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Non so
quanto potrà essere venuto bene, o quanto il cambiamento di stile e genere ne abbia risentito… ma spero comunque che sarà apprezzata,
magari come lettura semplice e senza obblighi.
Anche
perché è una storia che ho creato per un’occasione particolare.
Sì, questa
short story ha una dedica.
E’
dedicata tutta, integralmente, ad una persona molto importante. Ha fatto sì che
io diventassi quella che sono oggi; una persona libera al di
là del carattere intrattabile e delle abitudini dure a morire.
Una
persona che sa scegliere con chi stare invece di amalgamarsi alla massa.
E di
questo, di avermi dato la “libertà”, io non smetterò mai di ringraziarla.
Dedicato a Shichan;
perché non c’è mai due senza tre.
Don’tForget.
Antefatto
Abrahel
The day I becameJoshuaArcher
Lei non
era nulla di speciale.
I capelli
biondi non avevano riflessi dorati, gli occhi non possedevano una particolare
sfumatura di blu, la pelle non era né più chiara né più scura di tante altre.
Era
semplicemente una ragazza.
Bella sì, delicata quanto un giglio lasciato in balia della tempesta;
ma pur sempre essere umano.
E
questo anche Enma lo sapeva.
Nonostante
tutto gliela aveva assegnata. Proprio a lui, che delle
politiche di buona condotta per l’accompagnamento nell’aldilà se ne infischiava
altamente.
Cercava di
ammorbidirlo? Quello della ragazza era un caso anormale, fuori
dall’ordinario?
Non
sembrava.
Eppure
doveva esserci un motivo, se uno dei maggiori esponenti dell’aldilà si era deciso
a scomodarlo dalla sua eterna nullafacenza. Sapendo com’era fatto lui, tra
l’altro.
« Chi sei? » chiese lei, mettendosi a sedere
fra le lenzuola bianche bagnate di luna.
Classica
domanda. Non era speciale nemmeno in questo.
Cosa
cavolo ci faceva lì, allora?
« Uno Shinigami» fu la risposta breve.
Non
rispose, inizialmente. Lo guardò solamente, con gli occhi azzurri fin troppo
puri puntati sui suoi, nascosti nell’ombra dell’angolo più buio della stanza.
Non poteva
vederlo, ne era sicuro. Non più della sua sagoma
scura.
« Sei… venuto a prendermi? » chiese poi, acuta.
« Sì » altra risposta breve.
Un leggero
sorriso, le labbra curvate verso l’alto, lievemente.
« Ti aspettavo, lo
avevo visto » disse.
Ah, eccolo
il motivo.
« Sei una veggente? »
Annuì. « Vedo il futuro nei sogni. Ti ho
visto arrivare… e so già che non mi darai una settimana di tempo, come fanno
tutti gli altri »preannunciò.
« Notevole » fu la semplice risposta, neanche
troppo sentita.
Cosa
ci trovava Enma di pericoloso in una ragazzina
simile? Cosa aveva paura che facesse, con quel potere
particolare che si ritrovava?
Glielo
aveva detto più volte di non interpellarlo se non si trattava di esseri umani rischiosi, che necessitavano di un trapasso
veloce a causa della loro pericolosità.
Quella
ragazza era pericolosa quanto lo stelo di una margherita.
« Potresti farlo… subito? » chiese lei, indecisa nonostante la
richiesta fosse frutto di una forse morale forte.
Non
ribatté. Semplicemente si distaccò dal muro, uscendo dall’ombra.
Si
avvicinò a lei, lievemente e con solo un inudibile fruscio a determinare la sua
reale presenza in quella camera, a provare che non era solo una delle ombre di
un incubo fanciullesco.
Si chinò
su di lei, immobile, posando le labbra sottili e rosa pallido su quelle di lei.
Condannando
la sua anima alla luce eterna, o alle tenebre perenni. Non stava a lui
deciderlo.
Nel
momento in cui si distaccò, il suo corpo ormai esanime ricadde scomposto sul
materasso.
Quella,
era stata l’ultima volta in cui era uscito dall’aldilà.
Francia,
anno domini 1785.
Le regole
ufficiali degli Shinigami sono poche, ma
fondamentali.
Primo: gli
Shinigami si mostrano solo a coloro il cui tempo sta
giungendo al termine. Ogni uomo nasce con un tempo predefinito da poter
utilizzare in vita, oltre il quale è necessario che
l’anima ritorni al cospetto dei signori dell’aldilà.
Gli Shinigami accompagnano queste persone nei loro ultimi
giorni, come figure gentili ma inevitabilmente fatali.
Secondo: viene dato un tetto massimo di sette giorni in cui il dio
della morte starà al fianco dell’essere umano, per quanto gli è possibile. Sono
loro a dover rubare la scintilla, l’ultimo fiato vitale, così che l’anima sia condotta sana e salva nel mondo dei morti.
Il bacio
della Morte, così viene chiamato.
Terzo: il
dio della morte non dovrà mai essere coinvolto sentimentalmente. Sono essenze
antiche, quasi arcaiche, e vengono selezionati
appositamente per questo motivo; per loro i sentimenti sono qualcosa di così
vecchio da essersi perso nei meandri nel tempo, e non ricordano cosa sia
l’amore, o l’affetto.
Tuttavia
sono pervasi da una gentilezza infinita, atta a cercare di far accettare l’idea
della morte all’essere umano che dovrà affrontarla.
O
almeno, lo erano tutti… tranne uno.
Abrahel.
Lui aveva
una sorta di intolleranza verso gli esseri umani,
sviluppatasi in tempi così antichi da essere ormai parte di memorie consunte. Eppure ancora reali, vivide, per lui.
Un
episodio. Un esperimento da parte sua, conclusosi però
in tragedia.
Un uomo,
corrotto dalla bellezza, si innamora della Morte. Un
uomo che, corroso da tale infatuazione, decide di creare ad essa
un altare, per amarla completamente con corpo, mente e spirito.
La Morte
sperimenta questa dedizione inconcludente in modo malevolo, demoniaco: chiede
all’uomo di sacrificargli il figlio, di ucciderlo in suo nome.
Quando
l’uomo lo fece, per poi supplicarlo di restituirgli il sangue del suo sangue,
lui ebbe la sua prova:
gli
esseri umani erano una razza corrotta, inutile e nociva.
In quel
momento, mentre restituiva al padre il figlio così superficialmente
sacrificato, decise.
Decise che
non avrebbe mai più avuto a che fare con gli esseri umani, di qualsiasi cosa si
fosse trattata.
Per lo
stesso motivo, per lui le regole degli Shinigami non avevano
significato. Anzi, le considerava ipocrite.
Gli dei
della morte sono esseri astratti e falsi, che tolgono la vita agli umani solo perché un’entità altrettanto astratta
chiamata Fato ha deciso che la loro ora è giunta.
Rubano
loro quel tempo a cui disperatamente si aggrappano, e poco conta che debbano seguire un santo o un assassino seriale. Tutti,
ognuno di loro, di fronte alla prospettiva della morte piagnucolano, e piangono,
e pregano di non far giungere il giudizio finale.
All’ultimo,
anche se nella loro esistenza si sono dimostrati retti e coraggiosi, la paura
li rivela per quello che sono: codardi.
Per tale
motivo Abrahel non era uno Shinigami
come gli altri.
E come gli
altri non veniva nemmeno considerato.
Lui non
dava possibilità, né prolungamenti di tempo. Non c’erano i sette giorni nel suo
iter comportamentale e non dispensava gentilezza o dolcezza.
Quando veniva chiamato, e fortunatamente non succedeva così tanto
spesso, era solamente per compiti che richiedevano una soluzione veloce.
Assassini,
persone con poteri speciali, psicopatici. Portava lui la morte a quelli di loro
che non se la davano da soli,o che non
finivano sotto al fuoco incrociato della polizia per
una rapina o un tentato omicidio.
Sempre
quelli da inferno, in poche parole.
Tranne
quella ragazzina. L’unica volta in cui aveva visto un’anima finire in paradiso.
L’ultima anima che aveva visto.
«Abrahel?
»
Voltò il
capo, aprendo gli occhi chiari sotto i sottili ciuffi corvini.
Chi aveva
il coraggio di venirlo a cercare, in quell’universo di tenebra e profondo
silenzio?
«Zerachiel» salutò monotono, una volta
riconosciutolo: « cosa ti serve? »
«Enma. Ti
vuole per un incarico » disse quello.
Abrahel
lo guardò con cipiglio confuso.
Da quanto
era che non veniva convocato per un’assegnazione? Da
quanto tempo, da quanti… anni?
Nel
rimanere a fluttuare nell’oscurità di quel mare buio si perdeva il senso del
trascorrere del tempo.
Zerachiel
sorrise appena, gli occhi ridenti di benevolenza. « Una buona occasione
per vedere un po’ di luce, non credi? » azzardò.
Abrahel
sospirò rassegnato, cominciando a muovere le mani per cercare nella sua
incoscienza una qualche percezione del suo corpo, ormai perduta nell’immobilità
a cui si era completamente abbandonato.
Le dita di
piedi e mani formicolavano, ma c’erano. Ora anche le braccia, le gambe, i
muscoli del collo, tesi… poteva sentirli. I capelli
gli solleticavano le gote, la veste di seta scarlatta
accarezzava leggiadra la sua pelle.
Trovare le
sensazioni del suo corpo era come ritrovare se stesso un’altra volta.
Sperava
l’ultima.
« In che anno siamo? » chiese allora, guardando Zerachiel con una maschera di apatia.
Doveva
essere un incarico di routine. Probabilmente Enma
voleva mandarlo sul Mediano solo perché stava scadendo il tempo, e lui doveva
portare un’anima nell’aldilà per prolungare la sua presenza in quel mondo di
nulla.
Gli Shinigami non muoiono, no, non possono.
La Morte non può morire.
Però
possono scomparire.
Quando
non entrano in contatto per troppo tempo con l’anima di un essere umano, quando
non si nutrono della loro ultima scintilla vitale… semplicemente spariscono, si
dissolvono.
L’oblio
della sparizione era l’unica cosa rimasta capace di spingere Abrahel a mantenere una coscienza. Altrimenti
avrebbe volentieri cancellato anche quella.
Zerachiel
non si scompose, aspettando con pazienza che l’essere ritrovasse la mobilità
persa. Rispose alla sua domanda, cortesemente: « duemilanove dopo Cristo ».
« Duecento anni… » sussurrò Abrahel,
riguadagnando la posizione eretta nonostante fluttuasse ancora.
Era da
duecento anni che non vedeva nessuna luce.
« Un po’ di più » ribatté l’altro, sempre
sorridente.
Per la
prima volta dopo più di due secoli, l’espressione dello shinigami
mutò; lineamenti di un’ira seccata comparvero a curvargli le labbra sottili
verso il basso, così come le iridi spente brillarono di qualcosa simile al
risentimento. « Non trattarmi come una delle anime
che scarrozziamo avanti e indietro Zerachiel, non c’è
bisogno di quella ostentata gentilezza con me » sputò rabbioso.
«Perché
pensi sempre che le persone non possano essere veramente gentili con te, Abrahel? Solo
una volta ogni tanto? » ribatté l’altro.
Un lampo,
un ghigno su quegli occhi color neve.
« Perché sono la morte, Zerachiel»
rispose solamente, prima di passargli accanto per dirigersi fuori
dal mare oscuro.
L’angelo
sospirò con rassegnazione.
Shinigami…
non imparavano mai.
I palazzo
di Enma non era diverso da quello degli altri sovrani
dell’aldilà.
Enorme,
maestoso e inopportunamente facoltoso. All’interno, un’enorme stanza circolare
piena di porte faceva da luogo di transizione per anime sole e fluttuanti,
sfere di luce che attendevano il giudizio per essere indirizzate nel posto in
cui avrebbero dovuto passare l’eternità.
Si poteva
riconoscere il tipo di anima dal colore della luce che
emanava. In definitiva, erano molte sfumature di grigio.
Poche
erano le anime nere, quelle così malvagie da aver perso completamente la loro
luce.
E, nonostante in passato ne vedesse alcune, quelle
completamente bianche erano ormai scomparse. Nessun lucore puro brillava in
quella stanza ormai, probabilmente a causa dei tempi che cambiavano, e la
possibilità di non vedere bontà nel mondo gli lasciava uno strano senso di
nostalgia.
A lui non
interessava se la bontà spariva, nel mondo degli esseri umani.
Semplicemente,
era dispiaciuto dal fatto che i suoi pensieri sulla razza umana fossero così
veritieri, confermati dall’assenza progressiva di quelle luci pure.
Gli esseri umani erano inutili.
Quando
mise piede all’interno della grande sala, fasciato
dalla formale divisa nera e scarlatta che si era deciso di rifilare agli Shinigami, i beati addetti all’ enumerazione delle anime si
ammutolirono.
Non era
frequente vedere Abrahel camminare in quella sala…
anzi, in quel mondo.
Solitamente
si rinchiudeva nelle regioni oscure dell’aldilà, dove non vi era altro che buio
e silenzio, e la sua presenza in quel luogo poteva
significare solamente che c’era un’anima malvagia in arrivo.
Abrahel,
il “Cacciatore delle Luci Nere”.
Enma
lo scomodava solo per prelevare anime nere o grigie scure. Per
questo nessuna buona sensazione scorreva nello spirito di quello Shinigami, che si cibava solo di scintille oscure, prive di
luce.
Prive di
sentimenti positivi.
Le iridi
albine vagarono per la sala, fulminando gli addetti alla selezione con insensibilità.
Quegli occhi, di quel colore bianco che a lui poco si addiceva, avevano il
potere di gelare chiunque li guardasse troppo a lungo,
e dunque portavano gli altri a distogliere lo sguardo.
Che
lui, puntualmente, distoglieva a sua volta.
Anche
in quel momento.
Proseguì
per il suo cammino, velocemente ma non così tanto da sembrare di fretta. Voleva
togliersi di dosso quegli sguardi e tornare ad affogare se stesso nell’universo
buio che si era scelto come casa, nel silenzio del nulla.
Appena
notato il suo obiettivo, i suoi occhi non videro nient’altro.
« Pietro » chiamò, la voce modulata e vuota.
L’anziano
santo, avvolto nella sua tunica bianca ed oro, voltò
lo sguardo limpido in sua direzione. « Oh, Abrahel! » disse con gentilezza: « strano vederti qui, davvero. Abbiamo in arrivo un’altra anima oscura?
» chiese, sorridendo dolcemente
nonostante il ragazzo davanti a lui non avesse la minima intenzione di
rispondere a quel gesto.
« Non lo so » rispose l’altro: « sto per l’appunto cercando Enma».
Davanti
alla sua apaticità, Pietro non fece una piega. Era abituato a non vedere
emozione alcuna su quel viso delicato e fin troppo bello, in quegli occhi
chiari e trasparenti come il ghiaccio.
« Ti consiglio di
controllare l’esterno, solitamente si reca lì » gli consigliò.
Abrahel
annuì appena prima di andarsene, salutando Pietro con un breve cenno del capo e
una parola sussurrata velocemente.
Non c’era
mai bisogno di prodigarsi in ringraziamenti prolissi con il santo del giudizio,
e anche se ce ne fosse stato bisogno lui sarebbe stato
l’ultimo a farlo.
Ignorando
gli sfuggevoli sguardi che il suo passaggio attirava inevitabilmente su di lui,
il dio della morte proseguì in direzione di una porta laterale alla stanza, semi nascosta fra una colonna e un arazzo con
ritratta chissà quale figura celeste. Attraversò un corto corridoio in penombra
e, assottigliando gli occhi all’improvvisa luce esterna, si ritrovò nel
giardino di rose dietro il palazzo.
L’angolo
di pace di Enma.
Ed infatti il capo degli shinigami
spiccava elegante in mezzo ai fiori multicolore, rigogliosi.
Sembrava
un uomo, ma non lo era. Era semplicemente un’esistenza dalla forma antropomorfa
creata per controllare coloro che amministravano la
morte. Poteva scegliere da solo che forma assumere, e non era infrequente che
modificasse i suoi lineamenti con artigli e becco da rapace. I capelli corvini
e lunghi sforavano tutta la schiena fino alla zona lombare, delicatamente adagiati
sulla seta nera di un abito a strascico dagli intarsi d’oro.
Lui non
aveva bisogno di voltarsi, per “vedere”. Percepiva la presenza di chiunque, Shinigami, angelo o santo che fosse.
Di fatti,
non lo osservò per sincerarsi della sua presenza, quando prese a parlare.
« Grazie per essere venuto così in
fretta, Abrahel» disse, la voce colma di quella gentilezza che tutti a avevano nei confronti di tutti; ma che sulle sue labbra
risuonava di un tono diverso, regale.
« Mi piacerebbe sapere quale
pericoloso criminale è a piede libero sul Mediano da necessitare
il mio intervento » arrivò diritto al punto, quasi
frettoloso di andarsene. Non apprezzava particolarmente stare al cospetto di Enma… di nessuno che avesse il
potere di obbligarlo a fare quello che non voleva.
Non lo
vide in volto, ma poté percepire la risatina sincera che vibrò nell’aria.
Anche
questo suo comportamento perennemente sconclusionato lo irritava.
« Nessuno, a dire il vero. O almeno, nessuno che debba morire entro breve » rispose l’essere, sfiorando con le
dita affusolate e pallide un bocciolo rosso sangue.
Lui arricciò
il naso, seccato.
«E allora
per cosa ti servo, di grazia? »
chiese sgarbato, dandogli del tu.
Enma
ridacchiò ancora, divertito da quel comportamento scostante. Era sinceramente
ilare vedere quanto lo Shinigamicercasse
di mascherare quel disgusto di fondo che provava per qualunque cosa, che
parlasse o semplicemente esistesse; come le rose.
Era quasi
convinto che non gli sarebbero piaciute nemmeno quelle.
« Per un incarico, ovviamente » gli rispose di nuovo Enma, togliendo qualche foglia gialla dai cespugli profumati
e punteggiati di fiori rossi.
Abrahel
non ribatté nulla, attendendo probabilmente che l’altro continuasse
da sé. Era inutile chiedere, se Enmaaveva deciso di giocare con lui per una sorta di diletto
personale.
Quando il
silenzio si fece pressante, fu infatti l’altro a
continuare il discorso.
« Non è un criminale, né un’anima
oscura. Anzi, ritengo che sarà un’anima candida, questa volta » precisò.
Se
avesse avuto un cuore, probabilmente avrebbe perso un battito.
« Mi rifiuto » disse subito.
« No, non puoi » gongolò Enma.
«E perché?
»
« Perché non te lo permetto » disse ancora, quasi in estasi: « non solo perché devi nutrirti dato che rischi di scomparire entro qualche anno, ma anche
perché un’anima bianca di cui
nutrirti ti serve. Guarda in faccia la realtà, non puoi
vivere rubando spiriti oscuri una volta ogni duecento anni » aggiunse.
Abrahel
arricciò il naso, disturbato da quel discorso quanto come lo sarebbe stato da
una mosca ostinata.
Enma,
dall’alto della sua ostentata leggerezza, continuò: « hai avuto a che fare con un’anima
pura in passato, no? Non dovrebbe essere una cosa totalmente nuova per te ».
Lo Shinigami assottigliò gli occhi, serrando le labbra.
Ricordava
fin troppo bene la sua prima e ultima, nonché unica,
anima bianca. Una ragazzina malata di leucemia nel sedicesimo
secolo, con capelli biondi e occhi azzurri, e con la particolare capacità di
vedere il futuro nei sogni.
L’unica
che non abbia avuto paura o che non si fosse sottratta al bacio con cui l’aveva
privata dell’ultima briciola di forza vitale che la teneva in vita.
Erano
passati più di due secoli eppure, ogni tanto nel suo interminabile sonno privo
di coscienza, ancora ci pensava.
Al perché
non fosse scappata, al perché non lo avesse rifiutato come tutti gli altri.
« Non voglio più avere niente a che
fare con esseri umani dall’anima pura » disse, voce lineare, deciso a non accettare un incarico simile
nemmeno sotto tortura.
Non
sopportava gli esseri umani di principio; la loro razza, la loro abitudine al
masochismo, il loro materialismo e l’attitudine che avevano nel rovinare
qualsiasi cosa su cui mettessero le mani.
E
aveva a che fare con criminali, per lo più. Figuriamoci se si fosse messo a prendere anime candide.
Se li figurava tutti con gli occhi blu di quella ragazza…
Enma
rise al suo tentativo di cavarsene fuori, di cuore.
« Tu farai quello che ti dico,
invece » ridacchiò: « e lo farai bene, questa volta. Non in due minuti come sei abituato a fare di solito. Voglio
che applichi le regole standard degli Shinigami, che
passi con la persona che ti indicherò il tempo
necessario per farle affrontare l’idea della morte nel modo più sereno
possibile. Non tollererò altre anime spaventate e in preda al panico davanti a
Pietro, come non ti concederò persone che hanno visto la tua venuta in sogno e
che possono quindi evitarti l’impiccio » spiegò, con una leggiadria quasi fuori luogo per un discorso simile.
Tagliò un
bocciolo, lasciandolo cadere a terra. Quello si adagiò sull’erba senza rumore
e, in un certo senso, anche quell’azione tanto abituale nella cura delle rose
parve un avviso rivolto a lui.
Abrahel
non rispose, ribattendo con il silenzio per non esprimere la costrizione con
cui si ritrovava a dover provvedere ad un incarico simile.
Perché
era ovvio che fosse obbligato.
« Chi è? » chiese dunque, rassegnato all’idea
di dover passare sette interminabili giorni fingendosi umano fra gli umani.
Se avesse
potuto vederne il volto, era sicuro che sulle labbra di Enma ci fosse stampato un sorriso da vincitore.
Vincitore
in ogni caso, tra l’altro. Chi ha potere decisionale vince sempre.
Era in
questo che l’essere era simile agli esseri umani.
« Sono felice che tu ti sia convinto
» osservò con voce calma, la falsità
dell’obbligo che gli aveva messo sulle spalle nascosta
da quei toni quasi infantili. « I
documenti per il tuo incarico ti verranno consegnati
in poco tempo, non appena saranno completati. Quando li avrai,
ti consiglierei di crearti un’identità che combaci con la maggior parte degli
impegni che il tuo obiettivo ha nella giornata ».
« So fare il mio lavoro » lo interruppe lui, seccato da quei
consigli superflui che Enma sembrava tanto in vena di dispensare.
« Oh, ne sono convinto… » rispose malizioso l’altro. « Bene, puoi andare » aggiunse poi.
Abrahel,
senza nemmeno salutare, girò i tacchi e si allontanò a passo svelto, quasi
violento, puntando i piedi con rabbia contro l’erba verde chiaro del giardino.
Enma,
rimasto accanto alle rose di cui si prendeva cura ma che non poteva amare, si
voltò appena per guardare la sua schiena scomparire oltre la porta da cui era venuto.
Alzò
l’angolo della bocca e ghignò, compiaciuto di se stesso.
Chissà…
forse avrebbe imparato qualcosa, questa volta.
Sospirò,
sorridendo. « Tu sei sicura che fosse lui quello della tua visione, Selene? » chiese, apparentemente al nulla.
« Sì » rispose però la voce cristallina di qualcuno; di una
ragazza dai capelli in lunghi boccoli biondi e dagli occhi blu indaco, fasciata
in un vestito bianco dal taglio tardo-settecentesco.
Raccoglieva
le rose con un paio di forbici in argento cesellato, posandole al suo fianco in
un mazzo che pian piano si ingigantiva. Una nuvola
rosso sangue che sfigurava quasi, accanto alla bellezza pura e all’innocenza di
quell’anima.
Il ghigno
del re si trasformò in un sorriso compiaciuto. Osservando ancora il punto in
cui lo Shinigami era sparito, gli occhi carmini di Enma brillarono di una
scintilla divertita.
Abrahel è il nome di un demone
mitologicamente esistente. All’interno del capitolo è nascosta anche la storia
che lo riguarda, facilmente rintracciabile su Wikipedia.
Teoricamente con gli Shinigami centra poco e niente;
il più adatto sarebbe stato Azazel, che fungeva da
“Caronte” per le anime dei morti… ma Azazel era stato
usato in talmente tante altre opere (per esempio il film “Dogma”) che mi
sembrava ripetitivo utilizzare lui.
Passatemelo
come libertà artistica ^^’’’
Selene è il nome di una beata (Selene Alleine) primogenita di una nobile famiglia di Reiterstarker, fondatrice e badessa dell’abazia di Sant’Anderswo. Non è detto che sia stata beata nel
settecento, come ho messo nel capitolo, ma per bieca convenienza la userò con
questa tempistica. Mi piaceva il nome, dato che era la
parola greca che designava la Luna.
Enma è il nome giapponese per il dio
buddista dell’oltretomba. E’ usato anche in manga come “Yami noMatsuei” (in italiano “La Stirpe delle Tenebre”) dove
ha lo stesso ruolo di questa fanfic.
Zrachiel è un angelo mitologicamente
esistente. Non pensate che gli Shinigami siano
demoni; semplicemente loro sono neutrali fra bene e male, perché aiutano la
Morte, che è neutrale a sua volta.
Ok, il
prologo è andato. Ed è noioso, lo so, ma utile.
I capitoli
dovrebbero essere sette in tutto, e cercherò di frenare il mio impulso ad
allungare sempre tutto, altrimenti non finisco più.
Shichan: sono felice che ti piaccia *sisi* anche perché l’ho dedicata a
te, ci mancherebbe solo che sia venuto uno schifo
Shichan: sono felice che ti piaccia *sisi* anche perché l’ho dedicata a te, ci mancherebbe solo
che sia venuto uno schifo.
Ami Abrahel perché è comparso solo lui prima d’ora XD mi sa che
amerai anche Eric, conoscendoti, da questo capitolo in poi.
Grazie mille
per le considerazioni stilistiche, sono felice che non
sia scialbo. E che Abrahel
sia figo, per l’amor del cielo, non è
un fatto da nulla U___ù.
lucy6: in una copia di quello che ho
detto sopra, grazie anche a te per i complimenti stilistici; e sono altresì
contenta che la premessa ti piaccia, davvero. Grazie mille per la recensione
<3
Trovava
che non ci fosse nulla di così entusiasmante in posti come quello.
La musica
alta era fastidiosa, il caldo soffocante, l’odore di alcool
e sudore quasi stomachevole.
Se si
voleva parlare bisognava urlare, sovrastare in qualche modo quel costante
rimbombo di bassi che facevano tremare la cassa toracica.
E, in ogni
caso, era probabile che la persona con cui si voleva discorrere non fosse
esattamente in sé per capire cosa si veniva detto.
Situazione
in cui si trovava quasi ogni fine settimana.
Ogni santo venerdì sera in cui si faceva convincere dai suoi due
amici schizzati ad andare al Rock Theater, discoteca
di musica rock/dark/commerciale abbastanza famosa a pochi chilometri dalla
costa.
E
“abbastanza famosa” significava letteralmente “fin troppo affollata”; cosa non
male se ci si vuole strusciare in mezzo a corpi sudaticci che si muovono a
ritmo sincopato su una pista da ballo, oppure se si vuole bere fino a quando il
fegato non si trasforma in una spugna imbevuta di etanolo…
un po’ meno bella cosa, invece, se di rimanere quattro ore in mezzo al fracasso
(perché ad un volume così alto era solo bordello, non era musica) non se ne
aveva nessuna voglia.
Come lui, che
in certi locali ci andava solo se ci veniva
trascinato.
Cosa
che succedeva perennemente, per l’appunto.
« Ehi Eric, un po’ di vita per Dio! » sbottò Douglas al suo fianco,
circondandogli le spalle con il braccio muscoloso: « Cristo, sembri mia nonna » aggiunse.
Il castano
si scostò un paio di ciuffi corti da davanti agli occhi, puntando le iridi
scure direttamente sul viso squadrato dell’amico. « Non pretenderai che io mi ci
diverta anche, in posti come questo » sputò, seccato.
Lo avevano
preso proprio nella giornata sbagliata, poveri loro.
« Certo che ti ci diverti, santo Dio! Ci veniamo sempre e non ti ho mai sentito
lamentarti » aggiunse l’altro membro del
terzetto, Robert, terminando con dovizia di incastrare una buona manciata d’erba dentro una cartina.
« Sì, Cristo, ha ragione Rob» aggiunse Doug: « nemmeno io ti ci ho mai sentito ».
« Cazzo, ma volete lasciare in pace
Cristo? » sbottò Eric, togliendosi con un
movimento non rude il braccio di Douglas dalle spalle.
Lui si era
lamentato, invece. Peccato che la maggior parte delle volte o lo ignoravano, o erano troppo sballati per starlo a sentire e
capire veramente quel che dicesse.
La ragazza
dietro ad uno dei tanti banconi tornò con le loro ordinazioni, sorridendo di
scherno al tentativo malriuscito di Robert di
abbordarla.
«Che c’è,
che ti ha fatto di male Gesù? »
sfotté lo stesso, infilandosi la paglia appena richiusa dietro l’orecchio, in
mezzo ai ricci neri.
« A me proprio niente » rispose Eric, infilandosi le mani
nelle tasche dei jeans chiari. « Solo non mi piace molto che si usi come intercalare ogni qualvolta capita l’occasione,
tutto qui. Sono sicuro che il vostro repertorio di parole colorite è notevole
anche senza scomodare santi e beati » spiegò, fissando lo sguardo sul buttafuori in mezzo alla folla.
Quanto
sarà stato alto quel tizio, due metri? E non aveva
mandato via da quel posto quei due imbecilli dei suoi amici nemmeno una volta?
« Cazzo Er, che palle che sei» rispose l’amico, ingannando il
tempo dell’attesa occupando le mani in un altro patchwork di erba e cartine: « se la tua carta d’identità non
dicesse chiaramente che hai vent’anni, come minimo te ne darei quarantacinque » sfotté di nuovo, ridacchiando.
« Beh, qual è il problema? » chiese Eric, evitando per
l’ennesima volta il braccio muscoloso di Doug in procinto di circondargli le
spalle.
« Sei un maledetto matusa, Eric! » disse il suddetto, rinunciando
definitivamente a stritolare l’amico: « tu non sei un adolescente normale! » aggiunse.
« Ohi! Da chi si tirerebbe i confini
della Croazia se fossero segnati con la coca non le voglio sentire, queste
cagate » ribatté lui sulla difensiva.
Odiava
quando si andava a finire su quel discorso. Tutte le volte che i due
commentavano le sue abitudini pacate con quell’aria da
saccenti gli veniva prurito alle mani dalla voglia di prenderli a sberle.
Cosa che,
lo sapeva, non sarebbe comunque servita.
Erano più
testardi di muli e dei grandissimi coglioni; se si mettevano in testa una cosa,
o si faceva o si faceva, le alternative non venivano
nemmeno prese in considerazione.
Soprattutto,
si faceva solamente se Eric prendeva in mano le chiavi della macchina e li
accompagnava ovunque volessero senza fiatare.
Così che poi
toccava a lui farsi trenta chilometri in giro per la città nel disperato
tentativo di accompagnare a casa quei due sfigati,
convincendo uno di non essere il capitano Kirk sull’Enterprise e cercando di arrivare a casa dell’altro prima
che vomitasse nella sua macchina.
Quando,
al contempo, cercava di persuadere se stesso che il primo avesse ancora qualche
neurone non bruciato dalla droga e che il secondo avrebbe messo la testa a
posto per quanto riguardava l’alcool, almeno per rispetto al suo fegato che
dire martoriato non rendeva nemmeno l’idea.
Ma non
cambiava mai niente, mai. La settimana successiva era un ripetersi sempre della
solita scena.
Sipario
che veniva alzato anche su di lui, quando Robert gli
passava quasi casualmente una canna imbottita d’erba fino ad esplodere o Douglas ordinava puntualmente il suo drink dalla colonna di
quelli più alcolici in lista.
Lo
trascinavano, legandolo con le catene del vizio ad un gioco a cui non avrebbe
nemmeno voluto partecipare.
Ma si
sentiva obbligato, costretto; e la sua spinta a
continuare per quella strada erano i suoi ragionamenti sconclusionati.
Perché
si rendeva conto che Douglas e Robert non erano di certo gli amici ideali per
lui, così boriosi e pieni di sé da fare schifo… ma sapeva anche che erano gli
unici che lo invitavano fuori la sera, costantemente.
Che,
dopo di loro, tutti gli altri volti che componevano il suo mondo non
raggiungevano l’appellativo “amici”; rimanevano solo “compagni”.
Compagni
di corso, compagni di squadra, compagni di studi. Mai oltre.
Lasciò
perdere i discorsi dei due nello stesso istante in cui, preso controvoglia il
bicchiere con il drink e bevutone un sorso, sentì almeno quaranta gradi
d’alcool scivolargli giù per la gola.
Bruciandola, in quel retrogusto di lime e cedrata, nascosto
violentemente dal gin e da quella che sembrava vodka.
E lui doveva guidare, porca miseria.
Ma poco importava. Era sempre
importato troppo poco.
Non
arrivava mai all’eccesso, alla sbornia violenta, di quelle da non capirci più
niente.
Beveva
solo fino al sopraggiungere di quella rassicurante foschia ovattata, che si
calava piano sul suo cervello fino a rallentarne le funzioni, a mitigarne le
disperazioni e disintrecciare i pensieri dalla patina di dolore e solitudine
che li avvolgeva.
Dopo
averne bevuto più di metà, ed avere ovviamente perso di vista i due che in
teoria lo accompagnavano, la poco famigliare tranquillità che lo avvolse lo fece sorridere.
Lui non reggeva bene l’alcool, alcuni dei suoi compagni di squadra glielo
dicevano spesso. Era proprio quello il bello.
Sballava
con niente.
Leggermente
rintronato da quell’iniezione di etanolo si lascò
andare su una poltroncina, sporca di cosa non voleva nemmeno saperlo.
Sentiva la
canottiera bianca aderire ai muscoli allenati della schiena, umida di sudore
dato il caldo soffocante dell’ambiente. Peggio dell’afa estiva; l’aria sembrava
condensata, quasi solida.
Boccheggiò,
strizzando gli occhi. Poi, a corto di cose da fare quando non aveva pensieri
con cui disfarsi i neuroni e l’umore, decise
istintivamente di guardarsi intorno.
Non vedeva
altro che corpi. Ballavano, scatenandosi in preda agli istinti più impellenti,
seguendo il ritmo serrato della batteria e dei bassi sparati a palla dagli
altoparlanti. Braccia e mani, movimenti suadenti, sguardi
languidi. Si strusciavano l’uno sull’altro, a volte casualmente altre
volte volutamente, azzardando a toccare con mano ciò che normalmente, alla luce
del sole, non sfiorerebbero nemmeno con lo sguardo.
Tuttavia,
non si poteva mettere in dubbio la sensualità di quelle danze. Accompagnati
dalla musica adatta, dalle canzoni giuste anche se ridotte quasi ad un rumore
continuo senza senso alcuno, quelle avances spietate avevano il potere di
incantare anche chi non partecipava, ma guardava solamente.
Erano
quelli i momenti in cui si lasciava andare completamente ai suoi desideri più
vili, più meschini. Più nascosti. In cui socchiudeva gli occhi e, facendo come
se nessuno lo guardasse, sfiorava da sopra la stoffa dei
jeans l’interno coscia, distrattamente, approfittando di quella momentanea
mancanza di raziocinio.
Ma
poi, puntualmente, non andava mai oltre. Se ne rendeva conto
prima, di essere ridicolo.
Esattamente
come in quel momento, quando la sua mano si fermò d’improvviso sulla sua gamba.
Sospirò.
Si faceva quasi pena.
E non
sarebbe stato in quel posto nemmeno un minuto di più.
Si alzò,
lasciando sul tavolino il suo drink ancora a metà, attraversando il mare di
corpi con l’unica intenzione di raggiungere l’uscita, di respirare un po’
d’aria.
Era
distrutto e non aveva ancora fatto niente. Nemmeno
ballato.
Ma necessitava di ossigeno. Aveva un bisogno fisico di un’aria
pulita, del freddo della sera sulla sua pelle accaldata e dell’odore di rugiada
nelle narici.
«Eeeeeeeehi,
Eric! » strascicò Douglas frapponendosi
improvvisamente fra lui e l’uscita, con entrambe le mani occupate a palpare le
natiche di due ragazze ubriache quanto lui. «Che fai? Te ne vai? Mi lasci qui con Jiji ed Emma? » si lamentò, già oltre la soglia solita di annebbiamento
celebrale dovuto dagli innumerevoli cicchetti che si era già ingoiato,
buttandoseli direttamente nel sangue e nel cervello.
« No, Doug, no… » biascicò a sua volta, sempre più
confuso e disturbato da quel posto. Oppresso, sentiva come semuri si stessero chiudendo su se stessi,
intrappolandolo fra innumerevoli pareti di musica e corridoi odoranti di sesso
sporco e lascività. « Vado solo a prendere… una boccata
d’aria » cercò di spiegare.
Ma era
ovvio che Douglas, già normalmente poco attento a qualsiasi discorso che si
cominciava, in preda ai fumi di chissà quale liquore non voleva nemmeno considerare il fatto che lui avesse facoltà di parola.
Lasciò
andare le due ragazze fra un mare di risolini insulsi, afferrandolo in tutta la
sua mole non indifferente e appoggiandoglisipraticamente sopra.
Un brivido gli percorse la schiena quando, sentendo le sue mani
lungo la colonna vertebrale, percepì il chiaro fraintendimento in cui spesso il
Douglas ubriaco cadeva: quello di considerarlo alla strenua di un giochetto
sessuale abbastanza divertente, nonostante il ragazzo continuasse (da sobrio,
ovviamente) a professarsi un eterosessuale più che convinto.
« Doug, lasciami » disse, calmo nonostante tutto,
distogliendosi dalla presa con la forza che intere giornate in piscina avevano
avuto modo di conferirgli.
L’altro si
lamentò in maniera piuttosto disarticolata, ma lasciò perdere non appena si
convinse di non avere abbastanza equilibrio per
riacciuffarlo.
«Senti… vai
a cercare Rob, ok? Assicurati che sia nei paraggi » propose Eric, conscio che una
richiesta così semplice sarebbe stata accettata al volo dal tasso alcolemico da
coma etilico che ora guidava il cervello del ragazzo.
Quello
sorrise, decisamente rincoglionito, annuendo piano: « Sì, va bene… ma solo perché ti
voglio bene, ok Er? » biascicò, ritornando con la mano
sul sedere delle ragazze e dirigendosi a passo malfermo verso i bagni.
Robert era
là di sicuro, a spacciare e a tirare, come sempre. Sperava solo che non si
fosse sniffato anche le piastrelle, di quei fottutissimi cessi.
Da parte
sua, riprendere a camminare verso l’uscita fu la cosa più difficoltosa che gli fosse mai capitata di fare. Muovere il primo passo,
specificatamente, fu una vera agonia. Il suo mondo si era ristretto, era
diventato incredibilmente soffocante, e sentiva gli stessi sintomi di quando in
vasca gli prendeva l’ansia prima della gara.
La vista sfocava, le forze sembravano abbandonarlo.
Doveva
uscire. Ormai sembrava, ridicolmente, che la sua vita dipendesse dalla boccata
d’aria fresca che lo aspettava.
Non c’era
più nessuno fra lui e l’esterno del locale; anche la musica si attenuava con la
lontananza, divenendo più ovattata man mano che
camminava. Sembrava brancolare nel buio, e non disse nulla quando l’addetto gli
timbrò la mano per consentirgli di rientrare. Semplicemente seguì l’aria
fresca… e uscì.
Respirò a
pieni polmoni, ringraziando silenziosamente la notte per essere così fredda e
maledettamente rigenerante.
Le sue
orecchie, a causa della musica alta, erano come tappate. Come se si trovasse
senza cuffia in acqua e il liquido gli impedisse di sentire chiaramente i
rumori che lo circondavano.
Le voci
delle persone all’esterno, alcune messe molto peggio di lui e abbandonate sui
muretti o sostenute dagli amici, arrivavano a lui come lamenti
– e non erano effettivamente lontanissimi dall’esserlo.
Facendo
respiri profondi si andò a sistemare nel pezzo di muretto più isolato, contento
per la prima volta in vita sua di essere da solo. Si sedette pesantemente,
puntando i gomiti sulle ginocchia e prendendosi la testa fra le mani.
Doveva
farsi passare quella sottospecie di sbronza prima di tornare, altrimenti sarebbe veramente stato un divertimento guidare.
Un leggero
odore di nicotina aleggiò nell’aria.
« Stai bene? » chiese una voce da poco più
avanti, semi-nascosta nell’ombra delle piante che decoravano quel pezzo di aiuola a muro.
Non alzò
nemmeno lo sguardo. E non rispose, inoltre.
Non ci
volle molto perché la voce – sicuramente maschile – si facesse sentire di nuovo.
Era decisamente particolare, considerò mentalmente;
gentile ma in un qualche modo distante, dava un’idea di superficialità ma era
al contempo melodica, quasi suadente.
« Sul serio, non sembri molto in
forma » disse, prendendosi una certa
libertà nel parlare con lui.
Si decise
a guardare da che pulpito veniva la predica.
Quando
alzò appena il viso, puntando gli occhi alla sua destra, il ragazzo più
particolare che avesse mai visto entrò prepotente nel suo campo visivo,
marchiando quell’immagine a fuoco nella sua mente.
Capelli
scalati e corvini, corti a sfiorare il collo in ciuffi dall’aria maledettamente
simile alla morbidezza della seta, eppure perfettamente lisci.
Il volto dalla carnagione chiara aveva i lineamenti decisamente
mascolini ma al contempo dolci, che incorniciavano il paio d’occhi dalle iridi
più chiare che avesse mai visto; non erano azzurre, ma nemmeno bianche…
sembravano realmente fatti di ghiaccio fuso, oppure di cristallo. Persino
l’apparenza era strana: quasi finta, di vetro, come se quegli occhi fossero
stati rubati ad una bambola di porcellana che non se li meritava, strappati ad essa per essere degnamente posati su quel volto dalle forme
sia angeliche che demoniache.
Il corpo
snello e praticamente perfetto era fasciato di nero:
un paio di jeans scuri e una camicia nera aperta sul collo, non troppo aderente
ma generosa nel mostrare le forme.
Solo una
cosa sfigurava nella sua bellezza, quasi effimera ma fondamentale al contempo: l’aria
di distaccamento che accompagnava ogni sua espressione, persino quel sorriso
all’apparenza gentile che adesso gli stava mostrando.
Al suo silenzio imbambolato, il ragazzo sorrise un po’ di più. Mostrò la mano
destra, con una sigaretta stretta fra indice e medio: « un tiro? » chiese, diretto.
« Per l’amor del cielo, no… » ci mancava solo quella!
Riportò il
viso fra le mani, in preda ad un nuovo capogiro. Faceva strano ammetterlo, ma
quel ragazzo era la cosa più maledettamente bella che avesse mai incrociato.
Una bellezza quasi dannata, quegli occhi soprattutto…
Sentì a
malapena una presenza al suo fianco – accanto a lui, seduta sul muretto – prima
di udire di nuovo il tono melodico ma quasi meccanico di quella voce: « non stai bene » e questa volta non suonava affatto
come una domanda. « Bevuto troppo? » aggiunse l’altro, osservandolo da
quella relativa vicinanza.
« No, ma lo sopporto veramente poco » buttò lì lui, palesemente
impegnato in un personale atto di resistenza contro la nausea impellente.
L’altro
doveva averlo capito, perché con la coda dell’occhio lo vide fare un ultimo
tiro e poi gettare la sigaretta lontano, sul cemento.
Quantomeno
era gentile.
« Non dovresti nemmeno annusarlo
l’alcool se ti riduci così »
continuò l’altro, la voce sottile.
Notò, in
un impeto di acutezza, che comunque non si avvicinava
a lui più di quel tanto.
« Mi dispiace che tu sia costretto a
fare da spettatore ad una scena così agghiacciante » commentò con auto-sarcasmo,
ridacchiando spompato di ogni energia.
Non sapeva
perché, ma gli stava venendo sonnolenza…
« Direi che è abbastanza solita, in
posti come questo. Anzi, mi sorprende che tu abbia
ancora la capacità di elaborare un discorso ragionato e di senso compiuto.
Sembri molto più a terra di quella sottospecie di montagna all’ingresso che si
sbraccia in questa direzione… ».
Non servì
connettere faticosamente il significato dell’intera descrizione pronunciata
perché gli venisse in mente un volto noto. “Montagna” fu sufficiente.
Alzò lo sguardo di scatto, osservando da quel suo angolino semi-appartato Douglas sventolare
le mani in aria come bandiere di segnalazione aeroportuali. « Ho trovato Roooooooob!
» stava cantilenando, nella peggior
emulazione di Madonna che avesse mai sentito sulla faccia della Terra.
« Cercano te? » chiese il ragazzo al suo fianco,
l’intonazione divertita della voce che aveva un non so che di strano, di
formale nonostante il linguaggio fosse l’opposto.
« A
quanto sembra… » rispose lui, alzandosi. « Io sono l’autista stasera. Probabilmente sono così
strafatti che non si rendono nemmeno conto di dove sono » continuò, sbuffando.
«Comunque
io sono… » iniziò, voltandosi per
presentarsi… ma rimase stranito nel vedere solamente il muro, dietro di lui,
esattamente nel luogo in cui prima c’era il ragazzo.
Un
pensiero solitamente idiota gli venne alla testa, contornato da una bella dose
di dubbio.
…Non se lo
era sognato, vero?
All’ennesimo
urletto di Douglas, però, face spallucce e si
affrettò ad andare a calmare l’improvvisato cantante, trovandosi al contempo un
Robert molto intento a fissare le dita delle sue mani con la bocca socchiusa e
gli occhi distanti.
Sospirò,
recuperando le chiavi dalla tasca dei pantaloni e lanciando uno sguardo
all’orologio.
Le tre e
quindici. Era ufficialmente sabato mattina.
Sette ore
dopo, quando ancora era reduce da un sonno ristoratore, la suoneria del suo
cellulare decise di interrompere la tranquillità del suo universo.
Si disse
mentalmente, in uno dei primi ragionamenti più o meno concreti post-risveglio,
che chiunque fosse dalla parte opposta avrebbe fatto
molto presto una fine discutibile. Suo padre possedeva un Winchester 260 e a
buttare un cadavere in un fiume ci si metteva poco e niente con il pick up
nuovo di suo zio Jordan.
Buttò
sgraziatamente la mano sul comodino, afferrando con rabbia il telefonino
strillante e vibrante. Non si curò di guardare chi chiamava (non alzò nemmeno
la testa dal cuscino, a dirla tutta).
« Pronto? » rispose, seccato.
«Ma senti
tu che voce! » gracchiò qualcuno dall’altra
parte, sinceramente divertito: «
sembri appena uscito dall’Inferno Everald, che ti è
successo? » disse con quell’aria sempre
paurosamente allegra.
« …McFarland?
» chiese, una volta che si fu preso
il tempo per riconoscere il suo interlocutore.
« Indovinato, ben tornato tra i
vigili » rispose quello.
Jonathan McFarland era un suo compagno di corso all’università. Era
uno spirito molto libero e, nonostante non amasse per nulla la letteratura,
frequentava il corso per il piacere interiore di disobbedire a suo padre,
avvocato, che moriva dalla voglia di mandare il figlio a Legge. Ripeteva molto
spesso che la vita del padre non lo entusiasmava, così aveva fatto dell’inno
“disobbediamo a papà” uno dei maggiori divertimenti della sua esistenza.
Non era
eccezionale, ma era discretamente bravo nonostante non ammirasse per niente la
materia.
«Cosa c’è?
» tagliò corto Eric, strofinandosi
un occhio con la mano libera.
« Faccio la funzione del promemoria,
Evvy»
disse quello, storpiando il suo cognome in maniera incivile. Chissà
cosa ci trovava mai di così bello ad affibbiargli quel nomignolo idiota… « ti ricordo che stasera c’è il
party alla confraternita Alfa-Epsilon-Omega.
Dato che il sottoscritto genio del male si è procurato i contatti per entrare,
vedi di fare il bravo bambino e di unirti ai grandi in orario» continuò, sottolineando
con la voce la puntualità a cui sperava si attenesse.
«E tu mi
chiami così presto per ricordarmi una cosa che già so? »
« No, ti chiamo per precisare che ti
voglio puntuale. E comunque sono quasi le undici, non
è presto » ribatté al volo Jonathan.
Regola numero uno quando si parla con McFarland:
arrendersi. Lui ha sempre la risposta pronta.
Sbuffò
sonoramente, giusto per far comprendere allo scocciatore che quella
chiamata/sveglia non era affatto gradita. Ma quello sapeva benissimo quando
fare orecchie da mercante, ed infatti lo ignorò.
Si trovò
costretto ad accettare l’arduo compito di puntualità. « Va bene, va bene » acconsentì « alle dieci davanti alla
confraternita, va bene » ripeté, ancora troppo addormentato
per trovare altri sinonimi utili.
Una volta libero dalla scocciatura mattutina si alzò, dirigendosi verso il piano
inferiore. Ormai era inutile cercare di riaddormentarsi, impossibile quasi, e comunque era sicurissimo che sua madre avrebbe cominciato
molto presto a preparare il pranzo – se non aveva almeno due ore e mezza
d’anticipo era un vero e proprio disastro, secondo lei – e il rumore delle
pentole maneggiate con la finezza di un rinoceronte lo avrebbe sicuramente
strappato dalle braccia di Morfeo, anche abbastanza rudemente.
Si mise addosso le prime cose che gli capitarono sotto mano – un
paio di pantaloncini e una maglietta a mezze maniche bianca con lo stemma
dell’università – scendendo le scale con passo veloce.
Sua madre,
come previsto, stava appena rientrando con la spesa.
« Buongiorno Eric! » salutò allegramente, cercando di
tenere in equilibrio le due sporte di vivande, chiudere la porta di casa e
appoggiare la borsetta sul mobile contemporaneamente.
« Ciao ‘ma » salutò di rimando, abbassandosi
appena per prenderle le sporte. Fosse mai che le uova finissero per diventare
parte integrante del tappeto.
« Alex e papà? » chiese lei, appoggiando la
borsetta per poi seguirlo in cucina.
«Dove vuoi
che siano? » domandò lui con ironia: « in giardino a giocare a basket,
no? Sia mai che partecipino alle attività di famiglia
ogni tanto » si lamentò svogliatamente, aprendo
il frigorifero per afferrare il cartone del succo di frutta.
« Usa un bicchiere » lo ammonì la madre, prima di
continuare: « tuo padre fa solo il suo lavoro.
Il basket è la sua vita, lo insegna e lo pagano per farlo » aggiunse, prendendo come al solito le difese dell’uomo… anche se non sembrava
esattamente convinta delle sue parole.
Staccò le
labbra dal cartone – bicchiere? E cos’è? – chiudendolo
con forza per poi buttarlo malamente nello sportello
del frigorifero: « oh, andiamo! Allena Alex come un
ossesso solo perché io ho scelto il nuoto! » sbottò, irritato.
« Sei in vena di discussioni oggi? » intervenne la donna, cominciando a
svuotare le borse della spesa e dividerla fra gli scaffali.
« Non… non sono in vena di
discutere, ok? E’ solo un dato di fatto » precisò con foga, saltando appena per sedersi sul ripiano centrale
della cucina. « Prima di convincere mio fratello a
pendere dalle sue labbra ha provato a fare il lavaggio del cervello anche a me.
Cosa sarebbe successo se Alex non si fosse lasciato
incantare e avesse scelto, che so, di fare il ballerino? Papà si impiccava attaccato al canestro? » continuò nella sua invettiva, più
carico che mai. Erano rare le occasioni in cui poteva
parlare di suo padre senza che l’altro fosse presente, e intendeva approfittare
di ogni opportunità.
« Non mi sento di escluderlo » rispose con aria leggera sua
madre, terminando di sistemare la spesa e cominciando a tirare fuori le pentole
per preparare il pranzo. « In ogni caso, tesoro, che problema
c’è? Alex si diverte a basket, ed è probabile che avrà una borsa di studio
quando si diplomerà » gongolò allegramente, riempiendo
il tegame fondo con dell’acqua dal lavello. « Avresti dovuto provarci anche tu, a questo proposito » aggiunse poi, osservandolo appena
con un sorrisetto leggiadro ad incurvarle le labbra.
Eric roteò
gli occhi. Era stufo di dover sempre, perennemente affrontare il discorso della
sua inutilità.
Certo, era
meglio con sua madre che con suo padre. Lei, almeno, aveva la finezza di non
dirti esplicitamente di essere una delusione di figlio… solo perché non aveva
scelto il basket! Per Dio…
« Scusami se non mi è caduta la
borsa di studio fra capo e collo, mamma. Magari un giorno imparerò a comandare al
mio corpo di raggiungere la velocità di un missile terra-aria » sfotté, più auto-ironico che
cattivo. Non si riusciva ad essere veramente cattivi con una
come sua madre. Quella donna non se la prendeva per nulla e non perdeva
mai quella sua serafica calma.
Il nuoto
non era come il basket, o come il volley. Non ci si poteva fissare su una
finta, o una battuta, e provarla ogni allenamento finché non si
imparava a farla.
In vasca
era lui contro i suoi limiti. L’allenamento conta a mantenere la forma fisica,
sì, ma ci sono limiti di velocità che ogni corpo, individualmente, non riesce a
superare.
Pochi
erano i veri campioni, nel nuoto. E si doveva
sacrificare tutto, per avere tutto.
« Oh, non fa nulla » rispose la donna, chinandosi per
osservare la fiamma blu di metano accendersi sotto la pentola: « io e tuo padre siamo
fieri lo stesso » disse.
Sì, certo.
Questa era buona.
Voleva
tanto sentirle dire da lui, quelle parole. In bocca a sua
madre, che le ripeteva appena possibile, non valevano niente.
Un lieve
rumore avvertì gli occupanti della cucina che la porta sul retro si era aperta,
e un vociare concitato rivelò che i due di cui si stava parlando erano di
ritorno dagli allenamenti casalinghi.
Eric
sospirò affranto, preparandosi a ricevere le occhiate del padre e i suoi
commenti taglienti.
Lui poteva
anche diventare astronauta per la NASA, o premio nobel
per la letteratura… ma se non aveva in mano una palla arancione, e sull’armadio
un poster di Michael Jordan, per suo padre aveva la stessa importanza di un soprammobile.
Sì, nella
mente di TrentEverald non
c’era posto per nient’altro.
Gli
allenamenti erano sempre stati massacranti.
Il loro
allenatore usava un metodo spartano, pretendendo il massimo da ogni bracciata.
Chi batteva la fiacca aveva allenamento doppio, e questo era un ottimo
deterrente per chi si buttava in acqua senza la minima voglia di fare.
Lui,
fortunatamente, era sempre arrivato in fondo agli allenamenti senza fermarsi
mai. Aveva avuto un’infanzia incentrata sugli addestramenti in vista dell’entrata
in una squadra di basket – sempre grazie al suo adorabile padre – dunque il
fiato non gli mancava.
Però era
massacrante comunque. Soprattutto quando si faceva
fondo.
Per
questo, una volta fuori dall’acqua, i muscoli delle
cosce sembravano come stretti in un torchio. Fitte di dolore ad ogni passo,
profonde anche se non acute, con momenti di picco che duravano anche minuti.
Aveva
quasi l’impressione che l’acido lattico che accumulava si potesse
spremere.
« Stanco Everald?
» chiese il coach di ritorno dalla
vasca, battendogli violentemente una mano sulla schiena.
La panca
sulla quale era seduto sobbalzò dall’urto.
« Un po’ » confessò sorridendo, tamponandosi
una goccia d’acqua dal mento con la manica spugnosa dell’accappatoio.
« Poco male, hai tutta la domenica
per battere la fiacca» fu la risposta sconsiderata, seguita da una risata. « In ogni caso vedi di non saltare
allenamenti la prossima settimana, ok? Ci sono le selezioni il mese prossimo e
sto pensando di metterti in staffetta con Satler ».
« Con Timoty? » scattò d’improvviso Eric, puntando
gli occhi su quelli piccoli e scuri dell’allenatore: « davvero? » ripeté, chiedendo infantilmente
conferma.
Quello
annuì.
Non poté
fare a meno di farsi tornare il buonumore, nonostante la spossatezza.
Timoty Satler
era il suo personalissimo dio. Iscritto a Matematica e suo coetaneo, aveva una
preparazione atletica che vantava anni di fatica, tutti passati in vasca. Tempi
record e campione nazionale per tre volte consecutive, aveva raggiunto il terzo
posto ai federali per un soffio ed ora si preparava a vincerli.
Ma
parli del diavolo…
«Everald
è il quarto per la staffetta mista? » chiese una voce alle sue spalle, il tono morbido anche se basso.
Capelli corti di un rosso scuro e occhi oltremare, Satler ritornava dalle docce
insieme al classico profumo di bagnoschiuma.
Odore che
durava si e no venti minuti; il cloro si attaccava
alla cute come una seconda pelle, vincerne l’odore era impossibile per i
nuotatori agonistici.
Mentre
parlava con l’allenatore, Eric osservò il ragazzo. Non era una di quelle
persone in vista, nonostante l’ottima carriera agonistica e scolastica
(dicevano); però aveva un’aria di particolare serietà, che induceva le persone
a prendere le distanze ma ad ascoltare al contempo ogni parola che usciva dalle
sue labbra.
Era una
persona inconsciamente autorevole, ecco. Risultava
difficile non fidarsi di lui, soprattutto quando sorrideva così cortesemente.
Anche
il sorriso era strano… ma non ci aveva poi fatto così tanto caso. Immaginava
che fosse normale, da una persona con un simile ascendente sul prossimo.
Quando
gli occhi dell’altro si posarono sui suoi, non poté trattenere un invisibile
sobbalzo. «Dunque tu
farai la parte dorsista » asserì, distendendo le labbra in
un’ombra di sorriso: « parti per primo, dovrai guadagnare
il distacco » disse, infondendogli fiducia solo
con quelle poche parole.
« Forò del mio meglio, se entro » rispose lui, alzandosi dalla
panchina e togliendosi il costume da sotto l’accappatoio.
« Entrerai » esordì con sicurezza l’altro,
posando nella borsa bagnoschiuma e costume: « altrimenti il coach non lo avrebbe nemmeno accennato. Non è uno che
dà false speranze » chiarì, frizionandosi i capelli
con il cappuccio dell’accappatoio blu.
« Giusto… » notò lui, sorridendo a se stesso.
Iniziò a vestirsi velocemente, infilandosi jeans chiari e maglietta scura.
« Niente doccia? » chiese Staler,
probabilmente per non far scendere il silenzio nello spogliatoio. Gli altri erano ancora alle
docce.
« Oggi no, non ho tempo » spiegò Eric brevemente,
pettinandosi i capelli castani per poi passarci la mano in mezzo, smuovendoli
appena per non farli sembrare troppo appiccicati alla nuca. « Vado al party dell’Alfa-Epsilon-Omega e sono già in ritardo sulla tabella di
marcia » spiegò, buttando random il pettine
nel borsone per poi chiuderne la zip. Il cloro sulla
pelle sembrava quasi appiccicoso, ma era conscio che una doccia gli avrebbe
occupato quel poco tempo che aveva per tornare a casa, lasciare la borsa e
ritornare al campus. « Tu non vieni? » chiese poi, infilandosi la giacca
blu e gialla della tuta di squadra.
« No, grazie » rispose l’altro: « non sono feste che fanno per me »concluse, rapido.
Eric
decise di non insistere. Era raro vedere Satler veramente di malumore, ma
quando non gli andava di fare qualcosa riusciva ugualmente ad esprimerlo.
Cominciava
a chiedersi quali fossero, le feste apprezzate dal
ragazzo.
« Ok allora » esordì all’improvviso, per non lasciare
cadere il discorso nel nulla: «
ci vediamo lunedì » salutò, caricandosi in spalla la
borsa.
Lo vide
annuire con un sorrisetto prima di uscire, percorrendo velocemente il corridoio
e l’atrio, uscendo dalla piscina.
A dire il
vero, party di quel tipo non piacevano nemmeno a lui.
“Alcool a
fiumi” sembrava il motto degli organizzatori, che avevano provveduto ad un
barman e ad una lista di cocktail più o meno alcolici, e non era assolutamente
insolito vedere girare spinelli o bustine di polverina bianca, rapidamente
stesa su una superficie riflettente, divisa in
striscioline con una qualsiasi carta di credito e aspirata con l’aiuto di un
biglietto da cento dollari.
Senza contare la musica, tenuta così alta che sembrava uno stupro per
le orecchie. La
differenza era la scelta di un più comune pop-commerciale,
che alcune volte aveva intermezzi abbastanza lenti da consentire il recupero,
anche se parziale e temporaneo,dell’udito.
Sospirò.
Ancora si chiedeva perché accettava sempre di farsi trascinare in posti come
quello.
« Eric, ti vedo spento » disse McFarland
al suo fianco, sorseggiando da un bicchiere di quella che sembrava vodka e
guardandosi intorno in cerca di qualche ragazza abbastanza ubriaca da
abbordare.
Come se
lui non fosse già abbastanza affascinante da avere bisogno dell’alcool per
intortare qualcuna.
Il castano
portò lo sguardo sull’altro, infilandosi le mani nelle tasche. «Vengo da due ore
di tortura, sono stanco »
mentì. Se provava solamente a dire a Jonathan che quel
posto non lo eccitava per niente, chissà che scenata gli avrebbe propinato per
le due settimane successive.
« Ancora mi stupisco del fatto che
tu nuoti » cominciò lui, mandando giù come se
fosse acqua metà del bicchiere: «
tutte le volte che esci dalla piscina sei disfatto, praticamente
a pezzi. Più volte ti ho sentito dire che l’allenamento sembra in tutto e per tutto
un campo di addestramento dei Marines, senza contare
il fatto che tuo padre è uno degli allenatori di basket più rinomati della
nazione e tu non sfrutti l’opportunità. Cos’è, sei scemo? O
semplicemente in preda ad un’età della ribellione ritardataria? » chiese, la lingua molto più sciolta nonostante avesse ingerito ancora poca
vodka (rispetto agli standard).
Ma
cos’era quella, la giornata delle lamentele?
« Sai benissimo perché non seguo
ardentemente la strada che mio padre si è prodigato tanto di spianarmi davanti » asserì, decisamente
di malumore.
« Oh sì, ricordo perché ti sei lanciato a capofitto sulla via piena di rovi » ironizzò l’altro, continuando con costanza
a guardarsi in giro. Sembrò interessato da una bionda di
passaggio e, a conferma del suo interesse, la seguì con lo sguardo fino
al tavolo del buffet.
« Beh, Eric, io ho da fare » asserì con decisione, piantandogli
in mano il bicchiere con i le rimanenti due dita di vodka.
Lui
osservò solo per curiosità la preda che l’altro aveva puntato, riconoscendola
al volo. « E’ fidanzata » osservò a voce alta: « con un mio compagno di squadra » aggiunse poi, sperando di
demoralizzare Jonathan e distoglierlo così da un’imminente morte per mano di un
nuotatore cornificato.
Nessuna
resisteva al sorrisetto sbieco di Jonathan McFarland,
era logico supporre che a portare le corna sarebbe stato il fidanzato non
presente.
La notizia
dell’impegno sentimentale della biondina non fece altro che stuzzicare
Jonathan. « Splendido » borbottò deliziato: « adoro giocare con le proprietà
altrui… » aggiunse, mollandolo vicino alle
scale per dirigersi verso la ragazza.
Sospirò.
Puntuale, succedeva sempre.
Passò i successivi dieci minuti a guardarsi svogliatamente intorno, e
i due seguenti a fissarsi la punta delle Convers nere,
chiedendosi per l’ennesima volta cosa lo spingesse a partecipare a raduni del genere.
Un ragazzo decisamente ubriaco gli passò davanti,
sorretto dai suoi amici messi meglio ma non di molto, e all’improvvisa
possibilità di un giramento di stomaco del suddetto decise che era meglio
spostarsi, per l’incolumità delle sue scarpe.
Girovagò
un poco. Non si sognava di andare al piano superiore, dove sicuramente ogni
camera con una superficie piana era occupata da gente molto impegnata ad
esplorare i limiti del kamasutra; si limitò dunque a vagare per il piano
inferiore, abbandonando il bicchiere dell’amico sul primo ripiano libero da
sporcizia.
Stava
altamente ponderando di tornarsene a casa quando, fra la folla del soggiorno,
un paio di occhi color ghiaccio attirarono la sua
attenzione. Fu solo un secondo, un breve istante, prima che scomparissero.
Si fermò
di scatto, osservando intontito il punto in cui li aveva visti,
ora occupato da un ragazzo in maglietta gialla che ballava come un
posseduto.
Se li
era sognati? Aveva immaginato tutto?
Come un
lampo gli tornarono alla mente gli stessi occhi,
particolari quanto freddi, visti la sera prima.
Non poteva
essere la stessa persona… o sì?
Non si interrogò per molto su quel quesito: i suoi piedi si
mossero da soli alla ricerca di quel ragazzo. Non aveva mai visto occhi così
chiari, quasi finti, addosso a nessun altro.
Attraversò
la sala, attento a non pestare troppi piedi in mezzo alla calca, dirigendosi
verso la cucina.
Ancora un
lampo, ancora quell’azzurro. Per un attimo, uno solo.
Vi si
lanciò. Cercava disperatamente quello sguardo, senza nemmeno saperne il perché;
comprendeva solo che doveva rivederlo in fretta.
Magari era
solamente perché non conosceva nessuno, si disse, e se incontrava
una persona conosciuta – anche solo per qualche istante fuori da un locale –
sarebbe tornato indietro sulla sua decisione di mollare McFarland
e tornarsene a casa, ad evitare scrupolosamente suo padre e a cercare di
tenersi lontano suo fratello e i suoi discorsi sulla nuova finta (o anche sul
nuovo tiro, sul nuovo schema di gioco, sul nuovo passo…).
Attraversò
anche la cucina, velocemente, uscendo dalla porta sul retro appena socchiusa.
L’aria fresca della sera lo invase improvvisamente, facendolo rabbrividire a
causa dello sbalzo di temperatura.
Il piccolo
gruppo all’esterno, racchiuso in una nube di fumo che puzzava di nicotina, lo
osservò con disinteresse senza nemmeno interrompere il discorso in atto.
Nessuno di loro aveva gli occhi color ghiaccio che cercava, nonostante
ricordasse che il ragazzo senza nome fumasse.
Proseguì
di qualche passo sull’erba umida, andando verso sinistra per fare il giro della
casa. La musica proveniva attutita lì fuori e il silenzio ovattato del giardino
non gli dispiaceva affatto.
« Frequenti posti discutibili » intervenne una voce al suo fianco,
nell’ombra della casa causata dal lampione della strada alla fine del vialetto
principale.
Sobbalzò,
voltandosi di scatto. Cercò di non darlo a vedere, mascherando la sorpresa con la
prima domanda abbastanza arguta che gli venne alla mente: « non credo siano affari tuoi i
posti che frequento »disse.
Risposta decisamente imbecille e un tantino sgarbata,
ma a cominciare era stato comunque l’altro, chiunque fosse.
Quello
rise. E quando uscì dal cono d’ombra Eric avrebbe
giurato di aver sentito quasi il freddo, di quegli occhi di vetro color
ghiaccio.
Lo
osservò, non potendo trattenersi dal farlo. Semplici jeans
scuri e una camicia bianca con una cravatta nera, allentata sul collo
dove i primi due bottoni erano sbottonati.
Bene. Cosa si dice alla gente che si cerca per tutta la casa senza
un motivo valido? E che tra l’altro non si conosce
nemmeno?
Non
dovette pensare per molto alla risposta; alla conversazione pensò l’altro.
« Hai ragione » ribatté alla sua osservazione
precedente: « però io non ho torto. Questa è
veramente una festa discutibile, come lo era il locale
di ieri sera » aggiunse, quasi ghignando.
Lo stava
sfidando?
« Beh, sa da ipocrisia se esce dalle
labbra di qualcuno presente sia ieri che oggi negli stessi posti » osservò a ragione, sorridendo
compiaciuto di se stesso.
Quello
ghignò di nuovo: «touché» ammise, alzando le mani a mo di
scusa.
Non sapeva
perché, ma ancora Eric leggeva falsità in quegli atteggiamenti, in quelle mosse
così palesemente amichevoli che sfoggiava. Non riusciva a capire se era
ostentata simpatia o sincerità che lui scambiava per un atteggiamento costruito.
Non ci capiva niente, in definitiva.
Passarono
alcuni attimi di silenzio, in cui nessuno dei due seppe cosa dire. Il moro se
ne stava in piedi con le mani nelle tasche, semplicemente, osservando di
sottecchi tutte le persone che uscivano dalla porta della cucina come se fosse
un ricercatore intento a studiare le sue cavie.
Osservò
per qualche istante quegli occhi, convinto quasi di potervi trovare le verità
che cercava… invano. Non trasparivano nulla.
« Sei un nuotatore, giusto? » chiese poi, lo sguardo sempre
puntato verso gli altri che con lentezza tornò su Eric.
« Come…? » chiese lui, stupito. Lo aveva
visto? Era in piscina?
« Cloro » rispose però l’altro: « odori di cloro » precisò.
« Oh » cercò di non esserne sorpreso, ma non gli riuscì così
bene. « Pensavo che non si sentisse così
tanto » disse come scusandosi, portandosi
istintivamente il dorso della mano al naso.
« No, normalmente » rispose l’altro: « ma io ho il naso fine, certi odori
mi stuzzicano l’olfatto più di altri ».
« E’ fastidioso? » chiese Eric, indicando la mano con
il volto come per intendere l’odore di cloro che emanava.
Quello
scosse il capo negativamente. «
In ogni caso non ci siamo ancora presentati » aggiunse poi, ripetendo nuovamente quel sorriso strano.
« Giusto » borbottò lui, tendendo la destra
in sua direzione: « Eric Everald» disse, gentile.
«JoshuaArcher»
rispose l’altro mimando il gesto.
Era la prima
volta che entravano in contatto fisico, anche se minimo, ma Eric non poté non
considerare che la mano di Joshuaera
fredda. Fin troppo, considerando la temperatura più che mite.
Ma i
suoi pensieri erano destinati ad essere interrotti, così come la loro ancora
acerba conversazione.
«Everald!
» chiamò una voce dalla porta della
cucina; il viso di Jonathan che si guardava intorno nel tentativo di trovare la
persona che stava cercando.
« Sono qui » chiamò lui, facendosi notare
appena fuori dall’ombra. Dubitava che Joshua fosse visibile, da quella posizione.
« Alla buon’ora, ti cerco da una
vita! » borbottò quello, facendogli segno
di rientrare.
« Sei una persona acclamata, Eric » osservò Archer
con espressione divertita, osservando con la coda dell’occhio McFarland e la sua espressione delusa.
« Mi dispiace… » si scusò lui, forse dispiaciuto
del fatto che venivano perennemente interrotti.
« Figurati, vai pure » disse l’altro, alzando la destra
come saluto ed incamminandosi verso il vialetto, probabilmente diretto a casa o
da qualche altra parte.
Con passo
celere, lui ornò all’interno, dove Jonathan era impegnato a versarsi un altro
bicchiere di alcool (a casaccio, notò).
* Nel
nuoto la staffetta mista ha un ordine di partenza particolare: dorso - rana -
delfino (farfalla) - stile libero. Questo è dato dal fatto che il dorso non
prevede la partenza dal blocco (dunque è senza tuffo), ma si parte direttamente
in acqua. Solitamente dunque il dorsista, che è il primo, è quello che cerca di
prendere più vantaggio possibile.
Passare più di due secoli nel
nulla assoluto non era un dispiacere, nemmeno una condanna.
Non per lui almeno.
Però, doveva ammettere, se ci
si ritrova catapultati nel ventunesimo secolo quando l’ultimo visto era il
diciottesimo, saltava all’occhio qualche problema.
Primo fa tutti
il fatto che, così sembrava, lo sviluppo - tecnico, industriale,
culturale, artistico, stilistico, architettonico… - pareva aver cominciato a
correre veloce quanto prima procedeva a balzelli.
La Rivoluzione Industriale
aveva dato il via all’industrializzazione, al
materialismo, al capitalismo e infine al consumismo che sembrava letteralmente
consumare la società moderna.
La Rivoluzione Francese aveva
dato una svolta alla società e alla politica, indirizzandola verso un
significato profondo di patriottismo e nazionalismo, proclamando la libertà - tutte le libertà - e fornendo le basi
per un sistema di governo basato sulla democrazia.
Un peccato; non disprezzava la
monarchia se retta con il cervello al posto del vizio.
Poi le Guerre Mondiali,
soprattutto la seconda. La creazione dell’arma che potrebbe
distruggere l’intera vita in sé e il suo uso, catastrofico, poco prima
della metà del ventesimo secolo.
E ora, ormai
giunto al capitolo sulla modernità, la nuova batosta: le pandemie. AIDS, HIV, SARS, TBC… si chiedeva se avessero
inventato un acronimo anche per il raffreddore.
Leggere libri, però, non si
stava rivelando il metodo migliore per recuperare ciò che si era perso del
mondo. L’avanzamento del progresso aveva dato una bella spinta
in avanti allo sviluppo storico, creando un’immensa mole di informazioni
suddivisa in una altrettanto enorme quantità di scartoffie.
Per leggere tutti i libri che
la bibliotecaria gli aveva trovato ci avrebbe messo
come minimo due anni, ed era solo lo scaffale di Storia.
Così, aveva deciso per un
corso intensivo. Una volta imparato ad accendere un PC
era stato facile: convenne che il World Wide Web era
stata proprio una bella pensata, e trovò nella sinteticità di Wikipedia la fonte di informazione adatta alle sue
esigenze.
Tuttavia, dopo ore di
consultazioni - concentrate sul ventesimo secolo, per lo più - si trovò
nuovamente d’accordo con se stesso.
Non era importante quanto gli
esseri umani imparassero, studiassero, ricercassero o
sviluppassero. La razza umana non aveva il minimo rispetto di sé stessa, e lo
spirito di auto conservazione che aveva sempre spinto
gli uomini a racimolare le condizioni migliori in cui vivere li stava portando,
in una sorta di disgustoso controsenso, verso un futuro controllato dalle
macchine, minato dalla guerra e soffocato dall’inquinamento.
Gli umani usavano la loro
innata forza di sopravvivenza per autodistruggersi.
Faceva schifo. Dal
diciottesimo secolo non era cambiato nulla nonostante fosse mutato tutto.
Era solo un’ennesima
rappresentazione della perenne ed immutabile condizione di impotenza
umana; era solo travestita da luci a laser invece di velluto e annegava nella
droga invece che nella poesia.
Pensò a Shakespeare.
In un mondo così avrebbe avuto un’ispirazione infinita per le sue tragedie.
Per non parlare della
generazione giovanile. Oh, quella era la più sadicamente divertente!
Violenza, vizio, eccesso.
Sembrava la realizzazione dei gironi dell’inferno sul
Mediano.
Se Lucifero avesse potuto
mettere il naso fuori dalla sua voragine gli sarebbe
venuta l’ansia a causa del numero di anime oscure che vagavano in giro.
Quel locale in cui aveva
seguito l’umano era un ottimo esempio. Un concentrato di anime
scure da sembrare quasi il buco nero da dove era stato ripescato da Zerachiel.
Però…
Spense il computer della
biblioteca con calma, osservando il salvataggio della sessione sul monitor.
Era sorpreso. E non era cosa da poco esserlo, figuriamoci ammetterlo a se
stesso.
L’umano, quello che doveva
seguire, aveva un’anima intatta, candida. Quasi
fastidiosa da quanto era bianca.
Come faceva? Come faceva a
rimanere così puro immerso, anzi sommerso,
in una gioventù come quella? Con amici come il ciccione
alcolista e lo spacciatore cocainomane, per non parlare del donnaiolo malato di
sesso…
Preservava se stesso solo
grazie alla sua forza di volontà? Qualcuno gli aveva insegnato principi così
saldi da mantenere la sua coscienza integra senza causare una ribellione?
Non sapeva che pensare. E forse non doveva nemmeno ragionarci sopra così tanto.
Era uno stupido, maledetto
lavoro. Si sarebbe nutrito della sua forza vitale, lo avrebbe portato
nell’aldilà, avrebbe fatto contento Enma e tanti
saluti; sarebbe tornato nel suo limbo vuoto, a mai più rivederli.
Sbuffò, disturbato da nulla e
da tutto, alzandosi dal proprio posto e dirigendosi fuori.
La biblioteca del campus
rimaneva aperta anche la domenica, dando la possibilità agli studenti di
preparare gli esami anche nel fine settimana, in cui - aveva imparato - le
lezioni non avevano luogo. La porta d’ingresso dava direttamente sul giardino
interno dell’università, gremito di ragazzi con gli ormoni in fermento occupati
in attività più disparate.
Estrasse dalla tasca della
polo nera un paio di occhiali da sole, indossandoli.
Era un vero strazio quel tempo limpido per uno come
lui, che aveva gli occhi così dannatamente chiari da sembrare anormali anche
con l’aiuto delle lenti a contatto blu.
Osservò l’orologio sulla
torre: le tredici e cinque. Secondo i documenti che Zerachiel
gli aveva fatto il favore di impacchettargli a dovere,
l’umano doveva essere a casa con la famiglia per il pranzo della domenica,
parenti compresi.
Lungi da lui
andare a disturbare la così poco attraente riunione famigliare. Si sarebbe limitato ad osservare da lontano, in barba
al suo compito; ficcare il naso in una famigliola tutta sorrisi e smancerie sarebbe stato il colpo di grazia per la sua già torturata
pazienza.
JoshuaArcher si stava rivelando
una faticaccia.
Non provava nulla di
particolare a parte il disgusto, girando fra la gente.
Ai suoi occhi erano solo anime
che vagabondavano avanti e indietro sulla superficie
terrestre, occupati in attività così frenetiche da non essere nemmeno
percepite come vere attività.
Aveva letto che la
quotidianità era il veleno della società. Monotonia, noia, ripetitività:
persone che non facevano altro che ripetere gli stessi gesti giorni dopo
giorno, come automi programmati a dovere, per anni e anni senza mai variare
veramente.
Che modo insulso di sprecare la loro così breve vita.
Giunse di fronte alla casa
dell’umano dopo un quarto d’ora di cammino. Non era lontana
dal campus, notò.
Non era male, per gli standard
umani: una villetta a schiera e due piani, con giardino a fronte e sul retro,
vialetto sul garage e aiuole pulite con fiori ben curati. Due mezzi di
trasporto, uno troppo grande per occupare un posto in
garage - a giudicare dal furgoncino sei posti 4x4 parcheggiato sul vialetto,
con il nome di una società sportiva stampato sul fianco - e come minimo tre
biciclette.
Abbassò di un poco gli
occhiali da sole, concentrandosi sulla casa. Ne vide l’interno come se avesse
degli occhi ad infrarossi, ma non il mobilio: le anime.
Ve ne erano
sei, al momento. Il padre, il nonno e i due adolescenti in sala da pranzo -
l’anima dell’obiettivo era così dannatamente luminosa da coprire le altre tre -
mentre quelle della madre e della nonna brillavano fioche dalla cucina,
diffondendo un alone grigiastro.
Non poteva sentire di cosa stessero discutendo, non era onnisciente e non aveva un
udito supersonico come… qual’era il supereroe? Ah,
Superman (fantasia portaci via…); ma la situazione all’interno non sembrava una
delle più tranquille. L’anima del padre stava ingrigendo
ancora di più, e questo era un effetto tipico del risentimento.
Si sistemò meglio gli
occhiali, bloccando la sua vista “particolare”. Non ci volle molto perché la
porta sbattesse violentemente e, da essa, ne uscisse l’obiettivo
con l’aria di essere decisamente incazzato con il mondo.
O forse solo con il padre.
Fenomenale che la lucentezza
del suo spirito non diminuisse nemmeno sotto l’effetto della collera!
Significava che non era veramente arrabbiato… forse deluso, allora?
E lui era… curioso, sì. Forse vivere da umani aveva
effetti collaterali simili.
Lo osservò dirigersi a passo
svelto verso l’automobile in garage, le chiavi tintinnanti strette con forza
eccessiva nella mano destra. Si fermò interdetto pochi metri
prima della porta, palesemente disturbato dal furgoncino posteggiato sul
vialetto - gli impediva di uscire con l’auto, considerò logicamente - poi si
ficcò le mani nelle tasche dei pantaloncini neri, ignorando il laccio
slacciato delle Convers per incamminarsi velocemente
in direzione di Heaven Park.
La velocità del passo e i
fulmini che lanciava dagli occhi contro gli ignari passanti
la dicevano lunga sul suo stato emotivo. Tuttavia il lavoro era lavoro e Abrahel - ops, pardon, Joshua -
lo seguì, mantenendosi a debita distanza.
Attraversò la strada alla
prima occasione, percorrendo un pezzo della traversa alla fine della via. Come
previsto si infilò in Heaven
Park, sparendo alla vita inghiottito dalla vegetazione.
Tsk, come se fosse facile
sfuggire ad uno come lui. Quell’umano aveva un’anima
facente funzione di segnalatore luminoso e lui aveva il detector incorporato.
Attese che il semaforo
pedonale scattasse, attraversando a passo lento la
strada nella stessa direzione dell’umano.
Sarebbe sembrato un incontro
casuale, come tutti gli altri. Un sorriso, una frase cortese,
qualche commento sul caldo afoso. Un mezzo saluto
dopo l’immancabile silenzio in cui sarebbero caduti; poi la sua voce che lo
fermava, chiedendo di restare.
Aveva letto che quando le
persone erano arrabbiate, puntualmente arrivava anche la tristezza. Era
psicologico. E comune, follemente comune fra gli esseri
umani.
L’umano non avrebbe fatto
eccezione. Lo avrebbe invitato a rimanere solo per avere compagnia e non
lambiccarsi il cervello sulla discussione inutile appena avuta e sulla sua
indiscutibile fine.
E lui sarebbe rimasto, ovviamente. Era
il suo fottutissimo incarico dopotutto, altro non poteva fare.
Proseguì diritto lungo il
vialetto di Heaven Park - un nome ironico, veramente!
- ignorando la maggior parte dei passanti che incontrava man
mano. Alcuni intenti a passeggiare mano nella mano, altri in bicicletta;
un gruppo di bambini giocava a pallone sull’erba mentre, sulle panchine, alcune
vecchiette discutevano animatamente sull’uncinetto e sul punto croce,
confrontando i loro lavori.
Fu poco più avanti che notò
Eric, seduto all’ombra di un tiglio particolarmente rigoglioso. Tagliato un po’
fuori dal mondo, data la posizione della panchina
molto oltre il viale, dove probabilmente voleva stare in quel momento.
Si avvicinò a passo moderato,
calmo, uguale a quello che aveva mantenuto per tutto il tragitto
dall’università a casa Everald fino al parco.
Eric lo notò. Non era difficile,
dato che camminava esattamente di fronte a lui.
Azzardò un sorriso, con note
più sorprese che seccate. Joshua
rispose a sua volta, esibendosi nel più bell’esempio
di sorriso allegro della storia degli ultimi due
secoli. Nemmeno quell’attore, quel tale Orlando Bloom, sarebbe stato bravo quanto lui.
«Everald» pronunciò in saluto, fermandoglisi
davanti con le mani ancora nelle tasche dei jeans.
«Archer» rispose quello, definitivamente sorpreso: « è quasi incredibile quanto spesso ci
incontriamo. Potrei quasi asserire che mi stai
pedinando, se non lo credessi impossibile » aggiunse.
Se avesse avuto un cuore, probabilmente gli sarebbe
mancato il battito.
Ma accusò il colpo con classe, senza tradirsi. Non era
abituato a doversi comportare da essere umano, ma mentire non era mai stata una
fatica.
« Potrebbe sembrare, sì » disse
con finta complicità, per poi aggiungere: « fa caldo,
non è vero? ».
Eric annuì appena, scostando
gli occhi dai suoi come se fosse in soggezione. Come se
avesse potuto vederli oltre le lenti scure degli occhiali da sole, per giunta.
« Sì, effettivamente fa caldo » concordò, facendo ben presto cadere il silenzio fra
loro.
Joshua sorrise internamente. Esattamente
come aveva previsto.
« Beh, allora ti lascio al tuo meritato riposo » soggiunse dopo qualche istante, dando l’impressione di
aver afferrato la profondità del buco venutosi a creare nella conversazione.
Tutto calcolato, ovviamente. « Ci vediamo » salutò, voltandosi e facendo per andarsene.
Bastò contare fino a tre.
«Archer? » lo chiamò l’altro da dietro.
Si lasciò sfuggire un sorrisetto, prima di voltarsi.
«Se ti va… e non hai niente da
fare… sì, insomma, mi faresti compagnia? » domandò il
castano, spostandosi inconsciamente un poco più di lato sulla panchina.
Il sorriso interiore si
allargò ancora di più. Non sapeva come, ma provava una sorta di sadico
divertimento a predire ogni mossa di quell’essere umano.
Annuì con il capo. «Va bene, non ho impegni oggi
pomeriggio ».
E per i secoli dei secoli a venire, completò col pensiero.
Percorse al contrario i pochi
passi che li separarono, sedendosi con innata eleganza sul lato della panchina
lasciato libero dall’altro, improvvisamente rifugiatosi in un imbarazzato
mutismo.
Come minimo si stava chiedendo
per quale motivo lo avesse richiamato indietro. Ci
avrebbe scommesso sopra.
Decise di lanciargli un
salvagente: « perdonami la curiosità, ma ti vedo un po’ giù di
corda… successo qualcosa? » chiese,
senza essere in realtà per nulla interessato alla sua vita privata.
Eric esitò, scostando lo
sguardo sui giardini davanti a loro. Osservò per quasi un minuto un pastore
tedesco riportare il frisbee al padrone che lo aveva lanciato poi, sospirando
con rassegnazione, parlò.
« E’ mio padre » affermò,
portando le ginocchia divaricate al petto e appoggiando le braccia su di esse. « E’ allenatore di basket di una
squadra locale, abbastanza in gamba tra l’altro. Non gli va giù che io abbia scelto il nuoto » spiegò cupo.
Tipico. Niente
meglio di un battibecco famigliare a basso voltaggio per attaccare bottone.
«Perché eri bravo? » chiese, fingendosi moderatamente interessato.
« Perché ero il figlio » lo corresse Eric; una nota di risentimento vibrò nella
sua voce. « Aveva bisogno di me, mi ha detto quando mi sono
proposto per la squadra di nuoto del college. Ma non
aveva bisogno di me» calcò con la voce: « aveva
bisogno di un numero. O forse di gonfiare il suo
orgoglio per poter dire “tartasso mio figlio giorno e notte fuori allenamento
finchè non sputa la milza e suda sangue” » completò,
leggermente più infervorato.
«Bella immagine » ironizzò Joshua.
« E’ quello che fa con mio fratello minore » chiarì l’altro: « ma ad Alex
piace scodinzolare dietro papà, dunque peggio per lui. Almeno lascia in pace me
».
« Da come appari oggi, non si direbbe » notò Joshua, osservandolo di
sbieco. Eric restituì lo sguardo.
« Sono solo… le sue allusioni » riprese, fissando il pastore tedesco come se dovesse
dargli fuoco: « sempre. Continuamente. Soprattutto
quando ci sono degli ospiti, o dei parenti; e quando sono presente anche io,
ovviamente, altrimenti no, non si renderebbe necessario ». Una piccola pausa, un sospiro: « “è un vero peccato per Eric, ma cosa ci possiamo fare?
Ha preferito l’acqua” oppure “mi ricordo ancora i tiri da tre di Eric, anche se quelli di Alex sono meglio” » fece il verso al padre. «Se sono così tanto meglio di cosa ti lamenti? Adesso ce l’hai il tuo figlio cestista: lascia in pace il mondo,
cazzo! » sbottò infine, dando un calcio all’aria e lasciando
ricadere la gamba sul metallo della panchina.
Se non fosse stato indelicato farlo, si sarebbe messo a
ridere. Gli esseri umani trasformavano una cagata in un problema
insormontabile.
Sogghignò, in effetti, ma non
lo diede abilmente a vedere. « Mai pensato di parlarci? » propose invece, osservando a sua volta il cane con
interesse nullo. Così, tanto per guardare la stessa cosa.
«Cosa? » esclamò l’altro, a metà fra lo
sorpreso e l’orripilato.
« Parlarci » ripeté lui: « sai, è un’attività piuttosto comune per coloro che possiedono una capacità di linguaggio complessa
ed intelligibile » scherzò appena, pacatamente.
«E per dirgli cosa? » domandò retorico: « non ascolta
mai. Mai. Potrei parlargli del Super Ball come della fine del mondo e non mi
presterebbe attenzione ugualmente » esclamò.
Dio, quanto la faceva
complicata… « senza offesaEverald» cominciò però lui, voltandosi
definitivamente verso il castano: « ma l’unica
cosa che stai facendo in questo momento è lamentarti di qualcosa contro cui non
prendi nemmeno provvedimenti. E’ come disprezzare i viaggi in treno mentre ci
stai seduto sopra. Finché ti piangi addosso e vai a
nasconderti non arriverai da nessuna parte ».
Eric aggrottò
le sopracciglia, lo sguardo si fece seccato. « Sembri saperne un bel po’, eh? Dell’andare a
nascondersi » ribatté.
L’espressione di Joshua si fece più seria nonostante gli occhiali da sole ne
coprissero gli occhi.
Ne sapeva qualcosa, sì. Aveva
passato gli ultimi due secoli a nascondersi.
Non rispose alla provocazione,
tornando a fissare il parco. Eric Everald era l’ultima
- e l’unica - persona nell’universo a cui volesse dare
abbastanza peso per scatenare una reazione sentita ad una qualsivoglia
provocazione verbale.
Era un Dio della Morte, santa
merda. Lui non aveva il permesso di
avere reazioni.
Ritornando un po’ in se stesso
anche Eric si voltò verso il prato, mormorando qualche scusa sconnessa per la
sua maleducazione.
Come se lui potesse offendersi
per una cosa simile!
Non resistette a se stesso.
L’impulso di parlare lo vinse.
« Qualche anno fa… »qualche SECOLO forse, si disse: « …in occasione di un viaggio studio in Belgio conobbi
un pastore » cominciò, adattando la sua storia arcaica ad un
immaginario moderno. Non era difficile, si ritrovò a pensare, mentre si
assicurava di avere l’attenzione di Eric, silenzioso
al suo fianco.
« Non era un uomo cattivo, o particolarmente stupido…
era solo disperato. Aveva perso la moglie da poco, credo; non ricordo,
sinceramente » proseguì, il tono di voce calmo di chi parla del tempo, o del risultato di una partita di calcio: « perse letteralmente la testa per un demone pagano.
Così tanto che cominciò ad adorarlo, asserendo di
potergli parlare, spiegando con una folle contentezza che il demone ricambiava
i suoi sforzi per compiacerlo ».
Il castano pendeva dalle sue
labbra. Ma non fu la totale attenzione del suo
obiettivo la cosa che lo colpì di più.
Più che
altro la sua stessa improvvisa propensione ai racconti vecchi quanto Giotto e
il suo cerchio perfetto.
Continuò,
indolente di tutto: « un giorno, quel pastore avvelenò il figlio. Sostenne che il demone glielo aveva
richiesto come prova del suo amore incondizionato » rivelò, voltando nuovamente il capo in direzione di Eric.
La sua espressione non poteva
esprimere maggiore stupore.
« Per me la parola “padre” non ha significato. Per
questo ti consiglio di mettere le cose in chiaro, ma non da padre a figlio:
devi farlo da uomo a uomo. E’ arrivato il momento che
ti tratti come una persona, non come il prototipo venuto male di Magic Johnson» terminò.
Un silenzio di piombo cadde
fra loro. Silenzio pieno di parole per le menti di entrambi, probabilmente; o
perlomeno lo era per Joshua.
Stare sul Mediano faceva male
davvero. Si stava abituando troppo in fretta ad essere umano, a quanto pareva,
per lasciarsi trasportare così sentitamente da una discussione. Sulla famiglia,
poi! Lui che nemmeno l’aveva!
« Certo che le sai mettere le
cose in chiaro, quando serve » ironizzò poi Eric, ritrovando le
parole e accompagnandole con una leggera risata.
« Sembra di sì » rispose lui,
per nulla scomposto. A dire il vero era la prima volta che gli capitava, ma
dirlo ad alta voce avrebbe scatenato sicuramente dei
dubbi.
« Ti va di camminare un po’? » propose poi il castano, alzandosi. « Queste panchine non sono esattamente l’apoteosi della
comodità » aggiunse come pretesto, stiracchiandosi.
Joshua annuì. Lo avrebbe comunque
seguito per il resto del pomeriggio, tanto valeva farlo parlandoci. « Ho sentito che in centro hanno aperto una nuova
gelateria, andiamo a vedere che gente gira » propose,
riuscendo addirittura a far credere che la cosa lo entusiasmasse.
«Mh, aggiudicato » commentò il castano: « ho
voglia di un gelato ».
Scoprì con interesse che non
era così seccante, discorrere con Eric. Anzi, era intellettualmente piacevole.
Non era una testa vuota come la
gente che lo accompagnava; anzi, tutt’altro.
Era sveglio. Parecchio, per
essere uno studente di letteratura abituato a
immergere il naso in libri impolverati, i testi vecchi di centinaia d’anni.
La conversazione, suo
malgrado, aveva preso piede quando l’altro gli aveva confessato una certa
passione per Shakespeare. Considerando che era
l’unico autore che Joshua - o Abrahel,
più verosimilmente - leggeva con un moderato interesse, i commenti sulle sue
molteplici tragedie si concatenarono senza tregua per tutto il pomeriggio.
« il Romeo e
Giulietta» confessò Eric, leccando con cipiglio critico il gelato
al pompelmo dal cono: « sembrerà banale, ma è una delle sue opere che più apprezzo » aggiunse, annuendo a se stesso come per dirsi che la
scelta del pompelmo non era stata avventata.
« Non sembra, è banale » intervenne Joshua,
scrutando con recitata incuranza il frappè alla menta; in realtà senza esserne
molto convinto. Lo aveva preso solo per non destare sospetti,
dato che l’aveva tirata fuori lui l’idea della gelateria.
« Superficiale » lo accusò il
castano.
« Non è superficialità »
rispose lui, lasciando finalmente stare la cannuccia. « Romeo è il classico cretino che cade innamorato cotto
solo per aver visto una ragazza un po’ più bella dello standard. Ipocrita, tra l’altro, dato che solo dodici ore prima sbavava
dietro a Rosalina».
« E’ perché è stato creato così che è diventato il
“classico cretino”. E’ il Romeo di Shakespeare che ha
dato forma al cosiddetto “classico cretino” » intervenne Everald con fervore.
«Se lo è divenuto è perché la
tragedia rispecchia le abitudini frivole del periodo, dunque i creduloni
cretini esistevano già » ribatté Joshua.
«E Giulietta? Sarà colpa del
gap generazionale, ma a me pare abbastanza libertina per
essere una pudica vergine » disse, decidendosi ad assaggiare
il frappé.
« Era solo innamorata! » la
difese Eric, scandalizzato da ciò che sentiva.
Staccò con cautela le labbra
dalla cannuccia. «E adesso mi dirai che Shakespeare ha ideato il colpo di fulmine, data la brevità
con cui Giulietta ha deciso di sposarsi Romeo »
ironizzò.
La brodaglia verde non faceva
poi così schifo.
L’altro sogghignò. « Potrebbe, che ne sai? » chiese
retorico, saltando sul posto per sedersi sul muretto al quale erano appoggiati
entrambi.
Joshua fece spallucce.
« Benedetto Signore! » esclamò Eric
a metà fra il divertimento e l’esasperazione: « c’è un
personaggio che ti piace in quell’opera? Uno solo! » chiese, quasi pregandolo di rispondere positivamente.
Lo Shinigami
attese qualche istante, prendendo un altro sorso di frappé. «Mercuzio» sentenziò poi.
«Mercuzio?! » ripeté interdetto l’altro: « lo sboccato? » aggiunse,
con il tono di uno che non crede a quello che ha appena udito.
« Sì, Mercuzio» confermò il moro. « E’ il primo
personaggio che muore ma è lungi dall’essere inutile. Scatena il senso di
vendetta in Romeo, per il quale uccide Tebaldo, dando così il via alla caduta
libera che porterà l’intera opera ad essere una tragedia come poche dopo di essa. Inoltre è il migliore amico
di Romeo, gli vuole bene come ad un fratello, ma in punto di morte prova
abbastanza risentimento da maledire entrambe le famiglie. E’ l’incarnazione
della paura che gli umani provano di fronte alla… morte » l’ultima parola, dimentico del suo autocontrollo, gli
uscì con voce soffocata.
Eric si zittì, pensoso. « Non l’avevo mai pensata in questo modo » si limitò ad ammettere poi, mangiando distrattamente
il secondo gusto - banana - del cono.
Lo Shinigami
non rispose. Come aveva fatto a farsi trascinare così profondamente dal
discorso fino a dimenticarsi di moderare il linguaggio?
Nonostante fosse alquanto
impossibile che un essere umano se ne uscisse con un: “Maddalena puttana, sei
un dio della morte!” non voleva lasciare nulla al caso e, soprattutto, non
doveva sottovalutare l’acutezza mentale che aveva scoperto essere qualità di Eric.
Un clacson interruppe il loro
silenzio.
Alzò gli occhi probabilmente
nello stesso istante dell’altro: un furgoncino a sei posti pieno di ragazzini
era parcheggiato dall’altra parte della strada, il nome di un’associazione
sportiva spiccava in caratteri color arancio sulla fiancata.
Udì Eric borbottare un mezzo
insulto. Un uomo sulla cinquantina stava scendendo dallo sportello
dell’autista, mentre sette facce li osservavano attraverso i finestrini della
vettura.
« Eric! » sbottò l’uomo una volta
attraversata la strada, pronunciando il nome con esaustiva prepotenza ma
abbastanza piano da non attirare l’attenzione delle altre persone fuori dalla gelateria.
« Papà » ribatté il ragazzo atono, senza
la minima intenzione di scendere dal muretto.
« Oggi c’è la partita! Te ne eri
dimenticato? No, scommetto di no, vero? Lo fai apposta per farmi incazzare! » cominciò a dire, agitato ed
arrabbiato al contempo.
« Papà, ti presento JoshuaArcher» lo interruppe però il castano,
incurante della sfuriata a voce bassa del padre.
Quello, come risvegliatosi da
una sorta di trance di cui facevano parte solo lui e
il figlio ribelle, lo osservò con espressione interdetta. « Oh, scusa la maleducazione » cercò subito di rimediare, probabilmente notando solo
in quel momento che il figlio maggiore era in compagnia. Tese la mano,
presentandosi: «TrentEverald».
Joshua ricambiò la stretta il più brevemente possibile, quasi
sfiorando con le sue dita fredde la mano calda e sudaticcia dell’uomo. «Joshua» si presentò a sua volta, riportando la mano nella
tasca dei jeans.
Trent aveva notato la temperatura un po’ bassa della sua
pelle, a giudicare da come aveva guardato la mano che lui aveva stretto. MaAbrahel era altrettanto sicuro
che avrebbe accantonato la cosa come una stranezza senza significato,
dimenticandosela in quattro e quattr’otto.
« Allora, Joshua… come hai conosciuto
mio figlio? » chiese, evidentemente costretto dall’etichetta a
cercare di intrattenere una sottospecie di conversazione di
cortesia con la persona che si è appena conosciuta.
Notò uno scatto di panico
nell’espressione di Eric, ma lui aveva già la risposta
pronta.
« Frequentiamo lo stesso college » disse infatti, pacato e con
un sorriso tranquillo in volto.
« Oh, splendido »
evidentemente apprezzava, data la spontaneità della risposta: « quale facoltà, se posso chiedere? » domandò.
« Fisica » rispose rapidamente, ma non
troppo per palesare la sua poca intenzione di intrattenersi oltre le formalità
di rito.
Anche Eric parve sorpreso. Dopotutto, considerò Joshua, non gli aveva ancora detto che frequentava Fisica
nella sua stessa università. Non vi era ancora stata l’occasione.
« Buona fortuna per i tuoi studi, allora » augurò l’uomo, Joshua annuì.
Poi tornò con gli occhi al figlio, incenerendolo quasi: « vorresti per cortesia venire con noi? C’è la partita » ricordò veemente.
« Non è la partita, èuna
partita! » puntualizzò il ragazzo, seccato: « e Alex di sicuro non si metterà a piangere dalla
disperazione se per una volta non vado ad una sua partita di basket! ».
Lo sguardo del padre
dardeggiò. « Ci siamo sempre andati tutti, e continueremo ad
andarci tutti! E adesso scendi e sali in macchina! » ordinò, alzando il tono.
Alcuni ragazzi nelle vicinanze
si voltarono, osservando straniti nella loro direzione per qualche istante.
Fu Eric a cedere. EAbrahel non si stupì che
un’altra sua previsione avesse fatto centro.
« Per le mie gare non vale lo stesso ragionamento, però…
» lo sentì bisbigliare, ma fece finta di nulla. Eric lo
salutò controvoglia, mimando un ringraziamento con le labbra
unito a delle scuse, probabilmente per la scena a cui aveva assistito.
Lui fece semplicemente un
cenno negativo, sollevando appena la mano per salutarlo di rimando.
Osservò il furgone sparire e,
considerando le facce degli occupanti, la rabbia di TrentEveraldera infine esplosa.
Non rincasò.
Per un qualche motivo che non
riusciva a spiegarsi, preferì di gran lunga
passeggiare senza meta fino a sera e oltre, rendendosi conto di aver vagato
praticamente per tutta la città solo quando il sole era completamente scomparso
dietro la linea dell’orizzonte.
Lui non sentiva
la fatica, era da dire. Per quello non si rendeva conto di quanto
camminava, quando era immerso nei suoi pensieri.
E di cose su cui riflettere ne aveva fin troppe.
A cominciare
dal pomeriggio passato in compagnia dell’obiettivo e dalla sua totale mancanza
di precauzioni, da un certo punto in poi. Da qualche parte la sua autocoscienza aveva fatto acqua e lui non
riusciva a trovare il punto in cui si era aperta la falla.
Secondo ma non meno
importante, cominciava a sentire fame.
Probabilmente due secoli di incoscienza ed immobilità
avevano indebolito la sua resistenza, donandogli la sgradevole necessità di
soddisfare il suo impulso a saziarsi prima del solito.
Si guardò attorno. A giudicare
dalla vegetazione era di nuovo adHeaven
Park, solamente in un punto diverso rispetto a quello del primo pomeriggio;
attorno a lui vi erano larici, infatti, non tigli, anche se con il buio della
prima notte apparivano come una massa di alberi scuri dalle forme appena
abbozzate.
Scrutò meglio, senza nemmeno
il bisogno di assottigliare gli occhi. Era risaputo che i parchi pullulano di coppie di fidanzatini durante la notte, gli
bastava trovarne una.
Ed eccoli, infatti, su di una panchina non molto lontana da
lui. Abbracciati teneramente,
sembravano impegnati in una conversazione a bassa voce fatta di paroline dolci
e promesse d’eterno amore.
Storse il naso, profondamente
disgustato dalle sue stesse ipotesi.
Le loro anime erano grigie,
come quasi tutte le altre. Solo quella della donna sembrava un po’ più chiara,
anche se di poco; un grigio cinereo sicuramente più gradevole del grigio
asfalto di quella di lui.
Sospirò, chiudendo gli occhi.
Doveva accontentarsi.
Quando li riaprì, era pronto per entrare in scena.
« Scusatemi! » sussurrò,
dipingendosi in volto un’espressione di tenerezza colpevole. Corse
verso la loro panchina, dove entrambi lo osservarono pacatamente stupiti.
« Sì?» chiese la ragazza una volta che
fu davanti a loro, sicuramente molto più disposta del
ragazzo ad accogliere la sua ancora inespressa richiesta d’aiuto.
« Mi dispiace disturbare il vostro…
sì, insomma… la vostra chiacchierata » finse
imbarazzo, magistralmente: « ma la mia ragazza si è persa -
sapete, non è di queste parti - e io ho finito il credito nel cellulare » spiegò, velocemente ma senza dare l’idea che fosse tutto
improvvisato: « potreste prestarmene uno? Ci metterò solo due minuti, il tempo di farmi
spiegare dov’è » aggiunse, ancora fastidiosamente colpevole.
Il ragazzo lo squadrò, facendo
per tirare fuori il suo non appena si convinse della sua menzognera buona fede.
Gli tese il piccolo apparecchio e, approfittando del gesto, Anbrahel
gli sfiorò le dita della mano con le proprie. Ci volle poco: in nemmeno cinque
secondi le sue palpebre si abbassarono e il ragazzo cadde addormentato contro
lo schienale della panchina.
«Jake? » chiamò lei, ancora interdetta da quello strano
comportamento: « cosa ti succede? ».
« Starà bene » esordì il
dio della morte, appoggiando il cellulare sulla panchina. Subito dopo toccò con
l’indice destro la fronte della ragazza, i cui occhi si velarono di apatia, facendola cadere in una sorta di trance.
Fece un passo indietro,
tenendo teso l’indice con cui aveva toccato la donna. Lo mosse da sotto in su in un movimento alquanto elegante e quella, seguendo
la volontà dello Shinigami, si alzò in piedi.
Odiava quel lavoro per molti
motivi, ma quello era sicuramente al primo posto: il doversi nutrire della
forza vitale senza uccidere.
Non era facile. La differenza
fra l’uccidere e il nutrirsi era enorme per loro, gli Shinigami, incatenati da leggi severe quanto crudeli. Un
sottile equilibrio regolava la vita e la morte e loro erano le prime entità a
non doverlo assolutamente infrangere.
Per tale motivo non potevano uccidere
chi non era stato designato e, in modo analogo, non potevano far sì che la
persona indicata continuasse a vivere.
Lui era sempre riuscito a
scampare all’inconveniente. Li uccideva subito, senza aspettare, infrangendo le
leggi di “buona condotta” imposte da Enma ma
preservando perfettamente intatte quelle del mondo.
Obbligato ad attendere si
sentiva come in trappola.
Chiuse gli occhi per un
istante soltanto, concentrandosi. Non doveva ucciderla. Solo
nutrirsi, rubarle energia vitale senza darle la morte. Non era la sua
ora.
Riaprendo gli occhi con
rinnovata convinzione si avvicinò, posando le labbra su quelle di lei.
Non un vero e proprio bacio,
anche se lo somigliava. Poteva essere ironicamente chiamato “bacio della
morte”, con un certo gusto per il macabro.
Attraverso le labbra socchiuse
di entrambi cominciò a scorrere un fiotto di aria
fredda, dalla bocca di lei a quella di lui. Energia vitale, più semplicemente,
anche se il sapore era alquanto sgradevole.
Acida. Come un’arancia non
ancora matura, scorreva nella sua gola dandogli forza e disgusto al contempo.
Era come bere un bicchiere di succo puro di limone, non zuccherato o allungato
con acqua o sciroppo. Sinceramente disgustoso.
Forzando se stesso, dopo quelli che parvero minuti quanto in realtà erano si e no
venti secondi, Abrahel si distaccò con uno scatto
indietro del busto, accompagnato da un passo. Strinse gli occhi, portandosi la
mano destra alla bocca, chiudendola per non avere la tentazione di terminare di
rubare quello che aveva cominciato a prendere dalla ragazza, caduta a peso
morto a terra, girata su un fianco.
Tutto si faceva dolce, nella
morte. Persino il sapore schifosamente acido di quell’anima
cinerea.
Ed era difficile smettere di succhiare fluido vitale
quando si conosceva la dolcezza che emanava un’anima che muore.
« Maledizione… » imprecò a
denti stretti, serrando gli occhi con tutta l’intenzione di recuperare un
minimo di controllo su se stesso e sulle sue pulsioni. Sembravano amplificate di dieci volte, da quando aveva ritrovato la
forma umana e si era messo a vivere come uno di loro.
Ed erano passate solo quarantotto ore…
Un leggero battere di mani
pervase l’aria, poco distante. Un battito che, si rese conto,
poteva tranquillamente essere un applauso appositamente lento.
Voltò il capo nella direzione
da cui proveniva. Non si stupì di quello che vide, ma sicuramente non si
aspettava di avere anche pubblico di quel tipo.
Un giovane stava in piedi
esattamente al centro del vialetto, immobile e così effimero da sembrare una
scultura di innaturale bellezza.
La pelle del viso era delicata
e chiara, con appena un tocco rosato sulle guance che però non dava eccessivo
colore al suo pallore. Lunghi capelli, sottili come fili di seta, erano
racchiusi da un elastico in una coda di cavallo alta sulla nuca, di un biondo
così chiaro da rilucere d’argento alla luce soffusa delle lampade del parco.
Vestiva di scuro - jeans neri e una maglia smanicata a collo alto - ma quello
che dava sicuramente più nell’occhio era il colore dei suoi occhi, rilucenti in
modo sinistro nella semi oscurità: rossi. Un rosso
rubino molto simile a quello del sangue.
Sembrava un adolescente, ma il
suo sguardo esprimeva molto più della quasi ventina d’anni che dimostrava.
«Shinigami» disse poi, abbassando le mani ancora intente a battere
l’una sull’altra: « incontrare roba come te è raro quanto parlare alla Madonna » esordì.
Il linguaggio non era gentile
quanto lo era la sua bellezza.
Arricciò il naso. « Vampiri » si fece
scivolare fuori dalla bocca nel medesimo tono, ma non
vi riuscì propriamente; venne molto, molto peggio: « il vostro senso dell’umorismo è scarso come sempre » commentò, ritrovando la compostezza.
Aveva messo in conto di poter
incontrare altre creature “metafisiche”, ma mai in un parco pubblico così
affollato.
Il ragazzo sembrò ilarmente
accigliato, quasi curioso, come se non si aspettasse altro che una piacevole
chiacchierata da quell’incontro. « Hai visto
altri vampiri? » chiese, nello stesso modo in cui si chiede il conto in
un ristorante, o che tempo farà nel week end.
«E tu altri Shinigami? » domandò lui in
risposta.
Un piccolo sorriso: « Sono abbastanza vecchio da poter dire di sì ».
« Perfetto. Allora ti manca solo la Madonna » ribatté spontaneamente, infilandosi le mani nelle
tasche dei jeans e rimanendo ad osservare il vampiro.
Entrambi non avevano motivo di temere l’altro; come
molte altre creature, i vampiri non erano soggetti alle leggi che regolavano il
loro mondo. Il fatto che non potessero morire - nemmeno invecchiare, veramente
- fungeva da scappatoia alla morte vera e propria.
Il loro corpo era già morto,
dopotutto.
«Cosa ci fai qui? Credevo che
voi sanguisughe batteste i vicoli in cerca degli scarti della società » disse poi, aspettando invano che il vampiro
rispondesse alla sua battuta.
« Una regola che non vale più » fece spallucce l’altro, facendo sparire le mani nelle
tasche dei pantaloni neri: « i vicoli ora sono battuti anche
dai poliziotti, non solo da noi.
Umani, non si fidano mai di ciò che non possono vedere » ironizzò, sogghignando appena alla sua sottile
battuta. « E’ in posti come questo che si trova parecchia feccia.
Ovviamente non sul vialetto… »
Abrahel storse il naso; era una frecciatina
puntata diritta su di lui.
« …ma nascosti dietro gli
alberi ci trovi scippatori, spacciatori… se dice bene la serata, anche qualche
violentatore seriale » terminò l’altro.
Il suo stomaco ebbe un moto di
disgusto. Tutte anime oscure, tutte; poteva sentirne il sapore amaro della loro
sporca linfa vitale anche senza avercela direttamente in bocca.
« Disgustoso » commentò.
« Concordo » rispose
l’altro: « ma, per quanto strano, anche noi sanguisughe abbiamo delle regole. Non posso mettermi a mordere
bambini, mammine, giovani ragazzine o ragazzini di
nemmeno vent’anni » affermò,
calcando con la voce sul termine usato prima dallo Shinigami.
Abrahel non rispose. Si limitò a guardarlo camminare,
osservandolo procedere in avanti in sua direzione fino a superarlo, il passo pacato e l’aria di chi non si cura di nulla.
« Nome? » chiese quando ce
lo ebbe a pochi passi di fronte.
«Marcus» rispose quello: « ma data
l’epoca, è meglio Alec»
precisò.
Lo Shinigami annuì solamente, ricambiando le formalità: «Abrahel» disse, rispettando il tacito accordo appena accesosi
fra loro: complicità. Fra tutti
loro, creature ultraterrene, nonostante le apprensioni che dividevano le
diverse razze vi era una sorta di codice d’onore unitario.
E questo codice
era prima di tutto la cortesia.
« Con permesso » sussurrò il
vampiro passandogli a fianco. Poi, uno spostamento d’aria.
Non rispose e non si voltò.
Molto probabilmente era già sparito.
Earvin “Magic” Johnson
jr.: giocatore NBA molto famoso, praticamente uno
dei mostri storici del basket. Giocava come playmaker.
So che Marcus sembra un
personaggio piantato lì dal nulla, ma fidatevi: più avanti avrà il suo ruolo XD
Per ora, ringrazio tutti quelli che hanno avuto il fegato di
arrivare a leggere fino a qui. Troppo buoni, davvero.
E, naturalmente, tutti coloro che
hanno recensito!
Kicchina:
Oh, PeterPanTheory. Ed è vero, effettivamente mi sembrava di aver
visto il tuo nick da qualche altra parte O.ò
Comincio con il ringraziarti per i complimenti sulla
scrittura. Mi fanno sempre piacere e, suvvia, mi hai decisamente
elogiato al di sopra di ogni mia immaginazione. Diciamo che ci godo come il
riccio sulla spontex, dato che
la mia autostima solitamente fatica a galleggiare intorno allo zero U___ù.
Per quanto riguarda i personaggi, beh… posso dire che mi impegno per renderli interessanti, ma non riesco a
stabilire autonomamente se mi riesce. Cerco sempre di evitare i soliti cliché
scontati, ma non è detto che abbia successo XP. Eric,
soprattutto, dovrebbe riservare ancora qualche sorpresina.
Prima che mi dilunghi troppo, ti
ringrazio nuovamente per tutti i complimenti e per aver recensito.
_Metallica_:
Oddio, no, l’infarto no! *sventola il foglio degli appunti
nel tentativo di evitare la crisi cardiaca*.
Bando alle ciance: sì, anche io solitamente le fic che parlano di Shinigami le
salto in pacca. Mi ricordano troppo Yami noMatsuei, o trovo collegamenti con il suddetto, dunque non
mi fido. Il fatto che poi io mi sia trovata a scriverne
una è totalmente estrinseco dal mio volere, lo giuro! XD Il corso degli eventi
ha voluto così.
Ti ringrazio molto per la recensione e per i complimenti
sullo stile. Sono felice, ovviamente, che piaccia… non riesco mai a capire se
sia venuta bene o meno, rileggendola. Se apprezzi vuol
dire che non sta uscendo poi così male XD
E poi, ti dirò. Sono sette capitoli
più Antefatto ed Epilogo… quindi alla fine sono nove,
no? *si sente il rumore degli specchi su cui si sta arrampicando*.
dea73:
come detto abbondantemente sopra, grazie per la recensione. E no, il fatto che
i protagonisti siano dei bei fanciullinon è assolutamente casuale. Insomma…
com’è che si dice? “L’occhio vuole la sua parte”, no? XP
Penso che non finirò mai di ringraziare Bunny per avermi portato al
concerto dei Birthday Massacre
Penso che
non finirò mai di ringraziare Bunny per avermi portato al concerto dei BirthdayMassacre. Mi
sono innamorata di una loro canzone (e del relativo video, seppure inquietante)
che mi ha accompagnato per tutta l’ultima parte del capitolo.
Per chi se
la vuole ascoltare e non la conosce, è Looking Glass. Il
titolo del capitolo è preso dal testo.
Note: Daniel Wayne, che viene citato, non mi appartiene. E’ stato creato e viene schiavizzato da Shichan, che me ne presta i servigi
quando ne necessito XD perciò: grazie Shichan.
Monday
Eric
It’s
a glasscage, so I can’t pretend...
Sembrava
monotono e altresì comune, ma avrebbe potuto giurare
che il lunedì fosse il giorno che odiava di più.
Motivazioni?
Diverse.
Per
definizione è il primo giorno della settimana. Il tedio di alzarsi presto la
mattina cominciava a percepirsi sin dalla sera prima e sentire l’insistente
“bip bip” come primo suono appena svegli
era decisamente debilitante.
Inoltre,
la sua famiglia. Anche se quello era un problema di
tutti i giorni, non solo del lunedì.
Suo padre
era un uomo all’antica, già. Per lui i pasti - colazione compresa, dunque - erano
i momenti di maggiore importanza della giornata, e oltre a costringerli tutti
ad ingoiare vitamine e proteine pretendeva che tutta
la famiglia fosse presente e riunita.
Questo
progetto prevedeva l’alzarsi mezz’ora prima del necessario: minuti di sonno che
nessuno gli avrebbe ridato mai.
Anche
quel giorno nulla variò. La sveglia suonò alle sei come sempre, dovette
litigarsi il bagno con il fratello come sempre, finì per arrivare ultimo come
sempre. E, come sempre…
« Sei in
ritardo ».
La voce
severa del padre giunse come il brontolio di un drago a digiuno dalla cucina,
dove lui e Alex avevano appena interrotto una
conversazione sicuramente incentrata sul basket.
E
nessuno andrebbe ad accarezzare un drago a digiuno, ammettiamolo.
«
Buongiorno anche a te, papà » salutò lui, con palese ironia, sistemandosi meglio
la maglia nera e gettando zaino e borsone contro il muro
prima di entrare in cucina. Spettinò i capelli del fratellino, diede un
piccolo bacio sulla guancia alla madre e si andò a posizionare
alla destra del padre, facendo stridere la sedia nello spostarla.
L’uomo gli
scoccò un’occhiataccia che lui ignorò.
« Allora
ragazzi, cosa farete oggi? » cominciò la madre, posando davanti ai due un piatto
con uova strapazzate e pancetta. Ignorando lo stomaco che si contorceva con
disappunto, si versò un bicchiere di succo d’arancia.
« Scuola »
rispose Alex allegramente: « poi allenamento. Io e papà vogliamo provare con Rick la nuova finta che abbiamo sperimentato ieri
pomeriggio, dovremo riuscire a vincere contro i Pidgeons
se riusciamo a coordinarci bene e a metterla in pratica al tempo giusto »
terminò quasi raggiante, infilzando con la forchetta un po’ di
uovo.
Il suo
stomaco si rivoltò come un calzino, ma per l’ennesima volta non vi badò;
preferì armarsi di coltello e cominciare a sbocconcellare la sua fetta di
pancetta.
« Bene,
divertiti » rispose cortese la madre, sedendosi alla sinistra del padre, seduto
a capotavola. « E tu Eric? » chiese poi, osservandolo
con lo stesso sorriso che aveva appena riservato al figlio più piccolo.
Eric si
bloccò con la forchetta a mezz’aria, guardandola appena. « Oggi ho lezione, poi vado a pranzo con McFarland.
Nel pomeriggio sto in biblioteca, devo preparare un elaborato; dopo ho
allenamento » terminò, riassumendo.
Ovviamente
non poteva essere abbastanza, per quella mattina. Se Eric non
metteva piede fuori di casa con l’umore tendente al nero, suo padre non
si considerarava realizzato.
« Quanto hai intenzione di stare in piscina? » chiese, con l’evidente
tono di chi disprezza dalla prima all’ultima lettera della frase che ha appena
pronunciato.
« Al
solito » ribatté lui, cercando di mantenere lo status quo solo per non infognarsi nell’ennesima discussione senza
senso con colui che si professava suo genitore: «
finisco alle otto e mezza. Come tutta la scorsa
settimana e da un anno a questa parte » commentò, ingoiando a fatica un po’
d’uovo che subito annaffiò con del succo di frutta.
Trent
aggrottò le sopracciglia. « Non mi piace il tuo tono, ragazzo ».
“Ragazzo”.
Come se lui non fosse suo padre, ma suo nonno o suo zio.
Qualcuno di più distante, nell’albero genealogico della famiglia Everald; qualcuno tagliato fuori solo perché non rincorreva
una palla arancione per farla passare in una rete sospesa a mezz’aria.
Non
rispose alla provocazione. Non ne valeva la pena di avvelenarsi il sangue.
Guardò in
basso, invece, dove le uova lo stavano implorando di mangiarle ma il suo stomaco
aveva deciso di non collaborare. Si arrese ben presto
all’evidenza che non avrebbe toccato oltre la sua
colazione.
«
Scusatemi » sussurrò con faticosa cortesia, alzandosi velocemente. Per evitare
che suo padre, finito il boccone, cominciasse la sua paternale di “quando ci si
alza dal tavolo” e “si esce di casa tutti insieme”.
Gli faceva
venire da vomitare, il fatto che suo padre lo considerasse a parole membro
della famiglia e lo escludesse dal concetto con i
gesti e con l’atteggiamento che gli dimostrava.
Uscì dalla
porta con un frettoloso saluto, udendo la voce dell’uomo solo quando ormai era
a cavallo della mountain bike.
La scuola
non gli era mai piaciuta.
Era sempre
stato un tipo molto movimentato, amante della vita all’aria aperta, e passare tutti i giorni sei ore seduto ad un banco non era
esattamente la sua idea di “libertà”.
Tuttavia
all’epoca giocava a basket, di conseguenza andava d’accordo con il padre. Fu
quando decise di andare per una vita tutta sua che i ruoli si
invertirono: casa era una specie di carcere di massima sicurezza mentre
il college era divenuto la sua nuova boccata d’aria fresca.
Forse era
per quello che passava fuori casa la maggior parte del tempo. E, al contempo, forse era per quello che il lunedì mattina a
scuola non assumeva contorni così tanto traumatici.
« Ev! » sentì esclamare, appena prima che McFarland
gli piombasse addosso travolgendolo con la sua incredibile allegria sin dal
primo mattino: « come hai passato queste ventiquattro ore lunghissime che ci
hanno separato nel week end? » scherzò ad alta voce,
attirando le occhiate di parecchia gente nei paraggi.
« Le più
belle della mia vita » rispose a tono Eric con un sorrisetto, scrollandoselo di
dosso.
« Crudele »
ribatté l’altro: « bisognerebbe avvertire tutte quelle poverette che ti fanno
il filo, potrebbero rimanere veramente ferite da questo tuo comportamento
anti-sociale » esplicò con improvvisa eloquenza,
camminando al suo fianco in direzione del dipartimento di Letteratura.
Il castano
ridacchiò, guardandosi intorno senza rispondergli. Non erano pochi gli studenti
che non avevano lezione presto al lunedì mattina, e
non era strano vederli chiacchierare seduti in cerchio sull’erba del campus.
Soprattutto se era una giornata niente male e il tempo prometteva bene.
Non fu
difficile individuare chi, in realtà, si era ritrovato a cercare con lo
sguardo. Occhi come quelli, una volta registrati bene in mente, saltano all’attenzione fin troppo velocemente: più o meno come gli
oggetti di segrete ossessioni.
E non
poteva non ammettere a se stesso che la sua fissazione non lo stesse
diventando.
Archer
stava seduto su una panchina del parco, tranquillo, nessuno intorno. Leggeva,
da quello che sembrava a lui, un libretto piccolo e dalla copertina piuttosto
consunta dal titolo in lettere d’oro che non riusciva a leggere. Indossava un
paio di pantaloni neri e una semplice maglietta bianca, ma anche nella più
assurda semplicità di vestiario quell’abbigliamento gli si incollava
addosso come una seconda pelle, cadendogli perfettamente, quasi fosse stato
disegnato appositamente per lui e poi messo in commercio.
Si rese
conto di essersi fermato a guardarlo solo quando la voce perennemente su di
giri di Jonathanlo riscosse
dal suo improvviso torpore.
« Ev, chi cavolo stai guardando? »
chiese, incuriosito più che stizzito, appoggiandosi sulle sue spalle e cercando
a sua volta l’oggetto dello sguardo di Eric.
Per
fortuna aveva una capacità spiccata di non dare a vedere l’imbarazzo e di avere
quasi sempre la risposta pronta:
« Archer » rispose con una perfettamente recitata calma: « lo
conosci? ».
« E chi non lo conosce? » ribatté quello, assottigliando lo
sguardo come se stesse guardando un nemico... o un rivale, più che altro. « JoshuaArcher, Fisica, classe del
professor Wayne » continuò: « è qui da quanto? Due giorni? Forse tre. E sembra già che la metà delle ragazze di questa
stramaledetta università si siano innamorate pazzamente di lui. Non so quante
dichiarazioni o quanti atti di deliberata seduzione abbia
già subito, ma da quello che ho capito non si è messo con nessuna e non ha la
ragazza. E’ il fottuto playboy di origine
ignota » biascicò a denti stretti, togliendosi da sopra le sue spalle per
riprendere a camminare in direzione della facoltà. Anche
Eric gli andò dietro, costringendosi a scostare lo sguardo da Joshua.
Prese fiato per parlare, ma decise di non farlo. Con l’incazzatura che si era fatto venire Jonathan,
se gli diceva cose come “io l’ho conosciuto e non mi sembra male” poteva
tranquillamente ritrovarsi in uno dei fossi dietro la
scuola con un pugnale piantato nello stomaco; McFarland
era in grado di farlo, oh sì.
Optò
dunque per un approccio più idiota: « cioè, fammi capire: una persona ti chiede
informazioni su uno nuovo e la prima cosa che gli dici è la sua vita sentimentale
e il suo grado di popolarità nella sfera femminile? » ironizzò, ridacchiando in
sua direzione con una finta aria scioccata.
L’altro lo
fulminò, salvo poi togliere da lui lo sguardo con un leggero rossore sulle
guance: « e cos’altro ti devo dire? Ho sentito solo
questo in giro » si giustificò.
« Hai
sentito solo questo perché ti interessava solo questo,
e di conseguenza hai ascoltato solo
questo » lo corresse Eric, colpendo direttamente il nervo scoperto: « possibile
che tutta la tua esistenza giri intorno al sesso e alle ragazze, McFarland? » domandò falsamente lamentoso, anche se la
risposta già la conosceva.
« Ovvio,
su cos’altro dovrebbe girare, scusa? » rispose l’altro, sgranando gli occhi
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Eh già, su
cos’altro?
« Noterete
che l’inglese usato è diverso da quello contemporaneo » stava spiegando il
giovane professore, indicando sulla lavagna alcuni pronomi personali scritti in
bella grafia: « “thou”, per esempio, è una forma arcaica di “you”. Lo
utilizzava Shakespeare e, se non avete sbagliato aula
andando a biologia, saprete sicuramente che il caro
William visse nella seconda metà del sedicesimo secolo ».
Una lieve
risata si sollevò dagli studenti in ascolto, sicuramente più numerosi rispetto
a molti altri corsi.
Il professor Wallacy sorrise a sua volta, voltandosi nuovamente verso
alla lavagna ad indicare la forma possessiva del pronome appena menzionato.
Eric, come
altri, trovava che Elliot Wallacy avesse una marcia in
più rispetto agli altri professori. E non solo per l’aspetto fisico, che lo
faceva assomigliare molto da vicino ad una specie di essere
angelico sceso da una qualche parte del paradiso, ma soprattutto per la
passione e la gioia con cui insegnava la sua materia: Letteratura Inglese.
Aveva i
capelli mossi e biondi, corti a sfiorare il collo, e un paio d’occhi azzurro
cielo sempre solcati da un’allegria contagiosa. Ventisei anni, giovanissimo
rispetto allo standard dei professori, eppure era già un associato e con una
classe tutta sua. Record d’età battuto solo dal suo collega
Daniel Wayne, insegnante di Fisica Meccanica, ex bambino prodigio ora
ventiquattrenne.
Si
appoggiò con il mento alla mano destra, il cui relativo gomito era puntato
sulla plastica rigida del poggia libri della sedia.
Osservò con cipiglio distratto il professore, seguendone i lineamenti delle
dita affusolate solo per l’improponibile scopo di pensare a tutt’altro e
perdersi la rimanente parte della lezione.
Non ne
poteva veramente più.
Ogni volta
che suo padre apriva bocca si sentiva come la pecora nera nell’ovile di quelle
bianche.
Non
meritevole, non degno. Solo perché aveva scelto la sua
strada, e perché quella strada andava contro i suoi voleri e valori.
Perché
non poteva essere un padre come tutti gli altri? Perché
non poteva semplicemente dirgli “vai, Eric, vai con Dio”? Perché
doveva essere sempre così terribilmente, pesantemente stressante? Perché doveva comandare a bacchetta ogni aspetto della sua
giornata per sentirsi soddisfatto?
Sospirò,
socchiudendo gli occhi per non permettere al nervosismo di salire a galla.
Erano tutte domande che non avrebbero mai trovato risposta, e lui lo sapeva
benissimo, ma non poteva fare a meno di ripetersele in un lento ritornello
senza fine.
E non
poteva nemmeno impedire alla rabbia di comparire, di chiudergli lo stomaco
trasformandosi in frustrazione, di fargli accelerare il cuore finché non si rendeva
conto di stare per impazzire, come un moccioso, un fottuto
bambino che si trova da solo quando ha paura del buio.
Scosse
appena il capo, tornando ad osservare la lavagna. Ma
la concentrazione evidentemente aveva smesso di essergli amica, perché le
parole del professor Wallacy scivolavano sulla sua mente come una coperta di
seta, troppo liscia e morbida per rimanere su di lui a lungo.
La
campanella di fine lezioni lo salvò da una sicura
crisi di nervosismo.
Non si
preoccupò nemmeno di aspettare o salutare McFarland:
raccolse le sue cose in fretta e furia per poi uscire dall’aula come un
fulmine, spintonando e dribblando chi camminava troppo
lentamente.
Aveva
bisogno di aria. Sentiva di non riuscire più a
respirare al chiuso, intrappolato fra mura e persone.
Si diresse
a grandi passi verso l’uscita, incredibilmente più lontana di quello che
immaginava di ricordare. Persino il corridoio sembrava più lungo,
e tutte le volte che osservava una delle persone che sorpassava
correndo, quella dopo sembrava avere gli stessi vestiti, gli stessi capelli...
magari essere la stessa persona che aveva superato pochi passi prima.
Stava
male. Si sentiva il torace come stretto in una morsa.
Aria. Aria!
Finalmente
raggiunse la porta e, spalancandola di malagrazia, corse per cinque passi oltre
al viale, in mezzo ai giardini. Alcuni ragazzi si girarono a guardarlo,
straniti.
Respirò a
fondo molte volte prima di rendersi conto di stare ansimando. Il sangue
sembrava non trovare più la strada per arrivare al cervello mentre il surplus di ossigeno che inspirava si traduceva tutto in un
offuscamento generale dellavista. Notò
con uno sprazzo di lucidità che il cuore sembrava uscirgli di petto da quanto
batteva forte e veloce, manco avesse nuotato i
quattrocento metri stile libero battendo il record mondiale.
Portò il
polso sinistro, con l’orologio da polso, davanti agli occhi mentre poggiava due
dita della destra sulla carotide. Sotto la pelle l’arteria
sembrava un martello. Batteva contro i suoi polpastrelli come se dovesse uscire
dalla gola entro pochi secondi.
Cercò di
calmarsi, trattenendo il fiato in modo da regolarizzare
i respiri ed immettere nei polmoni la giusta quantità di ossigeno. Nel
frattempo, Prese a contare i battiti.
Uno, due, tre, quattro... quando superarono gli otto ogni
cinque secondi, fece un veloce calcolo. Era vicino ai cento battiti al minuto, e decisamente non era colpa della corsetta che
aveva compiuto per uscire dall’edificio.
Che
cosa cavolo stava succedendo?
Aspetta...
non era il suo cuore che impazziva, vero? Non gli
stava giocando un brutto scherzo alla sua età, vero?
In un moto
di lucidità (o di follia?) fece una rapida scorsa mentale di chi in famiglia
aveva avuto problemi di cuore. Nessuno, a quanto ne sapeva.
Ma giusto, lui che ne sapeva? Magari un suo lontano parente da parte di madre era
cardiopatico e lui nemmeno lo sapeva. Un cugino che non aveva
mai conosciuto, o uno zio segreto di Philadelphia.
Tutte
quelle congetture non facevano altro che agitarlo, e l’agitazione gli faceva
schizzare il cuore a livelli da tachicardia. Si accorse di essere quasi piegato
in due, da come le sue mani stavano aggrappate alle
ginocchia, reggendo probabilmente il tronco in procinto di piegarsi ancora di
più.
Fu
probabilmente per quello, che non lo vide arrivare...
« Ehi, ti
senti bene? »
Se non
fosse stato piegato in due in quello che cominciava a considerare come un
principio d’infarto, probabilmente avrebbe riconosciuto la voce. Ma la domanda improvvisa, la posizione retrostante e il
tocco della mano sulla spalla ebbero il brutto risultato di farlo reagire
d’impulso; si voltò di scatto, scostando con uno schiaffo la mano del povero
malcapitato che lo voleva aiutare.
Malcapitato
con degli stranissimi, quanto bellissimi, occhi di cristallo azzurro.
« Ar... cher? »
ansimò Eric, rendendosi improvvisamente conto di non riuscire nemmeno a
parlare coerentemente.
L’altro
sembrò stupito, inizialmente; poi un lampo di preoccupazione gli attraversò lo
sguardo... o forse no? Era ansia, quella? Sembrava la faccia di uno che si trova davanti ad una situazione completamente imprevista,
non calcolata.
Beh,
magari uno studente in preda ad un infarto lo era, imprevisto, no?
« Everald, datti una calmata » disse poi, sfoggiando la sua
caratteristica calma: « e siediti, sei pallido come un
lenzuolo » aggiunse.
Ah! La
faceva facile, lui. Non era mica semplice come prestargli una matita!
Ma
decise di fidarsi. Se Joshua sapeva cosa cavolo fare
in situazioni come quella, magari per scongiurare
l’infarto che – ormai ne era sicuro! – stava per stroncargli la carriera
agonistica appena iniziata, ben venisse!
Lo sentì
appoggiargli le mani sulle braccia, accompagnandolo ad una vicina panchina in legno. « Stenditi e piega le
gambe » gli sentì dire, e non ebbe la forza di chiedere spiegazioni o di
rifiutarsi di farlo; sotto lo sguardo di passanti un po’ curiosi, si stese con
la schiena sul legno e piegò le ginocchia.
Già
meglio. Almeno la testa stava ferma al suo posto, ora.
« Cosa ti senti? » gli chiese Joshua,
e si domandò mentalmente come cavolo aveva fatto a non riconoscere prima quel
tono particolarmente pacato e quel modo suadente di
parlare.
« E’... un
infarto. Lo so. Lo sen... to » ansimò, portando
l’avambraccio a coprirsi gli occhi. Nonostante fossero all’ombra
se li sentiva umidi.
« Se fosse
un infarto a quest’ora saresti su un’ambulanza »
rispose pacatamente l’altro. Un fruscio di abiti gli
rivelò che si era chinato al suo fianco, appena prima che un paio di dita
fredde si posassero sul suo collo, sentendo la carotide proprio nell’esatto
punto in cui prima se l’era ascoltata lui stesso.
Scostò il
braccio, osservandolo. Il viso dai lineamenti delicati ma mascolini era
concentrato sulla lancetta dei secondi del suo orologio da polso, uno vecchio Swatch di almeno una
decina d’anni prima con il cinturino in pelle un po’ consunto.
Non parlò,
lasciando che gli prendesse il battito. Se lo sentiva
rimbombare nel petto ancora velocemente, ma non tanto quanto prima.
« Quanti
caffè hai bevuto oggi? » domandò all’improvviso
l’altro, senza spostare la mano dal suo collo.
Ed
Eric cominciava a sperare che non lo facesse mai: era piacevolmente fresca e
sembrava non scaldarsi nemmeno a contatto con il calore emanato dal suo corpo.
« Due »
ammise: « prima di entrare in aula. McFarlandha lasciato lì il suo, l’ho bevuto io » riuscì a dire,
stranamente senza interrompersi per ansimare.
“Mangiato”
non era il termine adatto. Quel pezzo infinitesimale di uovo
e quel boccone di pancetta non valevano quanto una vera colazione. « Quasi
nulla » rispose dunque, anche se non capiva esattamente il senso delle domande.
Gli fu rivelato molto presto, con tanto di buffetto sulla fronte: « il
tuo problema si chiama tachicardia, genio del male, e sono sicuro che la tua
iniezione masochistica di caffeina in tazza a stomaco vuoto ne sia la causa »
lo riprese, alzandosi per andare a sedersi sul pezzo libero di panchina.
Maledì il
caffè. Gli sembrava la prima cosa che andava assolutamente fatta. Di seguito,
compatì se stesso e la sua idiotissima figura di
merda.
Cercò di
recuperare, in un qualche modo: « “Eric” va bene » se ne uscì, incredibile ma
vero, in un discorso tutto suo che non c’entrava niente con il contesto in cui erano.
« Cosa? » chiese infatti l’altro,
voltandosi con il capo in sua direzione. Non sembrava più seccato, adesso.
« Puoi chiamarmi Eric, va bene lo stesso » chiarì. Lo aveva
chiamato “Everald” prima; nonostante il trambusto se ne era accorto.
L’altro
sembrò pensarci sopra. « Allora è “Joshua”, per te »
ribatté in seguito, tornando con gli occhi ad un punto indefinito del cortile.
« Va bene
anche “Josh”? » chiese il castano ridacchiando,
puntando gli occhi nocciola su quelli freddi ma stranamente affascinanti
dell’altro.
« Come vuoi » fu la tiepida risposta, che però non era un rifiuto.
Eric
sospirò, rilassandosi. Doveva ancora chiarire come una
semplice chiacchierata con quel ragazzo spuntato dal nulla riuscisse a
calmargli non solo gli istinti omicidi, ma persino il cuore impazzito in
avanzata rapida.
Ora che la
tranquillità aveva preso il posto del terrore, si rese conto di avere avuto
veramente paura, anche se per alcuni istanti apparentemente interminabili.
« Credevo
di morire... » sussurrò, una risata vuota ad accompagnare i suoi occhi chiusi.
« Non
ancora » rispose velocemente Joshua, forse troppo. Salvo poi aggiungere: « ...a quanto pare ».
Fra loro
calò il silenzio. Eric sentiva rallentare pian piano il suo battito cardiaco e
ben presto ebbe abbastanza controllo su se stesso da riuscire a mettersi
seduto.
« Meglio? »
domandò Joshua pacatamente, incurvando appena le
labbra in un sorriso.
Il castano
annuì.
« Ti
converrebbe mangiare qualcosa » aggiunse poi il moro: « possibilmente senza
caffè » ironizzò lievemente.
« Non
toccherò una tazza di caffè per il prossimo mese, cavolo. Ho
le selezioni per i nazionali la prossima settimana, non posso rischiare
di stramazzare in vasca con il cuore a mille » rivelò, entusiasta.
L’espressione
di Joshua non variò. Nemmeno un po’. Si limitava ad
osservarlo con quel sorriso gentile ma vuoto, come se gli fosse stato dipinto
addosso e lì rimasto invariato.
Non parlò
nemmeno, probabilmente perso in pensieri suoi. Scostò solo lo sguardo,
impercettibilmente, ma Eric avrebbe giurato che non
stesse più guardando lui; piuttosto qualcosa in lontananza appena sopra la sua
spalla.
Stava
evitando il suo sguardo?
Si sentì
in dovere di riparare a quella frattura invisibile: « sei libero per pranzo? »
domandò, mascherando l’improvvisa ansia con un ben pianificato sorriso allegro.
L’attenzione
di Joshua fu nuovamente sua.
« Sì, a
dire il vero » ammise con un mezzo sorriso.
« Ora non
più » si intromise lui, alzandosi in piedi con un
balzo che aveva quasi dell’infantile: « sei prenotato. Anche
se ci dovremo accontentare della mensa, perché non è che io conosca
l’ubicazione dell’albero dei soldi, e ho solo quelli necessari alla convezione
studenti del campus » se ne uscì con ritrovata contentezza, mettendosi le mani
in tasca e fermandosi per aspettarlo.
Joshua
lo seguì con lo sguardo, annuendo piano. « Aggiudicato, allora. Vado pazzo per l’insalata di cartapesta della mensa, non potrei
mai farne a meno » scherzò, dando però l’aria di uno che non racconta una
cavolata nei riguardi della cartapesta.
Si incamminarono
dunque verso l’edificio, camminando l’uno di fianco all’altro e chiacchierando
amichevolmente. Sembrava si conoscessero non da
qualche giorno, sporadicamente, ma da un certo tempo. Se
entravano in discorso con la letteratura, poi, gli argomenti di cui discutere
saltavano fuori come funghi.
Arrivarono
al self service che Joshua
stava elencando punto per punto gli atteggiamenti della Alice
di LewisCarroll che non sopportava.
L’aveva definita – poverina! – una “scassa palle patentata”
mentre si serviva effettivamente dell’insalata mista al banco dei contorni.
« Povera
Alice » fu il semplice commento di Eric fra le risate.
Non era
ancora riuscito a definire come si esprimesse
realmente quel ragazzo; cambiava registro a seconda del momento e
dell’occasione. Prima formale come un damerino, poi informale e rozzo. Aveva
raramente una via di mezzo fra i due e, se la utilizzava, lui non era mai stato
presente.
Si servì
di un filetto di vitello che sembrava stranamente mangiabile – salvo il
contorno di carotine lesse, che avrebbe
puntigliosamente scartato a lato del piatto – e di patatine fritte. Afferrò una
coca dal frigorifero accanto alla frutta, da cui Joshua
prese dell’acqua naturale, e si diressero entrambi alla cassa.
Sorvolò
con un moto di stizza sul fatto che la cassiera, che poteva tranquillamente
essere sua madre, guardasseArcher
come se fosse stato un pacchetto di cracker da scartare e mangiare... o un
commesso particolarmente attraente di un sexy shop. Non aveva voglia di farsi
passare la fame proprio mentre stava pagando il pranzo. Riservò alla donna
un’occhiata particolarmente scazzata e, ritirato lo
scontrino, si avviò dietro Joshua con il vassoio fra
le mani.
« Ma fai quell’effetto a tutti? » chiese,
curioso di sapere se tutta la sua vita si svolgesse fra sguardi
assatanati di donne in preda a recessi ormonali da adolescenti schizzate.
« Quale
effetto? » chiese l’altro, ma era palese che faceva il finto
tonto.
« Quale
effetto?! » esclamò il castano, adocchiando un tavolo da sei con una buona metà
libera: « quello di una fabbrica ambulante di ferormoni, per Dio! » aggiunse
scandalizzato.
Joshua
si sedette, ridacchiando come uno che la sa lunga: «
sì, ogni tanto, lo ammetto » disse, sfilando velocemente le posate
dell’involucro di carta.
« Ogni
tanto... » gli fece il verso il castano con tono risentito: « e intanto fai
mister perfettino, capelli in ordine e abiti
perfettamente in taglia. Persino il pranzo è calcolato, vero? Verdura mista e acqua minerale, come le ragazzine fissate con la
dieta e i salutisti ».
« o come i vegetariani » intervenne il moro con un sorrisetto
sornione.
Eric interruppe la sua rassegna stampa sulle tendenze
comportamentali della società giovanile. « Sei vegetariano?
» chiese con un sopracciglio alzato.
« Bingo » affermò Joshua.
« Ma... non vale! » sbottò l’altro, ignorando con un broncio
l’ennesima risatina di vittoria di Archer:
« non posso prenderti per il culo sul tuo mangiare verdura se sei vegetariano! »
obiettò.
« Se
proprio ci tieni provaci comunque » suggerì l’altro: «
sono sicuro che gli appigli non ti mancano ».
« No, ha
perso di attrattiva adesso » rispose a sua volta,
fingendo professionalmente un broncio risentito.
Si allungò
sul tavolo per raggiungere il ketchup a centro tavola, afferrandolo per poi
metterne una generosa quantità sulle patatine. Quando
fu soddisfatto dell’aspetto del suo rinato pranzo, posò la bottiglietta da
parte e si dedicò ad inforcare le prime due listarelle.
Per quello
che ne sapeva lui, era ormai sicuro che il ketchup
potesse dare sapore anche alla plastica.
Fu proprio
mentre Joshua si dedicava a spargere un filo poco
consistente d’olio sulla sua insalata che un grido concitato provenne
dall’entrata della mensa, confuso in un vociare di sottofondo: « Everald! ».
Si voltò
quasi istantaneamente, per istinto. Non c’era persona che non lo conoscesse - anche solo di vista - in quell’università, ed
era abituato a sentirsi chiamare dalle persone più disparate.
Quando
l’espressione decisamente stupita di McFarland lo fulminò, si rese conto che per l’altro non era
assolutamente normale vederlo pranzare con persone che aveva conosciuto da poco
o che , come effettivamente doveva pensare Jonathan
stando al discorso di quella stessa mattina, che aveva appena conosciuto.
E i
mali non vengono mai soli.
Jonathan
era solito portarsi appresso uno stuolo di ragazze dalle altre facoltà, ma
quando lei compariva nel gruppo, Eric
aveva sempre la sensazione che nemmeno su Marte avrebbe avuto scampo dalla
presenza costante di quell’essere umano.
« Eric! »
urlò quella: un tifone boccolato biondo con quattro
dita di matita nera intorno agli occhi – approfondiva lo sguardo, diceva – di
nome Sarah Wilkinson.
La sua pseudo-anima gemella barra promessa-sessuale made by McFarlandIndustries.
Se le
sue parole avessero potuto trasformarsi in qualcosa a contatto con l’aria,
sarebbero molto probabilmente diventare cuoricini.
« Oddio... » sibilò il castano, girandosi di
fretta verso Joshua e fingendo inutilmente di non
averli visti. « Cosa fanno, cosa stanno facendo? » chiese con un filo di panico nella voce, fingendo (male) di
tagliare in micro quadratini la sua fetta di vitello.
« Stanno
guardando da questa parte » rispose semplicemente l’altro, portandosi alla
bocca una foglia di insalata: « puoi andare con loro,
non mi offendo » aggiunse poi.
« Nemmeno
per idea » rispose subito Eric, masticando la carne: « non quando McFarland si porta dietro quella sottospecie di gossip girl ossigenata sperando che io
ci vada a letto insieme! » esclamò, riducendo la voce ad uno stridio monocorde.
Archer
si fece sfuggire un ghigno. « E
non ti piacerebbe? » domandò, come divertito dalla situazione.
« Merda,
no! » esclamò il castano, schifato dall’idea come lo sarebbe stato davanti ad
una vasca piena di fango: « l’hai vista? Sembra uscita adesso dal set di
Beautiful! » commentò.
Joshua
allargò il ghigno fino a farlo sembrare un sorrisetto sbieco. « E allora
ignorali, stanno per andare a sedersi » li informò successivamente,
continuando a mangiare la sua verdura come se il fatto non fosse suo.
E,
effettivamente, non erano affatto affari suoi. Ma
poteva mostrare almeno un po’ d’empatia per un coetaneo, no?
Eric fu per lunghi istanti indeciso se riprenderlo a voce o limitarsi
a lasciar passare. Quello che più lo preoccupava, però, a dir la verità era
proprio McFarland. Aveva la fama di uno che non porta rancore, ma non sapeva esattamente come avrebbe preso
quel suo comportamento alquanto fuori dall’ordinario una volta che si fossero
rivisti a lezione.
Pensandoci,
nemmeno lui sapeva perché improvvisamente andava a pranzo con ragazzi in
maggior parte sconosciuti, con seri problemi di alimentazione
– suvvia, sei un americano adolescente! Non
puoi per legge naturale essere vegetariano! – e
con lo sguardo di ghiaccio.
Il suddetto
sembrò leggergli nel pensiero.
« Non
avrai problemi con il tuo amico? » domandò infatti,
bruciando in un istante tutti i suoi residui di incredulità. Eric cominciò
apensare che la verdura fornisse superpoteri,
ma per il bene della sua immagine pubblica ebbe la lucidità di non dirlo ad
alta voce.
Rimase
silenzioso, senza rispondere. Stava cercando a sua volta una sottospecie di
premonizione per la quale potesse rispondere che sì,
era tutto a posto. Non la trovò.
E se
ne infischiò altamente.
« Non lo
so, ma non fa nulla » fece spallucce, indaffarandosi
di nuovo sul pranzo: « ci manca solo che un essere umano non possa invitare a
pranzo un altro essere umano per fare conoscenza »
borbottò risoluto, masticando altre due patatine.
Joshua
sorrise alla frase, ma il castano non lo notò.
Passarono
insieme il resto del pomeriggio, nella biblioteca del campus. Eric scoprì con
un certo timore che a Joshua piaceva sul serio
leggere libri, e non libri qualunque: quando tornò al
loro tavolo con un manuale sulla programmazione in linguaggio PHP per pagine
internet dinamiche, capì che la mente del ragazzo era una di quelle poliedriche,
adatte per una conoscenza di tutto su tutto. Il classico tuttologo, con l’unica
differenza che non aveva occhiali da vista e calvizia
incipiente.
Anzi.
Per la
maggior parte del tempo, comunque, uno si limitò a
leggere e l’altro a redigere il saggio in programma per la settimana
successiva. A volte chiacchieravano, fecero una pausa caffè più o meno verso le
quattro – nella quale lui si limitò ad un disgustoso decaffeinato – e ripresero
con lo studio fino alle sei, ora in cui Eric aveva allenamento in piscina.
Luogo in
cui invitò anche Joshua che, caso strano, accettò.
Non sapeva
cosa ci trovasse a vedere venti persone fare avanti e indietro per due ore in
una vasca da venticinque metri. E, sinceramente, si
stupiva di se stesso per avergli chiesto di sottostare a quella tortura.
Ma, a
vederlo dalla vasca durante le pause fra una serie e l’altra, Joshua sembrava tutto fuorché annoiato.
Leggeva il
libricino consunto che quella mattina gli aveva visto fra le mani, oppure
chiacchierava con la solita espressione cortese con la signora al suo fianco –
sicuramente madre di uno dei bambini dei corsi di
nuoto – che creava qualcosa di rosso con quello che sembrava un uncinetto.
Quello che
più lo incuriosiva, era proprio quella sua insana tendenza a non arrabbiarsi o
agitarsi mai. Insomma, due ore in tribuna con ventotto
gradi costanti lasciano anche sui più pazienti qualche segno di nervosismo; su
di lui, invece, nulla.
Non poteva essere solo infinitamente paziente, no.
Nascondeva qualcosa.
Era
l’impressione che continuava a ronzargli in testa da un po’.
« Ottimo
tempo Everald » commentò l’allenatore dal muretto
sopra di lui, distraendolo dalle sue elucubrazioni. Regolarizzando
il respiro affannato, annuì allegro. « Grazie coach »
disse, togliendosi gli occhialini dagli occhi per assicurarseli bene sulla
fronte coperta dalla plastica della cuffia.
L’uomo segnò
un paio di tempi sulla cartelletta con aria decisamente
soddisfatta, picchiettando con la punta della penna sui numeri appena segnati. «
Se continui di questo passo, sono sicuro che l’oro
nazionale per la staffetta mista è nostro » considerò, probabilmente più
rivolto a se stesso che a lui. Satler, dalla corsia a fianco, roteò gli occhi
con l’aria di chi vorrebbe essere ovunque tranne che
lì.
Cominciò
uno sproloquio sui tempi limite delle altre squadre in gara che lui evitò con
la scusa di un crampo, allungandosi sull’acqua per fare duecento metri in
scioltezza. Timoty invece se la sorbì tutta, ma lui ci era
anche abituato, dati i tempi più che buoni con cui era consono gestire le sue
gare.
Una volta terminato lo scioglimento, ebbero tutti il beneplacito di tornare a
casa. L’orologio sopra le tribune segnava le otto e trenta spaccate.
Uscì
dall’acqua issandosi sul muretto, scrollandosi i capelli bagnati nello stesso
istante in cui si toglieva la cuffia. Recuperò le ciabatte e, camminando con
aria stanca verso le tribune, notò Joshua alzarsi dal
suo posto e avvicinarsi alla ringhiera.
« Ottimi
tempi davvero » commentò il ragazzo una volta avvicinatosi, appoggiandosi con i
gomiti e piegando il corpo in una posa che dire sessualmente attraente era un
gentile pseudonimo.
Il suo
cervello non prese nemmeno in considerazione quel suo ultimo pensiero: si
rifiutò e basta.
« Onorato.
Tu non ti sei rotto? » domandò, alzandosi il cappuccio dell’accappatoio sulla
testa per non raffreddarsi il collo.
Joshua
negò con il capo. « Vai a cambiarti, ti aspetto
nell’atrio » tagliò corto, occhieggiando molto discretamente alcuni dei suoi
compagni guardarli in modo insistente.
Anche se,
e di questo Eric ne era convinto, era più la curiosità
di vederlo parlare con il nuovo divo dell’università che l’interesse per la
loro chiacchierata.
In ogni
caso si limitò ad annuire, entrando negli spogliatoi a sua volta.
Non passò
nemmeno dal borsone, deviando subito per le docce. Non aveva voglia di andare a
prendere il suo bagnoschiuma: ne avrebbe chiesto uno
in prestito per risparmiare tempo, e la famigliare confusione nelle docce gli
diceva che almeno la metà della sua squadra stava per dare il via ad una
battaglia a cuffiate di acqua gelida.
Pace,
avrebbe corso il rischio.
Entrò
dunque nel locale vaporoso, in cui almeno sette ragazzi dai fisici prestanti –
erano nuotatori, dopotutto – trovavano di un interesse spropositato palleggiare
con una bottiglia vuota di shampoo, sfidandosi a chi ne riusciva a fare di più senza
farla cadere. Il record sul momento era 1.
Tentò a
sua volta qualche palleggio, fallendo miseramente, prima di infilarsi sotto il
primo getto libero e bearsi dell’acqua calda sulla sua schiena. Sentì i muscoli
sciogliersi all’istante e si convinse, per l’ennesima volta, che non ci sarebbe
mai stato nulla di più rilassante.
Ma
quella pace non era destinata a durare a lungo.
« Ehi
Eric, ci vuoi dire come accidenti fai a conoscere Archer? » domandò Dean Spencer
dal cubicolo di fronte, facendo spuntare la testa insaponata dall’anta azzurra.
Bruscamente
riportato alla realtà, rispose con un’espressione interrogativa che riassumeva
il senso nullo che attribuiva a quella domanda.
« Sì,
infatti » aggiunse però MattFelton,
tenendo miracolosamente in equilibrio la bottiglietta vuota di shampoo sul piede
destro. « Sarei veramente curioso di sapere come cavolo hai
fatto a parlare con una persona che non ti caga pari nemmeno se ti presenti »
aggiunse. Solo allora Eric ebbe un vago ricordo di quando Matt
si era presentato a lui, quasi un anno prima, e aveva
espresso la sua intenzione – poi pienamente realizzata – di entrare alla
facoltà di Fisica.
Dunque
erano compagni di corso, in definitiva, lui e Josh. E non lo aveva considerato nemmeno di striscio?
Quel
ragazzo dagli occhi indicibili cominciava a dipingere una strana idea di sé.
«
Casualmente, a dire il vero » rispose, soddisfacendo quella curiosità
collettiva: « la prima volta in un pub, la seconda alla festa di una
confraternita del campus. Poi al parco domenica. E oggi abbiamo pranzato insieme » disse, come se parlasse
del tempo o di quel nuovo film uscito da poco.
Argomento
che per lui non si allontanava molto dal livello d’importanza dato alle
previsioni meteo, ma che a tutti gli altri pareva
essere fondamentale per passare una notte priva di incubi.
« In poche
parole vi siete visti assiduamente negli ultimi due giorni » notò infatti un terzo, JaredWalker (secondo anno, Architettura), notando l’unica cosa
che nemmeno lui aveva ancora preso in considerazione.
Ovvero
che JoshuaArcher gli fosse
stato appiccicato, più o meno, per due giorni; che passavano a tre se contavano
quello stesso lunedì in procinto di finire.
Lo considerò importante per circa due secondi, poi declassò
l’informazione. Poteva essere, ed era sicuramente, il caso. Dopotutto, stentava
a credere che l’incontro ai giardini non fosse frutto di una coincidenza.
Rispose a
quella folla assurdamente ficcanaso con un’alzata di spalle. Non
che il discorso lo entusiasmasse quanto pareva mandare gli altri su di giri.
Chissà poi perché.
Dopo una
rapida doccia si congedò dalla folla schiamazzante, infilandosi l’accappatoio e
andando a vestirsi. Nonostante le temperature non fossero esattamente miti la
sera non si asciugò i capelli, optando per pettinarli
e lasciarli cadere umidi sul collo e sulla fronte.
Salutò i
ritardatari e, mettendosi il borsone in spalla, uscì dallo spogliatoio a passo
veloce.
Magari
avrebbe invitato Joshua a cena. Non era educato
lasciarlo andare via così dopo che aveva passato con lui tutto il santo giorno; e poi era da un pezzo che non portava qualcuno
a casa. Da quando i suoi amici erano diventati degli spostati, probabilmente.
Certo,
avrebbe dovuto chiamare sua madre con almeno un po’ d’anticipo. Fu per questo che arrivò con la mano alla tasca del borsone
in cerca del cellulare. Avrebbe chiesto subito a Josh
se era libero, e poi gli avrebbe fatto subire la
tortura della cena con i suoi genitori.
Si sentiva
un infame, in realtà. Se c’erano ospiti a cena (che
non fossero di famiglia) suo padre probabilmente non lo avrebbe tartassato con
battutine e allusioni, e lui avrebbe passato una sera che fosse una in santa
pace.
Chiese scusa mentalmente ad Archer,
ridacchiando. Si prospettava una serata migliore del solito.
I suoi
piani si frantumarono nello stesso istante in cui alzò lo sguardo dal
cellulare.
Ebbe la
fugace immagine dell’atrio completamente fermo, immobile, come se il tempo si
fosse bloccato su un solo minuto e lo ripetesse all’infinito. L’espressione imbarazzata della receptionist,
che incrociò il suo sguardo per poi distoglierlo velocemente. Le facce a
dir poco sconvolte di alcuni suoi compagni di squadra,
i cellulari in mano ma lo sguardo che non li sfiorava neanche, bloccato su
altro. Joshua appoggiato ad una parete con le braccia
incrociate, lo sguardo serio che squadrava probabilmente la
stessa cose che stavano osservando tutti.
E suo
padre. Suo padre, in tuta da
allenamento, che urlava, inveiva,
contro il suo coach parole che non aveva ancora avuto
la rapidità di afferrare.
Non si
diede nemmeno il tempo di farlo; l’istinto che fosse qualcosa che non gli
sarebbe piaciuto vinse sul raziocino, e si ritrovò a
sbottare a sua volta, ansioso: « papà, cosa ci fai qui? ».
L’uomo si interruppe, girandosi in sua direzione insieme a molte
altre teste. Aggrottò le sopracciglia e sogghignò, in un modo che gli aveva già
visto addosso ma che non ricordava bene dove e quando.
« Sto
dicendo al tuo allenatore che può anche cancellare il tuo nome dalla lista dei
suoi atleti, così come da quella delle selezioni nazionali. Non metterai più nemmeno un dito in vasca, tu torni a fare
basket » disse, quasi gioendo delle sue stesse parole.
Non ne fu
sicuro, ma sentì qualcosa, da qualche parte dentro di lui, rompersi e cadere in
pezzi.
La
sorpresa lo investì e avvertì il cuore sobbalzare. Poi arrivò l’incredulità,
che gli mozzò il respiro in gola. Infine, facendogli sembrare gli occhi che lo
fissavano come fari di un palcoscenico, una profonda vergogna lo invase.
Lo aveva
fatto davvero.
Davanti a
tutti. Davanti a tutti.
Compagni di nuoto, amici, segretarie e normali passanti. Persino il suo coach.
Si introduceva
nella sua vita, penetrandovi con violenza e senza ritegno, pretendendo di
cambiare a forza ciò che non gli stava bene. Pretendendo di portare tutto sotto
il suo controllo, di riportare lui
fra le sue mani, legato ai fili da marionetta che Eric aveva fatto tanta fatica
a tagliare già una volta.
Era pazzo.
No, peggio, era un pezzo di merda. Ed era suo padre,
Cristo, suo padre...
« No... »
riuscì solo a sussurrare, guardandolo come se la persona davanti a lui fosse un
estraneo troppo invadente.
« Sì
invece » ribatté serafico il padre, scostando lo sguardo sull’allenatore,
sbalordito più o meno come tutti gli altri.
Non ignorarmi, bastardo, pensò con rabbia. Non osare trattarmi come una
marionetta del Mangiafuoco.
« NO! »
esclamò dunque, gustando quella sensazione che, inconsapevolmente, più di tutte
aveva aspettato: l’ira.
E l’adrenalina infettare come veleno il suo sangue, filtrare nei
muscoli ed ingigantire il coraggio a dismisura.
Il silenzio era pesate come piombo, ma non ci badava. Nella sua
testa volavano solo pensieri inconcludenti che portavano appresso una furiosa
vergogna.
Suo padre
lo squadrò, e nei suoi occhi Eric poté vedere chiaramente la goccia che fece
traboccare il vaso.
« Tu non
hai il potere di disobbedirmi, Eric. Io sono tuo padre! » sbottò, riversando su
di lui la frustrazione trattenuta nell’ultimo anno, tramutandola in pura furia
dalla prima all’ultima stilla.
« E io sono un essere umano, cazzo! Maggiorenne per di più! »
urlò lui a sua volta. Non gli interessava se le conseguenze sarebbero state un
disastro, se si fosse ritrovato con la porta di casa chiusa in faccia o con una
mezza faccia livida. Non era più un bambino e non
accettava di essere ancora proprietà di qualcuno!
« Sei
sempre mio figlio e a me va l’ultima parola! »
« TU NON
PUOI PERMETTERTI DI DECIDERE PER ME LA MIA VITA! » urlò, gridò, dando fondo a
tutta la sua voce finché la gola non bruciò nello sforzo di alzare ancora di
più il tono, già al suo limite.
Si sentiva deluso, schiacciato dal peso di un’autorità temuta ed
odiata... ma, più di tutto, sentiva sulla pelle tutta l’ingiustizia di
quel comportamento ignobile da parte del padre.
Si sentiva
schiacciato dall’impotenza. La combatteva, la graffiava con le unghie e ne
mordeva la superficie, ma essa non si spostava da sopra di lui, premendolo a
terra con sempre più forza.
Le parole
di suo padre aggiungevano quel peso invisibile che lo teneva ancorato al
terreno.
« IO
DECIDO QUELLO CHE VOGLIO! E se dico che tornerai al
basket, tu prenderai in mano una palla arancione e ti allenerai nei tiri da tre
fino a che non sputerai sangue! » sbottò il suo ordine, perentorio e
minaccioso, avvicinandosi di qualche passo a lui, che non si mosse.
Non
resistette più.
Poteva difendersi solo in un modo, conosceva solo quello.
Dunque
urlò con più foga. « FOTTITI BASTARDO! »
Fu un
istante.
Non vide
la mano del padre sollevarsi in aria con l’intenzione palese di colpirlo. No,
non la vide proprio.
Era troppo
occupato a racimolare la voce per insultarlo.
Ma vide un
lampo azzurro prima che la sua vista fosse completamente
coperta da un paio di braccia spuntate dietro di lui, che lo spostarono
all’indietro a forza, sbilanciandolo.
Poi,
nient’altro che silenzio.
Quando
riuscì a liberarsi notò la mano del padre sollevata per aria in procinto di
schiaffeggiarlo, bloccata da quella sicuramente più forte del suo allenatore.
Davanti a lui, come scudo fra loro, Joshua si era
spostato dal muro così velocemente che poteva dire di non averlo visto nemmeno
muoversi. Gli dava le spalle, guardando Trent, ed
Eric poté solo immaginare l’effetto di quegli occhi color del ghiaccio puntati
su quelli marroni nel padre, nel tentativo di sondargli l’anima per trovare lo
sporco che la incrostava.
Dietro di lui,
infine, Timoty era colui che lo aveva strattonato,
probabilmente nel tentativo di scostarlo dalla traiettoria del colpo.
Intorno a
loro, solo un silenzioso sbalordimento.
« Janette » pronunciò poi la voce profonda del coach: « chiami il 911 ».
La receptionist sollevò subito il ricevitore del telefono al
suo fianco.
Si
aspettava una nuova scenata isterica dal padre, a quella minaccia. Era coerente
con il suo fottuto carattere, talmente prevedibile da
essere quasi scritta a chiare lettere nel copione del prossimo futuro.
Ma
quel momento non arrivò mai. Trent stava guardando
con puro terrore il viso di Joshua, ed era divenuto
talmente pallido che sembrava sul punto di svenire.
« Smetti
di guardarmi... » sussurrò impaurito, tentando inutilmente di liberare la
propria mano dalla presa dell’uomo alle sue spalle, che non lo lasciava e non
aveva intenzione di farlo.
Perché
ora faceva così? Eppure il ragazzo non parlava, non lo si
sentiva nemmeno respirare.
MaTrent non sembrava calmarsi, e Joshua
continuava a rimanere in silenzio.
« Smetti
di fissarmi! » esclamò poi, la voce più alta. Tentò con più forza di liberarsi,
ma l’istruttore era molto più forte e lo tenne fermo.
Poi un
passo. Vide Joshua avvicinarsi lentamente a suo padre
fino ad accostare le labbra al suo orecchio, la mano destra portata a sfiorare
appena la guancia dell’uomo. Un tocco così effimero da non sembrare nemmeno
reale, ma Trent vi si ritirò come se quelle dita
fossero fatte di braci ardenti.
« Vattene,
Eric » sentì poi dire al suo orecchio, la voce di Timoty calma ma guardinga: «
Vai da qualche amico a dormire; sparisci, per stasera » concluse.
Nel caos
che si era scatenato nel suo cervello, quella gli sembrò la soluzione migliore.
Anzi, l’unica.
Non si
diede nemmeno peso di parlare, o dire qualcosa. Annuì, un gesto appena
accennato, uscendo a passo svelto.
All’aria
aperta, avvertì subito il famigliare nodo allo stomaco attorcigliargli le
viscere. Gli mancò il fiato e, per istinto, si portò una mano alla bocca. Gli
occhi presero a bruciare, e un insano bisogno di piangere lo invase
improvvisamente e con una violenza inaudita.
Boccheggiante,
iniziò a correre.
Ormai era
buio e del parco si poteva vedere solo fin dove la luce dell’edificio riusciva
ad illuminare.
Fu appena
oltre questo ventaglio luminoso che si fermò, attaccandosi con la schiena al
tronco di un ippocastano particolarmente grosso.
Cercò di
resistere. Si disse di doverlo fare per i suoi diciannove anni compiuti, di non
poter scoppiare in lacrime come un moccioso in preda ad una crisi post-litigata
con i genitori, quando si sente che la vita è ingiusta a prescindere e le
persone che si vorrebbero più vicine sono in realtà
quelle che ti fanno più male.
Ma la
vita era veramente ingiusta. Sul serio le persone che avrebbe voluto vicine non
c’erano, o erano quelle che gli procuravano le ferite
più profonde.
Si sentiva
esattamente così.
E
stava per esplodere e mandare a fanculo il poco
orgoglio che sopravviveva in lui.
Scivolò
con la schiena contro la corteccia ruvida, che sfregò contro la pelle al di sotto della felpa nonostante lo spessore del tessuto.
Si lascò andare finché non fu seduto a terra e,
piegando le ginocchia, poté appoggiarci le braccia e nascondere il volto in esse.
Si morse
il labbro, resistendo all’impulso. Non voleva frignare come un fottuto moccioso.
Nel
silenzio, udì dei passi. Erano lievi, attutiti dall’erba, e si avvicinavano.
Non li
ignorò, ma nemmeno diede segno dell’opposto. Non aveva la forza di fare né
l’uno, né l’altro.
Rimase in
silenzio, ascoltandoli, fino a che il rumore non fu così vicino che fu chiara
la presenza di un’altra persona al suo fianco. Sentì una mano appoggiarsi
appena sulla sua spalla sinistra, stringerla lievemente, prima che una voce
gradita come non mai riempisse il silenzio.
« Puoi
piangere, se vuoi. Va tutto bene... io non guardo ».
Trattenne
il respiro in un singhiozzo; e le parole di Joshua
divennero realtà.
Finito.
Correggerlo è stata un’agonia peggiore dello scriverlo, davvero.
Faccio
alcune precisazioni prima dei ringraziamenti. La parte su Lewis Carrol mi è stata ispirata da un’altra fic,
lo ammetto, ma giuro che non è un cortese tentativo di plagio. La persona che
l’ha utilizzata legger la fic (anzi, è quella a cui è
dedicata) dunque vuole essere solo un tributo XD.
E ora,
ringraziamenti. Ovviamente ringrazio tutti coloro che
leggono e commentano. In particolare Shichan, che mi ha
commentato il precedente capitolo. Spero che stavolta le descrizioni
siano meno pesanti e, ehi, ci vorrebbe un santo per sopportare TrentEverald.
Dopo
questo capitolo sono sicura che lo odieranno tutti in
massa.
Saluto
tutti gli intrepidi che sono arrivati fino a qui <3
Non si
preoccupò dell’ora, quando suonò il campanello di casa Everald.
Nonostante le cinque del mattino non fossero un orario adatto per le visite,
aveva motivo di credere che nessuno della famiglia stesse dormendo.
Le luci
accese al piano terra lo rendevano palese; dunque attese sulla porta, paziente.
Era una
cosa che andava fatta, anche solo per scrupolo. Un uomo in divisa era
rassicurante fino ad un certo punto, e dopo il fermo scattato su TrentEverald si era pian piano
convinto che parlare con la madre di Eric fosse una mossa necessaria.
Per
sicurezza e tranquillità. L’ultima cosa che voleva, in quell’incarico sempre
più intricato, era dover avere a che fare con le forze dell’ordine. Il
dipartimento di polizia era abbastanza facile da prendere per il culo, ma i
servizi sociali e gli investigatori privati no.
E solo Dio
sapeva se, dopo lo scandalo che sicuramente sarebbe esploso, non avrebbe visto
le facce di qualche agente in borghese aggirarsi nei dintorni del campus. Si
trattava pur sempre di un allenatore di una squadra di basket di ragazzi; tutti
adolescenti che la maggiore età la vedevano ancora con il binocolo...
l’opinione pubblica ci avrebbe ricamato sopra le più incredibili dicerie.
E stava
già accadendo, in realtà. Perché non era concepibile pensare che la storia si
potesse limitare ai presenti in piscina, no: ormai quasi tutti gli studenti
dell’università lo sapevano e sparlavano, ciarlavano come se non ci fosse
niente di più interessante da dirsi. Persino gente che non si incontrava da
anni all’improvviso si telefonava per perpetrare la leggenda dell’accaduto.
Schifosi
umani.
Sospirò
rassegnato, suonando di nuovo.
Aveva
passato l’ultima ora in giro, seguendo e ascoltando le conversazioni di
chiunque avesse a che fare con la vicenda, anche da semplice informatore
amatoriale. Ciò, in poche parole, era equivalso a pedinare mezza città.
Ma alla
fine aveva ottenuto quello che si aspettava: dell’accaduto esistevano già
quattro versioni, una più fantasiosa dell’altra. Si stava trasformando in una
diceria che sarebbe stata ben presto dimenticata, e lui non poteva esserne più
sollevato.
Un rumore
di passi poté sentirsi dall’altra parte della porta, finché questa non si aprì
appena. Gli occhi cerchiati della signora Everald lo
scrutarono intrisi di speranza, che si spense lentamente quando si rese conto
che non era il marito di ritorno, né tantomeno il figlio che ricompariva.
Tuttavia,
nonostante la situazione in cui si ritrovava – e che lui poteva solo sforzarsi
di immaginare – mantenne un certo decoro nel rivolgergli la parola. « Sì? »
domandò, il tono sfibrato di chi non ha chiuso occhio.
«
Buongiorno signora Everald, perdoni l’ora » cominciò
lui. Ponderò bene l’espressione del volto, evitando sorrisi, così come credeva
fosse il caso in certi momenti. « Sono JoshuaArcher, un amico di Eric. Volevo avvertirla che... »
« Sai
dov’è? » lo interruppe però lei, aprendo del tutto la porta e precipitandosi
fuori.
Joshua
non indietreggiò, ma nemmeno si aspettava una reazione simile. Magari era
normale, rifletté poi, guardando gli occhi della donna ritrovare un briciolo di
quella speranza persa in precedenza.
Dopotutto
lei era una madre. Una madre che non vedeva il figlio da ventiquattrore buone,
che non lo aveva visto rientrare a casa e che aveva sentito del comportamento
del merito da un uomo in divisa, in una di quelle situazioni sopra citate in
cui di rassicurante, quella divisa, non aveva proprio niente.
Come la prenderà quando lo
ucciderai, suo figlio, Abrahel?
Ignorò
quel pensiero nell’istante medesimo in cui nacque.
« A casa
mia » le rispose pacato; lei gli donò un leggero e quasi invisibile sorriso. Di
sollievo.
« Grazie a
Dio... » le sentì sussurrare, la mani che andarono a chiudersi sulla camicetta
a livello del cuore. « Ma prego, entra pure. Fa freschino
qua fuori... » si prodigò, come se si fosse ricordata solo in quell’istante le
regole della buona educazione.
E forse
era proprio così.
Ringraziò,
seguendo la donna dentro casa. Non l’aveva ancora mai vista se non da fuori, ma
non poteva di certo dire che non avesse l’apparenza accogliente e calorosa.
Il
salotto, visibile sulla destra appena dentro dalla porta, era dipinto di un
rossiccio gradevole, affiancato da mobili in ciliegio – legno dal naturale
colore marron-rosso – e da tendaggi rosa antico. Un
vaso di fiori secchi troneggiava su un mobile sommerso di cornici e portafoto,
mentre al centro della stanza vi era un divano ad angolo, anch’esso di un
colore tendente al rosa salmone.
Seduto su
di esso, in pigiama e con l’aria di un altro che ha passato la notte in bianco,
il fratello minore di Eric lo osservò sorpreso, togliendo gli occhi stanchi e
gonfi dallo schermo del televisore. Il volume era così basso, che praticamente
dall’apparecchio si potevano vedere solo le immagini.
« Chi è
lui? » chiese il ragazzino, e dal tono di voce poté supporre che non avesse più
di quattordici anni.
Abrahel
non rispose, preferendo lasciare la parola alla donna. Non apprezzava
particolarmente parlare così facilmente con persone che non conosceva, a meno
che non ne fosse costretto.
« Lui è Joshua, Alex. E’ un amico di Eric. Adesso è a casa sua, è
venuto ad avvisarci... » spiegò lei con tono dolce, forse sollevato dalle buone
notizie che lei stessa stava ripetendo a voce alta.
Non seppe
riconoscere se l’espressione di Alex Everald fosse di
sollievo o di disprezzo. Probabilmente era entrambe. Ma la cosa che non poté
mancare di notare fu la totale assenza di una risposta, e l’ostinazione con cui
puntò il suo sguardo su di lui senza più distoglierlo.
Abrahel,
per tutta risposta, si rivolse alla donna: « mi scusi ancora per l’ora, ma
avrei bisogno di parlarle » cominciò, assicurandosi la sua attenzione. « Data
la situazione... pensavo che potrei ospitare Eric ancora per un po’. Ero venuto
a chiederle che cosa ne pensava » disse, continuando ad ignorare lo sguardo di
Alex su di sé.
La donna
sobbalzò, ma fu veloce a riprendersi. Probabilmente non le piaceva l’idea di
separarsi per molto tempo dal figlio maggiore, ma Abrahel
fu sicuro che fosse arrivata alla sua stessa conclusione: il fermo
amministrativo della polizia durava ventiquattr’ore,
ciò voleva dire che entro sera TrentEverald sarebbe ritornato a casa. A situazione corrente, e
senza sapere se aveva o no calmato i bollori, non era consigliabile far sì che
l’uomo rivedesse il figlio.
Chiudendo
arrendevolmente gli occhi, la signora annuì. « Sì, sono convinta che sia la
soluzione migliore » ammise, per poi continuare: « vado in camera di Eric a
prendere dei cambi di biancheria, e i suoi libri magari... così può continuare
ad andare a lezione, se... » non terminò la frase. Non ce la fece.
Lo shinigami la osservò salire velocemente le scale,
riservandosi uno sbuffo seccato non appena fu sparita nel pianerottolo.
Non era
neanche in grado di fare la madre e pensare con lucidità. Eppure pensava che
certe facoltà venissero istintive, quando si era in ansia per i figli e per i
mariti.
Evidentemente
non li capiva proprio, gli esseri umani.
Annoiato,
si guardò intorno. La ricerca di qualcosa su cui e con cui scrivere non gli
portò via troppo tempo, in quanto rintracciò nel blocchetto di fogli accanto al
telefono tutto ciò di cui aveva bisogno.
Face
qualche passo indietro, dunque, avvicinandosi all’apparecchio per poi prendere
la penna nera che giaceva lì accanto. Dal tappo mangiato e dagli scarabocchi
nell’angolo in alto della prima pagina ne dedusse che la signora Everald aveva passato una discreta nottataccia accanto al
telefono, aspettando una telefonata sola per riceverne migliaia da amici e
parenti, man mano che la notizia si espandeva a macchia d’olio.
Ignorò la
strana conformazione del tappo, cominciando a scribacchiare sullo stesso
foglietto già scarabocchiato.
« Cosa
stai facendo? » chiese dal divano Alex, in un misto fra curiosità e durezza.
Probabilmente si sentiva lui l’uomo di casa, ora che il padre e il fratello
maggiore non c’erano.
Oppure,
più semplicemente, Alex Everald vedeva in suo
fratello la causa per cui suo padre era trattenuto al distretto di polizia, e
incarnava in Joshua una sorta di alleato di Eric.
Evitandosi
una risposta secca coerente con i pensieri del più giovane – perché sì, era
sicuro che Alex stesse pensando esattamente quelle cose – si limitò alla dovuta
replica per la domanda postagli: « scrivo il mio indirizzo e il mio numero di
telefono, nel caso serva. E comunque per far sapere a tua madre dov’è tuo
fratello ».
Il
ragazzino non rispose, non subito almeno. Si limitava a guardarlo scrivere e,
proprio come chi cerca di essere adulto quando non lo è ancora, attese che
avesse finito prima di parlare.
« E’ stata
colpa di Eric, vero? » chiese, come se sapesse già la risposta e stesse
cercando solo una conferma.
Abrahel
non poté non ammettere con se stesso di non essersela aspettata.
« Parli
come se sapessi già tutto... » buttò lì, più disinteressato che altro. Non gli
interessava intrattenersi con un ragazzino, soprattutto se dimostrava di essere
così simile a quel padre che aveva visto con i suoi occhi comportarsi come uno
spostato davanti a dei ragazzi.
Alex
accusò il colpo. « Lo fa sempre. Papà si arrabbia sempre per colpa di Eric, è
sempre stata colpa sua. Mio fratello non capisce un cazzo, altrimenti
tornerebbe a fare basket e farebbe contento nostro padre » sputò, velenoso e
ignorante.
Lo shinigami lo squadrò, e poté notare con un certo diletto di
aver fatto sobbalzare quel piccolo saputello.
« Tu
affermi di sapere, e dai a tuo fratello dell’ignorante mentre idolatri tuo
padre. Ma io mi chiedo... » fece una pausa, un ghigno si formò sulle sue
labbra: « perché una persona che non era nemmeno presente sul luogo
dell’accaduto si riserva di mettere bocca in cose che non sa? Non è, allora,
questa persona quella non solo più ignorante, ma anche più cafona di tutte? »
domandò retoricamente, mascherando puri e semplici insulti con la retorica di
un filosofo improvvisato.
Alex
sembrò pensarci, ma a rispondere non fece in tempo: la madre stava
ridiscendendo le scale con un mano un borsone nero di piccole dimensioni, in
cui doveva aver stipato l’essenziale per il figlio.
Non
parlarono più. Capiva che la donna non ne era in grado, e Alex non ne aveva il
coraggio.
Si congedò
con un ringraziamento, venendo gentilmente riaccompagnato alla porta. Una volta
fuori respirò l’aria pulita a grandi boccate.
Come se
fosse appena uscito da una discarica.
L’appartamento
che gli era stato indicato da Zerachiel era in una
posizione davvero comoda.
Consisteva
in due enormi stanze al piano più alto di un vecchio palazzo, uno dei pochi rimasti
in quella zona della città, e Abrahel aveva subito
pensato che Zerachiel avesse preso in considerazione
il suo preferire luoghi un po’ antiquati, rispetto alle architetture puramente
moderne.
Era stata
una buona considerazione. Mandare qualcuno che si è perso gli ultimi duecento
anni dentro un abitato completamente edificato nel ventunesimo secolo
equivaleva a metterlo in difficoltà già da subito.
Tuttavia non
significava che il suo alloggio fosse un covo medievale. Anzi, aveva tutto
quello di cui aveva bisogno per indossare bene la sua parte di essere umano
normale.
All’affittuario
era stato detto che gli Archer – la famiglia fittizia
della sua altrettanto fittizia identità – erano una coppia di buoni diavoli,
proprietari di un fazzoletto di terra nell’Idaho che
coltivavano da più di quarant’anni. Avevano insistito che il figlio (unico) Joshua si facesse la cultura che il padre non aveva avuto
occasione di farsi; così avevano tenuto da parte una buona somma per mandarlo
all’università.
Nulla di
così assurdo, insomma. Niente traumi o liti famigliari, nessun abbandono,
nessun problema. Al massimo ci si poteva chiedere come avesse fatto una misera
fattoria dell’Idaho a crescere un asociale, ma a
quello poneva rimedio con la sua quasi perenne facciata da buono studente.
Con la
chiave apposita aprì il portone d’ingresso, lasciando che si richiudesse alle
sue spalle sulla città che cominciava a prendere vita. Notò il portiere, mezzo
assonnato nella sua postazione appena oltre la soglia, e con un piccolo cenno
della mano indicò la rampa di scale giusto oltre le buchette della posta.
Quello annuì.
Cominciò a
salire le scale, cercando di non sbattere ovunque la sportina di plastica
bianca che si portava dietro da una mezz’ora.
Perché sì,
sulla strada aveva considerato che Eric avrebbe dovuto almeno mangiare qualcosa
al risveglio. E il fatto che lui (per la maggior parte) non mangiasse, e che
dunque frigorifero e dispensa fossero vuoti, poteva essere un intralcio alla
sua copertura.
Perciò,
spesa. Era più facile alle sei del mattino, dato che non c’era nessuno nel
raggio di cinquanta metri da ogni lato.
Facendo
tintinnare il mazzo di chiavi prese fra le dita una delle più piccole,
infilandola nella toppa della porta all’ultimo piano. Girò due volte verso
destra, e quando sentì la serratura scattare, la spinse.
Il suo
appartamento non era grande, ma di certo non minuscolo.
La porta
principale dava sulla prima delle due stanze, la più grande, coperta di
moquette beije e adibita a salotto. Uno schermo
piatto era appeso sulla parete di fronte ad un tavolino di vetro basso, un
divano e una poltrona in pelle dello stesso colore della moquette.
Dietro ad
essi, a qualche metro, un tavolo di legno di noce dalle venature chiare e
quattro sedie.
Ancora
oltre un muretto bianco divideva il salotto dall’angolo cucina,
sufficientemente spazioso da permettere al cuoco di turno di muoversi
liberamente fra fornelli e ripiani.
Dall’altra
parte dell’appartamento, invece, due porte davano una sul bagno, l’altra sulla
camera da letto.
Non era
enorme, ma come la cucina era grande abbastanza da oltrepassare lo standard.
Un letto
matrimoniale occupava la parete accanto alla porta, in legno chiaro, a cui
aveva rimediato con delle lenzuola scure. Accanto al letto una finestra a
parete dava una luminosità quasi eccessiva alla stanza, dando su un piccolo
balcone utile solo per stenderci l’eventuale bucato (che non faceva). Di fronte
al letto vi era un mobile a muro in legno scuro, con un ripiano in marmo grigio
perla su cui, teoricamente, andava appoggiato un computer, o un’altra
televisione; cose che non aveva e che non si preoccupava nemmeno di procurarsi.
L’armadio a muro occupava poi il rimanente spazio non occupato.
Sospirando
si diresse in cucina, appoggiando la sporta sul ripiano e il borsone sul
pavimento vicino al primo muro a portata.
Aveva
appreso da parecchi libri di cucina che gli americani facevano colazione con
uova e bacon, dunque quelli aveva comprato; mise entrambi nel frigorifero a
fare compagnia all’acqua (unica cosa che ingeriva), a cui seguirono i cartoni
del latte e del succo d’arancia.
Il ripiano
sopra il lavello era occupato da pentole, piatti e bicchieri; così mise i
biscotti, le fette biscottate, i crackers, tè e caffè
nel ripiano accanto, facendo attenzione a non sbattere troppo violentemente le
ante.
Una volta
finito, osservò per un attimo la porta della camera da letto, dove al momento
dormiva Eric.
Aveva
passato una nottata schifosa.Questo
anche lui poteva capirlo.
Non aveva
fatto altro che piangere a intermittenza fino alle quattro del mattino,
alternando lacrime silenziose a interi quarti d’ora passati a fissare un punto
morto della parete, o del pavimento, o del televisore che passava programmi
notturni che nemmeno guardava. Seduto sul divano, così, semplicemente.
C’era
mancato poco che non lo muovesse a pietà. Solo il pensiero che sarebbe dovuto
morire – che avrebbe dovuto ucciderlo
– era stato sufficiente a permettergli di non sedersi al suo fianco, magari
porgendogli la tanto famigerata spalla su cui piangere.
Si era
limitato a rimanere seduto sulla poltrona, guardandolo di tanto in tanto,
sforzandosi di ignorarlo e combattendo contro la voglia di alzare il volume del
televisore per distrarsi.
Si rendeva
conto di essere stato prettamente cafone, ma non poteva farci nulla. L’ordine
era imperativo assoluto: affezionarsi avrebbe solo portato a casini
incredibilmente grandi, a problemi ancora più grossi e a conseguenze
intrattabili. Se poi ci si metteva in mezzo l’ordinamento di vita e morte sulla
Terra, la cosa diventava troppo grande per essere trattata con la razionalità e
la calma che pretendeva.
Scosse il
capo, distogliendo lo sguardo. Stava giungendo a conclusioni di cui non si
erano ancora nemmeno manifestati i sintomi... poteva quasi passare per una
persona maniacale.
Raggiungendo
di nuovo le buste ne estrasse il resto – qualcosa per il pranzo, dato che
sicuramente non sarebbero andati all’università – e mise nel frigorifero la
verdura e il sugo, la pasta finì nello stesso scaffale del caffè.
Nel
frattempo, ponderava cosa fare. Lui non aveva bisogno di dormire, dunque
avrebbe passato il tempo leggendo. Si poteva notare, dai molti volumi
appoggiati distrattamente su ogni superficie piana, che era divenuto il suo
passatempo umano preferito.
A dire il
vero aveva provato anche ad ascoltare musica. Si era reso conto che molti
ragazzi di quell’età e anche più giovani passavano giornate intere con gli
auricolari saldamente piantati nelle orecchie; il chiasso assordante di
batterie e house music tenute a volume troppo alto si poteva sentire anche a
diversi metri di distanza, se la stanza era silenziosa abbastanza.
Non aveva
apprezzato, nonostante alcune canzoni non fossero poi così male. Aveva una
predilezione naturale per il silenzio.
Nell’istante
stesso in cui terminò di sistemare tutta la spesa, con un sonoro “click” la
maniglia della camera da letto scattò, facendo si che la porta si aprisse
silenziosamente.
Dall’altra
parte, un Eric distrutto, assonnato e per nulla in forma si fermò sulla porta,
osservando l’interno attraverso gli occhi socchiusi e ancora particolarmente
gonfi.
Si
trattenne da commenti poco cortesi.
« Scusa,
ti ho svegliato? » domandò invece, facendosi uscire un tono di voce basso e non
particolarmente concitato. Nemmeno particolarmente dispiaciuto, ma era quasi
certo che Eric non lo avrebbe notato.
Quello
scosse il capo, silenzioso. Non aggiunse nulla al gesto, limitandosi ad
occhieggiare ciò che indossava.
« Questo è
tuo? » chiese poi, con un filo di voce roca e forzata, prendendo fra le dita un
lembo della maglietta nera in coordinato con relativi pantaloncini.
Joshua
annuì, affaccendandosi attorno alla teiera. « Tranquillo, è pulito » aggiunse
con un sorrisetto.
« No, mica
per quello... » ribatté l’altro con una lieve nota di imbarazzo: « è che non ho
mai visto nessuno dormire con il pigiama nero, tutto qui » aggiunse, camminando
silenziosamente verso il divano e sedendovisi di
malagrazia.
« C’è
sempre una prima volta » fu il commento alquanto serafico di Joshua, la mano già chiusa attorno ad una delle scatole
comprate appena un’ora prima.
Camomilla.
I libri di botanica la davano come un sonnifero blando ma efficace.
Alzò la
fiamma del fornello, portando l’acqua ad ebollizione in tempi più brevi.
Fu Eric ad
interromperlo, spezzando quel silenzio distratto che aveva ricoperto l’ambiente
come un lenzuolo di seta. La sua voce sembrava distratta, distante, e con sole
due ore di sonno Abrahel non faticava a capirne il
motivo.
«
grazie... per l’ospitalità » borbottò, seduto a gambe incrociate sulla parte
sinistra del divano.
« Figurati
» fu la risposta, scontata e banale, che diede.
Si era più
volte domandato per quale motivo Everald avesse
chiesto proprio a lui di ospitarlo. Certo, questo facilitava di parecchio il
suo lavoro, ma non aveva potuto fare a meno di considerare che nella vita di
Eric gravitassero persone conosciute da più tempo; le quali, logica
permettendo, sarebbero state più adatte di lui come porto franco in tempi
d’emergenza.
Vide
l’acqua cominciare a sobbollire e con un certo distaccamento aprì la confezione
di camomilla, estraendone due bustine.
Forse lo
aveva fatto perché era presente al momento dello scatto di collera del padre. O
forse perché lo aveva seguito successivamente per il parco.
Si era
guadagnato la sua fiducia, probabilmente; quella conclusione era la più
razionale a cui poteva giungere con le informazioni in suo possesso.
Non era
male, no. Ma avrebbe ricambiato tale fiducia?
Scosse il
capo, cancellando quel pensiero impertinente. Il suo compito non era farsi
amico la persona che avrebbe dovuto accompagnare nell’aldilà.
Chiuse gli
occhi, recuperando la calma obiettiva che il suo “lavoro” prevedeva di
mantenere perennemente.
Sarebbe
andato tutto bene. Avrebbe fatto il lavoro, accontentato Enma
e passato altri duecento anni della sua pseudo-esistenza
a fare ciò che preferiva: annullarsi.
Aprì le
cartine, estraendone i filtri per poi immergerle nell’acqua bollente. Cominciò
a prendere un colorito giallastro non appena le mosse con il cucchiaio.
Non
resistette. « Posso farti una domanda? » se ne uscì, richiudendo il
coperchietto metallico e raggiungendo con la mano destra una tazza in ceramica
sulla mensola.
« Spara »
ironizzò appena Eric, non riuscendoci in modo credibile nemmeno di striscio.
Rimase
silenzioso il tempo necessario a versare la camomilla. « Perché io? » domandò
schietto, prendendo la tazza per il manico e dirigendosi nel salottino.
Eric non
sembrò capire subito la domanda, e appena gli fu visibile si limitò ad
osservarlo con un cipiglio confuso sul volto distrutto dalla nottata appena
trascorsa.
Abrahel
sorrise di riflesso, passandogli la tazza e sedendosi sulla poltrona: « intendo
dire come ospitalità. Non hai pochi amici, da quello che mi è sembrato di
capire... » buttò lì. Ammetteva che era per fare conversazione – forse un blando tentativo di rimediare al
comportamento della notte scorsa? – ma per una buona percentuale era
sinceramente curioso di capire come pensava la mente di Eric Everald.
Quello
storse il naso sulla camomilla, evitando però lo sguardo dello shinigami. Si morse il labbro, un tic probabilmente, per
poi cominciare a parlare: « non che non mi fidi di loro, o che non voglia loro
bene. Ma... andiamo. Doug e Rob sono più le volte in
cui sono fatti che quelle in cui capiscono attivamente una frase di senso
compiuto, e senza offesa per McFarland, ma ha la
brutta caratteristica di avere una famiglia insopportabile e tre fratelli più
piccoli tra i dieci e i quattro anni » spiegò brevemente, per poi riprendere: «
sì, forse potevo telefonare a mia zia, oppure chiedere ad un compagno di
corso... ma i parenti ne avrebbero fatto una tragedia e non ho compagni così
fidati a cui chiedere una notte d’ospitalità »
« E cosa
ti fa credere che io lo sia? » lo interruppe Joshua,
uscendosene con un tono serio abbastanza fuori luogo. Non poté controllarlo
però, contro le sue aspettative, e decise di dare più peso alla risposta che
avrebbe ottenuto che alle sue inconcludenti turbe mentali.
« Direi...
istinto » fu la risposta che ottenne, completamente illogica.
« ...non
ha molto senso » commentò il moro.
« No, è
vero. Ma niente è mai troppo logico o troppo illogico » fu la risposta pronta.
Dire che
si sentiva confuso, ora, era come usare un sinonimo in una frase che suonava
particolarmente male.
Alla sua
consueta incomprensione degli esseri umani si era unito qualcos’altro, una
specie di disturbo di fondo che non riusciva a distinguere e a nominare. Come
l’incontro di due onde della stessa lunghezza che impediva il corretto
funzionamento delle ricezioni audio.
Lo
infastidiva, ma solo perché non capiva cos’era.
Lo guardò
a lungo mentre arricciava il naso nel sentire l’odore della camomilla. Proprio
come un bambino che non vuole bere una cosa che non gli piace ma è consapevole
che gli farebbe bene.
Trattenne
un sorriso nato dal nulla.
« Questa
mattina sono stato a casa tua » esordì poi, chiudendo gli occhi nel futile
tentativo di riprendere un certo controllo su se stesso. Gli stava sfuggendo di
mano la situazione.
Eric si
bloccò ancora prima di inclinare la tazza per bere un sorso. Restò con gli
occhi puntati sul tavolino, probabilmente cercando di convincersi ad avere solo
immaginato quelle parole, e ovviamente non rispose.
Così, Abrahel continuò per conto suo.
« Ho
avvertito tua madre che eri qui, e che forse saresti rimasto un paio di giorni.
Ti ha mandato degli indumenti e i libri di scuola » spiegò: « e i suoi saluti »
aggiunse all’ultimo istante; stava quasi per dimenticarseli.
Everald
non si mosse, né diede cenno di aver capito il senso delle parole appena
sentite. Solo dopo un minuto buono di silenzio ed immobilità distaccò le labbra
dalla ceramica, tenendo la tazza fra le mani e fissandola.
« Mio
padre? » chiese poi, con un filo di voce appena udibile.
Avrebbe
risposto subito, Joshua, se non fosse stato attento
ad ogni minimo movimento dell’altro. Lui, che in teoria non avrebbe dovuto
capire le emozioni che potevano sconvolgere un animo umano, aveva quasi
percepito la fatica con cui Eric aveva fatto quella domanda.
Perché,
pur essendo un padre che non merita tale appellativo, il castano ancora gli
voleva bene. Lo rispettava, persino. E si leggeva in quegli occhi gonfi e
troppo stanchi fissi sul bordo della tazza fra le sue mani.
Era quella
la tristezza? Quella che ora il volto di Eric stava riflettendo?
E lui
provava... compassione? Pietà?
No, era un
controsenso. Lui non poteva provare pietà. Per definizione la morte non può provare pietà.
Eppure...
Non seppe
se seguì un istinto che in teoria non avrebbe dovuto possedere, o se il gesto
di alzarsi dalla poltrona e sedersi sul divano lo avesse letto in uno dei tanti
romanzi che si era divorato in quei pochi giorni.
Però lo
fece. Per la prima volta, qualcosa oltre la razionalità lo mosse.
Affetto,
forse. Un affetto che non avrebbe potuto e dovuto avere.
Ma non
sapeva quale altro nome dare a quella sensazione di dispiacere nei confronti di
Eric che continuava a sentire.
Non
sarebbe riuscito a rimanere distaccato, ormai ne era cosciente. Non sarebbe più
riuscito ad ignorare i suoi problemi, a guardare il tempo rimasto con occhio
critico e mente libera da pensieri.
Avrebbe reso
a se stesso quegli ultimi giorni un vero Inferno.
...e lui
che pensava di averlo anche già visto, l’Inferno.
Gli
appoggiò una mano sulla spalla prima di riprendere a parlare: « è stato
arrestato, ora è alla centrale di polizia. Ha un fermo di ventiquattr’ore,
però: questa sera sarà nuovamente a casa » riportò, ma non seppe dire se quelle
considerazioni fossero per l’altro un sollievo o una maledizione.
Lo sentì
trattenere il respiro. Le sue spalle sobbalzarono per un momento mentre un
tremore diffuso faceva vacillare la tazza e la camomilla al suo interno.
Joshua
si affrettò ad afferrarla, togliendola dalle sue mani per appoggiarla sul
tavolinetto. Notò le mani di Eric tremare.
« che
cosa... si dice qualcosa... su di lui? » domandò Eric balbettando,
probabilmente trattenendo l’ennesima crisi di pianto nervoso, dovuto più alla
notte insonne che al resto.
Era
indeciso, Abrahel. Avrebbe potuto dirgli tutte e
quattro le versioni che giravano al momento, ma dubitò che anche solo la più
lieve di esse avrebbe potuto fare del bene ai nervi già provati di Eric.
Si limitò
ad una risposta vaga, così come gli venne in mente sul momento: « è
probabile... » mormorò, cercando di non darsi una particolare inflessione di
voce al di fuori di quel moto di compatimento che sfuggiva al suo controllo: «
ma non credo porterà a conseguenze gravi. Può succedere a tutti, un attimo di
collera... »
Anche se
lui non credeva fosse così. Semplicemente, aveva ipotizzato che il signor TrentEverald fosse una persona a
cui piace avere tutto sotto controllo e le mani in pasta in ogni cosa riguardi
parenti o congiunti. La vita di suo figlio maggiore si era improvvisamente
allontanata da quello che l’uomo aveva programmato per lui, e il simbolo chiave
di quella silenziosa rivolta era il nuoto.
Indovinare
come avesse funzionato la mente del signor Everald
non era difficile, una volta fornite queste basi: il nuoto era l’ostacolo che
gli impediva di riavere Eric sotto il suo controllo, dunque era necessario
eliminare il nuoto dalla vita del figlio.
Semplice.
« Mi sono
rotto il cazzo della sua rabbia immotivata... non fa altro che urlare, e
guardarmi male, come se fossi ciò che rovina la sua altrimenti perfetta vita »
si lamentò il castano in risposta; le mani si chiusero a pugno fino a far
sbiancare le nocche. « Che cazzo ho fatto nella mia fottuta esistenza per avere
un padre simile? Porca puttana, stava quasi per menarmi... porco cazzo... »
mugugnò: « ...davanti a tutti... » aggiunse in un sussurrò scioccato.
La sua
presa sulla spalla si rafforzò maggiormente, come se, con quel gesto, volesse
impedire al cervello dell’altro di portarlo in lidi sicuramente poco adatti al
momento.
Ma non
aggiunse nulla a voce, troppo inadatto a situazioni simili per poter anche solo
pensare a qualcosa di sensato da dire che non apparisse terribilmente fuori
luogo.
Voleva
evitargli altre lacrime inutili, ma non sapeva come. Non gli era mai capitato
di dover consolare qualcuno in tutta la sua esistenza.
Poi, da
qualche parte dentro di lui, qualcosa decise: sempre meglio parlare e passare
per incompetenti che stare zitti ed esserlo davvero.
« Ehi »
chiamò, un tono molto colloquiale e privo della sua solita formalità: «
passerà. Tuo padre si renderà conto di avere sbagliato i calcoli e ti chiederà
scusa, in linea con l’uomo adulto e responsabile che dimostra di essere. Ha
solo bisogno... »
Di sbattere la testa contro un muro
chiamato “buon senso”
pensò.
« ...di
tempo » concluse però, e si stupì di quanto la sua voce poteva suonare dolce. E
non si stava nemmeno impegnando.
Contrariamente
alle sue previsioni, però, Eric ridacchiò. « Si vede che non hai la minima idea
di com’è messo mio padre... » pronunciò, spegnendo la risata nel nulla da cui
era nata.
Non
rispose. No, infatti: non lo sapeva. Lui aveva considerato i comportamenti più
giusti che gli esseri umani avrebbero dovuto tenere con altri della loro
specie, per formulare quella risposta... se TrentEverald usciva dagli schemi, lui automaticamente non aveva
basi su cui sviluppare un’ipotesi comportamentale.
Considerò
che, magari, era meglio troncare il discorso prima che si fosse trasformato in
qualcosa di più deprimente di quello che già era.
« Eric,
dovresti dormire » intervenne dunque: « hai riposato solo due ore, non è
sufficiente nemmeno per sbaglio » aggiunse, alzandosi dal divano nel tentativo
di guidarlo verso la camera da letto.
« Ti secca
se dormo qui? » domandò però l’altro, rimanendo seduto ed indicando il divano.
Joshua
lo guardò un po’ accigliato. « No, puoi stare dove preferisci » acconsentì poi.
« Grazie »
ringraziò l’altro, stendendosi sul divano senza nemmeno posizionarsi bene i
cuscini sotto la testa. Si vedeva dai movimenti che non aveva la forza
necessaria e che Morfeo richiedeva ancora la sua presenza nel suo mondo.
Abrahel
sospirò, arrivando velocemente in camera da letto per recuperare una coperta.
Tornando in salotto la distese sopra Eric, coprendolo alla bene e meglio.
Fece per
tornare in cucina, ma la mano del castano si chiuse velocemente sul suo polso,
trattenendolo.
« Resti
nei paraggi? » chiese biasciando, la voce già impastata.
Di nuovo,
lo shinigami non poté evitarsi di piegare le labbra
in un sorrisetto lieve. « Non vado da nessuna parte » assicurò, tornando sui
suoi passi e sedendosi sul tappeto ai piedi del divano, la schiena appoggiata
ad esso.
Non ci
volle molto – giusto qualche minuto – perché l’altro di addormentasse di nuovo.
Prese uno
dei libri a portata di mano e cominciò a leggere, in silenzio.
Da quella
posizione non si mosse mai.
Eric dormì
per tutta la mattina e per buona parte del pomeriggio. Quando riaprì gli occhi
erano ormai le quattro e il sole al di là delle tende era ancora alto. C’era
bel tempo, e il vociare degli studenti radunati al vicino campus universitario
si poteva sentire molto bene, dato il silenzio che regnava nella camera.
Lui aveva
passato tutto il tempo leggendo. Prima un trattato scientifico sull’ultima
teorizzazione del tempo dentro ai buchi neri, poi un romanzo poliziesco che
aveva l’aria di non essere molto serio, ma che alla fine aveva apprezzato.
Almeno dipingeva la vita per quello che era: senza lieto fine.
Leggere lo
aveva distratto a sufficienza, così aveva evitato furbescamente di porsi le
domande del caso in relazione al suo comportamento del tutto fuori dagli
schemi.
E di
sicuro non cominciò dopo che il castano riaprì gli occhi.
Parlarono.
Di tutto, per la verità.
Eric non
aveva intenzione di sollevarsi dal divano e, d’altro canto, lo shinigami nemmeno glielo chiese. Anzi, neanche lui si
spostò da quella posizione, che aveva tenuto per quasi dieci ore di seguito.
Eric gli
chiese molte cose, quasi tutte senza un senso logico a cui fare appello. Gli
domandò se aveva dormito (« un po’ nel
pomeriggio, ma sono abituato a dormire poco »), perché avesse scelto Fisica
(perché è l’unica cosa che non cambia a
distanza di secoli... pensò, ma rispose tutt’altro, ovviamente) e se era
sempre stato un suo hobby leggere così tanto (« i miei genitori sono contadini, in campagna ci si annoia se non si
hanno lavori da sbrigare »).
Non
toccarono mai il discorso “TrentEverald”.
Almeno non fino a cena, in cui Joshua espresse le sue
qualità di tentato cuoco preparando ad Eric un piatto di pasta al pomodoro e un
filetto di vitello con verdure. Lui si limitò alla sua insalata-copertura.
« Penso
che tornerò a casa, domani mattina » confidò il castano ad un certo punto,
fissando con un sorriso spento il rimanente pezzo tagliuzzato di carne.
Joshua
evitò di mettersi in bocca l’ennesima, insapore forchettata di insalata,
drizzando le orecchie. « Non sei costretto » commentò poi, riscoprendosi
contrariato dalla sua scelta.
« Lo so »
gli rispose Eric, abbandonando definitivamente i tentativi di mangiare anche
quel misero pezzetto di carne che gli avanzava nel piatto. « Però non è giusto
per la mamma. E poi è casa mia... devo tornare. Non posso comportarmi come un
moccioso in preda ad una crisi esistenziale che scappa di casa dopo una
sculacciata del padre » spiegò.
Le
sopracciglia di Joshua scattarono brevemente,
invisibili allo sguardo basso di Eric.
Certo, se
paragonare il manrovescio spacca-denti che aveva
intenzione di tirargli il padre ad una sculacciata era un esempio corretto...
Chiuse gli
occhi un istante, facendo per alzarsi dal tavolo. « La scelta è tua » liquidò
velocemente, raccogliendo i piatti per poi dirigersi al lavello.
Non
parlarono per tutto il resto della serata.
Eric si
era addormentato di nuovo verso le undici, proprio quando la sua pazienza stava
per giungere a quel limite che segnava il confine di non ritorno.
Aveva
fame. Mangiare cibi umani non nutriva veramente il suo corpo; era un po’ come
l’acqua: disseta ma non è fonte di sostentamento . E stare vicino ad un’anima
candida non era di certo un bel modo per placare l’appetito.
Aveva
cominciato a percepirne il leggero odore dolce intorno alle nove. E, di
conseguenza, aveva trascorso le successive due ore a trattenere il fiato ad
alternanza, cercando di non pensare all’acquolina che la presenza dell’anima di
Eric sembrava scatenargli.
Lui non
era abituato alle anime candide. Era come fare annusare del cioccolato a
qualcuno che vive solo di sesamo.
Così fu
costretto ad uscire.
Aspettò
mezz’ora prima di aprire la porta – così da essere sicuro che Eric dormisse
veramente – e si diresse a passo svelto verso Heaven’s
Park.
Trovò
quasi subito la persona che faceva al caso suo: un uomo solitario che si
aggirava pensieroso fra i viottoli della parte orientale del parco, accanto
alle fontane. Sembrava un uomo d’affari a giudicare dalla cravatta di seta e
dalla ventiquattrore in cuoio, ma non ci badò molto. Lo avvicinò con una scusa
e, senza la minima fatica, gli sottrasse il minimo dell’energia vitale
necessaria a sfamarlo.
Lo lasciò
stordito sul bordo della fontana, ma non se ne preoccupò molto: entro un’ora si
sarebbe ripreso e, comunque, lungo tutto il parco vegliavano già ronde di
sorveglianti notturni in divisa.
Sicuramente
rifocillato, uscì dal parco e si diresse verso nord.
A nord di Heaven’s Park c’era un cimitero. Il campo dall’erba
accuratamente rasata era puntellato di lapidi in marmo, che risplendevano
biancastre nel riflettere la luce della mezzaluna di quella notte.
Il posto
ideale per un dio della morte, osò pensare. E, in effetti, era come mettere
piede dentro un carcere i cui occupanti ce li hai spediti tutti tu.
La cosa
bella era che, di sicuro, non potevano parlare.
E poi il
cimitero aveva effetti benefici sui suoi nervi.
Magari era
proprio il luogo. Morte attira morte, una cosa del genere... ma di sicuro
quello era il posto più adatto per mettersi a riflettere senza fretta, mettendo
in ordine pensieri impilati da qualche parte nel cervello e lì lasciati a fare
polvere.
L’importante
era non scavare troppo a fondo. Pensieri di cento anni erano tutt’uno con le
ragnatele, ormai, e toglierle tutte era sconsigliabile oltre che difficile, per
uno come lui con la tendenza alla depressione.
Così si
limitò a considerare quelli relativi alla giornata.
Non poteva
fingere con se stesso di non avere provato alcuna sensazione, passando tutto
quel tempo a stretto contatto con Eric. Lo avevano colpito più cose di lui in
due ore che in tre giorni interi.
Come la
sua speranza incrollabile, o il suo ottimismo. La sua rabbia verso il padre e
poi la successiva preoccupazione, sempre per quel padre che pochi istanti prima
stava insultando.
Segno che
non lo faceva davvero. O, se veramente voleva sbeffeggiarlo, tutti gli
improperi che gli rivolgeva non li pensava seriamente.
Sbuffò.
Era caratteristica peculiare delle anime candide questa inarrestabile speranza;
una cosa che avrebbe detestato, se solo avesse potuto arrivare oltre al fastidio.
Se avesse potuto provare sentimenti forti come l’odio, per esempio.
Ma gli shinigami non potevano. Loro non provavano sensazioni
forti.
Solo lievi
ombre delle stesse.
Ecco
dunque che la rabbia pura e semplice di trasformava in irritazione, l’odio
spiccato in pressante fastidio, la felicità in sollievo, la gioia in lieve
contentezza. Altre volte, semplicemente, il sentimenti non venivano nemmeno
riconosciuti e finivano per mescolarsi a tutti gli altri in un’accozzaglia
senza capo né coda.
Sospirò,
stendendosi di schiena sulla base quadrata di una scultura in pietra levigata:
un angelo donna dalle ali spiegate, distese sulle lapidi come se fossero tutte
sotto la sua protezione.
Sghignazzò.
Ironico, quantomeno, che si fosse messo proprio lì sotto.
« Un dio
della morte in un cimitero ha un po’ il senso del macabro » sentì dire da
qualche parte alla sua destra, il tono di voce vellutato che aveva già udito in
precedenza senza un’inflessione particolare di tono, se non quella punta di
sbeffeggio e ironia tipica degli eterni giovani.
Voltò
pigramente il capo in quella direzione, incontrando la figura del vampiro
conosciuto due notti prima. Il modo in cui quei capelli e quegli occhi
dannatamente chiari riflettevano la luna era così particolare da rimanere
impresso, anche contro la volontà.
Non
rispose alla provocazione, tornando a chiudere gli occhi e lasciando che la
creatura si avvicinasse. Non era particolarmente desideroso di avere compagnia,
ma nemmeno così impaziente di liberarsene.
Lo sentì
camminare in sua direzione, poi salire sulla base della statua e appoggiarsi
con la schiena a quella della donna scolpita, la testa semi nascosta dalle ali
di pietra.
Rimasero
in silenzio entrambi, assorti nei più diversi pensieri. Finché non fu,
contrariamente alle aspettative, Abrahel a stancarsi
di quel pesante silenzio che solo nei cimiteri si poteva avere.
« Tu sei
in giro ogni notte? » chiese, conscio anche senza aprire gli occhi che il
vampiro lo stava ascoltando.
« In
qualche modo mi devo nutrire, se non voglio azzannare la famiglia che mi ospita
» spiegò apatico; anche se Abrahel si convinse che
forse non gli sarebbe dispiaciuto troppo, piazzare i denti nella giugulare di
qualcuno della sua “famiglia”.
« Potresti
farlo e basta » ribatté di nuovo, particolarmente pessimista.
« Sì
certo, e poi chi li sente quei rinsecchiti degli anziani? No grazie, voglio
vivere il resto della mia immortalità senza rotture di palle varie » ribatté
Marcus – si chiamava così? – tranquillo nonostante il vocabolario da orco delle
montagne.
Lo shinigami ghignò. Come loro, anche i vampiri erano legati a
leggi antiche che prevedevano una cosa innanzi tutto: la segretezza. Entrambe
le loro razze, per il mondo, esistevano solo sottoforma di miti e leggende.
« Posso
sapere cosa ci fai sul Mediano? » domandò poi il vampiro, probabilmente approfittando
della conversazione appena iniziata.
Sembrava
di buon’umore, quella notte.
« Lavoro »
rispose lui, sinteticamente.
« Qualcuno
che conosco? » chiese l’altro.
« Everald... Eric » si ritrovò a dire lo shinigami,
dimentico della clausola sulla segretezza della vittima prescelta dal fato.
Beh, poco
male. Non era come rivelare al mondo la loro esistenza; e poi non era sicuro
che una particolarità simile fosse valida anche per altre creature oscure come
i vampiri.
Tuttavia,
Marcus rimase in silenzio. Per troppo.
Abrahel
aprì un occhio, guardandolo di sbieco. « Lo conosci » considerò, e non era una
domanda.
« Non io »
disse subito l’altro, puntando lo sguardo da qualche parte nella semi oscurità:
« Noah » rivelò.
« Un tuo
amico? » domandò Abrahel.
« Il mio fratellastro
» corresse l’altro.
« Vampiro?
» chiese di nuovo.
« Umano »
specificò l’altro, di nuovo.
Abrahel
si lasciò sfuggire un ghigno particolarmente ironico. « Quanti ne hai già
avuti? » esordì, ancora ghignando.
« Quattro
» disse Marcus: « ma questo sarà l’ultimo ».
Abrahel
non ricordava dove aveva già sentito un’inclinazione di voce talmente decisa,
ma era sicuramente qualcuno che bazzicava nelle alte sfere dell’aldilà.
Tuttavia non ci diede molto peso, mettendosi seduto per osservare Marcus senza
avere le ali di pietra come impiccio. « Spiegati » ordinò poi, improvvisamente
perentorio.
L’occhiata
che gli riservò il vampiro, quelle iridi rosse di chi ha appena consumato un
pasto abbondante, era quanto di più minaccioso esistesse sul Mediano. La sfortuna
dell’essere era che lui aveva visto di peggio; per quello non si lasciò smuovere.
Marcus non
replicò, ma qualcosa dentro quegli occhi fornì comunque ad Abrahel
la risposta che cercava. Capire gli esseri notturni era complicato, sì, ma non
quando si trattava di emozioni umane facilmente intuibili.
« Vuoi
trasformarlo » notò, e anche quella non suonava come una domanda.
« Non lo
so ancora » si difese l’essere, improvvisamente sulla difensiva.
« Vuoi
sottrarlo alla morte » proseguì però Abrahel: «
perché? » chiese.
Gli occhi
carmini volarono nuovamente su di lui, e li rimasero. « Perché è importante.
Per quale altro cazzo di motivo, secondo te? » sbottò l’altro sgarbatamente,
senza però alzare troppo la voce.
“Importante”.
Strano il significato profondo che poteva avere una semplice parola.
Il dio
della morte lo scrutò a lungo, provando a setacciarel’anima del vampiro attraverso quegli occhi
innaturalmente rossi. Non vi riuscì, ma intuì comunque quale fosse l’importanza
che attribuiva a quell’umano.
« E’ il
tuo amante, vero? Tu lo ami » asserì, troppo sicuro di se stesso per
considerare la presenza di qualche dubbio.
Marcus
ghignò. « La legge mi impone di dire “donatore” » commentò e no, quella non era
una negazione.
« Tu lo
ami! Un umano! » esclamò, l’ombra di
una fuggevole indignazione nelle iridi così innaturalmente chiare.
Per uno
come lui, che degli umani disprezzava persino l’aria che respiravano, pensare
uno come Marcus accanto uno di loro era un errore sistematico, qualcosa di
sbagliato.
Il vampiro
però non la pensò uguale e non condivise l’indignazione. Si limitò a scendere
dalla scultura, mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloni neri.
Prima di
andarsene, il suo sguardo color rubino si posò ancora una volta su quello di
ghiaccio dello shinigami.
« E’ vero,
è umano. E forse non dovrei nemmeno imbarcarmi in una cagata colossale come
questa sottospecie di relazione amorosa, ne sono pienamente consapevole. Non
puoi sapere la quantità immonda di tare mentali che mi sono sparato nel
cervello da quando è cominciata fino a qualche ora fa » disse: « ma fidati
quando ti dico che piuttosto che ridurmi come te, che l’amore non lo puoi
nemmeno provare... preferisco rischiare di fare del male alla persona che amo »
concluse, sparendo così velocemente che Abrahel fece
appena in tempo a seguirne la scia.
Sospirando,
si lasciò andare di nuovo con la schiena contro la pietra.
Non
faticava a credergli. Nessuno voleva essere come la Morte.
Neanche la
Morte.
Quando
rientrò nell’appartamento, buio e silenzioso esattamente come lo aveva
lasciato, aprì la porta della camera da letto e si soffermò sulla soglia a
guardare Eric.
Dormiva
placidamente girato su un fianco, le lenzuola scure a coprirgli il corpo fino
alla vita.
Osservandolo
comprese davvero il significato delle parole del vampiro, dopo quasi tre ore
che ci rifletteva sopra. Così come gli balenò in testa una delle possibili
interpretazioni della parola “importante”.
Non poteva
affermare di amarlo, come Marcus nei confronti di Noah...
ma, nonostante la sua impossibilità di provare sentimenti, comprendeva che Eric
era importante per lui come mai nessuno era arrivato ad essere in tutta la sua
esistenza.
Senso di
protezione, forse. Affetto. Non superava quelle sensazioni, ma anch’esse erano
comprese all’interno di “importante”, e tanto bastava.
Avrebbe
potuto avvicinarsi e accarezzargli il volto senza la paura che potesse essere
d’intralcio alla missione. Dopotutto, un intralcio a se stesso lo era già
diventato, praticamente dal momento in cui aveva cercato di proteggere Eric dal
ceffone del padre; dal momento in cui si era messo in mezzo, decretando
inconsciamente di volerlo proteggere.
Poteva
oltrepassare quella porta e decidere; decidere di lasciarsi andare... oppure
tornare indietro, e decidere di rinunciare.
Il
capitolo più noioso che abbia mai scritto. Mi sono stancata solo ad idearlo,
santi numi...
By the way: prima dei consueti
ringraziamenti, un avviso. E’ probabile che il prossimo capitolo di Untill arriverà
un po’ in ritardo.
Ho in
programma una shot su Hetalia, e alcuni utenti su un altro fandom
aspettano un aggiornamento che ritarda da due mesi. L’ispirazione non aiuta
molto, in questo periodo.
Ok, ora che
ho dato il pretesto base per farmi linciare: risposte!
Shichan: non posso assicurarti che Trent soffrirà le pene dell’inferno, perché ancora non lo
so nemmeno io (^^’’’) però farò del mio meglio. Ti ringrazio molto sulle
opinioni riguardanti i personaggi e il modo di scrittura, ma dato che di solito
ne parliamo ampiamente in separata sede, ancora mi chiedo perché sto a
risponderti qui XP.
Ma sappi
che me gode del fatto che ti piaccia Eric, a dire il vero ci speravo XD
angel15: complimenti che sono molto
apprezzati: il mio ego ringrazia di cuore. Sono felice che ti piaccia la
storia, davvero; fa sempre piacere sapere che le trame folli che mi sparo di
tanto in tanto siano abbastanza originali da piacere XD
Grazie
mille per la recensione!
Mikayla: eh sì, la teoria di Yuuko di xxxHolic ha un suo
perché. Ode all’hitsuzen.
Ti
confesso che quando leggo recensioni come le tue mi viene quasi da saltellare.
Il mio ego non vede confini.
Ma la
contentezza che mi provoca vedere che il mio stile di scrittura, la trama e la
caratterizzazione che do ai personaggi non annoia non ha eguali. Sono
complimenti che tutte le ficwriter vorrebbero sentirsi dire, credo, e io non
faccio eccezioni.
Perciò ti
ringrazio (e complimenti per il vocabolario XD) sia per i complimenti che per
la recensione. Piacerebbe anche a me incontrare Timoty in giro per
l’università, se non fosse che pure io vivo in Italia e Timoty non esiste XD.
dea73: sì, quel povero shinigami è un po’ lento di comprendonio. Più che altro è
tarlato con l’idea di essere in mezzo ad un branco di esseri inferiori...
poverino, dobbiamo cercare di capirlo XD.
No, beh,
in realtà il dolorino non c’entra niente XD la tachicardia è una cosa che
capita abbastanza spesso quando si è molto stressati e si fa incetta di
caffeina, al liceo mi capitò un paio di volte... ho semplicemente preso ad
esempio. Il ruolo di Eric... beh... a dire il vero ci sto ancora pensando,
avrei una scelta da fare su due finali diversi... vedrò, comunque.
Ti
ringrazio comunque molto per la recensione e i complimenti sulla scrittura,
fanno sempre piacere U___u.
Per
diversi motivi, molti ripensamenti e altrettanti sensi di colpa.
Non era giusto lasciare da sola sua madre, si era detto. Anche
se Joshua l’aveva avvertita, conoscendola doveva
essere comunque molto preoccupata.
Per quello
non si era fatto troppi problemi nel prendere la sua roba,
ringraziare Joshua alle cinque del mattino seguente –
ma quel ragazzo non dormiva mai? – e tornarsene
a casa.
Ma
ora, chiuso in camera sua con le serrande abbassate a fissare il soffitto, non
era più così tanto sicuro della sua benevola pensata.
La prima
persona che aveva visto, al contrario di ogni
aspettativa, era stato suo padre. E le cose non erano
andate come si aspettava.
Gli aveva
aperto la porta, sì, gentile da parte sua. Lo aveva guardato... poi, senza dire
una parola, aveva girato i tacchi lasciando la porta aperta ed era tornato in
cucina.
Niente
saluti, niente parole d’apprensione, niente scuse.
Niente di niente.
Solo sua
madre era corsa ad abbracciarlo mentre suo fratello, chissà perché già in
piedi, lo guardava come se dovesse bruciare su un rogo.
In quei
momenti... non poté far altro che chiedersi come fosse finita così. Che strada avevano intrapreso per far sì che una cosa simile succedesse?
Si morse
il labbro inferiore, portandosi l’avambraccio sugli occhi. C’era penombra nella
camera, e improvvisamente anche quella pochissima luce sembrava disturbarlo.
Non
sarebbe andato a lezione nemmeno quel giorno. Nessuno della famiglia era uscito
di casa, dunque anche Alex saltava scuola, probabilmente.
Magari
avevano da fare a casa; tipo rispondere alle incessanti telefonate che suo
padre riceveva da ormai due ore, spiegando a buona parte di quelli che
chiamavano della sua “reazione allo stress accumulato”, causa ufficiosa del suo
comportamento poco adeguato ad un adulto.
Ma
Eric aveva pensato subito che quella fosse una balla bene architettata per non
mandare a picco l’importantissima, vitalissima squadra di basket giovanile di
suo padre. Si dovevano rassicurare i genitori in un qualche modo, ed
effettivamente lo stress è una delle cause più comuni
di un gran numero di comportamenti inconsulti.
Ma la
realtà dei fatti era una sola: suo padre aveva intenzione di fare esattamente
quello che aveva fatto.
Anzi, se
avesse potuto si sarebbe spinto oltre.
A quel
pensiero un brivido gli scese lungo la schiena. Aveva frammentari ricordi del
braccio alzato del padre, levato come per colpirlo, e di Joshua
che si frapponeva tra lui e quel colpo.
Joshua, che aveva sibilato parole che suo
padre aveva temuto.
Ma quali? Cosa gli aveva
sussurrato all’orecchio?
Non lo
sapeva. Non riusciva nemmeno ad immaginare cosa avesse spaventato così tanto
suo padre, in quel frangente.
A pensarci
bene... era da un po’ che rifletteva sul ragazzo. Non era la prima volta che
pensava di qualcuno che fosse strano, o diverso dagli altri... ma JoshuaArcher scatenava in lui
una sorta di istinto represso, che a tratti gli
consigliava di stargli lontani, altre volte invece ne sembrava follemente
attratto.
Soprattutto
per i suoi occhi. Sembravano saper incantare chi li osservava troppo a lungo.
E non
si comportava nemmeno come gli altri ragazzi della loro età.
Posato,
tranquillo, gentile. Magari si sforzava di assumere un comportamento comune, ma
in rari momenti non gli riusciva affatto.
Lui non lo
aveva toccato. Mai. Nemmeno per sbaglio. Per tutto il tempo in cui erano rimasti insieme nel suo appartamento, Joshua gli era stato sì vicino, ma mai abbastanza per
sfiorare o essere sfiorato, anche inavvertitamente.
Così vicino da sentirne il profumo, particolare e incomparabile anche
al più gradevole degli odori, ma mai abbastanza.
Si ritrovò
d’improvviso a pensare come fosse al tatto la sua pelle.
Sapeva che
era fredda. Se lo ricordava da quando l’altro gli
aveva appoggiato la mano sulla fronte, in facoltà... ma non sapeva altro.
Più che altro perché non ci aveva mai pensato. Più che altro perché non ci
doveva nemmeno pensare, santi numi! Joshua era un
ragazzo! Non si fanno certe considerazioni su un coetaneo maschio, per Dio!
Però...
Già. Non
poteva non ammettere che tutti i suoi pensieri finivano
per vorticare intorno ad Archer. Sempre e comunque, Joshua era il fine
ultimo di ogni ragionamento che cominciava. Aveva attirato la sua attenzione come
solo il nuoto era riuscito a fare.
Era un maledetto fissato, doveva ammetterlo con se stesso.
Fu un
rumore consuetudinario ad attirare la sua attenzione, distraendolo dal filo di
pensieri che aveva cominciato a popolargli la mente. Dei
passi, per la precisione, pesanti e cadenzati.
Qualcuno
saliva le scale. Ed era sicuro di chi fosse, dato il
rumore che faceva.
Si preparò
psicologicamente, sospirando pacato e togliendosi il
braccio dagli occhi; fu questione di pochi istanti prima che, bussando, Trent non si presentasse sulla porta della sua camera.
Nessuno
dei due disse nulla. L’uomo si limitava a fissare un punto qualsiasi del
parquet della camera mentre Eric aspettava che l’altro parlasse, che dicesse
qualcosa. Lui aveva bussato, dopotutto.
Quando finalmente
Trent si decise, erano
passati talmente tanti minuti che sentire la sua voce fu una sorta di sorpresa.
« Eric... » chiamò, tuttavia senza ancora
guardarlo.
Oh, wow...
si ricordava persino il suo nome.
« Mi dispiace. E’
stato un comportamento... beh, non dovevo farlo » aggiunse, cercando parole che, a
giudicare dall’instabilità della voce, non trovava.
Tacque, ed
Eric non poté fare a meno di rispondere ciò che il padre si aspettava.
Nonostante
non credesse al suo pentimento - pensò che fosse un’insistente trovata di sua
madre – non riuscì a dire altro che quello.
« Va bene, non preoccuparti ».
Non era
quello che avrebbe voluto dire. Avrebbe preferito domandare perché lo avesse
fatto, o perché fosse così spudorato nel mentirgli a quel modo. O anche se era diventato uso comune, quello di malmenare i propri
figli in pubblico.
Ma qualcosa gli diceva che comunque il padre non avrebbe risposto e, anzi, con quelle parole non
avrebbe fatto altro che farlo arrabbiare.
« Bene » pronunciò l’uomo, girandosi nell’evidente
intenzione di lasciare la stanza. Ma si fermò con la
mano sulla maniglia e un piede sulla porta, proprio in procinto di uscire.
« Conosci da molto quel ragazzo? Joshua... Archer?
» domandò poi, e la variazione del
tono faceva intuire che la recita era finita, e adesso agiva solo per se
stesso.
Eric ne fu
sorpreso solo perché non si aspettava un approccio così diretto a
quell’argomento.
« Da un po’ » fu la semplice risposta che fornì.
Non sapeva come avrebbe reagito suo padre, praticamente
il ritratto della serietà e del rispetto delle regole, se gli diceva di avere
passato la notte da una persona conosciuta sì e no settantadue ore prima.
Trent
sembrò pensieroso per un qualche istante, ma si girò finalmente a guardarlo
quando si rese conto che la sua risposta era prettamente insoddisfacente. Però non commentò, né si preoccupò di farglielo notare con
il suo solito tono saccente. Anzi, rimase in silenzio.
« Non mi piace » esordì poi: « preferirei che non lo frequentassi
» disse, e la sua voce aveva l’intonazione
di un ordine ben nascosto nonostante le parole fintamente cordiali.
Non
rispose, preferendo di nuovo il silenzio al mare di insulti
che si sentiva sulla punta della lingua, pronti ad uscire.
« Eric » chiamò di nuovo l’uomo,
fermamente: « non devi frequentare quel ragazzo » chiarì, facendo risuonare
l’imposizione per ciò che era.
Non seppe
se fu il ficcare il naso nella sua vita privata quello che lo fece innervosire,
oppure il pensiero di evitare Joshua da lì in avanti.
Non riusciva a sopportare né l’uno né l’altro, e la cosa non lo aiutò a tenere
la bocca chiusa e ad ignorarlo come si era prefissato di fare.
« Non sapevo che il mio giro di amicizie fosse improvvisamente affar tuo » disse ironicamente, distogliendo
per la prima volta completamente lo sguardo dal soffitto per fissarlo sul volto
del padre. Poteva vedere la rabbia inasprirgli i lineamenti del volto, ma anche
il tentativo ostinato di non infuriarsi ancora.
Dal canto
suo, Eric non riusciva a capire cos’era quell’ostilità
nei confronti di Joshua.
Era di
sicuro il più serio e il più posato di tutte le persone che conosceva, e
l’unica cosa particolare che aveva visto fargli era stato fumare una sigaretta,
la prima sera che lo aveva incontrato fuori dal Rock Theatre. Era meglio di tutti i suoi amici messi insieme,
persino responsabile nel venire ad avvisare sua madre su dove si trovasse, e
questa nuova fissazione di suo padre trovava che fosse
priva di fondamento.
Al suo
silenzio, Trent ripeté di nuovo il suo ordine: « non voglio che lo frequenti. Viene
nella tua stessa università e non puoi di certo non incontrarlo, ma evitarlo sì
» continuò: «fallo » concluse infine.
Continuò a
non rispondere. Nonstante stesse per esplodere di
rabbia non voleva provocarlo, no, era l’ultima cosa che voleva. Per rispetto a
sua madre, che doveva essere distrutta nonostante si sforzasse di riportare
tutto alla normalità, e per suo fratello.
Forse Trent prese il suo silenzio come un assenso. Fatto sta che
sembrò soddisfatto, per il momento, e prima di uscire gli comunicò
l’orario del pranzo.
Quando
la porta si fu richiusa, e l’uomo tornò rumorosamente al piano di sotto, Eric
si rese improvvisamente conto che non sarebbe rimasto in quella casa una notte
di più.
Guardò
l’orologio sul comodino: le dieci e mezzo del mattino. Robert probabilmente era
all’università – ancora non riusciva a capire come riuscisse a frequentare, con
tutti i neuroni che la cocaina gli fotteva – ma Doug
lavorava in un’officina meccanica, e probabilmente era reperibile.
Allungò malamente la mano sul comodino, afferrando il cellulare ed
aprendolo con un rapido gesto della mano. Subito scorse i numeri in rubrica,
non faticando a trovare “Douglas” in mezzo a tutti gli altri.
Spinse il
tasto verde e si attaccò l’oggetto all’orecchio, ascoltandolo squillare. Fu
solamente al sesto squillo che dall’altra parte
qualcuno rispose, urlando un “pronto?” per sovrastare il rumore di un motore al
massimo dei giri in sottofondo.
« Doug, sono Eric » disse lui, alzando la voce per
farsi sentire.
« Pronto? » ripeté l’altro.
« SONO ERIC! » sbottò dunque, quasi urlando a sua
volta.
« Ah, Er! » rispose infine l’altro, come al solito fin troppo entusiasta: « che fine avevi fatto, è una mezza
esistenza che non ti sento! »
« Venerdì sera non è una mezza
esistenza, Doug » precisò lui, ghignando anche se
l’altro non poteva di certo vederlo.
« Sono solo dettagli! » ribatté il ragazzo, allontanandosi
dal motore in revisione a giudicare dal progressivo
scemare del rumore. « Allora, cosa posso fare per te? » chiese poi.
Eric sospirò.
« Volevo sapere se avete qualcosa in
programma per stasera » chiese poi, rimanendo attentamente
in ascolto.
Chiedere a
loro dei loro programmi voleva dire posti ambigui con fiumi di
alcool e polverebianca spacciata
quasi in libera vendita. Ma, si disse, probabilmente
era proprio quello che gli serviva.
Ci fu
della reticenza da parte di Douglas, e poteva chiaramente sentirsi dalla sua
risposta tutt’altro che rapida come al solito.
« E’ mercoledì, Er » si lamentò poi, ma si sentiva dal
tono che era una sorta di cover story:
« io lavoro domani e Rob ha lezione » aggiunse.
Cominciava
a seccarsi. Ma con chi credeva di parlare, con un
idiota? « Non mi pare che sia mai stato un
problema per voi uscire fra settimana. Dunque perché
non mi dici la verità ed eviti di farmi incazzare, Doug? Te ne sarei grato,
dato che ultimamente non mi gira molto bene » sbottò, iracondo nonostante volesse evitarlo con tutto se stesso.
« ...ho sentito » disse poi Douglas dopo un istante
di silenzio: « tu stai bene? » domandò dunque.
A volte
dimenticava di questo lato di Douglas. Ovvero quello
che sapeva preoccuparsi degli altri, quando non era assopito dal livello
d’alcool disciolto nel suo sangue.
Sospirò. « Ho bisogno di uscire di qui » disse semplicemente, racchiudendo
in quella frase il suo stato d’animo attuale. Era ormai da qualche minuto che
si era pentito di aver lasciato il silenzioso appartamento di Joshua per tornare a ficcare il piede della tana dei leoni.
Dall’altro
capo del telefono udì Douglas sospirare, forse ponderando una sua decisione.
Infine parlò: « io e Rob
non volevamo dirtelo, dato la situazione che hai a
casa. Ma abbiamo trovato un locale che vorremo vedere
e avevamo in programma di andarci stasera » disse infine.
« Io non guido, ho bisogno di alcool »
rivelò, arrendendosi all’evidenza di avere la necessità impellente di una
sbronza fatta per bene.
« Non guida nessuno » esordì però Douglas, riuscendo a
sorprenderlo: « non è lontano, andiamo a piedi. Ma ti avverto che è un po’... particolare, ecco » tentò di spiegarsi.
Eric,
ovviamente, non capì un accidente. « In che senso? » domandò infatti.
«E’ molto libero, mi segui? » commentò, e dal tono Eric si immaginò un ghigno sadica stampato su quella faccia a
luna d’agosto.
« No cazzo, non ti seguo » ribatté lui seccato.
Dall’altra
parte provenne un suono di disappunto che sembrava un ringhio. « Santo Dio come sei ignorante
quando vuoi » commentò Doug, ma non gli diede il
tempo di rispondergli per le rime: « è molto riservato, ok? Rob ci ha messo mesi
per farsi il giro giusto che ci permettesse di entrare
in quel pub. Ci va la gente che vuole... svagarsi senza impegni, capisci ora? Che vuole divertirsi e
non gli importa con chi o dove »
tentò di fargli capire.
Ci mise
poco, questa volta, a collegare tutti i pezzi di puzzle.
« Un bordello?! » sbottò, tappandosi subito la bocca
con la mano sperando che dal piano di sotto non lo avessero sentito. Ma i
rumori soffusi dello padellare della madre ancora
arrivava alle sue orecchie, segno che non si erano fermati ad ascoltare, e che
dunque non lo avevano sentito. «
Un bordello! Ma siete deficienti?! » sbottò, effettivamente incredulo
davanti a ciò che quei due potevano arrivare a fare. Giocare agli alcolizzati e
ai cocainomani spacciatori non era abbastanza? Ora anche sul sesso dovevano
buttarsi?
« Non è esattamente un bordello! » esclamò a sua volta Douglas,
premurandosi di tenere bassa la voce nel caso i suoi
colleghi avessero le orecchie troppo sensitive: « è un pub, ok? Tu puoi entrare e limitarti a bere e a
ballare. Dico solo che se non sei interessato alla musica, c’è anche la
possibilità di un altro tipo di intrattenimento, ok? Ma non è gente del locale. Chi ne ha voglia lo fa con chi
vuole, punto, e tutti vengono da fuori. Non è un covo di puttane e non è un
bordello, è solo... un servizio in più » spiegò, parlando come se dovesse cospirare chissà quale attentato
terroristico.
Ci pensò
sopra. La descrizione di un posto simile non lo attirava affatto, ma ancor meno
lo faceva l’idea di dover passare almeno altre venti ore facendo finta che fra
lui e suo padre non fosse successo niente.
Sentiva di
non farcela a fingere di non capire le sue frecciatine, di non vedere la sua
espressione disgustata quando lo guardava e a non accorgersi delle sue plateali
finte in favore dello status quo.
« Ci sono » decretò ad alta voce: « quanto ci vuole? » chiese poi, sperando di avere
abbastanza soldi da parte.
« Quaranta bigliettoni » rispose lui. «Ma,
Eric... tutti vanno con tutti, ok? Non ti garantisco che sia
una cosa integralmente eterosessuale... o di coppia. Dicono che sia quello il
bello del locale » rivelò.
« Immagino » fu il suo semplice commento. Al
momento non gliene fragava niente, voleva solo uscire
di li.
Ci avrebbe
pensato poi, alle conseguenze della sua scelta.
Non era un
posto che attirava tanto l’attenzione.
Una
facciata normalissima e un’insegna anonima, ilScarlet Moonlight aveva tutto quello che si
doveva ad un pub e al contempo non aveva niente a che fare con gli altri
locali.
Non si
sentiva la musica dell’interno, ad esempio; non c’erano spazi all’aperto e
nessuno fuori a fumare. C’era solo un’insegna sopra ad una porta anonima, incassata
in un muro più che normale, con un mastino di minimo un quintale a fare la
guardia fuori dalla porta.
Se
l’insegna non avesse specificato “pub” sotto al nome,
lo avrebbe volentieri scambiato per un covo di mafiosi.
« Ci siamo, ci
siamo! » esclamò Robert esaltato con un
sorriso da orecchio ad orecchio. Douglas annuì con la stessa felicità mentre
Eric si limitò ad un sorrisetto poco convinto. Stava considerando che non fosse
stata un’idea geniale, ma ormai era troppo tardi, e non avrebbe
fatto la figura dello stupido dicendo ai suoi amici che se ne tornava a
casa.
Così si
arrese all’evidenza che sì, avrebbe aspettato al bancone che Douglas si facesse
qualsiasi essere deambulante nel locale e Robert spacciasse la roba che si era
portato dietro. Figurati se in un locale del genere ti
controllavano prima di lasciarti entrare...
Arrivarono
all’ingresso in pochi istanti, e subito il buttafuori ebbe la cortezza di
squadrarli da capo a piedi.
« Nome? »chiese,
minaccioso.
« Lista Wang» rispose subito Robert: « Robert e due amici » precisò.
L’armadio
si girò verso una cartelletta attaccata al muro, osservandone i nomi per
qualche istante. Quando arrivò a quello pronunciato da
Robert, fece un rapido accenno con il capo e gli aprì la porta.
«Wang? » domandò Eric una volta
all’interno, dove furono accolti dalla ragazza della biglietteria e dal suo
ghigno compiaciuto.
« Oppiomane » spiegò brevemente Robert: « è lo spacciatore più quotato di questo posto, ci ho messo settimane per convincerlo a
metterci in lista » completò, estraendo i quaranta
dollari dalla tasca dei jeans e passandoli alla ragazza, che gli stampò un
timbro sulla mano destra.
Eric non
stette a guardare cosa rappresentava il timbro; era
deciso a ricordare meno roba possibile di quel posto e non voleva altro che
raggiungere il bancone, ordinare il drink più alcolico in menù e sedersi.
Evitò con
cura lo sguardo affamato della ragazza, seguendo gli amici giù per una lunga
scalinata. Sembrava che la sala vera e propria fosse
nel semi-interrato, o addirittura in una sorta di cantina; forse era per quel
motivo che la musica, da fuori, non si sentiva.
Cominciò a
sentirla a metà delle scale, e una volta arrivato alla
loro fine si trovò davanti il locale più stravagante che avesse mai visto.
Assomigliava
tantissimo ad un ritrovo di vampiri degli action
movie che guardava con Alex quando non aveva niente da fare. Era in
penombra, con luci soffuse a volte rosse altre bianche, disseminato di corpi
che si muovevano a ritmo di musica. Niente sedie o tavoli, solo divanetti che
ovunque si guardasse erano occupati da persone intente
a fare di tutto fuorché prestare attenzione al mondo attorno a loro. Fra loro,
un uomo in completo elegante aveva inginocchiato fra
le gambe un giovane in convers e jeans impegnato con
la bocca a fare qualcosa di così ovvio, che Eric non ebbe nemmeno lo stimolo di
rimanerci male.
« Bel posto... » sussurrò ironico, individuando con
gli occhi la porta di un privè. Beh, almeno i rapporti
sessuali veri e propri si riservavano di non farli davanti a tutti gli altri,
nonostante non si prestasse una generale attenzione alla “zona divanetti”.
Non
ascoltò la risposta degli altri, limitandosi a passare in rassegna la stanza.
Individuò il bancone, ma nel farlo incrociò lo sguardo di una donna –
probabilmente sulla trentina a giudicare dal volto – così eloquentemente diretto
a lui che improvvisamente si pentì di avere indossato quella camicia bianca
quasi trasparente e quei jeans chiari un po’
stracciati. Era un abbigliamento fin tropo sexi per
un posto in cui attiravi l’attenzione anche con un
cappotto addosso.
« Vado al bar » decise poi, dicendolo ad alta voce
per avvertire gli amici. Senza aspettare le loro risposte – e lo loro raccomandazioni, si disse – si diresse a passo
svelto verso il bancone senza più incrociare nemmeno uno sguardo; fissò le
piastrelle per tutto il tragitto finché non si fu seduto.
Ordinò un
Long Island. Non era uno dei drink più alcolici, ma considerato il suo grado di
resistenza era più che sufficiente.
Solo
quando ebbe il bicchiere fra le mani – e ne ebbe
bevuto tre quarti come fosse acqua – alzò lo sguardo, puntandolo sulle persone
in pista.
Non poteva
non ammettere di essere affascinato dal loro strusciarsi sincopato. Alcuni
seguivano semplicemente la musica, ignari del mondo e delle persone contro cui andavano inevitabilmente a sbattere; ma alcuni di loro
erano intenti ad esplorare i corpi d’altri con le mani, facendole scivolare
lentamente sotto le magliette, o all’interno delle vertiginose minigonne. Notò
un paio di ragazze guardarsi con espressione particolarmente languida, poi
decidere con un cenno del capo di dileguarsi in direzione dei
privè.
Ordinò un
altro Long Island, finendo in un unico sorso quel poco rimasto nel bicchiere.
Cominciò molto presto a sentire il famigliare effetto di leggerezza portato
dall’alcool, unito al calore diffuso lungo tutto il corpo. Bevve ancora.
Aveva
sentito molte volte la frase “bere per dimenticare”, ma non ci aveva mai
creduto. L’alcool dava effettivamente un primo momento di sollievo, come se i
problemi scomparissero in una nube di fumo, ma non si potevano evitare per
sempre. Era quando quel senso di leggerezza svaniva che essi ripiombavano fra
capo e collo più pesanti di prima.
Lui aveva
la brutta abitudine di saltare tutta la prima parte. Forse
perché pensava troppo.
Era sempre
preda di quelle che si chiamavano “sbronze tristi”, in cui avrebbe avuto voglia
di pensare e ripensare continuamente a tutto ciò che lo atterriva per far sì
che potesse sotterrarlo nella depressione ancora di più.
Il barman
gli portò la seconda ordinazione, e lui ne bevve un’altra metà senza nemmeno
prendere fiato. Sentiva che stava per dargli alla testa, ma non si sarebbe comunque fermato. Aveva deciso di ubriacarsi per bene, a
costo di stare una merda la mattina dopo, ma voleva disperatamente avere
qualche ora di sollievo per dimenticarsi di tutto e tutti.
Di suo
padre, per esempio. Dei suoi scatti d’ira e delle bugie che gli rifilava come sante verità.
Sentì un
moto di disgusto e bevve di nuovo, finendo il bicchiere.
Non ci
volle molto prima che l’effetto dell’etanolo di facesse sentire appieno,
facendogli provare la sensazione di galleggiare in mezzo ad una piscina. Quasi
sorrise a se stesso; nonostante non fosse esattamente ubriaco, e riuscisse
ancora a fare ragionamenti abbastanza coerenti, riusciva a sentire l’euforia
tipica di un’overdose alcolica.
Ordinò un
terzo drink e, nell’attesa, tornò con lo sguardo alla pista.
Ora tutti
quei corpi, quello strusciarsi e quei toccamenti avevano un effetto
completamente diverso. L’inibizione stava finalmente andando per altri lidi e
riusciva a trovare quei movimenti sensuali stranamente eccitanti.
Per quel
motivo non evitò le occhiate decisamente invadenti che
un ragazzo, un biondo con i capelli a spazzola e una camicia nera aperta per
metà su un petto ben allenato, gli lanciava.
Prima
sporadicamente, poi sempre più insistentemente finché non guardò lui e solo
lui.
Poteva rifiutarlo, pensò. Poteva semplicemente smettere di guardarlo come se fosse
la cosa più interessante in quel posto e l’altro se ne sarebbe fatto un motivo,
scegliendo qualcun altro per il suo palese gioco di seduzione.
Invece
no, continuò a fissarlo. E fece scattare, negli occhi
dell’altro, quell’ingranaggio che decretava la differenza fra predatore e
preda. E di certo era Eric la preda, tra i due.
Poco male.
Bevve
qualche sorso del terzo drink, cedendo fin troppo facilmente al cenno del capo
del biondo, che gli indicava un divanetto libero dall’altro lato dell’enorme
stanza. Robert e Douglas non erano già più in vista, e questo gli diede quel
pizzico di coraggio necessario ad annuire, alzandosi dallo sgabello del
bancone.
Stava
facendo una cazzata, e il suo cervello glielo stava urlando in svariate lingue.
Ma al contempo ne era consapevole e, anzi, non vedeva
l’ora.
Si sentiva
improvvisamente in grado di fare sesso con un ragazzo, uno sconosciuto, in un
locale dalla fama ambigua con almeno un 30% di alcool
nel sangue. Non era minorenne, non ci sarebbe stata
alcuna violenza... ma la soddisfazione di presentarsi davanti a suo padre e
descrivere punto per punto quell’esperienza era divenuta in pochissimi istanti
una prospettiva fantastica.
La
speranza che a Trent prendesse un infarto sul momento era un ottimo incentivo per perseguire lo scopo. Cosa che fece, raggiungendo l’altro in poco tempo.
« Ti ho notato, al bar... » attaccò subito quello, scostando
lo sguardo lungo tutto il suo corpo. Lo studiava, si vedeva, e si leccò le
labbra quando arrivò in zona glutei. « Non sei male, veramente. Anzi... »
aggiunse, prendendo posizione sul divanetto e invitandolo ad accomodarsi al suo
fianco.
Sorvolò
sul gesto. Fosse stato per lui, in quel momento poteva anche decidere di
spogliarlo e farselo davanti a tutti che non gli sarebbe
cambiato il mondo. Meglio: più testimoni a confermare la storia a suo padre,
che sarebbe veramente schiattato con un attacco di
cuore in piena regola.
« Onorato » rispose ai complimenti, prendendo
posto accanto a lui. Aveva gli occhi scuri, notò.
« Senti, mettiamo subito le cose in chiaro dolcezza, ok? » esordì l’altro, avvicinandosi talmente tanto che nell’aria aleggiò
per un istante l’odore forte di fumo di sigaretta: « tu mi sembri un tipo che va al
sodo, dunque sarò sincero. Ho la ragazza, ma mi piace scopare anche uomini.
Stanotte ho scelto te » disse, piegando le labbra in un
sorrisetto malizioso. « Niente pippe
di nessun tipo, del tuo nome non me ne può fregare di meno. Staremo
qui cinque minuti, giusto per galanteria, poi ho tutta l’intenzione di
farti arrivare in una delle camere di quel privè. Se
ci stai ripensando sei in ritardo, dovevi rifletterci meglio prima » terminò, anticipando nel suo
egocentrico discorso tutto quello che voleva dire.
Da quella
mania di comparare le persone a giocattoli, poteva quasi intuire che fosse qualche figlio di papà troppo annoiato dalla vita
facoltosa che faceva, per divertirsi con film e pop-corn.
Ghignò, in
rimando alla sua uscita. Il pensiero di non voler trovarsi lì gli sfiorò la
coscienza per un attimo, ma poi si perse nella nebbia con cui i Long Island
avevano contribuito a formare nel suo cervello.
« E’ un peccato... » sussurrò, fissando il biondo
direttamente negli occhi: « avevo calcolato di trovarmi nudo
in tre minuti. Beh, vorrà dire che porterò pazienza » pronunciò.
Lo stava
sfidando. Lo stava fottutamente sfidando a fare di lui quello che più gli
aggradava.
Era un idiota, si stava comportando come un imbecille patentato. Ma è difficile controllarsi quando una porcheria alcolica te
la fa sembrare un’idea meravigliosa.
La
risatina che il ragazzo si lasciò sfuggire aveva un qualcosa di malefico... o
malato. Ma ovviamente non era abbastanza vigile per
dare importanza a quel fatto.
« Ho fatto un’ottima scelta,
davvero... » sussurrò, più a se stesso che ad
Eric, non perdendo tempo in ulteriori chiacchiere: la
sua mano arrivò velocemente sul suo collo, cominciando a scendere lungo il
busto da sopra la stoffa della camicia bianca, saggiando ogni centimetro di
pelle che riusciva a finire sotto il suo tocco.
Fu un
ragionamento malsano, il suo, ma non riuscì ad impedirselo. Mentre la mano
dello sconosciuto scivolava più in basso, posandosi con energia sulla patta dei
suoi jeans, Eric cominciò a pensare a come sarebbe stato, se quella mano che lo
toccava così impudentemente fosse stata di Joshua.
E non
riuscì a stupirsi del fatto che lo trovasse... piacevole.
Certo,
probabilmente sarebbe stato diverso.
Innanzi
tutto più gentile. Il moro non aveva l’aria di essere un tipo irruento o
frettoloso, lui non sarebbe arrivato a toccarlo subito; era quasi convinto che
avrebbe preso tempo, mettendo in atto tutti quei
preliminari che di solito si fanno, anche con le donne.
Sì, aveva
proprio quell’impressione.
E poi,
la temperatura della sua pelle. L’unica cosa che sapeva con certezza, era che Joshua aveva la pelle fredda. Le sue mani lungo il torace
dovevano essere come acqua fredda, e sarebbero scese
sempre più in basso, sempre più oltre...
« Hai già avuto altre esperienze? » fu quella la voce che lo riportò
alla realtà.
La
risposta, chissà perché, fu però abbastanza veloce: « solo con delle donne » ribatté sincero.
«Ooooh...
» esclamò il biondo, estasiato da
quella rivelazione: « non avendo avuto prima rapporti
con altri uomini, questo ti rende un verginello...
non posso credere a così tanta fortuna » disse, scivolando distrattamente con la mano sul
suo interno coscia per poi tornare su, saggiandogli le labbra con il
pollice: « spero mi permetterai di baciarti » domandò retorico.
«Perché,
ti serve chiedere? » ribatté Eric, il tono scocciato
sia per il nomignolo affibbiatogli che per
l’interruzione che era stato obbligato a subire.
L’altro
non fece altro che ghignare, leccandosi di nuovo le labbra: « Sai, credo che raggiungeremo
un luogo più appartato in meno tempo del previsto... »
« Io credo di no ».
Se
Eric non fosse stato convinto di esserselo solamente immaginato, probabilmente
sarebbe sobbalzato per la sorpresa. Certo, avrebbe riconosciuto la voce di Joshua ovunque; ma pensare che comparisse improvvisamente
in un locale simile era fuori discussione persino per il suo cervello in
stand-by.
Ma quando
il ragazzo che lo aveva adescato si voltò verso destra con l’espressione
scocciata di chi è stato interrotto – la stessa che aveva assunto lui qualche istante prima – capì che quella voce che aveva
sentito, la sua, non era frutto di
un’allucinazione uditiva.
In piedi
accanto a loro c’era veramente JoshuaArcher, fasciato in tutta la sua letale bellezza da un paio
di jeans neri e una camicia di seta del medesimo colore. Accostati ai capelli
corvini, poi, i suoi occhi color del ghiaccio risaltavano ancora di più.
« Scusa, tu saresti? » domandò il ragazzo, fissando il
moro come se dovesse prenderlo a pugni a seconda della
risposta che avesse fornito.
Ma fu
nell’istante in cui Joshua voltò lo sguardo in sua
direzione, fissandolo con quegli occhi che solo Dio sa come glieli abbia dati, che
il biondo tacque e ritirò le mani da Eric.
E un
brivido scese lungo la spina dorsale di quest’ultimo, svegliandolo da quella
sorta di trance.
Stava per
farsi scopare da un uomo appena incontrato. E, allo
stesso tempo, stava pensando che non sarebbe stato male se fosse stato Joshua, invece, l’autore dell’atto.
Se si
vergognò come un cane non seppe dirlo; era troppo
impegnato a fronteggiare lo sguardo apparentemente scocciato - o deluso? - di Archer, che sembrava chiedere
mutualmente a lui cosa stesse facendo e bruciare vivo con gli occhi il biondo
adescatore contemporaneamente.
« Andiamo » fu il suo semplice ordine, unito
alla sua mano fredda che si stringeva sul polso e lo trascinava lontano da quei
divanetti rossi.
Tempo due
minuti, e l’aria fresca della notte gli investì il viso. Gli sembrava di essere appena uscito da un forno, e col senno di poi la
metafora non era affatto sbagliata.
Camminarono
per un po’, in silenzio, percorrendo un marciapiede stranamente poco affollato.
Quella strada correva quasi parallela adHeaven’s Park, dunque in lontananza potevano vedersi le
ombre frondose degli ippocastani del sentiero a ovest del parco.
Joshua
non parlava, non si girava a guardarlo, non faceva assolutamente nulla. Camminava
di qualche passo avanti ad Eric, che ogni tanto faticava a tenere un’andatura
diritta.
« Hai intenzione di evitare di
parlarmi per tutta la sera? »
sbottò il castano d’improvviso, fermandosi in mezzo al marciapiede.
Odiava
dover stare al fianco di una persona che conosceva senza riuscire nemmeno a
parlarci, e il testardo mutismo di Joshua non lo
stava assolutamente aiutando.
A sua
volta, il moro si fermò. Si girò in sua direzione non con il solito sguardo
cortesemente gentile, ma con l’espressione seria di chi ha
visto fare qualcosa che non è di suo gusto e nessuno vi ha ancora posto
rimedio. Esattamente come se fosse un nobile deluso dal comportamento di uno
dei suoi servi.
Eric si
sentì in colpa, per un istante.
«Cosa c’è?
» disse poi: « non sono affari tuoi dove passo la
serata e cosa faccio » completò, anticipando o inuendo dallo sguardo a cosa Joshua
stesse pensando. Glii sembrava di stare parlando con
suo padre, e quella era un’immagine che più di molte altre non voleva accostare
a Joshua.
Archer
non rispose subito, rimanendo semplicemente fermo a guardarlo. Non sembrava
particolarmente arrabbiato, così non appariva toccato dalle parole appena
sentite; ma c’era come un’ombra di dubbio sul suo volto, e la sua mente
sembrava occupata a sbrigliare qualche intricato pensiero di chissà quale tipo.
Dopo altri
istanti di silenzio, alla fine Eric riuscì a sentire
la sua voce: « è vero » gli concesse: « ma stai attento a dove porti il
culo, prima di pentirti di quello che fai » lo avvertì, ma nella voce non aveva il tono di un genitore
apprensivo, o quello preoccupato di un amico fidato. Era un avvertimento puro e
semplice, disinteressato, come quelli dei poliziotti o dei professori.
Per un
qualche motivo che non riuscì ad inquadrare, si sentì uno stupido.
All’improvviso
si era reso conto che Joshua non aveva particolari
considerazioni per lui. E, in tutta sincerità, non
sapeva nemmeno cosa si aspettasse lui.
Che
cosa voleva che fosse? Cosa desiderava che facesse? Che fosse suo amico dopo solo alcuni giorni che si
conoscevano? Che gli volesse bene, magari?
Non poteva
illudersi così. Stava solamente cercando doppi significati dietro ad un gesto,
come quello di tirarlo fuori da quel locale, che non
ne aveva.
JshuaArcher non sarebbe stato niente più di JoshuaArcher. Per
chiunque.
E lui
era... disperatamente affezionato. E non se ne era
nemmeno accorto.
« Vattene a fanculo...
» sibilò ferito, abbassando lo
sguardo e oltrepassandolo con il passo più stabile che fu capace di racimolare.
Non sentì Joshua chiamarlo – perché se lo stava
aspettando, allora? – né fermarlo in un qualche modo.
Semplicemente, quando si girò vinto dalla curiosità, l’altro non c’era più.
Sparito.
Per
qualche minuto, guardò una piastrella particolarmente normale sotto la luce del
più vicino dei lampioni. Non pensava a nulla, solo al silenzio, ma non riusciva
a muovere un solo passo per andarsene da quel luogo.
Forse
sperava di vederlo riapparire. Forse voleva
che lo facesse.
Forse
perché vedeva in Joshua il solo aiuto possibile per
passare lontano da casa ancora qualche ora,
prolungando il suo vagare notturno per non dover guardare ancora negli occhi
suo padre e affrontare la situazione in cui era finito. La mano bianca del moro
era l’unica tesa in sua direzione, l’unica che aveva già afferrato una volta, e
ora non riusciva a vederne altre se non quella.
Voleva
afferrarla ancora. E voleva che Joshua
tenesse stretta la sua.
Perché era rassicurante e... perché era un maledetto egoista.
Chiuse gli
occhi, dandosi mentalmente del ridicolo. Tanto valeva tornare a casa, dato che altri quaranta dollari per rientrare al locale non
aveva motivo di spenderli.
Ma da
qualche parte il destino si era riservato qualcosa di particolare, per quella
sera.
« Oh, finalmente ti ripesco, dolcezza» sentì da poco distante, e solo il pronunciare dell’ultima
parola fu sufficiente a fargli venire alla mente con chi aveva a che fare.
Non era
possibile che fosse incappato in un fissato...
I suoi
occhi si posarono su quelli scuri del ragazzo biondo incontrato al locale, a loro volta fissi sui suoi. Un sorrisetto strano
incurvava le labbra sottili, e adesso era sufficientemente vigile per riuscire
a percepire la pericolosità di quell’espressione.
Non si era arreso, glielo si poteva leggere in faccia.
Voleva
lui.
Ghignò, chissà
perché spinto dal suo istinto. Per la seconda volta si ritrovava a sfidare quel
ragazzo, e per un qualche strano motivo si divertiva anche. « Com’è piccolo il mondo » disse dunque, senza però muoversi
di un passo.
Era deciso
a parlarci civilmente. Erano esseri umani, se gli spiegava che gli era passata
la mania di protagonismo si sarebbe risolto tutto in pochi istanti.
Ma
ovviamente una visione talmente ottimista non poteva essere nemmeno
lontanamente possibile...
« Piccolissimo, infatti » rispose l’altro, avvicinandosi a
lui in pochi passi finchè non gli fu ad una distanza decisamente
troppo ravvicinata, per i suoi gusti. « Spero che tu non abbia intenzione di lasciare in sospeso il nostro
“discorso” » gli disse, sorridendo malizioso: « cominciavo a divertirmi, sei un tipino interessante... » sussurrò, abbassando la voce man mano che anche la sua mano
ricominciava a scendere lungo il suo corpo.
Eric la
fermò prima che potesse avvicinarsi alla cintura.
« Desolato, ma mi sono ricordato di
avere altri impegni » ribatté: « sarebbe un peccato se i miei amici
non mi vedessero arrivare per colpa di una scopata... e poi il locale è pieno
di gente, no? Sono sicuro che... »
« Tu non hai capito, ragazzino » lo interruppe però il ragazzo,
distogliendo la mano dalla sua presa e afferrandogli il mento: « sono io che faccio le regole qui,
e se decido di fottermi qualcuno non lo lascio
scappare. Tu sarai sotto di me stanotte, volente o nolente »concluse,
stringendo la sua mascella con la mano.
Aveva
molta forza, ma non era paragonabile alla sua. Il nuoto lo aveva fortificato, e
il basket aveva limato i suoi muscoli.
Fu facile
liberarsi con uno strattone.
« Spiacente, dovrai scoparti qualcun
altro » decretò, la voce ferma e decisa
nel rifiutarlo di nuovo.
Ma il
biondo non sembrò particolarmente deluso, anzi. Il suo sorriso prese una nota
di sadico divertimento mentre faceva un cenno a qualcuno alle sue spalle,
nascosto nell’ombra del lampione.
Spuntarono
fuori altre tre persone, ed Eric sentì all’improvviso la sensazione di essere
veramente nei guai.
« Ti presento i miei amici, dolcezza
» gongolò il biondo, incrociando le
braccia al petto: « sono persone con gusti molto
particolari, sai... per le violenze sessuali vanno matti ».
Ebbe quasi
la sensazione di aver sentito il proprio cuore mancare di un battito nello
stesso istante in cui la paura gli bloccava la bocca dello stomaco. Non
riusciva esattamente a vedere i volti dei suoi tre “amici”, ma di sicuro vedeva
le loro spalle robuste e i loro bicipiti decisamente
troppo grossi per stare nelle magliette che portavano.
Nonostante
anche lui non fosse messo male a forza, non arrivava a quel livello; e comunque, tre contro uno era una prova troppo grande per le
sue minime esperienze di street fight.
Senza
accorgersene, cominciò a respirare più velocemente. Cominciava ad avere
sinceramente paura.
Non si
mosse mentre i tre gli si avvicinavano, coprendogli buona parte della visuale.
Avrebbe potuto correre, sicuramente sarebbe stato più veloce di loro... ma
dietro di lui c’era il parco, e nemmeno nei suoi più masochistici pensieri si sarebbe infilato in un parco così grande inseguito da un
maniaco sessuale figlio di papà e i suoi tre scagnozzi. Era come invitarli a
cena con te stesso come portata principale.
Eppure
non aveva altre possibilità. Combattere con loro voleva dire farsi sbattere a
terra nel giro di venti secondi.
E
allora addio fichi.
Si mise in
posizione di difesa, i pugni alti come gli aveva
insegnato suo padre quando tiravano arie migliori. Li vide ridere di lui, ma
non si demoralizzò.
Quando il
primo di loro gli prese il polso con forza, la sua reazione istintiva fu quella
di tirargli un dritto direttamente sul naso. Ci mise
tutta la forza di cui era capace, lanciando in avanti con il pugno anche la
spalla, ed effettivamente l’uomo lo sentì, perché lo lasciò andare coprendosi
il naso con la mano. Ma subito il secondo gli fu
addosso, e nonostante fosse riuscito con una certa difficoltà a liberarsi anche
di lui non vide il terzo, la cui mano scattò veloce andando a colpirlo allo
stomaco con un pugno.
Gli mancò
il respiro e sentì in pochi secondi un dolore sordo concentrato nel punto in
cui era stato colpito.
Tossì e,
privo di fiato, si piegò su se stesso finchè non fu inginocchiato a terra; lì
fu poi bloccato, disteso sul cemento finché le spalle non furono a pieno
contatto con esso e immobilizzato a dovere con le mani
sopra il capo.
« Ottimo lavoro » ridacchiò il biondo, che in tutta
l’azione era rimasto in disparte: « e non avete colpito il viso, siete stati molto bravi... ora
tenetelo... » ordinò in un sussurrò
borioso, mostrando in un istante la sua faccia dilaniata dal desiderio di
chinarsi e usarlo come meglio preferiva.
Tentò di
liberarsi ma fu inutile, i tre che lo trattenevano erano come catene, forti del
loro vantaggio numerico.
Stava per
essere violentato come un ragazzino imbecille. Stava per
essere... non riusciva nemmeno a pensarlo.
Tutto perché voleva fare il fenomeno. Tutto perché non aveva dato
ascolto all’istinto e aveva deciso di spegnere il suo cervello versandoci sopra
dell’alcool.
Tremò, si
morse il labbro inferiore... ma non diede la soddisfazione al biondo, ormai
sopra di lui, di piangere.
Non sapeva
più quantificare quanta paura provasse ma mai, maiavrebbe dato la soddisfazione a
qualcuno come quel figlio di puttana di vederlo piangere.
E lui
sorrideva, da quella posizione dominante in cui si sentiva sicuramente così
bene. Ghignava sadico, famelico, probabilmente pregustandosi il momento. Erano
in mezzo ad una strada ma in giro non c’era nessuno... non era possibile che
fosse così sfigato...
Ripensò a Joshua. Se ne era andato perché
lui non voleva ammettere la ragione delle sue parole. Non aveva niente da
spartire con uno che aveva conosciuto si e no da
qualche giorno, così se ne era andato. Magari aveva controllato che riuscisse a
reggersi in piedi... e se ne era andato.
Strinse i
denti a sentire le dita rudi del ragazzo slacciargli uno ad uno i bottoni della
camicia, infilarsi sotto la cintola dei jeans e
carezzare la pelle del bassoventre...
Chiuse gli
occhi, aspettandosi il peggio.
Ma il
peggio non arrivò.
Sentì i
respiri trattenuti delle persone che ancora lo tenevano fermo, una sorta di rantolo
e la sensazione che l’aria attorno a lui si fosse fatta improvvisamente più
fredda. Poi le tre persone lo lasciarono andare, gridando, e scapparono via.
Quando
riaprì gli occhi, una delle scene più strane e rivoltanti gli si presentò nuda
e cruda davanti agli occhi.
Joshua
era in piedi alle spalle del ragazzo dai capelli biondi, ancora a cavalcioni
sopra di lui. Una delle sue mani era conficcata nella schiena dell’altro, che
aveva sul volto un’espressione a metà fra il più orribile dei dolori e l’incoscienza:
i suoi occhi scuri erano vitrei nonostante la smorfia della bocca facesse
presagire un urlo nascosto in gola.
Eric
rimase letteralmente paralizzato dal terrore.
Scostò lo
sguardo su Joshua, cercando in esso
una qualsiasi spiegazione, ma non ne ottenne. Anzi...
notò con orrore che gli occhi del ragazzo non erano più del particolarissimo
colore azzurro chiaro che tanto lo aveva attirato, no. Erano proprio...
bianchi. Erano bianchi.
Osservava
la sua stessa mano affondare dentro il torace del ragazzo senza la minima
inflessione emotiva. Non sorrideva, non ne era
disgustato, non... faceva niente. Era come se quella fosse prassi, abitudine, e
si sa: la normalità non da altro che noia.
« E’ a causa di gente come te che
gli esseri umani mi fanno schifo » pronunciò poi, alzando appena il capo e guardando la testa bionda
della sua vittima – perché altro non poteva essere! – dall’alto in basso. Voltò
poi lo sguardo in direzione di Eric... e il contatto
diretto con quegli occhi così anormali provocò in lui una nuova scarica di puro
terrore.
Ogni fibra
del suo corpo gli diceva di scappare, di nascondersi da Joshua,
o da qualunque accidenti di cosa fosse. Perché, dai! Quell’affare
non era umano!
Joshua
non disse nulla, però. Si limitò a lanciargli una semplice occhiata prima di
tornare alla nuca della sua vittima. « Non ho mai strappato un’anima da un corpo con le mani, le nostre
regole ce lo vietano... sono proprio curioso di vedere
se fa veramente male come dicono » spiegò incolore, come se il ragazzo biondo potesse sentirlo.
E
probabilmente poteva: perché deformò la bocca in un’espressione strana
nonostante i suoi occhi fossero comunque vuoti ed
inespressivi.
Ma non
fiatò. Probabilmente non aveva più la voce necessaria per farlo.
Il
cervello di Eric non riuscì a pensare a niente, al
contempo. Vedeva solo la faccia contorta dal dolore della persona che stava per
violentarlo, e la persona a cui si sentiva assurdamente più affezionato
guardarlo come un Dio che per gli uomini prova solo puro disprezzo.
Non
collegò il cervello quando, girando la mano, l’urlo del ragazzo finalmente
proruppe fra le sue labbra. Non si curò di dare peso alle parole appena
sentite, quando Joshua prese ad estrarre con lentezza
la mano dal suo corpo, come se ne tirasse fuori
qualcosa.
“Gli sta strappando
il cuore con le mani”, pensò per assurdo. Ma non c’era sangue, e l’altro non
sarebbe stato ancora vivo, se veramente fosse stato
così.
No, non
era il cuore... ma qualcosa sì.
Qualcosa di oscuro, che riluceva paradossalmente di una luce nera.
Aveva la forma di un cristallo al cui centro stava una
piccola scintilla luminosa che brillava di nero.
La mano di
Joshua non era insanguinata, sulla
schiena del ragazzo non vi erano ferite. Ma lui l’aveva tirata fuori dal suo corpo, lo aveva visto farlo.
Il corpo
del biondo divenne improvvisamente rigido, cadde al
suo fianco e... non si rialzò più. Era morto, e nonostante lui non avesse mai
visto dei cadaveri non si faticava a crederlo.
Spaventato,
terrorizzato a morte, guardò Joshua ancora una volta:
fissava il cristallo scuro con l’aria di chi non ha visto altro per l’intera
vita e odia con tutto se stesso l’oggetto che tiene fra le mani.
L’altro si
voltò poi in sua direzione.
Eric
sobbalzò, facendosi istintivamente più indietro con i gomiti sull’asfalto.
Probabilmente
il moro notò la sua espressione, che doveva essere decisamente
impaurita. Forse fu una punta di tristezza quella che gli attraversò gli occhi
– erano bianchi davvero! – in quel
momento... ma, se anche era stato, Eric lo ignorò e Joshua
tentò di non darlo a vedere.
Però
parlò. Un consiglio sussurrato come se fosse un incentivo di rassegnazione.
« Torna a casa ».
Un modo
più gentile per dire “fuggi e salvati la vita”.
Eric non
se lo fece ripetere due volte e, dando finalmente sfogo all’istinto, si
allontanò il più possibile da JoshuaArcher.
Corse così
veloce che non guardò nemmeno dove si stava dirigendo. Così, dopo cinque minuti
di corsa sfrenata, si ritrovò suo malgrado a sei
isolati da casa.
Troppo
sconvolto per pensare ad altre possibili tappe, decise di farvi ritorno.
Aveva
bisogno di pensare, di riflettere. Perché quello che aveva
visto fare a Joshua
non poteva essere vero... qualunque cosa fosse.
Era stato
sicuramente un sogno, o un’allucinazione. Poteva avere immaginato tutto in
preda ad una sbronza epica, perché no?
Ma non
ci credeva nemmeno lui. Sentiva ancora il dolore nel punto in cui era stato
colpito, e anche considerando la sua poca resistenza alle bevande alcoliche con
tre Long Island non si arrivava a sbronze da allucinazione.
No. Quello
che aveva visto era... vero. O almeno lo sembrava.
Non
c’erano prove a dimostrare il contrario.
Si portò
una mano alla bocca, appoggiandosi con le spalle al primo muro disponibile. Se
veramente no si era immaginato tutto... Joshua aveva... ucciso un uomo.
Era un
assassino. Lo era... davvero?
Non c’era
sangue, non c’era niente; e l’altro poteva essere solo svenuto, no? Era
talmente spaventato che poteva aver visto male, dopotutto.
Però...
era prettamente sicuro di quello che aveva visto. Il biondo era
morto davvero, non respirava neppure.
E
cos’era quella cosa che aveva in mano Joshua? Cos’era
quella luce nera?
Gli
tornarono improvvisamente in mente le sue parole prima di estrarre il
cristallo, e rimase a bocca aperta nel contemplare quell’assurdità.
Aveva
parlato di anima.
Anima? Com’era possibile?
Non poteva
essere.
... o sì? Esistevano esseri umani in grado di staccare l’anima
dal corpo?
Ma... Joshua era un essere umano?
« Non è possibile » pronunciò a se stesso ad alta
voce, riprendendo a camminare in direzione di casa.
Ovviamente
non era possibile. Doveva essere stato tutto uno scherzo.
...ma chi era così malato dei suoi amici da organizzare un tiro
simile? Chiedendo la partecipazione di Joshua,
persino! Proprio di quel ragazzo che, a parte lui, l’intera università ancora
non aveva avvicinato!
Non
sembrava possibile nemmeno con una considerevole dose di creatività.
Scosse il
capo, ormai in vista di casa sua. Era così scosso, che al momento aveva
solamente la necessità di farsi una doccia e infilarsi sotto le coperte, a
dormire. A schiarire i neuroni dall’alcool, magari, così che
domani mattina avrebbe potuto ragionare meglio sull’accaduto.
Sì, sì...
avrebbe fatto proprio così. Avrebbe aspettato la mattina.
Una volta
all’ingresso prese la chiave di scorta da sotto il vaso sulla destra. La infilò
nella toppa, girò un paio di volte e fece scattare la maniglia. Ma si accorse troppo tardi che la luce della cucina era
accesa, segno che i suoi genitori non erano ancora andati a dormire.
Strano.
Erano le undici e quarantacinque; solitamente andavano in camera non più tardi
delle dieci e mezzo.
Cercando
di calmare il proprio cuore impazzito, tolse la chiave dalla toppa, portandola
in casa con sé. Non aveva la forza di rimetterla a posto, adesso.
Richiudendosi
la porta alle spalle, però, ebbe l’impressione di non essere al sicuro quando
suo padre si presentò sulla porta.
Quello
sguardo non gli piaceva.
Dietro di
lui sua madre, racchiusa tremante nella sua vestaglia, e Alex in pigiama che lo
guardava in piedi a fianco della donna.
Ma
Eric sorrise, vedendoli. Sorrise come da molto non faceva,
sorrise con gratitudine. Perché si era reso
conto di avere una famiglia da cui tornare, e questo era quanto.
Perché
poteva succedergli di tutto, la fuori, ma lui avrebbe
sempre avuto un padre, una madre e un fratello minore al suo fianco. Genitori
che magari non lo accoglievano in casa con un sorriso, o con uno scherzo, ma
che comunque non gli avrebbero mai fatto del male.
« Papà, io... » cominciò, deciso a raccontargli
tutto. Magari poteva consigliargli cosa fare.
« Dove sei stato? » lo interruppe però l’uomo, il tono
duro e severo, ruvido come granito.
Eric perse
il filo, inquietato dagli occhi iracondi del padre. « Io... » balbettò: « fuori con Robert e Douglas » rispose poi, sorpreso di tutta
quell’agitazione.
« Ah sì? » ironizzò Trent:
« e avevi intenzione di dircelo
quando, domani mattina? » domandò di nuovo, la voce che
cominciava a palesare l’irritazione che sicuramente provava.
Se
possibile, Eric rimase ancora più spiazzato da quelle parole.
« Io l’ho detto ad Alex » si difese, spostando lo sguardo
dal padre al fratello minore: «
voi due eravate usciti ed io l’ho detto ad Alex! » esclamò, fissando ora lo sguardo sul fratellino.
« Strano, perché lui non lo sapeva » infierì il padre ed Eric, con suo grande disappunto, vide formarsi un sorrisetto sulle labbra
di Alex.
Lo aveva
fatto apposta. Non glielo aveva comunicato di proposito.
Per
cos’era quella punizione, ora? Che cosa gli aveva
fatto?
Sentì il
panico crescere in lui. In circostanze normali sarebbe riuscito a mantenere la
calma, ma quella sera i suoi nervi avevano avuto un
sovraccarico e non ci riusciva, a fare il serafico.
Osservò il
padre con un moto di panico negli occhi, ripetendo inutilmente la sua difesa: « Ma è vero! Io gliel’ho detto, lui ha mentito! » esclamò.
« VILE! » sbottò di colpo suo padre, e
quello che non successe in piscina ebbe luogo fra le mura domestiche.
Lo colpì.
Un
manrovescio di una forza di cui non lo credeva in grado, che bruciò sulla pelle
come se fosse stata una lingua di fuoco incandescente a colpirgli la guancia.
Avvertì
appena sua madre trattenere rumorosamente il respiro, mentre l’espressione di Alex passava dal gaudio alla sorpresa.
« VILE! » ripeté il padre: « NON SCARICARE LA COLPA SU TUO
FRATELLO! »
« Non sto mentendo! » cercò di difendersi, ma il
risultato fu quello di avere una replica del colpo precedente.
E
anche quello bruciò come l’Inferno.
« TRENT! » urlò sua madre, ma la sua voce
impaurita e distrutta non fu sufficiente a fermare la furia del marito, che
afferrò Eric per il colletto della camicia e avvicinò il viso del figlio al
suo.
« Puzzi d’alcool »constatò:
« che vergogna... non credevo di
avere cresciuto una persona così cafona ed irresponsabile... » considerò amaramente, lasciandolo
andare senza riguardo.
Eric stava
per aggiungere qualcosa, qualsiasi. Voleva difendersi, ripetere per l’ennesima
volta che lui non centrava nulla in tutto quello, che era stata un’idea di Alex e che aveva... passato la serata più schifosa della
sua esistenza.
Avrebbe
voluto pregarlo almeno di starlo a sentire... ma le parole che udì dopo gli bloccarono il fiato e la voce in gola.
« A volte mi chiedo per quale
sfortunata serie di eventi Dio mi abbia punito con un
figlio come te. Alex bastava e avanzava ».
Fu sicuro
di aver sentito qualcosa rompersi, da qualche parte.
Forse era
un cristallo come quello che Joshua aveva estratto
dal corpo del ragazzo biondo... forse ne aveva uno
anche lui, e si era rotto...
Non capì
più nulla. Non sentì le urla della madre, o del fratello che finalmente faceva
la sua mossa per risolvere quella situazione caduta nell’assurdo.
Tutto
quello che vide fu la porta, la sua mano che l’apriva e la notte.
Per il
resto, i suoi piedi lo portarono il più lontano possibile.
Capitolo
super lungo… *si accascia a suolo in trauma post-correzione*.
Vi do il
permesso di linciare TrentEverald.
Bene,
siccome non ho nulla da aggiungere passiamo alle risposte per le recensioni!
Shichan: I tuoi rapporti drammatici con le
descrizioni sono anche i miei, dunque sì, lo so XD e per quanto riguarda Marcus, io te e Gioielledovremo formare un fanclub. Questo
capitolo è stato decisamente più movimentato, ma siccome
tutte le mie impressioni sul caso te le ho comunicate in separata sede, non mi
ripeterò.
Dico solo
che Alex mi sta peggiorando. Poverino, e all’inizio mi stava anche simpatico
(il classico esempio di persona che si flasha anche
quanti nei ha un suo personaggio).
Spero che
sia stato di tuo gradimento, al limite della decenza
XP.
angel15: Se
quello era un capitolo avvincente, io potevo tranquillamente farmi suora XD
anzi, meno male che ti è piaciuto, altrimenti sai che spreco di tempo?
In ogni caso, ti ringrazio molto per il commento; eh sì, Joshua/Abrahel comincia a farsi
prendere un po’ la mano… chissà, magari scopriremo che negli shinigami si celano emozioni come in tutto il resto del
genere umano (come se non si fosse già capito).
Gioielle: Shichan
mi fa pubblicità XD e che recensione lunga =ç= *gode
immensamente* …vediamo di rispondere a tutto con
calma.
Allora,
intanto i personaggi. Sono felice che Abrahel ti
piaccia, davvero XD solitamente i personaggi così negativi non hanno molto
seguito. E se sei fan della coppia è una cosa buona e giusta, prosegui dritto
lungo la via U____U.
Ebbene sì,
Marcus fa la sua uscita anche qui XD ce l’avevo lì che non faceva niente, poverino, ho pensato di
utilizzarlo. Così avrai più sfaccettature per visualizzarti il personaggio
anche su Rinnega, no?
Infine, ti
ringrazio (mi sto ripentendo, vero?) anche per i vari apprezzamenti sullo
stile. Ho una paura sacrosanta di peggiorare, ora ç____ç
…farò del mio meglio.
P.S. mi
dispiace di averti tenuto sveglia fino a tardi X°DDDD
E con
questo si chiude anche questo capitolo: meno tre alla fine!
Le anime degli umani, sia
quelle bianche che quelle nere, erano così fragili che bastava anche solo la
buona volontà per estirparle dal corpo come le erbacce da un campo.
Il regolamento degli Shinigami parlava chiaro, però. Un infinito controsenso di
regole che mirava a rendere più grosso un libro per cui
sarebbe bastata una sola pagina.
Anzi, una sola frase: non stravolgere l’ordinamento delle cose.
Quello era l’importante, il
fulcro, il succo della cosa. Tutte le altre regole, come quella di non
“strappare con le mani” l’anima di un umano a causa dell’immenso dolore che
esso proverebbe, erano solo un contorno inutile.
In altre parole: potevano
essere infrante, raggirate e scartate senza riguardi.
Ma lui, quella notte, era andato oltre.
Avrebbe potuto evitarlo.
Poteva semplicemente stordirlo, o fargli perdere conoscenza. Poteva mandarlo a
sbattere: aveva la forza per farlo - figurarsi - e l’altro non si sarebbe comunque ricordato cosa lo aveva incassato di venti
centimetri in un muro.
Inveceno. Lui aveva
deliberatamente ignorato l’unica regola fondamentale che uno Shinigami non deve mai ignorare: quella dell’ordinamento
naturale.
Aveva ucciso un uomo che non
doveva morire.
E stava cominciando… a pagarne le conseguenze.
Non sapeva nemmeno come ci era arrivato a casa, dopo aver letteralmente divorato
l’anima oscura di quel ragazzo. Per tutto il cammino si era sentito come
febbricitante e la testa non smetteva un attimo di girare, facendogli perdere
molte volte il senso dell’orientamento.
Aveva aperto il portone nel
quadruplo del tempo necessario a causa del suo cuore, che prima batteva
freneticamente e successivamente rallentava sempre
più, fino a quasi fermarsi.
Una volta dentro, si era
lasciato cadere a terra. Faticava ad alzarsi e, anzi, non ce la fece. Dovette
gattonare, strisciare quasi, per arrivare almeno alla vetrata oltre il divano,
sedendosi con la schiena appoggiata al vetro e lo sguardo alla porta.
Aveva la sensazione di avere i
sudori freddi, ma la sua pelle era perfettamente liscia e asciutta. Si sentiva
come se delle tenaglie gli stessero premendo la cassa toracica, ma non era
vero.
Ansimava inutilmente come se
avesse corso per chilometri quando aveva fatto si e no
quattrocento metri, camminando lentamente e appoggiandosi ad ogni muro
disponibile.
Sentiva fitte allo stomaco che
diventavano sempre più pungenti e violente.
Erano sensazioni umane…
quelle?
« Schifosi esseri… umani… »
ansimò, tenendosi lo stomaco e piegando le ginocchia al petto più che poté.
Moltissime altre volte si era
nutrito di anime oscure - alcune ancora più nere di
quella del porco che aveva ucciso quella sera! - ma
nessuna gli aveva mai causato questi sintomi.
Solitamente, la cosa si risolveva
in un semplice e diffuso malumore che durava si e no
qualche giorno.
Ma c’era da precisare… che di solito non si nutriva di
tutta l’anima. Solo dell’energia vitale, dato che lo spirito vero e proprio lo
accompagnava nell’aldilà.
Invece
questa volta aveva ingoiato tutto.
Aveva fatto sparire tutto.
E provava una certa soddisfazione.
«Nh! Cazzo! » si lasciò sfuggire ad una fitta più forte delle altre,
che gli fece mancare il battito cardiaco per qualche istante. Socchiuse gli
occhi e, con sua sgradita sorpresa, gli cadde lo sguardo sulle mani e i polsi:
la pelle si stava riempiendo di macchie nere e sentiva le dita tremendamente
intirizzite, come se il sangue non arrivasse più fin lì.
Era quello il limite dei corpi
umani, dunque? Era quello il dolore che si provava quando si stava male, per
malattie o ferite?
Erano veramente così deboli,
vulnerabili? Come facevano ad affrontare una natura così spietata con un corpo
che sembrava fatto di vetro, da quanto era fragile?
Non riusciva nemmeno a
sopportare un’anima nera… o forse non era per quello?
Magari era proprio perché
aveva rotto l’ordinamento naturale delle cose…
…non gli importava. Per quanto
poteva sforzarsi di far credere a se stesso di aver agito per se stesso, in realtà non era vero.
Se avesse agito per se stesso, avrebbe sterminato
l’intera razza umana. Se avesse agito per se stesso,
avrebbe lasciato perdere e sarebbe tornato all’interno della sua cappa di
silenziosa e solitaria oscurità.
Aveva agito per Eric. Aveva
fatto tutto per salvare Eric. Per salvare la persona che avrebbe dovuto uccidere.
Mai, nella sua esistenza, si
era lasciato prendere dalle emozioni umane. Mai ne aveva
provate di così forti.
Era stata… rabbia? Gelosia? Possessività?
Forse tutte, o forse
sbagliava.
Non lo sapeva.
Di suo, sapeva solo che faceva
tremendamente male. Tutto faceva
male.
Sia le emozioni che quel
dolore sgradito che gli intorpidiva i muscoli e
incrinava le ossa. Come se ci fosse una mano attorno all’ulna e stesse
stringendo e attorcigliando l’avambraccio per rompergliela nel peggior modo
possibile.
E aumentava, saliva di intensità senza fermarsi.
Strinse i denti ma non urlò.
Peccava d’orgoglio, forse, ora che lo aveva scoperto.
« Stupidi… maledetti… esseri umani! »
« Non sono loro, purtroppo, il maggiore esempio di stupidità
in questo mondo » esordì una voce da una parte indistinta
dell’appartamento, come se fosse l’aria stessa a parlare: « in questa stanza ce n’è uno di gran
lunga più grande, e giuro che non sono io »
completò, ironico nonostante la voce risuonasse per lo più piatta.
La riconobbe solo quando,
osservando di fronte a se, vide gli strascichi di un kimono nero punteggiato di
gigli ragno* scarlatti come sangue.
Non dovette alzare oltre lo
sguardo per riconoscere Enma.
Rise. Con tutta la macabra
ironia che poté inserire nella sua risata.
« Quale onore, il capo… degli Shinigami
in carne e… ossa » ansimò, sciogliendo la posizione a
allungando le gambe sul pavimento. Anche la piccola porzione di caviglia che si intravedeva dai pantaloni sembrava livida, e non faticava
a credere che tutti i suoi arti si stessero riempiendo di macchie nere.
Sembrava…
« Più in spirito che altro » lo corresse Enma,
scostandosi dal volto pallido una lunga ciocca di capelli corvini: « ti stai decomponendo, hai
notato? » osservò con semplicità, posando di malagrazia il piede
sulla caviglia destra di Abrahel.
Sentì una scossa di dolore
attraversargli il corpo come aghi, ma non gli sfuggì dalle labbra altro che un
piccolo gemito. Ridacchiò nuovamente, ignorando il sapore ferroso in bocca del
sangue proveniente dal labbro che si era appena morso: « ho visto… » rispose con
tranquillità, ostentando un controllo che faticava a mantenere.
Enma sbuffò, tremendamente annoiato. « A volte mi chiedo cosa dovrei farci con te, Abrahel» cominciò, premendo
volontariamente più forte il piede sulla caviglia dell’altro.
Lo Shinigami
resistette stoicamente.
« Scommetto che stai cominciando a chiederti per quale
motivo riesci a provare sensazioni umane » continuò Enma: « sai, è normale. Tu fai sempre come ti pare, e io
per non giocarmi i tuoi servigi molte volte lascio correre... non è mica facile
trovare qualcuno che raccolga le anime impure al
giorno d’oggi » divagò, perso in un filo logico che sembrava conoscere solo
lui.
« Si può sapere cosa c’entra?
» domandò bruscamente Abrahel, ma fu obbligato molto
presto a pentirsi del suo tono: il piede di Enma si fece più pesante sulla sua caviglia, provocandogli
altro dolore.
« Non usare quel tono con me »
lo riprese quasi bonariamente, esprimendo con la voce tutto
l’opposto di ciò che mostrava a gesti. « Te lo spiego subito cosa c’entra. Mentre tu giochi a fare il disperato dall’esistenza, passando
secoli in quel tuo buco nero e solitario, gli altri Shinigami
lavorano; e sono sicuro che il verbo “lavorare” non ti suona nuovo nonostante
la tua incostanza professionale » spiegò, a metà fra l’accusatorio e l’ironico:
« il fatto sta tutto qui: quando io ti mando sul mondo degli umani per un
incarico, tu non segui mai le regole. Non passi con la persona designata
la settimana prevista, come fanno tutti gli altri, così che ti capita di rimanere
influenzato dagli umani quando ci passi troppo tempo insieme. E’ come se tu
fossi l’unico ad esserti beccato il raffreddore perché i tuoi colleghi hanno
gli anticorpi! » spiegò, la voce contenta di chi non vedeva l’ora di svelare
quel piccolo mistero.
Abrahel non ribatté nulla.
Ora capiva l’utilità di tutte
quelle regole senza senso che gli dei della morte si erano auto-imposti. Capiva
cosa si nascondeva dietro la settimana di tempo, la necessità di conoscere le
proprie vittime, il bisogno di stare sul Mediano più tempo del necessario.
Serviva per
essere neutrali.
Dopo anni in cui si
accompagnano anime di persone conosciute nell’aldilà
si comincia a capire che è inutile, affezionarsi. Si comincia a perdere
interesse nelle proprie vittime.
Si guadagna indifferenza e,
con essa, la neutralità perfetta.
Lui non era preparato. Si era sempre rifiutato di seguire quelle regole reputate inutili più
d’una volta, non aveva mai lasciato trascorrere una settimana. Aveva
disprezzato talmente tanto gli esseri umani da non voler nemmeno prendere in
considerazione di passare con uno di loro più del tempo necessario e,
appoggiato dal silenzioso assenso di Enma, non aveva mai prestato attenzione alla verità che si
celava dietro quelle leggi di convivenza fra Shinigami
e umani.
E, come risultato di tutto
ciò, per capriccio – per rabbia – era
arrivato ad infrangere le leggi di natura, uccidendo qualcuno che non doveva
morire per salvare colui che avrebbe comunque dovuto
uccidere.
Si sentiva uno sciocco di
dimensioni bibliche.
Non guardò Enma
in volto, ma fu sicuro che un sorrisetto beffardo giacesse su quel viso dai
lineamenti perfetti, mentre lo osservava dall’alto in basso.
« Il tuo silenzio è una
risposta soddisfacente » osservò, alzando la mano sinistra per puntarla in sua
direzione: « e ora, se permetti, devo riprendermi un’anima ».
Non fu totalmente sicuro di
ciò che sentì, ma un brivido gelido gli immobilizzò il corpo all’improvviso. Enma stava usando i suoi poteri – poteva sentire sulla
pelle quell’aura potente e temibile – e seguendo i movimenti della sua mano la
sua energia spirituale prendeva forma, seppur invisibile, chiudendosi intorno
al suo collo come un cappio.
Gli mancò presto il respiro,
quando la stretta si fece più violenta, e pian piano si sentì sollevare per il
collo fino a che non si ritrovò prima in piedi, poi sollevato da terra.
Non poteva di certo morire, ma
la sensazione di soffocamento era fastidiosa. Così come non poteva perire sotto
le fitte di dolore che gli scivolavano su tutto il corpo, ma percepiva quel
male fisico fin troppo bene.
Era quella la sensazione più
fastidiosa degli esseri umani? Era quello ciò che
sentivano quando si ferivano, o venivano feriti?
Pensavano di morire, sotto
l’effetto di quel dolore?
Gli sfuggì una
smorfia che poteva essere interpretata come un sorrisetto sarcastico.
Per lui, pensare alla morte
era l’apoteosi del paradosso.
« Cosa
c’è di così divertente? » domandò Enma, trattenendolo
sollevato in aria senza apparente difficoltà.
« Proprio niente... » rispose Abrahel con un filo di voce, sprecando in quelle due parole
il poco fiato che aveva trattenuto. Nuove ondate di dolore proruppero dai suoi
muscoli, tirati come se si dovessero spezzare da un momento all’altro.
« Bene,
appunto » sorrise il demone: « perché io ho da fare. Non posso lasciare che tu assimili un’anima non
destinata alla morte, anche se penso che ormai quel poveretto non potrà più
essere riportato alla vita... sarebbe di certo strano,
anche se ilare, se si sollevasse dal tavolino dell’obitorio sul quale i suoi
genitori stanno piangendo » gongolò, per poi aggiungere: « se la vedranno
nell’aldilà con la sua anima. Ma dato che tu te la sei ingoiata con tanto
affetto, e hai fatto confusione come un fenomeno da baraccone... ho deciso di farti provare quello che ha sentito quel
ragazzo alcuni istanti prima della sua morte! » esclamò.
Joshua non ebbe nemmeno il tempo di decifrare tutto il suo
discorso, che si trovò la mano di Enma
completamente inserita nel petto. Rimase qualche istante a guardarla prima che
sentisse la reazione del suo corpo: un dolore sordo che con le fitte sentite
fino a quel momento non aveva niente a che fare. Sembravano carezze, anzi.
Non urlò, però. Non si
concesse la vergogna di reagire come un comune umano.
Lui era un dio della morte. E
se quella era la punizione per avere infranto l’ordine
naturale, l’avrebbe affrontata a testa alta.
Enma sogghignò. « Testardo come sempre... » sussurrò
divertito.
Abrahel sostenne lo sguardo, ma dovette mordersi le labbra per
non gridare quando la mano all’interno del suo petto cominciò a muoversi, alla
ricerca dell’anima oscura di quel ragazzo biondo.
E lo faceva apposta, Enma, a
non estrarla subito. Lo faceva apposta e si
vedeva dagli occhi.
« Ah! Trovata! » gongolò dopo
qualche istante, in cui il dolore per Joshua era
diventato così forte da fargli fischiare le orecchie.
La estrasse con un colpo
secco, ma quando essa abbandonò il suo corpo gli sembrò che non il cuore, ma
qualcosa di più profondo gli fosse stato strappato via. Come se Enma avesse attraversato le vertebre della spina dorsale,
afferrato i fasci di nervi nel midollo spinale e tirato con forza fino a
strapparli, facendoli passare dalla cassa toracica.
Questa volta dovette urlare. EdEnma non poté esserne più che
soddisfatto.
« Male, eh? » sfotté: « e
pensa che non è nemmeno la tua anima... ovviamente, dato che quelli come noi
non ne sono provvisti. Se
fosse stata tua sarebbe stato anche peggio » spiegò, rimirando il cristallo
corvino mezzo rotto che si era ritrovato in mano.
Lo lasciò andare e lui cadde a
terra, rimanendo riverso sulla moquette. Riprese a respirare,
ansimando, senza però trovare la forza di alzarsi, o di mettersi anche solo
seduto.
« Ti riprenderai in un paio
d’ore. Ma tu guarda com’è messa quest’anima, porca
miseria... » disse.
Si immaginava il suo sguardo ilare che lo fissava
dall’alto della sua potenza, compiaciuto della vista di lui a terra, inerme.
Non che comunque
avrebbe avuto molte possibilità, contro Enma.
« Voglio che finisci il
lavoro, capito? » riprese dopo qualche istante di silenzio: « porta quell’anima nell’aldilà e vedremo di chiudere un occhio sul
tuo errore di questa notte. Tanto passerai come minimo
altri due secoli a compiangerti cercando di cancellarti, dunque non credo che
ti tocchi molto da vicino questa faccenda » disse, incamminandosi a piccoli
passi verso un punto imprecisato della stanza.
Non lo seguì con lo sguardo,
ma parlò.
« Non voglio più avere niente
a che fare con Eric Everald » pronunciò, deciso
nonostante il dolore al petto non fosse ancora passato, anzi.
Enma si fermò. I tonfi sordi dei suoi passi sulla moquette
cessarono di colpo.
« A quanto
pare non hai sentito quello che ti ho detto ».
« Ho sentito » confermò però Abrahel: « e io ti rispondo che non voglio più avere niente
a che farci. Manda un altro Shinigami,
io ho chiuso » decise.
Era meglio così. Se per quell’essere umano era arrivato persino ad uccidere
qualcuno il cui tempo non era ancora scaduto, era meglio così.
Per lui Eric non era nessuno! Nessuno di così essenziale da andare contro ogni legge e sputare in
faccia al destino. Se nel fato era scritto che
dovesse venire stuprato, allora sarebbe dovuto accadere. Lui – loro, gli Shinigami
– erano al di fuori degli schemi del destino, per
quello amministravano la morte!
Non avrebbe dovuto salvarlo.
Non avrebbe dovuto uccidere nessuno per lui.
Eric Everald non era niente,
per lui.
Ma suonava tanto come un’auto-convincimento bello e buono.
Il demone fece qualche passo
indietro, piegandosi sulle gambe per essere più vicino al suo volto, ancora
attaccato al pavimento.
« Parlerò chiaramente, Abrahel » premise, il tono tranquillo e rilassato di chi
parla del tempo, o di una nuova notizia sul giornale: « non me ne frega niente
se provi qualcosa per quell’essere umano, sai? Anzi, sono convinto che un altro
po’ di tuo tormento interiore mi ripagherà per il casino che hai combinato nei
piani del Destino con la tua improvvisa bravata. Nessuno prima di te si era
approfittato così tanto della sua astensione dalle leggi del Fato, e ancora spero vivamente che questo non comporti guai in merito.
Premesso ciò... » una piccola pausa, un sospiro non troppo rassegnato: « stai
incollato a quell’anima fino a venerdì notte, portala nell’aldilà e non provare nemmeno a disobbedire al mio
ordine, chiaro? Altrimenti giuro che troverò il modo di
consumare la tua inutile eternità in uno degli ultimi gironi dell’Inferno »
concluse.
Si alzò di
nuovo per poi sparire nel silenzio.
Abrahel sospirò, chiudendo gli occhi.
Le ore non furono due, ma
quattro. Erano ormai le cinque del mattino quando riuscì a sentire le gambe
come nuovamente parte del suo corpo; il sole all’esterno stava per sorgere e un
lieve chiarore dorato illuminava fievolmente la stanza.
A fatica si sollevò da terra,
aiutandosi con le braccia per mettersi nuovamente in piedi. I dolori erano
spariti del tutto, così come i lividi su braccia e gambe, ma di essi rimaneva il ricordo.
Aveva scoperto non potersi
nutrire di anime intere. Probabilmente, l’anima di un
essere umano in un corpo sprovvisto di essa ma
completamente diverso da quello di partenza non era compatibile.
Come un parassita, l’anima
estranea divorava la forza vitale del corpo che la ospitava. E
nonostante lui fosse uno Shinigami, la cosa non
faceva differenza.
Non si fidò di se stesso nel
muovere un passo verso il tavolo, ma il corpo resse perfettamente; era
finalmente tornato tutto alla normalità.
Si sedette, non sapendo
cos’altro fare. In realtà avrebbe dovuto uscire e
cercare Eric... ma disse a se stesso di non muovere un solo passo se in mente
aveva quell’obiettivo.
Sì, avrebbe concluso
il suo lavoro. Ma questo non voleva dire che dovesse ancora seguire i movimenti
di Everald passo dopo passo.
Si sarebbe limitato a stargli
lontano, presentandosi da lui a tempo debito. Mancavano ancora due giorni, se
si prendeva in considerazione che il giovedì era cominciato da appena cinque
ore, dunque non avrebbe dovuto sopportare per molto quel maledettissimo
soggiorno sul Mediano.
Ne aveva abbastanza dei sentimenti.
Fu però in quel momento che,
spezzando il silenzio del primo mattino, due colpi secchi alla porta lo
bloccarono completamente.
Osservò l’ingresso senza
rispondere, poiché non era difficile passare in rassegna chi fosse alla porta.
Non conosceva nessun altro che
sarebbe venuto a bussare a quell’ora del mattino. Anzi, si poteva dire che non
conoscesse nessun altro e basta.
« Joshua?
» sentì, e il suo nome pronunciato da quella voce fu sufficiente.
Si alzò, raggiungendo la porta
in pochi passi; afferrò la maniglia con decisione, aprendo quel tanto che
bastava a poter vedere chi vi fosse dall’altra parte.
Occhi e capelli castani, viso
pulito, espressione di chi ha passato l’ennesima notte
in bianco. Eric Everald, ovviamente.
La realizzazione
dell’unica eventualità che sembrava così assurda da non poter essere presa
nemmeno in considerazione.
« Quale stupido correrebbe
dritto per dritto nella tana del lupo, se non tu? » considerò ad alta voce,
lasciando la porta aperta e tornando sui suoi passi. Gli sembrava totalmente
inutile, ora, essere ospitale e cortese; così come non aveva senso correre a
mettersi le lenti a contatto per coprire le iridi bianche.
Sentì Eric entrare e poi
chiudersi la porta alle spalle. Tuttavia, mentre Joshua
si risiedeva sulla sedia precedentemente occupata,
l’altro non si sostò dalla soglia.
Lo guardava fisso, aggrottando
le sopracciglia come se stesse trattenendo il respiro dal momento in cui aveva
messo piede dentro quella casa.
EJoshua cominciava veramente
a spazientirsi. « Cosa sei venuto a fare? » domandò
rude, puntandogli addosso gli occhi candidi senza
nemmeno provare a trattenere la seccatura che sentiva.
Quarantotto ore e sarebbe
tutto finito. Doveva solo resistere e non concludere
il lavoro prima.
Sempre che ci fosse riuscito, ovviamente.
Scosse appena il capo, come
per cancellare quel pensiero sfuggito al suo precario controllo. « Allora? »
incalzò.
Eric deglutì, cercando forse
il coraggio di spiccicare finalmente parola.
Aveva una guancia molto
arrossata, osservò.
« Quello che hai fatto... »
cominciò poi l’altro, rimanendo di schiena alla porta ma trovando la forza di
guardarlo fisso negli occhi: « ...tu l’hai... cioè,
lui è... »
« Morto » concluse
lui con naturalezza: « Sì, lo è » precisò.
Lo vide sobbalzare appena, ma
la sua decisione sembrò non vacillare di molto. Probabilmente si era preparato
bene, prima di presentarsi da lui. « E quello che hai preso... era... »
« L’anima » concluse
lui ancora una volta, pacatamente.
Gli sembrava inutile fingere,
ormai. Sia per una questione di tempo sia per credibilità.
Lo aveva visto fare quello che
aveva fatto, e lo stesso Eric doveva aver considerato di non esserselo
immaginato, altrimenti non si sarebbe presentato da
lui con il dubbio di fare la figura del deficiente.
Eric credeva in se stesso...
dunque perché non poteva crederci anche lui?
Il castano deglutì, scostando
lo sguardo sul pavimento. « Tu cosa... sei? » chiese poi.
« Dovresti esserci arrivato da
solo » intervenne però Abrahel: « coraggio, prova ad
ipotizzare » lo sfidò, in bocca il sapore dell’ilarità.
Eric era evidentemente in
difficoltà, ma si vedeva che aveva capito qualcosa. Però
non scappava, non fuggiva lontano da quella casa.
Perché?
« Sei una specie di dio...
della morte » rispose il castano con voce incerta, ma tuttavia decisa.
Joshua spense il suo sorriso in una smorfia, annuendo con il
capo. « In oriente ci chiamano Shinigami » rivelò,
osservandolo attentamente per tutto il seguito della rivelazione: « fra noi
usiamo spesso questo appellativo » concluse brevemente,
senza distogliere gli occhi dal volto basso di Eric.
Non sapeva cosa si celava al di là del suo sguardo, puntato testardamente verso il
basso a fissare il pavimento. Sperava paura, in cuor suo, ma qualcosa gli
diceva che Eric non era quel tipo di persona che si lasciava spaventare due
volte dalla stessa cosa.
Come se fosse qualcuno che si
scottava e si ricordava l’accaduto non per evitare la prossima ustione, ma per
evitare di urlare quando avrebbe risentito quel dolore.
Fu quando il castano sollevò
lo sguardo, guardandolo dritto negli occhi, che Joshua
si convinse di aver visto giusto.
« Non mi interessa
» pronunciò e, per qualche assurdo motivo, ad Abrahel
venne da ridere.
Sorrise, in
effetti, accomodandosi meglio sulla sedia nonostante fosse di per sé abbastanza
scomoda. « Non ti
interessa... » sussurrò a se stesso: « dovresti pensare più volte a ciò
che dici » intervenne, nascondendo l’irritazione in quel ghigno icredulo.
« Ci ho pensato bene »
intervenne subito Eric.
« Certo, certo... »
« Non darmi il contentino! »
sbottò poi, battendo rumorosamente un pugno contro la porta. Il gesto fece in
modo che Joshua tornasse a guardarlo, questa volta
però senza sorridere.
Lo squadrò letteralmente.
« Dici di aver capito, vediamo
allora se hai capito » lo sfidò, alzandosi in piedi senza però avvicinarsi: «
sono un dio della morte nel mondo degli umani; secondo te cosa ci sono venuto a
fare? » domandò, ancora sulle labbra quell’aria di sfida che non riusciva a
scrollarsi di dosso.
Odiava le persone che usavano
il verbo “capire” con troppa leggerezza. Nessuno capiva mai veramente. Mai.
Eric affrontò i suoi occhi per
qualche istante, ma poi fu costretto a rimirare di nuovo i listelli del
parquet. « Lo so... » aggiunse poi, sussurrando come se stesse rivelando un
segreto: « è per... me? » chiese poi, ma aveva tutto il sapore di una domanda
retorica.
Abrahel non ribatté subito. « Se
l’hai capito cosa ci fai qui? » domandò di nuovo, talmente incredulo da essere
quasi arrabbiato.
Non poteva essere veramente
così stupido da buttarsi nell’agguato del lupo di sua spontanea volontà.
Non poteva essere così...
disperato.
L’altro temporeggiò,
evitando una risposta per più tempo poté. Trovò la forza di rispondere
solamente dopo qualche istante di silenzio, in cui Abrahel
si era quasi deciso a chiudere il discorso e a chiedergli di uscire.
« Ho solo te » uscì dalle
labbra di Eric, e Joshua
sperò vivamente di aver sentito male.
« Prego? » se ne uscì,
sarcasticamente incredulo.
« Hai sentito! » esclamò
l’altro risentito: « smettila di trattarmi come se fossi un povero pazzo! »
« Tu sei pazzo Everald,
è quella la differenza! » sbottò lo shinigami
a sua volta, alzando la voce per la prima volta in non ricordava nemmeno quanti
secoli. O forse non l’aveva mai fatto, semplicemente.
« No invece! » si difese Eric,
a corto di argomenti con cui ribattere.
EJoshua lo notò. Non sapeva
nemmeno lui di preciso per quale motivo si era presentato a casa sua, lo si vedeva dagli occhi.
Sospirò. Maledetto Enma e i suoi incarichi con le anime pure!
Sentì i suoi nervi calmarsi, e
provò al contempo una poco famigliare sensazione di insoddisfazione.
Non fu lui però, questa volta, a riprendere parola.
« Senti... » cominciò Eric,
facendosi avanti di un passo. La luce del sole si era rafforzata, ed era abbastanza
potente da illuminare bene il suo volto.
Sembrava stravolto;
probabilmente lo era. E aveva visto bene in
precedenza, una guancia era arrossata.
« Io non so perché sono qui,
va bene? So solo che mio padre mi ritiene uno scarto della natura e non mi è
venuto in mente nessun altro posto dove poter andare. Sono ore che vago adHeaven’s Park rimuginando su
ciò che ti ho visto fare, ma nonostante io sappia che dovrei dipingerti come un
mostro portatore di morte, io... non ci riesco » spiegò velocemente, la
decisione negli occhi che a tratti si trasformava in dubbio: « non so più...
dove sbattere la testa, ok? Dovrei scappare? Non vedo il perché. Se il tuo
obiettivo è uccidermi... – un tremito nella voce lo
tradì - ...lo farai comunque, no? Anche se fuggo. Io
non voglio andarmene, perché nonostante tutto non...
ti sento come un pericolo » terminò, calando il volume della voce man mano che
la frase andava finendo.
Abrahel non seppe come o cosa rispondere. Poteva affermare che
Eric Everald era di gran lunga
la creatura più strana che avesse mai incrociato lungo il proprio cammino, e
che qualcosa in quel ragazzo decisamente non funzionava a dovere: l’istinto gli
diceva “vai, diventagli amico” anche quando, svelata la sua natura e il suo
scopo, avrebbe dovuto urlargli “scappa il più lontano possibile e vedi di non
farti trovare nemmeno dalle formiche”.
Era sbalordito, stupito ma, in
percentuale minore, persino... sollevato.
Forse contento di quella
novità.
Si rese conto di non riuscire
a tollerare il pensiero di fargli del male nell’esatto momento in cui abbandonò
inconsciamente il suo sguardo burbero, avvicinandoglisi.
Inizialmente gli si fermò
semplicemente di fronte, come se dovesse avvicinare un animale impaurito.
Eric non si mosse, nonostante
non si perdesse nessun suo movimento.
Poi sollevò il braccio
sinistro, portando con una lentezza spropositata la mano a sfiorare la guancia
lesa del castano.
Sobbalzò appena al tocco, ma
ancora non si spostò.
Abrahel si lasciò sfuggire un lieve
sorriso. « E’ stato lui? » domandò poi, sfiorando la pelle con il dorso delle
dita.
Sentì Eric sospirare, per poi
appoggiarsi con il viso alla mano: « sì » disse solo, non avendo forse
nient’altro da aggiungere.
Fu il castano a fare la mossa
successiva. La tensione fra loro sembrava essere d’un
tratto sparita, ed Abrahel capì improvvisamente
quanto forte poteva essere il significato di un gesto a dispetto delle parole.
Eric coprì la distanza che li
separava con un passo, appoggiando la fronte sulla sua spalla e le mani sulla
sua schiena.
Un abbraccio che teoricamente
non aveva niente di particolare, ma che riuscì a lasciare perplesso Joshua per un po’; finché il suo corpo non rispose al posto
del suo cervello, per lo meno, ricambiando il gesto.
« Grazie » mormorò Eric: « mi
hai salvato la vita... anche se non so quanto mi è convenuto » ironizzò, o
cercò di farlo.
« Già » ribatté Abrahel: « forse avrei dovuto lasciar correre. Ma non
potevo, non ce l’ho fatta » spiegò a voce bassa,
limitandosi ad appoggiare la guancia sul capo di Eric, che di spostarsi non
aveva la minima intenzione.
Ci vollero alcuni
secondi prima che Eric esponesse la domanda successiva, quasi
sicuramente serviti per elaborarla e accettarla come reale: « quanto tempo mi
rimane? » domandò, e questa volta la voce non tremò.
« Una settimana dalla prima
volta che ci siamo incontrati » rispose automaticamente Joshua.
« Sabato... » sussurrò il
castano, aumentando di un poco la stretta.
« Venerdì a mezzanotte... »
corresse lui, sussurrando a sua volta, come se temesse quelle parole. Come se
fossero state lame acuminate puntate contro l’anima di Eric,
fatta di puro cristallo bianco. Come se avessero potuto scheggiarla, o
romperla, o scurirla.
Ancora attimi di silenzio,
ancora una domanda: « farà male? » domandò, e Joshua
considerò un bene che il castano non lo stesse guardando direttamente.
Aveva appena scoperto di avere
degli scrupoli, e non erano mai i compagni ideali di un dio della morte.
« No » disse infine: « a dire
il vero è abbastanza ironico, è come un bacio » disse, portando distrattamente
la mano destra a carezzare i capelli sulla nuca dell’altro.
« Il bacio della morte...
poetico » ci scherzò sopra Eric, cercando con tutto se stesso di sembrare
convincente... anche se non ci riuscì. Un leggero tremore delle spalle rivelò
la sua paura, normale e dovuta dato l’argomento
trattato.
Non rispose. Non si sentiva in
diritto di commentare o di aggiungere qualcosa; non desiderava cercare di
consolarlo se per sbaglio poteva ferirlo con parole scelte male.
Dopotutto non era umano, nonostante
cominciasse a sentirsi tale; ed era l’assassino, soprattutto.
Dovette però interrompere quel
silenzio, così come l’abbraccio; con delicatezza lo afferrò per le spalle,
spostandolo da sé il tanto necessario per poterlo guardare negli occhi. Fu irrimediabilmente
contento quando non mostrò insicurezze, alla vista dei suoi occhi anormali.
« Dovresti passare il tempo
che ti rimane con qualcun altro » disse poi: « magari tentare di tornare dalla
tua famiglia, di sistemare le cose... » ipotizzò, ma Eric scosse il capo.
« Non metterò piede in quella
casa se non sarà strettamente necessario » affermò con decisione.
« Senza offesa per la
franchezza, ma stai per morire, mi sembra che sia strettamente necessario » ribatté.
« Decido io se è o meno strettamente necessario » rispose l’altro: « è adesso
non lo è. La mia priorità è passare del tempo in un posto in cui posso stare
tranquillo e a mio agio, e che tu ci creda o meno, è
questo » aggiunse, osservandolo con occhi che non ammettevano repliche di
nessun genere.
Si trattenne dallo sorridere di nuovo, nonostante quelle sue affermazioni
gli facessero effettivamente piacere. Ancora si sorprendeva di come riuscisse a
considerarsi un pericolo e, al contempo, ad essere lusingato delle parole che
Eric gli rivolgeva.
Guardandolo, sfiorandolo...
pareva sentire, da qualche parte dentro di sé, l’affetto che aveva
disperatamente tentato di zittire. Per la prima volta si lasciò andare, dando
via libera ai sentimenti che sembravano averlo invaso, passati dal castano a
lui come i virus di una malattia infettiva.
E considerò che essere simili agli umani non era così...
malvagio. Che loro non erano quei mostri che per millenni aveva
dipinto nella propria mente e nei propri pensieri, esternati spesso con parole
tutto fuorché benevole.
Scostò con lentezza la mano
dalla spalla alla gota dell’altro, sfiorando la pelle del viso come se fosse la
prima volta, o come se stesse seguendo i lineamenti di una scultura di valore.
Passò con le dita sulla gota, poi sulle labbra, dove si soffermò per un attimo,
osservandole.
Eric sorrise lievemente. «
Vorresti baciarmi? » buttò lì con ironia, senza però scostarsi dal tocco di Joshua.
« Ti ucciderei,
non posso » rispose sinceramente, senza riflettere; era troppo
concentrato su quelle labbra per fare attenzione a ciò che diceva.
« Non hai detto che non vuoi,
però... » notò furbamente l’altro, sogghignando.
Finalmente, gli occhi bianchi
di Joshua tornarono su quelli castani di Eric. « Ciò che voglio e che posso fare di solito
difficilmente combacia » osservò seriamente; non sapeva con esattezza come gli
fosse arrivato così vicino da notare la lieve sfumatura azzurra che avevano le
sue iridi alla luce del sole, ormai quasi completamente sorto, ma al momento
sembrava non interessargli troppo.
Occhi che si socchiusero,
mentre il volto si allungava in direzione del suo, ormai fin troppo vicino: «
non ci sono solo le labbra a disposizione... » alluse Eric in un sussurro
smodatamente voglioso.
Un ghignò
si disegnò sulle labbra sottili di Joshua, rapito dal
castano come se al mondo non esistesse altro di più prezioso: « è come
assaggiare una torta senza poter mangiare la ciliegina » osservò, scherzoso e
malizioso al contempo.
Qualcosa, nel più profondo di
lui, si stava agitando. Sentiva il bisogno di baciare quelle labbra, nonostante
fosse consapevole di non poterlo fare, e di continuare assaggiando il sapore
della sua pelle e del suo corpo. Attrazione, forse desiderio;
di quelli malati che mettono la ragione al chiodo e denudano l’istinto.
Un istinto troppo giovane il
lui, neonato si potrebbe dire, e dunque talmente imponente da lasciarlo
completamente in propria balia, escludendo la razionalità da ogni sua
conseguente azione.
Se si sarebbe o meno pentito, se fosse stato giusto o meno, se avrebbe o
no incontrato dei guai dopo... non sapeva dirlo, o considerarlo.
Tutto ciò che vedeva era Eric Everald.
« Potrei
prenderti in parola, fa attenzione » ironizzò, scostando con le dita i
capelli dal suo collo, accorgendosi improvvisamente di quanto sembrasse
delicato nonostante i tanti anni di sport.
« Secondo te perché sono
ancora qui? » domandò retorico il ragazzo, portando la propria mano a toccare
la guancia dello shinigami, che non si mosse.
« Perché sei
un masochista » fu la risposta schietta.
Eric ridacchiò,
sinceramente divertito: « forse » disse: « prendilo come l’ultimo desiderio, ad
un condannato si concede sempre » aggiunse poi.
« Hai desideri particolari,
per un condannato » mormorò Joshua, chinandosi a
baciargli il collo al di sotto della mandibola,
scendendo man mano che le mani risalivano sulla sua schiena, alla ricerca del
metodo più breve per liberarsi della leggera camicia bianca.
Eric si lascò toccare, inclinando di lato il collo senza impedire a
Joshua di poggiarci sopra le labbra.
« Non sono diversi da quelli
di tutti gli umani... » riuscì a pronunciare prima di chiudere gli occhi, e
lasciarsi andare.
Non ci volle molto perché
arrivassero in camera, più in penombra rispetto al salotto a causa delle
serrande ancora abbassate. Il letto era ancora sfatto dalla mattina precedente,
ma non fu un problema per Joshua spingere Eric ad adagiarvisi sopra; la camicia ormai completamente
sbottonata sotto di lui, disteso supino sulle lenzuola.
Rimase ad osservarlo per
qualche istante, passando al contempo le dita della mano destra lungo tutto il
torace e il ventre, fino alla cintura dei jeans ancora
allacciati.
Non sentiva il bisogno di
andare di fretta, così come il castano non pareva fargliene; lo guardava ad
occhi socchiusi, trattenendo il respiro quando le dita passavano in punti più
sensibili, lasciandogli fare ciò che preferiva.
Dal canto suo, lo shinigami era intento ad esplorare le reazioni dell’altro
ai suoi tocchi, alle sue carezze e ai suoi baci. Voleva scoprire quali punti
del suo corpo fossero più recettivi, così dedicava
interi minuti a baciare e mordicchiare, utilizzando al contempo le dita per
saggiare quelle zone in cui con le labbra non era ancora giunto.
Sembrava esasperante, ed Eric
glielo disse ripetutamente fra un sospiro e l’altro. Ma nonostante le lamentele
notò che il castano tratteneva sempre più spesso il
respiro, stringeva le mani sul lenzuolo e mugugnava, chiudendo gli occhi.
Sospinse il ventre verso le sue labbra quando ve le passò sopra, istintivamente
forse, ma Joshua non poteva essere più soddisfatto di
quelle reazioni silenziose.
Più volte Eric lo riprese a voce, dandogli del bastardo per il modo in cui
lo stava torturando. Le sue risposte erano fatte solo di sorrisetti
e risatine maliziose, che si spensero lentamente man mano che Joshua si concentrava solo sulla pelle di
Eric, e quest’ultimo sostituiva le parole con sospiri e mugugni
eccitati.
Sospiri che divennero gemiti,
quando anche i jeans furono abbassati e accantonati
insieme alla biancheria intima. Aumentavano regolarmente allo scorrere delle
sue mani sulle gambe nude del castano, facendole rientrare in carezze languide
ma decise e ferme, sensuali nella loro lentezza come poteva essere una danza
fatta di sguardi e sfiorar di labbra.
Labbra che
non persero tutto quel tempo impiegato ad esplorare la sua pelle, quando
arrivarono al centro stesso dell’eccitazione del castano. Ed Eric, d’altro canto, non
mancò di far sentire la sua voce e di inarcare appena la schiena, stringendo
più forte il lenzuolo ormai del tutto stropicciato.
Joshua muoveva la lingua, le labbra, le mani. Cercava ogni
dettaglio, ogni minimo accorgimento che potesse dare
piacere ad Eric; scovava ogni suo punto debole, mettendolo a nudo e
sfruttandolo infidamente, sentendosi soddisfatto di se stesso quando Eric
rispondeva con un gemito un po’ più alto o una parolaccia borbottata.
Lo portò fin sull’orlo
dell’eccitazione prima di abbandonarlo brevemente, con il solo proposito di
sollevarsi e guardarlo.
Il volto arrossato faceva da
strana cornice alle labbra socchiuse, ma di certo non era una visione negativa.
Ansimante, Eric sembrava il ritratto del godimento, e i pugni spasmodicamente
chiusi sul cotone delle lenzuola gli facevano capire che si stava trattenendo,
probabilmente dal lasciarsi andare completamente all’ondata d’eccitazione che
doveva attraversarlo in quel momento.
Eccitazione
che provava anche lui... ma non solo.
Soddisfazione,
emozione, malizia, gola, avarizia e uno smodato desiderio. Possessività,
al pensiero di farlo suo in modo che non potesse essere di nessun altro.
Arroganza ed egoismo associati a quello stesso pensiero.
Poteva trovare tanti termini
per descrivere le sensazioni che provava, nessuna delle quali provata nella sua
pienezza prima di quel momento.
Se era questo il significato,
l’essenza dell’essere umano, allora era quell’essere
umano che voleva essere.
Anche solo per una notte, anche solo per quel momento. Un’esistenza capace di provare emozioni come quelle, così forti e
travolgenti da annebbiare la ragione e la logica della sua vera natura.
Un’esistenza capace di...
amare.
Sorrise quando gli occhi
castani di Eric si posarono sui suoi, piegando le
labbra in un lieve quanto infinitamente dolce sorriso. Il suo primo vero.
Si chinò su di lui, facendosi
più avanti con il bacino dopo aver sbottonato e tolto i pantaloni che ancora
indossava intoccati.
Non sentiva il bisogno di
chiedere consensi o ricevere assensi. I suoi occhi parlavano, dicevano tutto
quello che a Joshua serviva sapere, e non c’era
bisogno di inutili parole, ridondanti suoni in una
stanza che era già satura di gemiti e sospiri e respiri interrotti.
Avvicinandosi al suo volto,
portò la mano sinistra sopra quella dell’altro e la
destra ad insinuarsi – quasi casualmente – fra le natiche del castano.
Le loro labbra rimasero a
qualche centimetro di distanza per un tempo che parve fermo, per quanto poteva
sembrare lungo, finché un dito di Abrahel
non scivolò all’interno di Eric, che trattenne il fiato mordendosi il labbro
inferiore.
Per la prima volta, provò
l’insoddisfazione di non poterlo baciare. Di non poter intrecciare la lingua
con la sua, danzare con essa, sfidarla ad un duello
all’ultimo fiato.
Ma non poteva. L’avrebbe ucciso. Sentiva già l’odore
dolce e fresco della sua anima candida scivolare fra quelle labbra sottili e
arrossate, e lo stava letteralmente inebriando. E lui
provava troppe emozioni, troppe, per
sperare di potersi trattenere.
La prova che non era, e non
sarebbe stato mai, abbastanza umano. Il dio della morte, la fame che era in lui, fremeva ad ogni
respiro corto e veloce di Eric; così come faceva
l’uomo in lui, che lo desiderava totalmente.
Diviso a metà fra un puro
appagamento fisico, un bisogno spirituale rappresentato dal bacio che non
sarebbe riuscito ad avere, è la morbosa mania di quella parte di lui che
desiderava la sua anima.
Cancellò quei pensieri dalla
mente nel momento in cui la mano di Eric sotto la sua
si aprì, e sentì il castano intrecciare le proprie dita con le sue.
Lo guardò, ebano nel candido,
scrutando quasi i suoi pensieri con occhi lucidi e socchiusi.
« Probabilmente farà male... »
sussurrò lui, cercando di essere rassicurante
nonostante smaniasse di farlo suo.
Si era lasciato completamente
travolgere dalle emozioni.
« Fregatene » fu la risposta di Eric, sussurrata in un sospiro, poco prima che allacciasse
le gambe alla sua vita e premesse con il bacino contro le sue dita, facendole
entrare ancora di più.
Appoggiò le labbra al suo
collo, percependo con esse il battito accelerato del
cuore dell’altro, prima di sostituire se stesso alle dita, spingendosi finalmente
dentro di lui.
*i gigli ragno sono fiori
appartenenti al genere dei lilium, rossi con petali
molto sottili (simili a zampe di ragno, per l’appunto). Vengono
chiamati anche “fiori della morte” per l’usanza orientale di posarli accanto
alle tombe nei cimiteri.
Capitolo in due parti. Mi sono resa conto che era un po’
lungo (e che mi servivano entrambi i punti di vista...) così ho deciso di
dividerlo.
Finalmente, nonostante la mia quasi totale incapacità di essere volgare quanto vorrei nello scriverle (XP), in
questo capitolo c’è il motivo per cui quel “yaoi” appare fra gli avvisi ad
inizio fanfic: presenza di lemon,
signore e signori, anche se a scriverle mi sento un’incapace.
Qualcuno dirà che era anche ora,
magari.
Ma bando alle ciance e passiamo alle risposte alle
recensioni, che è meglio.
Gioielle: che bella la recensione papiro <3
è un piacere degli occhi e del cuore leggerle.
Oooooh, vedo che ti ho attaccato LookingGlass! Bene bene *annuisce* e di nuovo, scusa per l’orario indecente in
cui hai letto (anche se, a quanto ho capito, è stato tutto a tua discrezione).
Per andare con ordine: come faccio a renderlo reale? …perché, lo è? O___o Io non lo so; mi impegno
solo a fare una cosa credibile, punto. Sarà perché sto più attenta alla
grammatica che al resto, oppure perché sulle cose che scrivo di mio pugno ci
sento il pathos di un comodino… però se me lo dici tu mi fido
XD dunque grazie, mi fa piacere.
Sì, non sei l’unica che mi ha detto che tende ad osservare
molto i comportamenti di Joshua tramite Eric. Sarà
forse perché è uno shinigami e ci si aspetta che
faccia cose diverse dagli umani? In effetti ha un
senso. Comunque sono sollevata nel sapere che Joshua/Abrahel piaccia,
solitamente personaggi con incipit negativo fanno un brutto effetto.
Tralasciamo la parentesi TrentEverald. E’ un classico cliché degli scontri padre-figlio,
ma sto cominciando a detestarlo io che l’ho creato, quindi figurati =____=
Per concludere, ti ringrazio molto
della recensione <3 spero che questo capitolo *indica in alto* non sia stata
una delusione ^^’’
angel15: Un capitolo drammatico? E pensa che andrà anche peggio! XD No
dai, non tanto… solo un po’. Alex sì, vorrei picchiarlo anche io *annuisce*
però verso la fine dovrebbe migliorare un po’ il loro rapporto, se non cambio
(di nuovo) l’idea base.
Purtroppo, Trent è un cliché.
Proprio perché nella realtà esistono certe situazioni mi spiace averla
inserita, ma ormai non posso modificare il loro rapporto.
Anche a te grazie mille per la recensione, sono felice che
la fic ti piaccia ^___^
dea73: Marcus ha
una parte molto marginale, ma comparirà ancora una volta (forse, non lo so
nemmeno io °___°). E Alex… sì, forse è da odiare, ma per quanto ci provo non ci riesco. Mi fa solo pena, è l’anima della persona
stupida ma non è malvagio dentro. Grazie mille anche a te per la recensione e
per la dedizione alla lettura XD spero che anche questo capitolo ti sia
piaciuto.
Lirith: noi due ci siamo dette il mondo per
e-mail, ma mi sembrava giusto aggiungerti anche qui XD Grazie per tutte le mail e per avermi recensito la fic <3
Shichan: stessa
cosa, le nostre elucubrazioni in separata sede sono sufficienti U___u
finalmente la lemon, visto? XD
C’era
qualcosa che lo teneva stretto, dolcemente protetto in un abbraccio
gentile. Così
si svegliò quel giovedì pomeriggio, quando ormai
l’orologio sul mobile segnava
le tre e cinque; con la schiena unita al petto di Joshua che, dietro di
lui,
aveva la fronte appoggiata alla sua nuca e un braccio intorno alla sua
vita. Era
fresca, la sua pelle. Esattamente come l’aveva immaginata la
sera prima, e
sentita quella mattina. Ma nonostante ciò non provava
fastidio, così come non
sentiva freddo e non ne aveva sentito. Era
stato... bello. Non sapeva come altro definirlo. La
calma e la gentilezza con cui Joshua lo aveva toccato, sfiorando con le
mani
ogni centimetro di pelle su cui potesse posare sguardo, era stato
talmente
eccitante e delicato da creare un contrasto particolare. Qualcosa
che non aveva mai sentito, un’eccitazione che non aveva mai
provato. Quelle
mani fresche su tutto il corpo, la sua bocca a baciare la pelle sottile
del
collo e la lingua a saggiare quella del ventre... le sue labbra avevano
pienamente sopperito all’impossibilità di
baciarsi, dedicandosi con attenzione
ad ogni suo piccolo desiderio, quasi come fossero state create solo per
quel
motivo. La
lentezza, e l’aspettativa... un misto di sensazioni
incredibile, sentire il
fuoco nelle vene ma il silenzio nelle orecchie, interrotto solo ogni
tanto (e
sempre più spesso) da gemiti che si accorse solo dopo essere
suoi. Joshua
aveva sfiorato, e carezzato, e toccato, e morso, e graffiato... ogni
parte di
lui, ogni suo segreto, finché non si erano finalmente uniti,
dando sfogo
all’eccitazione e all’impetuosità che
quella passione aveva pian piano fatto
nascere in lui, disinibendo ogni suo controllo. Il
moro era scivolato dentro di lui con calma, quasi avesse paura di
fargli del
male. E il dolore vi era stato, sì, ma solo per un attimo
prima che fosse
sostituito dal piacere. Prima che lui fosse attratto non più
dal male, ma dal
ritmo crescente delle spinte, e dall’espressione presa di
Joshua; le labbra schiuse
e ansimanti dallo sforzo, le gote arrossate... una visione che non si
sarebbe
mai dimenticato, quella dell’altro che chiude gli occhi
lasciandosi andare alla
pura eccitazione fisica, che intreccia le dita delle loro mani, che si
china
per baciargli la fronte, non potendo baciare le labbra... Tutte
cose che non aveva mai sentito, prima. Sensazioni che non avrebbe
potuto
percepire durante un rapporto normale, con uomo o donna che fosse,
avuto
semplicemente per gioco o per convenienza. Invece
no. Stranamente, l’unica entità (si poteva
definire uno Shinigami “persona”?)
che degli esseri umani non avrebbe dovuto conoscere nulla, in
realtà aveva
dimostrato di saper amare meglio di quegli stessi umani. E
adesso, stretto al suo corpo con le gambe intrappolate in un groviglio
di
lenzuola, sentiva che per nulla al mondo avrebbe rimpianto il momento
in cui
aveva deciso di mettere piede in quella casa. O,
nonostante la fine a cui era destinato – un brivido lo scosse
al pensiero – non
avrebbe mai smesso di ringraziare chi di dovere per avergli permesso di
incontrare Joshua. Anche
se non era normale. Anche se non sarebbe durata. «
Sei sveglio? » Fu
proprio la voce del moro a distrarlo dai suoi pensieri, facendolo
sorridere
tristemente. Il bello dell’essere voltati di schiena,
pensò incoerentemente,
era quello che l’altro non poteva vederlo in viso. Non
voleva mostrargli la paura, o la preoccupazione per ciò che
sarebbe avvenuto dopo. Anche se
poteva sembrare un
controsenso pensarlo, era quasi convinto che l’altro avrebbe
vacillato sin
troppo se lo avesse visto preoccupato, o impaurito solo la
metà di quanto lo
era davvero alla prospettiva di chiudere gli occhi e di non aprirli mai
più. Prese
un respiro, rispondendo: «
Sì. E tu da quanto
sei sveglio? »
domandò. «
Io non dormo »
ribatté il moro,
sussurrando con le labbra attaccate alla pelle del suo collo, che si
premurò di
baciare. Eric
arrossì appena, improvvisamente imbarazzato del gesto. Che
enorme controsenso,
dopo quello che c’era stato tra loro... O
forse era proprio per quello? «
Chissà che noia »
commentò. Ormai non
riusciva più a stupirsi per cose che riguardavano Joshua. «
Relativamente »
rispose ancora il
moro: «
russi, lo sai? »
aggiunse, sempre in
un sussurro data la vicinanza fra loro. «
No, non è vero »
ribatté scuro Eric,
portando la mano sopra quella di Joshua ed intrecciandone le dita. Sentì
le labbra dell’altro stirarsi in un sorriso sulla propria
pelle: «
e come fai ad
esserne sicuro? »
domandò
strafottente, posando un nuovo bacio appena sotto l’orecchio. «
Lo so e basta! »
esclamò il castano,
girandosi di scatto quando il gioco prese il sopravvento sul suo
autocontrollo. E
si ritrovarono fin troppo vicini, perché le loro menti non
fossero attraversate
contemporaneamente dallo stesso pensiero. Un
bacio. Uno solo. Ne avevano bisogno, lui più
dell’altro. Era
incredibile quanto il loro piccolo mondo andasse a rovescio rispetto
alla
realtà; solitamente è il rapporto,
l’unione fisica, ciò che si aspetta con
ansia. Invece
per loro no, era l’opposto. Per loro era il bacio, era il
proibito sfiorarsi di
labbra l’oggetto della mancanza. E
dal sorriso di Joshua vide che anche per l’altro valevano le
stesse identiche
cose. «
Non è consigliabile
per te venirmi così vicino... »
disse, e Dio solo sapeva quanto sentire il fiato sulle
proprie labbra non spingesse Eric a fregarsene, e a baciarlo in quel
momento
esatto. L’autocontrollo
vinse... almeno quella volta. Si
morse il labbro inferiore, portando lo sguardo da quelle labbra sottili
ai suoi
occhi nivei: «
lo sai che è una
tortura, vero? »
sussurrò appena,
sicuro che comunque Joshua lo avrebbe sentito. Il
moro annuì, portando la mano destra a carezzargli la
guancia. Non aggiunse
altro però, preferendo tacere su ciò che entrambi
loro conoscevano
perfettamente. Perché
ormai tutti e due sapevano a cosa avrebbe portato il bacio che prima o
poi si
sarebbero sicuramente scambiati. La mezzanotte di venerdì,
in cui avrebbero
finalmente unito le loro labbra, sarebbe stata anche l’ultima. Tutte
le volte in cui ci pensava, un brivido freddo non poteva evitare di
scivolargli
lungo la schiena. Aveva paura, non poteva evitarselo, e
l’idea sembrava
diventare ogni volta un peso sempre più grande. Colto
in fallo da quelle stesse sensazioni, chiuse gli occhi.
Portò la mano a cercare
quella di Joshua, ancora sulla sua gota, stringendola fra le sue.
Sentì quella
mano chiudersi sulla sua prima di essere attirato contro il petto
dell’altro in
un abbraccio, caldo e rassicurante nonostante la temperatura corporea
del moro
non superasse i trenta gradi. Gli
si fece incontro, sospirando. Quanto doveva essere strana la sua vita,
se
trovava pace fra le braccia di colui che, in un modo o
nell’altro, era motivo e
causa dei suoi guai? Era
Joshua l’incaricato di ucciderlo, era Joshua che lo avrebbe
fatto. Eppure lui non
fuggiva, non cercava di salvarsi. No,
lui... lo abbracciava. E ci faceva l’amore insieme, e ci
parlava, e si fidava.
Lo amava. Era
possibile amare
la Morte. Di
quell’amore che provano gli amanti... quello era
ciò che sentiva per Joshua,
per quel ragazzo non umano che era entrato nella sua vita nemmeno una
settimana
prima e l’aveva rubata, con l’intenzione letterale
di portarsela via. «
Eric »
si sentì poi
chiamare, e per dare prova di stare sentendo mosse appena il viso
contro il suo
collo. «
Non ci pensare ora »
aggiunse il moro,
portando le dita fra i capelli in una carezza sulla sua nuca. Possibile
che fosse un libro aperto? «
Una cosa facile,
eh? »
ironizzò il
castano, ma cercò seriamente di seguire il suo consiglio.
Quello che voleva, al
dì là di tutto, era rendere indimenticabili gli
ultimi due giorni (ormai uno e
mezzo) che aveva rimasto da vivere. «
Josh? »
questa volta fu lui
a chiamarlo. «
Mh? »
rispose l’altro,
senza lasciarlo. «
Tu... puoi amare? »
domandò. Si
potevano leggere molte cose fra le righe di quella domanda. Palesi e
non, ma
c’era molto di più sotto quel semplice quesito. E
suonava quasi egoista, da parte sua. Così come poteva essere
un riflesso di ciò
che provava lui, nonostante fosse passato così poco tempo da
quando lo aveva
conosciuto, e dell’altro non sapesse granché. Joshua
non rispose subito. Passò alcuni istanti in silenzio,
ponderando probabilmente
la risposta da dargli. «
Non lo so »
esordì poi. Fu
quasi sicuro che il suo cuore avesse dolorosamente mancato un battito. «
Non fraintendermi »
aggiunse però
subito: «
non ho detto che
non ti amo. Ma non ho nessun punto di riferimento per fare un
confronto. Io... »
una pausa, un altro
pensiero fugace: «
non sono abituato,
ad essere umano. Non credo di riuscire a capire cosa sia
l’amore »
disse. Eric
si sentì quasi sollevato, nel sentire quelle parole. «
Io credo che
nemmeno gli esseri umani capiscano realmente cosa sia
l’amore. Non sei diverso
da noi »
rispose lui,
sorridendo lievemente ad un pensiero tutto suo. Joshua
era tutt’altro che l’entità maligna che
veniva dipinta nei libri di storia e
folklore. Se poteva provare affezione per qualcuno – e i suoi
gesti, a dispetto
delle parole, lo dimostravano ampiamente – allora non era
cattivo... non
credeva che potesse esserlo. Un
piacevole odore di pancetta e uova si diffuse nell’aria dopo
la doccia,
ricordandogli che, effettivamente, sembrava passata
un’eternità dall’ultima
volta che aveva mangiato qualcosa. Infilandosi
gli abiti della sera prima – solo quelli aveva a disposizione
al momento - uscì
dal bagno attraversando la sala e dirigendosi al cucinotto; Joshua, di
spalle
rispetto a lui, stava probabilmente rigirando le uova di cui sentiva
solamente
lo sfrigolare nella padella. «
Dove hai imparato a
cucinare se passi così poco tempo nel nostro mondo? »
domandò retorico,
raggiungendolo e appoggiandosi di schiena al ripiano di fianco al
fornello. «
Non ci vuole una
laurea per cuocere due uova »
fu la risposta dell’altro, che sorrise appena a
sentire la sua risatina divertita. Lo
osservò per un attimo, soffermandosi particolarmente sulla
quantità di cibo che
aveva cotto: «
suppongo che tu non
mangerai »
esordì poi,
tornando con gli occhi su quelli dell’altro, di nuovo color
del ghiaccio grazie
alla magia delle lenti a contatto. «
Più tardi »
rispose quello con
un sorriso cortese, che ormai Eric aveva imparato a decifrare come
“è roba da
Shinigami e credimi, non ti piacerebbe saperlo”. Scostò
con la paletta le uova in un piatto, aspettando che anche la pancetta
si
rosolasse ben bene. L’odore che emanava era fin troppo buono
per Eric, che si
sentiva l’acquolina in bocca. Si
accorse che Joshua lo stava osservando solo quando i suoi occhi
tornarono sul
viso del moro. «
Che c’è? »
chiese curioso,
sorridendogli. Vide
il moro alzare una mano in direzione della sua guancia destra,
sfiorando con le
nocche la pelle fresca. «
Non si vede più
nulla »
osservò: «
fa ancora male? »
domandò poi,
gentilmente. Eric
negò con il capo, ricordandosi solo in quel momento degli
schiaffi ricevuti dal
padre solo la sera prima... anche se ormai sembrava quasi
un’eternità. L’altro
annuì appena con il capo, togliendo anche la pancetta dal
fuoco per poi
porgergli il piatto. «
Le posate sono sul
tavolo »
integrò, indicando
dietro di sé con un cenno del capo. Il
castano andò a sedersi, cominciando lentamente a mangiare.
Joshua aveva
ragione: non serve una licenza speciale per cuocere due uova e una
striscia di
pancetta... ma, ora che sapeva,
persino il cibo prendeva un sapore diverso, quasi più buono
del solito. Già...
le sue ultime uova e pancetta. Cercò
di non pensarci, sospirando appena. Aveva delle cose da fare prima che
fosse
l’ora, e doveva farle quel pomeriggio. Aveva tutta
l’intenzione di passare la
giornata di venerdì con Joshua... e poi quella sera era
l’occasione migliore di
rinfacciare a suo padre tutto ciò che l’uomo aveva
sempre rinfacciato a lui. Sì,
non poteva aspettare oltre. «
Josh »
chiamò dunque,
attirando l’attenzione dell’altro. «
Mh? »
si fece sentire il
moro, ancora impegnato a sistemare le varie cose usate per cucinare. «
Oggi pomeriggio ho
bisogno di qualche ora. Devo... fare dei giri »
disse, quasi aspettandosi di sentire
una negazione provenire dall’altro. Magari una qualche regola
che impediva alle
vittime di stare lontane dallo Shinigami assegnato nelle quarantotto
ore prima
del bacio, che ne sapeva? Ma
l’altro non disse nulla del genere. «
Puoi andare dove vuoi »
gli comunicò
solamente, non aggiungendo altro. Era
normale, pensò poi Eric; se il dio della morte sapeva sempre
e comunque come
rintracciarlo, che gli fosse stato lontano o vicino non faceva
differenza. «
Grazie »
ringraziò lui: «
se non ti secca, vieni
stasera intorno alle nove al Palazzetto dello Sport in centro.
Sarò lì... poi
tornerò a casa con te »
aggiunse, smettendo
di mangiare per sentire l’eventuale risposta. «
Non mi secca »
rispose l’altro,
appoggiandogli una mano sulla testa: «
fai quello che devi, stasera ci sarò »
disse, con un tono
che sembrava una pacata promessa. Chissà
perché, ma Eric aveva l’impressione che, al di
là del suo “lavoro”, le promesse
di Joshua fossero di quelle - rare - che valevano veramente qualcosa. Rientrare
a casa non fu difficile a quell’ora del pomeriggio, in cui
nessuno avrebbe
dovuto esserci. Suo padre al lavoro, sua madre a far spesa e suo
fratello al
doposcuola; la situazione ideale per lui, dato che non avrebbe
incontrato
verosimilmente nessuno di loro. Si
chinò a prendere la chiave di scorta sotto al vaso,
ritrovandola al solito
posto di sempre. Infilandola nella toppa, e girando due volte, essa si
aprì
senza sforzo. Strano
che suo padre non avesse già provveduto a sostituire le
serrature. Beh,
magari non aveva ancora avuto tempo, ecco. Appoggiò
la chiave sul mobile all’entrata, richiudendosi la porta alle
spalle.
Attraversò il salotto a passo svelto, salendo rapidamente le
scale fino ad
arrivare in camera sua, disordinata esattamente come l’aveva
lasciata il
pomeriggio precedente. Si tolse jeans e camicia gettandoli da qualche
parte sul
letto, estraendo dal cassetto dell’armadio biancheria pulita
e vestiti più
comodi: un altro paio di jeans, questa volta scuri, maglietta di cotone
e una
delle sue felpe a cerniera. Raggiunse il borsone della piscina,
svuotandolo
dell’occorrente per il nuoto per poi cominciare a riempirlo
con abiti a caso. Non
gli sarebbero serviti a molto, ma credeva fosse molto meglio che a casa
pensassero che se ne fosse andato. Se avesse lasciato tutti i vestiti
in
camera, probabilmente avrebbero pensato che non fosse poi molto
lontano, o che
avesse intenzione di ritornare. Cosa
che non sarebbe comunque mai successa. Perciò
non voleva dare false speranze almeno a sua madre, obiettivo di quella
piccola
recita. Nella
foga che mise nel riempire il borsone con tutto quello che gli capitava
sotto
mano, improvvisamente la mano afferrò il portafoto sul
comodino, in cui era
incorniciata la foro di famiglia di quasi sei anni prima. Si
fermò, pensieroso, aggrottando le sopracciglia. Cosa
stava... facendo? Alzò
lo sguardo alla parete sopra al letto, osservando le varie foto
incorniciate
sulla mensola. Vi si avvicinò, osservandole una per una. La
squadra di basket di quando era ancora bambino, la prima volta che
giocò in
campionato. Le divise rosse con lo stemma davanti, le facce sorridenti,
il
pallone in mano al playmaker... e suo padre, là
nell’angolo del gruppo, con una
mano appoggiata alla sua spalla, in piedi lì di fianco. Quella
dopo: la fotografia di gruppo della squadra di nuoto. Il coach in piedi
al
centro della fila posteriore, con un braccio intorno alle spalle di
Satler al
suo fianco, e lui inginocchiato appena sotto di loro, accanto ai suoi
compagni. La
terza, infine, scattata in un pub con Robert e Douglas quando ancora il
loro
gruppo era numeroso ed includeva altri compagni delle scuole superiori. Strano
come sembrasse lontano quel periodo, nonostante non fosse stato
più in là di
tre anni. Non riusciva quasi più a ricordare i loro
caratteri, o anche i loro
volti al di là dalle espressioni sorridenti della foto. Sospirando
mestamente, lasciò perdere. Non era il caso di farsi il
sangue amaro per
niente, e comunque non in quel momento. Fu
nel dare un’ulteriore occhiata sommaria alla stanza che lo
sguardo gli capitò
sulla porta, sulla quale una persona stava in piedi, ferma ed in
silenzio. Suo
fratello Alex, per essere precisi. Lo
guardò a sua volta, ma proprio mentre stava per pronunciare
il suo nome, anche
solo come saluto, si trattenne. Ciò
che gli aveva fatto la sera prima meritava anche solo un saluto,
dopotutto? No. Si
limitò dunque alle domande di rito, tornando con una ben
recitata noncuranza a
scegliere sommariamente i vestiti da mettere in borsa, facendo una
selezione
prettamente casuale e disinteressata. «
Non dovevi essere a
scuola? »
chiese dunque, tono
di sufficienza. Alex
non rispose, e con la coda dell’occhio Eric appurò
che seguiva ogni suo
movimento. Aveva uno sguardo indeciso, le sopracciglia non proprio
arcuate, la
fronte leggermente aggrottata. «
Te ne stai andando?
»
domandò infine il
fratello minore, tenendo le braccia dritte come fusi lungo i fianchi e
i pugni
chiusi. Eric
sospirò, lasciando scivolare la mano sulla stoffa
dell’ennesima maglietta senza
afferrarla. Perché non riusciva mai ad ignorare nessuno,
lui? Perché doveva
interessarsi ad ogni essere umano che arrivava con la vocina rotta e
un’espressione sulla soglia delle lacrime? Non
era un santo... ma forse era uno stupido. Ritornò
con gli occhi a quelli del fratello, scoprendo le carte in tavola. Era
inutile
tenere sul volto la maschera del cattivo ragazzo menefreghista, se in
realtà
non lo era nemmeno da lontano e con tanta fantasia. «
Sì »
rispose perciò,
semplicemente. Negli
occhi di Alex passò l’ombra di quella sensazione
di inadeguatezza che si prova
quando si viene feriti. Sembrava nel panico anche se gli occhi non
lasciavano
mai i suoi, ed Eric si aspettava quasi che scappasse giù per
le scale come
quando erano piccoli e l’altro perdeva a carte. Non
scappò... ma nonostante i suoi quattordici anni non
riuscì a non piagnucolare: «
è colpa mia... se
tu e papà avete litigato è colpa mia! »
esclamò, e le lacrime furono troppe per
poterle trattenere. Scoppiò
a piangere in un modo che sarebbe sembrato quasi ridicolo, se il
discorso
trattato non fosse stato così schifosamente serio. Il
castano sospirò, coprendo con calma i pochi passi che lo
separavano dal
fratello. Si avvicinò finché non poté
appoggiargli una mano sulla testa e
attirarla a sé, facendo sì che appoggiasse la
fronte alla sua spalla. Alex
gli cinse la vita con le braccia, aggrappandosi con le mani alla stoffa
della
felpa, singhiozzando più forte. Eric gli accarezzava i
capelli lentamente,
cercando di tranquillizzarlo, ma dentro di sé si sentiva
quasi... colpevole. Odiava
vedere le persone piangere, e suo fratello non faceva di certo
eccezione. Molte
volte era una carogna, ma questo non significava che dovesse
– o volesse –
odiarlo. Era solo uno dei
tanti fratelli minori. «
Alex, non è colpa
tua se io e papà litighiamo »
gli disse quando sembrò che il pianto si fosse un
po’
calmato: «
a dire il vero,
credo che non sia colpa di nessuno »
aggiunse, appoggiandosi affettuosamente
con la guancia sulla testa del fratello, il cui volto era ancora
nascosto
nell’incavo fra la sua spalla e il collo. «
Però... »
piagnucolò l’altro,
rimanendo però abbracciato al maggiore: «
io non ti ho aiutato, non gli ho detto che
eri uscito, e... è solo che fai sempre arrabbiare
papà, e dopo lui è sempre agitato,
e se la prende con la squadra... »
balbettò, cercando inutilmente di spiegare
il perché avesse taciuto, mettendo Eric nei guai. «
Non pensavo che ti
avrebbe picchiato, scusami! »
esclamò d’un tratto, riprendendo a singhiozzare. Eric
sorrise, cingendogli le spalle con l’altro braccio. Per
quanto ne dicesse, o
per quanto cercasse di dimostrarsi forte e adulto, Alex rimaneva un
mocciosetto
di quattordici anni che andava in crisi con un nonnulla. «
Non mi ha fatto
niente, ok? Vedi? »
domandò
retoricamente, scostando il fratello dalla propria spalla per potergli
mostrare
la guancia colpita la sera precedente. Nulla si vedeva, come Joshua
aveva detto
qualche ora prima, a parte un piccolo alone rossastro. Alex
la guardò con gli occhi lucidi e la punta del naso rossa.
Annuì appena in
risposta al fratello, passandosi la manica della maglietta sugli occhi
per
asciugarseli. Eric
gli spettinò i capelli, sorridendo gentilmente. Pian piano
però il sorriso si
spense, lasciando posto ad una sorta di espressione malinconica. «
Alex... »
chiamò poi,
cercando di stirare le labbra in un sorriso non propriamente
convincente. Non
doveva dirglielo, non doveva. Non avrebbe dovuto proprio. L’attenzione
del fratello minore era tutta per lui. Non
seppe trattenersi: «
a te piace giocare
a basket? »
domandò,
consapevole che all’altro sembrasse una domanda saltata fuori
dal nulla. Cosa
che non era, nella sua testa. «
Sì »
rispose infatti
Alex: «
perché? »
chiese subito dopo. «
E lo fai
volentieri? »
domandò nuovamente,
guardandolo negli occhi con sguardo gentile. Sperava
solo che non arrivasse subito al significato nascosto di quelle parole.
Così
come sperava di non dare troppo a vedere che, dopo quei pochi minuti
che
avrebbero ancora passato insieme, probabilmente non lo avrebbe rivisto
mai più. Ma
doveva essere sicuro che Alex non diventasse per loro padre il nuovo
“Eric”.
Doveva accertarsi delle intenzioni del fratellino, e lasciare tutti i
consigli
che poteva nel breve tempo che gli rimaneva. Il
minore sembrò pensarci sopra per un momento, prima di dargli
la sua risposta.
Annuì, racchiudendo il tutto nella frase: «
a papà fa piacere, e a me piace ». Eric
sospirò, decisamente sollevato. Se Alex lo faceva
volentieri, allora era tutto
a posto. Avrebbe vissuto un’adolescenza meno stressante della
sua di sicuro. «
Bene, ora mi sento
meglio con me stesso »
gli rivelò quasi
allegramente, tornando all’armadio per prendere
l’ultima cosa, l’unica che gli
sarebbe servita veramente. Da
sotto un telo di plastica da lavanderia, appesa ad una crocetta di
ferro, la
sua divisa della squadra di basket rivide la luce dopo un anno in cui
aveva
respirato solo plastica e anti-tarme. La
osservò, sfiorando con le dita il tessuto in cotone e lycra
intrecciati di cui
erano composte le sue maglie. Il rosso, colore della squadra locale,
con il
cognome “Everald” sulla schiena sopra al 23, il suo
numero da sempre. Il
primo numero di Michael Jordan, guardia tiratrice proprio come lui. Non
la indossava da un anno, e non gli mancava. C’era un motivo
se aveva preferito
il nuoto al basket, e nonostante suo padre ne avesse fatto fin
dall’inizio una
questione personale non c’entrava assolutamente niente con
l’uomo. Voleva
gareggiare da solo. Voleva vedere un mondo in cui non esistevano urla,
o
incitazioni, o musica, o balletti da cheer leader, o mascotte, o
tamburi, o
sudore... La
vasca era un paradiso ovattato di rumori lontani solo vagamente
percepibili da
sotto la cuffia di lattice. Un mondo in cui il termine
“squadra” era una parola
vana, utilizzata solo per portare i colori della città di
provenienza. Ma
una volta in acqua, sei da solo. Una volta tuffato non c’e
nessuno che ti
sospinge, o ti tira verso la fine della corsia. Dal tuffo
all’arrivo, se tu
contro te stesso. E
non hai responsabilità se non per te stesso. Il
basket non avrebbe mai potuto essere così. Mai. «
A cosa ti serve
quella? »
domandò Alex con un
sussurro, ancora sulla porta. Eric
sorrise. «
Mi serve »
rispose solo,
riponendola nello zaino. Lasciare
suo fratello si era rivelata una cosa particolarmente difficoltosa da
fare,
alla fine. Avrebbe
volentieri ammesso che fosse tutto a causa delle lacrime di Alex,
riprese poco
prima che lui arrivasse alla porta d’ingresso; oppure
dell’abbraccio in cui lo
aveva bloccato, o delle preghiere imploranti che gli aveva rivolto...
ma la
realtà era che lui non si era tirato indietro. Era
solo che... aveva pensato improvvisamente che quella era
l’ultima volta. Che
entro qualche minuto sarebbe uscito dalla porta di casa e non
l’avrebbe mai più
riaperta. Che non avrebbe mai più rivisto Alex, o sua madre,
o le foto di
famiglia in sala, o i fiori finti sul tavolinetto in salotto... E
si era sentito perso. Come se galleggiasse in un vuoto che non poteva
colmare
nemmeno con i propri pensieri, così persistenti e
consistenti da poter riempire
anche il silenzio delle notti in cui non riusciva a dormire. Era
come stare in piedi sulla cima di un burrone di cui non vedeva il
fondo, mano
nella mano con Joshua, sapendo che sarebbe stato proprio
l’altro a dargli la
spinta che lo avrebbe fatto precipitare. Per
la prima volta, aveva preso in considerazione l’idea di
fuggire. Di cercare di
salvarsi. Ma
aveva cancellato subito quel pensiero, calmando il suo cuore mentre
cercava di
lenire il pianto del fratello attaccato nuovamente alla sua felpa. Non
voleva essere un codardo, così come non voleva essere un
traditore. Aveva dato
la sua parola, promettendo a Joshua che sarebbe tornato indietro, e da
lui
sarebbe effettivamente andato. Aveva
perciò baciato la fronte di suo fratello, spettinandogli
affettuosamente i
capelli. Si era voltato e aveva varcato la porta di casa, camminando
lungo il
vialetto senza mai voltarsi indietro. Aveva
sentito subito lo stomaco chiudersi, e gli occhi riempirsi di lacrime.
Aveva
resistito stoicamente fino ad Heaven Park, che ora stava attraversando
a passo
svelto, diretto verso l’università. Il
borsone lo aveva nascosto in garage. Nessuno si sarebbe mai accorto che
era lì,
almeno per un po’ di tempo. A
lui non serviva tutta quella roba. Il cambio d’abiti e di
biancheria che aveva
nello zaino insieme alla divisa erano più che sufficienti,
per un giorno. Arrivò
nei giardini della facoltà in breve tempo, dirigendosi quasi
subito in verso il
centro sportivo. Erano ormai le cinque del pomeriggio... se non aveva
fatto
male i suoi conti, probabilmente avrebbe trovato Timoty in vasca. Aveva
pensato molte volte che Timoty Satler non avesse una vita sociale. Si
allenava
al mattino prima delle lezioni, Nuotava alla sera prima
dell’allenamento
collettivo, partecipava a quest’ultimo e molte volte si
tratteneva anche dopo. Quando
non era in piscina, era quasi sicuramente in biblioteca. Non
aveva mai capito perché la sua vita fosse per la maggior
parte racchiusa all’interno
delle mura universitarie. Cioè, comprendeva che fosse un
ottimo nuotatore, e
che magari avesse tutte le possibilità per arrivare a gare
di livello
abbastanza alto... ma tutti hanno bisogno di amici, o di mettere piede
fuori
dalla piscina in luoghi che non fossero pieni di libri di testo. Poi,
con il tempo, probabilmente aveva capito il perché del suo
comportamento. Satler
era un ragazzo cordiale, ma in pratica non esprimeva nulla
all’infuori di
quella stessa, fredda cordialità con cui si rivolgeva a
tutti quelli che gli
stavano intorno. Non parlava se non interpellato, non esprimeva la
propria
opinione se non gli veniva esplicitamente chiesto, non chiedeva mai ad
altri di
uscire, o di unirsi ad essi quando erano loro che organizzavano
un’uscita di
gruppo. Aveva
capito che non era che Timoty Satler fosse solo; Timoty Satler voleva rimanere solo. Per
quel motivo, adesso che poteva, desiderava chiedergli il
perché. Per lui,
Timoty era un compagno di squadra sempre disponibile, che lo aveva
aiutato parecchio
nei primi momenti, quando ancora non aveva legato con nessuno e passava
il suo
tempo a provare e riprovare virate e tuffi. E
non voleva credere... che nella sua esistenza l’altro non
avesse nulla d’importante
per cui valesse la pena vivere, e non limitarsi a sopravvivere. Glielo
avrebbe chiesto. Come regalo d’addio che faceva a s stesso,
avrebbe sciolto
l’intricato mistero che si celava dietro quei vuoti occhi blu. Arrivò
in piscina poco dopo e, con un cenno del capo alla receptionist, si
diresse verso
le tribune. Subito il classico caldo afoso della vasca lo
investì, togliendogli
il respiro per un attimo, ma molto presto l’abitudine prese
il sopravvento
sulla sensazione di soffocamento. Non
si passano sei giorni su sette in piscina se non ci si può
acclimatare in pochi
secondi al clima amazzonico che regna là dentro. Si
fermò in fondo alle tribune, appoggiando le mani sulla
balaustra in metallo e
sporgendosi verso la vasca. Lo scrosciare dell’acqua sui
bordi era un ottimo
compagno per l’odore pressante di cloro di cui tutto
l’ambiente era intriso, e
in mezzo a tutte quelle braccia che si muovevano nell’acqua
fu inizialmente
difficile individuare Satler... ma non impossibile. C’era,
infatti: stava nuotando a dorso in corsia cinque, una di quelle
più vicine alle
tribune, e dopo una virata perfetta stava ora per completare i
cinquanta metri
in velocità. Eric
aspettò che arrivasse in fondo, prima di alzare una mano in
sua direzione e
farsi notare. Non si disturba un nuotatore mentre nuota... si
è persi completamente
in un mondo proprio, è traumatico quanto risvegliare un
sonnambulo. Timoty
lo notò solo dopo qualche istante, osservandolo quasi
stranito per qualche
secondo. Si tolse poi gli occhialini, guardando bene in sua direzione,
prima di
stirare le labbra in un sorriso cordiale e avvicinarsi alla scaletta. Salì,
mettendo in mostra il suo fisico asciutto bagnato
dall’acqua... che subito
Eric, involontariamente, associò a quello di Joshua per un
confronto. Magari
era una decisione deviata dai sentimenti, ma lui preferiva quello del
dio della
morte – senza nulla togliere al rosso, che comunque non se la
cavava affatto
male. Scosse
il capo velocemente, attendendo che il ragazzo mettesse
l’accappatoio e si
avvicinasse a lui. I capelli rossi erano completamente bagnati
nonostante la
cuffia e si attaccavano come tentacoli al collo bianco e sottile
dell’altro. «
Everald »
salutò Timoty,
asciugandosi una guancia con la manica dell’accappatoio blu: «
ti avevamo dato per
disperso »
ironizzò
galantemente, non aggiungendo toni di pesante ironia o anche solo di
scherzosità nella voce. Era,
sì... come parlare ad un robot che simula la cortesia umana. Lo notava bene solo ora. «
Già, sono stato
impegnato »
rispose il castano
sfoggiando un sorrisetto colpevole. Se
per “impegnato” veniva sottointeso “mi
hanno quasi stuprato, mio padre mi ha
cacciato da casa e mi sono innamorato di un dio della morte che ha il
compito
di uccidermi”... Timoty
perse subito il sorriso, acquistando un cipiglio serio che Eric
riconobbe come
una delle rare espressioni genuine del rosso. «
Come va con tuo padre? »
chiese di seguito,
abbassando la voce di un’ottava, probabilmente in modo molto
inconsapevole. Che
bisogno c’era di abbassare la voce se ogni singola persona
che passava
dall’università, anche per caso, sapeva quello che
era accaduto nell’atrio del
centro sportivo? Si
sforzò di continuare a sorridere, ma gli occhi raccontavano
sempre di più del
voluto. «
Beh, che vuoi... ci
sono alti e bassi »
rimase sul vago,
fissando qualcosa altrove per qualche istante. Non
riusciva a guardare le persone negli occhi quando queste gli ponevano
domande
serie. Era uno dei talloni di Achille che si era accorto di avere un
giorno,
così, e che nonostante la sua consapevolezza non era mai
stato in grado di
correggere. «
Mi dispiace »
ribatté Timoty, ed
Eric fu totalmente sicuro di aver sentito la voce dell’altro
tornare a vibrare
sulla lunghezza d’onda della pacata gentilezza. Ormai
ne era sicuro: era tutta una maschera. «
Scusa se ti ho
disturbato durante i tuoi esercizi pre-allenamento... »
cominciò dunque,
riempiendo un silenzio imbarazzante che sembrava alle porte: «
ma devo chiederti
un favore... e farti una domanda »
concluse, tornando con gli occhi su di lui
in attesa di una qualsiasi risposta. Timoty
lo osservò per qualche istante, indeciso probabilmente su
come doveva prendere
il tono con cui Eric aveva pronunciato quella strana richiesta. Ma alla
fine
annuì, facendo sì che la sua cortesia vincesse
sull’istinto. Eric
annuì a sua volta riconoscente, deglutendo. Andava fatto.
Avrebbe comunque
rinunciato a quel sogno, in un modo o nell’altro, e preferiva
farlo con una
scusa piuttosto che nel silenzio. «
Devi dire al coach
che io non posso più partecipare alle selezioni. E che non
potrò più
presenziare agli allenamenti... nemmeno far parte della squadra »
disse a fatica,
chiudendo gli occhi durante quel discorso per poi riaprirli alla fine. Satler
non mosse un muscolo, fissandolo solo. Non sembrava né
sorpreso, né turbato,
né... niente. Lo guardava e basta, come si guarda un treno
passare sui binari
della stazione ferroviaria. Poi,
finalmente, fece risentire la sua voce: «
c’è qualcosa sotto, non è vero? Tuo
padre
non c’entra »
esordì e sì, Eric
ci rimase malissimo. «
Come hai...? » «
Ti si legge in
faccia »
ribatté: «
hai degli occhi sin
troppo sinceri ». Il
castano non seppe esattamente come accogliere
quell’improvvisa affermazione da
parte del compagno di squadra. Certo,
anche Joshua gli aveva detto che i suoi occhi esprimevano molto
più di ciò che
pensava... ma non credeva fosse così facile leggerci dentro
qualcosa. Doveva
essere allenato a farlo, allora. Solo chi ha una capacità
d’osservazione
elevata può riuscire a dire esattamente quanto e quanto in
fondo riesce a
leggerti l’animo attraverso gli occhi. Joshua
era un dio della morte, e magari era normale... ma Timoty? Decise
di scoprirlo: «
se sempre stato
così bravo a “leggere” le persone? »
domandò, e la serietà ironica con cui lo
disse fece intuire all’altro che il tono della conversazione
era
improvvisamente cambiato. Dopotutto,
era stato proprio il rosso il primo a portarlo su un livello
più privato. Il
rosso annuì appena, lentamente, nobilmente. Sembrava
decisamente lo stesso
Timoty di sempre, eppure c’era qualcosa di diverso in quel
modo di porsi che
ora aveva assunto nei suoi confronti. Si
stava difendendo. Da qualche parte, la mente del rosso aveva alzato un
muro a
difesa dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Poteva quasi vederlo
nella
staticità dei gesti dell’altro, in piedi immobile
davanti a lui. Era
giunto il momento della domanda. «
Tu hai sempre... » «
Non andare oltre »
lo interruppe però
il nuotatore, alzando la mano destra in sua direzione e chiudendo
nuovamente
gli occhi. «
Tu sei una persona
attenta Everald, sin troppo, e non sono sorpreso che tu abbia notato
qualcosa
di me che non ti torna »
cominciò a dire,
riaprendo gli occhi. Nelle iridi blu brillava ora una luce diversa,
sicura, che
dava per la prima volta una certa inquietudine a quello sguardo. «
Ma non risponderai
alla mia domanda »
continuò per lui
Eric. «
...scusami »
disse il rosso: «
ma spiegarlo a te
vorrebbe dire fidarmi... e io non voglio. Non sono più
capace di fare queste
cose »
aggiunse, senza che
la voce tremasse, o venisse a mancare. Eric
rimase stupito per un momento, ma poi annuì con un sorriso.
Lungi da lui essere
pedante e ficcare il naso. «
Conosco un’altra
persona che non si fida degli altri »
esordì lui, ridacchiando appena al
pensiero dello sguardo burbero di Joshua che insultava la razza umana: «
anche se credo che
il suo sia proprio un problema di mal sopportazione
dell’intera specie umana.
Chissà, magari è un trauma infantile »
scherzò, per alleggerire la tensione. «
Ha tutta la mia
stima »
rispose a sua volta
Timoty, ritornando al solito tono cortese che sembrava fatto di vetro. Ad
essere sincero con sé stesso, ancora non riusciva a capire
il perché Satler
avesse deciso di stare rinchiuso nella sua solitudine. Potevano,
chissà, una
delusione, o un passato lugubre, minare così tanto una
persona da impedirle la
minima fiducia nell’altro? Era
solitudine anche quella. Una solitudine fatta di vetro. Poteva quasi
vedere Timoty
rinchiuso dentro una bolla trasparente, attraverso la quale vedeva gli
altri
senza poter essere visto. Una visione simile aveva, in un qualche modo,
il
sentore asettico dell’impersonale stanza di un ospedale. Sentiva
di... compatirlo. O
forse lo faceva solo perché lui, ora, aveva qualcuno da
definire “importante”.
Ora la sua vita, per quanto breve l’avesse riscoperta,
sembrava essere meno
vuota, meno... asettica, per l’appunto. E
non capiva come una persona potesse decidere liberamente di rimanere
chiusa in
un ambiente completamente privo di stimoli e stare lì,
immobile, lasciando
passare il tempo senza provare a viverlo. Probabilmente
il suo volto espresse chiaramente i suoi pensieri, o semplicemente ci
pensarono
solo i suoi occhi; ma fu comunque sufficiente per Timoty e per la sua
acutezza. «
Tu non mi capisci »
affermò,
prendendolo in una sorta di contropiede: «
ma è normale. Anzi, ti auguro di non arrivare
mai a capirmi, Everlad »
aggiunse,
sorridendo in sua direzione. Non
poteva dire di aver compreso l’augurio nella sua interezza,
ma in un certo
senso poteva percepire la profondità insita in quelle
pochissime parole. Erano
le frasi di chi vedeva la sua vita già ad una fine, e che
non faceva nulla per
cambiarla. Era
così ingiusto... chi aveva ancora a disposizione il tempo di
un’intera
esistenza si considerava già morto. «
Ok, Satler, per me
è il momento di andare »
aveva un’altra cosa
da fare. L’ultima, e poi sarebbe tornato da Joshua a passare
con lui gli ultimi
momenti che gli rimanevano: «
salutami il coach e gli altri »
aggiunse
completando il saluto. Il
rosso non rispose subito. Rimase per qualche istante a guardarlo negli
occhi,
prima di parlare di nuovo: «
ho come l’impressione che non ti rivedrò
più, perciò
sappi che vincerò quella medaglia d’oro »
pronunciò con una sorta di solennità nello
sguardo; serietà che non gli aveva mai visto prima. Che
fosse riuscito a far breccia, in un qualche modo insolito, nella
perfetta
corazza adamantina di Timoty Satler? Ridacchiò
allegro. «
Ci conto »
ribatté solamente,
avviandosi a passo lento oltre la tribuna. Gli
rimaneva un solo posto, e poi avrebbe potuto sentirsi soddisfatto. Il
Palazzetto dello Sport non era mai stato facilmente accessibile. Era
in un altro quartiere rispetto a quello in cui abitavano, o rispetto
all’università, e non era poi così raro
che dovesse prendere l’autobus per
arrivarci. Accadde
anche quella volta. Avrebbe
potuto andare a piedi, e sprecare mezz’ora di viaggio... ma
era più che
convinto che l’ora più opportuna per presentarsi
in campo era a partita
iniziata, e non poteva rischiare di arrivare quando stava per
concludersi. Aveva
bisogno di tempo, per il suo piano. Forunatamente,
a giudicare dai fischi e dal tifo da stadio che già da fuori
si poteva sentire
non era arrivato in ritardo rispetto ai suoi piani. Un momentaneo
sguardo
all’orologio da polso gli rivelò di essere in
perfetto orario, così percorse a
passo svelto l’ingresso, entrando direttamente negli
spogliatoi. Da
lì poteva sentire il tifo delle tribune sopra di lui,
così come i ritmici
rimbalzi della palla arancione di cuoio e lo stridere delle suole delle
scarpe
contro il parquet. Se si concentrava, al di sopra delle urla della
gente la
voce di suo padre sembrava quasi riconoscibile; il tono arrabbiato con
cui
urlava alla sua squadra di marcare bene, oppure al playmaker di passare
all’ala. Sorrise
sornione, aprendo lo zaino con una veloce tirata di zip. Era
ormai abituale che suo padre giocasse con la squadra di prima divisione
il
giovedì sera. Era sempre stata una persona amante della
pianificazione, e il
giovedì era uno dei due giorni in cui la squadra non aveva
allenamento. Tuttavia,
nonostante stagioni brillanti in cui avevano sfiorato la vittoria del
campionato per due volte consecutive, quell’anno la prima
divisione non se la
stava cavando bene. E, chissò perché –
sì, in senso ironico – suo padre
attribuiva questo disequilibrio della squadra al fatto che lui se ne
fosse
andato. Il
che, di base, non sussisteva. Lui se ne era andato già
l’anno prima, e i
risultati non erano stati terribili. Ma
era lì per un altro motivo, quella sera. Ed infilandosi la
tuta rossa poté
chiaramente sentirsi nel sangue la sfrontatezza necessaria per fare
quello che
andava fatto. Suo
padre credeva di non avere bisogno di lui. Si era convinto di essere
schifosamente superiore alle cavolate come i legami famigliari per
ammettere
semplicemente che gli manca, avere lui in squadra. Sì,
si era sempre voluto illudere che fosse così. Ma ora si era
ricreduto. Il
basket, per Trent Everald, era un ottimo effetto placebo per compensare
la
mancanza di altre qualità che lo rendessero un buon padre.
O, in definitiva, un
padre e basta. Lui
non aveva mai fatto per lui quelle cose che di solito un padre fa. Come
allearsi con lui contro le sgridate della madre,dargli consigli sulle ragazze. Tutto
quello che lui ricordava di Trent, indietro nell’infanzia,
non erano altro che
una serie di fermo immagine nei cui fotogrammi compariva sempre e
comunque una
palla da basket. E
tutto ciò faceva... male. Un male fottuto. Avrebbe
pagato, però. Lui non voleva vendetta, no, non era caduto
così in basso...
voleva solo che il padre si rendesse conto del suo valore, che lo
riconoscesse
come qualcuno degno di essere trattato come un essere umano ogni tanto,
non
come un cane ammaestrato che si rifiuta di dare la zampa al comando del
padrone. Sospirando
profondamente, uscì dallo spogliatoio. Le
luci dal campo da gioco non erano mai state così luminose. E
probabilmente il
motivo era che non si era mai fatto presente di quanto possano essere
forti,
puntate addosso ad una persona. Dietro
di lui la confusione del pubblico, davanti a lui il lucido parquet del
campo.
Due squadre di due diversi colori si fronteggiavano, mescolandosi in
corsa,
gemendo per la fatica e ringhiando per la frustrazione di non essere
riusciti a
prendere bene il canestro. Respirò
profondamente, ritrovando una serie di odori che pensava di aver
finalmente
dimenticato. Così come i fischi, le indicazioni urlate da
entrambi gli
allenatori, la trepidazione di chi seguiva il gioco dalla panchina... Tutte
cose che nel nuoto non aveva, ma questo non voleva dire che provasse
nostalgia
per esse. Il Palazzetto dello Sport era per lui come una casa, ed era
questa
forma di insano attaccamento che aveva cercato di combattere. Lui
ce l’aveva una casa, aveva pensato ad un certo punto: e non
era un campo da
pallacanestro. Si
voltò alla sua sinistra, posando prima lo sguardo sul
tabellone, poi su suo
padre. Poteva
capire perché fosse così agitato ed incazzoso:
stavano perdendo. Dai Pidgeons.
La squadra che per due anni aveva loro impedito di vincere la coppa di
campionato, facendo sì che arrivassero costantemente secondi. Erano
sotto di otto punti, con ancora quindici minuti di gioco. Poco male. Quando
finalmente suo padre incrociò il suo sguardo, avrebbe potuto
dire che fosse
preda di un infarto. Oppure che pensasse di essere vittima di
un’allucinazione,
dato lo sguardo da pesce lesso che aveva assunto. Probabilmente,
vederlo con indosso il buon vecchio 23 gli aveva fatto un certo
effetto. Così
come lo fece ai compagni di squadra seduti in panchina, improvvisamente
ammutoliti ed affetti da una paralisi facciale che li aveva bloccati
con la
bocca spalancata. Internamente,
cercò di calmare il battito impazzito del suo cuore con un
sospiro. Da qualche
parte sentiva la pressante sensazione di voler fare retro-front ed
uscire di
lì, ma la ragione gli diceva che era troppo tardi. Ormai
era in ballo, conveniva ballare. A
passo appositamente moderato, si avvicinò lentamente alla
propria panchina –
anche se non era proprio parte della squadra, ma erano insignificanti
dettagli
tecnici – fermandosi esattamente davanti al padre. L’uomo
non ebbe nemmeno la reazione psicologica di argomentare una qualche
forma di
saluto, o di domanda. Lo fissava semplicemente, probabilmente cercando
di
decretare se quello poteva considerarsi il giorno più felice
della sua vita o
una qualche sorta di scherzo di cattivo gusto. Spiacente
papà,
purtroppo per te è la seconda
pensò interiormente, fissando il padre
dritto negli occhi. «
Fammi entrare »
disse, sicuro di sé
come mai avrebbe pensato di essere: «
ti mostrerò che la “sfortunata serie di
eventi” non è accaduta quando mi avete messo al
mondo, ma quando hai deciso di
perdermi »
completò,
attendendo. Non
si stupì troppo quando Trent non rispose. Era sempre stato
una persona che
preferisce agire prima di pensare a quello che fa, e forse era per
quello che
era venuto su così. Esattamente per quel motivo, senza una
parola, Trent
Everald chiamò il cambio della sua guardia tiratrice,
indicando all’arbitro che
sarebbe salito lui al posto del numero 13 che ora scendeva, richiamato
in
panchina. Lo
squadrarono tutti, dal primo all’ultimo genitore in panchina
come dal primo
all’ultimo giocatore in squadra. Fortunatamente, erano tutti
suoi ex compagni.
La cosa da un cero punto di vista lo mise quasi a suo agio. «
Eric? »
domandò stupito il
capitano in campo, attuale playmaker. «
Dylan »
rispose lui in
saluto. «
Cosa cavolo ci fai
qui? »
domandò l’ala
destra, Curt, arrivando di corsa come il resto degli altri giocatori. Sorrise
inconsapevolmente a quella domanda. «
Ho fatto un breve ritorno sulle scene »
decise di
rispondere, senza però lasciare il tempo a nessun altro di
porre domande
inutili: il tempo scorreva e non era il momento di giocare al rimpatrio. Si
girò in direzione del capitano: «
ehi, ricordate qualcuno dei vecchi schemi? »
domandò ansioso,
esibendosi in un sorrisetto colpevole. D’altronde gli stava
scombinano tutta la
partita, con quella sua apparizione... «
Scherzi? »
rispose con un
sorriso Dylan, porgendogli la mano in un cinque: «
praticamente giochiamo solo su
quelli! »
rivelò scherzoso. Eric
accettò il cinque, ricambiandolo con forza. Dylan era
diventato capitano
proprio per la sua capacità di non mollare mai e poi mai, e
di trovare il lato
positivo ad ogni cosa. A lui non interessava se un vecchio compagno
rispuntava
dal nulla pronto a portare scompiglio nello schema di gioco; si
dimostrava più
che disponibile ad adattare il game al nuovo arrivato, se era una
persona di
cui si fidava: «
Dimmi Eric, con che
schema vuoi che ti faccio volare a canestro? »
domandò poi, e la sua esagerata
fiducia contagiò anche i rimanenti compagni di squadra,
tutti con un ghigno
compiaciuto stampato in faccia. Eric
non poté fare a meno di assumere un sorrisetto simile. Era
quella la complicità
che aveva lasciato, e nonostante fosse scappato anche da loro sentiva
la
nostalgia per momenti come quello che stava rivivendo. «
A tua scelta, Dylan
»
ribatté lui,
stirandosi appena le braccia come se dovesse prepararsi alla battaglia. «
Ok ragazzi, andiamo
con il B12. Fate arrivare sotto canestro Everald senza rotture di
scatole e
glieli mettiamo in culo quegli otto punti! »
sentì dire a Dylan, seguito dalle risatine
sarcastiche del resto del team. L’arbitro
fischiò la ripresa, e come per magia la contesa della palla
finì subito
favorevole a loro. Vedeva
la palla passare di mano in mano fra le ali ed il playmaker, mentre i
difensori
si mantenevano dietro di loro nel caso avessero perso il possesso di
palla.
Sfilavano fra le divise grigie dei Pidgeons scivolando a destra e a
sinistra
come topi che gabbano il gatto passandogli fra le zampe. Erano
bravi, dovette notare; migliorati moltissimo da quando giocava lui. O
forse era
semplicemente che loro ancora si allenavano su schemi e passaggi tutte
le sere
mentre lui cercava di tenere i 400 metri misti senza farsi venire
un’aritmia. Non
fu però così difficile arrivare sotto canestro;
una volta che gli altri si
furono posizionati dove dovevano, lui mise in pratica quello che
ricordava e
penetrò da sinistra, trovandosi il canestro proprio nella
posizione favorita. Fu
a quel punto che, fedele ai vecchi schemi, Dylan fece una finta che
mandò in
pappa il cervello del difensore intenzionato a marcarlo, e gli
passò la palla. Tutto
era perfetto intorno a lui, ogni uomo marcato a dovere. La sua
possibilità di
andare a canestro poteva essere interrotta solo da un atleta di salto
in alto
che avesse fermato il tiro prendendo la palla al volo, cosa che
verosimilmente
non sarebbe successa. Si
avvicinò di un passo poi, mettendosi velocemente in
posizione, tirò. La palla
picchiò sul lato interno del cerchio, ma andò
dentro facilmente. I
sui primi due punti della partita vennero aggiunti al tabellone, e la
palla
subito rimessa in campo. I compagni gli diedero pacche sulle spalle,
alcuni
addirittura gli diedero il bentornato («
non sono tornato! »)...
ma quello che
più lo rese felice, in un certo senso, fu rivedere il
sorriso di suo padre
rivolto a lui. Cercò
di ignorarlo. Evidentemente, lui poteva andare bene in quel mondo solo
con una
palla in mano. Il
gioco riprese velocemente, più volte, e più volte
lui andò a canestro seguendo gli
schemi che il playmaker decideva. Segnò altri due punti, poi
altri due Dylan, e
infine due Curt, l’ala piccola. Quando
mancavano ormai cinque minuti alla fine, suo padre chiamò il
time out dalla
panchina. «
Bravi ragazzi,
bravi! »
esclamò Trent,
battendo pacche sulle spalle a tutti quelli che gli capitavano sotto
mano. Eric
si assicurò di non andargli troppo vicino. «
Ancora poco e possiamo dire di essere
ancora in gara col campionato. Rimanete concentrati, concentrati! »
li spronò,
ripetendo sempre le stesse parole che Eric aveva sentito per anni. Quando
a giocare si divertiva, possiamo dire. «
Coach, ma da dove
l’ha tirato fuori suo figlio? »
esordì però Dylan, prendendo un lungo sorso
d’acqua
dalla sua borraccia per poi passarla ad Eric: «
lo teneva sotto tormalina per
occasioni come queste? »
rise. Lui
e suo padre si guardarono negli occhi, muti. Per parecchio entrambi
loro
avevano evitato quel contatto così diretto, capace di
mandare nel panico Eric. La
quadra si ammutolì. Probabilmente Dylan aveva dimenticato
anche solo per in
istante le voci che erano circolate negli ultimi giorni, ma in partita
succede,
l’adrenalina di quando si sta per vincere cancella ogni altra
cosa... tuttavia
gli altri erano ancora ben consapevoli del rapporto che c’era
fra loro,
altrimenti non sapeva come spiegarsi quell’improvviso e
pesante silenzio. Ma
fu un quel frangente che Trent riuscì a stupirlo.
Allungò una mano sulla sua
testa, poggiandogliela sui capelli, e con un tono misto fra orgoglio e
dolcezza
pronunciò un «
ben fatto, figliolo
». Non
seppe cosa fece più male. Se
il fatto di sentirlo pronunciare “figliolo” quando
solo ventiquattro ore prima
lo aveva chiamato “vile”, oppure che quel
complimento fosse sempre e comunque
collegato al basket. Forse a bruciare era la consapevolezza che, al di
fuori
del campo di gioco, per Trent Everald lui non sarebbe mai valso nulla. La
sua reazione arrivò di conseguenza. Si spostò
dalla mano del padre, facendo due
passi indietro. «
Finiamo questa
partita, comincia a venirmi fame »
borbottò appena, e fu veramente grato del
fatto che Dylan non fosse una cima d’intelligenza quando si
trattava leggere
l’atmosfera. Il playmaker infatti stette al gioco,
rallegrando il resto della
squadra, e molto presto l’attenzione generale si
spostò sul prossimo schema di
gioco piuttosto che su loro due. Basta,
voleva andarsene da lì. In fretta. Avrebbe messo la giusta
distanza fra la loro
squadra e i Pidgeons con un tiro da tre punti, in modo che non
potessero più
recuperare nei pochi minuti che rimanevano. L’arbitro
fischiò la fine del time out, e dopo l’urlo
ritornarono in campo. Si
poteva chiaramente sentire la tensione, e non appena il gioco riprese
tutti si
accorsero che i Pidgeons erano corsi ai ripari; marcavano molto
più stretto ed
Eric se ne trovò addosso addirittura due. Così
era impossibile. Anche
Curt se ne accorse, e con una mossa alquanto sfrontata mandò
la palla fuori
gioco. Ci vollero alcuni istanti perché gli arbitri ne
prendessero un’altra dal
tavolo della giuria, così che Dylan ebbe il tempo di
avvicinarsi a lui. «
Andiamo con la Luna
nel Pozzo »
gli rivelò
all’orecchio, stringendogli la spalla con la mano. Non
poté dire di esserci rimasto male, ma leggermente sorpreso
sì. La Luna nel
Pozzo era uno schema di gioco decisamente poco consigliabile: impegnava
tutta
la squadra in attacco, e la strategia stava nel non tenere la palla per
più dei
tre rimbalzi necessari, continuando a passarsela in uno schema a
mezzaluna che
avrebbe man mano chiuso tutta la difesa avversaria sotto il proprio
canestro. A
quel punto, aspettandosi l’entrata all’interno per
un tiro da due, gli
avversari si sarebbero trovati fuori tempo quando la palla sarebbe
stata
passata all’esterno dell’area di tiro, dove il
giocatore designato avrebbe
tentato il tiro da tre. Ma
era rischioso, perché se anche uno solo degli altri si
accorgeva della cadenza
dello schema di gioco poteva recuperare la palla e partire in
contropiede,
mossa che gli avrebbe permesso di tirare indisturbato. «
Non avevamo ancora
finito di provarla la Luna nel Pozzo »
dissentì Eric con calma, pensando che su
tutti i lati quella non era affatto una buona idea. «
Noi sì »
ribatté complice
Dylan – cosa aveva mai da essere sempre così
schifosamente allegro?! –
prestando relativa attenzione all’arbitro che tornava con la
palla: «
tu fatti trovare
nel punto giusto per il tiro, al resto pensiamo noi »
esordì, lasciandolo
in piedi come uno stoccafisso. Non
ci fu tempo per commentare, o cercare di fargli cambiare idea: la palla
tornò
rapidamente in gioco e lui poté solo fidarsi dei suoi
compagni di squadra. Procedette
tutto bene, nonostante pensasse che quella fosse una pazzia: dopo un
breve
possesso di palla da parte dei Pidgeons uno di loro riuscì a
recuperarla, e
velocemente si mise in azione lo schema. Si passavano fra loro la palla
così
velocemente che lo speaker non riusciva a stare dietro
all’azione, sbagliando a
più riprese i nomi di chi aveva in mano la palla. La squadra
avversaria
sembrava disorientata quanto bastava perché non si
accorgesse di essere chiusa
mentre dalle panchine, si accorse con un tuffo al cuore, suo padre
stava
incitando a gran voce tutti loro. Nel
momento in cui si trovò al suo posto, e vide la palla
arrivare a lui dalla
“mezzaluna”, tutto sembrò rallentare.
Percepì la sorpresa dei Pidgeons finalmente
consapevoli della rete in cui erano caduti, così come li
vide scattare in sua
direzione anche se marcati stretti da tutti gli altri. Lui era libero,
lo
schema aveva funzionato, e il poco tempo rimanente gli dava tempo
sufficiente
per in solo tiro. Si
concentrò. Era stato nominato guardia tiratrice
perché aveva il miglior score
di tiri di tutta la squadra, non poteva sbagliare un semplice lancio da
tre.
Non poteva fallire, ne andava del suo orgoglio nel far capire a suo
padre chi stesse perdendo. Saltò
da fermo, alzando le braccia mentre la palla si staccava dalle sue mani
in
direzione del canestro. Entrò diritta, linearmente, muovendo
la rete e
rimbalzando a terra. I
tre punti vennero attribuiti alla sua squadra poco prima che la sirena
suonasse, decretando la fine della partita. Avevano
vinto. La
folla esplose. Magliette e sciarpe rosse volarono per tutto lo stadio,
così
come tutti i suoi ex compagni si riversarono su di lui in
un’ammucchiata.
Sentiva urla di gioia da ogni parte, nemmeno avessero già il
campionato in
tasca – anche se ne erano ben lontani – e subito le
cheerleaders attaccarono
con il balletto della vittoria, muovendo all’aria i pon pon
rossi. Alzò
lo sguardo sulle tribune, cercando con lo sguardo gli occhi che aveva
così
tanto desiderio di incrociare. Li trovò accanto alle scale,
ed un sorriso gli
comparve istintivamente in volto. Joshua
era venuto. Aveva mantenuto la promessa. Lo
salutò con la mano, lievemente, senza rendere eclatante il
gesto. Fu sicuro che
bastò anche solo quel piccolo movimento quando Joshua
piegò l’angolo della
bocca in un lieve sorriso, indicando con il capo le scale. Lui
annuii, dando segno di aver capito il messaggio. Probabilmente al moro
non
piaceva la confusione, per quel motivo lo avrebbe aspettato fuori. Lo
seguii con gli occhi mentre scompariva lungo le scale della tribuna,
tornando
poi con lo sguardo al padre. Lo
stava guardando. Solo che sembrava indeciso, non sapeva se sorridere o
no. Gli
riservò il ghigno migliore che potesse ponderare di
dipingersi in faccia. Una
volta lasciatolo nel più profondo dei dubbi, poi, si diresse
a passo calmo
verso gli spogliatoi, intenzionato a tutto fuorché
festeggiare quella vittoria. Non
era sua, dopotutto. Aveva utilizzato quella partita come mero vicolo
per
stoccare suo padre, non si sentiva in grado di festeggiare con gli
altri
compagni di squadra. Fu
per questo che approfittò della confusione per sgattaiolare
negli spogliatoi,
lasciando le festività ai propri compagni. Conoscendoli,
sarebbero rimasti in
palestra anche dopo che tutti se ne fossero andati. E poi solitamente
la
squadra vincente faceva una fotografia a fine partita per i giornali
locali,
amanti di ogni cosa potesse riempire le pagine dedicate allo sport dei
loro
quotidiani. Si
cambiò velocemente, abbandonando la sua divisa sulla
panchina senza nemmeno
prendere in considerazione di portarla con sé. Aveva finito
il suo compito, e
il legame affettivo era stato ampiamente surclassato dal comportamento
non
esattamente costante del padre. Lo
aveva letteralmente schifato, ecco. Una
volta rivestitosi chiuse lo zaino energicamente, ignorando i capelli
ancora
umidi di sudore così come la pelle del collo e della
schiena. Avrebbe
approfittato di nuovo della doccia a casa di Joshua; al momento voleva
solo
mettere una notevole distanza fra lui e il Palazzetto dello Sport. Uscì
dallo spogliatoio intenzionato a raggiungere subito l’esterno
dell’edificio.
Sentiva ancora parecchia confusione in campo e sugli spalti, il che
probabilmente significava che i festeggiamenti per la vittoria non
erano ancora
giunti al termine... aveva abbastanza tempo per confondersi fra la
massa ed
uscire, mettendo finalmente fine alle cose che si era ripromesso di
fare prima
di... beh... prima di venerdì notte. Ma,
ovviamente, i suoi piani non andarono per niente come aveva pensato che
andassero. Non lo fecero perché suo padre, che era
tutt’altro che stupido,
riuscì ad intercettarlo proprio mentre stava richiudendo la
porta dello
spogliatoio. Si
guardarono. L’uomo
aveva in volto una sorta di sguardo perso, come se si stesse sforzando
di
capire le intenzioni del figlio senza chiedere a lui direttamente. Eric,
dal canto suo, si limitava a guardarlo pacatamente, cercando dentro di
sé la
tranquillità necessaria a mantenere un disinteressato
stoicismo. «
Sei stato bravo,
oggi »
commentò poi
l’uomo, ed Eric non poté fare a meno di lasciarsi
scappare uno sbuffo deluso.
Non era quella la prima cosa che avrebbe desiderato sentire, nonostante
il tono
profondo del padre fosse calmo e quelle parole avessero un complimento,
nascosto in esse. «
Già, a quanto pare
ricordo ancora come si fa »
fu la sua
conseguente risposta, decisamente stizzita in confronto alle sue buone
intenzioni di mantenere fredde le animosità. Seguì
un istante di pesante silenzio. Eric non aggiunse nulla e, vedendo che
anche
suo padre non ne aveva intenzione, fece retro-front e
cominciò ad incamminarsi
verso l’uscita lungo il corridoio in penombra. Ma
Trent non gradì il gesto, Eric lo capì dal tono
in cui gli chiese dove stesse
andando. Il
ragazzo non rispose, dandogli le spalle. Non aveva nemmeno il minimo
desiderio
di informare il padre sui suoi spostamenti, nemmeno di metterlo al
corrente di
dove avrebbe passato la notte o di cosa avrebbe fatto il giorno dopo.
La base
di tutto ciò era una: a casa non sarebbe tornato; ma Trent
Everald avrebbe
dovuto capirlo da solo, quando tornando per cena avrebbe trovato la
camera del
figlio maggiore mezza vuota. Per
trovare tracce di lui, avrebbe come minimo dovuto mettere a soqquadro
la casa.
O girarsi a piedi mezza città. «
Eric »
sbottò suo padre, e
il castano riuscì a riconoscere in quel tono l’ira
che ormai da un anno
caratterizzava tutti i loro discorsi. Si
voltò, sfidandolo apertamente. Fortunatamente il corridoio
era vuoto, ma era
convinto che suo padre avesse calcolato anche questo. Non avrebbe mai
più fatto
l’errore di rivolgersi a lui con cattiveria in un luogo
pubblico, se non
potevano garantirsi una sorta di privacy da orecchie indiscrete o
passanti
casuali. Rimase
zitto, però, fissandolo. Voleva
che capisse. Voleva veramente che capisse. Desiderava
fargli comprendere che sarebbe bastata una parola, uno
“scusami” detto in modo
sincero, e sarebbe tornato a casa con lui. Avrebbe passato le poche ore
che gli
rimanevano con loro, con la sua famiglia, perché nel
profondo del cuore sentiva
che era lì che doveva stare. Per
non lasciarli troppo... soli. Ma
Trent non capì, il suo sguardo non cambiò. Poteva
quasi sentire il suo stesso cuore perdere un altro frammento. Anche se
Joshua
era riuscito, chissà come, a tenerlo insieme, la freddezza
che il padre
sembrava dimostrargli aveva la potenza distruttiva di un uragano. Si
girò di nuovo, sempre muto nei confronti
dell’uomo. E sperò vivamente di
riuscire a scappare, questa volta. Cosa
che non successe. Trent
coprì la distanza che li separava in due falcate; lo prese
per il polso,
strattonandolo finché non se lo ritrovò davanti
al volto. Eric cercò di
liberarsi, ma era inutile: il padre era sempre stato più
forte fisicamente, e
non perdeva occasione per sfruttare quella forza a suo vantaggio. Lo
osservò direttamente negli occhi, uguali ai suoi se non per
la rabbia che
riflettevano, parlandogli talmente vicino che il castano poteva sentire
il suo
fiato sul viso. «
Dove credi di
andare? »
sibilò. Eric
percepì un brivido scivolare freddo lungo la schiena. Era
sempre suo padre, dopotutto...
non avrebbe smesso di fargli paura quando faceva così. Ma
resistette stoicamente, impuntandosi. Non aveva più dieci
anni, delle minacce
non se ne faceva niente. «
Ovunque tranne che
qui »
fu infatti la
risposta che diede, soffiando a sua volta. Ma
mentre il padre sembrava una tigre a digiuno Eric poteva al massimo
sembrare un
gatto randagio fra le grinfie dell'acchiappa-animali. Trent
lo osservò in silenzio, la stretta al polso che non si
indeboliva. Faceva male,
ma Eric non se ne lamentò per orgoglio, continuando
imperterrito a rispondere
allo sguardo del padre. «
Stai da lui, vero? »
disse poi l’uomo: «
Archer »
aggiunse,
pronunciando quel nome quasi come se ringhiasse. «
Ti ho già detto che non mi sta bene!
»
aggiunse sgarbato,
scotendogli il polso con veemenza. Il
castano digrignò i denti sotto le labbra. «
Perché, c'è
qualcosa della mia vita che ti sta bene? »
non poté esimersi dal ribattere, soffiando
fra i denti e inclinando le labbra in un sorrisetto sghembo. Imposizioni
insensate come quella non smettevano mai di farlo incazzare. Al diavolo
lo status quo. Il
corridoio degli spogliatoi era vuoto, e in lontananza la musica delle
cheerleaders
riempiva ancora lo stadio. «
Lui no »
fu però la risposta
del padre: «
ha qualcosa... di
strano. Lo sai cosa mi ha detto in piscina? Che saresti stato suo. Ma
l'ha
detto in un modo che non presagiva niente di buono e mi dispiace, ma
non
lascerò che la tua stupidità ti spinga nei guai »
disse d'un fiato il padre,
aumentando la presa sul suo polso man mano che la sua rabbia cresceva. Oh,
se lo immaginava... quasi riusciva a vedere cosa aveva visto suo padre
negli
occhi di Joshua, fin troppo strani nonostante l'aiuto delle lenti a
contatto. Una
luce di cattiveria, un brillio di sfida incastonato in quelle iridi
color del
ghiaccio, fin troppo inquietanti per non sentire almeno una briciola di
paura
nel cuore. E poi il sussurro, le sue parole... "Suo figlio
sarà
mio"... poteva quasi sentirlo mormorare al suo fianco mentre se lo
immaginava, la voce profonda e il tono maliziosamente minaccioso. Sorrise
beffardo, socchiudendo gli occhi. «
Papà, io sono già suo »
pronunciò
chiaramente, senza però perdere la nota di sfida con cui
aveva intriso il suo
tono di voce. Trent
trattenne il fiato, colpito se non sorpreso dalle parole del figlio, e
fu
quello il momento in cui finalmente Eric riuscì a liberarsi
della sua presa con
un secco strattone. «
Addio papà »
sussurrò infine,
girandosi finalmente per l’ultima volta e abbandonando gli
spogliatoi. Quando
finalmente riuscì ad uscire, facendo slalom fra la massa di
parenti che
attendevano l’uscita dei figli, poté finalmente
godersi la frescura dell’aria
sul viso ancora accaldato. Il
cuore gli batteva all’impazzata e, per una qualche confusione
di motivi che
ancora non riusciva a mettere esattamente in ordine, percepiva il
bisogno
fisico di piangere. Era
stress, oppure nervosismo. Anche tristezza, e sentiva da qualche parte
persino
la rabbia e l’insoddisfazione. Ma
si trattenne. Era un uomo ormai, non si sarebbe messo a frignare. Alzò
lo sguardo quel tanto che bastava per individuare Joshua, appoggiato di
schiena
al muro del caseggiato di fronte, e con viso basso gli passò
velocemente a
fianco, incamminandosi senza dire una parola. Si
sentiva veramente sull’orlo delle lacrime, e non voleva che
Joshua lo vedesse
così. Non sapeva perché, ma non voleva. Forse
desiderava apparire forte. Forse aveva paura che l’altro lo
avrebbe preso in
giro, o si fosse stancato di lui, nel vederlo così
dannatamente... debole. Ma
il dio della morte non disse nulla, limitando ad incamminarsi dietro di
lui e a
seguirlo, a qualche passo di distanza. Un
distanziamento che Eric ebbe il coraggio di mantenere appena per
qualche
minuto. Si
fermò poi sul marciapiede vuoto, ormai inghiottito dalla
notte, aspettando. Joshua,
il suo passo sempre pacato e tranquillo, lo oltrepassò con
calma e si fermò un
passo avanti a lui. Rimase girato di schiena, le mani nelle tasche del
cappotto
nero, e l’unica cosa che Eric poté sentire da quel
momento fu la sua voce: «
puoi piangere, se
vuoi. Io non guardo ». Era
la seconda volta che sentiva quelle parole provenire dal moro. Era la
seconda
volte che si accorgeva, con sua sorpresa, che chissà
perché nei momenti
difficili Joshua era sempre lì, a dirgli che poteva piangere
e che lui non si
sarebbe girato a guardarlo. Non
si trattenne più. Pianse, lasciando che le lacrime salate
scivolassero lungo le
sue guance e che il respiro si rompesse in silenziosi singhiozzi e
sospiri. «
Puoi... guardare »
acconsentì poi,
borbottando come un bambino che tenta inutilmente di dimostrarsi grande
e di
non piangere di fronte alle difficoltà. Lo
vide voltarsi, poi osservarlo. Lo vide avvicinarsi piano, poi,
finché non fu
abbastanza vicino da permettergli di appoggiare la fronte sulla sua
spalla, e
di stringere fra le mani la stoffa del suo cappotto. Non
sapeva con certezza per cosa piangesse, ma la cosa non importava.
Joshua non
diceva nulla e stava semplicemente lì, in silenzio, non
facendogli sentire
altro che la propria presenza... preziosa, più importante di
parole randomiche
buttate al vento. Come
faceva a dire di non essere umano, se era capace di così
tanto? Come riusciva
ad essere più sensibile di qualsiasi altro? Come faceva un
suo abbraccio ad
essere così protettivo, se era stato mandato sulla terra per
ucciderlo? Era
un controsenso. ______________________________________________________________________________________ Capitolo
a dir poco lungo. Dovrei smetterla, dato che poi correggerli
è una faticaccia. Chiedo
oltremodo scusa per l’immane ritardo
dell’aggiornamento; purtroppo riprendere
l’università mi sballa gli orari, e cercare di
incastrare il tempo necessario
per scrivere si fa un po’ complicato. In ogni caso eccomi di
ritorno, e... -2
capitoli alla fine! Ora
qualche risposta ai commenti, poi vi lascio riprendere l’uso
della vista XD Alla
prossima! Shichan:
il fatto che io
trovi abbastanza semplice muovere Eric ogni tanto mi inquieta.
Soprattutto se
assomiglia così tanto allo standard di “anima
candida” (e, a sentire dalle
recensioni, ci assomiglia proprio XD). Enma... Enma si ama SOLO per il
sadismo,
suvvia! Mi sono divertita da matti a scrivere quelle scene
X°DDDD E
beh, la lemon è la lemon U.u anche se sono ancora convinta
che poteva venirmi
meglio. Quei due, se non ci sto attenta, cadrebbero in un livello di
pucchosità
fuori dal comune... e già nel prossimo capitolo saranno
melensi, figurati se
perdo la stretta. Spero
che ti sia piaciuto anche questo =* Dea73:
grazie
ç___ç ero convinta
che, per come l’ho scritta, la lemon fosse avvincente quanto
un mattone *una
persona incapace di scrivere lemon volgari*. Per quanto riguarda
l’atmosfera,
beh... direi che dipende anche molto dalla piega che sta prendendo in
carattere
di Joshua/Abrahel. Anche se ogni tanto mi sfugge di mano
^^’’’ Ti
ringrazio molto per la recensione, e anche per i complimenti sullo
stile di
scrittura ^^ mi fa piacere che si legga bene. Gioielle:
tralasciando
gli
orari a cui scrivi i commenti, sappi che tutte le volte che trovo il
tuo papiro
mi diverto troppo XD Allora,
andiamo con ordine: sono felice che Enma ti piaccia, davvero XD quel
poveretto
è sottovalutato. Così come sono felice che Joshua
sia uno dei tuoi personaggi
preferiti °____° poverino, nella mia immaginazione non
gode di molta simpatia,
purtroppo. Eric... Eric è adorabile, dopo aver letto qualche
commento mi tocca
ammetterlo. Lungi
da me far si di interrompere il sonno di tua sorella! X°DDD e,
mi ripeto, sono
felice che la lemon ti piaccia. Non riuscendo a scriverle volgari
quanto vorrei
mi sembrano sempre troppo “soft”... anche se per
questi due, forse,
effettivamente stava meglio così. Infine
grazie molte per i commenti sullo stile, sui pg... beh, su tutto, dato
che
praticamente mi hai scritto una valanga di complimenti
>//< spero che
questo capitolo non ti abbia annoiata troppo <3
Il
personaggio di Noah Keynes non è di mia
proprietà, ma è una creazione di
Shichan. Non lo uso contro il suo volere, mi ha dato il permesso U.u
Questo
penultimo capitolo mi è stato ispirato da un duetto di
Jordin Sparks e Chris
Brown, che però io ho ascoltato cantato dal cast del
telefilm “Glee”. Il titolo
è “No Air”, e la consiglio a tutti,
perché è veramente bella.
______________________________________________________________________________________________________
Friday
Abrahel
& Eric Midnight
{Abrahel}
Gli
carezzava i capelli, lentamente.
Solamente
con la punta delle dita, in un gesto divenuto automatico dopo solo
qualche
istante, passando i polpastrelli fra i morbidi fili castani ancora
umidi dalla
doccia.
Era
incredibilmente... semplice, quel movimento.
Non
era niente, a ben vedere: una piccola carezza, una banale dimostrazione
d’affetto.
Eppure,
anche solo così, si sentiva bene.
In
pace con se stesso, e in pace con il mondo per la prima volta da molto,
molto
tempo. Pace.
Una parola che per
lui non aveva significato mai nulla se non una specie di utopia
irraggiungibile.
Si
era sforzato, di tendere le mani verso quell’illusione.
Talmente tante volte
che aveva perso il conto, e con esso anche la voglia di rincorrere
quella
“pace” che ogni volta sfuggiva via, sempre un passo
avanti a lui.
Finché
non si era arreso all’evidenza che non avrebbe mai sfiorato
quel bellissimo
sogno. Fino a pensare di non esserne destinato, nonostante per lui il
fato
fosse un concetto molto relativo.
Abbassò
lo sguardo su Eric, disteso sul letto fra le sue gambe, girato sul
fianco
sinistro. Sentiva il dolce peso della sua testa sul petto,
così come il calore
della sua pelle attraverso il tessuto dell’accappatoio bianco
che indossava
come unico indumento; similmente percepiva il fastidio della testata
del letto
piantata sulla propria schiena, ma non vi badò assolutamente.
Non
si sarebbe mosso mai, di lì. Se avesse potuto farlo, non
avrebbe nemmeno
respirato pur di non far spostare Eric da quella posizione,
così tranquilla ma tuttavia
così intima.
Era
così vicina, la pace. A qualche passo, qualche metro
più in basso rispetto all’aldilà.
Aveva
i capelli castani e gli occhi della tonalità del caldo
legno. Aveva un’anima
talmente candida da far impallidire i santi, e una
sensibilità fragile come il
cristallo, degna di ogni protezione.
Si
chiamava Eric Everald, la “pace”, e stava riposando
fra le sue braccia.
Aggrottò
la fronte, fermando d’istinto la mano.
Lui
non poteva proteggerlo. Da nulla. Tantomeno da lui stesso.
Lo
avrebbe ucciso quella notte. Lo avrebbe ucciso stringendolo fra le
braccia
proprio come in quel momento; avrebbe visto la luce spegnersi, i suoi
occhi
velarsi e poi chiudersi, il suo sorriso svanire pian piano.
Ma
in quel momento, in quel lieve battito di cuore che a malapena
percepiva
attraverso gli abiti e la pelle, percepiva la propria esistenza come
vera vita. Non sopravviveva in quel
momento,
no... stava vivendo, e c’era un abisso a dividere i
significati delle due
parole.
Ma
con essa, sopraggiunse la consapevolezza di non potersi più
privare di lui. Di
non poter più portare a termine il compito che gli era stato
assegnato.
Non
ne aveva più... il coraggio. «
Joshua? »
sussurrò Eric,
attirando la sua attenzione: «
cosa c’è? »
domandò poi, alzando lo sguardo.
La
voce era ancora flebile, gli occhi rossi. L’espressione era
decisamente stanca,
quasi sfibrata, e la colpa era quasi sicuramente di tutte le lacrime
che aveva
versato nel tragitto verso casa, poi sotto la doccia, poi di nuovo fra
le sue
braccia. Consumate finché ne aveva, finché i suoi
occhi ne ebbero abbastanza.
Piangere...
chissà com’era. Chissà se faceva...
male.
Sorrise,
e non dovette sforzarsi più di tanto. Non voleva far pesare
nient’altro sulle
spalle del castano, tanto meno i propri pensieri egoistici nei suoi
confronti. «
Nulla »
sussurrò a sua
volta, come per rispetto al tranquillo silenzio che li avvolgeva: «
stai meglio? »
domandò poi,
passando con delicatezza il pollice sulla gota dell’altro,
sentendola ancora
umida.
Il
castano annuì contro la sua maglia. «
Mi fanno male gli occhi »
disse solamente, il
tono appena strascicato. «
Non fatico a
crederlo... »
rispose lui,
distaccando la schiena dalla testata del letto nel tentativo di
alzarsi: «
vado a prenderti un
po’ di ghiaccio, magari si sgonfiano un po’ »
aggiunse nel mentre.
Eric
annuì di nuovo, lasciando che si alzasse e uscisse dalla
camera. Abrahel – no, Joshua,
ormai. Solo Joshua – percorse
lentamente l’appartamento, sentendo solamente il rimbombo dei
suoi piedi sul
parquet.
Si
concentrò per non pensare, bloccando qualsiasi suo pensiero
per la prima volta
in millenni.
Non
voleva... vedere l’ovvietà.
Sarebbe
successo. Girarci attorno non serviva.
L’attesa,
ora, era il suo chiodo, la sua spada di Damocle. Ventiquattro ore.
Anzi,
ormai ventitre e mezzo.
Un
giorno. Che per lui era un intero
giorno, mentre per Eric solo un
giorno.
Einstein
non si era sbagliato, parlando di relativismo. Le cose erano veramente
relative
ai diversi punti di vista da cui venivano esaminate.
Aprì
il freezer, estraendone il contenitore in plastica per il ghiaccio. Le
sue mani
non provarono dolore al freddo pungente, così come non
reagirono quando i
polpastrelli delle dita toccarono in ghiaccio stesso, rimanendovi
attaccate.
Poteva
fingersi umano, ma non lo sarebbe mai stato. Così come
poteva fingere di voler
portare a termine il suo lavoro sapendo che non ne aveva più
la minima
intenzione.
Sapendo
che avrebbe mandato a fanculo il mondo senza tanti complimenti, per
salvare lui.
Nell’aprire
l’acqua del lavello, aggrottò la fronte affranto
dai suoi stessi pensieri.
Era
“amore”, quello? Beh... se era l’amore,
faceva un male fottuto.
Tornò
in camera qualche minuto dopo, tenendo in mano un asciugamano in cui
aveva
avvolto il sacchetto di plastica contenente il ghiaccio.
Non
sarebbe stato un ottimo rimedio, ma almeno sperava che avrebbe
sgonfiato un po’
i suoi occhi. Faticava a tenerli aperti da quanto erano stati
bistrattati, e a
giudicare dal rossore dovevano anche bruciare.
Si
sedette sul letto al suo fianco, passandogli l’involucro con
la parte fresca
girata verso il basso. Eric lo afferrò, in silenzio, e
sempre silenziosamente
se lo appoggiò sugli occhi chiusi.
Un
solo sospiro prima di vederlo cadere di schiena sul materasso. Abrahel
lo seguì
con lo sguardo ma non fece e disse nulla.
Semplicemente,
non sapeva che dire. Qualsiasi parola suonava ipocrita, anche se il
silenzio
sembrava piombo dal quanto era pesante.
Decise
per la cosa più semplice, e la più idiota. «
Stai meglio? »
domandò cauto,
cercando di nascondere l’ansia provocatagli dai suoi continui
ed inconcludenti
pensieri.
Lo
osservò annuire appena sotto il manipolo di tessuto bianco. «
Meglio, sì... »
sussurrò, anche se
non sembrava esattamente convincente.
Tuttavia
si fidò, credendogli sulla parola. Si limitò a
scostare lo sguardo da lui,
puntandolo su un angolo qualsiasi della moquette. Solamente una
settimana
prima, se Dio in persona gli si fosse presentato davanti dicendogli che
si
sarebbe... innamorato – suonava ancora strana quella parola
associata a se
stesso – probabilmente gli avrebbe riso in faccia. A Dio.
Sì, anche a Lui.
Ma
era successo, stava succedendo anche in quel momento. Ed era
combattuto,
lacerato dal risentimento verso se stesso, e verso Enma, e verso il
Destino, e
verso tutti, tutti, nessuno escluso.
No,
tranne Eric. Tutti tranne Eric, che di male non aveva fatto nulla se
non avere
sfortuna.
La
sfortuna di avere incontrato uno come lui.
Chiuse
gli occhi, massaggiandoseli con la mano destra. Sentì un
fruscio alle sue
spalle ma, prima che potesse voltare il capo per vedere se Eric aveva
bisogno
di qualcos’altro, le mani dell’altro si
aggrapparono alla sua maglia e percepì
la sua fronte appoggiata fra le scapole. «
Josh, cosa c’è che
non va? »
domandò Eric a voce
bassa, come se fosse la cosa più importante del momento.
Quel
ragazzo doveva rivedere la lista delle sue priorità.
Girò
appena il capo in sua direzione, rimanendo in silenzio qualche istante
ancora. «
Non voglio...
ucciderti »
non poté esimersi
dal rivelare, corroso dal tormento che quella decisione stava
comportando.
Eric
rimase silenzioso dietro di lui, le mani sempre strette alla stoffa
sulla sua
schiena.
Un
fremito, indecisione. «
Ti metti nei guai
se non lo fai? »
domandò poi,
mormorando lentamente quelle parole.
Non
avrebbe dovuto dargli una speranza inesistente. Non avrebbe dovuto
illuderlo a
quel modo.
Decise
di mentirgli, però. Perché da qualche parte
dentro di sé sapeva che Eric
avrebbe reagito male, se avesse risposto un “sì,
ci affogherei, nei guai”;
ovvero se avesse detto la verità.
Anche
se non lo sapeva con esattezza cosa capitasse, a chi si rifiutasse di
uccidere.
Nessun Shinigami si era mai tirato indietro da che il mondo esisteva,
dunque
non aveva precedenti con cui avere anche solo un minimo raffronto.
In
ogni caso, non era niente di bello. Almeno quello era chiaro. «
No »
rispose dunque,
mentendo. Ma non ci credeva nemmeno lui, alla sua menzogna. «
E’... una bugia? »
chiese infatti
Eric, il tono di voce sempre più basso. Più
triste.
Esitò:
«
...no »
rispose, rendendo
palese l’inganno.
Non
era più capace di raggirarlo. Non poteva sopportare di farlo.
...Incredibile
quanto i sentimenti potessero averlo cambiato.
Si
sentì abbracciare; le mani di Eric passarono in avanti dai
suoi fianchi,
posandosi con gentilezza sul suo petto. Percepì la schiena a
contatto con il
petto dell’altro, i battiti del cuore che rimbombavano nel
suo torace vuoto
riempiendolo di vita.
Lo
sentì respirare, e si concentrò su quel respiro.
A volte veniva trattenuto,
altre rilasciato in lungi sospiri, ma tutto sommato era tranquillo e...
piacevole, sentire il suo fiato sulla nuca.
Prese
fiato – poté sentirlo – e
sussurrò: «
non mentirmi ».
Abrahel
chiuse gli occhi, portando la sinistra ad afferrare una delle mani di
Eric sul
proprio petto. Non si scusò, né
smentì, ma quel gesto conteneva tutti i
significati del caso e non c’era niente da aggiungere.
Rimasero
così in silenzio per un tempo che sembrò
infinito, anche se forse passarono
solamente pochi minuti. Fu poi di nuovo il castano ad interrompere
quella
specie di stallo.
Lo
sentì allentare la presa fino a sciogliere
l’abbraccio, portando nuovamente le
mani dietro di lui. Poté catturare con l’udito un
fruscio, probabilmente
l’accappatoio che veniva slacciato ed abbandonato da qualche
parte sul letto,
poi la mano si posò sulla sua spalla facendo una lieve
pressione, chiedendogli
silenziosamente di girarsi.
Obbedì.
Se non altro perché era una richiesta di Eric, anche se non
espressa
verbalmente.
La
pelle nuda della sue spalle sembrava essere compatibile con la luce
della luna,
che la sfiorava come fosse morbida seta. Facendola sembrare tale, per
di più.
E
lui sapeva che era vero, che la Luna non esagerava a farla apparire
tale.
Perché l’aveva accarezzata, e baciata, e sfiorata
con le labbra e le mani fino
ad ubriacarsi, di quella pelle.
Non
poté trattenersi dall’allungare la mano, saggiando
solo con i polpastrelli
quella morbidezza; lasciandoli scivolare sulla clavicola, lievemente,
lentamente, in un tocco a malapena accennato.
L’accappatoio
era abbandonato sulla sue gambe, completamente slacciato, e copriva
solamente
in parte il suo corpo nudo. Abrahel poté vedere i muscoli
delle gambe piegate,
osservarne rapito la consistenza quasi violenta in contrasto con le
forme
armoniche delle braccia e dei fianchi, ma soprattutto delle mani.
Portò
lo sguardo al volto di Eric, cogliendone la leggera nota rossastra
sulle gote.
Imbarazzo; sembrava un sentimento che caratterizzava i rapporti intimi
dell’altro, mostrandolo a chi gli stava vicino illuminato
come da una luce
soffusa che faceva tenerezza.
Teneva
lo sguardo basso, Eric. Non si lasciava scrutare per paura di mostrare
le sue
debolezze quando, con la morte fatta persona davanti, non ve ne era
nemmeno
bisogno.
Quando
Abrahel aveva imparato a memoria ogni sua reazione, ed espressione.
Ogni suo
respiro, o sospiro, e sbuffare seccato. Quando aveva ascoltato persino
il più
roco dei suoi gemiti e percepito il piacere in ogni suo muscolo
riflesso nel
proprio corpo, catturato dalla sua vita e ad essa incatenato.
Conosceva
ogni cosa... persino come dovevano sembrare quegli occhi che ora li
teneva
nascosti facendo un torto al mondo.
Ma
non parlò. Lasciò il tempo al castano di
esprimersi come meglio preferiva, di
dire le parole che preferiva quando gli era più congeniale.
Lasciando
scorrere istanti che sembravano ore in quel silenzio, in quei respiri. «
Josh, potresti... »
cominciò Eric,
sottovoce: «
...vorresti... »
si corresse,
indeciso: «
...fare l’amore con
me? »
domandò infine,
pronunciando quelle ultime parole lentamente nonostante
l’imbarazzo tangibile
di cui era venata la sua voce.
Sorrise,
Abrahel, nel sentire quella richiesta. Malinconicamente, sorrise.
Ma
non era come lo voleva. «
Guardami negli
occhi »
disse solamente,
aspettandosi la reazione.
Le
spalle di Eric si irrigidirono, e il dio della morte poteva quasi
leggere i
pensieri che vorticavano in quella mente tutta particolare: stava
paragonando
quella richiesta ad una sorta di rifiuto, oppure al fatto che non
volesse più
ripetere l’esperienza. Per quello non si mosse, probabilmente.
Ma
Abrahel non si scompose, se lo era aspettato. Con la voce
più tranquilla,
ripeté la richiesta: «
Eric, guardami
negli occhi »
sussurrò divertito,
immobile mentre aspettava.
Eric
alzò il capo, puntando le iridi castane sulle sue bianche.
Riflettevano imbarazzo,
sì, ma mescolato ad esso c’era un mare di altri
sentimenti, sensazioni che un
essere come lui non poteva descrivere.
Ma
sapeva che c’erano. Vedeva
che erano
lì nascoste; in fondo all’anima, in fondo al cuore.
Sorrise;
un evanescente incurvarsi di labbra. «
Ora, chiedimelo di nuovo »
esordì mormorando
piano.
Vide
il panico serpeggiare in quegli occhi. Poi una sorta di vergogna,
mescolata al
tentativo blando di cambiare idea e lasciar perdere.
Lui
aspettava, attendeva. Sapeva che la richiesta era sincera -lo aveva sentito
chiaramente dalla voce e dal
modo tutto suo di frapporre il silenzio alle parole – ma
voleva che anche i
suoi occhi glielo domandassero.
Voleva
scrutare dentro di essi, con occhi da umano,
la bianca luce della sua anima riflettersi in quel desiderio.
Il
castano prese fiato una volta, due volte... e alla fine
esalò la sua richiesta:
«
ti andrebbe... di
fare l’amore con me? »
chiese, resistendo
all’istinto di abbassare lo sguardo ed interrompere il
contatto fra i loro
occhi.
Per
una sorta di ridicolo pudore, pensò Abrahel. Un pudore
beffardo, che gli
impediva di avere quegli specchi d’anima solo per
sé.
Il
moro alzò la mano destra, adagio, sfiorando con il pollice
le labbra di Eric
per poi scendere lungo il collo; e proseguire sulla gola, lungo lo
sterno,
sullo stomaco. Saggiando in quell’effimero contatto la pelle,
i brividi, i
respiri. «
Eric, la mia vita
non vale niente »
cominciò a dire in
un filo di voce, il necessario perché risuonasse forte e
chiaro: «
sono un servo del
Destino, una delle tante mani della Morte, e per tale motivo non credo
che la
mia si possa effettivamente definire “vita”. Il
significato stesso del
vocabolo, improntato su uno come me, causa un controsenso di fondo »
una pausa, breve.
Un momento sufficiente per far sì che gli occhi castani di
Eric si posassero su
di lui, attenti, desiderosi di interromperlo per dissentire.
Ma
Abrahel continuò comunque. C’erano cose che
sentiva fosse giusto dire.
Allungandosi
verso di lui posò le sue labbra sulla spalla, succhiando
appena la pelle
sottile di quel punto. Era sufficientemente vicino da far sì
che potesse
semplicemente sussurrare, per farsi sentire. «
Non valgo nulla, su
questo mondo. E non capisco ancora molte cose, ma... »
una pausa, un altro
bacio: «
...per le prossime
ventiquattro ore, la mia esistenza ti appartiene »
bisbigliò.
Sentì
Eric trattenere il respiro, sussultare appena. Avvertì la
sua mano farsi strada
sotto la maglia, cercando la pelle, il contatto diretto.
Deglutì, sospirando
piano, come se avesse paura chetutto
fosse sparito se solo avesse soffiato un po’ più
forte.
Le
labbra di Abrahel ripresero a danzare sulla sua pelle, le dita a
toccare punti
strategici, nascosti a chiunque tranne che a lui. Lo sospinse
all’indietro ed
Eric, chiudendo gli occhi, seguì docilmente quel movimento,
concedendosi a lui
totalmente, anima e corpo e fiato e pensieri.
Uniti
nel tutto, uniti nell’uno.
{Eric}
Giocava
con la sua mano, intrecciando e sciogliendo le loro dita, carezzandone
il dorso
con il pollice.
Lui
sorrideva di quel gesto, non riuscendo ad evitarselo.
L’acqua
della vasca era calda, e i vapori di quel calore aleggiavano ancora per
il
bagno come una fine foschia, appannando lo specchio sopra il lavandino
e
rendendo opache di condensa le manopole argentate.
Ogni
tanto, una goccia cadeva nell’acqua infrangendo il silenzio.
Che
non era vero silenzio. Perché c’erano i loro
respiri, le loro mute risate, i
fruscii delle loro pelli a riempirlo.
Era
tutto un insieme di percezioni. Un sovraccarico di sensazioni che
proveniva da
ognuno dei cinque sensi.
Il
tatto percepiva il tempore del petto di Joshua contro la sua schiena,
la sue
gambe piegate contro le proprie, il fiato dei suoi lenti respiri sul
collo.
Poteva percepire i propri capelli bagnati aderire alla nuca,
così come
avvertiva il solletico causato da quelli di Joshua quando si chinava a
baciargli il collo, lievemente, dolcemente.
La
vista vedeva le loro mani congiunte, e i giochi, e le carezze delle
loro dita
le une sulle altre. Vedeva l’acqua arrivare appena sopra le
sue spalle, lasciando
scoperte quelle del moro dietro di lui, che però non aveva
freddo.
L’udito
percepiva il silenzio imperfetto ed i piccoli rumori che lo riempivano.
Così
come sentiva i sospiri lievi del ragazzo dietro di lui, e le sue brevi
risate
fatte solo di respiri.
Il
gusto era rimasto immobile in un tempo ormai trascorso, fermo a quella
notte.
Aveva ancora sulla lingua il sapore della sua pelle, delle proprie
lacrime, del
loro sudore.
L’olfatto
era stuzzicato dall’odore di sapone disciolto
nell’acqua, galleggiante
nell’aria. Profumo di pulito, lo stesso che avevano i capelli
di Joshua. Un’overdose. E
quella notte non era stato diverso. Tutto aveva avuto senso in quella
dolce
confusione, nell’ebbrezza, nell’eccitazione.
Il
piacere che aveva provato e tutto ciò che aveva sentito...
aveva percepito
Joshua veramente, interiormente, completamente. Lo aveva accolto dentro
di sé
fino a sciogliersi per poi fondersi con lui, nel più
recondito dei significati;
si erano divorati l’un l’altro fino a far scontrare
le loro ossa le une contro
le altre.
Nonostante
l’altro non avesse mai sfiorato le sue labbra. Nonostante
fosse il sapore del
suo bacio, quello che ancora mancava per completare il quadro.
Era
come dover dipingere la neve senza il bianco.
Decisamente...
sfibrante. «
Cosa intendi fare
oggi? »
la voce del dio
della morte gli arrivò dolce alle orecchie, svogliata, come
se nemmeno lui
avesse voluto interrompere quella magia.
Eric,
la testa appoggiata sulla spalla dell’altro,
mugugnò appena.
Non
ci aveva pensato.
Molte
volte, o almeno una nel corso della vita, ci si chiede cosa si farebbe
se la
fine fosse vicina.
Se
si cercherebbero di esaudire i desideri, o i propri sogni.
C’è chi sceglierebbe
il tepore della famiglia, e chi il calore di una donna.
Lui...
sì, se lo era chiesto, un giorno. Inconsciamente forse, si
era domandato cosa
avrebbe voluto fare nei suoi ultimi giorni.
Ma
la domanda era scivolata via come acqua dal suo cervello, perdendosi in
qualche
cassetto della memoria che poi era stato chiuso e la chiave gettata via.
Cosa
si fa, l’ultimo giorno di vita? Come si vive, cosa si pensa,
quali sono i
rimpianti che affollano la mente? «
Voglio un
appuntamento »
esordì
all’improvviso, facendo così tabula rasa della sua
mente.
Nessun
rimorso, nessun ripensamento. Basta. Solo Joshua, solo lui,
perché era la cosa
più bella e la più dolorosa al contempo. E la
più calma, la più pacata, la più
tranquilla.
Voleva
ubriacarsi di lui, perché non ne aveva ancora abbastanza.
Voleva dimenticare se
stesso, in lui. «
Mh... »
lo sentì mugugnare:
«
ti devo confessare
che non so cosa sia »
disse poi, la voce
calma che scivolava lenta sulla sua pelle, facendogli nascere una
risatina
spontanea. «
E’ una giornata che
passi in compagnia della persona che ti piace. Si fanno diverse cose,
si
passeggia, si pranza, si va al cinema... è un giorno normale
»
spiegò brevemente,
guardandolo con la coda dell’occhio.
Lo
vide inclinare appena il capo, fissando con le iridi candide un punto
qualsiasi
delle piastrelle. «
Va bene »
acconsentì poi: «
accetto la sfida »
scherzò lievemente,
sbeffeggiando la sua stessa ignoranza.
Eric
sorrise allegro. «
Da dove possiamo
iniziare? »
cominciò poi,
lanciandosi con la mente a programmare la giornata.
Non
voleva niente di banale, ma non sapeva cosa
uno come Joshua avrebbe potuto definire “banale”.
Non aveva raffronti, né
misure, né esempi per poter fare confronti.
Si
rese conto improvvisamente che del moro sapeva tutto, ma al contempo
non sapeva
nulla. «
Mi sono appena reso
conto che non so cosa ti piace fare... »
sussurrò, fissando una mattonella con la
fronte aggrottata: «
anzi, che so
pochissimo di te »
aggiunse, quasi
contrariato da quella sua stessa lacuna.
Dietro
di lui, Joshua sospirò piano. «
Non c’è da sapere molto più di quello
che sai già »
giocò con le
parole.
Eric
lo guardò con la coda dell’occhio, curioso: il
moro aveva puntato le iridi
sulle loro mani ancora intrecciate e appariva concentrato
esclusivamente su di
esse.
Aveva
tutto il sapore di una risposta elusiva. «
Ma c’è »
sentenziò lui, insistendo.
Non era una di quelle persone che mollano la pezza. «
Per esempio, cosa
fai di solito? »
chiese
distrattamente, andando a disegnare con la mente trame inesistenti nei
disegni
della tenda di plastica appesa sopra la vasca.
Fu
per quella distrazione, forse, che la risposta di Joshua gli
gelò il sangue
nelle vene. «
Cerco di annullarmi
»
disse il moro, il
tono piatto ed inespressivo; vero.
Staccandosi
dal suo petto si girò per poterlo vedere bene negli occhi.
Erano
sinceri. No, non mentiva. «
Cosa... vuol dire? »
domandò
controvoglia, sapendo in cuor suo che avrebbe fatto volentieri a meno
di
conoscere quella risposta. Che non gli sarebbe piaciuta.
Joshua
lo guardò per un istante, in silenzio, ed Eric
capì che anche il moro aveva
pensato la stessa cosa. Tuttavia rispose comunque, come se lo stesse
assecondando apposta. Come se lo stesse facendo solo
perché... perché era
l’ultimo giorno. «
Noi Shinigami
scompariamo, se non assimiliamo energia vitale per un po’ di
tempo. Io
semplicemente aspetto. Dormo un sonno privo di sogni, immerso nelle
tenebre di
un luogo cosparso di nulla, e aspetto »
spiegò.
Per
un qualche motivo che ancora doveva riconoscere, il castano si
sentì
pesantemente seccato. No... offeso. «
Quindi tu vuoi...
morire? »
chiese nuovamente,
assottigliando gli occhi.
Il
moro lo guardò distrattamente, poi negò appena
con il capo. Il sollievo per
Eric, però, durò fin troppo poco: «
si può dire così, ma non è la stessa
cosa.
Noi non moriamo... scompariamo totalmente. Ci addormentiamo e poco dopo
di noi
non rimane niente, nemmeno la polvere. Forse solo il ricordo »
precisò ligio e
accondiscendente.
Era
la stessa cosa.
La
morte non era annullamento? La morte non era scomparsa? Anche di lui
sarebbe
rimasto solo il ricordo, quando il suo corpo sarebbe stato sepolto sei
piedi
sotto terra a marcire insieme ai vermi in una cassa di legno foderata
di seta!
E
lui veniva a dirgli di voler morire, lui?! Lui che lo avrebbe ucciso,
lui che
avrebbe interrotto la vita a cui stava cercando di tenersi aggrappato
da quando
era nato, lui che non sapeva niente
di cosa volesse dire vivere nel significato più recondito
del termine?
La
voglia di fargli del male, di scaricare la rabbia, fu troppo forte. Lo
colpì,
facendo vibrare lo schiaffo nell’aria immobile della stanza,
espandendone il
rumore acuto lungo i muri.
Non
seppe se Joshua se lo stesse aspettando o fosse riuscito a coglierlo
totalmente
di sorpresa; semplicemente lo ignorò altamente. «
Ipocrita »
sputò velenoso,
arrabbiato, tradito: «
proprio tu vieni a
dirmi di voler morire quando non puoi nemmeno farlo... e me lo dici
quando io sto per morire, io che non
voglio morire!
IO NON VOGLIO MORIRE, PORCA PUTTANA! »
urlò, lasciando che la sua voce
rimbombasse per la stanza e ferisse i timpani.
Un
silenzio pesante calò fra loro dopo quello sfogo, questa
volta totale e
completo. Nemmeno i suoi respiri accelerati sembravano abbastanza
rumorosi da
poterlo riempire e spezzare.
Il
dio della morte non si mosse. Stette semplicemente immobile a guardarlo
serio,
la guancia pallida che si stava pian piano tingendo di un rosso spento.
Chiuse
poi gli occhi in un sospiro e fu proprio in quell’istante che
Eric si pentì del
gesto.
Non
era colpa di Joshua. Non era colpa sua. Ognuno desidera ciò
che vuole, e...
Stava
per dire qualcosa, ma il moro si alzò e uscì
dalla vasca. Il corpo decisamente
troppo attraente fu velocemente rinchiuso in un accappatoio e, senza
dire
niente, uscì dal bagno richiudendosi la porta alle spalle.
Era
uno stupido.
Si
alzò a sua volta, afferrando in fretta il secondo
accappatoio e uscendo fuori a
sua volta. Una rapida occhiata all’appartamento gli fece
rendere conto che
l’altro era in camera da letto; vi entrò,
trovandolo di fatti intento ad
abbottonarsi una camicia nera a mezze maniche, i jeans scuri appena
infilati ancora
slacciati.
Gli
dava le spalle. Si sentì in colpa. «
Joshua... »
chiamò da sulla
soglia, piano. «
Mi dispiace, io non
volevo dire... sono solo... » «
Io sono stanco,
Eric »
lo interruppe il
moro, la voce profonda. «
Esausto. Stanco di
veder mutare questo mondo in peggio ad intervalli regolari. Stanco di
svegliarmi
dal nulla per cadere in un altro tipo di nulla, stanco della
consapevolezza di
dover uccidere per continuare ad esistere anche se la mia esistenza non
vale
niente. Stanco... stanco di stringere fra le mani qualcosa illudendomi
che
durerà, per poi perderla inevitabilmente »
disse, girandosi piano. Il suo sguardo
esprimeva un tormento talmente grande, quegli occhi bianchi
così addolorati,
che il castano credette di non aver mai visto nulla del genere sul
volto di
nessuno.
Quelli
erano occhi millenari. Non vi era altro termine per descriverli. «
Da quanto...? »
domandò Eric,
facendo due passi avanti: «
da quanto esisti? »
completò la domanda
sottovoce.
Evitò
il verbo “vivere” per una sorta di sottile rispetto.
Gli
occhi di Joshua si chiusero, e sembrarono quelli di un vecchio reduce
di guerra
che rivive ancora una volta il suo combattimento sul campo. «
Non me lo ricordo.
E’ passato troppo tempo, credo »
rispose, afflitto. Ma era un tipo di afflizione
stanca, provata, così antica da aver perso ogni traccia di
dolore.
Il
castano deglutì, ricoprendo velocemente la distanza che li
separava fino ad
abbracciarlo, affondando il volto nell’incavo fra la spalla e
il collo. Joshua
rispose al gesto, stringendolo a sé. «
Scusami... »
gli sussurrò Eric
all’orecchio, ma venne anticipato. «
Perdonami »
si scusò Joshua,
mormorando piano. «
Non avrei dovuto
parlare di queste cose, non era il caso. Non volevo farti arrabbiare »
soffiò.
Eric
si strinse di più a lui, chiudendo le mani sulla stoffa
della camicia nera
finché non gli fecero male le dita. Perché non
prima? Perché non aveva potuto
incontrarlo in un’altra situazione, in un altro tempo, in un
altro modo?
Dipendere
dal suo carnefice senza che fosse tale. Amarlo senza che ciò
significasse
desiderare la Morte. Avere quelle piccole gioie di cui si era privato,
come
vederlo dormire, o sentirlo sognare. Assaggiare le sue labbra senza che
gli
fosse proibito; passare le serate così, solo baciandosi,
ridacchiando a qualche
battuta idiota o sorridendo alla pace che sicuramente quei momenti
avrebbero
avuto.
Stare
con lui senza l’inquietudine, l’ombra della
mezzanotte a gravare su di loro.
Su
di lui. «
Vestiti »
gli sussurrò il dio
della morte, posandogli un leggero bacio sulla tempia: «
vado a prepararti
qualcosa per colazione »
aggiunse,
sciogliendosi dall’abbraccio per dirigersi in cucina.
Eric
annuì, guardandolo uscire con la coda dell’occhio.
Se
solo fosse stato un essere umano...
{Abrahel}
Lui
non amava particolarmente la folla.
Per
una questione sì di sopportazione, ma anche per problemi
tecnici legati alla
sua natura di Shinigami.
Vedeva
le anime della gente che gli passava accanto, sul viale principale
della città;
e questo significava essere circondati da un manipolo di luci di varie
tonalità
di grigio. Una cosa decisamente deprimente.
Solamente
l’anima di Eric, al suo fianco, brillava candida e calda.
Poteva sentire la
lieve energia che emanava anche senza impegnarsi, semplicemente sulla
pelle,
percependone l’onda gentile.
Una
sensazione che era aumentata pian piano, col tempo. Era quasi sicuro,
adesso,
che avrebbe potuto avvertire l’energia vitale di Eric anche a
grande distanza.
Magari
era “colpa” del loro rapporto, sia fisico che
sentimentale. Poteva essere che,
affezionandosi a lui in quel modo oltre misura, fosse diventato
sensibile ad
ogni cosa che lo riguardava. E questo, ovviamene, comprendeva anche
l’anima.
Lo
osservò di sottecchi, facendo attenzione a non essere visto
dal castano.
Non
sapeva cosa provava. Non riusciva a... capirsi.
Per
lui era una cosa complicata, nuova. Sentiva il bisogno di proteggerlo;
e
nonostante sapesse che la minaccia più grave da cui avrebbe
dovuto
salvaguardarlo era proprio se stesso, non sentiva il coraggio per
staccarsi da
lui e lasciarlo perdere.
Ma
non era una cosa che riguardava Enma, o la punizione che spetta agli
dei della
morte che non portano a compimento un incarico – qualunque
essa fosse. Era
piuttosto una sorta di... nostalgia.
Sentiva
che gli sarebbe imploso il cuore, se si fosse separato da Eric. Il
cuore che
non aveva, ma che sembrava essere presente dal momento in cui aveva
incontrato
Eric fuori da quella discoteca di periferia.
Che
aveva cominciato a battere piano, sottovoce, per poi farsi sentire man
mano che
si avvicinava al castano. Per poi esplodere nel momento in cui si erano
uniti,
in mezzo alle lenzuola stropicciate del letto nel suo appartamento, e
aveva
sentito di non poter essere più nessuno, senza
l’altro. Nemmeno l’esistenza
vuota e silenziosa che era sempre stato dal momento in cui era stato
creato
fino ad una settimana prima.
Ridacchiò
sommessamente, chiudendo gli occhi dietro le lenti scure degli occhiali
da
sole. Patetico.
Era
diventato un umano nel corpo di uno Shinigami. «
Cosa c’è? »
domandò l’oggetto
dei suoi pensieri, osservandolo con un cipiglio a metà fra
il curioso e... il
malinconico.
Abrahel
lo guardò meglio, approfittando biecamente delle lenti scure
per soffermarsi
sui suoi occhi. C’era un’ombra nel suo sguardo che
ne oscurava la luce... un
pensiero, forse?
Oppure...
Chiuse
gli occhi in un sospiro, non credendo a se stesso quando
sentì il proprio cuore
stringersi per l’aver notato quel piccolo particolare. «
Pensavo »
disse
semplicemente, cercando di chiudere il discorso senza planare sul
torbido.
Ma
era un illuso nel credere che Eric avrebbe lasciato perdere. «
E a cosa pensavi? »
domandò infatti,
nascondendo la sua curiosità in un tono scherzoso.
A
mali estremi, estremi rimedi. «
Potrei chiederti la stessa cosa, suppongo »
rispose direttamente,
lanciando la freccetta esattamente al centro del bersaglio che aveva
puntato.
Lo
vide abbassare appena lo sguardo, un sorriso spento ad incurvargli le
labbra. «
Si vede così tanto?
»
chiese poi,
auto-ironico. «
No »
replicò Joshua,
tornando per un momento sulla folla intorno a lui: «
solo per chi sa
vederlo »
chiarì, lievemente
ironico a sua volta senza però suonare canzonatorio.
Eric
rimase silenzioso per qualche istante, impegnato in ragionamenti tutti
suoi.
Dal canto suo, Abrahel non spostò mai lo sguardo dalla folla
finché l’altro non
si decise a rispondere. «
Pensavo a te »
rivelò il castano,
facendo istintivamente sorridere il moro. «
Sono un chiodo
fisso? »
ci scherzò sopra,
facendo ridacchiare anche Eric. «
Più o meno »
rispose quello,
mordendosi il labbro: «
mi stavo solo...
chiedendo... come sarebbe stato se tu fossi un semplice umano »
rivelò poi, tenendo
gli occhi puntati a terra e stando bene attento a non sollevarli.
Abrahel
non rispose subito. Era difficile per lui poter dire cosa potesse
essere
diverso, e cosa sarebbe rimasto uguale anche nell’ipotesi che
lui non fosse un
dio della morte. E c’erano tante, moltissime risposte a
questo quesito, primo
fra tutti l’assenza dell’ovvio finale. «
Sarebbe stato
esattamente così »
rispose invece, tornando
a guardarlo: «
tu ed io, per la
strada, fianco a fianco. Come amici o come amanti non ha importanza,
è sempre e
comunque “insieme” »
disse, suonando
convinto di se stesso in un modo che spaventò anche lui.
Non
era probabile una cosa del genere, e non era nemmeno possibile. Ma
sentiva il
bisogno di poter credere che lo fosse. Anche se era una bugia, un
illusione con
fondamenta evanescenti... in una menzogna si poteva credere comunque.
Vide
Eric sorridere, e ne fu subito rincuorato. Poi girò il volto
in sua direzione,
con lo sguardo sereno. «
Io credo che...
sarebbe diverso »
mormorò: «
per un semplice
motivo: non mi godrei ogni istante di questa giornata. Mi sono reso
conto come
sia incredibile, che le persone che non
sanno vivano la giornata pensando sempre a quello che faranno
dopo. Anche io ero così »
una piccola pausa,
uno sguardo al cielo azzurro e soleggiato: «
una donna cammina per strada e pensa a
cosa dovrà prendere al supermercato per cena, un uomo esce
dall’ufficio e pensa
subito al programma di lavoro per il giorno successivo, una segretaria
archivia
una pratica e già la sua mente si sposta su quella
successiva. Tutti inseguono
il dopo come se il futuro fosse certezza, anche se solo di pochi minuti
o al
massimo di qualche ora ».
Un
altro lieve incurvarsi di labbra, il suo avvicinarsi modesto fino a far
sfiorare le loro spalle, le nocche delle loro mani abbandonate lungo i
fianchi. «Sapere, mi ha aperto gli occhi... »
continuò Eric con
la voce ridotta ad un mormorio fievole, che Abrahel comunque sentiva: «
...se fossimo
persone normali, e se io non fossi condannato... non mi godrei ogni
attimo che
passo in tua compagnia. Non sarebbe così... » «
Profondo »
concluse Abrahel al
suo posto, incontrando l’assenso del castano al suo fianco.
Allungando la mano
catturò quella di Eric, così vicina, unendone i
palmi e lasciandone intrecciare
le dita.
Il
castano non rifuggì il contatto, rendendo anzi la presa
più salda. «
Ci guarderanno
tutti... »
sussurrò
preoccupato, guardandosi intorno guardingo. «
Lascia che guardino
»
rispose il moro: «
magari impareranno
a soffermarsi sul presente ».
«
Josh, è tutto ok? »
gli chiese Eric con
aria preoccupata, posandogli una mano sulla spalla.
Sotto
al suo sedere, la panchina su cui si era seduto dopo quella
diavoleria pareva l’unica cosa ferma
dell’ambiente
circostante. «
Non ne sono molto
sicuro »
bofonchiò quindi,
aumentando appena la stretta sulle assi di legno a lato dei suoi
fianchi. «
Può vomitare uno
Shinigami? »
domandò
l’altro con cipiglio curioso. «
Non credo di
volerlo scoprire, Eric »
ribatté prontamente
Abrahel, chiudendo gli occhi e riaprendoli come se, con quella mossa,
il mondo
potesse finalmente fermarsi.
«
Mi dispiace... »
bofonchiò il
ragazzo, appoggiandogli la bottiglietta dell’acqua fresca al
collo: «
non credevo che soffrissi
le montagne russe ». «
Già. Beh, nemmeno
io »
schernì lui,
afferrando con la mano la bottiglia e posandosela sulla fronte. «
Perché gli esseri
umani se non inventano di queste cose non sono felici? Cosa
c’è di bello
nell’andare su e giù e girare in tondo come dentro
ad una centrifuga? »
si lamentò,
decisamente contrariato questo sviluppo inutile di tecnologia da parte
della
razza umana. A cosa serviva quell’affare, oggettivamente
parlando?
Al
suo fianco, sentì Eric ridere di gusto. «
Cos’ho detto di così divertente? »
borbottò offeso,
restituendogli la bottiglia. In un qualche modo, sembrava che il mondo
fosse un
po’ più stabile sotto i piedi. «
Sei unico, davvero!
»
esclamò il castano,
tenendosi le stomaco per non piegarsi in due dal ridere: «
sembri un
vecchietto che se la prende con la generazione giovanile! »
aggiunse,
osservandolo di sottecchi fra le lacrime delle risate.
Abrahel
assottigliò gli occhi nella sua migliore espressione
omicida. Ma con Eric, si
rese conto presto, non funzionava; anzi, a dire la verità
non riusciva a
guardarlo in quel modo nemmeno sforzandosi. «
Un vecchietto molto
longevo »
ironizzò poi,
restituendogli la bottiglietta d’acqua con un gesto elegante. «
Beh, li porta
magnificamente, signore »
scherzò a sua volta
Eric, assumendo un tono suadente che non si preoccupò di
celare poi così tanto.
Abrahel
rispose con un sorrisetto complice, avvicinandosi appena con il volto a
quello
dell’altro: «
non dovrebbe
flirtare in questo modo sfacciato con gli anziani, giovanotto »
rimase al gioco: «
potrebbe
incontrarne uno particolarmente spudorato da rispondere positivamente
alle
avances »
rispose, fissandolo
direttamente negli occhi con un sorrisetto malizioso.
Sorriso
a cui Eric rispondeva ad arte. «
Dipenderebbe tutto da come l’anziano in questione
avrebbe intenzione di trattarmi... »
lasciò cadere appositamente, facendosi a
sua volta un po’ più vicino ad Abrahel. «
Gentilmente. Ma il
vecchietto è puntiglioso, e un corpo giovane sotto mano va
esplorato con la
dovuta cura e... lentezza. Estenuante lentezza, oserei dire »
ipotizzò
scherzosamente, arrivandogli abbastanza vicino da far scivolare
“inavvertitamente” un dito lungo il profilo della
sua coscia, da sopra i jeans.
Lo
vide deglutire mentre seguiva con lo sguardo il percorso del dito. «
Mh... in questo
caso... » «
Eric Everald?! »
sentirono da
qualche parte in mezzo alla folla del luna park, e la loro reazione fu
simultanea nel girare la testa verso di essa.
L’unica
differenza fra loro, era che lo sguardo di Eric non prometteva
l’auto
combustione spontanea. «
Noah? »
mormorò Eric al suo
fianco, puntando gli occhi su un ragazzo dalla zazzera rossiccia che
salutava
dalla fontana, sbracciandosi in loro direzione. Rispose al saluto con
un
sorriso, alzandosi.
Abrahel
lo seguì. «
Chi è? »
domandò poi,
modulando il tono per non farlo sembrare seccato. Inutilmente. «
Noah Keynes »
rispose l’altro,
attirando la sua attenzione: «
abitava vicino a noi prima che i suoi genitori si
separassero. Quando la madre se ne andò lui e suo padre
cambiarono casa »
alzò nuovamente il
braccio in direzione del rosso, che a sua volta si era alzato dal bordo
della
fontana e camminava verso di loro. «
Abbiamo giocato insieme praticamente
sempre, da bambini. Anche se era più piccolo di quattro anni
ci divertivamo lo
stesso come matti »
spiegò, correndo
per coprire gli ultimi metri.
Abrahel
squadrò bene il ragazzo dai capelli rossi, facendosi tornare
finalmente alla
memoria il perché quel nome gli suonasse famigliare.
Corporatura normale, occhi
castani. Un viso rotondo e sorridente, un modo di parlare spigliato e
gioviale,
uno sguardo sincero e... un’anima candida simile a quella di
Eric.
Sospirò,
avvicinandosi con le mani in tasca. Due anime bianche in una
settimana... roba
da non credere. «
Noah! »
esclamò il castano
una volta abbracciato l’altro, che gli diede qualche pacca
sulla spalla: «
è da un’esistenza
che non ci vediamo! Come va? » «
Al solito, niente
di che »
disse il ragazzo in
risposta, osservandoli entrambi: «
vi ho disturbati? »
domandò poi
assumendo un’espressione lievemente colpevole.
Abrahel
represse l’istinto di rispondere un
“perspicace” che sicuramente avrebbe fatto
arrabbiare Eric. E poi, se si conoscevano non era poi così
male: aveva un
messaggio da consegnare. «
Lui è Joshua Archer,
si è trasferito qui da poco »
lo presentò il castano, indicandolo con un gesto della
mano. All’allungarsi della mano del rosso, lui la strinse con
un «
piacere »
abbastanza
neutrale. «
Piacere mio »
rispose l’altro con
un sorriso gentile. «
Cosa ci fate qui in
giro raga? Niente lezioni? »
domandò poi con un ghigno furbo sulle labbra.
Eric
negò con il capo: «
saltate »
rispose con la
stessa furbizia: «
e tu? Niente
scuola? »
chiese a sua volta.
Anche
Noah negò con un sospiro: «
saltata anche io.
La fidanzata di papà è tornata da poco e hanno
organizzato una sorta di “uscita
famigliare” o roba simile »
spiegò velocemente,
infilandosi le mani nelle tasche. «
Tuo padre si è
trovato un’altra donna? »
chiese Eric,
abbassando il tono di un’ottava. Probabilmente cercava di
usare del tatto, non
sapendo cosa pensasse l’altro della propria situazione.
Abrahel
rimase ad ascoltare, in silenzio. «
Sì, da un po’. Ma
lei è archeologa, dunque non è a casa spesso »
spiegò paziente: «
ho un fratellastro
però, più grande di me di un anno »
aggiunse con un nuovo sorriso sulle
labbra. Più dolce.
Anche
di un secolo, pensò Abrahel sorridendo sotto i baffi.
Avrebbe volentieri
scoperto le carte in tavola, rivelando a Noah di conoscere Marcus,
anche solo
per vedere la reazione che avrebbe avuto; ma preferì lasciar
perdere e
continuare ad ascoltare.
Eric
sorrise cortese. Non doveva essere molto ferrato sul come prendere di
petto gli
argomenti famigliari; in quello almeno si somigliavano. «
Andate d’accordo? »
domandò infatti,
rimanendo su una sorta di conversazione neutra che non andasse a parare
sulla
relazione di suo padre. Solitamente l’oggetto di astio era la
nuova compagna
del padre, non l’eventuale fratellastro.
Noah
ridacchiò allegro, però, e la cosa faceva ben
sperare. «
All’inizio no, mi
odiava »
rivelò con un
sorriso divertito: «
però adesso sì.
Siamo... molto uniti »
mormorò, abbassando
lo sguardo come se dire quelle parole gli causasse imbarazzo. Il
sorriso che
gli piegò le labbra aveva quel sentore.
Abrahel
cominciò a pensare che la trasparenza fosse una
caratteristica comune delle
anime bianche. Soprattutto l’imbarazzo era facilmente
individuabile nei tratti
delle persone – il leggero rossore, l’abbassarsi
degli occhi, il tono di voce
che diveniva un sussurro – ma sia Noah che Eric avevano occhi
sinceri, dentro
ai quali si potevano leggere molte cose. «
Beh, ora mi sa che
devo andare »
intervenne il
rosso, indicando con il pollice la fontana: «
ho promesso a mio padre che ci saremmo
incontrati alla fontana, se non mi vede va in panico ». «
Va bene, divertiti
allora »
rispose Eric
sorridendo allegro: «
fatti... sentire
ogni tanto »
esitò un momento,
per un breve istante.
Ma
Noah non sembrò accorgersene. «
Certamente! »
ribatté, e stava già per allontanarsi
quando fu Abrahel a fermarlo. «
Keynes! »
chiamò, la voce ferma.
Il
rosso si girò in sua direzione. «
Potresti portare un messaggio a Marcus da parte mia? »
gli domandò,
osservandolo con pacatezza. Noah sembrò dapprima sorpreso
poi dubbioso, ma alla
fine annuì con il capo. «
Digli che ora so
cosa vuol dire “importante”. Lui capirà »
disse, gentile.
Noah
annuì di nuovo, salutando e tornando a sedersi sul bordo
della fontana. Nel
frattempo, loro due cominciarono ad incamminarsi in direzione
dell’uscita. «
Come fai a
conoscere suo fratello? »
domandò Eric
curioso, osservandolo di sbieco.
Abrahel
sogghignò. «
L’ho conosciuto per
caso »
rispose poi,
guardando dritto davanti a sé con ancora il ghigno sulle
labbra: «
i vampiri sono e
saranno sempre esseri intrattabili ».
{Eric}
L'espressione
"giornata normale" prevedeva anche il tipico pranzo americano: il
fast food.
Nonstante
Eric non fosse esattamente sicuro che Joshua avesse mai messo piede
dentro un
McDonald, decise comunque di tentare la sorte e di portarcelo. Non
sapeva a
base di cosa fosse la dieta degli Shinigami, ma almeno una volta lo
aveva visto
mangiare dell'insalata, dunque supponeva potesse cibarsi anche di
alimenti
umani.
Chissà
perché riteneva Joshua una persona abbastanza schizzinosa,
in fatto di cibo. E
magari, pensò una volta in fila alla cassa, portare un dio
della morte vegetariano
in un posto in cui si vendeva solo roba a base di carne non era stata
una
grande idea.
L'espressione
poco convinta che assunse il moro guardando i tabelloni con il
menù fu una
sorta di prova del nove. «
Josh, possiamo
anche cambiare posto... »
mormorò al ragazzo,
in fila alla cassa di fianco alla sua. «
No, va benissimo »
rispose quello,
probabilmente troppo assorto nella sua mania di assecondarlo per
mettere in
primo posto i suoi bisogni alimentari.
Eric
sospirò rassegnato. «
Mi sembrava di averti
detto di non assecondarmi per ogni cosa! Se ti dicessi che il sogno
della mia
vita è vederti volare da un grattacielo di trenta piani ti
butteresti
dall'Empire State Building? »
domandò ironico, fissandolo decisamente male. «
Tanto non morirei »
fu la risposta
disinteressata che ottenne. «
Lo so che non
moriresti! »
non era quello il
punto! «
E' solo che... » «
Eric »
lo interruppe però
Joshua, girandosi in sua direzione con un'espressione che non ammetteva
repliche: «
se ti ho detto che
va bene vuol dire che va bene, e che ho trovato comunque qualcosa da
mangiare.
Perciò rilassati, ok? Non ti sto assecondando apposta »
spiegò, tornando
con gli occhi al menù.
Eric
sospirò rassegnato. «
Ci rinuncio »
borbottò a se
stesso, ripassando mentalmente la propria ordinazione prima di arrivare
davanti
al cassiere. «
Prego? »
disse quello, in
attesa. «
Un menù tre, coca
media, con ketchup »
disse brevemente,
abituato a quel tipo di ordinazioni. Con Rob e Doug non si mangiava
altro
quando organizzavano serate "cena, cinema e night club".
Il
cassiere annuì, selezionando i prezzi sul dispaly e mandando
in stampa lo
scontrino; si allontanò poi dietro al bancone per recuperare
il suo hamburger e
il resto dell'ordinazione.
Nel
frattempo, al suo fianco, Joshua arrivò alla cassa. Aveva
l'aria di uno che
aveva preso una decisione significativa della sua esistenza, e il suo
sguardo
risoluto - e a dir poco inquietante - trapassò la cassiera
da parte a parte,
facendola balbettare nel chiedere cosa volesse.
Joshua
la fissò, e lui fissò Joshua con la coda
dell'occhio. Una lista di possibilità
scorse nella sua mente, come quella che vedeva l'altro ordinare un Big
Mac. Con
dentro ben DUE hamburger. La rivoluzione della carne made in Joshua
Archer.
Deglutì,
attendendo con trepidazione. Finalmente vide il moro prendere fiato,
aprire la
bocca... «
Un milk shake alla
fragola ».
Se
avesse potuto prendere il vassoio e sbatterselo in fronte,
probabilmente lo
avrebbe fatto. Solo, non voleva rovesciare le patatine.
Una
volta ritirato il vassoio (Joshua non poté esimersi dal far
notare che non
c’era bisogno di un vassoio per la sua ordinazione alla
cassiera che pendeva
dalle sue labbra), si andarono a sedere in sala, cercando un tavolo che
non
fosse in un punto troppo affollato. «
Cazzo, l’hai fatto
di nuovo! »
esclamò una volta
sedutosi, riservando all’altro un’occhiata a dir
poco pungente.
Joshua,
che sembrava a suo agio in qualsiasi luogo andasse, trasse dubbioso un
sorso di
milk shake dalla cannuccia, alzando gli occhi su di lui proprio mentre
ne
considerava il gusto. «
E’ schifosamente
dolce »
commentò, per poi
aggiungere: «
cosa? »
in risposta, un
sorriso sghembo ad incrinargli le labbra. «
La cassiera! »
fece notare lui,
non potendo non considerare però quanto amasse vedere quel
sorrisetto sornione
sul volto dell’altro. «
Era ai tuoi piedi,
hai notato? Ti ha persino chiesto se volevi il ketchup per tenerti alla
cassa
qualche minuto in più! A te che le patatine nemmeno le hai
prese! »
continuò lamentoso,
scartando l’hamburger e sbattendone l’involucro sul
tavolo.
Il
moro ridacchiò divertito, appoggiandosi allo schienale della
sedia. «
A me è sembrato che
facesse il suo lavoro »
esordì, prendendo
un altro zuccheroso sorso di milk shake. «
Seh, te lo dico io
che lavoro faceva quella... altro che cassiera »
borbottò lui in risposta, azzannando
il panino.
Per
tutto il tempo in cui masticò il boccone, Joshua lo
guardò con un ghigno
inquietantemente compiaciuto sul volto. Solo quando si decise a parlare
–
ovvero quando Eric aveva finito di masticare e quindi poteva
rispondergli – il
castano capì che Joshua adorava fin troppo sfotterlo. «
E sei geloso? »
domandò infatti,
quel ghigno irritante ancora dipinto sulle labbra.
Eric
sussultò appena, osservandolo da sotto le ciglia: «
perché, non posso? »
domandò, bevendo un
sorso di coca per avere la scusa di distogliere lo sguardo da quello
dell’altro: «
tu sei roba mia,
insomma... »
borbottò
impacciato.
Vide
il moro ridacchiare di gusto, e per assurdo si sentì offeso.
Cos’è, si era
sbagliato? Insomma, erano stati insieme e tutto il resto, era solo
normale che
gli girassero le palle ad elica se una cassiera random faceva la prima
donna
con il suo uomo!
...ok,
ora era lui a sembrare una
ragazzina.
Si
fece scivolare sulla panca, imbarazzato, cercando di diventare
tutt’uno con il
pavimento. «
Ehi »
chiamò però Joshua,
appoggiando i gomiti sulla superficie di legno laccato e avvicinandosi
a lui
con il volto: «
te l’ho già detto,
la mia esistenza è tua. E credo di essere anche abbastanza
fedele »
ironizzò appena,
sorridendo sbieco con lo sguardo di uno che si sta divertendo un mondo.
Eric
sentì il proprio volto accaldato, e sperò in cuor
suo di non essere arrossito
come una ragazzina. «
Smetti di dire cose
imbarazzanti... »
mugugnò appena,
puntando gli occhi su di una crepa improvvisamente interessante.
Sentì
Joshua ridacchiare e, a sua volta, non poté trattenere un
sorriso.
Non
avrebbe potuto sperare in un giorno più tranquillo e
piacevole di quello.
Dopo
pranzo erano andati al cinema, a vedere una replica di un vecchio film
in
bianco e nero. Non che la pellicola fosse importante, comunque;
praticamente
avevano passato il tempo nell’ultima fila laterale, quella da
cui non vedi
quasi nulla, parlottando a bassa voce e ridacchiando per delle scemenze.
Al
mercatino di china town, Eric aveva piacevolmente scoperto che Joshua
conosceva
la maggior parte dei rimedi farmaceutici cinesi. Sapeva le
proprietà curative
delle radici e di alcuni tipi di funghi, così tanto che si
intrattenne almeno
dieci minuti a discutere con il vecchio proprietario di un negozietto
di spezie
e rimedi curativi.
Allo
stesso tempo, vederlo in un centro commerciale a tre piani fu la cosa
più
divertente della sua vita.
Ok,
magari poteva risparmiarsi di portare una persona intollerante alla
razza umana
nel posto più incasinato per eccellenza, ma la reazione che
Joshua aveva alla
folla era impagabile. Anche se, ad un certo punto, aveva veramente
pensato che
avrebbe incenerito un bambino troppo piagnucoloso con lo sguardo.
Si
fece perdonare con la biblioteca. Quello era un luogo che piaceva ad
entrambi;
a lui perché studiava letteratura, all’altro per
l’amore considerevole che
aveva per la lettura – anche se era puramente a scopo
informativo, gli spiegò;
li usava per conoscere ciò che si perdeva del mondo fra un
“sonno” e l’altro.
Quando
si fece buio, si fermarono a mangiare. Questa volta non in un fast
food, per
tranquillità di entrambi, anche se comunque Joshua prese
un’insalata e una
macedonia a confronto della sua pizza a doppia farcitura.
Usciti
dalla pizzeria, presero un autobus per ritornare nei pressi del campus.
Su sua
richiesta deviarono dalla strada di ritorno, imboccando il viale che
portava a
casa Everald.
Voleva
solo... vederli. Da fuori, da lontano. Magari attraverso la finestra
del
salone.
Ma
quando arrivarono, tutte le luci erano spente. Non c’era
nessuno per strada
nonostante fossero solo le dieci di sera – o forse erano già le dieci – e
anche le luci delle case affianco alla sua non
trasparivano dalle finestre.
Avvertì
Joshua afferrargli gentilmente la mano solo dopo qualche minuto, in cui
era
rimasto fermo ed in silenzio a guardare la casa immersa
nell’immobile oscurità.
«
Vuoi andare a
cercarli? »
domandò a bassa
voce, voltando appena il capo in sua direzione.
Eric
scosse il capo, chiudendo gli occhi. «
Credo non farei... in tempo »
rivelò in un
sussurrò, sospirando affranto.
{Abrahel
& Eric}
La
città all’esterno delle vetrate brillava di colori
accesi; piccole lucciole
colorate confuse nel buio.
Il
silenzio della sala, la cui luce non era nemmeno stata accesa per
lasciare
campo libero a quella fievole esterna, veniva interrotto solo dai loro
respiri
e dal ticchettio insistente della pendola.
Dal
ricordo del tempo che correva senza fermarsi. «
Non manca molto...
vero? »
la voce di Eric era
flebile nello sforzo di rimanere sereno, di non cedere alla paura.
Un
paio d’occhi candidi guardarono di sfuggita l’ora,
tornando subito dopo sulla
città. «
No »
fu la semplice
risposta, granitica, fuori luogo.
Perché
fuori luogo erano i pensieri e i dubbi. I ripensamenti come i
sentimenti
stessi.
Eric
cercò la mano di Joshua, che non si tirò indietro
nel frasi trovare. Le dita si
intrecciarono, i palmi si sfiorarono l’un l’altro
in un muto contratto. «
Dimmi a cosa stai
pensando »
il sussurro di Eric
era udibile come se fosse stato pronunciato ad alta voce; la fredda
calma di cui
la stanza era pregna fungeva da amplificatore di ogni minimo rumore,
quasi
anche del battito del cuore.
Joshua
rimase in silenzio, pensieroso. «
Non ti piacerebbe »
rispose poi, cupo. «
Non puoi dirlo se
non ci provi »
ribatté il castano,
girando appena il viso per vedere bene il compagno.
Il
moro, notando il movimento, lo replicò. «
Non voglio ucciderti, Eric »
e sembrò più una
preghiera, che una rivelazione.
Il
castano chiuse gli occhi, pacato. «
Ciò che vuoi e ciò che devi fare non
sempre coincidono »
pronunciò,
riaprendo gli occhi per immergerli nuovamente in quelli di Joshua.
Avvolgendoli,
cullandoli. Rassicurandolo, quasi.
Il
moro si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «
Ha tutta l’aria di una citazione »
ironizzò appena,
amaramente, dando alla leggerezza statica di quella stanza un sapore
sgradevole
di stantio.
Intanto
la pendola rintoccava, rumorosa.
Mezzanotte
meno cinque minuti.
Il
fruscio dei loro vestiti fu ciò che infranse il silenzio,
depositandosi in esso
come un sedimento. I movimenti del tutto volontari di avvicinarsi
all’unisono,
di abbracciarsi dolcemente.
I
loro visi a pochissima distanza l’uno da quello
dell’altro; i loro nasi che si
sfiorano appena, le loro bocche divise in attesa di unirsi, di
assaggiarsi.
Finalmente.
Abrahel
osservò quegli occhi castani come se rappresentassero la
salvezza. Come se
fossero la via per tutte le risposte ai suoi dubbi, e alle sue
molteplici
domande. Come se potessero guidarlo perché scegliesse,
finalmente, cosa fare.
Erano
rimasti dieci minuti. Il tempo stava scadendo. «
Josh... »
mormorò Eric,
piegando le labbra in un’ombra di sorriso gentile: «
non preoccuparti.
Se sei tu, va bene così ».
Parole
che, nel rappresentare la risposta cercata, pesavano come macigni su un
cuore
fatto di nulla.
Esisteva
Eric, ed Eric soltanto.
Così
come c’era Joshua, e Joshua soltanto.
Due
essenze all’unisono.
Quattro
minuti.
«
Abrahel ».
Gli
occhi castani si assottigliarono, lo sguardo confuso al suono di quella
parola. «
Il mio vero nome »
chiarì allora lo
shinigami, sorridendo malinconico.
Anche
Eric sorrise; un lieve segno di divertimento in quella sua voce fatta
di
musica: «
ho letto la tua
storia su di un libro, l’anno scorso... »
disse appena, portando il naso a sfregare quello
del moro. «
E’ probabile »
annuì Joshua: «
Abrahel è un dogma,
per voi. Qualcosa che esiste solo perché qualcuno ha detto
così ». «
Ma Joshua è reale »
lo contraddisse il
castano: «
io posso toccarti,
e vederti, e... »
una lieve pausa, un
silenzio infinitesimale ma al contempo infinito: «
...amarti. Sei qui, adesso. Ti
sento. E non nelle polverose pagine di un libro, sottoforma di
inchiostro e
carta »
spiegò, sfiorando
al contempo la schiena dell’altro con le dita.
Il
dio della morte portò una mano alla gota del castano,
carezzandola con le
nocche. «
Per te è una
sfortuna che io sia qui... »
mormorò affranto, cercando di nascondere la malinconia
con un sorriso scontato.
Eric
negò. «
Ringrazierei ogni
giorno chi ha deciso di far sì che ci incontrassimo »
sentenziò con
sicurezza. «
E’ la morte che ha
deciso »
ribatté Abrahel con
amarezza. «
E allora ringrazio
la morte ».
L’aroma
dolce di un’anima candida.
L’aspettativa
ansiosa dell’unione sperata.
Desideri
che si sfiorano timorosi.
Tre
minuti.
Il
castano alzò una mano, passando il polpastrello
dell’indice sulle labbra di
Joshua. Ne osservò lo sguardo, solo e completamente suo,
facendo pian piano
scomparire il leggero e dolce sorriso che ancora piegava le sue labbra. «
Cosa farai dopo? »
domandò poi, colto
all’improvviso da quel dubbio senza importanza.
Joshua
sospirò, chiudendo gli occhi. Non rispose, e il suo silenzio
non fece altro che
alimentare i dubbi di Eric. «
Josh... »
chiamò di nuovo. «
Cosa pensi che
farò? »
eluse allora
Abrahel, riaprendo gli occhi per specchiarsi di nuovo in quelli castani
dell’altro, così vicini ai suoi.
Eric
sembrò voler rispondere, ma prese aria senza riuscire a
parlare. Dovette
prendere fiato una seconda volta, prima di lasciare che le parole
uscissero: «
la speranza, è che
tu ritorni al tuo lavoro. Il presentimento, è che cercherai
di seguirmi... a
modo tuo »
esalò, combattuto
nel rivelare quel pensiero.
Lo
shinigami ghignò: «
non puoi chiedermi
di far finta che non sia successo niente, ti pare? ».
Calore,
protezione, sicurezza.
Fra le
braccia dell’assassino, la sua vittima.
Perfetta
utopia.
Due
minuti.
Un
sospiro da parte di Eric, la sua fronte che si posa sulla spalla del
moro. «
Non riuscirò a
convincerti a lasciar perdere, vero? »
domandò mormorando, stringendosi all’altro
ancora di più. «
No, non ci
riuscirai »
ribatté Abrahel,
posandogli un bacio sulla tempia.
Qualche
istante di silenzio, un brivido lungo la schiena dell’umano
ma percepito anche
dal dio della morte.
Abrahel
chiuse gli occhi, stringendo a sé Eric come se dovesse
rassicurarlo. Anche se
non avrebbe dovuto farlo.
Anche
se non aveva senso, fatto da lui. «
Non temere... »
sussurrò amaro,
sofferente: «
sarà come
svegliarsi da un incubo »
pronunciò accanto
al suo orecchio, piegandosi su di lui nell’assurdo tentativo
di proteggerlo da
qualcosa in arrivo.
Avrebbe
dovuto proteggerlo da se stesso, e avrebbe dovuto farlo andandosene.
Rinunciando. Sacrificando il mondo che odiava per la persona che amava. «
No... »
rispose però Eric,
aggrappandosi a lui nel medesimo modo. Il fiato corto non
poté non rivelare le
sue lacrime, dettate più dall’agitazione che dalla
paura, ma pur sempre
lacrime. «
Sarà come
riaddormentarsi dopo un sogno »
aggiunse, in un soffio sofferto.
La
fine fa sentire i suoi passi.
Il
sacrificio di chi si ama per la salvezza di ciò che si odia.
Vita e
morte in un solo abbraccio.
Un
minuto.
Si
separarono lentamente, delicatamente.
Si
guardarono negli occhi, l’uno scrutando quelli
dell’altro, ancora. Come se non
ne avessero mai abbastanza. «
Ci rivedremo? »
domandò Eric in un
soffio, sussurrando quella domanda come se fosse una preghiera.
Abrahel
sorrise.
No.
Non si sarebbero rivisti. La vita non funzionava così,
così come la non-vita.
Il
lieto fine non esiste.
Tuttavia
si sforzò di continuare a sorridere, per non contagiare con
l’amarezza anche
quell’ultimo istante. «
Sì »
disse dunque: «
Sì. Ci rivedremo,
un giorno ».
Il
primo rintocco sopraggiunse, e nel silenzio si spense.
Eric
trattenne le lacrime, cercando di credere con tutto se stesso che
sarebbe stato
possibile. Come ultimo regalo: la speranza. «
Ti avevo detto di
non mentirmi... »
sussurrò tuttavia,
lasciando scivolare le gocce salate all’angolo degli occhi,
lungo le gote.
Era
tempo.
Mezzanotte. Un
rintocco per battito di cuore.
Unirono
le loro labbra.
Nel momento in cui
il corpo di Eric scivolò fra le sue braccia, e lui lo
seguì inginocchiandosi al
suolo...
Nell’istante in cui
il candido cristallo prese forma fra le sue mani, luminoso come una
stella,
lasciandogli fra le labbra il dolce sapore dell’anima di
Eric, diverso da
qualsiasi altra cosa esistente...
Nell’attimo in cui
si accorse che il sapore salato che sentiva come retrogusto era quello
delle
proprie lacrime, che gli impedivano di tenere persino gli occhi
aperti... capì.
Non sarebbe mai più
potuto tornare ad essere quello di prima. Il cambiamento era stato
troppo
profondo.
Strinse quel corpo
esanime a sé, ignorando il mondo inginocchiato su quella
moquette. Nascose il
viso sul suo collo, singhiozzando in silenzio.
Sì... piangere
faceva male.
Non
so nemmeno io come definire questo capitolo, purtroppo. Non lo so
davvero.
Credo
sia uscito la metà di quello che speravo, sia come
sensazioni che come
profondità del testo. Colpa, forse, di alcuni cambiamenti
che ho dovuto
apportare per questioni di lunghezza... spero solo che sia piaciuto.
Anche
se non è la fine (purtroppo per voi XP). L’ultimo
capitolo, l’epilogo, verrà
pubblicato – spero - in tempi brevi. E con esso i dovuti
ringraziamenti.
Intanto,
comincio con il ringraziare le persone che hanno letto e recensito il
capitolo
precedente. E anche coloro che, ovviamente, si sono sorbite questo
penultimo
capitolo e tutta la sua sconclusionata confusione (XP)
Shichan:
che me lo ha
betato e che dunque me l’ha commentato in presa diretta XD Io
e te ci diciamo
il mondo in separata sede, in ogni caso ti ringrazio comunque per le
belle
parole sullo stile e il lessico. Sai che sono pignola e non ci credo,
però
grazie lo stesso U___u (XP)
GreedFan:
Mi pareva di aver
letto il tuo nick anche da qualche altra parte XD Grazie mille per
tutti i
complimenti, e anche per aver recensito. Prima o poi
giungerà ad una fine anche
St. Michael Gakuen, non la lascio alla burrasca. Spero che il capitolo
sia
stato di tuo gradimento, nonostante sia un tantino deprimente.
Gioielle:
rileggere i tuoi
papiri è sempre un piacere, sai? XD In ogni caso... sei una
delle poche persone
(almeno, per quello che ho sentito io) a cui piace Alex. E
sì, magari avere
tutte le sorelle che hai è incisivo a questo proposito XD
purtroppo sì, niente
sequel; all’inizio non avevo nemmeno programmato
l’incontro tra i due, ma non
potevo lasciare che Alex sparisse così, soprattutto dopo che
si era pentito...
ad un certo punto ho capito che avrei dovuto inserirlo, e
così ho fatto. Anche
se la sequenza non mi aveva convinta fino alla fine, e devo dire che mi
fa
piacere che sia piaciuta (il gioco di parole non è voluto
XP).
Timoty.
Eh... *sospira* Timoty purtroppo è uno di quei personaggi
creati per altre cose
e biecamente usati come “side characters”.
Sì, si può dire che ha una storia
alle spalle e, come hai detto tu, un motivo per tutti i comportamenti
che
mostra e tutto ciò che fa. Ma con questa storia non centrava
nulla, così non mi
sono spinta nell’introspezione, Magari un giorno mi
butterò su qualcosa che lo
riguardi... non saprei. Sono tuttavia felice che sia piaciuto,
nonostante tutto
XD non è un personaggio molto positivo... ma da una fan di
Abrahel, suppongo di
non potermi aspettare altro X°D.
La
parte di Trent ho penato, per scriverla. Tutta la partita. Non solo
perché di
basket non ci capisco un tubo, più che altro
perché dovevo trattenermi dal
sistemare il rapporto fra loro e far scusare l’uomo. Mi
è balenato per la
mente, ma non potevo: Trent avrà un suo ruolo
nell’epilogo. Però sì: è
stronzo.
Sono d’accordo.
Infine,
tanti grazie per i complimenti sullo stile. Fa sempre piacere
sentirseli dire,
anche se a volte è quasi imbarazzante >//>.
Spero
che questo capitolo non ti abbia delusa <3 Grazie ancora per la
recensione!
Angel09:
Grazie mille anche
a te, anche se con tutti ‘sti “grazie”
sembro ripetitiva XP sono felice che la storia
ti sia piaciuta (ho visto le altre recensioni negli altri capitoli XD)
e spero
che il finale non ti deluderà.
CloudRibbon:
è un complotto
delle recensioni contro di noi, Cloud, anche se devo ammettere che si
sono
rimasta un attimo sorpresa, a leggere il tuo nome fra i recensori. Non
ti
aspettavo, a dire il vero >___> non mi capita spesso che
le stesse
persone leggano roba mia su diversi fandom.
Però
mi fa piacere, non azzardarti a pensare il contrario
°____°
Cominciamo
con calma. Io... non credo di essere migliorata troppo nello stile. Nel
senso,
io vado molto a periodi, e dipende soprattutto quanto mi influenza
ciò che sto
leggendo, che sia un libro o una fanfic. Ho alti e bassi come tutti, e
forse è
per quello che io non vedo mai i miei miglioramenti (sempre che ce ne
siano)...
ma se me lo dici tu, mi fido.
Anche
perché la stessa cosa che ti facevi notare per i personaggi
vale anche per la
scorrevolezza. Essendo personaggi miei, ho meno problemi a mantenerli
IC, e non
mi devo fermare ogni dieci righe a pensare se Tizio e Caio mantengano
il
carattere e possano o non possano dire quella determinata cosa. Da un
certo
punto di vista, è più facile XD
Ti
ringrazio, poi, per il tuo apprezzamento sui personaggi stessi. Mi
impegno per
dare loro una forma senza essere troppo descrittiva e... da quello che
dici,
sembra che abbia raggiunto l’intento
^^’’’’ ne sono felice.
Oddio,
non esageriamo... non credo di essere a livello di pubblicazione al di
fuori di
EFP, il mio stile non è ancora abbastanza maturo... e
comunque credo sia una
cosa che non farò mai ^^’’’ ci
ho pensato, ma alla fine è meglio di no. Ti
ringrazio comunque per il sostegno XD
Ancora
tanti ringraziamenti (non finisco più >___>)
per la recensione. Baci
<3
I
miei migliori auguri di Natale a tutti voi!
Al prossimo capitolo <3
Aveva a
malapena dato credito a Remiel quando gli aveva tolto
dalle mani l’anima di Eric, garbatamente, con
rispetto. Quando l’aveva afferrata con gentilezza,
sussurrando parole che non aveva capito nel tono melodioso degli angeli; forse
promettendogli che l’avrebbe trattata bene, forse rassicurandolo, forse
scusandosi...
Non lo
sapeva. Ricordava solo il corpo freddo di Eric fra le
braccia, i suoi occhi chiusi, le labbra ancora socchiuse per il bacio che si
erano scambiati. Ricordava l’alba, le mani di Remiel
sull’anima di Eric, quelle di Zerachiel
sulle sue spalle... null’altro.
Sembrava
non avere registrato nient’altro, nella mente.
Almeno
fino a quel momento.
Il
funerale non era nulla di speciale. Solo... doloroso.
Cosparso
di un manto di disperazione talmente denso da sembrare tangibile.
Il cielo
era punteggiato a tratti dalle nubi, e una luce grigia illuminava il cimitero.
La lapide era stata posizionata sulla collinetta, poco
distante dalla statua dell’angelo, nella parte vecchia del campo santo.
Marmo
bianco venato di grigio perla, lettere d’oro. Poteva vederle brillare,
nonostante la distanza. Nascosto tra gli alberi della parte
di Heaven’s Park che sconfinava nel cimitero, all’ombra,
come sempre.
Attorno
alla fossa c’era un tappeto rosso, e sedie pieghevoli di legno. Sulle sedie
persone vestite di nero, dietro di esse altre persone
nere, in piedi, ammassate le une sulle altre.
Poi la
bara. Legno dalle colorazioni rossastre, lucida, quasi
importante. Un cuscino di fiori bianchi – gigli... sì, erano gigli e
rose, quelli – spiccava in mezzo ai formali abiti
scuri, sul coperchio della cassa chiusa.
Una cornice d’argento, con dentro una foto che non poteva vedere. Ma che
sicuramente non rendeva giustizia alla persona racchiusa fra quelle quattro
assi di legno finemente lavorate.
E la
gente arrivava. E piangeva. E
guardava fisso la bara senza potersi capacitare di nulla.
C’erano Robert e Douglas, i suoi amici
del sabato sera. E McFarland con la
compagnia di persone superficiali di cui si circondava solitamente.
Riconobbe
Timoty Satler, composto nel suo abito elegante, i capelli rossi raccolti in una
coda bassa sulla nuca. Chiuse gli occhi in una preghiera,
posò sulla bara una medaglia d’oro.
Poi i suoi compagni della squadra di basket, tutti in gruppo, che in
un manipolo di mani depositarono sul legno lucido la maglia rossa numero 23. Piangevano, stringendosi l’un l’altro, dandosi pacche sulle spalle.
Vide Alex,
seduto con lo sguardo basso accanto a sua madre, in una delle sedie più vicine
alla tomba. Stringeva le mani sui pantaloni, le nocche bianche dallo sforzo, e la
sua schiena sobbalzava in singhiozzi malcelati.
La madre,
con lo sguardo fisso sulla fotografia, sembrava faticasse persino a rendersi
conto di dove fosse.
Vide TrentEverald, e provò pietà.
Per la
prima volta nella sua esistenza; e ne fu disgustato.
Inginocchiato
di fianco alla bara, le mani sopra di essa e il viso
nascosto fra le braccia. Piangeva, disperato, ripetendo litanie inconcludenti
di parole come “scusami” o “perché proprio lui”.
Dolore.
Era tutto ciò che si poteva provare nel vederlo lì, inerme, devastato. Incredulo e, al contempo, lacerato dai sensi di colpa che
sicuramente lo stavano dilaniando lentamente, corrodendolo dall’interno.
Un’eco di
quel dolore lo raggiunse, e lo sommerse. Sentì nuovamente il senso di vuoto che
lo aveva avvinghiato quella notte, e dovette trarre due grossi respiri per
mantenersi quantomeno cosciente.
Per non ricadere in quell’apatia in cui non dava ragion d’essere a
niente e a nessuno.
Riportò lo sguardo sulla folla, scorrendo i volti. Alcuni li conosceva,
altri no, altri li aveva solamente visti di sfuggita... ma intravide Noah fra i tanti, stretto fra le braccia di quello che
doveva sicuramente essere suo padre, che piangeva senza ritegno, lasciando
scivolare le lacrime sulle gote dell’espressione addolorata dipinta in viso.
Per ovvi
motivi, Marcus non era presente.
Si
appoggiò con un sospiro al tronco dell’albero, puntando gli occhi sulla tonaca
rossa e bianca del sacerdote che presiedeva il rito funebre. Stava parlando,
probabilmente elogiando le qualità di Eric senza
nemmeno conoscerlo – non veramente,
non profondamente – ma lui non
riusciva a cogliere le parole che diceva. Venivano
coperte dal vento, che soffiava mite ma continuo, sferzando il parco e portando
i primi freddi d’autunno.
Si posizionò con gli occhi sui fiori ma, in quel momento, sentì
una presenza al suo fianco.
« Cazzo.
Lo avevo sentito dire, ma non ci ho voluto credere »
avvertì una voce. Conosciuta.
« Moloch » mormorò rauco, osservandolo di sbieco. « Cosa ci sei venuto a fare? » chiese,
malevolo e diretto, assottigliando gli occhi in una minaccia convincente
nonostante l’aspetto sicuramente irriconoscibile.
L’ultimo
specchio a cui aveva avuto modo di specchiarsi, gli aveva rimandato l’immagine
di un essere pallido, con le occhiaie e gli occhi rossi; e lo sguardo di chi
non crede più in niente.
Aveva
visto il dolore dell’umano negli occhi dello shinigami.
Il tormento di Joshua nel cuore di Abrahel.
L’altro,
sistemandosi la veste nera – uguale alla sua, che indossava anche lui, e che
stava odiando con tutto se stesso – lo fissò con noncuranza. « Calma, calma
collega » cercò di abbassare i toni, squadrandolo con sguardo critico da capo a
piedi: « dall’altra parte girano voci strane, così sono venuto a vedere se sono
vere. E vedo che lo sono » commentò, arricciando un
po’ il naso al suo aspetto: « ma dico, ti sei visto? Fai quasi schifo » disse
diretto, portando una mano fra le pieghe della veste nera ed estraendone un
accendino seguito da un pacchetto di sigarette.
« Detto da
te poi... » sussurrò Abrahel piano, rivolto per di
più a se stesso nonostante la pungente ironia. Continuò poi, riportando lo sguardo
sul manipolo di persone attorno alla bara: « smetti di raccontarmi balle e
dimmi chi ti ha mandato. Enma? Pietro? Oppure quel ficcanaso di Zerachiel,
sempre in vena di dare lezioni sulla vita e sulla morte? » sibilò amaramente,
lasciando che i ciuffi corvini gli calassero sugli occhi senza che li
spostasse.
Moloch
sospirò, portandosi con calma una paglia fra le labbra e accendendola. Aspirò
ed espirò il fumo, godendoselo in silenzio per qualche istante. « Non
disprezzare Zerachiel, Abrahel
» disse poi: « non vuole insegnare il mestiere a nessuno, è semplicemente
preoccupato per te ».
« Sono
commosso » sputò sarcastico, portando gli occhi candidi su quelli totalmente
simili dell’altro. « Non ho bisogno delle sue belle parole, o della tue. Non ho bisogno di comprensione o di qualsiasi
altra cazzata da angelo che Zerachiel
ti abbia convinto a dirmi. Voglio
solo stare per i cazzi miei, è abbastanza
chiaro come concetto? » precisò iracondo, dovendo però schiarirsi la voce al
termine della frase.
L’altro shinigami non rispose subito, traendo un’altra boccata di
fumo. « Mi piacerebbe tanto sapere come hai fatto ad
innamorarti. Solo l’amore può averti ridotto così » disse, soprapensiero
nonostante si rivolgesse a lui, lo sguardo puntato sul funerale. « Era così importante
per te quell’umano? » domandò poi, calmo.
Abrahel
sospirò, chiudendo gli occhi e massaggiandoseli con una mano. « Anche se provassi a spiegartelo, probabilmente non lo
capiresti » rispose.
« Non era
altro che un essere umano come tanti altri » considerò Moloch
con leggerezza.
« Per
quello non capiresti » chiuse il discorso Abrahel,
tornando a riaprire gli occhi.
Alcuni
minuti di silenzio trascorsero, riempiti solo dai respiri di Moloch che espirava il fumo della sigaretta in nuvole
grigie.
« Senti...
» prese poi, rigirandosi quello che era ormai un mozzicone fra le dita: « io lo
devo dire ad Enma, se tu non torni di là. E vorrei veramente che mi risparmiassi questa cosa. Lui non
vede molto di buon occhio questa tua mania di fare quello che ti tira, anche se
non lo dimostra ».
« Ad Enma non frega niente di quello che faccio, Moloch » ribatté l’altro, sfinito: « mi pare sia abbastanza
palese ».
« Solo per
te » insistette però il collega. « Questa storia gli sta parecchio sullo
stomaco, ultimamente » rivelò, la voce profonda di chi parla sul serio.
Abrahel
aggrottò le sopracciglia, fissando insistentemente il funerale davanti a lui.
Nessuno sembrava fare caso a loro, così come nessuno aveva
mai voltato lo sguardo in direzioni diverse dal prete.
Enma
poteva anche tirare giù il mondo a parolacce, per quello che lo riguardava;
poteva minacciare tutti i Santi e chiunque gli capitasse
a tiro. Lui non si sarebbe mosso di lì, mai.
Perché di Eric rimaneva solo un ricordo, e quel ricordo era
simboleggiato dal suo nome su quella lapide. EAbrahel ci sarebbe rimasto aggrappato come un naufrago ad
un pezzo di legno; per tutti i secoli dei secoli, se necessario.
Almeno
finché non sarebbe scomparso anche lui.
« No »
rispose dunque, non aggiungendo nient’altro. Bastava così.
Sentì Moloch sospirare – scocciato, forse – e percepì con la coda
nell’occhio il suo buttare il mozzicone a terra per poi pestarlo con il piede. «
Senti » prese poi a dire, pronto per tornare nell’aldilà: « io sono uno
stronzo, ok? Sono addetto alle anime dei bambini, devo
esserlo. E non capisco un cazzo dell’amore, o di
qualsiasi altra cagata spirituale che ti sta scombussolando il cervello in
questo momento » una pausa, calcolata: « e riconosco che, per cambiare uno come
te così radicalmente, quest’umano doveva essere qualcosa. Tuttavia devi guardare in faccia la realtà dei fatti: un
umano e un dio della morte è contro natura » terminò,
sollevando appena la mano in saluto e sparendo nell’ombra, diretto da Enma.
Abrahel
si lasciò scivolare contro il tronco, improvvisamente esausto.
Davanti a
sé, l’eternità di chi non può morire.
Tagliò il
bocciolo di una rosa bianca, lasciandolo cadere vagamente a terra. Sull’erba
soffice dell’aldilà, il bocciolo si trasformò prima in marcio, poi in nuovo
nettare per la pianta.
Decomposizione.
I morti che nutrono i vivi in un cerchio continuo,
efficace, perfetto.
Madre
Natura sapeva il fatto suo.
Enma
sospirò arrabbiato, indugiando con le forbici d’argento cesellato sul sottile
gambo di un altro bocciolo. La ragazza bionda poco dietro di lui, intenta a
carezzare con le dita sottili i petali di una rosa in piena fioritura, smise di
canticchiare la sua canzone melodiosa.
« Quanto
tempo è passato? » domandò Enma, quasi ringhiando. Di
chiparlassero
era ormai evidente anche senza le specificazioni del caso.
Selene non
l’aveva mai sentito parlare d’altro con lei, dopotutto.
« Due
anni, credo » disse infatti, legandosi i boccoli
biondo cenere con un nastro di seta rosa spento. « O
forse tre. Ammetto che la concezione del tempo da questa parte è un tantino
differente da quella del mondo dei vivi » disse tranquillamente, tornando
all’ammirazione dei fiori.
Enma
sospirò un ringhio. « Ripetimi ancora che bisogno c’era di mandare in brodo di
giuggiole il cervello del mio unico Shinigami valido!
» ruggì poi, lanciando rabbioso le forbici contro il terreno.
Si
piantarono ai suoi piedi affondando fino all’impugnatura.
Selene sorrise serafica. « Era necessario » rispose semplicemente.
Enma
storse il naso. In millenni mai, mai
gli era capitato di perdere la sua infallibile calma. « E
perché? » chiese allora, cercando di ritornare perfettamente cosciente di sé.
Adocchiò le forbici e, al pensiero di chinarsi e raccoglierle, schifò se
stesso. Mosse la mano in un mezzo circolo nell’aria,
facendone semplicemente apparire dal nulla un altro paio.
« Lo sai
già il perché » ribatté la santa con voce melodica.
« Lo
voglio sentire di nuovo » rispose però il capo degli
dei della morte, modulando la voce senza riuscire però a togliervi la nervatura
di rabbia di cui era intrisa.
Selene
sospirò, puntando finalmente lo sguardo sulla schiena dell’altro. « Doveva imparare
ad amare, Enma. E’ una lezione che deve essere
impartita, in un modo o nell’altro, per quanto brutale possa essere » rispiegò
per l’ennesima volta, pacatamente.
« Agli shinigami non serve amare » fece notare Enma
con un ghigno sul volto: « loro devono uccidere, non amare. Devono portare
avanti e indietro le anime dal Mediano al mondo dei morti, se le amano non
fanno il loro lavoro, è un controsenso! » esclamò, cercando inutilmente di dare
un contegno alla propria agitazione.
Selene
sospirò di nuovo, esausta di quel discorso che
continuava ormai da anni. Potevano passare diversamente dal mondo mortale,
quello era vero, ma erano pur sempre anni. « Ogni essere si merita l’amore, Enma. Che sia umano o meno » spiegò per
l’ennesima volta.
Enma fece una smorfia. « Mi sembra di sentire il tuo
superiore durante una delle Sue omelie sull’amore in Paradiso-visione
» borbottò cupo, tagliando finalmente anche l’altro bocciolo di rosa.
Rimase in
silenzio poi, contemplando il lavoro svolto. Abrahel
era il più valido dei suoi shinigami solo perché non
amava, non considerava niente al di fuori del lavoro, non si affezionava a
nulla ed era formalmente disilluso su ogni cosa non fosse
il suo desiderio intrinseco di porre fine alla sua esistenza. Era facilmente
controllabile, anche se difficilmente sottomettibile, perché bastava lasciarlo
in pace per qualche secolo a crogiolarsi nella sua stessa auto-commiserazione
da quattro soldi... almeno fino a che non rischiava di annullarsi, allora
mandarlo in missione sul Mediano e permettergli di continuare ad esistere.
Era un’esistenza antica, e proprio per questo non avrebbe mai
creduto che si sarebbe infatuato di un semplice umano; un’esistenza breve e
temporanea destinata a svanire in quello che per loro era la durata un soffio
di vento.
Sospirò,
affranto.
Forse...
era il momento di lasciarlo andare.
« L’amore
è una seccatura. Inutili umani... sempre a far danni » borbottò nuovamente,
intascandosi le forbici e dirigendosi a passo lento verso l’uscita del
giardino.
Selene,
dall’alto della sua preveggenza, sorrise. « Dove stai
andando? » domandò lieve, quasi scherzosa.
Enma
si fermò in un fruscio di stoffa e seta. « A parlare con il Vecchio(*) »
rispose semplicemente, sparendo in uno sbuffo di nebbia, silenzioso.
Quanti
anni erano passati?
Novanta.
Cento. O forse duecento.
Non lo
sapeva.
Vedeva
semplicemente le cose invecchiare, e pian piano marcire e morire. Sentiva il
suo corpo perdere man mano forza e controllo.
Era
passato molto tempo, prima che avvertisse i primi cambiamenti. Trent’anni,
prima che le braccia smettessero di alzarsi oltre le spalle. Quaranta,
prima che le gambe divenissero pesanti come pietra.
Dopo le
prime settimane si era abituato al continuo senso di fame, che gli faceva
percepire odori di anime anche a grandissima distanza.
Col tempo, anche il richiamo del cibo era diventato sordo alle sue orecchie.
Rimaneva
lì. Seduto con la schiena alla lapide di Eric, bianca
e pulita finché della gente la visitava.
Poi, venne
a sapere, la sua famiglia si era trasferita. Alex aveva vinto una borsa di
studio per una qualche università famosa di cui si era dimenticato il nome in
meno di un minuto, così avevano cambiato città per stare vicini al figlio
minore – unico, ormai.
TrentEverald aveva continuato a visitare il cimitero ogni
domenica per tutti e dieci gli anni. E anche in
seguito, nell’anniversario della morte del figlio era presente.
Abrahel
si nascondeva nell’ombra non appena vedeva arrivare qualcuno. Non era un bene
per lui che lo vedessero lì, soprattutto perché
risultava indagato per l’omicidio di Eric. Nessuno aveva creduto che fosse
morto per cause naturali, anche perché l’autopsia non aveva rilevato tracce di
malattie genetiche o problemi di altro tipo.
Si era
ipotizzata la droga, o il veleno. L’omicidio, comunque,
perché nessuno riusciva a credere che Eric potesse essersi suicidato.
Nemmeno Abrahel ci avrebbe creduto, sentendolo.
Poi, il
giorno del trasloco, Trent aveva trovato il borsone
nascosto nel garage. E tutti avevano cambiato idea.
Timoty
Satler visitò saltuariamente la tomba, portando sempre poche ma essenziali
notizie. Saluti, domande inutili del tipo “come stai?” anche
se era ovvio che non potessero ricevere risposta, notizie sulle sue gare e
sulle medaglie che vinceva. Era stato selezionato per la nazionale
olimpica, ma per qualche motivo non accettò.
Poi, anche
lui smise di andare a far visita.
Douglas
e Robert, così come McFarland,
passavano solo durante le feste natalizie. Loro rimasero in città, si sposarono
ed ebbero diversi figli. Dopo una ventina d’anni non rivide più nemmeno loro.
Una notte,
ricevette la visita di Marcus e Noah.
Erano entrambi vestiti di nero, ed entrambi avevano gli occhi tendenti ad un
rosso amaranto quasi fascinoso. Intuire il perché non fu
difficile: Marcus lo aveva trasformato, alla fine.
Parlarono un poco. Gli dissero che ormai dovevano trasferirsi, perché non
era più fattibile per loro rimanere in quella città. Nonostante
uscissero solo di sera – obbligatoriamente - la gente cominciava a chiedere che
fine avesse fatto Noah, ed era pericoloso per loro.
Si sarebbero trasferiti più a nord.
Abrahel
provò invidia, per Marcus. Almeno lui poteva
scegliere una via che non prevedesse la perdita della
persona amata.
Ma li
salutò comunque con un sorriso, alzando la mano con
molta fatica. Anche i muscoli delle braccia cominciavano ad
essere rigidi, e pesanti come piombo.
Ad un
certo punto, il cimitero venne chiuso. Le voci
parlavano di un problema con la falda acquifera sottostante al camposanto, ma
trasferire le tombe già presenti era impossibile. Inutile
dire che, nonostante le misure di sicurezza, non successe nulla se non
l’incremento del degrado.
Da quel
momento, fu un semplice susseguirsi di estati afose ed
inverni gelidi. La neve e la pioggia, unite alle altre intemperie, cancellarono
pian piano il placcaggio dorato delle lettere in ottone, che pian piano
ossidarono divenendo verdastre. Il marmo si sporcò di nero in più punti, e un
rampicante d’edera vi si arrampicò sopra, ricoprendola quasi per metà.
Intanto
lui esisteva. Continuava a vegliare.
Arrivò al
punto in cui scomparvero le mezze stagioni, e le piogge acide distrussero la
maggior parte della tomba di marmo a cui ancora faceva da guardiano. Il suo
corpo non si muoveva nonostante non risentisse del freddo o del caldo, della
pioggia o della neve; nonostante non invecchiasse, non si ammalasse, non... morisse.
Steso al
fianco di quella lapide, sull’erba che ormai aveva perso ogni traccia di vita,
alternava a momenti di coscienza piena altri di coscienza lieve.
Attendeva
che il tempo passasse.
Finché
l’udito si affievolì, e perse il gusto e l’olfatto. Non era sicuro di possedere
ancora la facoltà di parola, dato che non parlava con
nessuno da secoli forse; ma sicuramente aveva perso la cognizione del tempo.
Percepiva
solo i piccoli cambiamenti che immancabilmente avevano luogo.
E
sperava mancasse poco, alla fine. Alla sua
fine, sottoforma di sparizione rapida, indolore, insapore.
Il non
poter nemmeno dormire era un tormento.
Finché
un giorno, al tramonto, dei passi lo distrassero dai ricordi con cui amava
distruggersi.
Erano
leggeri e lievi, conosciuti in un qualche angolo recondito della sua mente. Quando vide i lembi di un abito di seta pura nera, con
ricami di fiori di camelia scarlatti, alzò lo sguardo.
Enma,
dall’alto della sua tranquilla pacatezza, lo osservava.
Storse le
labbra in quello che doveva essere un sorriso, ma non fu sicuro che risultò tale. Aprì la bocca per dirgli qualcosa, ma l’unica
cosa che gli uscì fu un rantolio senza consonanti.
« Non
credere di poter parlare dopo tutto questo tempo » gli sentì dire, e nonostante
Enma avesse usato tono normale, Abrahel
lo sentì come se glielo dicesse dal fondo di una galleria.
Lo vide
chinarsi sulle ginocchia, attento a non sporcare i lembi della veste con le
erbacce che erano cresciute e marcite tutte intorno.
Si scostò una ciocca di lunghi capelli corvini dal volto pallido, scoprendo per
la prima volta le sue iridi dorate dalla pupilla allungata.
Si diceva
che Enma potesse trasformarsi in corvo, se voleva.
Quegli occhi dimostravano che era vero.
« Sai
quanto tempo è passato? » domandò poi il capo degli shinigami,
osservandolo con un misto di noia e quella che sembrava seccatura.
O
almeno, così sembrava ad Abrahel.
Cercò di
muovere il capo in un cenno negativo, riuscendoci solo fino ad un certo punto.
«
Trecentoquarantasette anni. Giorno più, giorno meno » continuò comunque l’altro, posando uno sguardo critico sul paesaggio circostante.
« Questo posto fa schifo... » considerò a bassa voce, arricciando il naso in
una smorfia disgustata. Tornò poi con lo sguardo su di lui, che ancora lo
guardava con la risoluzione di chiedergli cosa volesse da lui. Stava cercando
di articolarlo a parole, a dire il vero, ma proprio parlare non gli era più
possibile.
« Smetti di fare quei versi, sono inquietanti » lo apostrofò Enma, senza però stamparsi il solito ghigno di scherno sul
volto. Lanciò uno sguardo alla lapide e, senza scostare gli occhi da essa, continuò: « ammetto di aver passato degli anni,
cercando di capire quale incantesimo ti avesse fatto questo umano per fotterti in quel modo il cervello. Perché non si conquista,
non si sottomette uno come Abrahel, che il mondo lo
distruggerebbe in un batter di ciglia se solo a me venisse voglia di
ordinarglielo » fece un po’ di scena, prendendo una breve pausa: « ma ti sei
fatto fregare comunque. Allora ho pensato a cosa potesse averti fatto provare di così bello da trattenerti
ancorato qui per i secoli dei secoli, da solo, riducendoti ad una sorta di
cadavere che respira... ma non sono riuscito a capirlo ».
Chiuse gli occhi, si massaggiò stancamente le tempie. Riaprendoli, poi, riprese il
discorso: « Mi è impossibile comprendere l’amore, Abrahel.
Io e te siamo nati così. Ma tu no, tu hai dovuto
innamorarti, stravolgere le regole magari anche inconsciamente... e questo
presuppone che ti lasci qui ad aspettare e che io, di riflesso, attenda che tu
scompaia per farmene una ragione e cercarmi un altro demone da trasformare in shinigami » terminò, l’espressione contrita da qualcosa di interiore che probabilmente lo disturbava.
Accidenti.
Non ditegli ora che Enma aveva pure una coscienza, da
qualche parte.
Abrahel
lo osservò di rimando, in grado praticamente di fare
solo quello. Se era venuto fin lì non aveva
semplicemente bisogno di gongolare, altrimenti non si sarebbe nemmeno
disturbato. No... doveva esserci sotto qualcosa.
Enma
prese fiato, guardandolo con piena serietà per la prima volta da quando si
conoscevano. « Tu sai che non potrai rivederlo mai più, vero? » domandò, la
voce profonda.
Anche
dopo tutto quel tempo, Abrahel poté sentire l’ormai
famigliare stretta a cuore. Quella domanda faceva male, di per sé, nel rendere
concreto l’evidente.
Chiuse gli
occhi, respirando profondamente.
Enmalo prese come un’affermazione. « Lo sapevi anche prima. Per
la rinascita serve un’anima, per essere ammessi nell’aldilà
serve un’anima. Per tutto ciò che riguarda la morte serve un’anima, e
noi l’anima non ce l’abbiamo » rivelò scontatamente,
osservandolo con cipiglio curioso riaprire gli occhi.
Sì, lo
sapeva. Lo sapeva anche prima di baciarlo, di... ucciderlo. Gli aveva mentito
dicendo di sì ma lo sapeva, che non lo avrebbe rivisto mai più.
Per lui
era impossibile stare vicino ad Eric per più di quel breve periodo che avevano
già trascorso insieme.
Perciò
annuì, sospirando piano nel tentativo di non riaprire quelle famigliari ferite
vecchie di secoli.
Enma
arricciò il naso in una smorfia disgustata. « Spero veramente
di aver fatto la scelta giusta, anche se ti trasformerà in un
rimbecillito... » mormorò scocciato al suo fianco, infilando la mano dentro la
veste per estrarne un cristallo.
Abrahel
lo guardò, studiandolo attentamente, ma senza capire. Aveva la famigliare forma
di un’anima, ma non risplendeva di nessuna luce. Sembrava semplicemente un
involucro vuoto, inutile, tuttavia nuovo di zecca e senza nemmeno una piccola
scheggiatura.
Stava per
chiedere spiegazioni – o almeno provare ad articolarle – quando l’altro lo
anticipò.
« Ho
parlato con il Vecchio » rivelò, sbuffando come uno che ha dovuto cercare in sé
tutta la pazienza di cui era capace: « noi non possiamo violare le regole del
mondo, perciò non potevo fare qualcosa... per te » disse, frapponendo una pausa
prima delle ultime parole, che pronunciò con un’espressione profondamente
disgustata.
Enma
che faceva qualcosa per qualcuno... il mondo sarebbe
potuto finire anche subito, per quanto gli riguardava: da quel momento
affermava con cognizione di causa di aver visto tutto.
Lo ascoltò
continuare il suo discorso: « ho chiesto al Vecchio. Lui può tutto, il mondo
l’ha creato lui e bla, bla,
bla... » cantilenò con una smorfia, chiudendo gli
occhi un istante e tornando a guardarlo: « non è stato facile, Abrahel. Lui è particolarmente affezionato alle sue regole
e non era ben disposto... in tutti i sensi. Ma... » una pausa, ancora, calcolata. Un sorrisetto quasi
incredulo a piegare le labbra sottili: « da qualche parte, un’anima in lista
per la reincarnazione faceva i capricci. Il che è strano,
dato che le anime non hanno coscienza; eppure questa non aveva intenzione di
tornare sul Mediano. Sembrava che aspettasse,
e che dovesse farlo per forza... » lasciò cadere, lanciandogli un’occhiata
carica di significato.
Abrahel
capì, e di nuovo gli si strinse il cuore.
Non era
possibile. Come aveva appena fatto notare Enma, le
anime distaccate dai loro corpi non hanno una coscienza, così come non hanno memorie e ricordi.
...di
solito.
Provò ad
alzare un braccio, spinto da quelle emozioni di cui si era drogato per tutto
quel tempo tramite i suoi ricordi. Gemette quando ogni singola articolazione
gli mandò una scarica di dolore lungo tutto il corpo, radicandosi persino nelle
ossa, ma cercò comunque di portare la mano a sfiorare
i lembi della veste di Enma.
Di
raggiungerlo, in un qualche modo. Di chiedergli
silenziosamente di smettere di mentirgli, perché non era uno scherzo
divertente, quello.
L’altro,
però, evitò facilmente quel contatto. « Non insozzarmi i vestiti » disse,
lisciandosi con la mano una piega immaginaria sulla sua tunica di tessuto
purissimo.
Abrahel
lasciò ricadere il braccio a terra, senza più la forza di tenderlo. Guardava Enma con gli occhi di qualcuno che sta
subendo una tortura psicologica non indifferente, e il capo degli Shinigami si espresse in un ghigno schifato a quella vista.
Sembrava
una barzelletta che non faceva ridere, forse, vedere il
proprio miglior Shinigami preda della speranza.
Scosse il capo, riprendendo da dove si era interrotto: « in ogni caso è
stato deciso di prendere provvedimenti. Non possiamo rimanere bloccati
con il ciclo di morte e resurrezione, i motivi mi sembrano ovvi. Perciò... » un altro sguardo, un sorrisetto che esprimeva
profonda soddisfazione di sé stessi nonostante la situazione: « saluta il tuo
nuovo futuro da comune mortale, Abrahel. Anzi no... Joshua » disse, tenendo
fra due dita quel cristallo d’anima vuoto.
La sua
chiave per rivederlo, capì.
Quella
era...
« Questa è
la struttura base di un’anima. Quando le anime vengono
reincarnate, la loro luce viene trasferita dal cristallo precedente ad uno
nuovo: questo » mosse appena l’oggetto, per poi continuare: « ne ho recuperato
uno dal Vecchio. Non chiedermi come cavolo farà a farti
reincarnare, non lo so nemmeno io. Credo sia una di quelle cose che sa
fare solo Lui, sai no? Come si chiamano... “dogma”,
ecco » spiegò per completezza, annoiato.
MaAbrahel non lo stava più ascoltando. Non più, da quando
aveva capito che una possibilità esisteva,
alla fine.
Una. Una
sola.
Ed era
sua.
Il sorriso
gli nacque spontaneo, sulle labbra. Non poté farne a meno.
Avrebbe
riso, se solo avesse potuto farlo senza rimanere completamente senza fiato. Se solo i suoi polmoni non fossero quasi atrofizzati, a causa del
tempo che era passato dall’ultima volta che aveva anche solo sorriso in quel
modo così genuino.
Così...
umano.
L’espressione
schifata di Enma peggiorò
nel momento in cui gli occhi candidi di Abrahel si
posarono sui suoi, cercando di esprimere quello che la voce non poteva.
« Cos’è
quella, gratitudine? » sputò: « per
favore risparmiatela; queste dimostrazioni di umanità
mi fanno venire bruciore di stomaco » si lamentò poi, rialzandosi in piedi e
appoggiando il cristallo vuoto accanto allo Shinigami.
Si
guardarono per l’ultima volta, questa volta seriamente.
« Sarai
ciò che odi, lo sai? » domandò, la voce profonda.
Il dio
della morte, chiudendo gli occhi, annuì.
« ...continua
a non avere senso, per me » lo sentì sussurrare, prima di udire anche un lieve:
« buona fortuna ».
E che Enma, così com’era arrivato, sparisse.
Ora,
doveva solo aspettare… ancora un po’.
Infine, il momento arrivò.
Chiudendo gli occhi
definitivamente, il nero sbiadì i colori. Il cuore non rallentò
il battito, così come il suo corpo non incontrò la morte.
Semplicemente, la sua coscienza si
spense. Semplicemente, si addormentò.
E pian piano, in un respiro un po’ più debole... scomparve.
Erano passati tre secoli,
cinquantacinque anni, ottantadue giorni e tredici ore.
Puntando
le sue iridi di ghiaccio sul proprio nome in graduatoria, comparsa da poco in
quella specie di schermo olografico di dimensione
aeroportuale, le sue labbra si storsero in un ghigno a metà fra lo schifato e
l’orripilato.
« Ricerca
e sviluppo » sussurrò, incredulo. « Ricerca
e sviluppo! » sputò poi, calcando sulle uniche due parole che si era
riservato di dire da quando aveva letto i risultati degli esami d’ammissione.
Il ragazzo
al suo fianco alzò un sopracciglio. « E ti lamenti
pure? » borbottò risentito, puntando a sua volta gli occhi sul nome dell’altro:
« questo viene selezionato per il più importante
gruppo lavorativo che la NASA abbia mai finanziato per la ricerca nello
spazio... e si lamenta! » esclamò contrariato, sbattendosi sconcertato le mani
lungo i fianchi: « Josh, mia madre ti prenderebbe a
schiaffi ».
« Tua
madre è un utero di plastica, Ethan » rimbeccò
scorbutico l’altro, fissando il proprio nome come se dovesse prendere fuoco.
« Ok,
allora tua madre ti prenderebbe a
schiaffi » rispose il moro.
Joshua
posò lo sguardo sul ragazzo al suo fianco, incontrandone gli occhi dorati: « ...e
tuo padre un codice a barre » rincarò la dose, vendicativo, girando i tacchi ed
incamminandosi lontano dalla folla.
« Anche noi umani artificialmente prodotti abbiamo un cuore,
sai?! » sbottò Ethan, affrettandosi però a seguirlo.
« Oh, avanti Josh! Da quanto ci conosciamo, da undici
anni? » chiese poi retorico.
«
Purtroppo » borbottò Joshua, camminando mani nelle
tasche.
« E
pensavi davvero che dopo esserti fatto il culo in
Fisica Applicata ed Ingegneria Robotica Aerospaziale ti mettessero a pilotare
uno Spaceshuttle? » domandò però ironico l’altro,
ignorando la poco sottile frecciatina nei suoi confronti.
Joshua
si fermò, fissandolo con astio: « sì, se è per un posto da pilota che ho fatto domanda! » palesò, tornando a camminare a passo di
marcia lungo i corridoi. « Se sapevo che sarei finito
chiuso in un laboratorio a riparare AI(*) mal funzionanti sarei rimasto in
Illinois a coltivare pannocchie... » aggiunse mugugnando.
Al suo
fianco, Sparrow sospirò rassegnato.
Joshua
non se lo lasciò sfuggire. « Perché, tu sei contento?
» soffiò: « “Armamenti” ti rende soddisfatto? » domandò pungente.
« Certo, e
che cavolo! » esclamò però Ethan: « Ho studiato
apposta per entrare in Armamenti, nel caso te lo fossi
dimenticato » puntualizzò con scrupolo.
Archer,
deluso nel profondo dalla poca empatia dell’amico, roteò gli occhi. « Contento
tu... » sentenziò con sufficienza.
Ethan
arricciò il naso, contrariato. « Si può sapere cosa ti ha fatto di male il mio
settore? Ne parli come se dovessi andare a fare il benzinaio » argomentò con
testardaggine, cominciando ad essere profondamente seccato dal comportamento
dell’altro.
« Stare
chiuso a sviluppare un nuovo cannone a particelle che ci permetta
di distruggere ciò che rimane di Urano non mi sembra una prospettiva più rosea
di una stazione di servizio » replicò Joshua,
incontrando poi un silenzio stizzito da parte di Ethan.
In realtà
non le pensava davvero, quelle cose. Credeva che Armamenti fosse un ottimo
impiego, così come lo era anche Ricerca e Sviluppo, da un punto di vista
oggettivo.
Ma non
era ciò che voleva.
Per tutta
la vita si era sentito come se stesse cercando qualcosa, là fuori. Da qualche
parte.
Si sentiva
ansioso, nervoso ogni volta che rimaneva in silenzio e
ci pensava, prima di dormire.
Aspettava
e al contempo cercava. Si sentiva poi, a sua volta, atteso e ricercato al
contempo.
Era una
sensazione che non lo aveva mai abbandonato da quando ne aveva
preso coscienza.
Per quello
voleva fare il pilota. Viaggiare nello spazio, magari, lo avrebbe portato a
trovare quel qualcosa che, sapeva, doveva trovare.
Perché
era... importante, farlo.
Perché
significava qualcosa di fondamentale.
Voltò lo
sguardo verso le vetrate alla sua destra, osservando rapito i loro riflessi in
semi trasparenza. Dietro di essi, lo spazio profondo e
la sua infinita oscurità.
La sua
infinita tranquillità.
Sarebbe
volentieri vissuto sempre là, se questo fosse servito
a liberarlo da quel senso senza fine di ansia e aspettativa dell’ignoto. Di
qualcosa che poteva anche non esistere, per quanto ne sapeva.
Forse fu
per il suo viaggio nell’inconscio, che non si accorse della curva a sinistra. E, non accorgendosene, non la fece nemmeno.
Forse fu
una coincidenza, oppure più probabilmente il destino. Il fato, per chi ci
crede, o il caso, per chi non lo fa.
Fatto sta
che nei corridoi non si corre, ma questa regola universalmente e storicamente
nota puntualmente aveva la sua stupenda e turbolenta
eccezione.
Eccezione che si schiantò contro di lui a testa bassa, gettandolo a
terra con forza e facendogli compagnia con una caduta altrettanto rumorosa (e
dolorosa, supponeva).
Joshua
trattenne le imprecazioni per un suo profondo e radicato senso etico
dell’educazione. O semplicemente perché non voleva
sembrare troppo ciò che era: un contadinotto
cresciuto nelle campagne dell’Illinois.
Ma la
rabbia, oh... quella non gliela toglieva nessuno. Soprattutto con le premesse
da cui partiva.
« Tua
madre non te l’ha insegnato che nei corridoi non si corre?! » esclamò irritato
– a dire il vero molto vicino ad una crisi di nervi.
Alzò lo
sguardo e, nel farlo, sembrò che il mondo avesse improvvisamente smesso di
girare.
Quelli che
lo stavano guardando con sorpresa, erano un paio d’occhi dal caldo colore
castano. Ciuffi di capelli dello stesso tono sfioravano appena le gote
arrossate dalla corsa e il suo sguardo – gli occhi sgranati e la bocca aperta
in respiri pesanti derivati dalla fatica – si poteva dire decisamente
attonito.
Come, del
resto, doveva esserlo il suo.
« Eric! »
sentirono poi chiamare da lontano, lungo il corridoio di sinistra: « tutto ok,
ti sei fatto male? » domandò un ragazzo in avvicinamento, a sua volta di corsa.
A sentire il nome, sembrò che una mano gli avesse stretto il cuore. Lo mimò con
le labbra, senza un motivo, solo per assaporare la sensazione che dava farlo.
Quasi
contemporaneamente, Ethan fu al suo fianco. « Ohi Josh, tutto al suo posto? » domandò, porgendogli la mano
per aiutarlo a rialzarsi.
Mano che afferrò più per prontezza di riflessi che per vero volere. Gli occhi erano ancora incatenati
in quelli castani dell’altro che, dal canto suo, sembrava non avere intenzione
di staccare i propri dai suoi.
Lo vide trattenere il respiro al suono del suo nome, e muovere le
labbra come se anche lui, silenziosamente, lo avesse ripetuto.
Solamente
quando anche l’amico del castano gli fu al fianco, e lo aiutò a rialzarsi, sembrarono
ritrovare entrambi la buona educazione temporaneamente
resettata dai rispettivi cervelli.
« Mi
dispiace, andavo di fretta... » si scusò quell’Eric, tendendogli la mano: « non
ho ancora visto le graduatorie e... comunque sono Eric. Eric Everald » si presentò, cordiale.
Normalmente
non avrebbe risposto alla stretta di mano. Non quando l’interlocutore del caso
gli veniva addosso con la scusa patetica di andare a vedere una graduatoria che
rimaneva sui tabelloni per tutto il pomeriggio.
Già,
normalmente. Ma qualcosa dentro di lui gli diceva che
quell’incontro, quel momento, era tutt’altro che normale.
Alla scetticitàdi Ethan
al suo fianco che si esprimeva in una smorfia preoccupata – la faceva ogni
volta che si aspettava da lui un’uscita sgarbata e anti-sociale – lui rispose
ricambiando il gesto.
E dal
momento che le loro mani si incontrarono, qualcosa
cambiò.
No, anzi...
« JoshuaArcher » rispose
brevemente, prolungando la stretta di mano più del necessario.
Cosa
che fece anche Eric, d’altronde.
« Senti...
» cominciò poi Eric, aggrottando appena le sopracciglia nell’osservarlo bene: «
ti sembrerà strano ma... noi per caso... »
« Ci siamo
già visti da qualche parte? » concluse però Joshua,
anticipandolo sulla domanda che probabilmente anche il castano voleva fare.
Aveva come
un senso di deja-vu che gli scorreva irrequieto sotto
la pelle.
La mano
che stringeva nella sua, in quel saluto convenzionale durato più del dovuto,
era calda e... familiare.
Troppo
familiare.
« Non... lo so » balbettò Eric, stranito.
Uno
schiarirsi di voci portò le loro mani a separarsi, richiamati all’ordine che le
convenzioni sociali volevano per gli sconosciuti incontrati per la prima volta.
Sempre secondo la stessa logica, si presentarono anche gli altri due, prima fra
loro poi con lui ed Eric.
Ma sempre,
per tutto il tempo... anche quando il castano e l’amico si congedarono – il
primo più dubbiosamente, più controvoglia – la sensazione che ci fosse qualcosa di diverso non lo abbandonava.
Accorgersi
che lo aveva seguito sempre con lo sguardo, poi, fu decisamente
insolito.
Si girò,
ma non appena stava per riprendere la camminata si sentì richiamare.
« Archer! » esclamò Eric a qualche metro di distanza: « sei
occupato per pranzo? » domandò.
Gli sfuggì
un sorriso. « No! » rispose, soddisfatto per cosa non
sapeva.
« Allora sei
prenotato! » ribatté il castano, sorridendo a sua volta.
Da qualche
parte, qualcosa era cambiato.
No,
anzi...
Da qualche
parte, qualcosa... era ritornata al suo
posto.
* “AI” sta
per Artificial Intelligence, ovvero Intelligenza
Artificiale.
* Remiel: nel libro di Enoch è il
sesto arcangelo, responsabile della speranza nel mondo. Uno dei suoi campiti è
trasportare le anime dei fedeli in paradiso.
* Moloch:
sono diverse le interpretazioni di questo personaggio, e cambiano a seconda della cultura e del popolo considerato, partendo
dai Fenici. La maggior parte delle interpretazioni, tuttavia, lo vede come un demone
che si fa sacrificare bambini (spesso primogeniti) tramite il fuoco. Mi collego
a questa versione e, cambiandola un pelo con un poco di libertà artistica, in
questa fanficviene
trasformato in uno shinigami addetto alle anime dei
bambini.
E’ finita.
Mi sembra
impossibile poterlo dire, ma è finita. Io che ho la fobia degli ultimi
capitoli, lo ammetto, sono quasi orgogliosa di me stessa...
...anche se è venuto tutto l’opposto di quello che doveva
venire. Pazienza, è finita, e questo è l’importante.
Siccome è
l’ultimo capitolo, non mi dilungherò molto sulle risposte adpersonam. Risponderò in separata sede a coloro che hanno commentato e che, se ne hanno voglia,
commenteranno anche l’epilogo.
Qui, invece,
ringrazio chi ha recensito il capitolo precedente: angel15, dea73, Gioielle, Angel09 e CloudRibbon. Le vostre
recensioni mi hanno aiutata molto a superare le crisi
del “finale-che-non-deve-venire-banale-ma-che-sarà-così”
XD
Ringrazio
inoltre, e rinnovo la dedica a, Shichan
per le varie consulenze, i betaggi, la sopportazione
e tutto quel resto che ad elencarlo non finirei più. O peggio, cadrei sul melenso, e allora sì che Enma
avrebbe bisogno di uno psichiatra (XP).
Infine,
ringrazio tutti coloro che hanno recensito la fanfic nei capitoli precedenti, che l’hanno letta anche
solo senza farlo e che l’hanno inserita nei loro preferiti.
Con la
speranza di non avervi deluso con questo finale, (se vorrete) alla prossima.