei voluto essere sommersa. Ma credo che, se
qualche minuto ancora mi è stato concesso, forse potrò fare qualcosa di buono,
qualcosa di utile. Un ultimo gesto, minimo se paragonato al male di cui mi sono
macchiata, illudendomi di essere nel giusto e non accettando di vivere nel
torto. Ma è stato sciocco credere che un sogno, il sogno di un nuovo mondo,
senza più sofferenza né morte, potesse avere inizio con una strage. La strage
non soltanto della mia vita, ma di tutti i miei sentimenti.
Lo vedo,
adesso, l’uomo che ho aiutato ad uscire dal Cocito, l’uomo che ha saputo
risvegliare il ricordo della bambina che sono stati anni fa, nell’unico momento
felice di cui la vita mi ha fatto dono. Lo vedo, e le parole mi escono di bocca
naturalmente, come se fossimo amici di vecchia data. Sorrido, perché in fondo
avrei voluto davvero che lo fossimo stati.
- Fermati
Phoenix! Se segui Sirio e gli altri morirai! – E poi, abbandonandomi finalmente
a me stessa, alla donna che non ho mai potuto essere. –Ti farò entrare
all’Elisio! Ma tu dovrai vendicarmi! –E piango. Finalmente piango.
È bastato un giorno! Uno
soltanto! Per cancellare dalla mia vita l’amore e la felicità! Ma non basterà
una vita, per quanto lunga e apparentemente serena, per strapparmi dal volto
quell’immagine di tristezza che su di esso si è stampata, che con esso ormai si
è fusa, fino a diventare un unicum, fino a diventare parte di me, parte della
donna che ha tradito Asgard. Perché è così che mi sento, Orion! È così che mi
abbandono ogni notte, tra le lacrime dei miei rimpianti, incapace di accettare
l’atroce sorte che a causa mia voi Cavalieri di Asgard avete dovuto
fronteggiare! A causa mia e della mia debolezza! Se soltanto fossi stata più
forte, se soltanto fossi stata capace di oppormi al nefasto potere dell’Anello
del Nibelungo, se soltanto fossi stata in grado di sollevare il capo e fissare
con orgoglio Nettuno, sbattendogli in faccia la sua ipocrisia e la sua volontà
di asservirci, forse molte cose sarebbero potute andare diversamente, forse le
bianche terre di Asgard non sarebbero state macchiate dal sangue dei suoi
difensori, né le grida di uomini di pace avrebbero risuonato negli immacolati
boschi della nostra terra. Forse tu, assieme ai tuoi cinque compagni, saresti
ancora vivo!
Forse
Thor ancora caccerebbe libero nelle foreste ai margini del nostro regno,
laddove le leggi promulgate dalla stirpe di Polaris ancora non arrivano. Forse
Luxor continuerebbe a correre, in queste immacolate terre protette da Wotan
Odino, assieme ai lupi suoi fratelli, sfidandoli nella corsa e cibandosi con
loro di quelle sensazioni di intima naturalezza che loro soltanto erano capaci
di dargli. E forse Artax sarebbe ancora qua, ad ascoltare mia sorella
canticchiare nell’alba del primo sole di primavera, ad osservarla ridere,
perdendosi nei suoi occhi, come hanno fatto per anni, fin da quando erano
bambini. Fin da quando le loro vite si intrecciarono, come le nostre, Orion.
Ali della stessa aquila in volo verso l’infinito.
Forse
Mime ancora suonerebbe dolci ma fatali melodie, tra le rovine della dimenticata
città che borda i confini meridionali di Asgard, ove il musico dall’animo
inquieto amava passeggiare, tra le memorie insepolte di Folken, suo padre e
maestro, e le speranze di un mondo dove la musica regni sovrana. E forse
Megrez, dal cuore roso dall’ambizione e dalla brama di gloria, avrebbe potuto
placare i suoi sentimenti, trovando in voi, Cavalieri di Asgard al pari suo,
dei fratelli o degli amici, e non soltanto dei servi da utilizzare per i suoi
loschi scopi. Anche con lui ho fallito! Come con te, e con tutti gli altri! Ho
fallito e non mi do pace, Orion, poiché non riesco ad accettare questo ingrato
e beffardo destino! Questo fato perverso che uccide i fratelli e condanna gli
eroi, lasciando che i colpevoli continuino a vivere impuniti al posto loro. Al
posto di chi, come te, avrebbe meritato una lunga vita a difesa della sua
terra, a cui sempre è stato fedele, a costo persino di volgere il pugno contro
la Regina da cui era stato investito. Contro la Regina che, troppo debole per
ribellarsi, non poteva far altro che assistere, attonita e disperata
spettatrice, al massacro di tutti i suoi ideali, alla fine di tutto ciò che
riteneva sacro. La sua Terra. I suoi affetti.
Ho
chiesto tante volte a Odino di prendere la mia vita, e di donarla a te, Orion,
e ai Cavalieri tuoi compagni, caduti per colpa di uno sbaglio che non sono
stata in grado di evitare! Glielo chiedo ogni volta in cui mi reco al pinnacolo
di ghiaccio, per pregarlo e rendergli omaggio. Ma il Dio degli Asi non ha mai
prestato ascolto alle mie parole, troppo indaffarato nella vera Asgard, troppo
intento a organizzare gli eserciti dei suoi einherjar, preparandoli per
la fine del mondo, per porre lo sguardo su di me, su una stupida e fragile
donna, capace soltanto di lamentarsi per un destino ingrato. Ma se un giorno
dovesse ascoltarmi, e confido che ciò accada, poiché in Odino ancora credo,
voglio che sappia che può, anzi deve, prendere la mia vita! A patto che il mio
sangue ed il mio cosmo servano per darla nuovamente a voi, a patto che possano
farvi vedere nuovamente la luce della vostra bella Asgard.
È così
strano, Orion, così strano che ormai non ci faccio più caso, ma il velo che ci
ha separato un tempo, tenendoci distanti fisicamente, adesso sembra scomparso.
Quel velo di dignità, di fedeltà ai costumi e alle tradizioni, di rispetto da
parte del primo dei Cavalieri verso la sua Regina, adesso sembra essersi
dissolto, come neve al sole, lasciando soltanto un opaco strato di tristezza. E
tanti, troppi, rimpianti. Col senno di poi, guardandomi indietro, adesso,
vorrei cambiare tante cose, vorrei dirti frasi e pensieri che non ho mai potuto
pronunciare, obbligata a celarli dentro il mio cuore, a tenerli nascosti al
mondo, perché non ben si addicevano al mio ruolo di Sacerdotessa del culto di
Odino, una donna che, prima di ogni altra cosa, doveva essere forte e decisa,
salda nel terreno e nelle sue condizioni e soprattutto integerrima. Una donna
che avrebbe dovuto mettere la difesa e la salvezza di Asgard al primo posto,
nella lista delle sue priorità, lasciando che i sentimenti, soprattutto quelli
personali, scivolassero via, per non precluderle in alcun modo lo svolgimento
della sua funzione. Ma essi in realtà non mi hanno mai abbandonato, essi in
realtà sono sempre stati parte di me. D’altronde, come si può chiedere ad una
donna di non amare?
Per
anni ho sempre rimandato, per anni ho aspettato, per anni ho contenuto gli
affanni del mio cuore, immaginando che fossimo entrambi ancora giovani,
immaginando che fossimo soltanto due ragazzi, di appena vent’anni, e che molte
lune ancora avremmo visto sorgere sul mare artico. Ma alla guerra, che così
tanto presente è stata nella memoria e nella cultura della nostra gente, avevo
cercato di non pensare e se lo avevo fatto ti avevo sempre visto vittorioso e
trionfante. Ti avevo sempre immaginato immerso nel sangue del drago Fafnir, con
la spada Gramr sollevata verso il cielo, imbevuta della luce delle stelle
dell’Orsa. Tu, Orion, l’invincibile. L’invulnerabile. L’unico che abbia amato
così tanto la sua Regina da dare la vita per lei.
Vorrei
avere avuto la possibilità di dirti quanto tenevo a te, e a tutti i Cavalieri
tuoi compagni. Vorrei aver avuto la possibilità di dimostrarti che l’affetto
che per te provavo, fin da quando entrasti nella mia vita e fin da quando le
tue gesta vennero cantate lungo le terre del mare artico, era vero e sincero. E
soprattutto non era soltanto l’affetto di una Regina per il primo tra i suoi
Cavalieri, ma l’amore di una donna verso colui che avrebbe voluto fare Re,
verso colui che sempre ha considerato il suo Re. Divisi dal destino, uniti dal
ricordo, così Orion ti lascio adesso, sfiorando la fredda superficie di questa
lapide, annaspando nell’amore che non ho potuto dichiararti, nella riconoscenza
che non sono stata in grado di dimostrare, nelle parole che mai ho potuto
dirti. Perché non ho avuto tempo, perché mi è stato proibito, perché il mondo
che credevo perfetto e immortale è cambiato in pochi giorni, e della Asgard
degli eroi speranzosi di un tempo, che confidavano nell’abbraccio protettivo di
Odino e nella promessa di un raggio di sole, non è rimasto niente, soltanto un
ricordo. E anch’esso ormai è già perso nel mio cuore.
Fiore di Luna – Una preghiera che giunge da lontano
Fiore di Luna – Una preghiera che giunge da
lontano
(di Lamia)
Signore…perdonami se ancora una volta mi rivolgo
a Te, ma Ti prego, presta ascolto alla mia umile preghiera…non è per me che
richiedo il Tuo prezioso tempo, ma per Sirio. Ha bisogno di Te, non abbandonarlo
nel momento del bisogno!
Credo che sia giunto ad Atene da più di tre ore,
ormai, ed è dalla sua partenza dai Cinque Picchi che non ho più sue notizie. So
che non può essere altrimenti, come potrebbe mettersi in contatto con me dal
luogo in cui si trova ora? E so bene che è in missione, che sta compiendo il
suo dovere, come sempre…ma come posso rimanere qui ad attendere gli eventi,
senza nulla poter fare per aiutarlo? Che posso fare? Posso solo pregare,
pregare per Sirio, perché riesca a vincere e tornare da me…
Oh Signore, Ti prego, riportalo da me sano e
salvo! Aiutalo in questa impresa disperata! Quante volte ancora dovrò temere
per lui, per la sua salute? Quante volte dovrò sapere la sua vita appesa ad un
filo sottile e fragile? Quanta paura ho già avuto per lui, troppa…
Così impressa nella mia memoria è ancora la
Guerra Galattica; poche settimane sono trascorse da allora, ma quello strazio è
una ferita ancora aperta nel mio cuore…se fossi riuscita a convincere Sirio ad
abbandonare lo scontro non avrebbe rischiato di morire…avrei dovuto insistere,
come il Maestro voleva che facessi, mentre io ho soltanto riferito il messaggio
e ho lasciato che fosse lui a decidere. Quanta determinazione ho visto nei suoi
occhi, mentre mi diceva di non poter interrompere l’incontro, di dover portare
a termine ciò che aveva cominciato! Ho visto il fuoco nel suo sguardo, forse un
segno di quel cosmo di cui parlava sempre l’Anziano Maestro durante
l’addestramento! Le parole mi hanno abbandonato, ero come pietrificata mentre
fissavo il suo volto, incapace di reagire. Avrei voluto dire tante cose e
cercare di fermarlo, ma con il terrore nel cuore sono rimasta a guardare mentre
tornava a combattere...avrei voluto pregare per lui, ma non ci riuscivo, non
riuscivo a pensare a niente, tale era la confusione che occupava la mia mente!
Le voci delle persone attorno a me risuonavano indistinte al mio orecchio,
mentre vedevo Pegasus colpirlo al petto…era il suo punto debole, io lo sapevo,
e in quel momento proprio quel punto era scoperto, senza armatura, senza alcuna
protezione! Oddio, l’aveva compreso anche il suo avversario!!! Per Sirio era la
fine, io l’ho capito un attimo prima del colpo finale…è stato come se per
qualche istante il tempo si fosse fermato, insieme al mio respiro, mentre lo
vedevo cadere fuori dal ring, mentre chiudevo gli occhi e udivo il boato di
voci degli spettatori riecheggiare nel Palazzo dei Tornei…
Il suo cuore si era fermato…il tatuaggio sulla
schiena stava svanendo lentamente, come la sua vita…oh Signore, che dolore ho
provato in quel momento! Non potevo credere che Sirio sarebbe morto così,
davanti ai miei occhi! Qualcuno doveva salvarlo!!! Ma solo quel Cavaliere
poteva farlo, con un altro dei suoi colpi. Mi sono gettata in lacrime su di lui
per supplicarlo di intervenire, pur sapendo quanto folle fosse pretendere che
nelle gravi condizioni in cui versava in quel momento si alzasse dalla barella
che lo trasportava, ma la vita di Sirio era nelle sue mani! E Pegasus ha dato
ascolto alle mie suppliche: ha riattivato il suo cuore e lo ha salvato! Per
sempre gli sarò grata per il suo gesto…
Ma solo per breve tempo è durato il mio sollievo,
purtroppo…non molto mi è stato spiegato su quanto accaduto in seguito, ma so
che Sirio ha donato il suo sangue per ricambiare il favore ricevuto, per dare
nuova vita all’armatura di Pegasus, affrontando il rischio di morire
dissanguato. Io non volevo nemmeno che partisse per quell’impresa, ancora
debole per il duello da poco terminato; avevo intuito che avrebbe corso dei pericoli,
senza pensare a se stesso, e sapevo che se fosse morto non sarei nemmeno stata
al suo fianco! Potevo soltanto attendere il suo ritorno, con la speranza che
non gli capitasse nulla…
Ma quando è tornato da me era cieco. Aveva perso
la vista durante un altro scontro. Che duro colpo è stato per Sirio! Sembrava
un’altra persona, come se quel fuoco si fosse spento dentro di lui…come se la
sua vita non avesse più alcun valore…come se non ci fosse più alcun motivo per
cui combattere…mentre io mi sentivo quasi sollevata al pensiero che non avrebbe
più dovuto correre rischi! Pensavo che finalmente il suo tempo sarebbe stato
mio, mi sarei presa io cura di lui e nulla ci avrebbe più diviso! Nessun
addestramento l’avrebbe più tenuto lontano da me, nessuna battaglia…Quanto
crudele sono stata, Signore, come ho potuto essere così egoista? Come ho potuto
pensare anche solo per un momento che Sirio avrebbe potuto accettare di
rinunciare ad essere un Cavaliere di Atena? In cuor mio ringraziavo che fosse
cieco, nonostante il dolore e la frustrazione che sapevo provasse dentro di
sé…speravo che con il tempo la sua ferita interiore sarebbe guarita e che tutto
si sarebbe sistemato…chiedo perdono per il mio egoismo, Signore!!! Ho pensato
solo a me stessa, al mio desiderio di avere al mio fianco l’uomo che amo!
Ma il posto di Sirio non è qui ai Cinque Picchi,
non è con me…è con i suoi compagni. L’anziano Maestro mi aveva avvertito che
sarebbe accaduto: il destino di un Cavaliere è quello di servire Atena in
difesa dell’Umanità intera, anche a costo della propria vita. Tutto il resto
deve passare in secondo piano. E io mi devo fare da parte, lasciando che Sirio
compia il suo dovere fino in fondo. So che così dev’essere…ma come può
affrontare una nuova missione in quelle condizioni?!? Come può vincere il suo
nemico se nemmeno lo può vedere?!? Mi ha detto di non preoccuparmi, ha promesso
che tornerà da me…le sue parole non erano incerte, la sua voce era tranquilla e
sicura…lo scontro con Demetrios gli ha reso quella determinazione che aveva
perduto, ha riattivato quel fuoco che si era spento. Dragone è tornato! Ed è
voluto partire alla volta del Grande Tempio. Ancora una volta avrei voluto
tentare di fermarlo, ma sapevo che sarebbe stato inutile…e sono rimasta a
guardarlo allontanarsi da me e partire per affrontare non so quale nemico…
Ed eccomi qui, Signore, in ginocchio di fronte a
Te. Ti imploro di ascoltare la mia preghiera! Donerei la mia stessa vita se
potesse servire a qualcosa…ma io non ho il potere di aiutare Sirio in quest’impresa,
solo Tu lo puoi fare!!! Quindi Ti prego, resta al suo fianco in questo
difficile momento, sostienilo in battaglia! Fa che vinca il nemico che sta
affrontando in quest’istante e riesca a raggiungere l’obiettivo che si è
prefissato! Non permettere che gli sia fatto del male! E Ti prego nuovamente,
Signore: riportalo da me sano e salvo! Io sarò qui ad aspettare il suo ritorno…
forse ti apparirà
assurdo che la tua mamma ti scriva una lettera, ma sento il bisogno di
farlo…quando l’avrò terminata, la nasconderò tra le tue cose, nella tua borsa;
la troverai quando già sarai giunto al termine di questo viaggio, e noi ci
saremo salutati. Questa nave è salpata da poco più di un’ora e altre ore ancora
ci attendono…è un viaggio che mi sembra interminabile, ma al tempo stesso
troppo breve…se non avesse fine, non saremmo costretti a separarci! Ma
purtroppo tutto ha una sua conclusione, e così sarà anche per questa
traversata…
Ti guardo dormire,
mentre seduta a questa scrivania lascio che la mia mano scriva i miei pensieri
su questo foglio bianco…cerco di fissare nella memoria i tuoi lineamenti
delicati, i tuoi capelli biondi, quell’espressione serena da bambino tra le
braccia di Morfeo…il mio bambino…sei così piccolo…e sembri così indifeso…io
sono tua madre: sarebbe mio compito proteggerti dai pericoli a cui questo mondo
potrebbe esporti, spronarti di fronte alle difficoltà che potresti incontrare
crescendo, consolarti di fronte a sofferenze e delusioni con cui potresti
doverti confrontare, indicarti come affrontare la vita trasmettendoti ciò che
le esperienze mi hanno insegnato…
Ma tutto questo
non mi sarà concesso! Un uomo che tu nemmeno conosci ti vuole con sé. Dice di
voler fare di te un Cavaliere. Le mie domande non hanno ricevuto risposta
alcuna: che significa divenire Cavaliere? A che servirà? Perché proprio tu?
Perché sei mio figlio, questo è il motivo. Perché ho conosciuto quell’uomo
tempo addietro, quando nulla potevo immaginare di quanto sarebbe poi accaduto.
E ora lui vuole togliermi la cosa più preziosa che ho…vuole allontanarmi da te…
Ma come si può
separare una madre da suo figlio? Come le si può chiedere di rinunciare a
vederlo crescere? Una richiesta crudele, priva di qualsiasi umanità…l’ho
pregato di lasciarmi rimanere al tuo fianco durante l’addestramento che dovrai
affrontare, l’ho implorato con tutte le mie forze, ma è stato tutto vano.
Nemmeno le lacrime di una madre disperata hanno scalfito quel cuore arido…le
stesse lacrime che scorrono ora sul mio viso, al pensiero di quello che ci
attende.
Per quale motivo
non posso restare con te? Mi farei da parte per lasciarti imparare ad essere un
Cavaliere, ma almeno sarei sempre presente per te, pronta a darti il mio
sostegno, il mio conforto, il mio affetto…ma no, quell’uomo crede che le cose
andrebbero diversamente. Ritiene che interferirei con l’addestramento, che non
ti permetterei di crescere e maturare! Come se una madre potesse essere
d’intralcio per lo sviluppo di suo figlio!!! Come se potesse essere un peso!!!
Io ti ho cresciuto
da sola, in una terra inospitale, con pochi mezzi a mia disposizione. Ma tu mai
per me sei stato un peso, piccolo mio! Sei sempre stato un dono per me…un
motivo per continuare a vivere…quando sei nato temevo in cuor mio che non sarei
stata in grado di darti quello di cui avevi bisogno, che avrei commesso tanti
errori…e forse è anche stato così…ma se ti guardo ora vedo un bravo bambino,
educato, forte, coraggioso. Sei come avrei voluto che fossi! Non posso che
essere orgogliosa di te, Hyoga, lo sono sempre stata…
E anche in questa
situazione mi hai mostrato la tua maturità, ancora una volta. Ti ho parlato di
quell’uomo, del suo folle progetto, di ciò che ti attende…so che soffri
all’idea di doverti separare da me, io provo lo stesso dolore! Ma hai accettato
il tuo destino senza obiettare, a testa alta, come un adulto. Il mio ometto…sei
più maturo dei tuoi coetanei, sei dovuto crescere in fretta. Le avversità della
vita portano a questo.
Avrei voluto
offrirti una vita più serena e spensierata, evitarti qualsiasi sofferenza,
tenerti lontano dalle difficoltà…ma non sono in grado di fare questo…spero che
capirai che ho fatto quel che ho potuto, come madre…
Ti osservo ancora
dormire…un pensiero mi attanaglia la mente da quando siamo partiti. E se tu mi
dimenticassi? Così a lungo saremo lontani e così giovane tu sei…forse il mio
ricordo si affievolirà con il passare del tempo, fino a divenire un’immagine
sfuocata nella tua memoria…forse il mio ricordo sempre più di rado busserà alle
porte della tua mente, fino a non venire più a trovarti…forse farò parte
solamente del tuo passato, perché non potrò vivere nel tuo presente…
No, non voglio che
ciò accada! Ti prego, piccolo mio, non lasciare sbiadire il ricordo che hai di
me! Anche se sarò lontana, io sarò sempre accanto a te, sempre! Ti donerò la
mia croce, in modo che tu possa portarmi con te…quando sarai in difficoltà,
stringila nella tua mano, e io ti indicherò la via da seguire, anche se non
sentirai la mia voce tu saprai cosa voglio dirti! E la croce ti proteggerà dove
io non potrò giungere!
Ti scrivo questa
lettera perché tu possa capire che non mi è stata data la possibilità di
scegliere; io non ti abbandonerei mai, Hyoga! E vorrei che questo viaggio non
avesse mai fine…ma le lancette dell’orologio scandiscono il tempo che passa, e
non le si può arrestare…vorrei svegliarti, e trascorrere con te queste ultime
ore che ci separano dal momento dell’addio…ma non lo farò! Preferisco rimanere
qui in silenzio ad osservarti, ad ammirare la tua espressione serena e
tranquilla mentre ti accarezzo i capelli…Riposa, bambino mio, la mamma è ancora
qui!
Presto saremo a
destinazione…so già che non verserai una lacrima nel salutarmi, perché sei
forte, e io tenterò di fare lo stesso. So che riuscirai a superare il periodo
dell’addestramento e che diverrai Cavaliere: non mi hai mai deluso e non lo
farai neppure questa volta! E allora tornerai da me, tornerai a casa. Io sarò
là ad attenderti, pronta ad abbracciarti. Tu sarai cresciuto, ma sarai sempre
mio figlio! E ricorda che io sarò sempre tua madre, e sempre ti porterò nel mio
cuore…ti voglio bene!
Ti guardo. Il tuo
viso è ormai quello di un giovane uomo, ma tanto ancora ricorda quello del
bambino che eri…gli stessi lineamenti, gli stessi capelli…provo ad accarezzarti
la testa, come facevo allora. Puoi sentirmi, Seiya? Sono qui con te, mi senti?
Tu non rispondi…il tuo sguardo è fisso, rivolto innanzi a te, come svuotato e
spento…non puoi vedermi, non puoi sentirmi…fratello mio…come posso guardarti
ridotto in questo stato?!?
Dov’è finita
quella vitalità che mostravi sempre? Tutte quelle energie che sembravano non
esaurirsi mai? E pensare che allora mi facevi impazzire, quando ti chiedevo di
comportarti bene e di stare attento, di stare tranquillo, mentre tu, così
vivace, correvi ovunque senza pensare ai pericoli a cui ti esponevi…in quei
momenti avrei vissuto come un sollievo il vederti seduto, composto, in
silenzio…ma ora…che impressione vederti come privo di vita! Sei qui, ma è come
se non ci fossi…e io mi sento così inutile, perché non c’è nulla che io possa fare
per te, ora.
Oh Seiya…come
posso accettare l’idea di non esserti stata vicina per tutto questo tempo,
mentre affrontavi delle difficoltà più grandi di te?!? Ero il tuo unico punto
di riferimento, prima che ti portassero a Villa Toole, non hai mai avuto un
padre e una madre che si prendessero cura di te…io ho cercato di sostituirmi a
loro, di essere un sostegno per te; ho fatto il possibile…
Ma poi sono
arrivati quegli uomini e ti hanno portato via…avrei fatto qualsiasi cosa per
impedirglielo, non volevo assolutamente che ci separassero! Ma ero solo una
ragazzina, cos’avrei potuto fare contro di loro?!? Ricordo il tuo viso
spaventato, il tuo pianto disperato mentre ti obbligavano a prendere posto su
quell’auto…
Ho trascorso
giorni a versare lacrime silenziose, con lo sguardo rivolto verso la finestra,
senza dormire o mangiare…pensavo a te, mi chiedevo dove fossi, cosa stessi
facendo. Nessuno mi ha dato spiegazioni, mi è stato detto unicamente che
avresti passato degli anni in Grecia per addestrarti. Addestrarti?!? Per
cosa?!? Eri solo un bambino! Avresti dovuto trascorrere il tuo tempo giocando e
studiando, come tutti gli altri…non riuscivo a capire cosa stesse accadendo…non
potevo accettare di non rivederti più!
E’ proprio
pensando a te che ho trovato la forza di reagire: tu non ti sei mai lasciato
scoraggiare da niente e da nessuno, pur essendo così piccolo; era giunto il
momento per me di fare altrettanto! Ho asciugato le ultime lacrime che ancora
bagnavano il mio viso, mi sono alzata dal letto e ho preso quella decisione:
partire per cercare mio fratello! Ho raccolto le poche cose necessarie per il
viaggio, mi sono armata di coraggio e ho lasciato l’orfanotrofio alla volta
della Grecia. Quanta paura provavo dentro di me! Ero sola, non avevo mai
lasciato il Giappone prima di allora, e mi attendeva un così lungo viaggio,
verso un Paese così lontano…ma ero assolutamente convinta di voler affrontare
tutto ciò: io dovevo trovarti, Seiya! Dovevo accertarmi che stessi bene!
Ma probabilmente
il mio è stato un errore, una mossa azzardata che mi ha portato ad allontanarmi
da te, anziché a ritrovarti. Ho perso la memoria. Ancora oggi non ricordo bene
come sia accaduto. Ma so che ho girovagato a lungo in preda alla confusione,
smarrita, sola…delle persone che ho incontrato mi hanno chiesto il mio nome.
Una domanda così semplice, così comune. A cui tante volte avevo risposto in
passato. Eppure in quel momento io non lo sapevo dire. Non ricordavo il mio
stesso nome.
Normalmente sembra
soltanto una parola, una come un’altra. Pensiamo che chiamarci in un modo
piuttosto che in un altro non faccia differenza. Dicono che una rosa avrebbe lo
stesso profumo e sarebbe altrettanto bella se venisse chiamata con un altro
nome. E così dovrebbe essere anche per gli esseri umani.
Ma non è così.
L’ho scoperto solo nel momento in cui non sono stata in grado di dire come mi
chiamo. Il nostro nome racchiude ciò che siamo e definisce chi siamo. Ci
arrabbiamo se udiamo qualcuno storpiarlo o se ci rendiamo conto che una persona
a cui teniamo non lo ricorda; è la prima informazione che diamo di noi a chi
incontriamo per la prima volta; è una cosa che viene già pensata per noi ancor
prima della nostra nascita, come se per i futuri genitori scegliere il nome per
il futuro nascituro rendesse più reale e concreta la presenza di una nuova
creatura; lo sostituiamo con un altro quando non vogliamo far conoscere la
nostra identità a qualcuno, come se appunto il nostro nome potesse farci
riconoscere anche da chi nulla sa di noi...
Puoi dimenticare
fatti, luoghi e persone…ma se non ricordi il tuo nome, sai per certo che
qualcosa non va, ed è come se perdessi una parte di te. E così è stato per me.
Ho trascorso anni a chiedermi chi fossi, cosa ci facessi in Grecia, quale fosse
il mio passato; ma non trovavo alcuna risposta alle mie domande. Fino a quando
ho udito la tua voce, Seiya, dopo tanto tempo. Hai urlato il mio nome. Quella
semplice parola che tanto a lungo avevo cercato di ricordare e che in un
secondo ha riportato alla mia memoria tutto ciò che avevo scordato. Mi hai
salvato, fratello mio, mi hai reso la mia identità. Se ora sono qui è grazie a
te e ai tuoi coraggiosi compagni!
Ma io che posso
fare per te? Cos’ho fatto per te finora? Per tutto questo tempo sono stata
lontana, mentre tu divenivi Cavaliere, come quell’uomo voleva. Mentre
affrontavi i tuoi nemici, rischiando più volte la vita per svolgere il tuo
dovere. I tuoi amici mi hanno raccontato le tue gesta, le vostre imprese…e
Castalia mi ha detto che tanto mi hai cercato, senza perdere mai la speranza di
ritrovarmi. Ed ora sono qui. Ma nulla posso fare per te, Seiya, non ora che la
tua mente è altrove.
Credo che lascerò
la clinica, Castalia e Lady Isabel si prenderanno cura di te, come hanno sempre
fatto. Io ho bisogno di fare chiarezza tra le mie idee confuse, devo rivedere
questi luoghi da cui per troppo tempo sono stata lontana, ritrovare ciò che
ero, per decidere chi voglio essere adesso. Ma non ti abbandonerò di nuovo,
fratello mio, non temere, tornerò da te appena troverai la forza per svegliarti
da questo torpore e pronunciare ancora una volta quella parola:
"Patricia". Perché questo è il mio nome, e tu non l’hai mai
dimenticato…
Ora riposa, Seiya,
prenditi tutto il tempo che ti serve. Io ti aspetterò.
Capitolo 7 *** Esmeralda - Applausi da lontano ***
ESMERALDA
ESMERALDA
APPLAUSI DA LONTANO
Caro Phoenix, manca poco al termine del tuo periodo di
addestramento, al giorno in cui riconquisterai la libertà, potendo finalmente
andartene, potendo volare via da qui. Da questo inferno in terra. Da me.
Ho seguito il tuo allenamento per tutti questi anni,
cercando di non essere vista da mio padre, perché so, per certo, che si
arrabbierebbe e mi punirebbe per averti distratto dalla tua missione, dallo
scopo della tua presenza su quest’isola. Del resto, nessuno, che non abbia
l’investitura come fine, o che non sia obbligato a restarvi, sceglierebbe mai
di trascorrere la vita qua, in quest’arida terra. Una prigione, così penso che
si possa definire, al pari della maschera che mio padre porta sul volto. Una
prigione di disperati, di rinnegati, di gente senza ideali che mira soltanto
all’ombra e al potere. Una prigione fisica che ne sottintende un’altra, più
interiore, che ognuno di questi uomini si porta dentro, un senso di
sbandamento, di vuoto, di disperazione che non riescono a vincere, logorati
dalla tenebra e dalla brama di potere. Non credi che sia così? Forse tu no, ma,
come hai imparato a conoscermi, sai bene che per me è così, che io cerco sempre
di vedere il buono in ognuno di noi, convinta che nessuno sia completamente
malvagio.
E anche quest’isola, in fondo, non è poi così inospitale.
Certo, quando ero piccola, dopo la morte di mia madre, uccisa da un gruppo di
criminali giunti sulla Regina Nera per impossessarsi delle armature ivi
custodite, ho creduto davvero di essere all’inferno, di essere morta e di
aggirarmi per chissà quale landa di Ade, pullulante di spettri e cadaveri,
laghi di lava e vapori pestilenziali. Ma poi mi sono fatta coraggio e ho
scoperto una forza nascosta dentro di me. Una forza che non fa di me un
Cavaliere tuo pari, ma che mi ha permesso di andare avanti in questi anni,
senza mai perdere la speranza che le cose, pur brutte che siano, possano
migliorare. La fede.
A questa fede verso il futuro non sono mai venuta meno e mi
ha sorretto nei momenti più bui, soprattutto dopo il cambiamento di mio padre.
È stato proprio questo sentimento a spingermi ad apprezzare quel che di bello,
pur poco che fosse, avevo intorno a me. Mio padre per primo, alcuni luoghi
della Regina Nera, non così inospitali, come il campo di fiori che ti ho
mostrato, e infine te, Phoenix. In te ripongo fiducia e speranza, in te credo e
a te mi affido affinché il mio sogno di libertà trovi realizzazione, e so che
non mi deluderai. Non puoi farlo, perché sei buono, perché il tuo animo è puro
e nel tuo cuore risiede la fiamma della giustizia e dell’onestà che arde così
intensamente da non poter essere mai spenta. Neppure da te stesso, ricordalo
Phoenix.
E perdona mio padre, ti prego. Quando sarai sulla nave che
ti riporterà in Giappone, e leggerai queste mie pagine di diario, che ho
raccolto in fretta su pezzi di carta ingiallita, e ripenserai
all’addestramento, ti prego di non portargli rancore, sebbene tu ne abbia tutte
le ragioni, per l’ostilità che ti ha dimostrato fin da quando sei arrivato, per
il modo crudele in cui spesso ti ha trattato. Non dirmi di tacere, è tardi
ormai, e non dirmi di andarmene, perché ho già visto. Di nascosto, ti ho
osservato cadere a terra mille volte, colpito dai calci e dai pugni di un uomo
che a fatica riesco ancora a riconoscere come genitore. E quei giorni in cui
non ho potuto seguire il tuo addestramento, impegnata con la cura di questa
baracca che tutto si può definire meno che casa, ne ho visto i risultati, nei
lividi e nelle ferite che costellavano il tuo corpo. Ooh, Phoenix, quanto
dolore hai sopportato in questi anni! Quanto odio mio padre ti ha instillato
dentro, al punto che spesso mi sono chiesta se non riuscisse a vincere la tua
bontà e la tua sete di giustizia! Sono una ragazza, Phoenix, perdonami se ho
avuto questi dubbi, ma anche quando si sono presentati ho saputo sempre come
rispondere loro. Con un secco no. Certa che la tua fede sia pari alla mia,
avendola percepita più volte nel tuo cuore.
Anche mio padre, un tempo, era un uomo buono come te e ha
combattuto, per anni, contro briganti e criminali, che periodicamente
giungevano sulla Regina Nera per indossare le armature oscure che la Dea Atena
vi nascose molto tempo addietro. Ne sono venuti davvero tanti, Phoenix,
credimi, e anche oggi credo che molti vi dimorino ancora, sull’altro lato
dell’isola, dove mio padre da tempo non si reca, non adempiendo più alle sue
mansioni di custode. E temo che qualcuno sia riuscito nel loro malefico
intento. Perdonalo Phoenix, e non per le suppliche di una bambina, ma perché la
verità, adesso celata da quell’orribile maschera che porta sul volto, è che mio
padre era un uomo probo, scelto dal Grande Sacerdote in persona, più di
vent’anni addietro. Per quanto ingrato compito gli fosse toccato, mio padre non
se ne lamentò mai, trasferendosi in quest’isola e impegnandosi duramente in
scontri continui. Da solo, come fu per sette anni, finché non conobbe mia
madre, la schiava di un contadino. Maltrattata, sporca, posseduta spesso da
quelle luride mani, quella donna viveva alla stregua di un animale, ma, ingenua
come spesso solo noi donne possiamo essere, speranzosa sempre che il domani le
avrebbe arriso. Come in effetti fu, quando mio padre la salvò, comprandola dal
contadino e donandole la libertà.
Furono felici insieme e continuarono ad esserlo anche dopo
la mia imprevista nascita. Imprevista perché molto si chiesero se fosse il caso
di far crescere una bambina in questa terra dimenticata dagli Dei. Ma mia
madre, che non credeva alla casualità, era convinta che vi fosse uno scopo
anche nella mia esistenza, e spesso sorrido pensando di non aver capito quale
fosse. Poiché non mi pare di aver fatto niente di eclatante, se non trascorrere
la giovinezza aiutando e curando prima mio padre e poi te, felice di poter essere
utile, anche nel mio piccolo.
Poi mia madre morì, e mio padre massacrò i criminali che la
uccisero, uno ad uno, gettando i loro corpi nel lago di lava. Non me ne ha mai
parlato, ma lo vidi con i miei occhi, avendolo seguito quella mattina. Da quel
giorno iniziò ad avere incubi e brutte visioni, consapevole di essersi
macchiato di un crimine nefando, per quanto gli eventi e la rudezza della vita
sull’isola lo avessero necessitato. Fu allora che decise di recarsi in
pellegrinaggio al Grande Tempio, per espiare le sue colpe e chiedere il perdono
della Dea Atena. Ne fui felice, quando partì, speranzosa che potesse servirgli
per ritrovare la sua tranquillità interiore, ma quando tornò capii subito che
qualcosa era cambiato. Lui era cambiato. Non era più il generoso uomo che aveva
riscattato mia madre, togliendola da una vita di solitudine e di stenti, né il
premuroso padre che temeva per l’incolumità della sua unica figlia. Adesso era
divorato dall’odio e dall’ombra, vittima di un potere immensamente più grande
di lui.
Mi sento in colpa, spesso, per non aver saputo fare niente
per aiutarlo, per non averlo potuto guarire da questa maledizione. Le poche
volte in cui ho trovato il coraggio di rivolgermi a lui, di spingerlo a
parlare, ho ricevuto in cambio soltanto schiaffi e percosse, come ben immagini.
Ma non lo odio per questo, e spero che neanche tu lo farai dopo che te ne sarai
andato. Perché tu te ne andrai Phoenix, sei la fenice della speranza, l’uccello
di fuoco, e presto spalancherai le tue ali per volare via, per raggiungere un
mondo migliore di questo. Vorrei poter venire via con te, ma mio padre non mi
lascerebbe mai andare, deciso a tenermi con sé, uniti nella stessa sofferenza,
nello stesso destino di morte.
Addio Phoenix, chiudo così, queste mie poche pagine in cui
ho riversato me stessa, la ragazza che così tanto somiglia a tuo fratello e che
ha cercato, nel suo piccolo, di rendere migliori i tuoi giorni sulla Regina
Nera, come tu hai reso migliore la mia vita, da quando vi sei entrato.
Ricordami Phoenix, quando sarai una fenice e volerai nel vento, perché io non
ti lascerò mai solo e ti applaudirò da lontano.
Ho tentato molte volte di scriverti una
lettera, ma non ci sono mai riuscita. Non sono mai stata propensa alla
scrittura né alle belle arti, preferendo le attività sportive e da svolgersi
all’aria aperta, una dote che nostra madre non ha mai ammirato con letizia in
me. Umpf, come biasimarla? Del resto sono stata causa della sua morte. La
notizia del mio arresto e del mio esilio hanno contribuito a dare il colpo di
grazia al suo cuore già provato dagli affanni. Povera donna, non ho mai saputo
capire quanto dolore provasse per il mio destino, né ho potuto consolare te,
che sei rimasta, comportandomi come una sorella maggiore avrebbe dovuto.
Forse perché non mi sono mai sentita
una sorella maggiore.
E come avrei potuto? Ti ho odiato,
all’inizio, quando mia madre mi rivelò di aspettare un nuovo figlio dall’uomo
che aveva sposato dopo la morte del marito, un capitano di vascello, in un
naufragio al largo dei Caraibi.
Adoravo mio padre, adoravo la sua
freschezza, il suo sapore di mare, e adoravo quando, da piccola, mi portava in
visita alla nave che guidava, permettendomi di esplorarla da prua a poppa, di
conoscere il suo mondo, di vederlo con i miei occhi di bambina. Nostra madre
invece… beh, lei non era mai stata fiera di lui, lamentando spesso le mancanze
che aveva nei suoi confronti, soprattutto il tempo che trascorreva lontano da
lei, in mare aperto. Potevano passare mesi infatti prima che avessimo sue
notizie, e altri ancora prima di rivederlo, mesi che nostra madre trascorreva
pregando e logorandosi l’anima nella speranza che non accadesse niente di male
all’uomo che a modo suo amava. È strano, solo adesso, dopo più di vent’anni, mi
rendo conto che le sue parole erano sincere, per quanto all’epoca non gli
avessi creduto.
Alla notizie della scomparsa di mio
padre, il capitano Pelagi, rimasi infatti scioccata di fronte alla reazione di
nostra madre. Non gridò, non si disperò, non si gettò in lacrime ai piedi del
portatore di tale ingrata notizia, ma gli voltò lo spalle, sospirando e
accettando quel che aveva temuto per anni. Dopo neppure sette mesi era già
sposata ad un altro uomo, un commerciante conosciuto al porto di Trapani,
durante le sue passeggiate solinghe, quando si perdeva ad osservare
l’orizzonte, sperando di imbattersi nella sagoma del vascello del marito sulla
via di casa. Questo matrimonio non gliel’ho mai perdonato, e ancor’oggi non lo
comprendo appieno. Non comprendo come una donna possa vendersi così, mettendo
da parte con irrisoria facilità i sentimenti provati per un uomo mai capito, e
cambiare vita nel giro di poco tempo.
-Se tu lo avessi amato
davvero, preferiresti restare da sola, con i tuoi ricordi, che non tradirlo tra
le braccia di un altro! –Le dissi con rabbia quel giorno, l’ultima volta in cui
la vidi.
Era
il giorno della mia investitura a Sacerdotessa Guerriero, un ruolo che mio
padre aveva fortemente insistito che assumessi. Perché mi voleva forte, mi
voleva capace di vivere da sola, senza bisogno di uomini che decidessero per
me. Mi voleva come nostra madre non era mai stata.
Ed era anche il giorno del tuo quinto
compleanno. Da lì a qualche anno avresti iniziato anche te l’addestramento,
presso la Scuola delle Sacerdotesse di Atene, per divenire un Cavaliere. Eri
molto più tenera e dolce di com’ero stata io alla tua età, ma forse eri anche
più sola, poiché, a differenza mia, non hai avuto la possibilità di conoscere
mio padre e il tuo fu solo l’ombra di quel che sarebbe dovuto essere.
Perdonami se l’ho ucciso, Tisifone. Ma
non me ne pento. Affatto.
Meritava quel che ha avuto, per aver
osato prendere il posto di un uomo che si era spaccato la schiena per i sette
mari, rischiando ogni giorno la vita, per inviare soldi alla sua famiglia, e
per averti lasciato da sola, cacciandoti di casa non appena ne aveva avuto
l’opportunità, rinchiudendoti in un mondo di cui ben poco sapevi.
Rimpiango solo di non averlo massacrato
io stessa, ma per rispetto verso colei che mi aveva generato non volli
sporcarmi le mani. Così lo lasciai fare a tre uomini conosciuti al porto di
Atene, che si spacciavano per Cavalieri della Dea della Guerra Giusta, per
quanto io credo che nessuno di loro abbia mai saputo cosa significhi esserlo
davvero, un protettore della giustizia. Lo fecero in fretta, ma non lo fecero
bene, venendo individuati da alcuni informatori del Grande Tempio e accusati di
omicidio.
Trascinati di fronte al Grande Sacerdote,
un uomo anziano dal respiro affannoso, che la maschera d’oro non riusciva a celare,
il Primo Ministro in persona, Arles, un tempo Cavaliere d’Argento dell’Altare,
li accusò, per essersi macchiati di un simile delitto, infangando il buon nome
dell’esercito di Atene. Belle parole,
bella arringa, Primo Ministro! Pensai quel giorno, seduta sugli spalti
dell’arena ad osservare quel pubblico processo, mentre la gente attorno a me
esultava, invocando la morte per i tre colpevoli. La stessa che loro avevano
comminato su mio ordine, a qualcuno che secondo me la meritava. Non potei
esitare un attimo di più, alzandomi e facendomi largo tra la folla, mentre il
mio cosmo si espandeva e riempiva l’arena del Grande Tempio, generando una
tempesta improvvisa, di nubi nere e lampi accecanti.
Non fu in realtà un vero temporale, ma
una mossa che mi permise di avvicinare i tre uomini, nient’affatto sorpresi di
vedermi. Espansero i loro cosmi, decisamente inferiori al mio, e distrussero le
catene di energia che bloccavano i loro polsi e le loro gambe, sorridendo con
un ghigno perverso che sulle prime mi intimorì. Ma poi, quando i soldati del
Grande Tempio realizzarono che la tempesta era un’illusione e iniziarono a correrci
incontro, compresi che il mio destino era segnato, e che avevo fatto la mia
scelta.
-Cobra incantatore! –Gridai, balzando sui soldati e squarciando i loro corpi con folgori
incandescenti, mentre i tre uomini ne abbattevano altri.
Il
Grande Sacerdote se ne era già andato, scordato dal Primo Ministro, e parte
della folla si era dispersa. Soltanto un vecchio era rimasto a fissarmi,
appoggiato ad un bastone, un vecchio guercio con un occhio di cristallo che
pochi giorni fa mi ha scritto, revocando la condanna all’esilio che il
Sacerdote ci rifilò quel giorno.
Non che me ne sia fatta un problema
all’epoca, di essere cacciata dal Santuario, desiderosa com’ero di girare il
mondo per vedere gli stessi luoghi che aveva visto mio padre, per assaporare le
stesse esperienze che lui aveva vissuto. E infatti, come prima meta del mio
viaggio scelsi un’isola dei Caraibi sulle cui spiagge mio padre era stato
ritrovato morto. Un’isola ove un tempo sorgeva un covo di pirati che sarebbe
presto divenuta la mia nuova casa.
I tre uomini decisero di restare con
me, approfittando della posizione strategica per depredare molte navi che
passavano dal Golfo del Messico e mettendo parecchie ricchezze da parte. Non
avevano un nome o se anche lo avevano non lo ricordavano, così li chiamai in
base alle corazze che avevano indosso, Medusa, Delfino e Serpente di Mare. Delfino
era anche un bell’uomo, e l’unico che una volta abbia tentato di possedermi. Ma
non ero interessata, né a lui né a nessun’altro, volevo solo essere libera.
Come il mare, come mio padre. E all’inizio ero davvero convinta di esserlo.
Col tempo poi, con il diminuire degli
abbordaggi, con la continua minaccia di una spedizione punitiva da parte del
Grande Tempio, e con la solitudine dell’isola, capii che non la libertà avevo
ottenuto, ma una prigione. Una prigione persino più grande di quanto avessi
creduto, e che io stessa avevo contribuito a costruire, con i miei gesti
avventati e immaturi.
Per questo motivo ho accettato l’incarico che Gigars
mi ha proposto, per ottenere la libertà che mi ero negata un tempo. Fai le tue
mosse, Tisifone, fai le tue scelte, ma non venderti mai. Rimani fiera di quel
che sei, della tua libertà di donna, e non permettere a nessuno di portartela
via. Nemmeno a te stessa.
E m’inginocchio qui, di fronte alla
croce di legno posta in tua memoria, fuori dalla caverna dove tanto ti sei
allenato, da solo, dove tanto hai sacrificato per ottenere quel che volevi.
Persino te stesso. Ma sei sempre stato così, testardo e irriverente,
disperatamente fedele e attaccato ai tuoi ideali, al tuo senso dell’onore, al
punto da metterlo prima dei sentimenti. Prima di noi.
Ricordi,
Artax, quando eravamo giovani? Quando giocavamo felici nei giardini della
Reggia di Asgard, rincorrendoci tra gli alberi e tirandoci palle di neve?
Quando guardavamo le stelle, durante le nostreVetrnætr[i],
per poi rotolarci sui pendii innevati con gli slittini da te costruiti? Eravamo
felici, e convinti che avremmo potuto esserlo per sempre. Forse è stata colpa mia, forse
nella guerra, e nella probabilità che tu dovessi davvero combattere, non ci ho
creduto molto. O per lo meno ho sempre messo da parte, nella mia mente,
quell’immagine, quella prospettiva che, se vi avessi prestato attenzione, mi
avrebbe certo tolto il sonno. Ma avrei dovuto farlo. Aví[ii], avrei dovuto crederci di
più. Credere di più in te, Cavaliere. Invece ti ho continuato a vedere come
l’amico che sei sempre stato, il fratello che non ho mai avuto, il ragazzo con
cui ho trascorso la fanciullezza e che mi ha regalato mille momenti felici.
Ma
adesso, di quei ricordi, e dei loro sorrisi, non resta niente. Soltanto l’amaro
sapore di averti perduto. Cocciuto, hai perseverato a lottare, anche di fronte
alle mie suppliche, anche di fronte all’evidenza, rivolgendomi persino i tuoi
colpi contro! Contro la ragazza che avevi giurato di difendere, la ragazza per
cui eri divenuto Cavaliere! E che, per una beffarda ironia, hai condannato a un
eterno dolore, a una solitudine senza fine. Ma non credo, in fondo, che tu, da
tale condanna, ne sia stato esente.
L’ho
letto, nei tuoi occhi di Cavaliere, in cui tanto mi ero specchiata per anni,
trovandovi le stesse paure e la stessa ansia che percepivo nei miei. La stessa
fragilità che ci ha portato alla rovina. Perché tu sapevi, oh come vorrei
sbagliarmi Artax, che scatenando la tua tempesta di fuoco Cristal avrebbe
reagito e uno di voi sarebbe morto. E forse, avendo imparato a conoscerlo nel
corso dello scontro, non sei rimasto troppo sorpreso quando il Sacro Acquarius
ti ha travolto, strappandoti alle lande in cui eri considerato unico e a me. Ma
in fondo, anche se non è giusto pensarlo, credo che tu pensassi di avermi già
perso. E lo paventai, quel giorno, quando mi ersi per proteggere Cristal dai
tuoi attacchi.
Mi
dispiace, venire qua, sulla tua tomba, a parlarti di lui, dell’uomo che più di
ogni altro odi al mondo, dell’uomo che ha riempito il tuo cuore di un immenso,
ma certamente ben definito, rancore. Ma devo farlo, per cacciar via il tuo
fantasma, che ogni notte si sdraia accanto a me e mi accusa di averti ucciso,
di non averti voluto abbastanza bene da desiderare che tu vivessi. Perdonami,
Artax, ma non è così. Ti ho voluto bene, ti ho amato, come si ama un amico, un
fratello, un compagno con cui ho condiviso la vita. Come me stessa, di cui hai
sempre fatto parte al punto che mai avrei potuto, prima dell’inizio della
Guerra dell’Anello, anche soltanto immaginare di fare qualcosa senza di te, di vivere
senza averti al mio fianco. Fosse solo per parlarti, per ascoltarti, per
condividere qualcosa, come abbiamo fatto in passato.
È
questo che ci ha allontanato. Non Ilda, non la guerra, non Cristal. Ma la paura
di crescere ed essere diversi, la sensazione che provasti quel giorno, quando
ti esposi i miei sospetti su mia sorella e tu li rifiutasti. Mi
rifiutasti.
Quanto
dolore provai, nel vedere che persino te, il mio amico del cuore, l’unico di
cui ero certa di potermi fidare, non mi credeva, non prestava ascolto alle mie
parole. Quel gesto, quel rifiuto, ha distrutto tutto. Ha fatto crollare quel
bel castello di favole dove una principessa e un guerriero hanno vissuto per
anni, nella loro innocenza, nella beatitudine di un’adolescenza giunta a termine,
incapaci di sopportare l’arrivo dell’inverno.
Ma
quell’ascolto che mi negasti mi fece crescere e mi spinse a prendere una
decisione d’istinto, fuggendo assieme ad un Cavaliere sconosciuto, per
incontrare una Dea che non avevo mai visto, e che non sapevo neppure se
esistesse realmente. Avresti mai pensato che la giovane Flare, con i suoi mossi
capelli e la sua buffa cuffietta, con i suoi modi garbati e i suoi sorrisi
sinceri, sarebbe stata capace di una simile audacia? Forse, avessi avuto
qualcuno capace di ascoltarmi, all’interno della fortezza, non avrei avuto
bisogno di uscire, non credi? E sai, inoltre, perché Cristal? Perché fuggii con
lui, sfidando le intemperie del clima e la collera di Ilda? Perché nei suoi
occhi vidi quel che avevo visto nei tuoi per anni. La stessa onestà, la stessa
purezza, lo stesso sguardo deciso. La tua volontà, di proteggermi e salvare me
ed Asgard, in quel momento divenne la sua.
Per
questo mi ersi di fronte a lui, nella caverna di lava, non perché lo amassi più
di quanto abbia mai amato te in questi anni, non perché valesse più di te. Ma
perché era nel giusto, e tu lo sapevi, ma il tuo cuore, sopraffatto dall’ira e
dal rancore per avermi persa, ottenebrò la tua ragione, spingendoti a
cancellare i nostri ricordi, in nome di chissà quale onore. Ogni tanto penso
che non ci siamo mai capiti davvero, che abbiamo sempre voluto cose diverse,
per noi stessi e per l’altra persona, che abbiamo creduto, nel nostro cuore, di
poter rimanere giovani per sempre, e continuare a vivere nel nostro castello di
felicità. Eppure, adesso, tutto quel che mi rimane è un mucchio di neve da
stringere in mano, di fronte alla croce di legno con il tuo nome scolpito. E
venderei l’anima a Loki se con uno dei suoi inganni potesse farti tornare da
me, potesse farti tornare a camminare nei giardini di Asgard, mentre i raggi
del primo sole di primavera bagnano i campi di rugiada e ci ricordano che anche
qua, in queste gelide terre, esiste amore.
Forse
un amore imperfetto, un amore tragico e incompreso. Un amore che va al di là
del bene e del male e ci ricorda che non tutte le storie sono destinate al
lieto fine, per quanto devotamente desiderato, e che non tutti i soli sono
destinati a completare il loro ciclo vitale. Per qualcuno infatti il tramonto
può giungere inaspettato. Una notte improvvisa a cui nessuno può opporsi.
Forse, neppure gli Asi.
Cristal
mi ha insegnato che i greci hanno termini differenti per indicare i vari tipi
di amore che si possono provare. Non sono molto convinta di questa classificazione,
poiché credo che l’amore sia un sentimento così vasto e totalizzante che
tentare di imbrigliarlo in una sola parola sia quanto mai riduttivo.
Ciononostante credo che quel che ho provato per te, in questi anni, possa
definirsi “Phileo”, un sentimento di affetto e di amicizia, da cui sempre ho
avuto un ritorno. Un ritorno che mi ha reso felice. Come forse non ti ho reso
mai.
Sospiro e,
alzandomi, scuoto la neve che si è depositata sul mio scialle, ben poca
rispetto a quella che mi ha coperto il cuore dopo averti perduto, amico mio.
Ilda mi ha chiesto varie volte se desiderassi spostare la croce in tuo onore,
ma credo sia opportuno lasciarla qua, di fronte all’ingresso della caverna ove
ti sei allenato per anni, ove sei entrato ragazzo e sei uscito uomo. A memoria
imperitura della tua volontà.
A
presto Artax, non dubito che ci rivedremo. Quando il grande inverno scenderà su
tutti noi e le cinquecentoquaranta porte del Valhalla si apriranno allora ci
cingeremo in un ultimo abbraccio, prima del crepuscolo. Fino ad allora… addio,Bróðir[iii].