Tutti Pazzi 2010

di The Noise Parade
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 - 31 dicembre ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 - Primo Rimedio Contro La Solitudine ***
Capitolo 3: *** Cap. 3 - Barbie Girl ***
Capitolo 4: *** Cap. 4 - La Mia Morte è Solo Mia ***
Capitolo 5: *** Cap. 5 - Chi d'Indifferenza Muore ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 - 31 dicembre ***


CAPITOLO 1 - 31 DICEMBRE. OVVERO LA NOTTE CHE JULES JACK MANSON DOYLE DECISE DI ESSERE DIMENTICATO ANCORA UNA VOLTA.

''Mentre poco fa attimi di gioia esplosiva
Mentre fra poco ancora, parole e risate
Ma adesso solo buio
Adesso, tutto dentro
Tutto così lontano
Tutto dentro
Amore e dolore, tutto dentro,,

Il primo dell'anno segnava il nuovo, l'inizio, la rinascita, una nuova vita... Ma non era ancora il primo dell'anno, no, ancora per dieci minuti e trentadue secondi esatti sarebbe stato il 31 dicembre, l'ultimo dell'anno, il vecchio, la fine, la morte, una vita stanca e consumata, e Jules Jack Manson Doyle questo lo sapeva meglio di chiunque altro.
Jules Jack Manson Doyle finì di scrivere qualcosa con una vecchia stilografica su di un foglio impiastricciato d'inchiostro, con una calligrafia disordinata e scomposta, e lo impilò ordinatamente in cima ad una colonna di altri fogli. A guardarlo bene, lo stanzino in cui Jules Jack Manson Doyle era invaso da pile di fogli, alcune alte fino al soffitto, eccezion fatta per un corridoio che dalla vecchia poltrona su cui era seduto, portava all'uscita. All'interno della stanza faceva un caldo innaturale, una stufa a legna arrugginita e un po' sbilenca ardeva ininterrottamente di fronte alla poltrona.
Jules Jack Manson Doyle guardò l'orologio da parete, un modello da mercatino delle pulci, rumoroso con la cornice rotonda in plastica di pessima qualità. Mancavano due minuti alla mezzanotte. Non sorrise né diede segni di fretta, o stupore, o allegria, o eccitazione o qualunque altro sentimento che un essere umano potrebbe esprimere due minuti prima della mezzanotte del 31 dicembre.
Niente, semplicemente si alzò e non appena scoccò la mezzanotte, non un secondo di più, non uno di meno, Jules Jack Manson Doyle spinse nel fuoco della stufa la pila di fogli più vicina ad essa, e per alcuni secondi stette a guardare. Le fiamme che si riflettevano sulle lenti degli occhiali sporchi e tondi, dal bordo ingiallito, il fuoco che lambiva l'orlo del suo maglione di lana fino a bruciacchiarlo, così come i suoi lunghi capelli bianchi, la sua folta barba grigia.
Jules Jack Manson Doyle si allontanò dal fuoco, mentre quello divorava i fogli nello stanzino, e si fece largo lungo il corridoio tra di essi, fino alla porta. E senza guardarsi indietro, uscì in corridoio e chiuse a doppia mandata. Abitava in una vecchia palazzina in periferia di cui nessuno avrebbe mai sentito la mancanza, era mezza disabitata, eppure Jules Jack Manson Doyle sapeva benissimo che  mentre lui se ne andava in silenzio, tutti quelli che sarebbero morti, o che si sarebbero salvati, o che sarebbero stati tratti in salvo quella notte del 31 dicembre, avrebbero avuto il loro piccolo, stupido, incredibile momento di gloria.

 


Non dico altro se non: buon anno, a chi legge, a chi scrive, a chi non fa niente di tutto ciò.

Noise

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Capitolo 2
*** Cap. 2 - Primo Rimedio Contro La Solitudine ***


CAPITOLO 2 - PRIMO RIMEDIO CONTRO LA SOLITUDINE. SOGNI E BISOGNI.

''Ma se non hai bisogni... sei finito.,,

Una bambina mi guarda dalla vetrina di questo lercio fastfood. Ha gli occhi grandi e neri, i capelli raccolti con qualche molletta, il naso e le mani appiccicate al vetro. Alita sulla vetrina e con il dito scrive qualcosa di incomprensibile sulla condensa che si è formata. Ripete l'operazione due o tre volte, gli occhi spalancati, come persi in un altro mondo. Quando mi volto di nuovo è sparita nel nulla, volatilizzata.
Rivedo la bambina al parco. Tutti gli altri marmocchi giocano, e urlano, e si inseguono per il prato, cadono, si  sbucciano le ginocchia, vanno a piangere dalla mamma, litigano per un pezzo di legno. La bambina dai grandi occhi neri invece se ne sta rannicchiata in un angolino, a disegnare a terra con un rametto. Mi avvicino un po' per vedere, e mi accorgo che sta disegnando non-so-bene-cosa con un legnetto attorno a un formicaio. Fa salire le formiche sul rametto, poi ne prende qualcuna con le dita, la esamina e la schiaccia. Lo fa per qualche volta, ma sembra non accorgersi neanche della mia presenza. Un cane libero grosso poco più di un ferro da stiro mi annusa un piede e lo mando via. Quando risollevo lo sguardo, la bambina è scomparsa.
E ancora la vedo la settimana dopo, davanti ad un negozio di giocattoli, in centro. Il negozio ha le porte scorrevoli. Lei si avvicina, le porte si aprono. Si allontana, le porte si chiudono. Si avvicina di nuovo e le porte si aprono. Esce una donna con un tailleur di quello stilista italiano, come diavolo si chiama, che sembra nemmeno vedere la bambina. Lei si allontana di nuovo, facendo chiudere le porte. Decido di entrare nel negozio di giocattoli, magari le comprerò qualcosa, una bambola, così non dovrà giocare con le porte automatiche. Ne scelgo una che mi sembra carina -ed economica-, ma quando esco la bambina non c'è più. Per lo sgomento lascio cadere la bambola, mentre aguzzo lo sguardo, dannazione, deve esserci là, tra la folla, tra le auto, magari ha attraversato senza guardare... E invece non c'è. Quando riporto lo sguardo a terra, anche la bambola è sparita.
E io continuo a non capire il perché di quella bambina dagli occhi neri. Porta sempre lo stesso vestitino bianco ornato di pizzo, le stesse mollette a fermare i capelli. Non parla. Non ti guarda nemmeno. Come se non esistesse, o come se tu non esistessi. Eppure sono sicuro di vederla, e sono sicuro che venga proprio da me. Proprio da me e da nessun altro, sono io che devo prendermi cura di lei. Ne ha bisogno?
Ne ho bisogno?
La vedo l'ultima volta in un parco giochi fuori città. Sta giocando seduta per terra, e pettina con le mani sporche i capelli della testa mozzata di una bambola. C'è una donna di mezz'età vicino a me. Altissima e con un completo verde limone. Sa di profumo economico, di seconda scelta, troppo forte, scadente.
«Mi scusi» dico alla donna. «Sa di chi è quella bambina?»

Lei si guarda per un attimo attorno attraverso un paio di enormi lenti da vista.
«Quale bambina?»
Quando mi volto di nuovo, è sparita nel nulla, volatilizzata.

''Sogni, pensi di averne mai avuti?
Bisogni, credi di averne ancora?
,,


Ringrazio chi legge e chi commenta, e chi zufola.

Noise

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Capitolo 3
*** Cap. 3 - Barbie Girl ***


CAPITOLO 3 - SENTIRSI [IN]UTILI. BARBIE GIRL.

''Sorrisi di plastica,
vomitarsi dentro
[...]
e smetti di ridere ora,
è la tua ora.
,,

Lei ha circa quindici anni se si guarda oltre lo spesso strato di trucco che le impiastra la faccia. Fondotinta innaturalmente bianco. Guance rosa salmone. Mascara di infima qualità che le fa sembrare le ciglia uno scherzo di Carnevale, ombretto azzurro, troppo sgargiante sugli occhi verde-foglia-appassita. Rossetto rosso fuoco sbavato e irregolare sulle labbra da adolescente. Magari fra cinque anni se le farà gonfiare. Siede di fronte a me, le gambe spalancate ai lati della sedia, lo schienale sul davanti, le mani appoggiate ad esso. Indossa una minigonna rosa fluorescente, ma sarebbe più corretto dire che indossa un nulla rosa fluorescente. Autoreggenti a righe viola e nere, una giacca di jeans color vomito un po' troppo corta, e aperta su un reggiseno di pizzo dello stesso colore della gonna, messo lì a reggere... niente.
«Non porto le mutandine.» dice.
Grazie dell'informazione, penso ma non glielo dico, non vorrei che pensasse che non ci credo. «Non ne dubito.» dico, e penso che non me ne può fregare di meno.
Lei si accende una sigaretta e mi soffia il fumo in faccia.
«L'ho ucciso perché non aveva mai fatto sesso.» dice prima che abbia il tempo di chiederglielo io. E mi soffia il fumo in faccia. Dice: «Non volevo che lo facesse con nessun'altra.» Muove le labbra da quindicenne in una posa che dovrebbe essere sensuale, se lei avesse dieci anni in più e non sembrasse un quadro impressionista. «E allora l'ho ucciso.» ride, oca, stupida, pazza.
Si china verso di me e mi soffia il fumo contro, fa schioccare le labbra e sbatte ostentatamente le palpebre. Sporca, nuda, vuota. «Lo faccio con tutti quelli che non hanno mai fatto sesso.» Bambina.
Si alza e fa cadere la sedia. Cammina, malferma sulle zeppe, sulle gambe scheletriche, sulle anche spigolose. E mi soffia il fumo in faccia.
«Lo sai cosa vuol dire se una ti soffia il fumo in faccia?» chiede e mi si siede a cavalcioni. Quel seno inesistente, quel reggiseno color cicca ripieno di nulla. Non lo so, dico, cosa vuol dire?
«Che vuole scopare.» dice. E mi soffia il fumo in faccia. E si struscia. Quella minigonna inesistente. Non porta le mutandine.
«Tu hai mai fatto sesso?»

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Capitolo 4
*** Cap. 4 - La Mia Morte è Solo Mia ***


CAPITOLO 4 - LA MIA MORTE E' SOLO MIA. ULTIMO CAFFE' DI UN CONDANNATO A MORTE.

''Voi vi siete condannati a morte
nel vostro quieto vivere
,,

E cadde, morto, sotto i miei occhi... l'ho visto con questi occhi, capisci?

Non ricordo esattamente il suo nome, ma potrei riconoscere la sua faccia tra mille. I lineamenti duri e affilati e quegli occhi color ghiaccio, quasi incolori. A me facevano paura quegli occhi, sembrava che ti lacerassero dentro, non riuscivi, non osavi guardarli. E lui era un tipo schivo, sì, schivo, parlava poco con quel suo accento indefinibile e quella voce a malapena udibile. Perché a lui non avresti dato un centesimo a vederlo. Piccolo, gracile, aveva quel colorito insano, sembrava perennemente malato, un pezzo di carne andato a male. Sembrava che non ne avesse bisogno della sedia elettrica, che dovesse partire da sé da un momento all'altro, sì, proprio di quelli su cui non scommetteresti nemmeno una gallina in fin di vita, dico.
Non ho mentito riguardo al suo nome. Lui diceva di odiarlo e noi l'abbiamo sempre chiamato Joe. Perché era un nome facile e stupido, un nome che non puoi detestare. Non ci disse mai qual era il suo nome.
Tutti dicevano di essere innocenti, tutti tranne lui che lo era davvero. Come faccio a saperlo? L'uomo per cui lui era dentro, in realtà l'avevo ammazzato io. E lui lo sapeva, e io lo sapevo, ma ha voluto dire di averlo ammazzato lui. Non so bene perché, ma penso che avesse tutto in mente fin dall'inizio quel delinquente. E comunque, anch'io sono qui, ma so di non aver vanificato il suo tentativo... perché il suo tentativo non era pararmi il culo. Lui ambiva a qualcos'altro, lui voleva dare una dimostrazione che lasciasse tutti a bocca aperta.
E lo fece, dio se lo fece...
Ricordo che lui non beveva mai caffè. Lui odiava il caffè, è una delle cose che ricordo di lui, semplicemente, una cosa grandiosa adesso che ci penso, sì, grandiosa davvero. Come fai a bere quella merda Hank, mi chiedeva sempre, e io la bevevo e lui se ne stava lì con quei suoi occhi finti a guardarmi disgustato. Non erano finti davvero, ma era come se lo fossero.
Era il 13 novembre 2009. Pioveva, mi ricordo che c'era un tempo da lupi, nemmeno il diavolo sarebbe uscito di casa quella notte. Quella notte toccava a lui, dopo un anno, toccava a lui davvero e sembrava che non gliene potesse fregare di meno. Erano le due di notte e lui stava chiuso lì nella sua cella a pensare, in perfetto, religioso silenzio. E noi lo lasciavamo stare, che diavolo, come puoi rompere l'anima a un povero cristo che sta andando a farsi friggere il cervello a morte?
Erano le cinque e cinquantotto di mattina quando vennero a chiamarlo. Lui si rifiutò di muoversi fino alle sei in punto, e poi non fece storie. Si alzò in silenzio, in silenzio seguì la guardia, con noi tutti aggrappati alle sbarre come cani, come scimmie allo zoo. Scimmie condannate a morte. Andò a farsi radere i capelli, e poi fu il momento dell'ultimo desiderio, o almeno credo. Fatto sta che lo vedemmo tornare indietro, e subito pensammo che fosse venuto a salutarci. Invece aveva una tazza di caffè in mano. Tu odi il caffè, gli dissi. Era vero, a lui il caffè aveva sempre fatto schifo, a quel vecchio bastardo.
«Ti sbagli Hank, vecchio mio» mi disse «Questo caffè è ottimo.»

Ora devo andare, amico mio. Domani tocca a me.


A-ehm. Prova. Prova.. Mi scuso con non so bene chi per il ritardo. L'avevo già scritto, ma un'entità superiore mi ha obbligata a dimenticarmi di postare. Ogni tanto capita.

Noise

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Capitolo 5
*** Cap. 5 - Chi d'Indifferenza Muore ***


CAPITOLO 5 - SENTIRSI [IN]UTILI. CHI D'INDIFFERENZA MUORE.

''Sempre prigioniero di qualcosa,
mai di qualcuno
,,

Era una vecchia strega, o come volete definirla, per me non era niente di più. Con quella sua nuvola eterea di capelli argentati che parevano ragnatele, quelle mani rugose, ruvide, sembrava dovessero stringerti il collo da un momento all'altro, troncarti il respiro. Le unghie laccate con quell'orrendo smalto color sangue rappreso. Quegli occhi da pazza, giuro sul demonio che ci potevo vedere la mia morte, in quegli occhi, lontano un miglio. Ma la cosa che sicuramente tutti sapevano di Marie Madleine è che si tirava dentro casa quella gente... sì, tutta quella gente raccolta per strada, viandanti, senzatetto, viaggiatori allo sbaraglio, delinquenti. Vedevo certi bastardi entrare lì dentro... sia umani che cani. O forse è più corretto dire solo cani. Lei li trovava per strada e se ne riempiva la casa. O erano loro ad andare direttamente dalla vecchia Marie, c'era sempre la coda fuori dalla sua porta. E lei dava da mangiare a tutti, e danzava, e rideva con quei suoi occhi folli.
La casa di Marie era sempre in ordine, i muri, il giardino, il tetto, la staccionata. Chi veniva ospitato da Marie le faceva i lavori, una piccola cooperativa di straccioni sempre all'opera per sistemare, rinnovare, costruire. E il giardino invaso dai cani randagi, da vecchi sacchi di pulci, zoppi, buoni solamente a tirare le cuoia.
Qualcuno aveva provato a lamentarsi della vecchia Marie, qualcuno dei nuovi arrivati nel quartiere, ma noi dicevamo sempre di lasciarla perdere, di lasciarla fare. Tutti la lasciavano fare. E se qualcuno andava a chiederle il perché di tutto questo, lei si sistemava quella nuvola arruffata di capelli con le dita nodose, e senza parlare offriva un pezzo di torta, uno sformato, qualunque cosa. Tutti erano andati almeno una volta dalla vecchia Marie, tutti tranne me.
Io facevo semplicemente finta che non esistesse, che non mi desse fastidio alzarmi la mattina e vedere un esercito di senzatetto malconci e maleodoranti fare la fila come all'ufficio imposte. Io uscivo di casa e tiravo dritto, tenevo sempre la tapparella abbassata dalla parte in cui la finestra si affacciava sulla casa di Marie, non mi chiedevo mai che diavolo stesse facendo, cosa pensasse, quanta gente avesse in casa, quanti animali fossero seppelliti sotto l'oleandro in giardino. Io facevo finta di nulla, e lei faceva finta di nulla. O almeno così credevo.
Era una notte splendida, il 15 agosto. Il vento tiepido, le cicale, le stelle, perfetta nella sua banalità. Ma io ero chiuso in casa. Un presentimento? Forse è stato solo il caso, non lo saprò mai, e continuerò a fingere di non volerlo sapere. Qualcuno suonò alla porta poco prima di mezzanotte. Dallo spioncino, la vidi, lei, con quei suoi occhi spalancati, quei capelli così leggeri da contrastare la gravità, lei vestita con un maglione grigio, logoro, pallida, mortalmente pallida. Suonò una, due, tre volte, mentre io ero in attesa, dietro alla porta. Io che mi ero sempre sforzato di cancellarla, di non farla esistere. Io, indifferente.

Non aprii a Marie Madleine quella notte.

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