Un Canto di Natale di Rucci (/viewuser.php?uid=4067)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Carola di Vigilia ***
Capitolo 2: *** Il Canto del Dragone ***
Capitolo 3: *** Il Canto di Pegaso ***
Capitolo 4: *** Il Canto della Fenice ***
Capitolo 5: *** Il Canto del Cigno ***
Capitolo 6: *** Il Canto di Andromeda ***
Capitolo 7: *** Un Canto di Natale ***
Capitolo 1 *** Carola di Vigilia ***
Un Canto di Natale
Un Canto di Natale
Capitolo 1. Carola di Vigilia
Dove si legge tutti assieme un bel racconto e si parla
di feste.
La lunga gamba del Pontefice di Atena aveva smesso di
penzolare, interessata, da tempo. Pareva avere qualche raro momento di ripresa
quando gli elementi gotici si facevano più forti, alimentando la suspense
del racconto; ma erano ormai minuti che persino il gotico era stato soffocato
dal buonismo dilagante. Senza sapere se i più provati in quella stanza fossero
i ragazzi o lui stesso, arrivò alla fine con il mento stancamente appoggiato
sulla mano, diligentemente cantilenando:
“Con gli Spiriti non ebbe più a che fare; ma se ne rifece
con gli uomini, e di lui fu sempre detto che non c'era uomo al mondo che
sapesse così bene festeggiare il Natale. Così lo stesso si dica di noi, di tutti
noi e di ciascuno! E così, come il piccolo Tim diceva…” Qui ebbe un attimo
di cedimento, le sopracciglia che si alzavano automaticamente al nominare il
personaggio più melenso del romanzo. Esitò, abbassò le palpebre, e chiuse il
libro con un tonfo secco. Ma non censurò nulla, terminando con un tono tra
l’annoiato e il pedante: “Dio ci protegga tutti e ci benedica.”
Shun rialzò con un piccolo scatto la testa dalla spalla del
primo a cui si era appoggiato: i suoi grandi occhi verdi erano puri e sinceri,
ma non c’era nemmeno dubbio alcuno sul fatto che si fosse ingloriosamente
addormentato. Seiya, invece, che era stato il suo cuscino per tutto quel tempo,
pareva non essersene accorto:
“Beh. Bello.”
Vittoriano, avrebbe spregevolmente commentato Ikki,
se fosse stato un inglese cinico.
“Spazzatura”, si limitò a borbottare, senza essere udito da
nessuno, a parte forse Hyoga, che gli lanciò uno sguardo non proprio di
approvazione. La Fenice non se ne curò, mani in tasca e sguardo da duro. Hyoga
di Cygnus poteva rimanersene a baloccarsi per sempre con romanzi sentimentali,
festeggiamenti natalizi e pure bambole di porcellana, per quel che gliene
riguardava. Ma non vedeva perché lui dovesse mostrare gradimento.
“Beh… è una bella storia…” pigolò Shun, forse per rimediare
ai suoi pochi minuti di sonno.
Seiya aveva un parere ben preciso: “A me piacevano i
fantasmi.”
“È un racconto da leggere ai bambini” intervenne Shiryu,
tanto pacatamente che entrambi i ragazzi gli rivolsero subito l’attenzione.
“Contiene una morale ben precisa.”
“Sì, direi di sì.” Shion di Aries cercò per una volta in
vita sua di mostrarsi neutrale, scavallando e accavallando le gambe con un
sorriso dolcissimo. Per niente promettente. “Ed ecco che vi è stato letto un
racconto edificante, proprio come la dolce Atena mi aveva chiesto di fare per
intrattenervi. È molto indaffarata con i preparativi della festa.”
Aveva esattamente quel tono di voce che faceva intuire con
tutti i crismi che non l’avrebbe fatto per nessuno, se non per la
propria dea. In effetti pareva a sua volta provato, sotto la maschera
disinvolta. Ma continuò come se nulla fosse: “Ringraziate lei, dunque.”
“Ah, la ringrazierò eccome” minacciò una voce fosca dal
fondo della stanza. Nessuno ebbe dubbi sul proprietario.
“Ikki!” Seiya si arrampicò fin sullo schienale del divano,
mentre Shun nascondeva educatamente uno sbadiglio nella mano. “Sei ancora qui?
Ma questo è un record!”
“Il miele mi ha incollato i piedi al pavimento” fu la
sarcastica risposta. Tuttavia, Seiya rise, anche un po’ troppo forte, ma di
cuore.
“Il nostro lupo solitario! Bada che se continui così non
riceverai nessun regalo di Natale.”
“E che vuoi che m’importi.”
“T’importerà, quando domani noi saremo sommersi di pacchi
colorati e tu te ne starai in un angolo a calciare la neve!”
“Seiya…” Shun si adoperò subito per cercare di contenere il
ragazzino, che evidentemente dopo essere stato tanto tempo fermo su un divano
in silenzio sentiva il bisogno di riattivarsi. In tutti i sensi. Infatti,
mentre parlava a macchinetta, si era allungato fino a salire a cavalcioni sullo
schienale. Shion, mentre riponeva il libro, gli lanciò uno sguardo decisamente
perplesso.
“Tsk” fu comunque il laconico commento del lupo solitario.
“Il Natale è una bella festività” giunse le mani Shun,
attirando l’attenzione del gruppetto. Shion ne approfittava più che altro per
spolverare i libri. “Non solo per i regali. È una bella occasione per
ritrovarsi tutti assieme.”
“Già. Peccato che il Natale non sia una festività prettamente
giapponese.”
“Nemmeno ateniese” chiosò l’autorità massima, giusto per
dovere di cronaca, spolverandosi pure il pince-nez. Ne osservò le lenti
da vista, ora pulite. Tutti e quattro i ragazzi – Ikki non se ne diede la pena
– si rivolsero verso di lui.
Era la prima volta in tanti anni di onorata carriera che il
Pontefice Shion si trovava alle prese con dei preparativi di feste natalizie.
Se le sue dita sapevano maneggiare la fine polvere di stelle, i suoi occhi
leggere gli astri e le costellazioni di tutto l’emisfero, e i suoi sensi
trascendere l’umano, bene, tra le sue competenze non v’era quello di addobbare
un enorme abete posto proprio di fronte alla statua di Atena Parthenos. Quando
l’aveva visto lì dov’era, un colpo al cuore per la sorpresa e assieme per la
blasfemia sconvolgente del gesto, si era a stento trattenuto dal mettersi le
mani nei capelli.
Sinchè non aveva visto la stessa Atena trotterellare allegra
nei suoi scaldamuscoli rossi a dirigere le operazioni.
Allora si era ricordato che era cresciuta in Giappone.
“Beh, ma noi giapponesi siamo fatti così!” stava infatti
ridendo allegramente Seiya. Passò a sedersi sul bracciolo, dondolandosi appena.
Shun si alzò per raggiungere con un sorriso benevolo il fratello, ostinatamente
appoggiato al davanzale della finestra, come a distanza di sicurezza.
Shiryu confermò, prendendo il posto di Shun: “È vero.”
“Facciamo nostre molte feste altrui.”
Solo il lato kitch, annotò mentalmente il sommo
Pontefice mentre riponeva gli occhialini, con una sinteticità e aderenza alla
realtà invidiabile. Ma non si sarebbe mai permesso di infrangere i sogni
d’infanzia di innocenti ragazzini, né di argomentare nulla, non dopo il
dissidio verbale avuto con Death Mask riguardo alle decorazioni di vischio.
Facevano un po’ a pugni con l’arredamento consueto, in effetti.
“Sì, come il Natale…”
“O San Valentino!”
“È vero, anche San Valentino!” Shun giunse di nuovo le mani,
piegandosi leggermente verso l’altra finestra, dove stava appoggiato un altro
ragazzo. “Hyoga-kun ha ricevuto un sacco di cioccolata, questo San Valentino!
Non è vero?”
Hyoga, apparentemente imbarazzato, si limitò a un vago cenno
di assenso. Seiya, ovviamente, colse subito. E ghignò, con aria adorabilmente
sbarazzina – quella che o ti fa prendere a schiaffi da subito, o sei salvo per
tutta la vita.
“Bene, bene. Il nostro latin lover.”
“E piantala, Seiya.” L’algido biondo, notoriamente molto più
incline alle emozioni di quanto non lasciasse presagire, si mise subito sulla
difensiva. Seiya seppe di avere la vittoria in pugno.
“Certo che ne hai parecchie, che ti girano attorno, eh?”
“Pensa per te” fu la risposta, tra un mugugno e l’altro, che
parve accontentarlo. Infatti il ragazzo rise, assolutamente spensierato,
sebbene nella stanza un po’ tutti si chiesero quando Seiya avrebbe realizzato
di avere due o tre conti in sospeso con qualcuna, lì fuori. Tutti tranne Ikki,
a cui non gliene poteva fregare di meno, e Shion: l’unica donna che al momento
vorticava nei suoi pensieri era l’inserviente addetta alla sua vasca da bagno.
Aveva bisogno di un bagno caldo. Ma tanto.
“E Shunrei?”
“Come?”
“Non viene, Shunrei? Alla festa di Natale, intendo.”
Shiryu guardò Seiya come perplesso, per appena una manciata
di secondi. Poi sorrise, rassicurante:
“Non è mai venuta al Grande Tempio. Non sapendo se le
sarebbe stato consentito l’accesso, ha preferito rimanere a Goro-ho.”
Shunrei l’aveva salutato come sempre, con un sorriso e una
carezza. Sembrava serena, nella piccola casa accogliente della cascata, non
avvezza alla città, non avvezza ad altro che non fosse quel limbo quieto di
terra. Shiryu era andato, perché Saori l’aveva chiamato. Lei era restata,
sorridendo.
“Ma figurati se non la lasciano venire!” Seiya lo distolse
dalle sue riflessioni. “No, Shion?”
“Mmmh?”
“Shunrei.”
“Chi?”
Seiya aprì la bocca per sillabare meglio il nome. Per
fortuna Shion lo prevenne – stava semplicemente pensando con desiderio alle sue
vasche termali – altrimenti l’avrebbe preso come grave insinuazione sulla sua
vecchiaia. Lì non sarebbe stato risparmiato nessuno.
“Oh, la ragazza di Goro-ho. Ma naturalmente, Doko me ne ha
parlato. Perché non è qui?”
“Ha preferito rimanere a casa, Pontefice.”
“Oh, ma poveretta. Sarà lì da sola” i grandi occhi
dell’antico cavaliere d’oro saettarono in qualcosa che, seppure attutito dal
fare conciliante, aveva l’aria del rimprovero. “Avresti dovuto insistere di
più.”
Shiryu lo raccolse, quello sguardo. Non era tipo da passare
leggermente sulle cose, e quel rimprovero l’aveva colpito. Non ci aveva
assolutamente pensato.
“Seiya-kun” intervenne Shun, non appena vide Shiryu
pensieroso. “Di sicuro Shiryu ci avrà pensato. Siamo ancora in tempo per…”
“Non siete in tempo per un bel niente, ora.” Li interruppe
la voce dolcissima e minacciosa di Shion, che finalmente torreggiava su di
loro. Alzarono tutti lo sguardo. Aveva in volto il sorriso sornione del gatto
che si è appena sbafato un salmone. “Adesso basta parlare di ragazze, bambini.”
Un rossore comune avvampò le gote di tutti. Tranne che
quelle di Ikki.
Lui cercava solo di andarsene, e da un pezzo.
“È la vigilia di Natale, e a quanto sono stato indottrinato
dalla nostra amabile dea, la mezzanotte va passata sotto le coltri. Santa Claus
non sarà contento se vi vedrà curiosare in giro per tutta notte. Quindi sciò, a
letto.”
Ikki non se lo fece ripetere due volte. Imboccò l’uscita,
ovviamente non per dirigersi alla stanza che era stata preparata per lui, ma
per farsi un giro. Seiya si stiracchio, Shiryu lo accompagnò, appena più
pensieroso del solito. Hyoga aspettò Shun.
Shion, finalmente libero dalle sue incombenze, li lasciò
andare. Nel pomeriggio aveva accolto i cinque santi che più si erano distinti
in quell’epoca di miracoli, i cavalieri che Atena teneva sul palmo della mano,
per fare loro da guida nel Santuario addobbato a festa. Li aveva alloggiati,
nutriti ed edificati con un bel racconto, come una madre premurosa, e ora erano
liberi di andarsene dove più gli aggradava. Lui sicuramente si sarebbe fatto un
bagno.
“Buonanotte” salutò per primo Shiryu, infilandosi nella
propria stanza.
I ragazzi lo salutarono, senza risparmiare qualche occhiata
complice fra di loro.
“Ci sta ancora pensando.”
“Non ti preoccupare per lui.”
“Mi dispiace, avremmo dovuto pensarci anche noi, forse…”
“Non ti crucciare, Shun. Sai com’è fatto Shiryu. Se le
parole di Shion l’hanno davvero fatto pensare, non perderà tempo e agirà di
conseguenza.”
Seiya annuì solennemente, alle parole di Hyoga. Poi
sbadigliò, finendo per sfregarsi gli occhi.
“Vabbè, a questo punto me ne vado a dormire anche io.”
“Di già, Seiya?”
“Mica ho fatto il pisolino dopocena, io.”
Shun arrossì un bel po’, sotto lo sguardo curioso di Hyoga.
Evidentemente Seiya si era accorto eccome di essere stato usato come cuscino
per gli ultimi due capitoli del racconto.
“Buonanotte! E aspettatemi per i regali!”
“Buonanotte, Seiya-kun.”
“Buonanotte.”
Hyoga, dopo aver augurato la buonanotte a sua volta, si
voltò per salutare anche Shun. Ma lui si era appoggiato alla finestra del
corridoio, osservando in maniera quasi insistente al di fuori. Lo raggiunse,
silenziosamente.
“Che cosa guardi?” gli domandò dopo un po’.
“Oh, nulla. Tutto.” Sorrise, poi carezzò il vetro freddo con
le dita, placidamente. “Dove sarà andato Ikki?”
“Starà rientrando, non preoccuparti.”
Appoggiato al davanzale, Hyoga pensava ai fatti suoi, nel
silenzio placido. La sera, attraverso le ampie vetrate, era scurissima, ma le
luci blu della notte si riflettevano su un marmo talmente bianco che pareva di
essere intrappolati in un palazzo sulla luna. Il silenzio era leggero, per
niente opprimente. Hyoga seguì lo sguardo di Shun sino a carezzare con un
brivido il roseto dai petali chiusi, scintillante nella notte. Le spine erano
crudeli, e non riportavano alla mente lieti ricordi. Quello Cygnus lo sapeva
bene.
Quando il cavaliere di Andromeda si rese conto che i loro
sguardi avevano coinciso, sussultò appena, come a distogliere gli occhi dell’altro
anche dai suoi pensieri. Si voltò verso di lui, sorridendo, e domandando, quasi
frettolosamente:
“Secondo te nevicherà, domani?”
“Come?”
“Stavo pensando… domani è Natale, no? Quindi guardavo fuori
e pensavo: nevicherà? Me lo sai dire, Hyoga-kun?”
Per un attimo Hyoga fu tentato di domandargli a cosa stesse
pensando veramente.
Invece dopo un attimo di pausa allungò le braccia allenate
ad aprire le finestre, senza cambiare espressione, nonostante fosse appena in
maniche corte. Shun invece emise un lieve gemito di sorpresa, stringendosi nel
maglione: faceva davvero molto freddo. Ma non abbastanza, stimò il ragazzo più
grande, in piedi davanti alla finestra. Osservò con attenzione la lievissima
pioggerellina che poteva scorgere solo sul davanzale, e non nella notte nera,
che oscurava il resto. Non rispose subito.
“Può darsi” mentì.
“Che bello. Sarebbe veramente bellissimo se nevicasse per
Natale.”
“Ehi, voi due. Volete prendervi un accidente?”
Hyoga si voltò, appena scocciato dal tono di voce sin troppo
burbero.
“Ecco. Che ti avevo detto?” si rivolse a Shun, invece che
rispondere a chi li aveva interpellati, chiudendo con forza le finestre.
“Ikki-nii-san!”
“A letto, Shun. È tardi.”
“Non stai dando il buon esempio, Ikki.”
Hyoga ricevette la migliore occhiataccia della serata, ma
non se ne curò granché. Serrò bene la maniglia, che non passasse il freddo.
“Tsk. Tanto non c’è niente, in questo posto.”
“Vai a dormire anche tu, nii-san?”
“Mh. Vai anche tu, Shun.”
“Sì!”
Ikki scompigliò affettuosamente i capelli al fratello
minore, pur mantenendo un’aria di assoluta serietà. Salutò con un cenno del
capo Hyoga, e dopo gli ultimi convenevoli con Shun si ritirò.
Il cavaliere di Andromeda rimase solo, dopo che anche Cygnus
fu andato, con un ultimo saluto. Lui, che aveva avuto tanto sonno prima, andava
a letto per ultimo. Così pensava, almeno, ed era quasi la mezzanotte, mentre si
lavava scrupolosamente i denti.
Al momento d’infilarsi a letto, ormai a metà nel mondo dei
sogni, pensò confusamente che non aveva sentito come andava a finire il Canto
di Natale, anche se sicuramente la storia l’aveva già sentita, molto, molto
tempo prima… ma fu un ultimo pensiero confuso, prima di addormentarsi.
The Carol
Quanto tempo che non riscrivo
il Christmas Carol! Sono così feliceh!
È quasi tradizione per me
rispolverare il Christmas Carol di Dickens – come la maggior parte delle
persone, infatti, amo il Christmas Carol pur odiando Dickens – e lo faccio ogni
anno, a Natale, nel fandom che al momento mi sta stravolgendo l’esistenza. Saint
Seiya me la sta stravolgendo da parecchio, ma ancora non era incappato in
questa trappola mortale, se non per una
lemon Rhada/Kanon scritta a quattro mani con LeFleurDuMal l’anno
scorso, ma ehi, non era assolutamente un Christmas Carol. Il titolo era ironico
e c’erano solo due uomini che si davano da fare a letto.
Questa volta il Fluff
impererà come Dio comanda!
Ed essendo io particolarmente
in spirito natalizio, vi annuncio che questa amabile carola sarà di sette
capitoli, e che verranno pubblicati ogni martedì e venerdì, a
partire da oggi, sino al giorno di Natale (un venerdì, appunto).
Un piccolo augurio per tutti
quelli che mi/ci seguono – Gold Insanity vi ama – e ai soliti
affezionati a cui io sono davvero tanto grata. A voi!
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Capitolo 2 *** Il Canto del Dragone ***
Un Canto di Natale
Un Canto di Natale
Capitolo 2. Il Canto del Dragone
Dove si scopre che la Cina non è solo panda e bambù.
Shiryu, nonostante non lo desse a vedere in compagnia dei
suoi amici, era stanco per via del lungo viaggio che aveva dovuto compiere in
solitaria, dalle pendici della cascata di Goro-ho sino alle scalinate candide
del Santuario. Si era avventurato da solo, come era abituato a fare, senza
lamentarsi. E aveva viaggiato a lungo.
Fu per questo che dovette farsi un poco forza, per rimanere
sveglio, fin da quando i pensieri risvegliati da Shion avevano cominciato a
farsi strada nella sua testa: il viso sorridente di Shunrei, sola sulla
montagna, acquisiva ora tutt’altro aspetto. Cercò di rimanere sveglio per
pensare, per riflettere almeno un poco su quello che gli era stato detto, su
cosa poteva fare, ancora, ma l’ora era troppo tarda: il suo fisico stanco ebbe
il sopravvento.
Dormì parecchio, o almeno così gli parve.
“Shiryu!”
Tanto che non si aspettava assolutamente di venire svegliato
di soprassalto.
“Shiryu!”
Una voce. Squillante.
Ma non solo una voce.
Anche una serie di tonfi sullo stomaco piuttosto decisi.
“Shiiii-ryyyyy-uu!”
“Cos—?”
“Finalmente, Shiryu! Credevo che non ti saresti più
svegliato!”
“Chi…?” Il ragazzo sbatté le palpebre, confuso, strappato al
sonno in maniera così insolita che faticò a distinguere da subito la figura che
trillava il suo nome. Figura che presto mise a fuoco, svelta e piccola com’era,
appallottolata sulla sua pancia. “Kiki!”
“Sorpresa!”
“Che ci fai qui?”
“Una sorpresa, ti ho detto!”
Shiryu sospirò, abbandonando la nuca sul cuscino. Per essere
una sorpresa, era una sorpresa: era un po’ di tempo che non vedeva il piccolo
Kiki, ma di certo aveva trovato la maniera più originale per organizzare un
ritrovo.
“Kiki, ma… è tardi!” si ricordò, in un momento di lucidità.
Il sommo Mu l’avrebbe rimproverato, se l’avesse trovato a gironzolare per il
Santuario a notte fonda. O almeno così pensava. Si raddrizzò, seduto,
scuotendosi il sonno di dosso, mentre il bambino gli scendeva dalla pancia per
sgattaiolargli a fianco, veloce come uno scoiattolo. “Non dovresti essere a
letto?”
“No!” Se mentiva, mentiva con disinvoltura. “E poi non è
tardi, per il tuo viaggio. In realtà, è il momento migliore.”
“Viaggio? Che viaggio?”
“Shiryu, ascoltami.” Il bambino sgambettò, tornando a
sedersi sulle sue ginocchia, ora che il ragazzo era seduto. Shiryu sbatté gli
occhi, davanti alla luminosità innaturale dei suoi occhi; nella penombra, aveva
un sorriso da folletto. “Stanotte riceverai la visita di tre spiriti.”
“Tre… spiriti?”
“Ma come, Shiryu!” Kiki gonfiò le guance, in segno di
disapprovazione. Shiryu notò che il peso sulle sue gambe era quasi inesistente.
Complice il sonno, la confusione, rimase a guardarlo mentre lo rimproverava, come
se lo meritasse. “Dovresti saperlo! C’è lo Spirito del Natale Presente, quello
del Natale Passato, quello del Natale Futuro. E tutti e tre hanno qualcosa da
mostrarti.”
“Oh” sospirò lui, come scrollandosi di dosso altro sonno. Lo
fece a lungo, poi allungò una mano, conciliante, ai capelli del bambino. Ora
era molto più chiaro. “Ora capisco. Hai sentito anche tu il racconto? Dove ti
eri nascosto?”
Kiki gonfiò ancora di più le guance, se possibile. Pareva
offeso.
“Io sono venuto qua ad avvisarti, e tu parli d’altro!”
“Kiki, non capisco… stavo dormendo, e…”
“E adesso è il momento di svegliarsi! Seguimi!”
Era corso giù dalle sue ginocchia senza che lo sentisse.
Solo in ritardo, come se l’immagine fosse più veloce del suono, sentì il suo
scalpicciare veloce e il tintinnio di campanelli. Ma non indossava campanelli…
“Kiki!” abbassò subito la voce, dopo averlo chiamato. Gli
altri stavano di sicuro dormendo! “Kiki! Aspetta!”
Incerto, Shiryu si levò dal letto. Senza mettersi niente addosso
oltre alla lunga casacca che già gli faceva da pigiama, si affrettò a seguirlo.
Non poteva lasciarlo girare da solo per la Tredicesima Casa, il palazzo del Sacerdote e della divina Athena. Di certo non avrebbe dovuto
essere lì. L’avrebbe fatto dormire con lui, magari – anche se il sonno ormai,
curiosamente, era svanito…
Si ritrovò alla soglia dei gradini di marmo.
L’aria era fredda.
Di Kiki nessuna traccia.
“Ti stavo aspettando” scandì, al suo posto, una voce proprio
accanto a lui.
Shiryu si voltò lentamente, sorpreso. Il vento freddo di
dicembre lo sferzava, ma non avvertiva freddo. Si accorgeva a malapena del
lembo morbido della tunica che gli carezzava i piedi.
“Shura?”
Un sorriso composto, e il Cavaliere della Decima Casa si
scostò dal muro a cui era appoggiato.
Shiryu non lo vedeva da parecchio tempo. Anche durante la
salita del mattino precedente lui e gli altri, guidati da Shion di Aries, avevano
percorso passi silenziosi in case silenziose. Certamente i Gold Saint non erano
assenti, ma non si erano manifestati. Shura, adesso, in quella notte fonda e
buia, lo stava aspettando ai piedi della Tredicesima, con lo stesso sorriso con
cui Shiryu lo ricordava nei momenti più disperati delle sue battaglie.
“Shura…” sentì qualcosa d’indefinibile sciogliersi nel
petto, gioia sincera, onore, e forse anche commozione. “Desideravo rivederti.”
“Anche io, Shiryu. Vieni con me.”
“Ah… aspetta. Hai visto passare Kiki?”
Un battito di ciglia, composto. Poi si avviò, come se la
risposta fosse superflua.
Shiryu, sorpreso, non disse niente. Lo seguì e basta.
“Il giovane allievo di Mu” tentò di spiegare, dopo qualche
passo. Era talmente sorpreso dallo strano incontro che senza porsi problemi,
come se fosse del tutto normale, seguiva a piedi nudi nel freddo i passi di
Shura, che non si accompagnavano ai gradini di marmo. Avevano preso un sentiero
scosceso dalla vegetazione indefinibile, nel buio. “Era qui. Almeno credo. Non
l’hai visto?”
“No” rispose semplicemente.
Shiryu, stranamente, accettò quella risposta come se
risolvesse ogni cosa. Continuò a camminare, confuso: “Stiamo andando…?”
“Un po’ lontano. Vedrai.”
“Dove mi stai portando?”
“Indietro.”
La risposta era quanto mai enigmatica, ma Capricorn non
aveva un tono di voce da lasciar presagire ulteriori spiegazioni.
Ciononostante, le sue parole non erano né secche né brusche: rispondeva
preciso, sincero. E lasciava intendere che presto avrebbe verificato con gli
occhi.
“Indietro?” non poté tuttavia trattenersi dal domandare
Shiryu, sempre più confuso. Non che lo lasciasse trasparire molto, abituato al
controllo estremo su sé stesso, ma un intontimento generale lo intorpidiva.
Colpa del sonno?
Shura non parve prendersela a male per l’ennesima domanda.
Continuò a camminare.
“A volte è indispensabile, guardare indietro. Ricordi il tuo
passato, Shiryu?”
“Certo che lo ricordo.” Shiryu avvertì distintamente il
terreno sotto i suoi piedi farsi più morbido. Strano. Abbassò lo sguardo, ma
con il buio non vedeva molto. La terra era morbida, più morbida del suolo arido
di Grecia. Presto si accorse di camminare sopra un tappeto di aghi di pino.
Trattenne la sorpresa.
“Non puoi ricordare ogni cosa.”
“I-io…”
“Quindi io te la mostrerò.”
Come Shura ebbe pronunciato quelle parole, con somma calma e
una strana, impercettibile dolcezza, il suo braccio forte rivelò delle luci
nell’ombra, scostando una fronda d’albero particolarmente fitta. A Shiryu mancò
quasi un battito: “L’orfanotrofio! Ma come… non possiamo essere qui!”
“Possiamo. Stai sognando, Shiryu.”
“Sognando?” boccheggiò il ragazzo, seguendo come
automaticamente i passi dell’uomo che lo conduceva. “Io sto…?”
“Questo è un sogno, e io sono qua per mostrarti un Natale che
hai trascorso anni fa. Avvicinati alla finestra.”
Le luci sfavillanti e i lampi di rosso catturarono
l’attenzione di Shiryu tanto da eclissare qualsiasi altra domanda. Rimase ipnotizzato
dai bagliori oltre il vetro, improvvisamente catturato dai ricordi.
“Questo… era un Natale di molti anni fa. Prima che venissimo
mandati lontano, prima che…”
“Chi c’è, che riconosci?” domandò pacatamente Shura. Non si
muoveva da dov’era rimasto, in piedi, come una statua o un fantasma. Ma era una
presenza incredibilmente rassicurante.
“Ci sono tutti i ragazzi dell’orfanotrofio. Stanno aiutando
le ragazze più grandi ad organizzare una cena di festa. Era un’occasione per
distrarre i bambini. C’è…” un sorriso increspò le labbra del santo di bronzo,
conferendogli un’aria ancora più matura, serena. Si prese una pausa, e poi
descrisse la scena davanti ai suoi occhi, nemmeno accorgendosi di completarla a
memoria, prima che le figure si muovessero davvero davanti ai suoi occhi. “C’è
Seiya, che cerca di aiutare ad addobbare l’albero. Non è mai riuscito a farlo
senza rompere qualcosa, ma ci metteva sempre molta buona volontà. Credo. Anche
se forse era solo ansia di partecipare a sua volta.”
“E poi?”
“Poi… c’è Hyoga, in un angolo. Era il primo Natale che
passava lontano da casa” si ricordò, gli occhi attenti sul mondo oltre la
finestra. Cominciava a ricordare moltissime cose. “Era arrivato da poco
all’orfanotrofio. Era chiuso e schivo, e non parlava quasi con nessuno. Lui e
Seiya si azzuffavano spesso. Se ne stette per conto suo per tutte le feste,
sostenendo che non era affatto Natale, che la data era sbagliata. Oh, e lì c’è
anche Shun. E Ikki. L’inverno era talmente freddo da costringerlo a rimanere al
caldo, quando spesso girovagava per conto suo. Stanno preparando la tavola.”
“E tu, dove sei?”
“Oh.” Sorrise, scorgendosi. “Sono a togliere le decorazioni
dalla scatola. E ad arginare i danni di Seiya.”
“Me l’aspettavo” commentò laconicamente Capricorn. Quando
Shiryu si voltò verso di lui, vide che stava sorridendo.
“Perché… perché mi stai facendo vedere questo?”
“Eri felice?”
“Eravamo bambini soli” rispose seriamente lui, una mano al
vetro della finestra, opaco. Guardò un’altra volta dentro, una scena chiassosa
illuminata dalle luci artificiali. “Non avevamo granché. Ma anche per questo ci
bastava poco. Un’occasione di festa era più che sufficiente per essere felici,
anche se a malapena sapevamo cosa fosse, il Natale.”
“Ha molta importanza?”
“Eh?”
Shiryu si riscosse e si voltò, avvertendo la figura a lui
famigliare allontanarsi. Sino ad ora non l’aveva distinto bene, nel buio: ora,
guardandolo illuminato dal rettangolo di luce della finestra, lo vide dirigersi
verso un’altra strada ancora, i passi silenziosi, un mantello candido a
drappeggiargli le spalle.
“Shura.”
“Seguimi. Non abbiamo finito.”
Se era davvero un sogno, Shiryu si ritrovò a domandarsi che
cos’era che nel sogno gli stava ora attanagliando lo stomaco, se una semplice
nostalgia per il passato o qualche presentimento che aleggiava negli occhi
della sua guida. Aveva colto il suo sguardo mentre volgeva il viso in avanti: erano
occhi che guardavano fermi davanti a sé, e contemporaneamente gli occhi più
malinconici che avesse visto. Si domandò se fosse quello ad acuire il senso di
nostalgia che stava provando allontanandosi da quell’inaspettato ricordo.
“Non hai più festeggiato il Natale, da quella volta.”
“Come? Davvero?” I ricordi d’infanzia, come sempre, tendono
a scalare gli anni, ad unirsi in maniera disomogenea. Shiryu cercava gli occhi
di Shura, che non trovava, ora che si stavano risommergendo nel buio della
notte. Rumore di fronde.
“Sì. Non faceste in tempo ad organizzare il Natale
successivo. Andasti in un luogo dove quello era l’ultimo del suoi problemi.”
E con somma meraviglia del cavaliere, il paesaggio che si
apriva dietro il verde era ancora una volta diverso. Shura lo stava conducendo
per un sentiero di labirinti, ed ogni ramo si affacciava su un’illusione
diversa. Oppure quello era veramente un sogno, e stava sognando anche le
carezze fresche e taglienti delle foglie di bambù, sul viso.
“Goro-ho.”
“Certo è che il saggio maestro, nonostante l’affetto per te
e la mente svelta nel corpo vecchio, non ha mai pensato ad addobbare un
albero.”
“No, certo che no” Shiryu sorrise appena, anche solo
all’idea. I suoi occhi non riuscivano a staccarsi dalla roccia imponente che
sovrastava la cascata. La luna era nitida in cielo, lui, poco più grande di
come si era visto correre a raccogliere palle di polistirolo che rotolavano per
tutta la stanza, ora sfidava le acque millenarie di una cascata. Era
completamente solo, lui e l’acqua scrosciante, nell’aria fredda e verde. Non
sembrava affatto Natale, anche se a giudicare dal freddo e dall’odore della
terra era per forza quel periodo dell’anno. Shiryu si ritrovò a riflettere,
abbassando lo sguardo. Poi si voltò deciso verso Shura, l’avversario, l’amico,
la guida.
“Shura, tu… cosa stai cercando di dirmi?”
Gli occhi di Capricorn, nella sera, erano completamente neri.
Lo scrutarono a fondo, senza un perché, prima di saettare
per un attimo in alto, verso la scena che avevano abbandonato. Shiryu,
istintivamente, lo seguì.
“Andiamo.” Si sentì afferrare per un polso, prima che
riuscisse a distinguere qualcosa di significativo. “Non c’è più niente da fare,
qui.”
“Che cosa…?”
Qualche cosa gli era sembrato di avere visto.
Per la prima volta, si oppose a lui, girando il collo
all’indietro, cercando di guardare ancora.
Una bambina…
“Non c’è più niente da fare” ribadì pacato il santo d’oro,
conducendolo gentilmente eppure con pugno di ferro. Le foglie si chiudevano di
nuovo attorno a loro. Il buio blu della notte permetteva a malapena
d’intendersi con i respiri. Shiryu si domandò se il blu si sarebbe aperto di
nuovo sulla Grecia, o su quale altro posto lontano. Con sua immensa sorpresa,
avvertì i propri piedi poggiarsi sulla roccia nuda e umida.
“Shura? Shura?”
“Il mio tempo è finito, Shiryu. Verrà qualcun altro, a
prenderti.”
“Shura!” gridò, stavolta, il ragazzo, irrazionalmente. Si
voltò istintivamente all’indietro, da dove proveniva la voce. Con suo immenso
sollievo, lo vide. Una figura affilata, all’ombra della cascata.
Shiryu lo fissò a lungo, senza capire il perché di quel
senso acuto di nostalgia che provava nel guardarlo. Non si era mai accorto di
quest’ombra nella figura del cavaliere, che pure aveva vissuto di zone nere,
nel suo passato. Ma Shiryu l’aveva sempre visto forte, glorioso e risplendente,
e vederlo tagliare l’ombra sul punto di svanire era qualcosa che gli stringeva
la bocca dello stomaco. Gli rivolse uno sguardo accorato, come a pregarlo di
non lasciarlo; finalmente Shura gli sorrise.
“Non temere. Hai già capito molto più di quanto tu creda.”
“Shura, aspetta! Ci rivedremo?”
“Per questa notte, no. Ma tu temi troppo, Shiryu…. e adesso,
non è proprio il caso di farsi intimidire.”
E così, con un sorriso misterioso, con quella strana
dolcezza, si dileguò nell’acqua, lasciando di sé solo una macchia oscura dietro
lo scrosciare rombante della cascata. Il cavaliere del Dragone vi si gettò,
senza pensarci due volte, del tutto istintivamente. La notte a Goro-ho era
terribilmente rumorosa, nel suo silenzio.
“Shura! Shura! Aspetta! Che cos’è che devo capire? Che cosa…?’”
“Che cosa dovresti capire?” Lo apostrofò una voce durissima,
che senza dubbio non era quella di Shura. Shiryu si fermò appena in tempo,
sbigottito, il viso ad un palmo dagli spruzzi violenti della cascata. Ma non
fece in tempo a ritrarsi, perché quella macchia di nero emerse senza preavviso,
spaventandolo come il vento furioso spalanca una porta. Lo colpì in pieno, non
molto lontano da dove Kiki aveva allegramente saltellato con tutto il suo peso
per svegliarlo.
Come Shiryu fu schiantato a terra, incredulo e sdegnato,
realizzò che quello che aveva preso era un calcio dritto allo stomaco. E che la
figura sgangherata che torreggiava su di lui, grondante d’acqua, la conosceva.
“Bene, bene. Guarda chi si rivede.” Una risata scomposta e
gracchiante, molto lontana dalla voce distante e raccolta di Shura. Shiryu
digrignò istintivamente i denti, sebbene non avesse voluto. “Te l’ho già detto
che ho un debole per le entrate in scena?”
“Death Mask!” ruggì il Dragone, rimettendosi presto in
piedi, dolorante e umiliato. Questa proprio non se l’aspettava. Oltretutto
trovava il remake della cascata assolutamente fuori luogo. “Tu qui!”
“Di nuovo, eh? Immagino il piacere che ti faccia.” Snudò i
denti quello, occhi di brace nel buio. Pareva estremamente, se non oscenamente
compiaciuto dalla trovata. Non esattamente nello stesso stato d’animo era
Shiryu il Dragone.
“Perché sei qui? Parla!”
“Canta, canta, stai allegro, sono qui per te, moccioso!”
Beffardo, Death Mask emergeva alla luce della luna come se
fosse il figlio stesso del demonio. Quella sua andatura piegata, storta, simile
davvero ad un granchio, lo faceva apparire ancora più minaccioso, si rese conto
Shiryu con un brivido. Le sue braccia penzolavano apparentemente inerti, e
potevano infierire colpi del tutto imprevisti. Non era come trovarsi davanti un
avversario in postura d’attacco. Era molto peggio. Istintivamente, s’irrigidì.
Passarono lunghi istanti di silenzio, finché Death Mask, evidentemente
soddisfatto del turbamento che aveva seminato, lo lasciò crudelmente in sospeso
per dargli le spalle.
“Seguimi.”
“Perché…”
“Ho detto seguimi. Niente storie. Ho dieci minuti. E cinque
li userò per fumarmi una sigaretta.”
“Ma che cosa…” Shiryu storse il naso, del tutto
involontariamente. Lo seguì, anche se affatto di buon avviso. Lo scrutò a
fondo, la sua schiena nervosa e l’andatura che tratteneva forza. Si ricordò di
quello che aveva detto Kiki. “Tu sei… lo Spirito del Natale Presente.”
“Minchia. Detta così sembra davvero una stronzata.”
Shiryu spalancò gli occhi.
Che ne era della dolce malinconia di Capricorn?
Dell’atmosfera tanto rarefatta e poetica che aveva saputo
creare?
A ramengo, grazie a Cancer, che gli fece cenno con un
grugnito in direzione della casetta arroccata sulla roccia, dove erano arrivati
tra una bestemmia in italiano e l’altra – forse rivolta a Shiryu, forse rivolta
ai sassi scivolosi, forse a nessuno. Shiryu si avvicinò, senza per questo
abbassare la guardia un istante; anche se Death Mask pareva più intenzionato a
frugarsi in tasca che a concedergli un grammo della sua attenzione. Frugò
rumorosamente in entrambe.
“Ebbene?” cercò di mostrarsi sostenuto, Dragone.
Non poteva permettersi di chinare il capo di fronte a chi,
nonostante i trascorsi passati, si ostinasse a mantenere un contegno tanto
provocatorio e beffardo. Ne andava del suo onore.
Cancer si grattò.
“Sai, quelli come te mi fan pena.”
“Come hai detto?”
“Quello che ho detto.” Un lampeggio furioso, sconquassato.
Una fiamma di accendino. Death Mask aveva trovato la sua sigaretta, e l’odore
inquinava l’aria. Probabilmente erano le sigarette più pregne di catrame che la Grecia potesse produrre. Erano sigarette comprate al porto, in un baracchino. Shiryu non
riusciva a distogliere lo sguardo da lui, pur manifestando aperta ostilità.
Fremeva di collera, che quell’uomo era tanto bravo ad scoperchiare. “Non mi
aspetto che tu capisca. Eppure dovresti, se sei quel santone che tanto ti vanti
di essere. Ecco, la vedi là dentro?”
Shiryu tacque, aspettandosi quello che stava per vedere.
Una donna sola, in una casa fredda. Non c’era bisogno
d’altro, per provare rimorso.
Non era il momento migliore per litigare con Cancer: cercò
di non mostrarsi debole, ma mai come in quel momento si era sentito sciocco e
colpevole. Shunrei, rincantucciata sotto le coperte, dormiva, anche se
l’avrebbe fatto per poco: Shiryu si accorse della luce rosata, che da un Est
lontano preludeva all’alba. Troppo preso dagli avvenimenti, si ricordò che da
quando Death Mask aveva preso il poso di Shura, in quel modo tanto grottesco,
il cielo era cambiato. Quello era il presente: in Grecia la notte sprofondava,
in Cina il giorno avanzava.
Un commento sarcastico lo riportò alla realtà:
“Buon Natale, ciuridda!”
“Smettila!” S’infuriò Shiryu, il viso e il petto accesi da
un bruciore spiacevole, forte. “Proprio tu, parli! Sono capace di accettare un
rimprovero; ma non se viene da uno come te! Vuoi umiliarmi?”
“Ohi, di che parli, Dragone.” Death Mask gli soffiò in
faccia una boccata di pessimo fumo, più beffardo e soddisfatto che mai. “Sarò
l’ultimo qui a farti una predica. Personalmente, la mocciosa mi sta anche sui
coglioni. Non è quella che ti ha salvato, l’ultima volta che ci siamo visti?
Bene, io avrei preferito di gran lunga scaraventarti nella fossa degli sfigati,
e non dire che non l’avrei fatto.”
Un'altra bella boccata coronò quel discorso.
“Tu non sai che cosa vuol dire. Non sai cosa siano
sentimenti nobili come…”
“La gratitudine?” suggerì lui, un ghigno crudele.
Quella andò a segno come un pugnale arroventato.
Shiryu non si era mai sentito così in tutta la sua vita.
“Hai ragione, che ne capisco io. Ma anche tu hai un bello
fare lo splendido.” Rigirò abilmente il filtro arraffandolo tra pollice e
indice, quello spirito chiassoso e insensibile. Aspirò con malcelata
soddisfazione. “Per me con la tua morosa puoi farci quel che ti pare, anche
usarla come straccio per lavare i pavimenti. E mica solo per Natale. Non è per
la storia del Natale. La storia del Natale è una minchiata. Non l’hai sentito
quel che ti ha detto Shura, eh? Pensavo che Shura lo ascoltassi, sei orbo, non
sordo. Ti ha detto anche lui che è una minchiata.”
Shura non aveva detto proprio così, in verità.
Ma aveva sussurrato, al suo orecchio, se era davvero
importante. E Shiryu dovette ammettere la verità.
“No. No, non è il Natale quello importante.”
“No, infatti. Quelle scassa minchia sono il presepe, sfinciuna,
pesce, vino, sfinci, scacciu e chi minchia ne può più. Ci si alza
alle nove di sera e fuori stanno ancora cantando. Poi mi chiedono perché
ammazzo la gente.”
“Non è neanche quello!” ribatté Shiryu, più che altro
confuso per aver capito un decimo di quel che aveva detto. Proprio quando
cominciava a perdere le staffe, Cancer l’aveva steso con un’uscita insensata.
Che a lui pareva perfettamente normale, dalla concentrazione tattica con cui
tirava su gli ultimi residui di tabacco prima di arrivare al filtro: “Ah no? E
che è?”
“È…”
“No, guarda. Non ho voglia di sentire la tua carola. Ti
metterai a parlare come i tordi in chiesa. Se hai capito, và dal vecchio e
lasciami andare che ne ho piene le palle.”
“Death Mask…” ribollì il ragazzo, i pugni stretti. Mai
nessuno era stato talmente bravo a mandarlo fuori dai gangheri. Death Mask alzò
a malapena la faccia, buttando la sigaretta usata giù nella cascata. Un altro
modo dei cento modi di ingraziarsi i padroni di casa.
“Guarda che è lassù” gli fece notare, rificcando le mani in
tasca. “Io me ne vado.”
Shiryu volse la testa verso l’alto.
Ma quello era il luogo dove…
Si girò di nuovo di scatto, per apostrofare nuovamente Death
Mask. Ma quello, ovviamente, se ne era già sparito. Se ne rimase lì qualche
minuto con l’amaro in bocca, una sensazione strana e pungente. Faticò, ma tornò
con gli occhi alla finestra della capanna, esitando ad avvicinarsi. Non sapeva
nemmeno se voleva vedere Shunrei svegliarsi, oppure no. Non sapeva più molte
cose. Le finestre ora erano scure, e lui distolse lo sguardo, forse intuendo
qualcosa.
Non si voltò più verso l’alto. Rimase fermo.
“Shiryu…”
Conosceva quella voce, ovviamente. Sospirò, a lungo,
abbassando il capo.
Non sapeva se ce l’avrebbe fatta a reggere sino in fondo. In
un certo senso, poteva essere più crudele degli altri.
“Shiryu. Figliolo. Guarda in alto, o non mi vedrai.”
“Maestro…”
Il sorriso di Doko sapeva essere molto confortante. Aveva
occhi grandi e saggi, proprio di quelli che sapevano accompagnare i sorrisi.
Shiryu sentì quasi le lacrime salirgli agli occhi, riconoscendoli nel viso
giovane di un ragazzo poco più grande di lui, ma dall’animo secolare. Rese
grazie, nel pensiero e a voce alta, per la sua presenza. E fece per inchinarsi.
“No, Shiryu, avanti” sorrise comunque, il vecchio maestro,
il mantello che sventolava nel vento della cascata. Tutti i suoi abiti erano
spinti dal vento, ma il cappello di paglia, fido compagno, rimaneva fermo sulla
sua testa, trattenuto per sicurezza da una cordicella. Con quel grande copricapo
in testa, sempre uguale, sdrucito dagli anni eppure incrollabile, era più che
mai lui.
Shiryu annuì, decidendosi ad avvicinarsi.
“Maestro… non mi sarei mai aspettato…”
“No? Davvero, Shiryu?” saltellò giù con enorme disinvoltura,
il vecchio tornato giovane. “E perché no?”
“Se avessi saputo prima che i tre spiriti che sarebbero
giunti eravate…” esitò, appena, ma poi proseguì: “…voi… allora avrei pensato a
voi, per primo. Il mio venerabile maestro, compagno del mio passato…”
“Sarò anche compagno del tuo futuro, Shiryu, se me lo
permetterai.” Brillavano allegri, gli occhi vecchi, sul viso luminoso di un
giovane. Shiryu non trovò subito le parole per rispondere. E sì, sentiva che
quella era la scelta giusta, che dopo il piccolo viaggio che aveva fatto solo
con lui avrebbe potuto fare lo sforzo di proseguire. Ora era chiaro.
“Sono pronto, allora. Per tutto ciò che volete mostrarmi.”
“Bene. Ti mostrerò un gioco di prestigio, allora.”
“Che cosa?” Shiryu sbatté gli occhi verdi, una, due volte,
discretamente sorpreso. Non disse niente neppure quando il mantellone lo
avvolse, coprendolo sino ai piedi. Non era proprio quello che si aspettava.
“Uno, due, tre.”
E fu luce.
Una mattina abbagliante.
“Maestro!” gridò Shiryu, sorpreso dalla luce improvvisa.
“Niente panico, figliolo. O cadremo dal tetto.”
Il valoroso Dragone s’immobilizzò. E non aveva tutti i
torti. Avvertì con chiarezza di trovarsi molto, molto in alto.
“Non guardare ancora giù. O sì. Ora sì.”
Shiryu aprì gli occhi, con uno sbuffo appena nervoso. Il
maestro non era tipo da tirargli simili giochetti, non lo era mai stato. O la
situazione lo divertiva particolarmente, o non c’era nessun rischio effettivo.
Si decise a guardare in basso.
“Ma questa città… non la conosco.”
“Io ci sono stato, invece. Un po’ di tempo fa. È Hong Kong.”
“Hong Kong?” sillabò lui, sbalordito. “È una vera
metropoli…”
“La tua Tokyo la batte ancora, tuttavia. Quasi del doppio. Vedi
qualcuno di famigliare, laggiù? O preferisci che scendiamo?”
“Scendiamo, maestro.”
Dolcemente, Doko lo prese per mano. E Shiryu non seppe come,
ma velocemente scesero, non con la velocità dei santi di Atena, ma con quella
del sogno, impalpabile e sincopata. Scesero come spiriti attorcigliandosi ai
tubi e alle scale di metallo, alle luci al neon e alle decorazioni rosse e
verdi, o di un bianco sporco, o di un oro falso, tutto esagerato. La città,
contagiata dall’occidentalismo come ogni grande metropoli, era estrema anche in
questo.
Il maestro lo precedeva, per le strade affollate, il
mantello che sventolava bello largo, nonostante la folla, e il cappello sempre
fedelmente calcato in testa. Shiryu lo seguiva, i piedi nudi sull’asfalto. Non
sentiva né dolore, né duro, né freddo. Erano due fantasmi che attraversavano la
corrente.
“Non prendere male quello che stai per vedere, Shiryu. Ma è
importante che tu lo sappia.”
Shiryu non fece in tempo a domandare che cosa, perché non la
riconobbe, a colpo d’occhio.
Era più alta. Aveva i capelli sciolti, e più corti. Stava in
piedi davanti a una vetrina. Non sorrideva. In realtà, era abbastanza assente.
La folla le scorreva attorno senza sfiorarla. A Shiryu
pareva che fosse l’unica persona ferma, in quel marasma, come un sasso in mezzo
al corso del fiume.
Lentamente, la ragazza si girò, distogliendo lo sguardo
dalla vetrina. Controllò l’orologio. Shiryu riconobbe quegli occhi che aveva
visto grandi e umidi, e stretti nelle risate.
Doko rimaneva fermo in piedi, placidamente, senza guardare
l’allievo. Dato che non parlava, parlò per primo, stringendosi nel mantello:
“Sai? Credo sia ancora sola.”
Shiryu riuscì a malapena ad annuire. Non volle aggiungere
altro.
L’antico maestro incrociò le braccia sul petto e proseguì,
come doveva fare:
“Posso mostrarti Goro-ho, ma hai guardato per un attimo
attraverso la finestra, mentre io ero già lì, non è vero?”
“Sì.”
“Che cos’hai visto?”
“Era deserto.”
“E impolverato. E marcente. È vuoto. Se n’è andata.”
“Sì. Sì, lo so.”
“E tu?” domandò più delicatamente, come se fosse ancora
bambino, mentre Shunrei se ne andava, affrettando i passi verso un punto che
sembrava privo di senso, nella folla di persone. “Pensi di essere con lei?”
“No” sillabò appena, il Dragone. Raddrizzò le spalle, lo
sguardo serio, ma senza orgoglio. “Il Santuario mi avrà chiamato a sé.”
Doko sorrise di nuovo, paziente, lo sguardo mite. Ancora non
allungava un braccio di conforto, nonostante avvertisse chiaramente qualcosa,
seppur di infinitamente piccolo, spezzarsi in profondità del suo allievo. Il
suo allievo che non parlava mai di Shunrei, ma i cui occhi la guardavano a
lungo, anche quando nemmeno la luce li raggiungeva.
“Sei un discepolo che mi ha sempre reso fiero, Shiryu. Hai
già capito ogni cosa.”
“Non ci vuole molto, in verità.” Dragone chinò il capo,
molto oltre l’umiltà, in quel momento. “È il mio dovere. E l’avete detto voi.
Sembra ancora sola.”
“Non capisci? Non è con nessun altro.”
“Piuttosto, preferirei.”
“Shiryu, Shiryu. Che sciocchezza.” Nonostante l’aria dolce,
qualcosa nella voce di Doko faceva intuire molto di più di un affettuoso
rimprovero. Shiryu lo guardò. Era più fermo che mai, con quelle braccia
incrociate. In quel momento, nel suo corpo svelto e giovane, si ergeva solido
come una montagna che sbarra il passo a migliaia di armate. “Non lo
preferiresti affatto. Nonostante la lontananza ed il tempo, certe cose non
passano. Non dire mai che preferiresti la persona amata felice con qualcun
altro, che infelice con te. È un sentimento disonesto.”
“Parlate come se sapeste.”
Un sorriso vecchio, mentre gli occhi tornavano giovani. Ogni
cambio di espressione sul viso di Doko catturava Shiryu in un sogno dentro un
sogno. Ed era stato Doko a parlare di sogni, davanti alle torce accese nella
buia, nera notte di Hades, mentre cieco Shiryu rantolava sulle scale per
raggiungere l’amato maestro che andava a morire per mano di Shion.
Doko sapeva.
“Vieni. Desidererai vedere altro.”
“No.”
“Desidererai vedere come sei.” Gli tese la mano,
incoraggiante. “Sei cresciuto anche tu, Shiryu. Ti sei fatto un uomo alto,
distinto, amato dalle genti. Presiedi la Casa della Bilancia, quando sono assente, e la presiederai quando il mio cuore cesserà di battere per cause
naturali, se Athena lo vuole; ed addestri giovani generazioni tramandando le
nostre storie, le vostre storie, perché siano pronti ad affrontare nuove
guerre, o, come Atena auspica, la sempiterna pace. Non vuoi vedere?”
“No… no.”
“No?”
“No. Tutto questo mi è bastato.”
Lasciò cadere la mano, morbidamente, in quella ruvida di
Doko; il maestro si fermò, già in procinto di partire, stupito. Poi lentamente
gli sorrise – forse il sorriso più sincero sino a quel momento – e Shiryu finalmente
gli sorrise di rimando, anche se debolmente.
“Ho visto abbastanza.”
“Molto bene. Non ti chiederò, dunque, se hai compreso.”
“Potete chiedermelo.”
“No. Me lo dimostrerai. Sei un discepolo che mi ha sempre reso
fiero, Shiryu. Mi renderai fiero di nuovo.”
“E se facessi la scelta sbagliata, maestro?”
La figura di Doko era così ferma, e così colorata, in mezzo
alla folla. Adesso erano loro due, il sasso in mezzo al fiume. Non si
pronunciò, ma non abbandonò l’espressione serena.
“Torna a dormire, Shiryu.”
Un groppo in gola, Shiryu sentì che il sogno stava per
finire. La folla si stava dileguando. Sarebbe tornato il buio, non più quello
blu di Grecia, né l’argentato candore di Goro-ho. E al risveglio, cos’avrebbe fatto?
Chiuse gli occhi, per non vedere il maestro svanire assieme
a tutto il resto.
“Zai jian, roshi.”
“Zai jian.”
The Carol
E così, la prima carola è
quella di Shiryu. Domandona: che ne dite?
Mi sono cimentata con una serie di personaggi affatto famigliari, per me, per
cui spero che apprezzerete lo stesso. Ho cercato di fare un po’ ordine nella
mia testa e di lanciarmi. Non è stato facilissimo.
È chiaro che come fan ho
preferenze smaccate per un personaggio, un altro o un altro ancora; altri mi
riescono facili da muovere, altri meno. In questo primo Carol non compare
nessuno dei miei prediletti, ma credo che sia meglio così: un po’ perché mi
sentivo tipo in erasmus, un po’ perché è stata una bella sfida, un po’ perché è
un cast molto omogeneo e che secondo me, a dispetto delle diversità interne,
funziona.
Poi, se devo dire la verità,
a me i cocchini di Atena piacciono tutti quanti. ._. *GOLD* …E non è carino, Dokino? <3 E
sì, dello shonen ai vago ce lo dovevo pur spruzzare. Owww, l’amore a distanza…
;O;
Shinji: Sì, hai visto come lo
Spirito Natalizio mi ha permeata? <3 Incredibile, faccio l’albero con
anticipo, scrivo le carole, spargo fluffiness. Ho un problema. Sarà stata la
nostra playlist.
Himechan: Oooh, che meraviglia! Ma
grazie, carissima! *O* Sì, il Carol di per sé fa già quasi strike, speriamo di
essere all’altezza del soggetto per distribuire mielosità natalizie a destra e
a manca. I bronzini mi aiuteranno. Sono fatti per questo. *C* <3
Kijomi: Prego. E ora sotto con le tartine. *^* *terrorismo*
Sakura2480: Sì, poveretto, non se lo
meritava un colpo così. Ma tu che diresti se ti ficcassero un abete nel mezzo
del tuo tempio pagano, eh? Grazie per l’incoraggiamento, spero anche andando
avanti continui a piacere. <3
LeFleurDuMal: Saori deve avere un paio
di quelle robe. E certo che Ikki ha ragione. Ikki ha sempre ragione. Ma cosa ti
lamenti per Seiya? È colpa tua! Ehi, voi, là fuori! é_è Sappiatelo! Il Seiya
che scrivo è colpa sua! Sua!
Malu Lani: Gli hint
Hyoga/Shun sono la cosa più godibile dell’universo. Ora che lo so, li sfrutterò
come un’arma di distruzione di massa! Eccoci qui al capitolo dopo, i tuoi
commenti vanno benissimo come sono. *O* Sono dolci!
Regina di Picche: Grazie,
tesoro, che bello averti anche qui. Mi fai dei complimentosi, sui personaggi.
Cielo, speriamo di tenere sempre botta. Ma sì, oggi di media è il giorno che si
fa l’albero, no? Cedi! Cedi! *C*
Pucchyko_girl: No! Fermati! Ci
oscureremo in un mondo di melassa! ...OMG
il Natale. Scamperemo?
Vogliate
scusarmi per il totale nonsense dei sottotitoli ai capitoli. Sono stata
istigata.
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Capitolo 3 *** Il Canto di Pegaso ***
Un Canto di Natale
Un Canto di Natale
Capitolo 3. Il Canto di Pegaso
Dove Seiya non ha granché fortuna con le donne.
Forse fu proprio mentre Shiryu smetteva di agitarsi nel
sonno che Seiya apriva gli occhi, di botto.
Se fosse stato per empatia con il compagno nella stanza a
fianco o perché davvero aveva avvertito qualcosa di strano, non seppe mai dirlo:
certo fu che eretto, sveglio, si accorse subito della presenza che oscurava la
finestra.
Non c’erano luna né stelle in quella nuvolosa notte di
Vigilia, ma i contorni della sagoma alla finestra erano comunque netti, solidi,
nel buio. Seiya li riconobbe perché per molti anni si era svegliato di
soprassalto a quella maniera, e talvolta con quell’identico buio a circondarlo.
Motivo per cui si rigirò immediatamente, sotterrandosi nelle coperte sin sopra
i capelli, in un riflesso automatico:
“Noo... Marin nooo… ti prego, altri cinque minuti…”
“In piedi, Seiya.”
“No, gli allenamenti a notte fonda no!”
“Seiya! In piedi!”
Se era un sogno, era molto più che vivido. Pareva proprio la
voce di Marin.
Autoritaria come Marin. Perentoria come Marin. Imperiosa
come Marin.
“In piedi, ho detto!” Le coperte furono strappate di dosso a
Seiya, che, con un tonfo, si ritrovò proprio ai piedi dell’intruso. Che era davvero
Marin.
“Ma... Ma… Marin, sei davvero tu! Che cosa…?”
“Siamo già abbastanza in ritardo, Seiya. Muoviti.”
“Eh…?” Si massaggiò la testa, il ragazzo, strappato dal
sonno in maniera sin troppo brutale. Cercò, come al solito, occhi che erano inespressivi
vuoti di metallo, e non poteva certo indovinarne l’espressione. Ma si era
abituato a farlo, tanto che per lui non era nemmeno più strano: aggrottò le
sopracciglia, così, sperando di scorgere pietà anche in una maschera: “Ma non
dobbiamo allenarci, vero?”
“No.”
“Ah, per fortuna.”
“Mi seguirai, non è vero, Seiya?”
“Beh, avrai avuto un buon motivo…” si affrettava già Seiya,
che in realtà dalla maestra non era abituato a ricevere dolci domande, quanto
più ordini e scappellotti sulla nuca. Un saltello, ed era entrato dentro i
calzoni. “…per venirmi a svegliare a quest’ora. No?”
Si scosse di dosso il sonno, scuotendo la testa spettinata.
Marin, dietro di lui, impenetrabile, le braccia incrociate,
parve apprezzare la sua solerzia:
“Mh!”
“Dove andiamo?”
“C’è un piccolo viaggio, che dovrai affrontare, Seiya.”
“Un viaggio? Ma non posso, domani…”
“Tornerai entro stanotte. Non temere.”
Un sospiro sconsolato, e il santo di Pegaso, vestito e
presentabile – si era cambiato frettolosamente in un angolo della stanza –
raggiunse la maestra, le mani in tasca. Marin adottò da subito un buon passo,
aprendo la porta e precedendolo lungo il corridoio.
Tutto era silenzio. Seiya gettò un’occhiata distratta alla
porta di Shiryu: chissà se la notte gli avrebbe portato consiglio.
Lui seguiva la giovane donna davanti a lui, non curandosi di
reprimere, ogni tanto, uno sbadiglio. Già pensava a quale improbabile missione
avrebbe dovuto affrontare. E naturalmente sperava davvero di tornare prima che
gli altri si svegliassero: la gara a chi arrivava prima sotto l’albero era qualcosa
che assolutamente non voleva perdersi.
“Ti devo avvisare, Seiya, su chi incontrerai lungo il tuo
cammino.”
Erano fuori. Il ragazzo si ricosse, con un brivido nel
freddo della sera, lo sguardo sui capelli rossi di Marin. Nel buio, assumevano
le sfumature più strane. Si fece attento, dacché da quando erano usciti, i
passi della donna santo conducevano giù per la scalinata delle Dodici Case, e
si apprestavano ad attraversare la prima senza avvisarne il custode, Aphrodite
dei Pesci. Ma con somma sorpresa di Seiya, non vi era che vuoto; le torce
ardevano per rischiarare il buio, la casa era abitata e presieduta, ma un
silenzio quasi innaturale vi regnava.
“Chi incontrerò? Quali nemici?”
“Nemici?” La voce di Marin rimbombava appena, da dietro la
maschera. Oltrepassarono il Tempio, seguendo le scale per raggiungerne altri.
Per qualche motivo, Seiya intuì, dentro di sé, che si sarebbero fermati presto.
“Per te nessun nemico, questa volta, da affrontare, Seiya. Solo amici.”
“Affrontare… i miei amici?”
“Farti guidare da loro. Non temere, sarai presto indietro.
Il tempo di un sogno.”
Ecco che come lo disse, Seiya si accorse della distanza
troppo esigua tra una Casa e l’altra: ci stavano mettendo troppo poco per affrontare
il lungo percorso che collegava i templi. Eppure davanti a sé la distesa di
scalini era sterminata come sempre. Rimase in silenzio, quindi.
“Lo Spirito del Natale Passato non fa parte del tuo passato,
forse. Ma c’è sempre stato.”
“Che cosa?”
Credendo di non aver sentito bene, Seiya si avvicinò, sbattendo
gli occhi.
“Lo Spirito del Natale Presente” proseguì lei, marciando “è
il miglior consigliere. Ascoltalo con grande attenzione.”
Un tetto, sopra la loro testa. Una nuova casa oltrepassata.
Seiya si rese conto con grande meraviglia di non sapere più dove si trovasse.
Quale tempio dello Zodiaco aveva appena sorpassato? Quale lo attendeva?
“Lo Spirito del Natale Futuro ha occhi indomiti, ma che
vedono molto lontano.”
Qui Marin si fermò, il vento che le agitava furiosamente i
capelli. Seiya si accorse di non sentire freddo come avrebbe dovuto. Incespicò,
un passo avanti, stupito, e i suoi passi terminarono sui marmi della Nona Casa
dello Zodiaco.
“Marin…!”
“Ascolta questo terzo spirito, Seiya, se possibile, con
ancor maggiore attenzione. Lui ti vuole bene. Lui ti consiglierà nel modo
giusto.”
“Marin, aspetta! Ma questo è…?”
“Addio.”
“Marin! Marin!”
Si ritrovò solo.
Rimase ad ascoltare l’eco fra le colonne, fermo. Senza
nessuno lì con lui.
Passarono un paio di minuti, o almeno così gli parve. Mosse
qualche passo, come intontito. Si guardò attorno come se non avesse mai visto
quel posto prima d’ora; e invece lo conosceva, ah, conosceva quei muri antichi
su cui ora scorreva la mano, pure nell’aria surreale che lo circondava. Vagò
minuti e minuti ancora, a quel modo, come si cerca l’uscita di un labirinto, il
palmo sempre appoggiato alla parete. Finché incontrò una crepa e poi un
dislivello, e muro che si sbriciolava sotto le dita. Alzò lo sguardo, intuendo
di cosa si trattasse.
L’iscrizione.
Giovani cavalieri…
“Seiya di Pegasus. Sei infine giunto.”
“Questa voce! Tu sei…” Il giovane santo di bronzo si voltò,
incredulo. L’uomo che l’aveva
mille volte guidato, come pura stella, in passato, era lì
davanti a lui, in carne ed ossa. E sorrideva, benevolo. Come! Si riferiva a
lui, Marin, nelle parole che gli aveva rivolto prima di sparire? Colui che è
sempre stato, sicuramente non poteva essere che quell’uomo: il cavaliere che
solo con il suo spirito si era fatto sprono di tutti i guerrieri, baluardo
della verità. Seiya rimase fermo dov’era, riuscendo solo a balbettare: “Aioros…
Aioros di Sagitter!”
Il sorriso si fece luminoso, l’uomo fece alcuni passi. Gli
mise una mano sulla spalla.
“Bentrovato, Seiya.”
“Aioros, non sai… che cosa significhi, per me, essere qui
con te, in questa notte. Oh, ti ringrazio di essere qui. Marin mi ha detto che
dovrò affrontare…”
“Un viaggio, giovane Seiya. Ma è così. Seguimi sino ai piedi
della scalinata dello Zodiaco.”
“Mi accompagnerai tu?”
“Certamente. E chi altri?”
“È un lungo tratto. Come potrò ritornare in tempo? Marin mi
ha detto che entro domattina io sarò di ritorno.”
A queste parole, Aioros non fece che sorridere. In una
maniera splendida.
“È giusto, ciò che dici. Perciò prendi la mia mano. Non ti
farò attendere oltre.”
Incredulo, Seiya allungò le dita a sfiorare il palmo ruvido
del guerriero più anziano. Lo fece con riserbo, con rispetto. Ma Aioros lo
prese forte, protettivo e accogliente, e lo trascinò con sé come se fosse
stoffa, un lembo di mantello nel vento. Scomparirono tra le colonne tagliate
dalla luce delle torce.
“Aioros! Che cosa…?”
“Guarda. Riconosci questo luogo?”
Non erano nei corridoi del Tempio del Sagittario. Le colonne
si erano fatte portici, la sabbia dell’arena volava radente al suolo freddo.
Seiya, molto più giovane e molto più malconcio di com’era in quel momento – lì ad
occhi spalancati per mano ad Aioros – se ne stava in un angolo a strappare la
poca erba sopravvissuta ai margini del campo. Aveva un’aria stizzosa e arrabbiata,
e non interrompeva nemmeno per un attimo il movimento brusco delle mani,
sebbene i fili freddi e taglienti le stessero graffiando.
“Seiya! Seiya!”
Una nuova figura lo raggiunse, proprio davanti agli occhi
dei due viaggiatori.
Seiya non tentò niente di niente. Stette zitto e basta, non
osando quasi muoversi.
Marin, anch’essa più giovane – dèi, quasi bambina –
raggiungeva il bambino più piccolo nella sera fredda di Atene. Un inverno di
molti, molti anni prima.
“Che cosa stai facendo?”
“Niente!”
“Sei arrabbiato.”
“Non sono arrabbiato!”
“Seiya! Smettila di fare così!”
“Un anno. Un anno fa ero all’orfanotrofio con mia sorella, e
i miei amici. Era un orfanotrofio, ma almeno ci volevano bene!”
“Ascoltami…”
“Abbiamo solo addobbato l’albero e mangiato tutti assieme.
Perché noi queste cose non le possiamo fare? Perché non possiamo festeggiare il
Natale?”
“Te l’ho già spiegato.” Marin cercava di tenere un tono
pacato, che Seiya conosceva molto bene. “Devi dimenticare la vita che hai
condotto sin’ora. Non è niente di simile a quello che troverai in questi anni.
È una vita dura, diversa. È inutile che io ti faccia delle illusioni, come se
tu fossi ancora a casa: comportati da futuro cavaliere, e rientra. Devi
dormire, o domani sarai a pezzi.”
“Non voglio dormire!”
“Seiya! Fai i capricci, allora?”
“No! Lasciami in pace!” gridò, allora, una voce che rimbalzò
per tutta l’arena. Il bambino gettò per terra l’erba strappata e corse via,
lontano. Marin rimase ferma a guardarlo allontanarsi; l’avrebbe ritrovato solo
la mattina dopo, addormentato su un albero. Decisamente scomodo, per riposarsi.
“Ebbene?” scandì una voce profonda accanto a Seiya, che era
rimasto imbambolato a guardare la scena.
“Ah” si riscosse lui. Lasciò piano la presa al polso forte
di Aioros, che non si era reso conto di continuare a stringere. Arrossì appena,
come colto in fallo: “Ero solo un bambino! Era normale che facessi i capricci.
Adesso non li farei più.”
Rise di cuore, Sagitter. Una risata di pieno petto, che
incoraggiò Seiya ad andare avanti:
“Davvero. Posso giurarlo.”
“Tu, Pegasus…” Seiya era assolutamente, sconfinatamente
ammirato dal portamento che Aioros teneva in ogni suo gesto. Ora s’incamminava
lento, verso i gradoni di pietra, il mantello fluttuante. Nessuna armatura a
ricoprirlo, solo una tunica, eppure risplendeva come oro, nella notte. Lo
seguì, confuso, salendo un paio di gradoni tra invisibili spettatori. “Sei un
santo pieno di valore. Ottimi sentimenti albergano il tuo cuore. Non ti ho
voluto mostrare questo Natale passato per rimproverarti.”
“No?”
“No.” Gli sorrise di nuovo, quasi con tenerezza. Come si
sorride al fratello minore che, faccia spaurita e biscotti rubati in mano, si
aspetta una punizione tremenda. “Dimmi, coraggio: perché eri arrabbiato?”
“Perché…” Il ragazzo ci pensò su, stranito. Come faceva a
ricordarselo? “Non lo so. Perché…”
“Forse” suggerì gentilmente lo spirito, contemplando i
gradoni dell’arena con grande serietà. Scelse un percorso, salendo ancora,
facendosi seguire. “Forse perché non avevi ricevuto nessun regalo.”
“No! Che sciocchezza. Nemmeno all’orfanotrofio ricevevamo
regali. Eravamo troppi.”
“Forse, allora, la giovane Marin era stata troppo brusca.”
“No. No, era stata anche più gentile del solito, quella
sera.” Seiya si grattò la nuca, imbarazzato. Cercava di stare dietro ad Aioros.
“Ho preso delle sberle in faccia per molto meno.”
“Dunque, vediamo” procedette spedito l’altro, con la
disinvoltura con cui qualcuno molto prima di lui doveva aver camminato sulle
acque. Pegasus era internamente sconvolto dal modo solenne che aveva di farlo.
Senza dubbio, lui un giorno avrebbe voluto essere come lui. Assolutamente. “Non
era egoismo, dunque: non era per i regali. E non era ingratitudine, poiché sei
grato alla tua maestra. Di che cosa si tratta allora?”
“Io…” cercò le parole, il ragazzo più giovane. Era sempre un
passo indietro a lui. Non faceva che salire! “Io… ero solo un bambino! Avevo
nostalgia di casa!”
Aioros si fermò. Quando si voltò, sorrideva di nuovo.
Un sorriso calmo, pacato, caldo come gli occhi caldi.
“Era questo.”
“Sì… era questo.”
“Il Natale per te è la casa.”
“Lo era. Tanto tempo è passato, da quando… oh, non importa.”
“Per ora, questo è più che sufficiente” gli confidò Aioros
di Sagitter, come se fosse un segreto importantissimo. Seiya rimase lì, senza
parole, un gradino sotto di lui, guardandolo sorridergli e confidargli segreti
che non erano segreti. Aioros risplendeva, come la stella polare. Aioros lo
stava guidando verso qualcosa.
“Aioros, tu sei… lo Spirito del Natale Passato?”
“Sì. Avevi bisogno di me, Seiya. Ma ho già fatto quello che
dovevo, vedi? Tu hai compreso.”
“Di già? Resta! Sono qui da solo, e non so come tornare
indietro!”
“Non sei solo. Qualcuno già ti attende, proprio là, due
spalti più in basso. Non farlo attendere.”
“Come? Un altro… spirito?” sussurrò il ragazzino, abbassando
la voce. Era incredibile, assurdo e senza un perché. Ma funzionava. Era come
aveva detto Marin. Era come nel racconto letto da Shion. Solo, senza i balli
sotto il vischio e le carrozze e tutte quelle altre cose da film d’epoca.
“Davvero?”
“Sì. Vai da lui. Noi ci rivedremo al tuo risveglio.” Una
mano sul capo, gli carezzò i capelli, affettuosamente, come un padre. “Giovane
cavaliere della speranza.”
Quasi commosso, Seiya lo guardò svanire. Lo fece così, piano
piano, davanti ai suoi occhi. Come un fantasma. Cacciò un sospiro nervoso e
incredulo nell’aria, rumorosamente. Si guardò le mani, guardò il cielo
nuvoloso, scuro. Si sfogò, sopracciglia corrucciate, ad alta voce:
“Di certo devo stare sognando.”
“Stai sognando. Non hai sentito quello che ti ha
detto Aioros?”
Pegasus abbassò il capo, quasi senza stupirsi neanche. Poco
sotto di lui – esattamente come gli aveva detto lo Spirito del Natale Passato –
c’era qualcuno che dimostrava decisamente meno fretta; qualcuno seduto a gambe
larghe, imponente e assieme rassicurante. Si apprestò a raggiungerlo subito,
incuriosito. Se davvero stava sognando, allora tanto valeva giocare fino in
fondo!
“Chi sei?” cercò di rendere la voce il più profonda e
scenografica possibile, cercando di imitare la gravità che aveva palpato in
Sagitter. Era pur sempre il protagonista. Si sarebbe fatto valere.
“Sono lo Spirito del Natale Presente” tuonò l’altro,
battendolo di gran lunga su tutti i fronti: possente e maestoso, Aldebaran del
Toro lo aspettava a braccia incrociate. Sulla sua voce, nulla da dire.
“Aldebaran! Sei tu!” Seiya scese gli scalini di buona lena.
Faceva piacere incontrare gli amici, anche se solo in sogno. Dimenticò anche
all’istante la questione della voce scenografica. “Che piacere vederti!”
“Come stai, Seiya?”
“Non c’è male. Ma devo svegliarmi prima di tutti per correre
a vedere i regali.”
“Ci tieni tanto, ai regali?”
“A dire il vero no. È solo bello correre per il corridoio
spintonando Hyoga.”
In verità, non era tanto sicuro che Hyoga si sarebbe
lanciato con la foga di un tempo a rotolarsi con lui sul parquet che sbucciava
le ginocchia. Hyoga non faceva più nulla con la foga di un tempo, quando era
piccolo, vivace e con la faccia di una polpetta di riso imbronciata. Forse solo
arrossire di botto, quello sì. Ma Seiya doveva essere veramente, veramente
bravo a trovare la cosa giusta da dire, e qualche volta succedeva persino per
caso. Accantonò da parte quei pensieri, per il momento, comunque.
“Allora… sto sognando, vero?”
“Mh-mh.”
Seiya guardò Aldebaran. Rimaneva fisso nel suo proposito di
acquisire, un giorno, fra qualche anno – contava di metterci poco – la
disinvolta solennità di Aioros. Era perfetto, era sontuoso, era greco.
Dalla curva del pollice da discobolo alla punta dei riccioli a forcipe. Ma
Aldebaran, per Atena: Aldebaran era maestoso. Avrebbe voluto
assomigliare anche ad Aldebaran, un giorno.
“Non guardare me, Seiya.” Esibì uno sguardo più ironico di
quanto non volesse lasciar trasparire, il saggio Toro. Senza muovere nulla a
parte i muscoli del collo – Seiya ammirò anche quelli, ambendo ad averne di
simili, un giorno, sempre molto prossimo, naturalmente – indicò verso il centro
dell’arena. Pegasus eseguì, spostando lo sguardo, obbediente.
“Aspettiamo qualcuno?”
“Sì. Qualcuno che dovresti conoscere. Qui comincia il
difficile, Seiya di Pegasus. Il tuo Natale Presente non è un granché.”
Aldebaran non chinò il capo, ma lo guardò negli occhi, come solo lui sapeva
fare. Sensibile e schietto, assieme: “Hai dei conti in sospeso, lo sai?”
“Dei conti in sospeso? Io? Con chi?”
“Ah, dovresti dirmelo tu.”
“Nessun nemico ho lasciato impunito!”
“No, certo che no.”
Seiya rimase perplesso. Ci pensò. Ricaricò:
“E nessun amico lasciato senza soccorso!”
“Oh, per Atena, nemmeno. Ovvio che no.”
Più che perplesso. Sbatté gli occhi:
“E… quindi?”
“Quindi zitto e guarda.”
Spiazzato dalla gaia tranquillità con cui aveva pronunciato
quelle parole, Seiya tacque. Non trascorse molto tempo, ad ogni modo, prima che
la risposta ai suoi quesiti si presentasse: una donna era venuta a prenderlo
nel sogno, una donna venne a spezzarlo a metà. Il santo poggiò le mani, serio,
sulle ginocchia, quando riconobbe Shaina e lo scintillio feroce della maschera
alla luce delle torce: erano più fiammeggianti che mai, le torce, nel vento di
dicembre. Camminava nella sua solita maniera, le curve dei fianchi estremamente
pronunciate, nei passi. Teneva il viso appena chino. Sembrava fosse venuta lì
senza uno scopo. Non si accorse di loro.
“Non ci può vedere, vero?”
“No.”
Altro silenzio. Seiya cercava di capire che cosa, che cosa si
volesse da lui, questa volta. Aioros aveva detto che per il momento lui aveva
compreso – non gli era ben chiaro che cosa, ma di Aioros doveva fidarsi per
forza – e forse anche Aldebaran intendeva fargli capire qualcosa. Naturalmente,
gli era subito stato chiaro il significato di conto in sospeso, non
appena aveva riconosciuto la donna nella notte. Le frenetiche battaglie che
avevano condotto dagli abissi marini agli inferi i santi di bronzo non avevano
lasciato né spazio né tempo a quella piccola, grande questione. Questa spina
dal sentimento indefinibile. Una donna che gli aveva rivolto parole d’amore.
Lentamente come aveva camminato sin lì, Shaina alzò il viso,
senza curarsi dei due seduti immobili sugli spalti. Per lei non esistevano.
“Che cosa ci fa qui a quest’ora?”
“Quello che fa ogni donna innamorata, Seiya” rispose
pacatamente Aldebaran, confermando solamente i suoi pensieri. Tuttavia, Seiya
non si aspettava tanto. Strinse le mani sulle ginocchia. “Non riesce a dormire,
sapendoti qui. Non riesce a non pensarti. La sua testa vortica di domande a cui
nessuno ha dato risposta. Certo, il silenzio di un uomo genera di per sé una
risposta; ma talmente vaga, talmente ambigua che la poveretta vaga in continuazione
da amare certezze ad altrettanto amare speranze. E questo la tormenta.”
Seiya osservò ogni cosa.
Osservò le mani stringersi a pugno e il viso restare fermo
in direzione della Tredicesima Casa, tanto più in alto, tanto più lontano.
Osservò la maschera strapparsi, le lacrime scorrere e l’espressione
di un viso dolce trasformarsi in rabbia e poi frustrazione e generare altre
lacrime.
Aldebaran, invece, per riserbo, tenne gli occhi chiusi.
Anche se era solo uno spirito.
“Aldebaran… non serve che me le fai vedere, queste cose. Io…
lo so.”
“Non mi sembra, Seiya. O almeno, sì. Le sai. Ma vederle è
un’altra cosa.”
“Sì. Credo di sì. Mi dispiace. Mi sento così desolato. Non
so cosa fare.”
“Non sai quali sono i tuoi sentimenti? Basterebbe sapere
questa piccola cosa, per risolvere tutto.” Aldebaran riaprì gli occhi su di
lui, mentre una maschera cadeva a terra, violentemente, cozzando contro la
terra dura. Seiya alternava inquieto gli occhi da lui a lei, muto. “Basterebbe
davvero. Decidi una risposta per quella ragazza, Seiya. E dagliela. Qualsiasi
risposta, che rispecchi quello che pensi. Qualsiasi risposta; ma dagliela.”
“Io…” Pegasus abbassò lo sguardo, per non guardare più
nessuno dei sue. I rumori che avvertiva, fisici, forti, lo turbavano nel
profondo. Sapeva che in quello stesso momento, mentre lui dormiva nel suo
letto, nell’arena deserta risuonavano acuti i singhiozzi, e forte la terra
raspata. Non lo immaginava. Non lo aveva mai immaginato, e questo lo colpì. Era
vero quello che diceva Aldebaran: sapere non è la stessa cosa che vedere.
Deglutì. “Io credo di essere ancora troppo confuso, da quello che Shaina mi ha
detto. Io non lo capisco. Non capisco lei. Io… forse sono troppo giovane, per
queste cose. Troppo inesperto. Non ci penso. Non voglio spezzarle il cuore. Non
voglio neppure illuderla. Non so che cosa fare.”
“Ma questa” sorrise Aldebaran, fiero nella notte. “Questa è
già un’ottima risposta.”
“…che cosa? Che cosa dici, Aldebaran? Non potrei dirle una
cosa del genere!”
“Potresti eccome. È un buon inizio.”
“Mi ucciderebbe!”
Rise, e le risate tonanti coprirono i singhiozzi, che come
avvertendole diminuirono. Seiya scorse una schiena scossa appena da qualche
singulto. Poi distolse lo sguardo. Erano come lampi di visione. Questa parte
del sogno si stava facendo confusa, e non capiva perché. Era davvero come in
quei sogni in cui le immagini si sovrappongono. Dov’era Shaina? Aldebaran
sorrideva.
“Non ti ucciderà affatto. Avrà una risposta, che placherà i
suoi tormenti. Cesserà di sentirsi ignorata. Sentirà dalle tue labbra la tua
confusione e sarà disposta a capirla. Quantomeno saprà cosa provi, e cesserà di
sentire il tuo silenzio come un peso. Parlale, Seiya. Primo passo per diventare
un uomo. Mh?”
“Aldebaran… non so se ne sono in grado…” Cominciava a
girargli la testa. Il ragazzino se la prese tra le mani, cercando di rimettere
a fuoco qualcosa, qualsiasi cosa. Andavano bene anche i gradoni dell’arena.
“Non so se ne sono…”
“L’indecisione non è propria di un cavaliere: farai bene ad
esserne in grado, Seiya. Altrimenti non sai che cosa ti aspetta.”
“Che… che cosa?”
Alzò la testa, e tutto vorticò.
Tutto, di colpo.
“…cosa mi aspetta?” domandò, tuttavia, sforzandosi, col
presentimento che fosse importante.
“Ah, questo… non è compito mio, mostrartelo.”
E sul sorriso di Aldebaran scese il nero.
Un nero profondo, in cui quasi ronzava l’eco di tutto quello
che era stato.
Seiya rimase come incosciente, come se il sogno si fosse
interrotto, e ne provò una grande angoscia, nei pochi, confusi secondi di
niente. Sentiva di aver smarrito la parte importante. Marin gli aveva detto:
ascolta il terzo degli spiriti con più attenzione di tutti…
Urla e grida di folla lo sovrastarono, e le sue palpebre si
spalancarono.
Alzò il capo di scatto, un dolore circolare alle tempie,
come quando il sonno prende per pochi istanti in posizione eretta: il suo collo
si era mosso automaticamente all’indietro, svegliandolo di botto. Spalancò gli
occhi su un pubblico sterminato, in una mattina tersa d’inverno. Ansimò, e il
suo fiato creò vapore. Accanto a lui, uomini delle età più diverse vociavano
grida d’incitamento. Sveglio, incurante del dolore alle tempie, si alzò in
piedi sulle gradinate per scorgere il combattimento che si stava svolgendo sul
campo, e trasalì: quello era lui! Il cuore gli martellò in gola ad un ritmo
fortissimo: non riusciva a vedersi bene, da quella distanza. Era combattuto da
una curiosità feroce e l’assurdo desiderio di non volere vedersi affatto.
“Bensvegliato. Usciamo da questa folla.”
Una mano lo prese per il polso. Con sua grande sorpresa si
girò per vedere chi lo stava trascinando con sé, ma nella confusione non
riusciva nemmeno a vederlo, nel rumore delle ovazioni scatenate non era
riuscito a riconoscere la voce. Pensò freneticamente, quasi con disperazione:
aveva bisogno di un viso amico sopra ogni altra cosa, perché l’angoscia che gli
era nata in petto col buio lo mordeva cieca allo stomaco.
Nessun nemico, questa volta, da affrontare, Seiya. Solo
amici.
Lo Spirito del Natale Futuro ha occhi indomiti, ma che
vedono molto lontano.
Il batticuore aumentò. Spropositatamente.
Poteva sbagliarsi, ma…
Lui ti vuole bene. Lui ti consiglierà nel modo giusto.
“Aioria!” gridò, più forte che poteva.
Si morse le labbra, chiudendo gli occhi mentre veniva
strattonato fuori dalla folla.
Aveva così bisogno di Aioria. Se non fosse stato lui…. se
non fosse stato lui…
“Apri gli occhi, Seiya. Da quando ti fai spaventare da un
po’ di spintoni?”
Pegasus riuscì solo ad esibirsi in un’atroce faccia da
schiaffi, di fronte a Leo. Vergogna: con un sorriso divertito, il suo senpai
lo canzonava. Con un affetto senza pari.
“Aioria! Per fortuna sei tu!”
Per la prima volta da quando era un moccioso, Seiya sentì il
distinto bisogno di buttarsi fra le braccia di qualcuno. Non lo fece solo
perché non se lo sarebbe mai perdonato per tutta la vita.
Aioria, il forte, generoso Aioria, però, scintillò gli occhi
verdi, alla sua espressione smarrita, e senza abbandonare il sorriso sicuro gli
diede una stretta forte e affettuosa alla spalla. Seiya tirò su con il naso e
si sentì rinfrancato. Quella era bastata.
“Animo, Seiya. Non la senti tutta questa gente? È qui per
te!”
“Per me?”
“Guarda. Questo è quello che ti attende per un Natale
futuro. Molto, molto futuro.”
Pegaso abbagliava, nel sole scintillante. Era tutt’uno con
il cielo. Volava.
Seiya tacque vedendo quell’uomo alto e slanciato piegare
sotto colpi puliti un avversario di grande forza. Riconobbe anche
quell’avversario, i capelli lunghi e neri saettare nell’aria come lingue di
drago. Sentì l’aria vibrare dei loro colpi, nitida e forte, e vide Dragone cadere.
Per un millesimo di secondo.
“Non ci posso credere.”
“È stato un lungo scontro amichevole. Ma alla fine hai vinto
tu.”
“Quello… non…”
“Shhht. Guarda.”
“Shiryu!” scandì il vincitore, tendendo una mano
forte all’altro. Le grida festose risuonavano per tutta l’arena. “Grande
prova.”
“Ti ringrazio, Seiya. Ma hai vinto tu.”
“Per un soffio” ammiccò quello, un caldo sorriso. Shiryu
ricambiò, appena, rimettendosi in piedi con grande eleganza. Lontano, Seiya,
accanto alla figura rassicurante e salda di Aioria – dea, per fortuna non
lasciava la presa sulla sua spalla – non poté fare a meno di notare quanto
fosse diventato alto. Rispetto a quel giorno, ovviamente. Ed entrambi i
contendenti si guardavano negli occhi, stringendosi la mano, alti e belli nella
piana bianca dei duelli.
Quella scena possedeva un fascino impagabile. Erano loro e
non erano affatto loro. E adesso Seiya vedeva sé stesso mettere una mano sulla
spalla di Shiryu e soffiare un saluto troppo rapido, correndo poi di fretta
altrove, verso un punto dove teneva fisso lo sguardo.
“Vuoi vedere dove stai andando?”
“Puoi portarmici?”
“Certo. Vieni con me.”
E così, Seiya correva nell’arena che aveva calpestato
innumerevoli volte.
Il sole era così forte, l’aria così fredda da sembrare
davvero un sogno.
Passarono oltre Shiryu, che non era più Shiryu, e guardava
ogni cosa con una malinconia che Seiya non ricordava. Passarono per alberi dal
tronco ruvido e colonne diroccate. Calpestarono la brina senza lasciare orme.
Seiya ormai correva, per stare al passo con Aioria, che lo
conduceva sicuro e senza esitazioni. Avrebbe davvero, davvero voluto essere
come lui. Andava bene anche non avere l’aura principesca di Aioros, o
l’imponenza grandiosa di Aldebaran; il cavaliere del Leone, umano più che mai,
camminava celando anni di pianti e insicurezze, e contemporaneamente camminava
imprimendo tutto sé stesso in ogni passo, come se marchiasse il suolo. Come se
non esistesse il tornare indietro.
Seiya la strinse, la mano di Aioria. Neanche fosse dentro un
incubo.
“Non sei andato lontano” parlò basso, quasi complice.
Sorrise appena, un cenno sbrigativo in avanti. “Guarda là.”
“Shaina!”
“Che cosa vuoi?”
Il Santo di Pegaso era cresciuto, questo era certo. Membra
conosciute si erano irrobustite saldando il corpo di un uomo giovane, più
grande, più forte, più uomo. Eppure, l’espressione del volto era
irriconoscibile. Gli stessi occhi castani, gli stessi ciuffi ribelli sul viso;
ma non avevano niente a che fare con quell’espressione di dolore.
“Shaina, ti prego, fermati! Ascoltami!”
“Te l’ho già detto, Seiya. Vattene. Sono ancora in tempo per
ucciderti.”
“Non lo farai.” Questo sembrò farla andare su tutte le
furie. “Non così. Shaina, tu devi ascoltarmi. Tu mi fuggi. E tu sai quello che
devo dirti. Ti prego…”
“Menzogne. Sono stanca.” Il portamento di Shaina, più bella
e altera che mai, era immobile come quello di un serpente in punta. Era una
postura di difesa, ma non avrebbe esitato ad attaccare al minimo cenno brusco.
Era di pietra. La maschera ancor più minacciosa.
“No! Tu devi credermi, invece!”
“Io non ti devo nulla. E ora vattene.”
Lo schiocco sordo di una porta fu come un colpo inferto in
pieno fianco, per Seiya. Si fece più vicino ad Aioria, come a pregarlo di non
scomparire. Se fosse scomparso lui, avrebbe smarrito sé stesso, e si sarebbe
trovato da solo con quell’altro sé più grande, più adulto, più capace, più
orribilmente solo, che si ritrovava a sbattere pugni contro il muro incapace di
fare niente con le parole. Aveva provato molte emozioni, nella sua giovane
vita, Seiya di Pegasus, ma non era pronto a vedere le lacrime bollenti e amare
che sanno scatenare sentimenti del genere. Quello di cui doveva essere preda,
in quella mattinata troppo tersa nel futuro, era in grado di deformargli il
volto in una maschera di dolore e squassargli il petto, mentre si prendeva la
testa fra le mani. Era così irriconoscibile che dovette sussultare, quando
Aioria tentò di riscuoterlo.
“A… Aioria.”
Si era smarrito. Recuperò il respiro. Si ricordò di essere
vivo e di non trovarsi davvero lì.
“Questa” sancì brevemente Aioria “è solo una possibilità di
futuro. Lo sai, vero? Nulla è già stato scritto.”
“Ma… è terribile. Davvero terribile.”
“No. Sei diventato ciò che promettevi di diventare. Un
guerriero forte e coraggioso, un vero e proprio faro. Un punto stabile. Solo,
non sei stato in grado di conciliare i tuoi sentimenti. I silenzi hanno
generato incomprensioni, che hanno rovinato irreparabilmente qualcosa. Quella
che stavi guardando prima era una scena che potrebbe avere mille perché e mille
soggetti di discussione. Ma quello che risaltava era chiaro: non esisteva
fiducia. Non esisteva comprensione.”
Seiya si guardò le mani, senza commentare niente. Gli pareva
strano essere lì, ed essere altrove.
Per fortuna, non vedeva più sé stesso. Ma la sua espressione
si era stampata a fuoco nella sua mente.
“Questa, ripeto, è solo una delle possibilità che ti si
aprono in futuro. Potrebbe darsi che tu non ti innamorerai di Shaina. Forse ti
innamorerai di qualchedun’altra. Forse neppure mai lo farai. Ma…” Questo lo
disse con profonda autorità, il cipiglio severo. Forse imitava suo fratello.
“Non credo proprio.”
“Pe-perché?”
“Perché tu sei troppo simile a me.” In quel momento,
qualcosa si sciolse. Qualcosa di molto grosso. Con un nuovo sorriso, abbassando
gli occhi per un minuto, Aioria proseguì: “Hai il cuore caldo, sei governato
dalle passioni. Troverai l’amore. Ti attanaglierà sin nelle viscere. Ti
prenderà e strapperà il cuore e tu non potrai farci proprio niente. È che sei
ancora giovane, Seiya. Di questo di sicuro non devi e non puoi rimproverarti.
C’è tempo. Ma…”
“Ma? Allora… allora come devo fare? Sai dirmelo, Aioria?”
“Devi essere onesto, devi affrontare i problemi che ti si
presentano.”
“Anche quando non so come fare?”
“Va bene anche non sapere come fare. Basta pensarci sopra.
Vedrai che qualcosa caverai. Sei un ragazzo in gamba. Ma mai, mai e poi mai
ignorare il problema. Mi sono spiegato?”
“Sì. Sì, ti sei spiegato benissimo.” Barcollò, tuttavia,
impallidendo appena. Da quando le cose avevano cominciato a vorticare, sotto lo
sguardo di Aldebaran, sentiva un gran mal di testa. Anche dall’arena al fitto
degli alberi aveva dei vuoti di memoria. Le scene si sovrapponevano.
“Ti sentirai stanco. Vuoi tornare a dormire?”
Seiya alzò gli occhi verso quelli di Aioria.
Si rese conto che da quando l’aveva preso per mano e tratto
dalla folla, come suo fratello prima ancora lo aveva fatto scomparire tra le
colonne della Nona Casa, era la prima volta che lo guardava per bene. Osservò
gli occhi seri e il volto pulito, e lo riconobbe, e si fidò.
Annuì, deciso.
“Ci vediamo al tuo risveglio, allora.” Il cavaliere di Leo
sorrise ancora, chiudendo poi placidamente gli occhi. Seiya sentiva che stava
cedendo, lasciando che il dolore alle tempie si oscurasse per sprofondare
nell’incoscienza. Ora che aveva capito, poteva andare. Ora che aveva compreso,
non c’era più niente da rincorrere. Annuì ancora, scoprendo che non riusciva
più a parlare.
Poi si riaddormentò.
The Carol
Somme scuse. Non sono
riuscita a postare il Terzo Canto entro la mezzanotte di venerdì, come avevo
promesso, ma sono stata impegnata più del previsto, oggi. Sono andata ad
assistere ad una laurea e mi sono divertita a fare la first lady, quindi
potreste avercela con me, ma la laurea era in Ingegneria Elettronica, voglio
dire. Sono scusata, direi, dato che sono stata punita con un sacco di circuiti.
Povero Seiya. Non intendevo
farla così angst fino a che i personaggi mi hanno fatto ciao ciao con la manina
e hanno cominciato a muoversi da soli. Sino ad ora tra l’altro gli Spiriti dei
Natali Presenti sono quelli che risollevano l’atmosfera generale, ma!, io vi ho
promesso del fluff, ricordate. E fluff sarà. Non v’è dubbio. Abbiate fiducia in
me.
Kijomi: Tesoro, credo che questo
sia stato il commento più lungo che tu abbia mai lasciato in anni e anni
di sfaccendata osservatrice di EFP! Me ne bullerò in eterno! *O* Sì, ribilancia
il karma. E non sfuggire a Shiryu. È un bilancino sì, eh! <3
Shinji: Gli imbizzarrimenti ci
vogliono, dai, senza non saprei più stare. Grazie per i complimenti, non odiare
il povero Biscio—Dragone, spucciati tutti gli spucciabili e prosegui
dickensianamente nella lettura! *C* Tivvibbì! ;O;
Kagura92: Muwahahahah! Muwahahah!
Ebbene sì! Lo ammetto! Mi hanno assoldata tutte quelle infami ditte produttrici
di dolciame natalizio! Scherzi a parte, tesoro, è bello riaverti qui. :)
Speriamo ti lasci soddisfatta. <3
Pucchyko_girl: Grazie di tutto, felice
dell’entusiasmo, felice della coccolosità che traspare. Ma i moniti! Santo
cielo, ormai dovresti averlo appurato che lo spam di crack in questa zona non
funziona! Tu ci provi, ci provi, ma guarda come io lo spolvero via. *spolver*
*C*
BianchiD: Ciao! Arrivano, arrivano
tutte, questa ha ritardato ma è stato un caso! *^* Spero proprio che ti
piaceranno anche le altre, specie quelle di Shun e Ikki, dunque. Attendiamo! :D
Himechan: LOL, Shura diventerà un
idolo pop. O jpop. Hanno sempre quell’aria un po’ depressiva, poveri. Ma vabbè,
a parte questo ti ringrazio di nuovo per i complimenti, che sono sempre carinissimi,
e ti abbraccio. <3 Alla prossima.
Malu Lani: Oh cielo, non sia quanto
mi rassicurino i commenti su Shiryu! non avendolo mai trattao prima sai com’è,
c’è l’ansia da prestazione. Questa cosa m’inorgoglisce molto. Per Seiya credo
che la faccenda sia un attimo diversa, ma, tutto sommato, speriamo di non aver
fatto un pasticcio! *O* Un bacio!
Regina di Picche: Grazie, le tue
rassicurazioni sono infinitamente preziose. *O* Come dicevo su, questo era il
turno di Seiya, e ahimé, Seiya andrebbe curato per non farlo cadere nello
stereotipo classico del raccomandato. O anche tenerlo. Che a me piace. Ma
magari fare in modo che sia più facile simpatizzare con lui. XD <3
Attendo pareri!
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Capitolo 4 *** Il Canto della Fenice ***
Un Canto di Natale
Un Canto di Natale
Capitolo 4. Il Canto della Fenice
Dove veniamo trascinati nei peggiori bar di Tokyo.
A differenza degli altri, Ikki era già sveglio quando il
primo dei suoi visitatori notturni gli fece visita. O almeno così credeva.
Non si era messo ancora niente, addosso, oltre ai pantaloni
neri da tuta con cui dormiva: se intendeva fare qualcosa, ancora sembrava
rinviare il momento; seduto sul letto con i gomiti appoggiati alle ginocchia, aspirava
quasi impercettibilmente, a piccoli sbuffi, dalla sigaretta immobile fra le sue
labbra. Era perfettamente fermo. Non aveva bisogno di usare le mani, il filtro
stretto tra i denti.
Nessun rumore per minuti e minuti. Poi, un lieve scatto
della maniglia, e una figura biancovestita si svelò, lentamente, emergendo dall’oscurità
del corridoio. Ikki aggrottò le sopracciglia. Tra tutte le persone che poteva
aspettarsi – ed arano tante, in fin dei conti – questa proprio non rientrava
nella sua top ten:
“Che ci fai, qui?”
“Ikki” lo rimproverò dolcemente una voce femminile che lui
conosceva sin troppo bene. “Stai fumando.”
“Ho aperto la finestra.”
“Non è per quello.”
Ikki squadrò la nuova arrivata da capo a piedi e dai piedi
al capo, deciso a non farsi intimidire.
Non la liquidò: stava in guardia, perfettamente deciso a non
sottovalutarla. Nessuno l’avrebbe mai detto – e lui ci teneva particolarmente
che non si sapesse – ma Phoenix non avrebbe avuto esitazioni ad indicarla come
il suo più acerrimo nemico. La sua nemesi numero uno.
Poiché lui era tipo che non amava le regole, e Lei, al
momento, era la Regola. E una Regola a cui doveva sottostare.
Oltretutto, era una Regola che vestiva come una bomboniera.
“Ikki, suvvia, spegni quella cosa” intimò Saori, infatti,
dolcissima. I suoi grandi occhi lo guardavano limpidi, senza sfumatura di
rimprovero. “Il pontefice Shion si arrabbierà.”
“Sai che m’importa” borbottò quello. Ma la spense, nel
posacenere sul comodino. L’aura di Atena lo stava soverchiando. Maledizione.
Troppo rosa tutto in una volta. “Allora? Che vuoi?”
Saori sorrise, per niente scoraggiata dal fatto che le si
rivolgesse apertamente usando il tu. Da quando quei ragazzi erano
diventati i suoi guerrieri e la sua luce, poco le importava, in verità, delle
distinzioni formali. Inoltre, sapeva che non reagendo affatto Ikki di Phoenix
si sarebbe imbestialito ancora di più. Sfoderò l’espressione più amabilmente
cortese del suo repertorio, e infatti quello s’irrigidì.
“Io sono venuta solo a farti un annuncio. Stai sognando,
Ikki, e molte cose ti appariranno in sogno. Volevo solo che mi vedessi, prima.
Ci tenevo tanto.”
“Vaneggi? Quale sogno? Io sono sveglio da oltre un’ora.”
“Questo lo credi tu.” Scosse lentamente il capo, Saori.
Chiuse, finalmente, la porta dietro di sé. Ikki si trovò intrappolato in una
stanza senza vie di fuga con la Bomboniera. Ah, ma c’era sempre la finestra. “Non è carino da parte tua covare propositi del
genere, comunque. Per fortuna ti sei addormentato prima che lo facessi.”
Ora sì, lo stava rimproverando! Phoenix strinse le labbra,
duro.
Come diavolo faceva a sapere quel che voleva fare, alzato in
piena notte?
“Ad ogni modo, non sono qui per rimproverarti. Temo che ci
sarà già chi lo farà al posto mio.”
“Beh, allora non farlo!” sbottò quello, incapace di trovare
una risposta migliore. La fissò, torvo.
Atena, leggiadra, procedeva verso l’altra, ampia finestra
della stanza, quella ancora chiusa. Lisciò con la piccola mano guantata le
pieghe della tenda, sospirò.
“Oh, Ikki, il tempo è così breve.”
“E allora dimmi cosa vuoi da me e poi vai, no? Non ti capisco.”
“Desideravo solo vederti, prima che partissi.”
“E dove dovrei andare?”
Un leggero, dolce rumore di corda che scorre. Saori aveva
tirato le tende, e Ikki non avrebbe prestato così tanto caso a quel minimo
rumore, se esso non gli avesse spalancato le porte su un lungo corridoio buio.
Tacque.
“Quella non era così, prima.”
“No” rispose tranquillamente lei. “Eppure ti ho detto che
stai sognando. Prenderai questa strada?”
“Ho scelta?”
La guardò negli occhi, andando subito al sodo.
Lei era ferma, e seria, ma non severa. Non rispose.
Fu allora che tutta la stanza assunse contorni più densi,
quasi come se si stesse chiudendo attorno a lui. Diventava più stretta; non era
più il posto in cui doveva stare. E non ci volle molto per distinguere in
quelle sensazioni tanto pressanti le volontà superiori del mondo onirico, dove
chi dorme ha ben poco controllo sugli avvenimenti.
Nel sonno o in veglia, Ikki di Phoenix era abituato a
rispondere quando si chiedeva qualcosa da lui: con un assenso senza parole, e
un passo avanti, o con un sardonico diniego. Ma era anche abbastanza sveglio da
capire quando non era in suo potere accettare o rifiutare.
Passarono diversi secondi di silenzio, in cui i suoi occhi
arsero, nel buio della stanza. Fermo come un animale braccato, guardò
nuovamente Atena negli occhi. Sentì la stanza fremere. Si mosse.
“Fai attenzione” sentì Saori sussurrare, come se fosse già
lontana.
Senza esitazioni, con passo sbrigativo, aveva imbucato il
nero di quella porta che non esisteva.
Si ritrovò solo, senza vedere. Si fermò, per ascoltare.
Niente.
In quel momento si rese conto che si era rimesso in viaggio,
per l’ennesima volta. Allora riprese a camminare, nella mente ancora la figura
bianca di Atena nel buio. Che cosa voleva dire?
Quando la luce lo riaccolse, non era esattamente la luce che
si aspettava: gialla e pallida, illuminava malamente l’angolo più dimenticato
di una città che di solito non dorme. Era un quadro innaturale, dalle tinte
nere, grigie e blu, ritratto nella china densa di una storia che si apre nei
sobborghi. Il vento soffiava, trascinando nella sua corsa carte imbrattate e
lattine vuote, che sfregavano cui marciapiedi con un eco continua e
rimbombante. Ikki si guardò attorno, attentamente. Il posto non gli era nuovo.
Rimase fermo, solido, in attesa: e non dovette aspettare granché.
“Sei arrivato. Vieni.”
Prima di prestare attenzione al suo interlocutore, si guardò
alle spalle: era appena uscito da un vicolo, sporco e buio. Non certo da un
corridoio di un ricco tempio. Strinse le labbra, senza lasciare trasparire
emozioni, e si rivolse alla sua sinistra, dove stava appoggiato chi aveva
appena parlato:
“Sì. Non avevo scelta.”
Poi, senza aggiungere altro, lo guardò prendere distanza dal
muro e uscire senza fretta allo scoperto, sulla strada, dove nessuno avrebbe
mai camminato. Il biancore della sua figura, in mezzo a tutto quel nero e
quella luce debole e malsana, semplicemente sconvolgeva.
Shaka, ovunque si trovasse, era capace di risplendere. Non
sapeva se fosse a causa della sua natura che gareggiava con quella divina, o
per la Luce che si vantava di possedere; Ikki, semplicemente, lo guardò stagliarsi
sul marciapiede imbrattato, perfettamente candido, dalla pelle intoccabile ai
lunghi capelli d’oro. Era completamente vestito di bianco, in un modo in cui
non l’aveva mai visto: sembrava un’indefinibile fusione tra abiti occidentali
ed eccentricità orientali. Una mantella lo ricopriva morbida appuntata attorno
al suo collo, nascondendo quella che probabilmente era la giacca di un completo
più sobrio.
“Vieni?” gli domandò, semplicemente.
E Ikki lo seguì. Saettò lo sguardo, all’erta, quando vide
una persona scivolare fuori da una porta malridotta, ma quello non li aveva
notati.
Si rese conto che non erano soli, che figure inquietanti,
uomini di cui non vedeva bene il volto, nello scuro, popolavano quei vicoli: era
solo un quartiere più brutto di molti altri. Ed era notte.
“Ti ho detto che non ho scelta, mi pare” rimarcò comunque,
poco dopo, lo sguardo fisso davanti. Camminavano come se non ci fosse pericolo,
in quei chiaroscuri minacciosi, pur incrociando figuri non troppo
raccomandabili. In un’altra occasione Ikki si sarebbe ben guardato le spalle.
“Sì, in un certo senso sì. Eppure no.”
“Poche storie, Shaka. Dove mi stai portando?”
“Ti sembrerà strano, Ikki” sfilava al suo fianco, placido,
senza rallentare l’andatura. Il tacco delle sue scarpe batteva, ritmico, sul
marciapiede. Anche lui guardava avanti. “Ma sono qui per portarti nel passato.
Poi ti lascerò, perché qualcuno ti mostri il presente. E poi ancora, vedrai il
futuro.”
“Non mi lasciavo influenzare dalle favole neppure da
bambino” sbottò Phoenix, duro, riconoscendo immediatamente le orme di quello
stupido racconto di Natale che era stato costretto ad ascoltare. Fulminò
istintivamente due macchie di uomini in un angolo buio che erano scoppiate in
risate ubriache. “E ora dovrei sorbirmi tutto questo?”
“Sarà dome dici” sorrise quello, senza lasciare trapelare
nulla di quel che pensava. E Ikki era pronto a scommettere un braccio che
dietro quella faccia carina stava sogghignando, il bastardo. “Eppure
siamo qui. E io devo mostrarti il passato. Hai freddo?”
“No” rispose sbrigativamente lui. Era a torso nudo, ma non
provava niente di niente.
Shaka proseguì, dunque, come se nulla fosse: “Ho dovuto
scegliere un Natale Passato, e, credimi, non è stato facile. Poi ho pensato che
non sarebbe servito a nulla tornare troppo indietro. Tu, meglio di ogni altri,
Ikki, fai costantemente i conti con il tuo passato.”
“Perché proprio tu?” mormorò per tutta risposta il giovane,
che si muoveva con scatti di belva, circospetto. Preferì domandargli quello,
che parlare di sé. Non lo gradiva molto.
Shaka lo osservò, impenetrabile, camminando.
Nella luce gialla che illuminava male le strade e le poche
persone, la pelle abbronzata di Ikki assumeva tonalità ancora più scure. Era
fatto per mimetizzarcisi, in quelle strade. Per scivolare via come un’ombra.
Rialzò lo sguardo avanti, con un vago sorriso: “Perché? Non mi vuoi?”
“Era una domanda.”
“Siamo arrivati.”
Ikki si fermò, aggrottando le sopracciglia.
“Qui?”
“Qui.”
“Hai detto che non saremmo tornati indietro.”
“Non troppo. Non abbiamo fatto molta strada, infatti.
Taci. Ascolta.”
Non ci sarebbe stato bisogno di dirlo: un rumore assordante,
di vetri infranti, riempì l’aria. Tutti i cani del circondario abbaiarono. Ikki
si voltò di scatto da dove aveva sentito il fracasso, e Shaka con lui,
voltandosi più lentamente. Un vocio eccitato, grida roche a coprire l’ululato dei cani,
un gruppo di giovani uomini a crocchio festeggiava sguaiatamente la grande
impresa. Ikki aguzzò gli occhi, il cuore già più pesante. Cominciava a
ricordare, e la sua memoria era raro che lo tradisse.
“Cos’è tutto questo baccano?” Sentire la propria voce, però,
sentirla scandire nell’aria parole come sassi scagliati con violenza lo fece
raggelare. Anche se non si mosse di un millimetro, accanto a Shaka. “Che state
facendo?”
“Un po’ di casino, daime. Vedrai che ora verranno.”
“Idioti” ruggiva bassa, la sua voce, più di quanto
ricordasse. Non li stava ancora aggredendo: era il ringhio del lupo che puntava
gli occhi sull’orso. “Questo è sporco lavoretto da ladruncoli.”
“Ma no, non prendiamo niente…”
“Si fidi, daime, adesso arriveranno. Stavamo solo
perdendo un po’ di tempo.”
“Fate come volete.” Sprezzante, Ikki si stagliava alla luce
dei lampioni, intagliato nella penombra come fosse di pietra. Lui stesso, poco
lontano, si riconobbe e assieme non si riconobbe: appena adolescente, non
sembrava affatto un adolescente, le vene in risalto sulle braccia, lo sguardo nero. Il gruppo a cui si era rivolto si era praticamente zittito,
dalla gran baldoria che faceva prima, e neppure gli aveva ordinato di smettere.
Li stava semplicemente ignorando. “Siete un branco di mocciosi.”
“Che cosa succede, qui, eh?”
“Ehi, voi laggiù… lo sapete dove siete?”
“Vi siete persi, bambini?”
Tre uomini, e uno aveva già il coltellaccio a serramanico
bene in vista. Gli altri due chissà cosa avevano in serbo, invece. Tutta storia
da scoprire.
L’intero gruppetto di ragazzi, tuttavia, sogghignò. Tutti,
tranne Ikki, in piedi immobile, che rivolse loro lo stesso sguardo che si
riserva agli insetti più schifosi.
“Non lo sapete che questa è la notte di Natale?” scimmiottò
l’uomo che aveva parlato per primo, facendosi avanti, gran nuvole di vapore dalla
sua bocca. I denti d’oro baluginarono alla luce incerta. Ikki, dalla testa del
suo gruppo, lo guardò con niente meno che disprezzo. “Perché non siete a casa,
dalla mamma? Babbo Natale non vi porterà i regali.”
Rise, sguaiatamente.
E prima che potesse finire, un destro micidiale lo atterrò,
con uno scrocchio stridente, da raggelare. Chissà che cos’aveva rotto. Il
gruppo di ragazzi, attonito dall’incredibile velocità con cui il loro capo si
era mosso, ci mise poco a fare cerchio attorno a lui. Ma allora era già
scoppiato il finimondo. Altri uomini dalle facce piene di cicatrici stavano
accorrendo, le urla a riempire i vicoli bui.
“Merda!”
“Bastardo! Prendetelo! Prendeteli tutti!”
Con somma calma, invece, uno dei ragazzi si staccò dal
cerchio e affiancò Ikki.
Da lontano, lui lo riconobbe, stringendo i denti. I capelli
scuri, spioventi sulle spalle. Lo sguardo nero come la pece. Come quello del
suo alter ego, piegato come una tigre al centro della strada, le nocche
insanguinate. Sentì e contemporaneamente ricordò, in un’eco moltiplicata dal
sogno, il sussurro al suo fianco, mentre uomini e ancora uomini si scagliavano
contro di loro, chi con una calibro 9 in mano, chi con i tirapugni di ferro, per spezzar loro i denti:
“Al tuo ordine, daime.”
Se lo ricordava.
Non chiuse gli occhi, anche se sapeva quale spettacolo
l’attendeva.
Ricordava perfettamente quell’appellativo, daime, con
cui i reietti di Death Queen Island avevano deciso di onorarlo. Era
l’appellativo onorifico riservato ai capifamiglia della yakuza, la mafia
giapponese.
Ricordava che i black saint l’avevano appreso e ripetuto
sulla piega di labbra sardoniche, nelle riunioni dense di fumo dei bassifondi
di Tokyo, quando si erano mescolati con questi uomini ricchi, violenti e
crudeli. Si rese conto di somigliare loro in maniera rivoltante: bastava essere
forte, saper uccidere, non avere pietà. Aveva imparato tutte e tre le cose, nel
suo addestramento di santo devoto alla Giustizia, e quasi con sarcasmo vi si era
gettato, feroce e inarrestabile.
Ricordava come ci si erano sparsi, in quei bassifondi,
bagnando le mani nel sangue dei mafiosi e talvolta degli innocenti. La Guerra Galattica si faceva attendere. E quei mesi di atroce attesa li aveva trascorsi
stringendo patti ed alleanze, lui, il daime, per annegare nell’odio e
ancora nell’odio, prima di andare a riprendersi la sua vendetta, memore dei
preziosi insegnamenti: Odia, Ikki.
Ricordava il massacro di quella notte.
Cigno Nero, dopo aver avuto l’ordine che tanto agognava, non
aveva avuto riguardi; ne abbatté quanti più poteva. Era assetato. Era bramoso
di compiacere il suo daime. E i rumori, i rumori di quel vicolo: i suoi
seguaci, i suoi neri seguaci dalle armature d’ombra, specchio grottesco dei
suoi fratelli, frantumavano ossa umane senza pietà. Mafiosi, reietti –
nient’altro che feccia – agonizzavano a terra in un lago di sangue. Lui, dopo
il primo colpo sferrato, non aveva fatto più niente, o quasi, bevendo immobile
la vista della strage.
La banda aveva reagito alla provocazione, invaso il loro
territorio.
Loro li avevano annientati con tutta la crudeltà possibile.
E Shaka, maledizione.
Shaka svettava bianco come un angelo, in un mare di nero e
grigio e rosso che imbrattava i muri. Non diceva una parola.
Ikki era una statua, gli occhi immobili sulla scena. Non si
era mai visto da fuori. Non si aspettava niente di diverso. Sorbì tutto senza
una smorfia sulle labbra.
“Buon Natale.” Si sentì terminare, sardonico, schiacciando
sotto il piede la testa dell’ultimo sopravvissuto. La feccia che aveva osato
ricordargli qualcosa di vagamente simile a una casa, o un genitore. “Tagliamo
la corda. Sbrigatevi, idioti!”
Il tocco gentile di Shaka gli fece voltare il viso quando
ormai stavano sparendo nella notte, e lo fece con decisione. Ikki era rigido, i
muscoli contratti, l’espressione di pietra. Era tornato straordinariamente
simile a come si era visto, feroce aguzzino. Shaka aprì gli occhi.
“Guardami.”
Lo guardò.
Non parlò, tuttavia.
“I tuoi fratelli sanno di tutto questo?”
“No.” Uscì a fatica, ma si riprese presto: “Non gliel’ho mai
detto.”
“Nemmeno a Shun?”
“Soprattutto a Shun.”
“Dovresti.”
“No.”
Le mani delicate e forti lo lasciarono. Ikki sentì i
muscoli, piano piano, rilassarsi, sciogliendosi dalla tensione di acciaio che
ci era conficcata in ogni nervo. Shaka era così bianco, in mezzo a tutto quello
schifo. Luminoso da riposare gli occhi. Gli parve di capire perché proprio lui,
ora.
Strinse i denti, forte.
“Era questo quello che volevi dirmi? A che cosa servirebbe,
ora? Ci faccio i conti, con quello che sono stato. Continuamente. L’hai detto
tu stesso, prima. O forse lo sono ancora. Chi può dirlo?”
“No, non lo sei.”
“Chi può dirlo?” ringhiò, guardandolo come se volesse
sbranarlo.
“Lo dico io” tagliò corto lui, assottigliando gli occhi
azzurrissimi, per la prima volta. Altero, lo trapassò come se fossero lame di
una scimitarra. Una mano alla spalla, secco, sciolse con un solo gesto il
drappo che lo avvolgeva, quel mantello candido così strano sul completo
elegante. Senza che potesse dire nulla, lo circondò con la sua morbidezza e il
suo profumo, tanto forte da essere pungente. Sapeva di molto lontano.
“Cosa…?”
“Vai a casa, ora. C’è qualcuno che ti aspetta, lì.”
“Nessuno mi aspetta, a casa.”
“Stasera sì.”
Ikki rimase immobile a guardarlo. Non disse nulla, ma c’era
una richiesta implicita, nell’essere così restio a lasciarlo. Sentiva i piedi
inchiodati al marciapiede.
“Non durerà a lungo. E devi andarci preparato. Non è di
certo qualcuno che ti aspetteresti.”
“Va bene, andrò” orgoglioso, si drappeggiò la mantella sulle
spalle. “Ma di questo affare non avevo bisogno.”
“Fa freddo, stasera “ rispose semplicemente Shaka, dritto,
guardandolo dall’alto in basso senza superbia, per una volta. Gli sorrise.
“Farà freddo anche domattina. Cerca di dormire con qualcosa addosso.”
Finalmente, Ikki ebbe una reazione più umana, avvampando. Lo
nascose storcendo la bocca in un’espressione oltraggiata, da incenerirlo sul
posto.
“Ah, e così saresti tu, mia madre.”
“Se desideri…”
“Oh, vai al diavolo!” Gli diede le spalle platealmente, e
dopo quest’insulto tonante se ne andò davvero, maledicendolo secco e burbero
come al solito. Shaka si limitò a sorridere, sornione, ancora una volta, senza
lasciarlo con lo sguardo sinché non sparì alla sua vista.
Ma Ikki nel frattempo imboccò diverse strade, senza voltarsi
indietro, una dopo l’altra, un macigno in petto; e non certo per il freddo. Il
viaggio fu breve, perché lui era veloce e ansioso di svegliarsi. Molto ansioso.
Trovò la porta aperta, come non sarebbe stato naturale. La
spalancò e prese fiato per apostrofare con malagrazia chiunque ci si fosse
trovato dentro; ma il sogno aveva superato di gran lunga ogni sua aspettativa. Strabuzzò
gli occhi, incapace di spiccicare parola. Vuoto totale.
“Oh, bentornato a casa. Ti sembra questa l’ora adatta? Sei ancora
un ragazzino, sai?”
Ora, Ikki di Phoenix con Aphrodite dei Pesci non ci aveva
mai avuto a che fare. Ma qualche riserva ce l’aveva.
Prima di tutto, fattosi in precoce età un misantropo della
peggior specie, mal tollerava la presenza in casa propria di qualcuno, in
generale, oltre a lui; figuriamoci di un perfetto sconosciuto.
In secondo luogo, quello aveva cercato di ammazzare il suo
adorato fratellino.
Infine, dopo tutto quello che aveva già subito nella prima
parte della nottata, lo stava forse prendendo in giro, il bastardo?
“Fuori da casa mia!” ruggì, pronto già a scagliargli
addosso l’Horyu Tensho, fantasma dei Natali Presenti, Futuri o
Congiuntivi che fosse. L’avrebbe spianato a terra e sostituito lo zerbino
all’ingresso. L’avrebbe sparato fuori dalla finestra, allargandola ed aprendo
così un ottimo condotto di aereazione supplementare.
“Ti scaldi troppo alla svelta” gli fece amabilmente notare lo
spirito, che al contrario sembrava perfettamente a suo agio. Era seduto sul
divano con l’aria affascinante dell’ospite d’onore al party più esclusivo, le
gambe elegantemente accavallate. In più, era vestito in maniera incredibilmente
elegante. Ikki boccheggiò a lungo, senza riuscire a trovare insulti peggiori di
dannato bastardo o maledetto finocchio. Se li rigirò in testa
senza riuscire a decidere quale sputargli addosso, tanto era sconvolto, così
che Aphrodite ebbe tutto il tempo per scavallare e riaccavallare le gambe.
“Che diavolo ci fai in casa mia?” riuscì a ringhiare alla
fine.
“Sono qui per darti una mano, pulcino” lo vezzeggiò
ironicamente Aphrodite. Sembrava spassarsela un mondo, il viso fine appoggiato
al dorso della mano, a godersi i cambi di espressione sempre più paonazzi del
cavaliere della Fenice. “Mi dicono che ti batti solo con gli avversari più
duri.”
“Tsk! Appunto. Levati dai piedi.”
Per niente scoraggiato dai suoi modi sgarbati, Aphrodite
sospirò, come davanti ad un bel film. E fece una considerazione apparentemente
divagante: “Non funziona, con me. Hai un modo di fare così carino. Sai, mi
ricordi moltissimo qualcuno, proprio quando aveva la tua età. Due teneri
mostriciattoli bercianti.”
“Stà attento a come parli, Pisces!” berciò, per l’appunto,
lui, più forte di prima.
Lui gli sorrise, bello in maniera scandalosa.
Ikki sentì di odiarlo.
“Allora, siamo pronti?”
“Per niente! Non vengo da nessun’altra parte, con te! E non
so cosa mi trattenga dal metterti le mani addosso! Quello che hai fatto a
Shun…”
“Quello che Shun ha fatto a me.” Gli occhi azzurri di
Aphrodite lo trafissero, tra l’indignato e il divertito. “Quel ragazzino mi ha ucciso,
Phoenix. Dovrei essere io ad avere delle rimostranze.”
“Tsk! Te lo meritavi.”
“Che tenero. Hai il complesso del fratellino minore.”
“Giuro che un’altra parola e ti…”
“Guardati attorno, testolina.” Una mano tra i capelli, una
presa di ferro. E unghie da checca dritte nella cute, valutò Ikki, rigirato
come un calzino. Sbatté gli occhi, guardandosi attorno come la mano lo
conduceva, troppo sorpreso per replicare. “Che cosa vedi?”
“Vedo casa mia” ringhiottò, proponendosi di ucciderlo una
volta libero. “Che domanda è.”
“Aha. Guardala bene, che c’è una bella luce. Mentre dormi, è
mattino, qui. Com’è, casa tua, spiumottino?”
“Più bella della tua” ringhiò più roco, rispondendo ormai
per pura ripicca – con una provocazione assolutamente inutile, tra l’altro.
Aphrodite sorrise, deliziato dalla sua impertinenza che si faceva involontariamente
più infantile, mano a mano che s’infuriava. Davvero gli ricordava qualcuno.
“Mh-mh. E spoglia. E vuota.”
“Oh, al diavolo” gli scacciò la mano dalla testa,
finalmente, con un poderoso schiaffo dei suoi. Aphrodite ritirò almeno in tempo
le dita, con lo sguardo accondiscendente del maestro che perdonerà la manata
del bambino. “Non mi sembri il tipo da venire qui e fare la morale agli altri!”
“No” sbuffò quello, appoggiando il peso su un fianco,
elegante, affettando eccessiva noia. Checca, rimarcò internamente Ikki,
studiandolo con espressione corrucciatissima. “Affatto. Sono qui solo per darti
fastidio.”
“Ci sei riuscito. Puoi andartene.”
“Oh, non ancora. Devo sincerarmi che tu l’abbia osservata
per bene.”
“L’ho fatto. L’ho osservata. Adesso vattene.”
Se ne stava in piedi in mezzo alla stanza, Ikki, le gambe
aperte ben piantate, la mantella bianca a coprigli le spalle. Ne avvertì
vagamente il profumo, mentre si voltava bruscamente per fissare male l’intruso,
e ricordò le strade nere dei sobborghi.
Pisces non era tipo da farsi impressionare dalle occhiate
truci, comunque. Passò con calma studiata la mano sul tavolo, come preparandosi
un discorso. Era tutto l’opposto del giovane bronze, slanciato, posato, i
capelli che ricadevano in onde morbide sulla linea delle spalle.
“La solitudine non è necessariamente un male. Si ha bisogno
di rimanere soli. Ma il tuo non è il mero bisogno di rimanere solo. A volte
fuggi. Volevi alzarti, questa notte, di soppiatto, e lasciare il Santuario,
sfuggire alla festa piena di luci e di persone a cui non sei abituato.”
“Che cosa? Come…” Ikki boccheggiò. Poi si ricordò che anche
Saori l’aveva rimproverato, in anticipo, per il suo proposito, pur non
dicendogli apertamente quale.
Come aveva fatto a sapere?
Poi si ricordò che quello era davvero un sogno. E capì di
non poter ribattere alle parole di Pisces. Doveva solo ascoltarlo. Digrignò i
denti, frustrato.
“E tutto questo” proseguì infatti lui, ironico, altero e
certamente con meno morale di lui, ma bello da riempire la stanza intera con i
suoi occhi e la sua voce. Quanto lo odiava. “Tutto questo per fare ritorno ad
una casa fredda e vuota. È inutile che te la prendi con me, Ikki di Phoenix.
Prenditela con te stesso. Ti senti davvero tanto marcio da non riuscire ad
affrontare una favola e i regali sotto l’albero?”
“Taci!” riuscì finalmente ad urlare.“Taci! Fuori! Vattene
subito!”
“Oh, come vuoi.” Un sorriso che si allungava, qualcosa di
molto più autentico sotto la maschera compassata. La trappola dietro i modi
affabili. Pisces si rivelava squisitamente crudele. “Io ho finito.”
Ikki si accorse che Aphrodite, senza nessuno stratagemma,
senza l’uso di abili artifici scenici né ricorsi a visioni o suggestioni, era
riuscito a sconquassarlo sin nel profondo. Prima l’aveva blandito, poi
irritato, poi provocato, e come lui aveva raccolto la provocazione ecco che si
ritrovava con la sensazione bruciante di uno schiaffo. Rimase lì, in piedi,
fermo, ansimando di rabbia. Lo Spirito del Natale Presente, sgradito ospite,
fantasma dalla bellezza irritante, raccoglieva il mantello e camminava lungo
l’atrio della sua casa come se fosse propria. L’invitato d’onore. Sfilò sino
alla porta con impeccabile grazia.
“Buon Natale, Phoenix.” Sfarfallò le ciglia delicate, prima
di un ultimo sguardo penetrante. E come se non fosse altro che un uomo, senza
niente di più che il suo impeccabile contegno, aprì la porta, ne uscì e se la
richiuse alle spalle, con uno scatto secco.
Ikki rimase fermo a lungo, sentendosi come nel centro esatto
di un vortice.
Non seppe mai quanto tempo passò prima di sentire rumori che
non fossero i suoi respiri pesanti e attoniti. Alzò gli occhi, e alla finestra
il cielo scuriva di nuovo. Rimaneva scuro. Forse albeggiava. Il tempo si era
distorto nuovamente, e lui rimaneva fermo.
Le mani strette al mantello bianco, senza provare freddo,
arretrò, sino a trovarsi con la schiena contro la parete bianca. Vi si
appoggiò. Scivolò seduto, in basso, guardando il pavimento, cercando di ricollegare
i pensieri fra loro; ma il ticchettio dell’orologio lo distraeva terribilmente.
Si fece tanto rumoroso che dovette alzare il mento, riportando lo sguardo alla
porta.
Tenne il tempo, concentrandosi su quel minuscolo ticchettio.
Contò sino a dieci. Schiuse le labbra, osservò la porta cigolare e aprirsi, il
buio rischiararsi di nuovo, la giornata stabilirsi in un momento fermo: tardo
pomeriggio, il cielo scuro. Due sagome di uomini ora occupavano la porta.
Non una. Due.
E Ikki capì benissimo il perché.
“Voi siete venuti a mostrarmi il futuro?”
Annuirono contemporaneamente. Ikki li avrebbe creduti divisi
da uno specchio, eppure li aveva conosciuti di persona: ciononostante,
trattenne un brivido. Li aveva conosciuti, ma non li aveva mai visti l’uno
accanto all’altro.
Sotto i suoi occhi, entrarono assieme, impeccabili in giacca
e cravatta. Entrambi.
“Cos’è, una specie di scherzo?”
Prima Shaka, poi Aphrodite. Entrambi, così diversi,
indossavano un completo di taglio occidentale. Ora, anche Saga e Kanon, le
spalle larghe fasciate da stoffa nera. Se prima non l’aveva notato, ora Ikki
cominciava a sentire una dolorosa fitta alla bocca dello stomaco, una fitta che
sapeva d’ironia e anche di disgusto. Erano proprio tutti tirati a lucido, proprio
come nelle riunioni di mafia. E lui ne aveva viste tante. Addosso a Saga,
l’usurpatore, e Kanon, il cospiratore, l’effetto era amplificato.
E l’immagine era così speculare da dare i brividi.
“No, non lo è” rispose sbrigativo il primo che parlò, e Ikki
riconobbe quegli occhi impazienti. Così facendo, distinse subito i due gemelli,
Kanon alla destra, Saga, ancora silenzioso, alla sinistra.
“Perché proprio voi due?” domandò, cauto, senza muoversi.
“Credo che tu lo sappia bene.” Avanzò, Kanon, verso di lui.
Quando sorrise, gli regalò uno strano affetto, con lo sguardo, affetto che mise
anche nella presa della mano, salda, da uomo adulto. Ikki sollevò un
sopracciglio, sentendosi afferrare al braccio:
“Che cosa vuoi fare?” poi spostò lo sguardo anche su Saga,
stranamente sospettoso: “Che cosa volete fare?”
“Niente” rispose lui, somma calma sui suoi lineamenti. Lui
non sorrise affatto, ma i suoi occhi erano limpidi, nel guardarlo: “Forse un
gioco.”
“Forse un gioco di ruolo. Forse un gioco delle parti”
aggiunse Kanon, conducendolo ad alzarsi in piedi. “Devi spostarti, però. Segui
me.”
“Gioco di ruolo?” Ikki saettava lo sguardo da Kanon, che lo
allontanava dalle scale, a Saga, che rimaneva fermo, seguendoli colo spostando
il viso. “Gioco delle parti? Cosa dite? Spiegatevi!”
Saga abbassò gli occhi, sotto il suo sguardo. Allungò le
mani a sistemarsi il nodo della cravatta, già impeccabile. Si girò e non volse
più loro lo sguardo.
“Saga…?” sbottò Ikki, incredulo. Sollevò lo sguardo verso
Kanon, che lo spostò dal fratello per rivolgerlo a lui. “Kanon!”
“Noi e nessun altro, Ikki” sussurrò quello, la mano salda
sulla sua spalla. “Lo sai anche tu perché, Ikki. Noi siamo simili.”
Ricordi di ombra e di oscurità, di forze del male, come una
corrente fredda. Ikki tacque.
Rasenti a una parete, la stanza si spiegava davanti ai loro
occhi. Osservavano Saga, nei pressi del tavolo, che con una carezza distratta
lo lisciava, dando loro le spalle. Ikki sentì senza motivo il battito del
proprio cuore accelerare, e cercò disperatamente di capire che cosa avesse di diverso.
“Saga! Cosa…?”
“Shht. Non ti può più sentire.”
“Saga!” esclamò una quarta voce, molto più tonante.
Tutti e tre si voltarono verso la porta, e Ikki spalancò gli occhi. Ora la
scena era molto più chiara. Ora acquisiva un senso.
“Ikki” scandì pacatamente Saga, avvicinandosi alla scarsa
luce pomeridiana che filtrava ora dalla porta. Il nuovo arrivato entrò ed
accese le luci, ed Ikki, quello accanto a Kanon, notò benissimo tutto quel che
c’era da notare: l’arredamento, di poco diverso, ma quanto bastava; il
calendario, e gli anni di più che segnava; sé stesso, sempre più alto e scuro
di pelle, lenti scure a nascondere gli occhi e barba di due giorni sul mento.
Ma quello lo impressionò al di sopra di ogni cosa fu Saga.
Saga, composto in piedi ad attendere il suo rientro a casa,
ospite inatteso in visita, aveva gli stessi occhi di sempre, profondi come il
mare; ma lo incorniciavano nuove, impercettibili rughe, da cui non riuscì
nemmeno con la forza a distogliere lo sguardo. Rughe, su quel volto da
immortale! E con sua enorme sorpresa, c’era del bianco a spruzzargli le tempie,
che carezzava i capelli sempre lunghi e sinuosi, curvi, un torrente in piena. Sorrise
al giovane che si trovava davanti, che non sembrava altrettanto sorpreso, in un
gesto cordiale. E rimasero fermi in piedi a guardarsi.
“Che ci fai qui?” borbottò Phoenix, accogliente come sempre.
“Desideravo vederti.”
“Potevi avvisarmi.”
“Così che non ti saresti fatto trovare? No, Ikki…” Non si
fece scortese, Saga, ma sospirò, appena. “Devo parlarti.”
“Siediti. Ti faccio un caffè.”
“No, non rimarrò a lungo. Volevo domandarti una cosa.”
“Domanda.” Era diventato ancora più sintetico, Ikki, se
possibile. Dal suo angolo si osservava appendere la giacca, chiudere la porta,
guardandosi con gesti apparentemente distratti attorno. Sembrava voler tenere
sotto controllo ogni cosa, lì dentro. “Ti ascolto.”
“Ti rivedremo mai più, al Santuario di Atene?” domandò Saga,
subito, con la dolcezza di un padre che chiede al figlio di tornare. Ikki
storse la bocca, ma non lo fece per maleducazione nei suoi confronti. Infatti
si diresse alla macchina del caffè, deciso ad offrirglielo comunque.
“No. No, non tornerò.”
“Ma perché, Ikki?”
“Perché non sono fatto per quel posto. Vuoi una sigaretta?”
“No, non ora, grazie. Perché dici di no? C’è qualcosa che ti
trattiene, qui?”
“Sono fatto così.” Gettò un’occhiata alla finestra, Ikki.
Parlò con voce roca e appena strascicata, togliendosi finalmente gli occhiali
da sole. Li appoggiò sul ripiano della cucina. “Né più né meno. Ci sono gli
altri, lì. Sapranno cavarsela alla grande.”
“Ikki... che cosa c’è che non va?”
Trascorse qualche attimo di silenzio. Ikki sentì la mano di
Kanon stringere ancora sulla sua spalla, rassicurante, a ricordargli dov’era.
Lasciò andare un sospiro nervoso, e si guardò rispondere: “Non c’è niente che
non va. Semplicemente, mi sento fuori posto.”
“Fuori posto?”
“Tu” smise di lavorare con le mani alla caffettiera,
facendosi improvvisamente tagliente. Era evidentemente sulla difensiva. “Tu
dovresti sapere bene come mi sento.”
Reietto. Traditore. Trasudava implicito da ogni
parola.
Saga incassò come una ferita nel fianco, infatti,
barcollando appena.
E Ikki non sembrava affatto contento di avere dovuto infierire
a quel modo.
“E qual è, il tuo posto” si fece più severo, ora Saga. Dea,
Saga. Era invecchiato, anche se di poco. E quant’era ancora forte, mentre si
ergeva. “Quale, se non il Santuario? Questo?”
“Questo quartiere” ribatté allora Ikki, caricando più d’astio
la voce, voltandosi a guardarlo dritto negli occhi. E infilò la stoccata: “E
tutto il territorio ed Est della Tokyo Tower.”
Si erse, staccandosi dal ripiano della cucina.
Era un uomo, adulto e incredibilmente forte. E completamente
disgustato dal mondo.
“Come vedi, un posto ce l’ho. E anche bello ampio.”
“Ikki, sbagli.”
“No! L’ho sempre detto. Ogni volta, e nessuno mi ha mai
ascoltato. Non sono con voi. Non combatto con voi. I reietti come
me non diventano maestri, non assistono ai cerimoniali, non benedicono le
folle. Se Shun o uno dei miei fratelli rischierà la vita, se dovrò con queste
mani combattere ancora per chi voglio salvo, lo farò. Ma non potete chiedermi
più di questo. Non sono mai stato parte del Santuario.”
“Sbagli. Anche tu ne sei parte. Atena ti vuole con sé. Tutti
ti vogliono con sé. Sei stato riaccolto molto, molto tempo fa.”
“No. Non m’interessa.”
“Come puoi parlare così?”
“Ikki, tu non ti senti ancora perdonato” interloquì una
voce, che non era quella di Saga. Il ragazzo alzò di scatto la testa, verso
Kanon: rilassato, appoggiava le spalle alla parete, guardando la scena di
fronte a sé. “Non ti senti ancora perdonato, altrimenti non saresti ancora così
scostante. Non ti senti ancora perdonato, perché, forse, qualche zona d’ombra
ancora c’è.”
“Anche tu come Shaka” ringhiò Ikki, basso, distogliendo lo
guardo dalla discussione, che proseguiva, imperterrita, nella stanza. “Vorreste
che mi liberassi di tutto. Come posso? È un carico troppo grande, ed è troppo
tardi per parlarne, ormai. Quello che è stato è stato.”
“Ma se tutto lo sporco viene epurato, Ikki, come puoi
pensare di non trascinartelo dietro per sempre?” abbassò gli occhi, Kanon,
limpidi come non li aveva mai visti. Era serio. E non pareva parlare per forme
retoriche. Lui aveva affrontato l’arma di un dio, per farlo.
Ikki si morse le labbra.
E la porta di casa si chiuse, con un tonfo. Alzò la testa:
Saga se ne era andato. La discussione non aveva avuto grande esito. Non avevano
urlato, ma si erano già separati, e la Fenice, inquieta, vagava per la stanza, in preda a grande turbamento. Si diresse a passi pesanti verso l’atrio.
“Inoltre, Ikki…” sussurrò la voce di Kanon.
Scosse vigorosamente la giacca che aveva appeso
all’ingresso, infilò una mano nella tasca interna.
Aprì un cassetto della cucina, trascinandosela dietro, la
sgomberò degli oggetti più inutili.
“…tutto ciò di cui non ti liberi…”
Estrasse una pistola. Una calibro 9.
Ce la sbatté dentro, con espressione astiosa.
“…ritorna.”
Ikki si sentì cadere.
Al tuo ordine, daime.
Non sapeva cosa pensare. Non sapeva quel che vedere.
Soprattutto, erano tutte cose che si aspettava; se le
sentiva rombare nel sangue da quella notte di massacro che aveva dovuto
rivedere, lui, nero come la notte, al fianco di Shaka, bianco e immacolato.
Ricordò, come in un sogno scomposto, la figura più bianca di tutte, che mentre
lui l’apostrofava malamente diceva: Volevo vederti, prima che partissi. È
importante.
Imprecò a denti stretti, la testa che scoppiava: credeva che
sarebbe stato in grado di reggere il peso di tutto, di tutto quello che gli si
fosse parato sulla strada. Che avrebbe pagato. E invece cercavano ancora di
trattenerlo. Si divincolò, rabbioso, d’improvviso: “Kanon, lasciami.”
Cercavano ancora di non lasciarlo scivolare.
“Kanon! Lasciami!”
Ingenui. Sciocchi. Maledizione. Maledizione a loro.
Kanon non lo lasciò affatto. Sorrise, come se stesse per
tirargli un magnifico scherzo.
E improvvisamente sentì le membra appesantite dal sonno che
stava per ripiombargli addosso.
“Lasciami… dannazione…”
Chiuse gli occhi. Sarebbe tornato all’incoscienza, e allora
non sarebbe più riuscito a scappare. Nel nero, cercò con un ultimo scatto
rabbioso, fiacco, di liberarsi, ma Kanon nel suo sogno sorrideva, astuto.
Scordatelo, daime.
The Carol
Ora capirete pure perché il
capitolo su Seiya volevo buttarlo più in caciara: se il Canto del Dragone
sarebbe stato di certo malinconico, quello della Fenice era già in progetto che
fosse bello pesante. Tuttavia, alleggerendo troppo Seiya temo che gli avrei
fatto decisamente un torto; e proprio non se lo meritava.
Daime è davvero l’appellativo con cui vengono apostrofati i
capi yakuza. Con un numerino a precederlo, chiarifica la sua posizione
in gerarchia (es. sandaime = terzo capo) Deriva dal feudale daimyo.
Ikki si sarebbe gasato moltissimo a sentirsi chiamare daimyo, mentre
spaccava la faccia alla gente, ma dubito che i black saint, pur infervorati ed
esaltati quali sono, si siano dati la pena di andare a ripescare dal medioevo
giapponese: hanno sentito dagli altri yakuza daime, e Ikki era il
loro daime. {grazie mille a LeFleurDuMal per il supporto durante
la ricerca del termine esatto! *C*}
Basta, ho finito: potete
lanciarmi i pomodori.
La storia di Ikki impelagato
nella yakuza è farina del sacco mio – e non solo mio *coff* – e non
di Kurumada, quindi potete aprire le vostre casse di articoli da ortofrutta e
scagliarli su di me, e non su di lui. Ma non provate a negare che Ikki non vi
faccia sesso in versione mafiosa perché è perfettamente inutile. Bacini. <3
(E SAGA. DEA. SAGA SULLA
QUARANTINA. DEA. DEA. DEA.) *questo
capitolo era fan service per l’autrice*
Kijomi: Grazie, mia cara, per la
splendida citazione. Ora goditi l’apparizione di Aphrodite, che, prego,
facciamo notare che non ha avuto bisogno di alcun numero da cabaret per farsi
notare. Solo la sua beltà e la sua amabile perfidia. <3
Shinji: No, no, non perdiamo la
reputazione, spucciamo il ronzino di nascosto mentre nessuno ci vede! Grazie,
tesoro, la tua approvazione ormai per me è importanteh, e lo sai. Spero che
gradirai tutto il fan service di quest’ultimo Carol, e specialmente il fan
service Gemini. Credo che farò una oneshot con Saga e Kanon in completo a
quarant’anni solo per annegare nella mia stessa bava.
LeFleurDuMal: Oh, no, commenti troppo
lunghi per una risposta approfondita! ;O; Maledetta! Farò così!
GRAZIEGRAZIEGRAZIE<3 *cascata di bacini* Ewwwwwww! Prometto che
risolverò tutto quanto! È Natale! U__U
Sakura2480: Dickens penso che
cercherebbe di forzarsi ad avere pietà di me nonostante tutto il boy’s love che
spammo, e mi manderebbe a spalare carbone. Ma ti ringrazio lo stesso. <3 E
voilà, aggiornamento puntuale! ;D
Himechan: Ma Seiya è solo
bistrattato, povera gioia. Speriamo di aver tenuto su Ikki come si meritava,
che quello lì di solito me lo coccolo sin troppo, vah, non vorrei aver esaurito
l’inventiva. …mafiahhh. *si fa i viaggioni*
beat: Beat, mia cara, ma tu sei
troppo buona! *O* Non so che cosa dire, hai lasciato un commento tanto
dettagliato che posso solo ringraziarti e sperare di avere fortuna anche con i
prossimi. Questo è stato un parto, e non sto scherzando. Ho dannato veramente
molto per avere un risultato decente. Fammi sapere prestissimo. ;)
Pucchyko_girl: Sono entusiasta di aver
fomentato comportamenti sovversivi in assemblea! *C* Brava, brava! E scusa per
l’attesa, anzi! XD Riferisci alla Luvi che in periodo natalizio sono già
sufficientemente ingozzata, difatti l’ultimo capitolo lo scriverò rotolando
ripiena di cenone di Vigilia. Alla prossima!
BianchiD: Guarda, Seiya e Marin era
un po’ che volevo vederli in azione, anche perché Marin è una tosta forte! XD
Sentivo il bisogno fisico di farla interagire. Grazie per il commento! :)
Kagura92: Anche qui commento
lunghissimo, esauriente, ricco di complimenti, e a cui posso solo rispondere
che beh, adesso arrivano persino i nostri cocchini, speriamo di non lasciarci
le penne. Io spero per i prossimi due di non fare una faticata paragonabile a
questa, perché ti assicuro che questo capitolo mi ha fatta dannare. Speriamo
che il risultato valga. Bacione!
Malu Lani: Oh! No! No! Basta!
Arrossisco! Oddio! Dai, basta così… *si oscura in un mondo di BLUSH* …ma
grazie davvero! I riferimenti li hai colti tutti, le corrispondenze fra
personaggi pure, forse anche qui qual cosina troverai. Er metà sono volute, per
metà s’incastrano da sole… che delirio! Alla prossima tesoro!
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Capitolo 5 *** Il Canto del Cigno ***
Un Canto di Natale
Un Canto di Natale
Capitolo 5. Il Canto del Cigno
Dove la bora ci porta di qua e di là senza riguardo.
Hyoga capì che era un sogno subito, da quando poggiò il
piede a terra, nel silenzio ovattato della notte nera. Lo capì dall’immobilità innaturale
delle cose, prima ancora di spalancare la finestra e venire rapito dal vento: soffiava
forte, nel sogno, il vento, molto più forte di quanto in realtà non battesse
sui tetti dei templi candidi, in Grecia. Se lo ricordava bene.
Oltre la finestra c’era il bianco, che nella notte nera si
faceva azzurro, scuro, per sterminate piane illuminate dalle stelle. Chiuse gli
occhi, e, come li riaprì, fu esattamente dove si aspettava.
“Hyoga! Sei arrivato presto.”
“Jacob.”
Gli occhi azzurri del giovane si aprirono presto a cercare
quella voce famigliare che aveva parlato. E lo vide immediatamente: Jacob era
proprio lì di fronte a lui, sempre uguale a sé stesso, allo Jacob dei ricordi
di Hyoga. Piccolo, affondato nel pelo folto del cappuccio che lo teneva al
caldo, uno o due denti mancanti nel sorriso largo. Aveva ancora i denti da
latte, Jacob, il piccolo conducente di slitte, che incitava i cani e spalancava
gli occhi davanti al ghiaccio millenario che, sotto i pugni di Hyoga, si
frantumava come vetro.
“Siamo in Siberia?”
“Sì, Hyoga. Sei arrivato presto, molto presto.”
“Devi dirmi qualcosa, Jacob?”
Hyoga sapeva che i sogni di quel genere non accadevano
perché li si cercasse, o perché la fantasia li mettesse assieme: quel genere di
sogno – nitido, limpido, in piena coscienza – ti viene a cercare sotto le
coperte per bisbigliarti all’orecchio qualcosa d’importante. Forse le persone
care lontane, forse quelle scomparse stanno cercando di avvisarti. Il viso di
Hyoga era calmo, e perfettamente tranquillo, ma interrogava Jacob con la
serietà che si addice a un cavaliere delle lande ghiacciate.
“Io no, Hyoga. Ma sono contento di vederti. Anche che sei
venuto presto.”
Sorrise, allora, Cygnus, avvicinandosi al bambino: “Anche
io. Allora mi devi portare da qualche parte?”
“Sì. Sali sulla slitta. Anche se sai correre molto più
veloce dei cani!” rise allegro il piccoletto, facendo fare un salto alle
redini. Hyoga annuì, e, senza nessuna particolare espressione, salì.
Gli animali erano all’erta, l’aria fischiava. Il ragazzo non
sapeva bene cos’aspettarsi da quell’azzurro sterminato che la slitta fendeva. Non
disse nulla, non si mise in guardia, non si guardò attorno, ma era notte, e la
notte, nei sogni, non prometteva nulla di buono. La notte era l’oscuro e il
nascosto, l’inconscio, il desiderio e la paura.
Alzò la testa a guardare le stelle, schiudendo appena le
labbra, bevendo il vento che non sentiva. Come sospeso.
Si mise a delineare le costellazioni con gli occhi, perdendosi
nei meandri della sua mente.
Era la prima volta che vi s’immergeva così coscientemente,
sulle scie della neve.
Riconobbe le costellazioni meccanicamente.
“Siamo quasi arrivati.”
Orsa maggiore.
“All’isba?”
Orsa minore.
“Sì. Lì incontrerai il primo dei tre spiriti. Ma tu sei
forte, Hyoga. Non è vero che sei forte?”
Lira.
“Tre spiriti?”
Croce del Nord.
“Lo Spirito del Natale Passato, lo Spirito del Natale
Presente, lo Spirito del Natale Futuro.”
Cefeo.
“Come nel Canto di Natale.”
Cassiopea.
“È qui.”
Andromeda.
La slitta frenò.
Jacob sorrise, con i suoi adorabili dentini da latte. Ne
mancava qualcuno, come sempre. Hyoga lo fissò a lungo, poi gli allungò una
carezza sulla testa, attraverso il cappuccio imbottito.
“Grazie, Jacob.”
“Ci vediamo, Hyoga!”
E la slitta ripartì, lasciandolo da solo con gli spiriti.
Hyoga non aveva paura. Sapeva solo che la notte, nei sogni, non porta niente di
buono. Si voltò, alla ricerca di una figura a cui fare riferimento; c’era l’isba,
sola in mezzo all’immensa Siberia. Nient’altro.
Vi girò attorno, attento. Sapeva che Jacob era stato un
messaggero, un ponte che il suo inconscio aveva scelto per portarlo lì, proprio
lì. Proprio in quel luogo, in quello e in nessun altro. E quale altro, d’altro
canto, avrebbe potuto risvegliare memorie importanti? Ricordava perfettamente
il Natale in Russia, anche se confondeva un anno con l’altro. Era impossibile
non scinderlo dal Natale in Giappone, così diverso…
“Maestro, maestro Camus!”
Hyoga appoggiò le mani sul vetro spesso della finestra,
guardando all’interno. Era come appoggiare le dita su uno scrigno, ugualmente
freddo, da tastare tra le dita sino al momento di scoperchiarlo. Gran parte del
suo passato per lui non era che questo: memorie custodite in un cofanetto
prezioso, da aprire con cura e serbare nascosto; la similitudine di sensazioni
lo provò tanto che dovette chiudere gli occhi.
“Non ascoltatelo, maestro Camus! Ho ragione io!”
“No, ho ragione io!”
“No, io!”
“No, iooo!”
“Ragazzi, un po’ di contegno. Su che cosa discutete?”
“Hyoga dice cose stupide” riassunse Isaac, non trovando di
meglio da argomentare.
Hyoga riaprì gli occhi, allora, per guardare attraverso i
vetri gelati. Camus dell’Acquario, maestro e mentore, sorrideva conciliante ai
due bambini che si agitavano a tavola. Isaac – oh, lo ricordava bene, Isaac –
prima di essere un ragazzo fiero e muscoloso era stato un bambino sveglio e
scattante, e, come tutti i bambini, facile a scaldarsi. Nulla a che vedere,
però, con l’altra pallina bionda saltellante al suo fianco: “Non è vero! Non è
vero! Non dico cose stupide! È Isaac che dice le stesse cose che dicevano in
orfanotrofio, ma sbagliavano, si sbagliavano tutti! Dice che Nonno Gelo abita
in Finlandia! Secondo me lo dice solo perché ci abitava lui, in Finlandia! Non
è vero! Nonno Gelo conosce tutte le strade di Mosca, e non vola sulla slitta!
Va a piedi!”
“È vero, invece, abita in Lapponia! E non si chiama neanche
Nonno Gelo, ti ho detto… Maestro Camus, ditegli qualcosa!”
“E non è neanche vero che ha il vestito rosso! Nonno Gelo ha
il mantello blu! E la veste blu!”
“Maestro Camus! Non sta zitto!”
Non solo non stava zitto. Il futuro cavaliere del Cigno si
era praticamente arrampicato sulla tavola, le sopracciglia contratte in
un’espressione serissima. E stava anche, ad occhio, per raggiungere la soglia
degli ultrasuoni: “Ma maestro Camus, è Isaac a dire cose stupide! Secondo voi
le renne possono volare?”
“Ma vuoi stare zitto?” Isaac storse la bocca e si tappò le
orecchie.
“Hyoga, Isaac. Con calma, per carità.” Camus ebbe la buona
idea di placare gli animi, una mano a capoccia. Abbassò entrambe le testoline
calde, riscuotendo il silenzio. “Parlate di Santa Claus, non è vero?”
Hyoga, fuori dalla sua finestra, ebbe quasi un singulto.
Il maestro Camus, l’algido, grande e forte maestro Camus non
poteva avere più dell’età che aveva lui adesso. Se ne rendeva conto solo ora,
dopo tanti anni, a guardarlo con le mani sulla testa di due bambini.
“Ah, visto che anche maestro Camus lo chiama così? Avevo
ragione io.”
“No, Isaac. Santa Claus è solo il nome con cui è più
conosciuto.”
Una carezza veloce ad entrambi, con cui Aquarius la ebbe
vinta, e un nuovo sorriso, estremamente adulto. Camus si allontanò di nuovo per
andare a controllare il pentolino sul fuoco, senza smettere di parlare: “Qui in
Russia Santa Claus non passa la notte di Natale, bensì quella di Capodanno. E
Hyoga ha ragione a dire che qui non si chiama neppure Santa Claus. Lo chiamano Died
Moròz, Nonno Gelo, e porta i doni senza la slitta. Cammina…”
“Cammina a piedi per tutte le vie di Mosca!” s’intromise
Hyoga, gli occhi brillanti. Come dimenticandosi dell’acceso diverbio, si
rivolse a Isaac come se gli stesse raccontando una favola: “Tutto carico dei
suoi pacchi! Altro che renne.”
“Smettila con quella storia delle renne.”
“Ma Isaac, sei tu che credi che le renne volano.”
“Smettila! Non ho detto questo.”
Era arrossito come un peperone, il piccolo guerriero dei
ghiacci.
Hyoga rise, mentre Camus continuava a rimestare in un
pentolino, senza fretta.
“E in orfanotrofio, Hyoga?” interloquì dopo un poco.
“Dicevano le stesse cose di Isaac?”
“Sì, maestro. E ci facevano festeggiare il Natale in una
data strana.”
“Non è una data strana. So che tu probabilmente l’hai sempre
festeggiato in gennaio, ma in Occidente il Natale cade il 25 dicembre, non come
in URSS, che ha un calendario diverso. Il Giappone ha acquisito questa
festività dalla cristianità cattolica.”
Hyoga all’epoca ci aveva capito poco.
Solo che gli altri avevano un calendario fatto male.
“Ma è sbagliato.”
“No, Hyoga. È solo diverso.”
E con questa saggia considerazione, fu servita la
cioccolata in tazza.
Hyoga e Isaac si zittirono di colpo, perché non sarebbe ricapitato
presto di poter godere di una rarità del genere. Muti, anche quando le ebbero
in mano esitarono per fissare con occhi da bambola il liquido denso e dal
profumo delizioso che riempiva la stanza. Camus sorrise di nuovo, appena.
Sapeva benissimo che i ragazzi non si aspettavano abeti
addobbati, né regali avvolti in carte luminescenti. Avevano imparato da un
pezzo, bambini non più bambini, che genere di vita stavano per intraprendere:
proprio per questo, in virtù della loro assenza di pretese, aveva estratto
dalla dispensa quello che era più unico che raro potere procurarsi, in quella
landa senza vita, e offrirglielo così, senza spiegazioni. Era stata una bella
pensata, a giudicare dai faccini inebetiti dal profumo dolce.
“Maestro Camus. La cioccolata è per Nonno Gelo?”
“Sì. Diciamo di sì.”
E con questo, ebbero il benestare che serviva loro.
Affondarono voracemente i cucchiai per accaparrarsi la cioccolata, a sprezzo
del pericolo di scottarsi la lingua. Infatti se la scottarono parecchio.
“Ma Nonno Gelo…” riprese a conversare Isaac, incuriosito,
ora che il dibattito era stato sedato e blandito con la cioccolata. Intanto dava
aria anche alla lingua scottata. “…come fa a portare i regali tutto da solo, se
non ha la slitta?”
“Ha un’assistente” rispose prontamente Hyoga, a bocca piena.
Camus, in silenzio, lasciò la stanza. Hyoga, all’improvviso,
si sentì avvolto da una pesantezza fredda, consapevole, che gli fece piegare le
dita sul vetro. Chiuse gli occhi, il cuore che batteva forte, aspettandosi di
sentire cigolare la porta. La sentì.
“Uno solo?”
“Una sola” corresse la sua vocetta da dentro. “Ed è giovane
e bella.”
“Giovane e bella” confermò una voce più profonda, al suo
fianco, ora. Hyoga annuì, la fronte ormai contro il vetro. Lo Spirito del Natale
Passato era uscito da quella casa accogliente per raggiungerlo. “La piccola Snjegòrushka.”
“Sì.”
“Ci credevi, Hyoga?”
“Sì, maestro Camus.”
“Credi che sia qui per rimproverarti?”
“No. La vostra voce è calma, e non lo credo affatto.”
“Allora perché non ti volti a guardarmi?”
Hyoga lo fece, lentamente, ma solo perché era restio a
togliere gli occhi da quella scena calda. Vi si era immerso come in un racconto
già letto molte volte, ma sempre amato. Guardò in viso Camus, scuro nella notte
siberiana, ma dagli occhi luminosi. Non era più giovane come quando l’aveva
preso per mano e condotto ai ghiacci eterni che doveva imparare a sfondare; era
il Camus rigido e altero che presiedeva il tempio dell’Acquario in cui era
morto. Ma non c’era severità in lui, ora.
“Scusate. È bello rivedervi, maestro.”
“Di nuovo, santo di Atena, ti perdi in ciò che è stato.”
“Non l’ho fatto apposta. Questa volta, è un sogno. Credete
che me lo sia andato a cercare?”
“No. Ma come ogni volta che sfiori il tuo passato, tu
indugi.”
“Snjegòrushka?” vociò Isaac da dentro, squillante
come un campanello. “Che nome è?”
“È un nome bellissimo! Snjegòrushka vuol dire fiocchetto
di neve…”
“Ti ricordi di Snjegòrushka, Hyoga?” domandò Camus,
sulla voce dei bambini. Hyoga annuì, senza una parola. Quindi proseguì lui, quasi
con dolcezza, nel vento della bora che lo rendeva quasi indistinguibile, nel
buio. Ma Hyoga aveva la sua voce, la sua ferma voce: “L’hai vista, questo
Natale di qualche anno fa. I tuoi occhi stanno per alzarsi dalla tazza e
posarsi su di lei. E poi correrai fuori nella neve, chiamandola a gran voce. Ti
ricordi?”
Un rumore di porta che sbatte. Isaac lo chiamava, agitato.
Hyoga non ebbe bisogno di guardare per vedere il bambino che era stato correre
a perdifiato nella neve, inseguendo una visione.
“Ho sempre creduto che mia madre fosse Snjegòrushka.”
“Mh.” Camus sembrava sorridere. “Perché?”
“Perché era giovane, e bella. Perché disponeva per me i
regali sotto l’abete addobbato. Perché si muoveva come un fiocco di neve,
danzando per le vie di Mosca.”
Il vento soffiava, forte. Hyoga non guardava Camus in viso.
“Ho creduto di vedere mia madre, fuori, nella neve.”
Cadde un silenzio che non era un silenzio, riempito dalle
grida dei bambini, e poi, soffocato, di qualche singhiozzo. Non c’era bisogno di
guardare, per ricordarsi dell’angoscia che l’aveva preso in mezzo al buio e al
gelo, la figura sfuggente di Natassia riapparsa per non tornare; e anche se non
l’avesse ricordata, poteva perfettamente indovinare. Camus rimase in silenzio a
lungo; poi si avvicinò a Hyoga, allungando una mano, pallida e delicata, al suo
viso.
Il santo di Cygnus spalancò gli occhi, pure nel vento, a
quel gesto tanto affettuoso. Camus non disse nulla, i capelli tanto rossi
nell’aria, sorprendenti come un’aurora boreale. Lo accarezzò lentamente, però, il
viso contratto in un’espressione sera.
“Hyoga, apparterrai sempre a questo posto. Quello che ti
volevo dire, dopo tanto tempo, è che ritengo che tu sia pronto per una prova
ulteriore, dopo tutto quello che hai passato. Dopo tutto quello che è stato
detto. Dopo che abbiamo alzato la mano l’uno verso l’altro…” abbassò la voce in
toni quasi impercettibili. “…affinché tu potessi diventare tanto forte da
superare il tuo passato. Ora ti resta solo una cosa da fare, dopo averlo
superato.”
“Che cosa… che cosa, maestro Camus?”
Gli occhi di Camus scintillarono, nel buio. I singhiozzi
infantili riempivano l’aria, sempre più vicini: stavano rientrando in casa. Il
quel momento, Hyoga seppe che stava per lasciarlo. Schiuse le labbra, allungò
le mani per trattenerlo, pentendosi di non aver capito subito: voleva parlare,
voleva parlare ancora con lui…
Ma Camus, due dita fredde sui suoi occhi, gli abbassò le
palpebre, con una carezza.
“Non dimenticarlo.”
Il vento cessò.
Improvviso come si era alzato.
“Maestro…?” chiamò Hyoga, nel buio. “Maestro!”
“È rimasto.” Scandì una voce conosciuta, che fece rilassare
subito a Hyoga i muscoli. Si era involontariamente teso, pronto a scattare. “È
rimasto in Siberia, che è il tuo passato, giovane santo. Adesso sei nel tuo
presente, al Santuario. E quello di cui hai bisogno è una guida.”
Cygnus si rese conto di poter aprire gli occhi. Lo fece, lentamente,
stupendosi e contemporaneamente non stupendosi affatto di chi si trovava di
fronte. Un sorriso accogliente, lo stesso di quando aveva spalancato la via
alle Dodici Case, come un prato ricolmo di fiori. Eppure, avrebbero incontrato
la morte.
“Sommo Mu.”
“In persona. Ti starai chiedendo perché io.”
“Non… mi ero posto nessuna domanda del genere.”
“La risposta, Hyoga di Cygnus, è…” raccolse il mantello, il
Santo dell’Ariete, aprendogli la via alle scalinate, come aveva fatto molto
tempo prima. Sembrava un mago, un mago dal sorriso dolce, che srotolava un
tappeto incantato. “…il luogo stesso.”
In silenzio, Hyoga lo seguì. Le scale parevano infinite, ma
poteva solo seguirlo.
Mu era le scale, e assieme, la guida. Dietro di lui, Hyoga compì
un viaggio lunghissimo che durò un battito di ciglia.
“Il luogo? Questo?”
“Sarò tua guida.”
“Per il Santuario?”
“Sì. Perché il tuo presente, più che mai, è qui.”
“Spiegati, sommo Mu. Te ne prego.”
Le colonne bianchissime nella notte si moltiplicavano.
Nessuna angoscia a pervadere il cuore di Hyoga; il ragazzo camminava,
instancabile, ma lentamente impercettibili nodi cominciavano a sciogliersi,
dentro di lui. Tante piccole domande che non sapeva di avere in testa e nel
cuore.
In quella lunga salita per il bianco e l’oro, le pose tutte
a Mu, che con incredibile naturalezza rispondeva. Cominciando con un sorriso, e
parole dolci.
Così simile al suo maestro, Shion, dalla pelle luminescente
e gli occhi di stelle, lo condusse sempre più in alto, senza fare rumore: “Più
che mai, ora, tu appartieni a questo luogo.”
“Non capisco.”
“Tu capisci, invece. È che ancora non vuoi vedere.”
“Che cosa?”
“Che il tuo passato è altrove” un passo dopo l’altro,
gradino dopo gradino. Hyoga proseguiva, gli occhi grandi, la bocca semichiusa,
come ad assorbire le verità che gli venivano rivelate dal custode delle porte
del Grande Tempio. “E che il tuo presente è qui.”
“Perché adesso mi trovo in questo luogo.”
“Adesso più che mai. Ma sono solo per porte che si
dischiudono per il futuro. Lo sai.”
“Maestro Camus mi ha detto…”
“Non il maestro che hai incontrato in sogno.”
“No. Me l’ha detto giorni fa.”
“Che cosa ti ha detto?”
“Che ha in serbo qualcosa per me.”
“Tutti noi abbiamo in serbo qualcosa per voi, giovane
Cygnus. Ma forse tu ne sei il più consapevole.”
“Perché?”
“Perché hai visto il tuo maestro, nell’isba lontana,
hai visto i suoi occhi e la sua voce. E ti sei riconosciuto.”
A Hyoga batteva forte il cuore. Camus. Che nell’isba aveva
appena la sua età. Era come lui.
La comprensione cominciava a scorrere, a fluire attorno al
suo cuore, dentro la sua testa, e non riusciva a parlare. Fissò Mu.
“Era lui ed eri tu. Santi di Atena. Maestri.”
Fissò il Santuario.
“Sono ancora troppo giovane per essere un maestro.”
“Non è vero. E l’hai capito esattamente in quel momento.”
Erano alle porte del Tredicesimo Tempio. Era stato un
viaggio durato il tempo di un soffio. Mu non si fermò neppure allora, infilandosi
tra le porte solide, scivolando silenzioso nei corridoi. Il sogno si faceva
tanto più nitido, da quelle scalinate bianche senza tempo, alle porte dietro le
quali dormivano i fratelli di Hyoga. Parve come riscuotersi, il quel momento,
quasi fosse sveglio e stesse camminando la notte preso da insonnia. Ma davanti
a lui c’era Mu.
Allora capì perché Mu.
Perché Mu era il luogo.
Mu di Aries che aveva loro spalancato le porte del
Santuario, nella mente di Hyoga, era il Santuario stesso. E anche il suo
presente lo era: santo di Atena, maestro.
Maestro?
“Mu. Mu, c’è qualcosa che vuoi dirmi?” esclamò, cercando di
raggiungerlo. Mu sfiorava dolcemente la maniglia di una porta, come se avesse
paura di disturbare il sonno di chi la occupava. Hyoga aveva la testa che
frullava di pensieri. Cercò di afferrarlo. “Che cosa significa, maestro?
Che cos’ha in serbo Camus per me? Tu lo sai?”
“Lo sai anche tu, ormai l’hai capito. È inutile che continui
a farmi domande.”
“Ma così io non saprò mai…”
“No. Il mio compito era solo quello di farti comprendere
qualche cosa, nell’infinito groviglio si sentimenti che ti porti sempre
appresso. Quello che verrà, è già futuro. E io dunque non ho più senso di
essere. Domanda a chi verrà dopo di me.”
“Stai per andartene?”
“Oh, sì.” Il sorriso di Aries era dolcissimo, ma non voleva
dire nulla. Hyoga si chiese perché non l’aveva mai notato prima. “Ma prima devo
farti vedere qualche cosa ancora, Cygnus.”
La maniglia, piano, senza un suono, si abbassò.
Hyoga non riusciva a ricordare di chi fosse quella stanza.
“Non solo il Santuario e le sue scalinate di marmo occupano
la tua mente, nel tuo presente. C’è qualche cosa d’altro ancora che hai
lasciato insoluto. Su cui il tuo pensiero vaga e non si sofferma.”
“Io…”
“Entra ed affrontalo. Ti basteranno gli occhi. Cygnus, tu
già sai: io non ho dovuto fare niente. Solo metterti in grado di vedere.”
E improvvisamente, quella porta chiusa assunse un grande
significato.
Hyoga deglutì: sapeva, sapeva eccome. Ma ancora non vedeva.
“Buona fortuna” sussurrò Mu, un ultimo sorriso che si
dileguava. Chissà se era per incoraggiamento, chissà se per scherno. Lo
facevano molti sogni crudeli.
Hyoga si ritrovò dentro, fermo immobile.
Shun dormiva profondamente.
Lui rimase in silenzio a lungo, deglutendo, in difficoltà.
Abbassò gli occhi. Li rialzò su di lui.
Dormiva placido, sommerso dalle coperte, appena
rannicchiato. Era come aveva detto Mu: davvero Cygnus non aveva bisogno di
comprendere, di nuovo: solo di vedere. La sua presenza lì era già un’ammissione
molto più grande di qualsiasi pensiero tenuto nascosto nel suo cofanetto
prezioso.
“Beh, carino è carino, non trovi?”
Pensò di perdere almeno tre anni di vita.
Quando si voltò verso la figura che sedeva in un angolo,
gambe accavallate e sorriso scanzonato, lo fece tenendosi la mano sul cuore,
vergognosamente colto di sorpresa. Aveva praticamente i capelli ritti in testa.
“Mi… Milo! Sei tu!”
“Sono lo Spirito del Natale Futuro” sciorinò lui, con l’aria
di divertirsi un mondo. “E sono qui per mostrarti il futuro. Quante cose in
sospeso, Hyoga, quanta confusione ti hanno messo in testa. Io sarò più
tranquillo, lo prometto.”
“Ma… io… ah… hm… e Shun…?”
“Oh, dorme. Non ci sente. Vieni con me. Ce ne andiamo molto
più lontano da qui!”
Con sua somma sorpresa, Milo lo prese subito per mano. Fu un
contatto caldo, genuino, svelto: gli strizzò l’occhio, e lo trascinò via. Un’ultima
occhiata a Shun, e Hyoga fu travolto dalla neve, uscendo dalla porta. Lanciò un
gemito di puro sbigottimento.
“Nevic—ah!”
“Ah, sì, quest’inverno ha nevicato molto!” Milo rise, senza
smettere di tenerlo per mano. Praticamente, correva; tanto che Hyoga non capiva
neppure dove fossero. Per quanto la sua rigidità gli impedisse un contatto
tanto confidenziale, così, all’immediato, il Cigno, col groppo in gola, dovette
per forza aggrapparsi a lui, per tenergli dietro. Finì per sentirsi di nuovo
bambino, stretto per mano a Milo, che correva nella neve senza un problema al
mondo, tenendolo forte per non lasciarlo andare. Non era una sensazione
spiacevole.
“Milo!” riuscì a gridare, nella corsa. Fiocchi di neve
vorticavano tutt’attorno a loro, e ancora più attorno, a circondarli, c’era la
città. “Dove mi stai portando?”
“In un posto che non conosci!” esclamò, la voce caldissima.
Hyoga lo strinse di più, quasi vergognandosene.
“È il futuro? Che cosa vedrò?”
“Qualcosa di bello” promise Milo, due occhi azzurri scintillanti,
nella neve. Il mare nel bianco. Hyoga rallentò il passo con lui, incredulo, con
il fiatone, quando gli fece una rivelazione sorprendente: “Perché ho deciso di
mostrarti solo il futuro che ti meriti.”
“Che… che cosa?”
“Tu devi capire, Hyoga” Milo si avvicinò al davanzale della
casa che avevano raggiunto. Allegramente, quasi, ne spolverò giù la neve, per
avvicinarsi, e curiosare oltre il vetro. “Devi capire che il futuro ha in serbo
solo meraviglie per i giovani come te. Vieni, vieni a vedere.”
“Quindi questo vuol dire… che non è proprio il mio futuro?”
“Certo che lo è” gli fece cenno nuovamente di avvicinarsi.
“Se saprai comportarti a modo.”
“Mmmh.”
“Quel ragazzino, Andromeda, che stavi guardando attentamente
nel sonno…”
Hyoga, che aveva cominciato a darsi da fare per raggiungere
Milo, gli scarponi che affondavano nella neve, si bloccò, assumendo
un’interessante tonalità color fanale. Non riuscì a spiccicare parola. Milo,
per tutta risposta, notandolo, ghignò: “È carino.”
“Hm.”
“Perché non gli dici quello che ti frulla in testa da un
po’?”
“Perché… non so. Perché sono ancora confuso” riuscì a tirare
fuori, sorprendendosi anche solo del fatto di riuscire a dirlo. Senza dubbio,
era un sogno. Boccheggiò, cercando aria fresca, e poi chiuse gli occhi. Dirlo a
Milo, nella neve che cadeva, a larghe faloppe, era così semplice, così
naturale: “Non è semplice esprimere quello che sento.”
“E così preferisci tenerlo tutto per te. È vero. È sacro. È
prezioso. Ma comporta grossi rischi. Perché non ti abbandoni, per una volta, a
seguire l’istinto al primo colpo?”
“Perché sono fatto così” borbottò piano, Cygnus, riuscendo
finalmente ad accostarsi a lui, i piedi a scrollare la neve che gli si
accumulava addosso. Mentre lo diceva si sentì tanto, incredibilmente,
vergognosamente adolescente. Milo dovette pensare la stessa cosa, dalle pacche
intenerite con cui lo fece avvicinare di più, sfregandogli affettuosamente la
schiena. Come un fratello maggiore.
“Lo so, Hyoga. Però la vita ti può riservare davvero grosse
sorprese. Guarda dentro.”
Hyoga esitò, prima di guardare. Con espressione concentrata,
allungò una mano a ripulire il vetro dalla brina e dallo strato di vapore
addensato al di fuori. Dentro, rimaneva leggermente opaco, ma quanto bastava
per guardare. Trasalì, al vedersi seduto su una poltrona, a leggere chissà
cosa, le spalle curve.
“Quello sono io.”
“Eh, sì.”
Suonò il campanello. Hyoga, da chinato che era, si alzò,
stiracchiandosi, per andare ad aprire la porta. Lui stesso, da fuori, più
piccolo, poté vedersi meglio, un giovane adulto dal passo disinvolto, a proprio
agio nella propria casa. Si guardò attorno, distogliendo un attimo lo sguardo.
Sì, era Tokyo. Ora non aveva più dubbi.
“Ehi. Buon Natale” lo distrasse la propria voce, all’interno,
incredibilmente diversa. Sensuale, calda, addirittura: era accompagnata da un
sorriso sulle labbra che non si era mai visto in volto.
“Buon Natale a te!” trillò un’altra voce conosciuta, anche
questa più bassa. Ma Shun non era capace per natura di rimanere troppo rigido:
lo vide entrare a grandi passi, e, per prima cosa, buttargli le braccia al
collo, ridendo.
“Hai fatto presto.”
“Io faccio sempre presto” increspò le labbra in una piega
imbronciata letteralmente adorabile, Andromeda, sotto gli occhi increduli di
Hyoga, che guardava da fuori e lo riconosceva, e assieme non lo riconosceva
affatto. L’altro, però, senza alcun imbarazzo né perplessità di alcun tipo, gli
cinse morbidamente i fianchi, allargando il sorriso.
“Sì, sì. Sempre.”
“Bene. Mi hai preparato gli ingredienti per i biscotti?”
“Sì.”
“E tutto l’occorrente?”
“La cucina è tua.”
Vedersi con uno sguardo talmente profondamente innamorato,
per un adolescente, è dura. Hyoga, incredulo, non sapeva se arrossire sino alla
punta delle orecchie, boccheggiare sconvolto, alzare le sopracciglia sino ai
limiti della propria costellazione. Probabilmente stava facendo tutte e tre le
cose, considerata l’aria divertita che prendeva Milo a sbirciare le sue
reazioni.
Shun rideva, cristallino. Non era la stessa risata alta e
innocente in cui poteva irrompere adesso, a uno scherzo divertente, alla gioia
di vedere un prato ricolmo di fiori. Era più matura, profonda, ma sempre incredibilmente
chiara. Con sommo sgomento di Hyoga, il cavaliere di Andromeda gli diede l’assalto
arrampicandosi con implacabile destrezza fra le sue braccia, sino a
ritrovarcisi appollaiato in mezzo. Gli passo le braccia attorno al collo, con
un sorriso altrettanto adorabile quanto il primo che gli aveva rivolto.
“Allora? Non mi ci porti?”
“Ah, subito” si sentì sbuffare, scherzoso. “Cosa non si fa
per una teglia di biscotti.”
“Veramente sono per tutti!” protestò, acuto, l’altro, senza
riuscire a mascherare l’ilarità, ma la voce andava già sfumando: si stavano
spostando altrove, senza troppi impedimenti nonostante il groviglio strano che
avevano formato. Hyoga si vide sollevare Shun dall’onere di camminare con le
proprie gambe da una stanza all’altra, e lo portava in cucina in braccio.
“Beh, niente male, Hyoga. Qui avrai venti, ventun anni, all’incirca.
L’età del tuo maestro, direi. Hai visto che bell’uomo che sei diventato?”
“Non capisco” borbottò quello, fermo piantato davanti alla
finestra come un lampione “se sono diventato il suo… fidanzato, o il suo
schiavo a vita.”
Milo rise, di cuore, a quel tentativo di sdrammatizzare. E fu
quello che ci voleva, perché Hyoga prese a grattarsi la testa, imbarazzato, sì,
ma accennando un sorriso. Almeno aveva alleggerito un po’.
“Probabilmente entrambe le cose” dichiarò serissimo lo
Spirito del Natale Futuro, gatto sornione appoggiato al davanzale. “Prenderà
presto possesso di te e non potrai più tornare indietro.”
“Parli come se sapessi.”
“So di quel che parlo.”
“Milo, io… ti sono grato per questa visione del futuro. Anche
se non so se si avvererà.”
Hyoga abbassò gli occhi azzurri sul davanzale la neve cadeva
talmente fitta e a larghi fiocchi che si sentiva letteralmente ricoprire. Attorno
a lui non c’era più niente: la casa, la città. Niente.
Abbassò le palpebre. Chissà cosa sarebbe successo, a
lasciarsi sommergere dal bianco. Così morbido e puro, per sempre…
“Si avvererà, Hyoga. Non sono apparso nei tuoi sogni per darti
delusioni: si avvererà se saprai comportarti nella maniera giusta. Se saprai ammettere
i tuoi sentimenti, che già conosci, perché ho visto l’emozione con cui hai
guardato in questa finestra; se oserai finalmente sperare, bambino
disilluso; se avrai il coraggio di levare la voce.”
“La fai così facile…”
“No. Non è facile. Non è stato facile neppure per me. Ma che
cos’altro potevo fare?”
Hyoga si voltò lentamente, nella neve. Tutto era bianco,
enormemente bianco.
Milo sorrideva, spirito durato nella neve: “Combatti,
Cygnus, per ciò in cui credi. Se io ho piegato il custode delle energie fredde,
il Maestro dei Ghiacci, oh, tu non avrai bisogno di arrivare a tanto. Fidati.”
E poi rise. Una risata bellissima, piena.
Hyoga li vide, Scorpio e Aquarius, senza vederli.
Schiuse la bocca, ammaliato, senza sorprendersi.
“Milo…” un sussurro, appena. “…tu credi?”
“Io credo sempre.” Milo abbassò la voce, catturando il suo
sguardo, magnetico, le labbra dischiuse. Sembrava talmente interessato, così
fisso e immobile, che il Cigno non riuscì a distogliere l’attenzione da quegli
occhi, paralizzato. “Non te lo ricordi, Hyoga? Me l’hai detto tu. Tempo fa. Sogno
non è sinonimo d’impossibile. In quel momento ho capito, e l’ho sempre
pensato, che noi due, in fondo, ci assomigliamo.”
Non serviva altro, ora, mentre il vento non era più vento.
La bora l’aveva portato in tre posti diversi, tutti lontani,
e ora si placava.
“Allora io…”
“Allora tu devi tornare, Hyoga, ed essere felice. Camus ti
ha insegnato a fare tesoro del tuo passato, dopo averlo superato, perché ormai
sei pronto per farlo. Mu ti ha insegnato ad aprire gli occhi sul presente. Io voglio
che tu ora sia felice.”
Hyoga sentì gli occhi riempirsi di lacrime, ma non poté
piangere.
Il freddo aveva reso insensibile le sue guance, il suo
volto.
Si accorse che la neve l’aveva davvero ricoperto.
Che finalmente avrebbe saputo com’era, perdersi in un mondo
bianco, freddo e lucente. E puro, come l’idea stessa della purezza. Pulito e
confortante. Chiuse gli occhi, respirando come se respirasse per l’ultima
volta.
“Chiudi gli occhi e dormi, bambino” sentì l’ultimo sussurro,
e chissà se era di Milo, di Camus, o di sua madre, addirittura, dagli echi di
un tempo lontanissimo. “Sarà un meraviglioso Natale.”
Il vento smise di soffiare.
E il silenzio calò come neve.
The Carol
Buongiorno a tutti! Aggiorno
con due giorni di ritardo rispetto a quanto avevo promesso, con tante sentite
scuse e facendo gli occhioni grandi e umidi per farmi perdonare. Sono stata
indaffarata. È Natale non solo per questi spuccini, ma anche per le povere
mortali che tra lo studio, la gente da spucciare prima delle vacanze, i parenti
da sedare, la neve da spalare, i regali da comprare, le visite da fare, i
prodotti di Lush da provare (ho i capelli tutti vaporosi che sanno di cocco! Weee!
*C*) non sanno più dove stanno di casa, a momenti. Infatti mi sono portata
dietro il capitolo da finire in chiavetta e sto pubblicando in trasferta. Vogliatemi
bene! ;O;
Il sogno di Hyoga è quello
che ha e avrà, credo, il maggior numero di caratteristiche del sogno, vero e
proprio. Ho cercato di rendere l’ambiente molto onirico, credo che si adatti al
personaggio: sfumato, sentimentale, evocativo. Mah, che dire, spero di aver
fatto un buon lavoro. Non è stato facile neppure questa volta, considerata la
grande carica affettiva che sto cominciando ad avvertire verso questo
personaggio; ma attendo i vostri giudizi. :)
Ce la metterò tutta per consegnarvi il prossimo capitolo – il penultimo – in tempo!
Per Natale farò carte false pur di pubblicare la conclusione: avrete tutto il
fluff che non avete avuto sino ad esso, lo giuro.
Un bacione e un grazie a
tutti; specialmente a LeFleurDuMal, da cui sono stata ampiamente
contagiata per le atmosfere suggestive di Neve; non citarla è
impossibile, considerato il contesto. Bacioni a cascate. Anche a Shinji,
che in play mi tiene uno Shun che va oltre… va oltre… va oltre. Grazie davvero.
No, Jacob non è il palestrato di New Moon ma quel
paciughino che accompagna Hyoga ovunque in slitta.
Sì, la costellazione di Andromeda è nell’emisfero
boreale e non è strano che Hyoga la veda; in realtà non è nemmeno lontanissima
da quella del Cigno. In questo caso non sono io a fare fan service.
Sì, i russi festeggiano davvero Natale a quel modo e il
loro folklore mi uccide di tenerezza.
Sì, Milo è un amore. Lui e Camus sono davvero mampapà e
mamma. *luv*
LeFleurDuMal: Saga quarantenne doveva
comparire, prima o poi. È un erotic-concept troppo grande per rimanere
sconosciuto al mondo. Ma che figo è? Sì, prima o poi dovremo riprendere in mano
la yakuza, la mafia, i templi buddhisti e pure Las Vegas. Gh. Ma abbiamo
tutta la vita per noi, mon amour. =ç=
Kijomi: Sì. Lo so. <3
Ti amo.
Shinji: Sì, Shin, non è
splendido? Ora abbiamo praticamente tutti i feticci sessuali in comune! *O* La
nostra amicizia uscirà rinsaldata da tutto questo! (?!) Dopo tutto il fan
service e la mafia, ora ti sottopongo questa cosa spiumeggiante; ormai l’era
dei pennuti si è aperta, tanto vale spararcela. :D Un bacio a te!
beat: Guarda, nemmeno io avrei
dato mezzo soldo bucato a Ikki e Aphrodite. Nel senso, ma chi li vede mai
interagire? (giustamente) E invece guarda qua. Andrebbero avanti per ore. Da non
credere. Nemmeno io so cosa dire a parte ringraziarti enormemente per i bei
commenti che mi fai, che guarda che mi lusingano tantissimo! ;_; Non smettere
maih!
Himechan: Grazie mille e baci a te,
cara! Ikki è palesemente nel suo ambiente naturale, dovevamo vederlo prendere a
botte un po’ di gentaglia o troppo Dickens, caramelle e spuccioserie poi ci
rubano l’anima. A presto! <3
BianchiD: LOL, è vero, Ikki è il
più Scrooge di tutti! Speriamo non incontri mai il piccolo Timmy! Un grosso
grazie e alla prossima. XD
Kagura92: Alla faccia della
stanchezza! È una recensione bella e davvero sentita. Devo ringraziarti tanto,
per tutte le sfumature che cogli. L’ultima frase che mi hai lasciato mi ha dato
una soddisfazione immensa: dovrei solo riscriverla così se volessi riassumere
in una parola tutto ciò che ho scritto. Grazie.
Regina di Picche: Ebbene, Seiya ha
risvegliato il pucciume necessario, e Ikki è entrato in grande stile, di modo
che una fan che lo sa apprezzare rimanga soddisfatta. :D Questo è più che
sufficiente, anzi. Che le atmosfere siano diverse è inevitabile, anzi è il
bello: Ikki per natura è molto più oscuro degli altri. Attendevo con ansia di
scrivere un capitolo noir. XD Alla prossima e non crucciarti… come vedi sono in
ritardo anch’io. O_o
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Capitolo 6 *** Il Canto di Andromeda ***
Un Canto di Natale
Un Canto di Natale
Capitolo 6. Il Canto di Andromeda
Dove si cerca di fare passare Shun al Lato Oscuro.
Pandora era esattamente come Shun la rammentava, riflessa
nei suoi ricordi di bambino troppo piccolo e in quelli di Ikki, bambino troppo
grande: capelli scuri e lisci ad incorniciare un viso delicato e grandi occhi
d’ametista in cui si poteva affondare per sempre.
Un invito pericoloso.
“Pandora-san?”
“Fratello mio.”
Chissà da quanto era sveglio; dal nero più profondo del
sonno senza sogni si era ritrovato seduto sul letto, le mani in grembo e gli
occhi aperti sulla figura nerovestita al centro della stanza. Gli aveva
sorriso, dolce, con tutta la grazia della signorina di buona famiglia che
dimostra sin troppa indulgenza verso il ritardatario più affascinante della
festa.
“Fratello mio amato, è bello rivederti.”
Shun non rispose niente, per un poco. L’istinto gli diceva
di rimanere fermo, di non rispondere neppure, fin quando non sarebbe stato
necessario; sembrava un sogno, un sogno strano e grottesco, un gioco dell’oca,
in cui un tiro sbagliato del dado riportava alla casella di partenza. Schiuse
appena le labbra, fissando con occhi grandi la donna che lo chiamava fratello
bramando il suo corpo per Hades, dio dei morti.
“Pandora-san. Non sono la persona che cerca” scandì, piano,
nella stanza buia. Così buia. Non era più un neonato in fasce, si disse quasi
meccanicamente: poteva risponderle. Senza nessuna espressione in particolare
sul viso, senza malizia, Shun la guardò trasparente: “Se ne vada. Per favore.”
“No, fratello mio. Non stasera.”
La finestra ritagliava un angolo blu senza luci, nel pieno
della notte. Pandora si avvicinò, frusciando, le vesti pesanti e scure ad
oscurare a turni i piccoli punti chiari della stanza, rare macchie lattiginose:
troppo lontano da lì, le torce ardevano, a rischiarare le scale.
“Non sono la persona che cerca, Pandora-san” ripeté Shun,
senza ancora muovere un dito. “Non so perché sia qui. Non so che cosa vuole da
me. Non posso aiutarla.”
“Shht.” Due dita, chiare e seriche, si posarono sulle sue
labbra. Shun spalancò ancora di più gli occhi. “Quanta fretta. Non a me devi
dire queste cose, amato fratello. Ma io rimarrò qui ad aspettarti, sappilo.
Tutto il tempo che ci vorrà.”
Aspettarlo?
Lo sguardo di Shun era talmente eloquente che Pandora
sorrise. Era talmente vicina che il ragazzino poteva sorbire direttamente dai
capelli il suo profumo di fiori, denso e pesante, come di viola, o gelsomino.
“Lasciati guidare, prima, da tre spiriti. Conosci i tre
spiriti del Natale?”
“Gli spiriti del Natale!” poté finalmente parlare, lui,
sorpreso. Appoggiò le mani al bordo del letto, intossicato dal profumo. Esitò
un attimo, solo per quello. La guardò dritta negli occhi, cercando di capire. “Ma
questo è un racconto… io che cosa…?”
“Sì. Passato, Presente, e Futuro. Loro, oh, loro sapranno
trovare le parole, fratellino mio adorato. Ascoltali con attenzione. Fa quel
che ti dicono. Non faranno nulla contro la tua volontà: saranno tue le scelte.
E al termine di tutto, io sarò qui ad aspettarti…”
La voce si fece bisbiglio, come vento tra le foglie secche.
“Pandora-san! No! Io non posso…!”
Shun si alzò in piedi di scatto, cercando di non perdere di
vista Pandora. Era importante, si rese conto, terribilmente importante non
lasciarla fuggire. Staccandosi di botto dal letto si lanciò al centro della
stanza, e poi alla porta, per cercare di raggiungerla.
I corridoi del Tredicesimo Tempio erano ampi e scuri, nella
notte, ma perfettamente rassicuranti; ciononostante, Shun avvertì un
incredibile senso di freddezza, lì dov’era, in piedi, i piedi nudi sul
pavimento duro. Sembrava persino più piccolo di quanto già non fosse. E Pandora
era sparita.
Come se fosse tutto perfettamente normale, Shun rientrò
nella propria stanza, raccolse il maglione a maglie larghe che aveva piegato
sulla sedia, se lo infilò sopra il pigiama a righe. Si abbottonò,
diligentemente, tirando fuori il colletto. Si infilò le pantofole. In soldoni,
fece tutto quello che avrebbe fatto un bravo bambino per non prendere il
raffreddore, prima di riaprire la porta e uscire in una pericolosa fuga
notturna alla ricerca della sacerdotessa dei morti.
Quanto prima aveva ardentemente desiderato che Pandora si
dileguasse alla sua vista, ospite inattesa e pericolosa, ora sentiva di doverla
a tutti i costi ritrovare: voleva farsi spiegare le sue parole, era necessario
sapere qualcosa di più su questi tre spiriti, e, soprattutto, su cosa
c’entrasse con lui quella favola natalizia, quella stessa che Shion aveva letto
loro nel pomeriggio freddo e senza neve della vigilia di Natale, appena poche
ore prima.
“Pandora-san?” chiamò, vagamente, tentando assieme di non
alzare troppo la voce per non farsi sentire dagli altri. “Pandora-san? La
prego, ritorni. Deve dirmi di più. Deve dirmi…”
S’interruppe, cogliendo uno spiraglio di luce tagliare il
buio, poco più avanti a lui. Inequivocabilmente, una porta socchiusa.
Spalancando gli occhi per sfruttare più che poteva l’unica
fonte di illuminazione, Shun affrettò il passo scalpicciando il più
silenziosamente possibile: non voleva fare rumore. Camminò sopra tutti i
tappeti. Appoggiò la mano delicatamente sul legno intarsiato, aspettando col
fiato sospeso chissà che cosa. Proprio quando stava cercando di decidersi se
aprire o meno, una voce dall’interno lo interpellò: “Avanti, avanti. Non stare
ad aspettare lì fuori.”
Shun sussultò, impercettibilmente. Ma poiché era stato
interpellato, aprì la porta, spingendola piano, sbirciando subito all’interno,
senza nessuna idea di che cosa aspettarsi. La voce che aveva parlato, di tonalità
bassa e allo stesso tempo cantilenante, era decisamente troppo virile per essere
di Pandora. Una volta dentro, sbarrò gli occhi, incredulo: quel posto non
apparteneva certo al tempio di Atena.
Sembrava un’illustrazione di un libro di racconti per bambini,
nei suoi colori quasi dipinti ad olio. Immense ricchezze e tesori colmavano la
stanza, dal sapore antico, europeo, tutto illuminato da una luce bassa e calda,
proiettata sia dal camino scoppiettante che dal lampadario al soffitto. Sullo
scranno prezioso al centro, con aria allegra e svagata, stava appollaiato un
uomo che Shun aveva visto a malapena una volta, di sfuggita, in un delirio di
morte: aveva tentato di sopraffarli al Muro del Pianto, poi Hyoga si era parato
sulla sua strada, ergendo muri di ghiaccio in difesa dei fratelli che
prendevano la via dell’Elisio.
Minosse, giudice infernale.
“Minos-san?” tentò, limpidamente confuso. Era così strano
vederlo in quel momento, in quella stanza, così vestito, in quell’atmosfera
festosa, che gli venne stupidamente naturale onorarlo di un appellativo di
cortesia. In tutt’altro contesto non gli sarebbe venuto mai in mente. Sbatté
più volte gli occhi, vedendolo allungare sul viso un ghignaccio bianco da
spaventapasseri; ma strano a dirsi, non sembrava minimamente minaccioso.
“Proprio io, Andromeda. Siediti, siediti. È la vigilia di
Natale. Non ci risparmiamo in festeggiamenti. Rune! Porta del vino.”
“Sì, sommo Minos.”
Shun spalancò ancora di più gli occhi. A forza di sorprese
strampalate di quel genere, se li sarebbe ritrovati della dimensione di due
piattini da caffè.
Rune se lo ricordava bene, l’aveva affrontato al Tribunale
dei Morti, accanto a Seiya. Era stata una parentesi tragicomica, quasi
surreale, che agli occhi di Shun si era conclusa con lo specter che, senza
nessuna apparente ragione, dopo averlo guardato bene era scappato urlando. Adesso
lo stesso specter si affaccendava su e giù per la stanza, fra i suoi ori e le
sue decorazioni, indaffarato come una cameriera solerte, in netto contrasto con
la faccia seria da impiegato modello.
“Rune? Rune-san?”
Rune sbiancò e decise di evitare di guardarlo negli occhi. A
quanto pare non aveva dimenticato l’infelice episodio della testa di Hades che
gli parlava. Minos rovesciò la testa all’indietro, in una risata gutturale e
priva di gioia, ma decisamente divertita.
“Lascialo lavorare. Posso offrirti del vino?”
“Oh, no, grazie, non bevo.”
La conversazione era più che mai surreale.
Almeno, era tra Shun di Andromeda e Minos di Griffon.
Ed era incredibilmente gaia.
“Oh, che disdetta. Troppo giovane, invero. Tskch. In
Norvegia, non fa granché differenza. Non è vero, Rune?”
“È così, sommo Minos.”
“Oh. È giusto” si illuminò Shun, credendo finalmente di
capire qualcosa. Pur nell’assurdità del tutto, ovviamente. “Rune-san è il
procuratore di Minos-san.”
“E il mio luogotenente. E il mio vice. E il mio sostituto. E
copia le mie lettere, e rimesta il carbone nella mia stufa” elencò Minos con
aria apparentemente distratta. Con ogni probabilità stava solo motteggiando –
senza dubbio in maniera strana e contorta – riferendosi al sottopagato Bob
Cratchit, ma Shun era decisamente troppo giapponese per cogliere una citazione
del genere: sbatté gli occhi senza sapere cosa dire, mentre Rune serviva con
aria afflitta un calice di vino rosso al suo signore. Quello ridacchiò
grottescamente, accavallando le gambe e accomodandosi ancora di più sul suo bel
trono.
Sembravano davvero dipinti, nei loro colori caldi e ornati
di decori opulenti. A Shun, che rimirava senza ragione il lungo manto di ermellino
che ricopriva il terribile gigante di Hades, venne da pensare al Principe
Giovanni di Robin Hood. Associazione mentale quanto mai deleteria.
“Minos-san, mi perdoni: credo di avere appena capito
qualcosa. Lei per caso è…” Non vide l’espressione di Minos che si girava a
guardarlo: troppi capelli spioventi sul viso, oscuravano quasi completamente
gli occhi. Shun deglutì: “…lo Spirito dei Natali Passati?”
“Eccellente intuizione. Sì, sono lo Spirito dei Natali
Passati. E sono l’unico ad avere un assistente. Non puoi immaginare tutto il
lavoro che ci si trova ad affrontare nel catalogare minuziosamente il passato;
ah, tutta burocrazia…”
“Oh.”
Non che quest’ultima informazione interessasse molto a Shun;
tanto più che Rune pareva essere lì solo per il divertimento personale di
Minos, che studiava con un ghigno sardonico tutte le espressioni facciali del
suo procuratore, specie nei pressi del loro piccolo, dolce ospite. Il Balrog pareva
non aver rimosso il trauma; il motivo del tuo sacro terrore, invece, se ne
stava seduto compito, guardando entrambi in paziente attesa.
“Sono qui per mostrarti alcuni Natali del tuo passato. Sei
pronto?”
“Oh, sì.” A Shun pareva persino un bel viaggio. “Sì, sono
pronto. Ma perché? Qual è il motivo di tutto questo?”
“Pazienta, Andromeda. Pazienta. Rune. Apri il libro.”
“Sì, sommo Minos.”
Venne aperto un libro, che passò di mano in mano; da quelle
delicate di Rune a quelle ferme di Minos, senza sfiorare quelle piccole di
Shun, si spalancò, fermandosi a pagine aperte, non su fitti appunti vergati a
china, bensì su un’illustrazione colorata di giallo e rosso.
“Avvicinati e guardala meglio.”
Shun allungò il visino, un misto tra eccitazione, curiosità
e timore. E quello che accadde fu indescrivibile.
Profumo di torta, di aghi di pino quasi secchi, e assieme di
polvere, polvere sul polistirolo, sulle cupole di vetro delle luci che andavano
pulite, rumori di piatti di plastica che si separavano, sgangherati, passi,
passi, passi, rumorosissimi passi, risate e grida, una voce femminile che si
faceva sentire più delle altre, luci, luci, lo sguardo di suo fratello,
piccolo, occhi grandi, espressione concentrata.
“Ikki-nii-saaan!”
“Non ora, Shun.” Ma una carezza sulla testa, che sapeva di
buono. “Hanako-san ti chiama.”
“Sììì!”
Ancora profumi, adesso di ragazza. E della stoffa del
grembiule.
Occhi neri neri, sorriso bianco.
“Shun-kun. Mi aiuti a portare i regalini?”
“Sììì!”
“Oh, Shun-kun. Sei così carino.”
Risate contente.
Passi, passi, passi. Di corsa. Qualcosa che si rompe. Le
ragazze sgridano i malfattori. Lui no, lui porta i pacchetti e riceve carezze.
Fuori dalla finestra vede la neve.
“La neve! La neve!”
“Oh, Shun-kun, hai ragione! Nevica!”
“La neve!”
Corsa verso la finestra. Odore di freddo e di vetro. Si
assembrano tutti. Rischia di cadere. Si aggrappa a qualcuno. Affonda la faccia
in capelli biondi. Stringe gli occhi, strattonato via fuori dal gruppo dal
bambino con i capelli biondi. Troppi bambini alla finestra vogliono vedere la
neve. Di nuovo profumo di ragazza, carezze tra i capelli. Capelli chiari chiari
disordinati, nessun sorriso: “Stai attento.”
“Ehi. Ce l’hai con mio fratello?”
“Ikki-nii-san, no! Sono stato io! Sono caduto addosso a
Hyoga-kun.”
“Non m’importa niente. Ehi! Mi hai sentito?”
La ragazza tiene Ikki, con un sorriso indulgente, ma lo
tiene. L’altro bambino li guarda senza una parola e se ne va. Shun guarda i
capelli biondi. È da quando è arrivato che li guarda. Nessuno in Giappone ce li
ha così. Gli correrebbe dietro, ma sa che non parla quasi con nessuno. Gli
dispiace.
“Shun, vieni con me. Mi hai sentito, Shun?”
“Andromeda.”
La voce bassa stacca da tutto.
Shun rialza la testa, come se riemergesse da sott’acqua. Ha
il respiro corto e gli occhi spalancati.
“Troppi ricordi tutti assieme…” ghigna Minos, una mezzaluna,
il sorriso bianco, le mani ingioiellate voltano pagina. Shun boccheggia. “Ne
troveremo altri.”
“Era l’orfanotrofio. Ero io. Era… confuso.”
“Eri un bambino. Che cos’hai capito?”
“Oh… beh… poco. In verità.”
“Due cose.” Gli occhi di Minos rilucono, nella stanza piena
d’oro. Rune lo fissa senza una parola, le mani a sorreggere il volume da sotto.
“Eri un bambino facile da sopraffare. Ma eri anche un bambino molto amato:
questo ti proteggeva. Tuo fratello ti proteggeva. Le ragazze dell’orfanotrofio
ti proteggevano. Eri carino ed adorabile. Il tuo candore ti ha sempre salvato.”
“Ma non… non è vero. Non è una cosa che facevo apposta.”
“Certo che no.” Un nuovo disegno, sotto i suoi occhi. Shun
si avvicinò, irresistibilmente attratto, e la voce di Minos lo ricatapultò
dentro: “Ti viene naturale.”
Ora caldo.
Caldo asfissiante.
“Shun!”
Ora freddo, senza cognizione, senza causa. Mani più tiepide
sulle spalle, poi sulle proprie mani. Voce vibrante da dietro una maschera di
ferro, risuona di respiri concitati.
“Starò più attento.”
“Fallo! Sono così in pena per te, Shun.”
“Sorridi, June, ti prego. È Natale. Non senti i canti,
lontani?”
“Lontano, troppo lontano da qui. Lascia che ti annodi più
stretta quella benda.”
“Sto bene.”
“Non hai voluto ferirlo e ora sei tu il ferito.”
“Mi piacerebbe vedere ancora una volta la neve.”
“Non qui, lo sai. Vuoi festeggiare il Natale?”
“Voglio…”
“Ti ci porterò. Un giorno. Quando entrambi saremo liberi. Il
maestro ci vuole bene, lui ci addestrerà sino a che non saremo forti e liberi
di andarcene dall’isola di Andromeda. Allora verrò con te a vedere la neve.
Fino ad allora, Shun, ti prego: fai attenzione!”
“June…”
“Shun, promettimi che ce la metterai tutta. Io non voglio…”
“Te lo prometto. Ti prego, June: non piangere.”
Una risata a cascata, che non era quella di June,
sicuramente: Shun rialzò il volto allo stesso modo di prima, la testa
vorticante. Il suono del tomo che si chiudeva, con un tonfo, lo risvegliò
definitivamente.
“L’isola di Andromeda” sussurrò, gli occhi persi in un punto
lontano, avanti a sé. Minos sogghignò, carezzando la preziosa rilegatura di
cuoio. “June. Oh, June. Anche lei mi ha sempre protetto.”
“Naturalmente. Ti amava. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per
te. E il tuo candore, la tua purezza, Andromeda, oh: anche lì ti hanno
salvato.”
“Minos-san, la smetta, la prego. Parla come se…”
“Come se fosse una cosa brutta? Affatto.” Gli occhi di Minos
lampeggiarono, gialli, attraverso la folta frangia. Occhi di rapace. Shun,
improvvisamente, ebbe un brivido. Si alzò dalla sedia, vi si accostò, tenendolo
d’occhio. Si era forse dimenticato chi era? Il Giudice Infernale sorrise, una
lunga fila di denti bianchi, la voce che si faceva melliflua. “Al contrario,
per il nostro signore è la qualità al di sopra di tutte. Andromeda,
indubbiamente tu sei l’uomo più puro del mondo.”
“Cosa vuole?” Shun saettò gli occhi da lui a Rune, e
da Rune a lui, di nuovo. “Cosa volete?”
“Dimostrarti che il tuo posto, giovane confuso, è sul trono
del nostro regno.”
“No! Lo sapete! L’avete sempre saputo! Non sono io…”
“Sei tu, e lo sai perfettamente. Rune.” Voltò il capo
appena, Minos, ottenendo l’attenzione completa del suo attendente. “Apri la
porta. Il giovane Andromeda sembra ansioso di andarsene.”
“No, io… prima voglio delle risposte. Perché tutto questo?
Che cosa state cercando di fare? Hades è morto.” Ebbe un brivido lui stesso,
mentre lo diceva. Sgranò gli occhi, come per invitare Minos, impenetrabile, al
suo contrario, a leggervi dentro per provare la sua sincerità. “Hades non
esiste più. Non potrà più tornare sulla Terra. Perché allora tornare da me?”
“Hades è morto” scandì lentamente Griffon, questa volta
senz’alcun accenno di divertimento nella sua voce. Si era fatto fosco, un’aura
fredda lo avvolgeva. Tutta la stanza si era fatta fredda. Tutti i colori si
stavano spegnendo. Shun arretrò, avvertendo il sogno farsi incubo, il cuore in
gola. “Hades è morto, ma esiste ancora. Hades è la Morte, e la Morte è eterna. Hades tornerà. Forse ci vorrà del tempo. Privo del suo
corpo divino, solo spirito, solo essenza, risorgendo dalle cavità più buie della
terra. Tornerà.”
Allungò una mano in avanti. Shun fece come per pararsi,
tutti i senti all’erta, ma quello spalancò solo di più la porta. Un soffio di
vento spense tutte le candele. Minos lo guardava negli occhi, raggelante, nel
buio.
“E ora và. Non mancare di aprire l’altra porta.”
E come fu fuori, nel corridoio, spinto da Minos e dal vento sgarbato,
che lo invitava ad uscire, Shun si fermò a guardare la porta richiudersi, con
uno scricchiolio spaventoso. Aveva ancora un nodo alla gola, il cuore
martellante nelle tempie. La paura, non poteva negarlo, l’aveva attanagliato
sin nelle viscere.
Trovando la forza chissà dove, si voltò. Forse perché
qualsiasi cosa era preferibile allo scuro del corridoio, ora non più
rassicurante come prima, afferrò subito e senza esitazioni la maniglia della
porta che si trovava di fronte, all’esatto opposto di quella da cui era uscito.
La spalancò, anzi, i denti stretti: qualsiasi cosa ci fosse in serbo per lui,
la voleva affrontare. Aveva paura, in qualche modo; ma Pandora gliel’aveva
detto: non faranno nulla contro la tua volontà.
E se era la sua volontà, che volevano manipolare, lui
l’avrebbe tenuta salda come solo un cavaliere di Atena poteva fare.
“Sorpresa! Buon Natale!”
“Ah?”
Fece a malapena in tempo a dirlo, ah: gli piovve in
testa una fronda di foglie non bene identificate, che per metà lo punsero anche
in maniera fastidiosissima, conficcandosi nella cute. Trattenne un gridolino di
dolore e sorpresa solo perché oltre il verde, al di là dei confusi movimenti
festosi, avvertì e sentì la strabordante luce calda che aveva visto nell’altra
stanza prima che tutto si oscurasse, tanto accogliente da scaldargli la pelle.
Quando riuscì ad alzare l’imbarazzante copricapo che gli era stato cacciato in
testa, si accorse di essere coperto di agrifoglio.
“Ehm… chi…?”
“Sono lo Spirito del Natale Presente!” Tuonò una voce
virile, con l’evidente orgoglio di chi si è calato nella parte. Si fece poi più
sogghignante, in perfetta atmosfera specter: “L’hai fatto arrabbiare, eh, il
caro vecchio Spirito dei Natali Passati? Erroraccio. Non fare mai
arrabbiare Minos. Per fortuna che questo era un sogno, pulcino di santo.”
Shun sbatté più volte le palpebre, cercando di riconoscere
il nuovo spirito: ma proprio era sicuro di non averlo mai visto in vita sua. Sapeva
solo che tra i capelli mori arruffati spuntava ancora più agrifoglio che dai
suoi, e forse anche del vischio. I suoi occhi erano incredibilmente mobili,
voraci.
Non abbandonava il sogghigno. Coraggioso, per uno bardato a
quella maniera.
“Oh” s’illuminò poi, timidamente. Cercò anche di sistemarsi
la corona in testa di modo che magari non gli trapassasse almeno il cervello.
Che fatica. Questo sembrava davvero carico di buone intenzioni. “Forse ho
capito. Se Pandora-san mi ha chiamato, e le guide sono tre… il primo era
Minos-san… e di sicuro incontrerò Rhadamantis-san…”
“Sì?” gli diede corda lui, più che altro tanto per farlo contento.
Shun non vi badò: “Voi dovete essere… Aiacos-san?”
“Che delizioso bambino educato. Non stare impalato sulla
porta. Entra.”
Sgomento, Shun entrò. Non riusciva neppure più a fare a meno
degli appellativi onorifici, nonostante non capisse più se i Tre Giganti
Infernali di Hades lo volessero festeggiare o lo volessero morto. E non tanto per
l’orribile trasfigurazione e le minacce di Minos, quanto per quella corona di
agrifoglio assassina. Come faceva Aiacos-san a reggere in testa la sua?
“Come Spirito del Natale Presente, è mio dovere metterti
davanti a una scelta.”
Aiacos spiccò un piccolo balzo, raggiungendo uno scranno del
tutto simile a quello di Minos. Shun, intimidito quanto era necessario, si
sedette di nuovo obbediente sulla sedia. Che altro poteva fare? Per un attimo
si immaginò da fuori, piccolo, occhi grandi, sperduto nel suo pigiama, nelle
sue ciabatte e nel suo maglioncino, e con quel cespuglio in testa. La Garuda invece non pareva porci la benché minima attenzione.
“La risposta è no, Aiacos-san.”
Aiacos lo guardò quanto meno perplesso, come si fu
accomodato. Shun non aggiunse nulla per buona educazione, ma non era proprio
convinto che ci si dovesse sedere così, su un seggio del genere e in generale
in qualsiasi altro posto: il giudice invece dondolava con grande noncuranza una
gamba da sopra il bracciolo, e non pareva affatto fuori posto. Con ogni
probabilità, non aveva riserve a farlo neppure in tribunale, passando in
rassegna le anime dannate. Consolante.
“Non sai nemmeno cosa ti volevo chiedere.”
“Minos-san me l’ha fatto intuire.”
“Ah! Ma è un colpo basso! Quell’inutile borioso mi ruba il
lavoro!”
“Mmmh.”
Shun non seppe bene che cosa dire nemmeno questa volta. Per
ora, i Giganti Infernali di punti in comune ne mostravano: un’improvvisa e
completamente arbitraria confidenza nei modi di fare, e la passione per la
teatralità.
“Ti ha mostrato anche il presente, già che c’era? No, perché
quand’è così, faccio prima a spazzolare il banchetto in tavola e poi mettermi a
dormire. Vuoi?”
“Oh, no, grazie. Non si crucci, Aiacos-san. Minos-san non mi
ha fatto vedere niente a parte il passato.”
Shun si domandò intensamente perché si trovasse lì
seduto in pigiama a consolare un giudice infernale, mentre quello borbottando
decideva di servirsi direttamente dalla tavola imbandita che occupava quasi
tutta la stanza. Si guardò attorno, appena, senza distogliere gli occhi più di
tanto dall’uomo davanti a lui: aveva imparato durante la precedente visita che
era meglio non abbassare la guardia. Aiacos, tuttavia, sembrava più intento a
riempirsi il piatto di pollo e patate.
“Sicuro? C’è anche la frutta. Uva, fichi, datteri, frutta
secca, canditi. Non fare complimenti. È Natale!”
“No, grazie, davvero. Ho cenato poche ore fa.”
“Dolcetti?”
“Il Pontefice Shion ci ha riempiti di pan di zenzero.”
“Buono, il pan di zenzero. Niente, allora. Peccato. Sicuro?”
“Sì” sospirò Shun, nuovamente, intrecciando le mani in
grembo. Ci mancava solo che il terzo generale di Hades si preoccupasse che
fosse denutrito.
“Peccato. Roba buttata. Hai idea di quanti paesi al mondo
soffrono la fame?”
“Sì, Aiacos-san. Lo so.”
“In Nepal, per esempio” affilò gli occhi il Gigante,
staccando un boccone dalla forchetta con avidità, e tuttavia senza togliere gli
occhi da lui. “In Nepal chi non ha niente sgranocchia le zecche che si gratta
via di dosso.”
Shun strinse le mani sulle ginocchia, raggelato da
quell’improvviso cambio di tono. Non si chiese perché parlava del Nepal. Non
poteva sapere, e non se lo chiese: non riusciva a staccare gli occhi dal viso
di Aiacos, che senza battere ciglio continuò a masticare.
“Lo… lo so, Aiacos-san.”
“E non solo in Nepal.”
“Sì.”
“In Mongolia. In Indonesia, in Thailandia, in India. In
quasi tutta l’Africa. Nell’America Latina. Ovunque ci siano zecche da
spulciare.”
“Aiacos-san…”
“Un buon pranzo di Natale, non c’è dubbio. Hai idea di
quanti milioni di persone siano, Andromeda? Hai una vaga idea della loro
sofferenza? Hai subito un addestramento molto duro, al largo di coste africane.
Dovresti ben conoscere i morsi della fame. Non hai pietà di loro?”
“Certo che ne ho.” Shun rispose subito, limpido, senza
esitare minimamente nonostante il tono con cui gli era stata posta la domanda:
per lui pietà non possedeva alcun connotato negativo, e lo mostrava con
orgoglio. “Tutti noi ne abbiamo. Facciamo il possibile.”
“È poco, ragazzino. Continuano a morirne a frotte. Ma i più
sfortunati non sono quelli che muoiono. Sono quelli che restano in vita con i
crampi.”
Detto questo, Aiacos si alzò. Nel suo modo, era imponente.
Le foglie spinose fra i capelli non lo facevano sembrare affatto ridicolo:
somigliava ad uno stregone. Uno stregone che veniva da terre lontane.
“Tu, piccolo, puoi fare tanto. Il tuo cuore puro e dolce
spasima per fare qualcosa. Allora noi ti diciamo che puoi fare qualcosa.
Puoi alleviare le sofferenze di tutti, se vuoi, con una parola sola puoi
sollevare il mondo intero dal suo fardello.”
Shun sentì distintamente il sangue pompargli a velocità
incredibile lungo le tempie. Aiacos sorrise, sghembo, abbandonando il piatto
sul tavolo. Si ripulì e le mani, stavolta con fare incredibilmente elegante e
misurato. Si portò il tovagliolo alla bocca, avvinandosi a lui, girandogli
attorno. lo gettò sul tavolo, gli mise le mani sulle spalle.
“Accogli il Sire Hades. Conduci l’umanità intera tra le
braccia della Morte, e cessa una volta per tutte i dolori che è costretta a subire
sulla Terra.”
Silenzio. Le parole del giudice suonavano irrimediabilmente
giuste: Shun era impietrito, immobile, come se non osasse muovere un dito. Per
un attimo, il suo interlocutore era diventato qualcosa di immenso.
Sorrise scaltro, Eaco, il più giovane dei figli di Zeus a
sedere tra i Giudici dei Morti.
Attese la risposta, che tardava. I pugni di Shun erano
bianchi, sulle ginocchia.
“No.”
“Come?”
“No.”
Per la miseria. Aiacos sollevò un sopracciglio.
Pandora gli aveva raccontato che nel Settecento era stato
molto più facile.
“Mi rispondi di no, quindi.”
“Sì. No. Non voglio. Non lo farò mai. Io sono un santo di
Atena. Io combatto per la vita e la speranza. Io sono al mondo per aiutare il
mondo a cambiare. Non a morire.”
“D’accordo, d’accordo” commentò quello, inaspettatamente,
alzando le braccia in segno di resa.
“D’a… d’accordo?”
“Come ti ha detto la bella sacerdotessa dell’Ade, Andromeda”
sussurrò Aiacos, mentre la stanza si rabbuiava. “Non faremo nulla contro la tua
volontà. E io ho adempiuto al mio compito. Hai detto no. E sia.”
Shun si alzò. Di nuovo il vento cominciava a penetrare dalla
finestra, a spegnere le candele. Shun, gli occhi grandi, rabbrividì, anche se
Aiacos non era spaventoso come Minos. In un qualche modo, lo era ugualmente.
“Cosa… cosa devo fare, adesso?”
“Prendere la prima porta a sinistra. Che domande.”
Il vento premette solido contro i suoi vestiti leggeri. Shun
rabbrividì, smarrito, i capelli che gli frustavano il viso nel freddo. Di
fretta, si diresse verso la porta. Si voltò di sfuggita verso Aiacos, stregone
nero al centro della stanza. Non aveva smesso di fissarlo, un sorriso strano,
affatto sconfitto. Afferrò con una mano scura il lembo della tovaglia
drappeggiata sul tavolo, i piatti tremarono. Diede un violento strattone. Allora
Shun chiude la porta più velocemente che poté, per non sentire il fracasso, i
cocci che andavano in pezzi.
Sconvolto, corse tanto velocemente verso la porta alla sua
sinistra che non seppe dire se dentro quella stanza fosse davvero successo il
finimondo, o se se lo era semplicemente immaginato. Se quelle stanze, una volta
chiusa la porta, esistevano ancora oppure no. Varcò la soglia della terza
tremando, pallido, ansimando come se avesse corso per tutte le scale.
“Benvenuto.”
“Ah…”
Un ansito. Un altro. La luce del caminetto non era fragorosa
come quella delle altre due stanze. L’uomo lo attendeva seduto in poltrona, le
gambe virilmente accavallate, le mani metodicamente giunte in grembo. Il suo
sguardo era micidiale. Shun rimase inchiodato sulla soglia, capace solo di
muovere gli occhi.
“Riprendi fiato.”
“Sì… sì.”
“E ora siediti.”
Meccanicamente, Shun si avvicinò. Chiuse la porta. Si
diresse verso di lui, lo spirito che sedeva tranquillamente in poltrona, e che
ora aveva chiuso gli occhi, come assorto in meditazione. Shun fece pochi passi,
appena intimidito; si portò le mani alla fronte, si graffiò le dita con le
spine dell’agrifoglio. Si liberò della corona che aveva in testa, grande,
grottesca, con un piccolo strattone e un gemito di dolore. Si sedette in
poltrona con aria afflitta. Di nuovo, non sapeva bene cosa dire.
Rhadamantis non parlava. Rimaneva seduto di fronte a lui.
Il ragazzino, giovane ed esperto, piccolo e grande, lo
fissava, con occhi privi di domande, solo puliti e chiari. Si guardarono per un
poco, senza parlarsi. Shun abbassò gli occhi solo per riavviarsi i capelli, per
staccare le poche foglie rimaste incastrate. Le poggiò una per una sul tavolino
di fronte a sé. Si lisciò il pigiama, sulle ginocchia. Giunse le mani in
grembo, come lui, ma con le ginocchia unite, composto. E parlò lui per primo:
“Rhadamantis-san. Perché io?”
Ci fu un breve silenzio.
“Non c’è un perché” cominciò quello, con la voce cavernosa
che Shun aveva sentito comandare all’Inferno stesso: era l’uomo più terribile
che avessero mai affrontato, e lo ricordava con un brivido. Ora parlava pacato,
tranquillo, nel suo completo elegante, a suo agio nella poltrona comoda.
Nessuno sfarzo, nessuna esibizione, nessuna luce chiassosa. La penombra li
accoglieva. “Il perché lo sai: Hades, per quanto incompreso, è un dio puro. Il
più caritatevole e misericordioso degli dèi. Tu gli somigli. Egli ha scrutato
nel tuo cuore, e non ha scelto altri che te.”
“Ma io lo rifiuto. L’ho già rifiutato una volta. Posso farlo
ancora. Non ho più paura.”
“Lo so.”
“Perché, allora? Perché questo sogno? Perché cercarmi,
ancora?”
Un sorriso, allora, affilato come quello di un drago.
Talmente consapevole da penetrare come un coltello.
“Perché voi siete fedeli alla vostra dea, e noi al nostro
dio, Andromeda. Lo amiamo, e vogliamo il suo ritorno.”
“Minos-san ha detto che tornerà.” Si sporse, Shun, sentendo
riannodarsi un groppo in gola. Era quello che gli premeva sin dall’inizio.
Strinse la presa sui braccioli della poltrona. “È vero?”
“Non come credi tu.” Rhadamantis cambiò posizione alle
gambe, con disinvoltura. “Ma qualcuno dovrà pure governare sulla Morte. E la Morte non cambia sovrano.”
Shun avrebbe meditato a lungo, su quelle parole. Ma
perlomeno, fu consolato dal fatto che non era come temeva: Hades non era
vicino, non era pronto a riattaccare. Dal tono con cui parlava Rhadamantis,
pareva quasi, anzi, che non ne fosse neppure intenzionato.
“Ma tu, ora? Non vuoi sapere del tuo futuro?”
Shun schiuse le labbra, improvvisamente rischiarato. Il
futuro! Non aveva neppure mai osato immaginarlo! Ora che tutto era in pace, ora
che Atena aveva promesso un mondo di luce, lui vedeva solo cose belle, davanti
a sé, e non lo nascose, domandando con la meraviglia di un bambino: “Può
mostrarmelo? Posso davvero vederlo? Mi piacerebbe tanto.”
“Non sarei così ansioso, fossi in te.” Due occhiacci
cattivi, quelli che aveva puntato addosso. Shun si raggomitolò nella poltrona,
intimidito dal cipiglio minaccioso del Giudice. “O farai la stessa fine di
Scrooge. Ricordala attentamente, e in base a questo rispondimi.”
Shun non si sentiva molto Scrooge, a dire il vero. Si morse
le labbra e annuì, automaticamente. Ma c’era una cosa che doveva dire a
Rhadamantis. Assolutamente. Aspettò educatamente il momento migliore per
introdursi nella conversazione.
“Fino ad adesso ti è andata bene, Andromeda.”
“Io…”
“Hai parlato con lo Spirito del Natale Passato, e con quello
del Natale Presente.”
“Sì…”
“Ora sappi che c’è un motivo per cui sono io, lo Spirito del
Natale Futuro.”
“Lei…”
“Io sono molto, molto meno indulgente di quei due
perditempo.”
“Mh…”
“Perciò…”
“Rhadamantis-san?”
“Che cosa c’è?”
“Io… in realtà… purtroppo…” Shun affondò letteralmente nei
cuscini, quasi cercando di rimpicciolirsi. Alzò grandi occhi umidi sul suo
immenso interlocutore, sperando con tutto il cuore di non deluderlo. “Io mi
sono addormentato, durante quella parte.”
Questo non era evidentemente previsto.
Rhadamantis piombò in qualcosa che era molto oltre il
silenzio.
“Mi dispiace” pigolò il Guerriero della Speranza, rincantucciato
nella sua poltrona.
Rhadamantis si raccolse le tempie con la mano. Massaggiò,
delicatamente. E alla fine decretò, con voce possente ma stranamente calma,
quella di un diplomatico inglese al termine di un’importante ambasciata: “Non
fa niente. Forse è meglio così.”
“Eh? Davvero?”
“Sì. Non ti farò vedere nulla, del tuo futuro.”
“Eh? Ma… Rhadamantis-san… se ci teneva tanto… io posso
vederlo, sa? Non si preoccupi! Solo, mi dispiace di essermi addormentato
proprio durante la sua parte. Non ho fatto apposta. Sicuramente è stata molto
interessante.”
“Dickens non è mai interessante. Solo molto edificante per
moralisti e casalinghe. Alzati.”
La Viverna lo precedette, oscurando con la sua stazza le
luci del caminetto. Torreggiava su di lui in maniera affatto rassicurante, ma
non pareva particolarmente alterato.
“Ah… sì!”
“Ti riporto a dormire.”
“Eh? Che cosa? Io pensavo…”
“Sei invero l’uomo più puro, Andromeda, e Hades lo sapeva,
perché ha guardato nel tuo cuore. Ma il tuo temperamento è troppo diverso dal
suo.” Rhadamantis camminò fino all’angolo opposto della stanza, sino a sfiorare
con la grande mano la maniglia di una porta più piccola delle altre, che Shun
non aveva affatto notato. Si trascinò dietro di lui in pantofole. Tratteneva
quasi il respiro. “Solo chi può comprendere l’infinita pietà del Signore dei
Morti lo può servire fedelmente. Tu appartieni a qualcun altro. Non saresti mai
tutt’uno con Lui. E noi non vogliamo questo.”
“Quindi…” sussurrò, incredulo, il ragazzino, stringendosi
nel maglione. Non faceva affatto freddo, però. Nessun vento a penetrare nella
stanza, né a spegnere i fuochi. Rhadamantis lo guardava senza sorridere, ma
onesto. Con la schiettezza dei nemici. “Quindi posso fare ritorno.”
“Puoi.”
Aprì la porta. Dava sulla stanza da letto di Shun. Era
esattamente come l’aveva lasciata.
Il ragazzo entrò, meravigliato, confortato dal calore.
Rhadamantis rimase sulla soglia. Lo apostrofò un’ultima volta, duro, ma senza
essere sgarbato:
“D’altro canto…” Shun alzò gli occhi verso di lui,
spostandoli stupiti com’erano dal suo lettino intatto. “Non hai ceduto. Non hai
assaggiato il cibo del mondo dei morti.”
“…eh?”
Rhadamantis, l’implacabile Rhadamantis, sogghignò.
“Sia Minos che Aiacos te ne hanno offerto, ma tu hai
rifiutato.”
Improvvisamente Shun ricordò.
Persefone e il melograno.
Il vino, la frutta candita.
E sbiancò, anche.
“Saggio, da parte tua” allargò il sogghigno, la Viverna crudele, che aveva perfettamente capito che si era trattato solamente di un caso. Richiuse
la porta piano, fino a lasciarne quasi uno spiraglio, da cui lo guardava con i
suoi occhi gialli. “Altrimenti, non ti avremmo lasciato andare così
facilmente.”
Shun di Andromeda, nonostante il temperamento mite e
delicato, non era certo il tipo incline allo svenimento. Come tutti, aveva un
fisico abituato a sopportare ben di peggio.
Tuttavia, quando la porta si richiuse e il buio –
rassicurante, stavolta – di Atene immerse la stanza in una naturale coltre
notturna, le ginocchia gli cedettero e si lasciò cadere sul letto, la testa che
gli vorticava impazzita al pensiero di ciò che aveva rischiato. Urlò, i nervi
scoperti, quando sentì una mano sulla spalla.
“Fratello mio.”
“Pandora-san! Basta così! Io… io…”
“Ti avevo solo promesso che sarei rimasta ad aspettarti.”
Sorrise, sorniona, Pandora, la signora della notte. Con mani delicate lo fece
stendere, gli rinfrescò la fronte, chiuse i suoi occhi increduli. Shun non
capiva. Non capiva perché si lasciasse fare tutto questo. Finché la voce di
Pandora gli sussurrò all’orecchio, intossicandolo col suo profumo di viole e
gelsomini: “Tranquillo. È solo un sogno.”
Solo un sogno.
Shun allungò le mani a stringere le lenzuola, ma non le
trovò. Sentì caldo. Capì di essere sotto le coperte. Capì che vi era sempre
rimasto. L’odore di fiori lentamente svanì. Dal nero sui suoi occhi schiuse le
ciglia, la testa pesante, le membra intorpidite come se avesse dormito sino a
quel momento.
Gli parve di scorgere dei capelli biondi, ma non era stato
aperto nessun libro.
Si riaddormentò subito, stremato dall’ora tarda. E dormì a
lungo, senza più sognare.
The Carol
Come prevedibile, ormai sforo
rispetto ai termini previsti e non mi riesce di finire i capitoli entro le date
che avevo buttato lì. Vabè. Vedo che non ho inflitto nessun trauma a nessuno,
quindi andrò implacabile avanti a fare come mi viene. Penultimo capitolo!
Quello di Natale invece uscirà in tempissimo, assolutamente: non ho intenzione
di mettere piede fuori di casa prima di Santo Stefano, sappiatelo. Che
fatica stare al mondoh.
Il canto di Shun ovviamente è
il più surreale e quello che stacca di più: il cast è strano.
Ovviamente tutto ciò è voluto
e in realtà dovrebbe creare un contrasto abbastanza buffo con gli altri, alle
prese con gli spiriti loro amici che cercano di aiutarli a correggere i propri errori,
e Shun, che per una volta che non ha fatto un bel niente si ritrova tra questa
gentaglia a dover spiegare che tipo no, non è intenzionato a fare per
secondo lavoro il Dio dei Morti. Alla fine è venuto un po’ inquietante lo
stesso, a sprazzi, ma immagino che non si potesse fare altrimenti. Quelli lì
mettono paura. Sono i Cattivi.
Sì, Shun lo rendo più giapponese degli altri, vedi
appellativi onorifici etcetera. Non posso farci niente. È evidentemente più
giapponese degli altri, per quanto mi riguarda. Hyoga è troppo straniero,
Shiryu è troppo cinese, Seiya troppo informale, Ikki troppo maleducato. Tutto
detto con molto amore. <3
beat: E via, un po’ si deve
alleggerire sempre, secondo me. Specie sì, piazzando a tradimento che fa sempre
bene. E sì, il freddo e la neve hanno giocato pro. Kyaaa, Nonno Gelo! *O* Anche
a me questa cosa ha intenerito a morte. È più atletico di Babbo! Fa jogging!
Shinji: Grazie per i complimenti,
tesoro! çOç Anche e soprattutto sulla scrittura, che è sempre cosa buona e giusta.
Sì, la disillusione è uno dei temi chiave di Hyoga, che sia contenuta nel nome
appunto è indicativo, ci ho battuto sopra, direi. In quanto al suo percorso…
beh, sì. Per forza è così. <3
Himechan: Grazie! La neve qui è
caduta a sporte e senza dubbio ha aiutato nella realizzazione di questo
capitolo… mentre questo è molto più cccattivo. Dimmi cosa ne pensi anche
qua! >*< Un bacino!
winnie343: Ti ringrazio! :) Oh, è
importante ricevere pareri anche non filoshonen-ai, così si vede se la fic
funziona lo stesso! *O* Grazie ancora, quindi.
LeFleurDuMal: Sì, Mu era lì apposta a
dare tregua, anche se per quanto mi riguarda quella parte è molto straniante. Milo
e Camus ci volevano, punto. Nonno Gelo lo devi usare assolutamente. Non
vedo l’ora di leggere il prossimo capitolo di Neve. Pciù. <3
Kijomi: E infatti ti crediamo
tutti: Shun è pericolosissimo. Sai bene che non lo sottovalutiamo. E io non
faccio preferenze! …forse. Un po’.
Kagura92: Mmh, a Mu è stato
affidato un ruolo un po’ particolare. Non so, spero di avere reso bene anche
lì. Mu può essere estremamente impersonale, per chara, lo vedo bene come
simulacro del Santuario stesso. Agli occhi dei bronze soprattutto. Poi chissà
come m’è venuto! *C* Per il resto mille grazie per i complimenti. Arrivano
sempre dritti dritti.
E Hyoga fa da
schiavo a vita/principe azzurro dall'ottava casa, se non prima. E' lui che non
se n'è accorto. <<<
…e qui posso solo quotarti. *O*;;;;;;
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Capitolo 7 *** Un Canto di Natale ***
Un Canto di Natale
Un Canto di Natale
Capitolo 7. Un Canto di Natale
Dove il Pontefice senza dubbio ha un gran da fare.
Niente di meglio che svegliarsi tardi, una mattina
d’inverno, tra coperte morbide e calde, la luce pallida e azzurra che filtra
dalla finestra. Giornata uggiosa, per quel Natale.
Shion sfarfallò le lunghe ciglia più volte, senza muovere
altra parte del corpo che non fossero le palpebre. Ogni variazione di posizione
avrebbe comportato una modifica alla conformazione che la trapunta aveva preso,
e al momento il Sommo Pontefice di Atena era un piccolo, dolce bruchino avvolto
nel suo bozzolo. Niente e nessuno l’avrebbe fatto schiodare da lì almeno per i
prossimi dieci minuti. Niente e nessuno.
“Prima io! Prima io, prima io, prima io!”
“Aaah! Seiya-kun!”
Contò fino a dieci.
“Non mi batterai, Shun! Guarda qua: scivolata!”
“Seiya-kun, non così forte! Sveglierai tutti!”
Poi sino a venti.
“Aaaascivolooo—”
Il piccolo, dolce bruchino stese le sue gambe di un metro e
passa per buttarsi giù dal letto, spalancare la pontificia porta e sfanalare
con i suoi occhioni rosa chiunque stesse facendo quel baccano anormale in un
luogo sacro. Non che ci volesse molto, naturalmente.
“Giovani cavalieri che qui siete giunti” sillabò,
citando impropriamente – ad Aioros, qualche piano più in basso, fischiarono
vagamente le orecchie – e poi tornando sul prosaico: “Che accidenti state
combinando?”
“Shion!” gli occhioni nocciola di Seiya brillavano come
tante, tante luci di Natale. A Shion venne quasi male. “Buon Natale!”
“Sì, caro, un buon Natale a te. Credo. Cosa ci fate lì per
terra?”
“Sono caduto in scivolata. Shun si è fermato ad aiutarmi.”
“E perché stavi procedendo in scivolata?”
“Per batterlo sul tempo correndo verso l’albero!”
“Seiya-kun” gemette sconsolato Shun, che lo stava
spazzolando e cercando di rimettere in piedi. Formavano un ben caratteristico
quadretto, quei tre – uno in piedi, gli altri nemmeno – nel corridoio della
Tredicesima Casa, il Tempio di Atena, tutti e tre in pigiama. Per la
precisione, Shion in camicia da notte.
“Per favore!” Anche a Shun brillarono gli occhi, comunque,
di commovente lucentezza: “Non è una gara!”
“No… ma arrivo prima io!”
Una finta scaltra, quella di Seiya di Pegasus. Scivolò sotto
il braccio di Shun, lo dribblò con abilità, scansò l’indignato Pontefice che
torreggiava su di loro, e schizzò verso la sala grande il più velocemente
possibile.
Shion sgranò gli occhi, e, boccheggiando, si voltò per
cercare sostegno in Andromeda, che, più mite, di certo un po’ imbarazzato dallo
scarso contegno dell’amico d’infanzia, si sarebbe scusato per entrambi.
Peccato che Andromeda già trotterellasse dietro al compagno
di merende, trillando: “Aspettamiiii!”
L’antico cavaliere di Aries incrociò le braccia, sconvolto.
“Ragazzini.”
“I regaliii!”
“Ci sono davverooo!”
“Kyaaa!”
Poi sbuffò e scosse le spalle, senza ancora spostarsi da
dov’era. Anzi, fece dietrofront e andò a procurarsi un ottimo tè verde, con
tutta la calma di questo mondo. Zuccherò, nonostante le raccomandazioni di Doko
di sorbire il suo aroma in tutta la sua pungente autenticità. Zuccherò molto.
Poi, tazza in mano, papaline ai piedi, scalpicciò svogliato sino alla sala in
cui aveva letto quello svenevole racconto ai cinque bronze saint, due dei quali
stavano ora facendo la lotta sotto l’abete addobbato. Sospirò, si appoggiò allo
stipite, prese un sorso di tè. Ah, il Natale.
“No, Seiya-kun! No!” Contro ogni aspettativa e pronostico,
era Andromeda a sopraffare l’amico e avversario, al momento: lo sovrastava, tutto
bene avvolto nel suo pigiamino a righe, infagottato a sua volta in un maglione,
praticamente seduto sulla sua schiena, e s’imponeva. Con la determinazione di
un orsetto di gomma, ma s’imponeva:“Non si può aprire i regali finché non ci
saranno tutti!”
“Ma Shun! Non ho corso per niente! È una gara e lo sai
benissimo! Lo sanno tutti, è legge universale. Dammi qua. Dam—”
“No-ooo!”
Seiya, sotto lo sguardo ormai indifferente del Sommo
Pontefice, si contorceva come una tarantola. Alla fine si dovette calmare, ma
attaccò un broncio formidabile, che mirava a piegare le difese di Andromeda
puntando sulla compassione. Inaspettatamente, Shun non cedette; però sbatté gli
occhi, cambiando espressione nel portare una mano alla sua guancia: “Seiya-kun,
ma… cosa ti sei fatto?”
“Eh? Oh? Roba da non crederci.”
“Che cosa?”
“Mi è caduta una mensola addosso mentre dormivo.”
“Mentre… che…?”
“Forse mi sono portato troppe cose da casa. Ma l’elmo della
prima armatura di Sagitter, quello dell’armatura falsa, ti ricordi, nel senso,
lo dovevo portare, volevo farlo vedere ad Aioria e…”
“Oh, no! Che male ti sarai fatto! E che spavento a
svegliarti di soprassalto!”
“E chi si è svegliato? Ero nel bel mezzo di un sogno davvero
incredibile, che se te lo racconto nemmeno ci credi, e stavo parlando con
Aldebaran quando tutto ha cominciato a diventare nero ed offuscarsi, e per il
resto del sogno ho avuto una nausea da capogiro e capivo la metà. Poi
stamattina mi sono svegliato e avevo un’asse di legno in faccia e l’elmo sulla
pancia. Buon Natale!”
“Oh, Seiya-kun… sei incorreggibile… dovresti…”
Ma non si seppe mai cosa Seiya avrebbe dovuto fare. Shun era
stato catturato, una falena di fronte a una lampada alogena: lasciò andare
Seiya, lanciò un urletto deliziato, accorse alla finestra, gli occhi grandi
come palle da biliardo. Seiya piantò una sonora craniata a terra, ma botta più,
botta meno…
“Ahi! Che ti prende?”
“La neve! La neve, Seiya-kun! Nevica! Nevica!”
Persino Shion alzò gli occhi dalla tazza di tè per sbirciare
dalla finestra. Effettivamente, nevicava. Che strano. Sino al giorno prima le
nuvole ingombravano sì il cielo, ma la temperatura era ancora relativamente
mite, in quel Mediterraneo continuamente battuto dai venti. Ora fiocchi freddi
e candidi punteggiavano il mattino ancora scuro, grandi come batuffoli di
cotone: uno spettacolo bellissimo a vedersi.
Seiya cedette e ridacchiò, intenerito alla vista: “Non sei
cambiato.”
Ricordava il piccolo Shun correre a capofitto verso le
finestre dell’orfanotrofio, tra le grida dei bambini, arrampicandosi sul
termosifone: era sempre il primo a vedere la neve.
“Hyoga-kun me l’aveva detto.” Scintillava, Andromeda. “Che
forse avrebbe nevicato.”
“Magnifico” commentò Shion, rimarcando la sua scettica
presenza all’angolo della stanza. “Lo useremo per le previsioni meteo.”
Non ci fu tempo di reagire a tanto sviante sentenza, perché
l’altra porta della sala, quella che dava sull’ingresso principale, si spalancò
in un botto.
“Seiya! Shun!”
“Shiryu! Ma… da dove salti fuori? Da quanto sei sveglio?”
“Perdonatemi.” Shiryu aveva i capelli pieni di neve, era
infreddolito, disorientato e pallido come un cencio, forse proprio per il
freddo. Ma sorrideva in una maniera inarrestabile, spontanea, bianchissima:
“Sono tornato!”
“Tornato? E dove sei stato, si può sapere?”
Shion non aveva parlato, ma capì praticamente subito.
Allungò il niveo collo e sbirciò dietro le spalle del Dragone. E poi sbottò:
“Era ora!”
Shiryu parve riscuotersi, con un sobbalzo: “Oh. Pontefice
Shion. Buon… buon Natale!”
“Buon Natale a te, Shiryu. E anche a te, cara. Che gioia.”
Seiya e Shun spalancarono gli occhi in perfetta sincronia, ricreando
perfettamente un’atmosfera da recita di scuola materna: il maestro che vagliava
le prove generali con disappunto, Giuseppe appena entrato in scena, i due
angioletti che simulavano stupore, e Maria con l’aria colpevole di chi si è
appena dimenticato la battuta.
In realtà, Shunrei era abbastanza stravolta da Atene-Goro-ho
andata e ritorno, pur avendo beneficiato solo della seconda tratta: se lo
stesso Shiryu, rallentato ad una velocità percettibile dall’occhio umano, si
guardava in giro come se si fosse bruciato un bicchiere di grappa, si poteva
ben immaginare lo stato psicofisico di lei. Sorrideva, quello sì. I capelli
appena appena scomposti. Per sorridere, sorrideva. Shion sospirò e le allungò
dietro una sedia.
“Benvenuta.”
“Grazie.”
Vi crollò.
“Shunrei-san!”
“Shunrei! Ma che bello vederti qui!” Seiya si fece
immediatamente festoso, raggiungendo lei con un gran sorriso e Shiryu con una
pacca sulle spalle che avrebbe reso orgoglioso Sagitter. Shiryu non smetteva di
sorridere come se il vento gli avesse congelato la faccia, ma probabilmente la
ragione non era quella. “Così, sei andato a prenderla? Tutto in una notte?
Caspita! Ti deve aver fatto vedere i sorci verdi, eh?”
Shunrei, interpellata, e incoraggiata da un occhiolino
amichevole di Seiya, balbettò: “Oh, io… ecco… è stata una tale sorpresa…”
Non solo la visita, ad occhio e croce, ma anche il viaggio:
Shion sospirò. Ragazzini scriteriati. Chissà quanto tempo ci avrebbe messo a
riprendersi. Tuttavia sorrise, un grazioso sorriso sornione, al pensiero che le
sue parole della sera prima, quindi, avevano sortito un qualche effetto. E alla
fine, ad ammetterlo proprio sottovoce, aveva persino un non so che di
romantico.
“Shun” sospirò il Pontefice, riassettandosi la stola pensate
che si era buttato sulle spalle, e ottenendo l’attenzione di Andromeda. “Fammi
un piacere, vai a fare un tè per questa poveretta. Starà gelando.”
“Sì!” rispose prontamente lui, alzandosi pronto per eseguire
quel che gli era stato detto. Sapeva dove trovare l’occorrente, e in caso
contrario, Atena lo avrebbe guidato, poco ma sicuro.
Pochi minuti dopo, canticchiava di fronte al fuoco sotto al
bollitore, quasi rallegrandosi che le ancelle quel giorno dormissero sino a
tardi – disposizioni di Saori-san. A quel modo, quel Tempio tanto grande dava
più un’impressione di casa.
Si strinse nel maglione, sorridendo contento, pensando ai
regali di Seiya, alla decisione di Shiryu, a Shunrei al caldo e soprattutto al
suo fianco. Voltò il capo verso la finestra.
Chissà se suo fratello e Hyoga dormivano ancora; di sicuro,
si stavano perdendo uno spettacolo sorprendente. La neve cadeva sempre più
fitta, creando una trama, e lui chiuse gli occhi, in perfetto silenzio, eccetto
i rumori che provenivano dalla sala, allegri. Non pensò ai sogni: in quel
momento, l’unica cosa che importava era essere lì. Un sorriso fiorì
spontaneamente sulle sue labbra, mormorando un muto grazie. Il presente
era radioso, e la neve bellissima.
Hyoga non aveva osato salire sullo Star Hill, monte sacro il
cui accesso era proibito ai santi di Atena; ma diciamo che ci era andato molto
vicino. Se c’era un perché da ricercare, nell’aria fredda che aveva alleggerito
la mattina di Atene, quello era lui. Sarebbe bastato a Shun uno sguardo più
attento, fuori dalla finestra, per vederlo: una figura, nella nebbia, ma
talmente leggiadra; se non un uomo, un pallido cigno dalle ali spiegate, pronto
a prendere il volo sul pelo dell’acqua.
Ma d’altro canto, a Hyoga non importava affatto di essere
visto.
“Ti ho visto” scandì bassa una voce che non poteva appartenere
a nessuno se non all’unico, oltre a lui, che di tanto in tanto inseguiva la
solitudine lontano dagli altri. Hyoga abbassò la testa, incrociando lo sguardo
di Ikki sulla scalinata. Non mutò espressione. Semplicemente, entrambi
continuarono a camminare sinché le loro strade non s’incrociarono e
proseguirono assieme. “Lassù.”
“Qualche problema?” domandò il giovane,
senz’alcun’increspatura nella voce. Gentile, anzi.
“Umpf. No, affatto. Dovrei?”
“No. Fai la strada con me?”
“In un unico, maledetto posto si può stare, qui.”
Hyoga sorrise, richiudendo gli occhi. Si infilò le mani in
tasca, e procedette al fianco di Ikki per fare ritorno al Tredicesimo Tempio.
Atena li avrebbe raggiunti di lì a poco.
“Già.”
“Ma sono uscito, oh se sono uscito.”
“Per fare cosa?”
“Per fumarmi una sigaretta. Non hai idea di che cosa capiti
se provi ad accendertene una là dentro.”
“Shion è venuto a sgridarti?”
“Tsk! Ci mancherebbe!”
La discussione cadde nel vuoto, ma a Hyoga parve di aver
raggiunto un punto importante. Senza motivo. Quindi non parlarono oltre.
Un’altra cosa che Cygnus pensò, però, fu che poteva incontrare
solo Ikki, su quelle scale, e con lui fare ritorno. Ikki che non poneva domande
di cui non voleva veramente la risposta, e che sapeva rispettare il silenzio.
Ritornavano al Tempio e all’atrio caldo dove li aspettavano regali, tepore,
qualche schiamazzo, e Shun che ridendo eccitato avrebbe indicato la neve fuori
dal vetro, e…
Hyoga scosse la testa.
“Che c’è?”
“Niente.”
“Hmm.”
“Quasi dimenticavo, Ikki: buon Natale!”
“Buon che…? Ah, se lo dici tu.”
“Avanti, non fare il cinico.”
“Io, no. E a te? Li porta ancora, i regali, Nonno Gelo?”
“Ragazzi!” Seiya irruppe proprio in mezzo ai due, con
una carica da far sospettare che avesse preso lo slancio lungo tutto l’atrio
della Tredicesima, con somma gioia del Pontefice. “Ma dove eravate? Dentro! Che
per colpa vostra non ho ancora potuto aprire i regali!”
“Li aprirai oggi pomeriggio, Seiya!” sbottò Hyoga, che per
qualche incomprensibile motivo era diventato rosso come un peperone. Seiya
sogghignò: qualcuno doveva aver toccato un nervo scoperto, e a giudicare dalla
faccia di Ikki, doveva essere stata una cattiveria sapientemente calibrata.
“Oggi pomeriggio non posso. Oggi pomeriggio… uhm… scendo. Ho
un impegno.”
“Ma che impegno e impegno!”
“Devo andare… uhm. A fare gli auguri di Natale. Che dite, ci
sarà gente all’arena?”
“Con questo freddo? E come no. Qui al Santuario sono una
manica di fanatici.”
Seiya annuì energicamente.
Manica di fanatici.
Perfetto.
Shaina sicuramente era lì.
E anche Marin. Chissà se l’avrebbe picchiato.
O se l’avrebbe picchiato Shaina. O tutt’e due.
Al momento davvero non voleva pensarci.
“Chi arriva primo ai regali li scarta tutti!” urlò invece,
voltandosi con una contorsione da record per cui si servì delle spalle di Hyoga
e Ikki, e dopo una mezza capriola già schizzava verso la sala grande. “Sono
in vantaggio!”
“Moccioso” grugnì Ikki, ben piantato sulle sue gambe.
Figurarsi.
“Questo è tutto da vedere!” rilanciò invece qualcun
altro, già adeguatamente provocato e riscaldato, facendo la gioia di Seiya, che
aveva aspettato a lungo quel momento. Per la gran contentezza, volarono
gomitate storiche.
“…Seiya-kun! Hyoga-kun! Ma cosa fate!”
Seiya e Hyoga che si azzuffavano come ragazzini;
quell’incapace di un Pontefice che aveva tutta l’aria di essere sull’orlo
dell’esaurimento nervoso; Shun a cui avrebbe dovuto impedire di trasformarsi in
un redivivo Piccolo Tim; Shiryu che non contento della sua singola presenza si
era portato dietro la Shirya. O come diavolo si chiamava. E la bomboniera
doveva ancora arrivare!
“…mocciosi” si corresse la Fenice, con uno sguardo di puro disprezzo.
Poi, come se niente fosse, s’incamminò verso di loro.
The Carol
Non ho niente da dire, avete
avuto il vostro fluff, spero. Ah, come mi sento soddisfatta.
Le citazioni, qui, sono
multiple, tutte collegate ai precedenti capitoli; magari anche minime, ma se le
cogliete tutte è più carino. :D Tante scuse al povero Shion, che provvederemo a
sommergere di coperte per il prossimo sonnellino, e tanti baci a voi, a chi
legge, a chi commenta (questi ovviamente sono più bravi, buoni e belli
eccetera), a chi ha messo fra i preferiti e chi fra le seguite. Un grazie di
cuore. E Buon Natale! <3
Shinji: Certo che Persy sta bene!
Ma Shun ha ancora da fare, via, in questo mondoh. E sì, i Tre Giganti sono la Morte. Ma in molti sensi, eh. Io non credevo che sarei arrivata ad adorarli tanto. Illusa.
Grazie di tutto, tesoro. Grazie grazie grazie. À toi. <3
LeFleurDuMal: Senti, non ho colpa dei
tuoi problemi con Minos. Anche se dovrei scriverci un saggio sociologico.
Beccatelo così com’è, qui e altrove. E certo che Aiacos è sexy. Aiacos è un sex
symbol. E anche Rhada lo è. Kanon sarà felice di accoglierlo fra le sue forti
braccia. Sono tutti e due fantasmi del Natale Futuro! °C° *SE NE ACCORGE
ORA* Sono colleghi! Si spalmeranno sulle scrivanie dell’uffic—mi sto
lasciando trasportare.Buon Natale, mon amour. çOç
beat: Guarda, Shun ha il
destino di essere o trattato con insofferenza o idolatrato sino allo spasmo.
Non sono per nessuno dei due: va capito un po’ come tutti gli altri, credo. Io
ci provo, sia tributandogli il giusto che ironizzando quando si deve. Spero di
fare bene, la tua recensione incoraggia! *O* I tuoi complimenti comunque sono
sempre meravigliosi. Ti mando tanti baci e tantissimi auguri per le feste! >O<
Himechan: Grazieee! Eh sì, niente
Mondo di Zucchero per Shun. ‘sta cosa in realtà mi fa molto ridere, si è
destreggiato bene in un ambiente dark, diciamo che spande abbastanza luce da
difendersi bene! XD Un bacio e grazie di tutto!
Kijomi: Ti incarto Shun in una
pasta di mandorle, se vuoi. Aiacos rulla. èOé
li_l: Questo commento è
adorabile. Mi hai fatta davvero sorridere, e di cuore; io ti ringrazio tanto,
ti abbraccio e ti tormento: SPIUMOTTINOSPIUMOTTINOSPIUMOTTINO.
Muwahahah. No, dai, basta. Tanti auguri anche a te!
Kagura92: Sì, sì! Tu ascolta Rhada!
Rhada sa! In realtà il Canto di Natale di Dickens lo si legge anche volentieri
– per di più è corto, e poi ormai è un classico. Insomma, non lo sconsiglio a
nessuno. :D (ma solo quello!) Per il resto ti quoto dappertutto, sì, sì, sì.
Grazie. Che bello quando tutto arriva al lettore esattamente come l’ho
concepito. Sei sconvolgente. Due bacioni sulle guance, tanti auguri, tanto
amore! See you! <3
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