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Una domanda così semplice, eppure
così complessa. Come quella parola che suona soave a
ogni orecchio: Amore. Possibile che
una sola parola possa descrivere un sentimento così grande, così esteso,
così…profondo?
Possibile che in una così piccola
parola si nasconda un significato così vario?
Perché di “amore” ne
esistono tanti: l’amore passionale e violento di due amanti, quello
dolce e puro di due fidanzati, l’amore naturale per il proprio figlio, quello
gioioso tra amici…quello tra fratelli…
Amore…..come
facciamo a sapere se è veramente quello che fa battere il nostro cuore? Come
facciamo a sapere se è quel sentimento, o una giovanile infatuazione che durerà
solo qualche giorno? Come facciamo a riconoscere la persona giusta?
Platone diceva che tutti noi siamo
stati divisi, come una mela, e che non facciamo altro
che cercare quella parte da cui siamo stati brutalmente privati: l’anima
gemella.
Ma esisterà davvero? Esiste la mia anima gemella…?
Le gocce di
pioggia picchiettavano contro il vetro della finestra della mia camera.
Violente scendevano dal cielo, infrangendosi contro quella fredda lastra
trasparente, lasciando che il loro ultimo sospiro si accompagnasse al gemito
sottile del vento. Un lamento, una straziante melodia che non
faceva altro che peggiorare il mio cattivo umore.
La settimana che mi portavo alle spalle era stata davvero una delle
peggiori di quell’anno. Sembrava quasi che tutte le
sfortune più nere avessero cercato apposta il sottoscritto, e la notizia,
seguita immancabilmente dall’ammissione della stessa Sabrine,
che la mia ragazza mi aveva lasciato per uno stupido bulletto
da due soldi, era stata solo l’ultima goccia!
Non che di lei m’importasse poi così tanto. In fondo se avevamo iniziato
qualcosa era solo perché me lo aveva chiesto e perché io non avevo molto di
meglio da fare. Suona davvero insensibile detto in questa maniera, me ne rendo
conto, ma in realtà Sabine per me non era altro che una bambola con cui mi divertivo a giocare. Nulla di più. Pur sapendolo, però, nel
mio cuore si era insinuata la vana illusione che quella ragazzetta si riscoprisse essere la mia anima gemella: un altro buco
nell’acqua.
La mia
anima gemella. Da quanto la cercavo?
Probabilmente da quando avevo visto per la prima volta il mondo. Sempre alla ricerca di qualcuno da
poter proteggere con le mie sole braccia, di qualcuno a cui regalare il mio
primo sorriso del mattino, di qualcuno da amare, e da cui essere amato…il sogno
di ogni uomo che poggia piede su questa fredda terra,
e fino ad allora era anche il mio sogno.
Avevo avuto
tante ragazze, nonostante fossi ancora un diciassettenne. Le avevo cambiate
come abiti, alla disperata ricerca di qualcuna che riuscisse
a farmi sentire il dolce succo del fiele d’Amore. Molte erano attratte
unicamente dal mio fisico, ne ero ben a conoscenza, ma
la speranza che prima o poi una qualunque di loro si sarebbe rivelata l’altra
metà della mia mela persisteva. L’uomo ha bisogno di sperare per vivere.
E io
continuavo a farlo, proseguendo nella mia caccia…
Ognuna di
quelle ragazze mi aveva detto, almeno una volta, “Ti amo”. Piangendo, ridendo,
arrossendo. Diversi erano stati i modi, ma il concetto era sempre stato
identico. Eppure nessuna di loro mi sentì mai rispondere a quell’affermazione:
io non avevo mai detto di amare qualcuno. Dopotutto
loro per me non si erano rivelate altro che giochi dalle belle forme, per cui non nutrivo il benché minimo interesse sotto quella
visione, perché, non appena tolte le vesti della compagna d’amore, alcune di
loro sapevano rivelarsi simpatiche amiche.
Sistemai le
mani dietro la nuca e chiusi pesantemente gli occhi, tinti come una limpida
mattina estiva, che mi pareva così lontana in quel pomeriggio temporalesco
d’autunno.
Un sospiro
pesante sfuggì alle mie labbra semichiuse, prima che la famigliare voce di mia
madre mi richiamasse nel mondo reale. Attesi che la sua voce, morbida
nonostante stesse gridando, ripetesse il mio nome per qualche volta, prima di
alzarmi controvoglia.
Scesi le
scale a piedi scalzi, trovandomi subito davanti alla cucina. L’odore di carne
bollita aveva invaso dolcemente quell’angolo della
casa e lo scroscio del rubinetto, batteva rumorosamente contro la pentola che
vi era stata messa sotto. La piacevole sensazione di essere protetto si diffuse
come quando ero bambino.
La figura
di mia madre di schiena, indaffarata tra i fornelli e i lavandini, appariva
come appena riemersa da un sogno, contornata dai fumi leggeri della cena che
stava cocendo. In un angolo buio della mia memoria si risvegliò un’immagine
lontana, simile a quella che mi si presentava agli occhi. Un altro pezzo del
mio personale puzzle che andava a incastrarsi in
attesa degli altri compagni mancanti, che forse non avrei mai ritrovato.
Osservai la
silhouette sottile dell’unica donna di casa, incantandomi a
osservare il movimento lento che la sua lunga treccia bruna faceva scivolando
sulla sua schiena. Il fiocchetto giallo ocra del grembiule, che s’era legata alla vita,risaltava tra i suoi scuri abiti consumati a furia di usarli
saltuariamente.
Le avevo detto più volte d’indossare vestiti più vivaci, i quali
avrebbero risaltato la sua bellezza, non ancora appassita sotto i segni
dell’età, e che, magari, le avrebbe permesso di accaparrarsi qualche uomo. In
fondo aveva solo quarantacinque anni. Ma lei, ogni
volta, si era limitata a dirmi che l’uomo della sua vita l’aveva già trovato.
Anzi, si vantava con un sorriso, ne aveva trovati ben
due: i suoi splendidi figli. Per lei, noi eravamo la sua vita.
Sentirla
nuovamente gridare il mio nome mi risvegliò dai miei pensieri, facendomi capire
che non si era ancora accorta della mia presenza
- Che c’è, mamma? – le chiesi, posandole una mano sulla
spalla. Sembrava così piccola e fragile sotto la stretta della mia mano, eppure
lei era sempre stata una donna con una grande forza
d’animo, che camminava sempre con la schiena eretta e a testa alta. Aveva
dovuto imparare ad essere forte, aveva dovuto apprendere dolorosamente quell’arte per crescere due figli aiutata
solo da se stessa. Non doveva essere stato facile farci sia da madre che da
padre, in modo che non risentissimo dell’assenza della parte maschile della famiglia. Mi rendevo conto di questo, al contrario di quell’idiota di Michael, il mio fratello
minore.
- Oh,
finalmente! Sono ore che ti chiamo, Steve – esclamò, lasciando la pentola e asciugandosi le mani sul
tessuto giallognolo. Si voltò con un sorriso dolce sulle labbra, togliendosi
qualche ciocca dal volto affaticato.
- Non ti ho sentito, stavo dormendo - spiegai
- Scusami, non volevo svegliarti. E’ solo che sono preoccupata
per Michael – disse con un
tono che tentava di mascherare la sua ansia – Dovrebbe essere già qui…-
Stancamente
mi passai una mano tra le ciocche nere, che erano tanto lunghe da infastidirmi
gli occhi. Sapevo già dove mia madre volesse andare a
parare: guardandomi con quei suoi occhi azzurri mi avrebbe convinto ad andare a
prendere quel cretino, pur sapendo che tra noi non c’era mai stato un buon
rapporto e il fatto che fossimo fratelli non faceva che peggiorare la
situazione: lunghi silenzi a tavola, indifferenza più totale quando
c’incrociavamo nei corridoi, neanche una parola di benvenuto all’altro che
rientrava a casa. Quell’atmosfera così distaccata tra
noi aveva creato non pochi crucci e sofferenze all’unica donna di casa, la
quale aveva tentato in tutti i modi di abbattere quel muro che, non si sapeva
come o perché, si era creato tra di noi. Ogni suo
tentativo, però, era stato un puro e semplice fallimento: io e mio fratello non
ci sopportavamo e nulla l’avrebbe cambiato.
Nonostante quello, però, l’affetto che mi legava a mia madre non era mai
cambiato ed era proprio quell’affetto che mi faceva
preoccupare tanto per lei, al contrario del mio illustre fratello. Entrambi eravamo a conoscenza del fatto che l’ansia e
l’agitazione erano due fattori che potevano scatenare uno dei suoi attacchi di
cuore. Nostra madre, infatti, era nata con una malformazione al cuore che le
aveva sempre dato un sacco di problemi.
Non era un’occasione
rara che fosse colta e che io e Michael
fossimo costretti a trasportarla in ospedale, dove la imbottivano sempre di
ogni genere di farmaci. Durante l’ultima visita il dottore ci aveva preso da parte, sia a me che a mio fratello, e
nuovamente si era raccomandato di darle meno preoccupazioni possibili. Le sue
parole dovevano essere entrate da un orecchio e uscite dall’altro, nel caso di
quel cretino. Così, per evitare che mia madre finisse di nuovo in ospedale,
accettai di andare a prendere il mio consanguigno.
- Vado a
vedere dove è finita quella testa vuota – dissi
sconfitto, prendendo le chiavi della macchina e uscendo senza nemmeno infilarmi
la giacca. Sul volto di mia madre mi sembrò scorgere un sorriso di gratitudine,
il quale mi convinse che quell’uscita non era del
tutto inutile.
*
Spinsi di
più l’acceleratore, desideroso di sbrigare il più in fretta possibile quella
commissione.
La pioggia
batteva imperterrita sul parabrezza, offuscandomi la vista per pochi attimi,
prima che i tergicristalli la spazzassero via. Il suo
canto malinconico continuava a seguirmi anche lì…cacciai via i
miei pensieri prima che potessi ricominciare a perdermi nelle mie
domande su quel qualcosa che ancora non ero riuscito a trovare.
Come non
ero riuscito a trovare quel cretino! Avevo fatto, al contrario, tutta la strada
che solitamente percorreva per tornare a casa, ma di quell’incapace
non c’era la minima traccia. Seguendo il percorso finii davanti alla scuola che
entrambi frequentavamo e dove Michael faceva i suoi
allenamenti di basket.
Non sapevo
neanche perché avesse scelto proprio quello sport, dove tutti devono essere
alti almeno un metro e novanta (ma non è vero!!!NdBlack – E tu che ne sai? NdWhite
– Sono un’ammiratrice di Slam Dunk e Generation
Basket ^^’’’’ – Ah, beh…ottima fonte -.- NdWhite).
Dopotutto lui non era così alto: era di poco più basso di me che ero un metro e ottanta.
Sbuffando
svoltai l’angolo, per frenare davanti alla palestra, dove solitamente si
tenevano gli esercizi per i corsi sportivi. L’edificio era completamente
avvolto dall’oscurità e anche lì, di mio fratello, neanche l’ombra.
- Ma dove cazzo si è cacciato? –
ringhiai furioso, stringendo i pugni sul volante per placare la mia rabbia.
Poi una
figura attrasse la mia attenzione: lui.
Era seduto
sul marciapiede, dall’altra parte della strada, con la testa china e i capelli
che gli cadevano disordinatamente sul volto, fisso a guardare il borsone blu ai
suoi piedi. La pioggia scivolava rabbiosa su di lui bagnandolo fino alle ossa,
ma sembrava che la cosa non gli importasse molto, come non sembrava importargli
la mia presenza.
- Che gli è presto, stavolta? – domandai al vuoto, chiudendo
la portiera della macchina. Il rumore prodotto fu tanto forte che, per un
attimo, riuscì a superare perfino lo straziante grido delle gocce d’acqua che
morivano sull’asfalto, sulla macchina, su di noi…
Controvoglia
mi avvicinai a lui, fermandomi quando fui a pochi passi da dove s’era seduto.
Solo a quel punto sembrò accorgersi di me
- Ste…-
- Si può
sapere che diavolo ti passa per la testa, razza di coglione?
– lo aggredii, interrompendo subito il suo tentativo di parlare – La mamma si è
spaventata a morte, cretino che non sei al…?! – mi
bloccai non appena il suo volto s’alzò verso di me: la candida pelle era segnata
da vistosi segni rossi, che, con molta probabilità, si
ripetevano anche su tutto il suo corpo. Dovevano averlo picchiato proprio per
bene.
Per un
attimo sentì un’inspiegabile rabbia scorrermi nelle vene, una furia cieca verso
coloro che avevano alzato le mani su colui che
raramente riuscivo a definire come fratello. Mi stupii di quella mia reazione,
ma essa si volatilizzo velocemente com’era venuta, con
una scossa esasperata della mia testa.
- Possibile
che tu non riesca neanche a difendere te stesso? – sbottai senza neanche
rendermene conto.
Offeso, mi
fulminò con un’occhiataccia che riuscì a colpirmi nonostante fosse seminascosta
dalle sue lunghe frange bagnate. Un brivido scivolò lungo la mia schiena.
Neanche ora saprei dire se questo fosse dovuto al
freddo o…ad altro…
Solo in
quel momento sembrai accorgermi del fatto che eravamo entrambi sotto la
pioggia, la quale, avida, s’era impossessata presto
dei miei leggeri abiti, inzuppandomi fino al midollo. Se continuavamo
a stare lì ci saremmo presi una bronchite, e poi chi l’avrebbe sentita nostra
madre?
- Entra in macchina – gli ordinai, dandogli le spalle e
tornandomene in auto. Nonostante non lo stessi
guardando, potevo sentire la presenza di Michael che,
silenzioso come al suo solito, mi stava seguendo ubbidiente.
- Per poco
non facevi venire un infarto a mamma – lo rimproverai
duramente, non appena si fu accomodato sul sedile del passeggero – Dimmi, sei
scemo o cosa? Lo sai che mamma si preoccupa facilmente! -
- Vedermi in questo stato l’avrebbe, certamente, ammazzata sul colpo –
ribatté lui, totalmente atonico. Trattenetti a fatica l’impulso di tiragli
un pugno. Quella sua completa apatia, con la quale si rivolgeva unicamente
verso il sottoscritto, riusciva a irritarmi più di
quanto riuscivo ad ammettere.
Dovetti
ammettere, tuttavia, che il suo pensiero non era così
errato. Non che questo potesse giustificare la sua egoistica imprudenza
- Potevi
almeno telefonare -
- Mi hanno
rubato il cellulare – rispose, con un tono che suonava
quasi annoiato.
- Sei troppo stupido per difenderti? – lo schernì, con un
sorsetto serafico. Sapevo che avrei provocato le sue ire con quell’affermazione, ed era proprio per quel motivo che avevo detto una cosa del genere. Solo per vedere quella sua
maschera impassibile incrinarsi, per qualche secondo.
- Stupido?!
Non so te, Mr.Muscolo, ma io non sono in grado di
confrontarmi con sei ragazzi tutti alti il doppio e spessi il triplo di me! –
urlò infervorandosi.
- Piantala di urlare – lo ammonii seccamente, prendendo il mio
cellulare e componendo il numero di casa.
Come immaginavo era impossibile, per noi, stare cinque minuti
senza litigare. Preferii, così, telefonare a nostra madre giusto per informarla
che avevo trovato quell’imbecille. In secondo luogo
avrei dovuto trovare una scusa plausibile, grazie alla quale avremmo
potuto restare fuori casa fino a notte inoltrata, per evitare che la
visione del secondogenito ridotto in quella maniera aggravasse lo stato di
salute della donna di casa.
La prima
scusa che mi venne in mente fu che saremmo andati ad una festa organizzata dai
nostri compagni di scuola - Rientreremo a tarda notte.
Non aspettarci alzata – mi affrettai ad aggiungere.
A quella
notizia la donna dall’altra parte della cornetta non riuscì a reprimere un
grido di gioia, che mi obbligò ad allontanare il telefonino dal mio povero
orecchio assordato
- Mamma,
perché diavolo gridi??? – sbraitai, mentre il ragazzo
al mio fianco mi lanciava un’occhiata traversa che stava chiaramente a
significare una cosa del tipo “guarda che lo stai facendo anche tu”. Ignorai
volutamente quello sguardo, consigliando a nostra madre di andare a dormire
dalla signora McGonnall per quella notte, in modo da
non restare da sola.
La signora McGonnall era la nostra vicina di casa, una vecchietta
allegra e fin troppo arzilla per la sua veneranda età. Viveva da sola con i
suoi tre gatti, dai nomi impossibili da ricordare, e il suo cagnolino Rolly. Forse proprio a causa di questa sua solitudine, si
era avvicinata presto a noi ed era sempre stata disponibile e gentile, in
particolare dopo che nostro padre se n’era andato di casa. Diciamo pure che la
consideravo ormai come una nonna, e il paragone non era
poi così fantasioso. Una volta la sentii parlare con un uomo che, furibondo,
continuava a gridarle che cosa mai la legasse alla nostra casa. La sua risposta
fu tanto semplice da ferirmi: - Loro sono la famiglia che non ho mai avuto -
Capì allora
che anche quella dolce nonnina che ci cucinava i suoi deliziosi dolcetti alla
cannella nascondeva un passato molto triste. Come il nostro, del resto…
La voce di
mio fratello mi riportò alla realtà
- Questo
vuol dire che dovremmo passare la serata insieme – disse,
cercando di apparire piuttosto seccato per la cosa.
- Non ti
lamentare! E’ solo colpa tua se ci troviamo in questa dannata situazione…- le
mie parole di rimprovero furono interrotte bruscamente dalle sue
- Piantala! – sibilò, continuando a tenere lo sguardo fisso
sul parabrezza – Piantala di rimproverarmi. Chi ti credi di essere? Nostro padre, forse? -
M’irrigidii
involontariamente a quell’insinuazione, per poi
sciogliermi sotto l’influsso della rabbia. Una rabbia che fa
offuscare tutti i tuoi pensieri razionali, che non fa vedere più nulla, che non
ti fa più distinguere il bene dal male, se mai questa distinzione esista
davvero.
Con
violenza strinsi i pugni sulle sue spalle, troppo esili per
appartenere a un giocatore di basket, costringendolo a voltarsi verso di
me. Il suo sguardo s’incrociò subito con il mio, permettendomi di notare una
punta di stupore nelle sue iridi argento.
- Non me ne
frega nulla di te e di cosa cazzo fai! Ma se quello che fai danneggia mamma, non ci penso su due
volte a tirarti un cartone in faccia! -
- Perché non lo fai, allora? - mi stuzzicò
Quando si è
preda della collera crolla ogni genere di pensiero raziocinante, anche il più
banale che ti permetterebbe di rispondere civilmente a
una così stupida istigazione. Si agisce d’istinto, e il mio
istinto, in quel momento, mi diceva unicamente di colpirlo. Così alzai
minacciosamente il pugno muovendolo velocemente verso il suo volto, ma mi
bloccai a pochi soffi dalla sua candida pelle.
I suoi
occhi. I suoi occhi, dello stesso colore dei raggi di una luna estiva, avevano
abbandonato il velo di sfida per lasciarsi andare a d’una
aperta tristezza.
Credo furono proprio quelle due iridi d’argento a bloccare il mio
gesto. Le stesse iridi che mi fermai a contemplare.
Non avevo mai notato quanto gli occhi di quel cretino fossero
belli. Forse perché avevo avuto poche occasioni per guardarli a così poca
distanza, o forse perché non avevo mai avuto motivo di fissarli…
Con un
profondo sospiro lasciai la presa sulle sue spalle e distolsi il mio sguardo
dal suo, tornando a poggiarmi al sedile.
- Senti, se
vogliamo superare questa notte senza farci a pezzi dobbiamo fare una tregua –
- Mh – presi quel grugnito per un sì.
Accesi il
motore, già stufo del cocciuto comportamento che Michael
stava tenendo. La mia idea era di infilarmi nel primo pub aperto che avremmo incrociato lungo la strada. Grazie a quel genio che
mi stava di fianco, infatti, ero stato costretto ad uscire di casa con lo
stomaco vuoto, che ora brontolava per quella mia dimenticanza. Molto
probabilmente anche il mio compagno stava morendo di fame, ma lo conoscevo
abbastanza per sapere che non l’avrebbe ammesso mai, neanche sotto tortura. Non
valeva la pena sprecare fiato con quello lì.
- Dove stiamo andando? – mi chiese, togliendosi di dosso il
giaccone zuppo d’acqua, rimanendo solo con un’altrettanto fradicia maglia di
cotone, che aderiva sul suo corpo come una seconda pelle, esaltandone il più
piccolo muscolo.
Ero a
conoscenza del fatto che Michael aveva sempre riscosso un notevole successo con la fazione femminile e,
proprio come per me, questo era dovuto in gran parte al suo aspetto: morbide ciocche
corvine dai riflessi quasi bruni, il viso dai tratti delicati e ancora non del
tutto sviluppati, il corpo minuto ma allenato come quello di qualsiasi atleta,
e poi quegli occhi d’argento…così magnetici. Al contrario del sottoscritto,
però, la sua fama non era dovuta unicamente ad un
fattore estetico, ma, anzi, il suo carattere gentile e riservato gli conferiva
maggiore fascino. L’esatto contrario del mio, più
rumoroso e, paradossalmente, più scontroso. Era proprio il suo carattere che
faceva andare in delirio numerose ragazze e ragazzi, a sentire le voci che
giravano liberamente per i corridoi.
- Ehi, sei
tra noi? – la sua voce mi giunse delicata alle orecchie
- Eh?! Cosa? -
Aggrottò le
sopracciglia, con fare interrogativo – Ti ho chiesto dove stiamo andando - ripeté
- Nel primo
pub che troviamo. Sto morendo di fame. Penso che valga la stessa cosa anche per
te - dissi, anche se ero ben poco fiducioso della sua
risposta.
- Effettivamente – sussurrò lui, lasciandomi letteralmente a bocca
aperta
“Cosa?! Mister-sto-sempre-zitto
mi ha dato una risposta affermativa? Questa sì che sarà
una notte da ricordare!” ironizzai nella mia mente, inconsapevole di quanto in
realtà fossi vicino alla verità.
Free talk
Salve! ^^ Qui parla Black Angel, la
guardiana dei Portali Infernali.
Dopo le mie
favole del Giardino dei Peccatori e dei Dannati, passo ad un genere un po’ più
roseo ma ugualmente intriso di quell’angst che mai
guasta (almeno per la sottoscritta) ^^ Idealmente Moment dovrebbe essere il
primo capitolo di una breve trilogia incentrata sui due fratellini protagonisti:
in questa prima parte, infatti, i loro pensieri e sentimenti sono affrontati
superficialmente, per dare un maggior spazio alla storia in se che aprirà le
danze per il secondo capitolo…credo non si sia capito nulla, ma abbiate pietà
per una poveraccia che non conosce uno straccio d’italiano ^^’’’
Vorrei
soltanto affrontare un ultimo punto, prima di svanire nelle nebbie dell’eternità:
visto che so che a molti potrebbe infastidire una
tematica del genere, voglio dire fin da subito che questa storia riguarda un
amore omosessuale tra due fratelli (un incesto, in poche e semplici parole).
Grazie
mille per l’attenzione ^^ Aspetto vostri commenti e/o
critiche (con molta probabilità saranno in netta maggioranza quest’ultime NdWhite – Il tuo
sostegno è sempre ammirevole -.- NdBlack)
Quelle
furono le ultime parole che pronunciammo, prima che il silenzio ci calasse
addosso come un pesante macigno, accompagnandoci finché non varcammo la soglia
del primo pub aperto che avevamo trovato.
La taverna
del Trifoglio, così la nominava una targhetta all’esterno logorata dal tempo,
era quello che si poteva definire il classico pub irlandese: un’atmosfera calda
ed avvolgente ti accoglieva non appena entravi e i tuoi polmoni respiravano la
prima boccata di aria malsana, infetta di odori che spaziavano dall’acre fumo
di sigaretta al morbido profumo di cibo appena cucinato, tipica dei pub. Il
locale era piuttosto piccolino, con il lungo bancone di legno che occupava
quasi totalmente una parete e i tavolini, in rozzo legno scuro anch’essi, che
si diramavano da esso. Le luci, flebili come candele, erano state posizionate
agli angoli e liberavano una soffusa illuminazione per tutto il locale, la
quale contribuiva a rilassare il cliente appena riemerso dal temporale che si
era abbattuto sulla città. Al fondo della sala, uno scoppiettante camino
riscaldava la temperatura, facendo danzare soavemente le sue fiamme nell’antro
costituito da piccoli mattoncini rossastri. Una giovane cameriera si destreggiava
abilmente tra i pochi tavoli occupati, sorridendo gentilmente, nonostante sul
suo volto era ben chiaro il segno della stanchezza. Al di là del bancone un
uomo sulla trentina si occupava di preparare i drink, urlando, di tanto in
tanto, qualcosa a colui che doveva essere in lotta con i fornelli.
I pochi
clienti presenti erano dispersi in vari tavoli, il più possibile lontani gli
uni dagli altri, come se la sola vicinanza con altre persone sconosciute
potesse irritare quel loro pacifico ritrovo. Fortunatamente per noi il tavolo
davanti al camino non era stato occupato, e, fradici fino alle ossa
com’eravamo, non ci pensammo due volte a diventarne noi i possessori. Ci
vollero una manciata di secondi, prima che la cameriera venisse a chiederci le
ordinazioni.
- Cosa vi
posso….- la sua voce si smorzò nell’aria non appena focalizzò lo stato in cui
eravamo ridotti
- Per
iniziare un po’ di ghiaccio, ehm…Janyce – risposi, sforzandomi di leggere il
nome scritto sul taschino della sua divisa. In men che non si dica, ci fu
portato quanto richiesto e il mio silenzioso compagno non attese un attimo in
più per poggiarlo sul suo bel faccino deturpato. Quando il primo problema
sembrò essere risolto, pensammo al desiderio più impellente che il nostro corpo
aveva in quel momento: mangiare. Scrutai frettolosamente il menù, richiedendo
la prima cosa che mi capitò agli occhi.
- Allora –
esordì, non appena Janyce ci ebbe congedato – Chi è che ti ridotto così, eh? -
- E perché
dovrebbe interessarti? – ribatté, fulminandomi con lo sguardo, mentre si
premeva di più il ghiaccio sul volto
- Volevo
solo fare un po’ di conversazione – sbuffai con un’alzata di spalle
- Non ne
abbiamo mai fatta e di certo non ho intenzione d’iniziare ora –
Un sussurro
gelido, il suo, che s’infilava nel tuo animo, come la pioggia, là fuori,
trapassava i tuoi vestiti. Parole accompagnate da uno sguardo freddo come la
neve, che, chissà per quale assurdo motivo, mi facevano sentire improvvisamente
amareggiato.
Michael non
aveva torto: la mia memoria non riportava nemmeno un ricordo di una
chiacchierata tra noi svoltasi civilmente, non un ricordo di un gesto
affettuoso donato l’uno all’altro. E questo non era causato dall’amnesia che mi
aveva colpito dopo l’incidente.
Indifferenza,
gelo, disprezzo…quelli erano stati gli unici sentimenti che avevamo condiviso.
Spesso mi chiedevo dove e quando questo muro si fosse innalzato tra noi, ma
solo una triste risposta si ripeteva nel mio cervello: non c’era un dove o un
quando, eravamo nati con tutto quello…nati per non essere fratelli.
- Lo dici
come se fosse colpa mia – gli feci notare, alzando il sopracciglio – Se tu
avessi voluto, avresti sempre potuto…-
- Fare
cosa? Avvicinarmi a te? – m’interruppe, alzando la voce e fulminandomi con i
suoi occhi argentati – Io dovevo avvicinarmi a te? E tu? Tu cosa dovevi fare?
Stare lì fermo ad aspettarmi? –
- Ehi, non
ho detto questo – tentai di difendermi – Ho detto solo che è colpa di entrambi
se…-
- Se siamo
costretti a litigare ogni cinque minuti. Volevi dire questo, no? – continuò la
mia frase con un raschiante sarcasmo – Beh, io non l’ho mai voluto – aggiunse,
quasi volesse addossarmi tutta la colpa
- Non puoi
pretendere che tutto vada come vuoi –
- E tu
invece puoi farlo? Vieni qua e pretendi che iniziamo una conversazione da buoni
fratelli, come se non facessimo altro da anni. Come se quel giorno…-
- Eccovi le
vostre ordinazioni – l’arrivo della cameriera, interruppe bruscamente il
discorso che stavamo intraprendendo – Un hamburger con patate e una pizza ai
formaggi – elencò, posandoci davanti agli occhi la nostra cena – Buon appetito
– ci augurò, infine, lasciandoci liberi di riprendere là da dove avevamo
lasciato in sospeso.
Curioso di
sapere a cosa si riferisse Michael con “quel giorno” non aspettai altro tempo
per chiederglielo, ma lui non sembrava tanto intenzionato a ricominciare la
discussione, visto che si era già avventato sulle patatine. Si bloccò solo
qualche secondo per guardarmi e mostrarmi i suoi occhi, ora privi dell’ira che
vi aveva brillato fino a qualche attimo prima.
- Lascia
perdere – mormorò, dedicandosi al suo panino. Chiaramente non voleva svelarmi
quel mistero. Non in quel momento, almeno.
Abbassai lo
sguardo sul mio piatto, fissando la pizza fumante che vi era posata sopra. La
fame che aveva attanagliato il mio stomaco, sembrava essere stata soppressa
dalla curiosità. Quel fantomatico “giorno”, a me oscuro, aveva iniziato a
tormentarmi.
*
Quando
terminammo di mangiare le lancette del mio orologio segnavano le dieci.
Avrei
davvero voluto tornarmene a casa e chiudermi nella mia camera, ma certamente a
quell’ora nostra madre era ancora in piedi a giocare a bridge con la signora
McGonnall e ci avrebbe notati immediatamente non appena avremmo tentato di
avvicinarci a casa nostra.
La mia idea
era, infatti, di rientrare verso le undici, quando nostra madre si sarebbe
messa sotto le coperte, costretta dalla premurosa anziana la quale non si
coricava mai dopo quell’ora. Il vero problema era come riuscire a far passare
quella lunga ora in sola compagnia del mio fratellino dalla parlantina facile.
Anche in
quel momento stava in silenzio, contemplando il fuoco che scoppiettava nel
camino, assorto in chissà quali pensieri. Il colore caldo delle fiamme danzava
sul suo profilo, mascherandolo con soffici sovrapposizioni di luci ed ombre. I
marchi rossi, lasciatigli da coloro che l’avevano picchiato, avevano perso
colore e parevano anche essersi sgonfiati, rispetto a quando l’avevo trovato.
Fortunatamente la pioggia gelida aveva placato subito il gonfiore e, con molta
probabilità, l’indomani non avrebbe avuto più nulla di così vistoso. Il mio
sguardo rimase, poi, impigliato sui suoi capelli, che avevano iniziato ad
asciugarsi, mostrando alla luce i loro riflessi bruni. Ero così immerso nel
notare i piccoli particolari che identificavano Michael, che trasalì non appena
il suo sguardo argenteo si posò su di me.
Lo stavo
fissando e, ovviamente, lui se n’era accorto. Il problema era che io non me n’ero accorto.
- Si può
sapere che hai, oggi? Stai tutto il tempo a fissarmi -
“Bella
domanda! Me la sto facendo anch’io” pensai, autorimproverando la mia
distrazione
- Io non ti
sto fissando, cretino – ribattei, cercando di rimanere indifferente
- Hai pure
il coraggio di mentire? –
- Non ho
alcun motivo per guardarti, narcisista imbecille -
-
Tsk…dev’essere una questione genetica – disse, lanciandomi uno sguardo
sprezzante – Anche papà aveva il bel vizio di dire balle –
Senza
neanche accorgermene un sonoro schiaffo raggiunse la sua guancia, spostandogli
il volto da un lato.
Sentirmi
paragonare a quell’infame che aveva abbandonato noi e nostra madre era stato
veramente troppo da sopportare. Sapevo che quel ceffone se l’era meritato,
eppure, non appena tornai alla lucidità, sentì l’irresistibile impulso di
chiedergli scusa, domandandomi, contemporaneamente, il perché di tale stupido
desiderio.
Abbassai la
mano mentre la sua si alzava verso la guancia mortificata, sfiorandola
delicatamente.
Un ironico
sorriso gli piegò le labbra. Come se nulla fosse si alzò, trafiggendomi da
parte a parte con un’occhiata degna di un iceberg
- Non sei
mai cambiato – sussurrò, prima di allontanarsi verso l’uscita e sparire dietro
la pesante porta di legno scuro. Ci misi qualche secondo ad assorbire quelle
parole, ma non riuscì a capire esattamente il loro significato. Lasciai i soldi
sul tavolo, in una tale fretta che aggiunsi pure cinque dollari di troppo. Dopo
di che seguì mio fratello sotto la pioggia, che non dava alcun cenno di voler
smettere.
Michael era
immobile, a pochi metri da me, dandomi le spalle. Le gocce gelide erano tornate
ad accarezzare avidamente i nostri corpi ancora umidi, riempiendo quel
famigliare silenzio che calava fin troppo spesso tra di noi. Non mi aspettavo
di trovarlo ancora lì, ma visto che c’era dovevo approfittare della situazione
per tentare di farlo rientrare.
- Dove hai
intenzione di andare? – domandai spazientito
- A casa –
mi rispose apatico, continuando a darmi le spalle.
Guardai il
mio orologio. Era ancora troppo presto per rischiare di avvicinarsi a casa
- Mamma
potrebbe vederti – gli feci notare, tentando di usare il tono più pacato
possibile nella speranza di riuscire a riportarlo alla ragione. Ma il mio
intento, ovviamente, non riuscì
- Non
m’importa! – ringhiò a denti stretti – Mi sono stancato di stare da solo…con te
-
Vidi le sue
mani, abbandonate lungo i fianchi, serrarsi in due pugni tremanti. Persino il
suo corpo sembrava che tremasse cercando di trattenere dentro di se tutta la
furia che ribolliva pericolosamente. Furia che io avevo immesso.
Sbuffai
rumorosamente, passandogli di fianco – Muoviti – gli ordinai, aprendo la
portiera
*
Ancora non
saprei dirvi perché lo feci, perché assecondai i capricci di quel deficiente
che mi aveva insultato fino a pochi attimi prima, perché mi ero sottomesso, per
la prima volta, a una richiesta di quel moccioso, con cui avevo provato in
tutti i modi ad essere gentile senza, tuttavia, essere ricambiato.
Non lo
sapevo, eppure lo feci: lo riportai a casa, rischiando anche di far prendere un
infarto a nostra madre.
“Ma perché
cazzo lo sto facendo?” continuavo a ripetermi.
Miracolosamente,
per una volta la Dea Fortuna s’era stufata di ridermi dietro le spalle e si era
decisa a darmi una mano. Quando arrivammo la casa della nostra anziana vicina
era immersa nel più assoluto buio e silenzio, tipico del sonno. Molto
probabilmente la nostra nonnina si era stufata di perdere a bridge con nostra
madre e aveva proposto allegramente di andare sotto le coperte, lasciandoci
inconsciamente via libera.
Infilai la
chiave nella serratura, facendola girare per un paio di volte finché un rumore
metallico non mi annunciò che era aperta. Posammo malamente le scarpe fradice
nell’ingresso, lasciando una scia di piccole goccioline al nostro passaggio,
che segnavano il percorso fino alle nostre camere, poste al piano superiore.
- Non
accendere la luce – ordinai a Michael, il quale neanche si degnò di
rispondersi, rifugiandosi nella sua tana
Mi dovetti
rassegnare a quel suo atteggiamento. Potevamo continuare tutta la notte a
litigare per cazzate simili, e quella non era proprio la migliore aspirazione
che avessi per quella serata.
Entrai
nella mia stanza, togliendomi la maglietta bagnata e lanciandola in un angolo
di quel caos che solo io potevo chiamare camera. Stanco, mi passai una mano tra
i capelli fradici, mentre con l’altra cercavo il cellulare nelle tasche dei
miei jeans. Sentivo il terribile bisogno di parlare con Mary-Jean: quella pazza
era sempre riuscita a tirarmi su di morale, anche in situazioni ben peggiori.
La mia
mano, però, non trovò nulla.
Aggrottai
le sopracciglia, imprecando contro il mio stesso disordine
“E ora dove
diamine l’ho lasciato” mi domandai, dirigendomi verso la stanza di Michael,
nella pallida speranza che quel cretino potesse essermi utile per una volta.
Mi
aspettavo di trovare la sua porta serrata, come di solito la teneva, ma
stranamente quella sera era spalancata, lasciandomi completamente impreparato
all’immagine che custodiva al suo interno: lui era lì, davanti alla finestra,
illuminato da qualche pallido raggio di luna che sfuggiva alle spesse nuvole
nere. Il suo sguardo seguiva ogni movimento di quella danza armoniosa che le
gocce intraprendevano scivolando sul vetro freddo della finestra.
Si era
disfatto sia della giacca che della maglia, rimanendo solo con i fradici jeans
neri che contrastavano con la pelle chiara del suo torace, come in una foto in
bianco e nero. Il suo profilo sembrava essere stato scolpito nel marmo dalle
mani esperte e delicate di Michelangelo, illuminato appena dalla luce bagnata
di quella notte in cui il profumo dell’umidità si spargeva dovunque riusciva ad
infilarsi.
Mi bloccai,
sotto l’effetto di una misteriosa magia che mi obbligava a fissare quella
bellissima statua dinanzi ai miei occhi d’incredule mortale. Il mio respirò
accelerava ad ogni boccata d’aria in più, così come i battiti sempre più
frenetici del mio cuore, entrambi mossi da qualcosa che non potevo
controllare…che non riuscivo a definire. Qualcosa che m’impedì di muovermi
anche quando il suo sguardo si posò su di me
- Hai
ancora il coraggio di dire che non mi fissavi, ora? – mi chiese, con uno strano
tono divertito nella voce. Crudelmente divertito, simile a quello che userebbe
un gatto quando ha messo finalmente le zampe sul topolino che da lungo tempo
invade il suo territorio.
- V-volevo
solo chiederti s-se hai visto il mio c-cellulare - sviai sfrontatamente,
tentando di risultare il più possibile credibile, cosa che, ovviamente, non
avvenne.
“Cretino,
cerca almeno di non balbettare! Devi essere sicuro di te” mi rimproverai
mentalmente.
Una piegatura
sprezzante ricoprì le labbra fini di Michael, mentre mi osservava attentamente
con i suoi occhi, nascosto dal velo della notte.
- Sei
proprio un codardo -
- Io
codardo? – ripetei, indignato da quell’affermazione – Ti ricordo che sei tu
quello che non si sa nemmeno difendere da un gruppetto di teppisti. Hai visto?
Anche tu hai qualche somiglianza genetica con il nostro caro papino – ribattei tentando appena di nascondere il ghigno
diabolico apparso sul mio volto.
Ve ne do
atto: ero stato un bastardo in piena regola!
Io stesso
ero il primo a riconoscerlo, ma sapevo anche che istigarlo nuovamente l’avrebbe
portato lontano da quell’argomento che, a mio parere, stava prendendo davvero
una brutta piega. Nonostante all’apparenza Michael sembri calmo e controllato,
si rivela essere una mente completamente impulsiva una volta che gli viene
lanciato il seme della discordia. E questa non era una situazione su cui
avrebbe sorvolato.
Come avevo
immaginato, infatti, senza neanche rifletterci per un secondo, si avventò su di
me con un pugno, che bloccai con notevole facilità. Non contento, tentò di
attaccarmi con la mano libera, ma anche quella mossa fu fermata sul nascere. In
quanto a forza fisica il mio fratellino non era mai riuscito a battermi e,
purtroppo per lui, quella non era esattamente la serata giusta per prendersi la
sua rivincita.
Lo buttai
sul letto senza alcuna cura, stringendogli con forza i polsi e obbligandoglieli
sopra la testa, mentre mi sedevo su di lui per bloccare ogni eventuale
movimento delle gambe. Dopo aver tentato di liberarsi con un paio di strattoni,
si placò limitandosi a riversare la sua rabbia nei suoi occhi, i quali mi
rivolgevano un’occhiata carica di tacite ma ben comprensibili minacce.
- Bastardo
– mi ringhiò contro – Sei solo un bastardo codardo! Non sei cambiato affatto:
scappi sempre dalla verità -
- E quale
sarebbe la verità? Illuminami genio! – lo schernii crudelmente, accompagnando
le mie parole con una meschina risata
- Non sei
neanche in grado di vederla? Oppure preferisci nasconderla, fare finta di
niente per non sentirti troppo in colpa? – urlò, sporgendosi in avanti e
mostrandomi così il suo bel volto scomposto dall’ira. Nuovamente prese a
muoversi nella speranza di liberarsi, missione in cui fallì miseramente per la
seconda volta, invischiando il suo animo anche con una profonda frustrazione.
- Che
diavolo stai farneticando? -
- Oh, ma
certo: tu hai perso la memoria. Non ricordi più nulla del giorno in cui se ne
andò nostro padre? O forse la tua amnesia è solo un altro dei tuoi stupidi
trucchetti per tirarti fuori da situazioni sgradevoli? -.
Lo fissai
aggrottando le sopraciglia e tentando di dare un senso alle sue parole: cosa
poteva centrare tutto quello con il giorno in cui quel fottuto bastardo aveva
lasciato casa nostra?
La mia
memoria indagò nei meandri perduti del mio passato, di cui molti pezzi erano
andati dispersi e, forse, non sarebbero stati più ritrovati. Cercò quel giorno,
presentandomelo in insieme di frammenti che passavano nella mia testa come un
film montato male. Un film che sembrava saltare appositamente le scene madri.
Inconsciamente
allentai la presa attorno ai polsi del mio prigioniero, il quale approfittò
della mia distrazione per liberarsi.
Ora non era
più bloccato dalla mia morsa: poteva senza tirarmi un pugno, senza alcun
problema, e non me ne sarei nemmeno accorto, talmente ero assorto nel sforzare
al massimo la mia memoria frammentaria. Poteva allontanarmi, cacciarmi in
malomodo dalla sua stanza e intimarmi di non metterci mai più piede.
Poteva…ma
lui non fece nulla di tutto questo.
Stette in
silenzio, sdraiato sotto di me, guardandomi mentre gli sputavo addosso una
scarica di domande a cui avevo bisogno di trovare una risposta. Domande che lui
stesso aveva immesso nella mia testa.
- Che
centra il giorno in cui quell’infame ci ha lasciato? Cosa centra con noi?
Perché è anche la causa di tutta questa maledetta situazione? – la mia voce
giungeva alle mie orecchie sempre più roca e spezzata, dandomi segno che ero
ormai vicino al pianto, nonostante il mio orgoglio m’impedisse in ogni modo di
non versare lacrime davanti al mio con sanguigno
- Che
centra con il fatto che non ci odia…- non ebbi la possibilità di terminare
quell’ultima domanda. Le mie grida s’erano fermate contro le sue labbra, che
delicate s’erano appoggiate alle mie lasciandomi ammutolito.
“Mio
fratello mi sta baciando” pensai distrattamente, distaccato quasi come se la
cosa non mi riguardasse.
Fu l’unica
cosa che riuscì a comporsi nel mio cervello, dopodiché i neuroni parvero
scioperare in gruppo, senza chiedermi alcuna autorizzazione, oltretutto. Dovevo
sembrare davvero un fantoccio, non fosse stato per il cuore che mi batteva come
un tamburo nel petto e per i brividi che, per qualche inspiegabile motivo,
continuavano a scivolare sulla mia schiena. Brividi caldi che annodavano il mio
stomaco in una morsa della stessa bollente temperature. Scosse di sensazione
che si diffondevano in me con cerchi concentrici, raggiungendo ogni angolo del
mio essere.
Ricordo
addirittura di aver realizzato, nella mia testa messa momentaneamente in
standby, che nessuna mai mi aveva fatto provare una tale scarica di emozioni
con un solo bacio. Però, qui non si parlava di una ragazza qualunque: qua si
parlava di mio fratello, per la miseria!
So bene
cosa sta passando per le vostre menti, ora: mi vedete già con la mano alzata,
pronto a dargli un ceffone che in breve arriverà ad inferire sulla pelle già
marchiata. Immaginate chiaramente il mio corpo alzarsi dal suo e i miei occhi
lanciargli tutto il mio disprezzo, mentre me ne torno in camera mia, magari
maledicendo tutto il mondo e l’universo. Mi dispiace per voi, ma avete toppato
alla grande!
Ciò che
feci fu esattamente l’opposto! E non chiedetemi le motivazioni, perché
neanch’io riesco ancora a trovarle. So solo che le sue labbra diventarono la
mia unica fissazione, che il suo respiro affannoso mischiato con il mio era
diventata l’unica musica che avrei voluto ascoltare, che il suo volto diventò
l’unica immagine che occupava i miei occhi.
Dopo lo
shock iniziale, mi lasciai travolgere da quel bacio, assecondando tutti i
movimenti di Michael.
Mi stupisco
tutt’ora nel pensare che fui proprio io a chiedere di più, a far diventare
quell’effusione più profonda ed intima. Feci scorrere la mia lingua sulle sue
labbra, intanto che lui si stendeva completamente sul materasso portandomi
dolcemente con se in quel mondo dove la razionalità sembrava sconosciuta.
Un gemito e
poi il varco in quel luogo a me proibito da ogni cultura, civiltà, religione.
Ma in quel momento nulla di tutto questo occupava i miei pensieri: solo lui,
steso sotto di me, che sussurrava frasi sconnesse dal piacere e dal desiderio.
Le sue dita gelide strette sulla pelle bollente della mia schiena, il suo corpo
sottile che si contorceva sotto i miei baci, la sua voce ansimante: volevo
tutto di lui. Cieco, desideroso solo di soddisfare i miei desideri, di riuscire
a fargli toccare il nirvana del piacere, di possederlo. Lui, mio fratello…
E’ così
semplice dirlo ora, lontano da quel momento in cui la ragione non aveva trovato
posto. O forse ero semplicemente io a rinnegarla, poiché ero schiavo soltanto
dei miei sensi e del miei istinti, perso in quel tunnel di lussuria in cui
Michael mi stava dolcemente trasportando. Un tunnel che sembrava l’unica strada
possibile in quella notte bagnata dalla pioggia, in quella notte in cui la luna
giocava a nascondino con nuvole piene di lacrime, in quella notte in cui lo
feci mio…
- Steve…-
…per
sempre…
Free Talk
Salve a
tutti ^^ Bene, dopo un lungo silenzio (causato dai capricci del mio caro pc
-.-) torno con il secondo capitolo di questa storia ^^ Vi chiedo perdono per la
scena finale: è davvero pessima, ma io non ci so proprio fare con queste cose
^^’’’ (e una domanda comune acquista voce: perché cavolo le scrivi, eh???
NdWhite). Ringrazio cicciachan e effy&ale che hanno avuto cuore di
commentare questo mio piccolo schizzo di mente ^^Alla prossima
Il
cinguettio canoro dei passerotti, già svegli dal primo mattino, mi condusse nel
risveglio ad un nuovo giorno.
La luce
pallida e grigiastra di una mattina che segue una
notte di pioggia entrava pigra dalla finestra, ancora ingioiellata di quelle
gemme che le nuvole avevano riversato per tutta la sera.
Non occorse
molto tempo prima che i miei occhi si abituassero alla
tenue luce, dandomi la possibilità di dare uno sguardo alla mia camera. Peccato
che non mi trovavo nella mia camera e l’ordine in cui erano disposti tutti gli
oggetti era un chiaro avvertimento, più di una
targhetta con il nome del proprietario: quella in cui mi trovato era la camera
di mio fratello!
- Io…c-che
cavolo ci faccio qui? – sussurrai, con la voce ancora
impastata dal sonno, cercando di alzarmi da quel groviglio di
umide coperte. Ma non appena tentai di
sollevarmi un sommesso mugugnare di disapprovazione, simile a quello di un
neonato spostato contro la sua volontà, fermò i miei movimenti, attirando il
mio sguardo sul peso posato sul mio petto. I miei occhi si allargarono sorpresi
quando delinearono un Michael
placidamente abbandonato nelle braccia del sonno, che usufruiva tranquillamente
del mio corpo come cuscino. A vederlo lì, con il volto rilassato dalle carezze
suadenti di Morfeo, non potei risparmiarmi dal paragonarlo ad un angelo sceso
miracolosamente dal cielo. Un angelo che io stesso avevo
sporcato quella stessa notte, affermandone la mia proprietà…facendolo mio…
In un breve
attimo le emozioni cieche, i gesti misti ai sussurri di passione, le
travolgenti sensazioni di poche ore prima mi tornarono prepotentemente alla
memoria, come un fiume in piena che inonda ogni
villaggio al suo passaggio.
Spalancai
gli occhi, incredulo del mio stesso atto: avevo amoreggiato con mio fratello? E non si era trattato solo d’innocenti bacetti.
Anzi, si era trattato di tutto fuorché di quello!
“Ma che cazzo ti è passato per la testa?” mi urlò la mia coscienza,
intanto che tentavo nuovamente di alzarmi, ignorando volutamente il fatto che
con i miei movimenti avrei rischiato di svegliare il bell’addormentato.
“Sei
un’idiota. Un’idiota completo! Non solo lui è un
ragazzo, ma è pure tuo fratello!” continuai a rimproverarmi, mentre m’infilavo
frettolosamente i jeans, abbandonati malamente sul
pavimento.
“Ma sei proprio il re dei coglioni.
No, voglio dire: ma se proprio volevi spassartela con un ragazzo, perché cazzohai scelto tuo fratello?”
Nonostante
continuassi a criticarmi per la mia debolezza, sapevo bene, però, che quella
notte non poteva essere catalogata semplicemente come una nuova esperienza. Anche se non l’avrei mai
ammesso, in cuor mio ero cosciente del fatto che se tutto quello fosse successo
con un ragazzo qualsiasi non si avrei pensato due volte a riempirlo di pugni
non appena mi avesse sfiorato.
Invece con lui, con il mio odiato fratello minore, questo non era
successo.
Con lui mi
ero liberato di ogni pudore dando retta solo alle mie
fantasie e, era terribilmente seccante ammetterlo, mi era pure piaciuto! Non
era la prima volta che lo facevo, eppure era la prima volta che lo facevo in un
modo così…bello forse è la parola giusta?
Per la
prima volta qualcuno, in quell’atto che avevo sempre concepito come un’azione puramente fisica, era
riuscito a scuotermi così profondamente da far vibrare anche il mio cuore, da
farlo battere all’uninsoro con il suo mentre insieme
raggiungevamo il nirvana.
“Piantala con queste cazzate” mi
dissi, scuotendo la testa. Michael, in fondo, non
aveva tutti i torti a dirmi che fuggivo dalla realtà per non macchiarmi con essa.
- Steve? – il suo richiamo mi fece sobbalzare. Lo stesso richiamo che aveva ripetuto più e più volte nel
corso della nottata: sussurrandolo, ansimandolo,
gridandolo ed ogni volta il mio nome usciva dolce dalle sue labbra, come un
canto velato di zucchero.
“No, basta!
Devi darci un taglio o finirai per ricascarci”
Mi ero reso
colpevole di un peccato, un peccato orribile, e qualunque cosa provassi per lui non giustificava il mio atto. Nulla avrebbe
potuto giustificarlo...
Mi voltai
verso di lui, vedendo di quale bellezza la natura lo aveva dotato: era ancora
seduto sul letto, coperto solo dal leggero lenzuolo ed accarezzato, la dove non
fosse scoperto, dai metallici raggi di sole, i capelli arruffati e gli occhi
ancora velati dal sonno, così simile a un bambino
troppo cresciuto. Puro come solo un angelo può essere.
Davanti a tutto quello dovetti impegnare tutta la mia
buona volontà per trattenere l’impulso di tornare a gustarmi delle sue labbra.
“E’
sbagliato. Tutto sbagliato” mi ripetevo nella testa,
cercando di placare i miei bollenti spiriti.
- Stai
bene? – mi chiese dolcemente, avvicinando di più il capo alla spalla. Sentì
perfettamente il mio cuore fermarsi, e pregai che lo facesse per sempre, almeno
quella tortura sarebbe finita. Quella dolce tortura…
- Non
guardarmi così - mormorai, in una confusione di parole appena udibili da me
stesso.
- Come? -
- Sì, sto bene – mi corressi, usando un tono degno di una bufera
di neve e tornando a dargli le spalle.
Feci il
possibile per concentrarmi sullo squarcio della città che la finestra mi
offriva: un cane che passeggiava annusando qua e là qualche albero, una
ragazzina sui pattini che si muoveva al tempo che la musica del suo walkman le
offriva, una moglietta apprensiva che rincorreva il
marito sventolando una serie di pratiche…qualunque cosa che mi distraesse da
lui era perfetta, che distogliesse la mia mente dalle fantasie poco pure che in
meno di un attimo aveva risvegliato.
Avrei dovuto uscire da quella stanza senza dire più nulla, gettandogli una distratta
occhiata di disprezzo per poi non rivolgergli mai più la parola. Forse così
tutto sarebbe caduto nel dimenticatoio, tutto quello sarebbe
sparito in un angolo remoto della memoria di entrambi. Ma Michael...per chissà quale stupido pensiero io non volevo
ferirlo. Desideravo tutto fuorché quello. E ora sapevo che bastava
davvero poco per infrangere il suo piccolo cuore, perché durante quella notte
non ci fu solo uno scambio di effusioni ma anche
rivelazioni, che avrebbero fatto meglio a restare chiuse nelle loro prigioni
senza chiavi, così mi sarei sciolto da quella situazione con maggiore
semplicità.
Avevo
scoperto molte cose su di me e soprattutto su mio fratello, che era sempre
stato un mistero. Tra queste quanto lui fosse fragile in
realtà, tanto fragile da piangere mentre raggiungevamo il culmine, pregandomi
di non abbandonarlo mai. Una fragilità che era stata
in grado di sciogliermi, di farmi perdere la ragione come mai nessuno era
riuscito a fare.
“Ma perché
devi essere così perfetto, maledizione?” una domanda
che trafisse dolorosamente i miei pensieri, destinata a rimanere senza
risposta.
- Sicuro? –
mi domandò il protagonista delle mie congetture, con un tono preoccupato.
- Ti ho già detto di sì – risposi bruscamente. Se mi l’avessi allontanato, se mi avesse odiato, disprezzato,
insultato allora, forse, sarebbe stato più semplice buttarci dietro alle spalle
quell’errore in cui entrambi eravamo scivolati.
Sarebbe stato più semplice per entrambi…forse…
“Odiami,
dannazione!” urlò la mia coscienza, straziata “Da solo non
posso dimenticare. Non se mi guardi così! L’hai detto tu stesso, in
fondo: non sono altro che un codardo”
Le mie
disperate e mute richieste sparirono nel nulla non appena sentì le sue braccia
allacciarsi sulla mia vita, stringendomi in un caldo abbraccio che mi fece
sentire…come?
Come la
notte appena trascorsa, durante la quale tutta la mia morale da bravo ragazzo
era sparita lasciando spazio solo per…per cosa? Cosa provavo
per il mio fratellino minore?
- Scusami –
disse lui, strofinando la guancia contro la mia schiena nuda – Non volevo farti arrabbiare. Non voglio che succeda di nuovo –
la sua voce si era ridotta a poco più di un sussurro,
basso e roco come se fosse vicino al pianto. Probabilmente si riferiva
nuovamente a quel fantomatico giorno in cui sembrava essere nato tutto il
nostro distacco e di cui io non ricordavo nulla. Avrei voluto chiedergli che
cosa fosse mai successo, che cosa ci aveva diviso e ci aveva proibito un
rapporto tra normali fratelli, ma, sfortunatamente, Chronos
non mi era favorevole.
- Preparati
o faremo tardi a scuola – dissi atono, scrollandomi
dal suo abbraccio e andando a rifugiarmi in camera mia, con la testa piena di
domande a cui nessuno sarebbe stato in grado di dare una risposta. I miei occhi
finirono sull’aggeggio rumoroso e fastidioso che mi aveva portato dritto tra le
braccia del peccato, mentre lui si nascondeva diabolico sotto la sedia
accostata alla mia scrivania. Sbuffando imprecazioni, mi chinai a raccoglierlo
visualizzando le due chiamate che avevo ricevuto
durante la nostra separazione: entrambe portavano un unico nome, che era il
medesimo di colei che mi avrebbe schiarito un po’ le idee.
*
Per il
resto della giornata ottenni ciò a cui avevo lambito:
il silenzio, sceso implacabile tra noi, freddo e rabbioso come una marea. Tutto
sembrava essere tornato come al solito, anzi, per
coloro che ci avevano sempre osservati dall’esterno, nulla sembrava essere mai
cambiato. Nessuno notava gli sguardi fuggiaschi che ci mandavamo ad ogni nostro
incontro, per poi distogliere frettolosamente gli occhi quando s’incrociavano
con quelli dell’altro. Tristezza, regina dei suoi, confusione,
unica dama nei miei.
Nessuno,
però, riuscì a scorgerle. Nessuno tranne lei, Mary-Jane, l’unica vera amica che posso ricordare.
Lei è stata
la mia prima ragazza, alla tenera età di sei anni. Il cosiddetto “fidanzamento”
si era trasformato presto in una pestifera complicità che ci aveva accompagnato
durante tutta l’adolescenza e che ancora non ci lasciava. Lei,
la bellissima e stramba ragazza perennemente allegra e saltellante come un
folletto, io, l’affascinante ed oscuro ragazzo, che si nasconde dietro una
maschera di freddezza. Probabilmente qualcuno definirebbe questo nostro
rapporto come una sorta di “compensazione” per entrambi, e in
effetti non andrebbe tanto lontano dalla realtà.
- Ti devo
fare una flebo di vivacità, bello mio! – mi aveva
detto ridendo un giorno, quando eravamo appena ragazzini - Sembri proprio un
morto che cammina. Il mio dovere è quello di rimetterti nel mondo dei vivi -.
E Mary
assolveva quel compito ogni santo giorno ronzandomi
attorno, e facendo spargere voci infondate di un nostro fidanzamento tra le peppie invidiose della scuola. Ma nessuno di noi due dava
importanza a quei pettegolezzi da tabloyd: stavamo
bene insieme, ci divertivamo come mocciosi, e, soprattutto,
Mary era l’unica persona con cui riuscivo a parlare di tutto, anche di
argomenti imbarazzanti come quello che tentai di affrontare quella mattina.
Come nostra
consuetudine, per la pausa pranzo ci ritirammo in
terrazza in compagnia dei nostri panini. La pioggia, che aveva ripreso a
scendere durante la mattinata, continuava a battere sopra la tettoia sotto alla
quale ci eravamo rifugiati, diffondendo un rumore
metallicoche riempiva quell’inconsueto silenzio nato tra noi.
- Si può
sapere che hai oggi? – sbottò spazientita la mia compagna, all’improvviso.
- Ho
qualcosa di diverso? – domandai di rimando, addentando il mio panino
- No, non
so neanche cosa mi abbia dato quest’impressione –
rispose ironicamente, alzando gli occhi al cielo – Forse il fatto che tu e tuo
fratello non facciate altro che lanciarvi occhiate che
variano dal “che cazzo ti ho fatto?” al “lasciami
stare” ? -
La guardai
spalancando gli occhi, con la bocca, aperta dallo stupore, ancora piena
dell’ultimo morso del mio pranzo. La visione fece inorridire abbastanza la mia
amica, che mi costrinse a richiuderla con la mano.
- Per
favore. Ho appena mangiato -
- Te ne sei
accorta, quindi – mormorai, lasciando da parte il mio
stupore e annegandomi nell’amarezza.
- Beh, è un
po’ difficile non accorgersene se mi parli a un
centimetro dal viso –
- Intendevo
dell’atmosfera tra me e mio fratello – le ricordai, lanciandole un’occhiataccia
- Oh,
quello. No, guarda: stavo solo tirando ad indovinare – ribatté, accentuando le
sue parole con un’ironia sempre più marcata – Allora, mi vuoi dire cos’hai? -
Sospirai
pesantemente, preparandomi ad affrontare quel discorso che avrei voluto dimenticare
al più presto – Ho fatto una cosa orribile – dissi, riavvolgendo il mio pranzo
nella carta stagnola – E non so nemmeno il perché -
- Oh mio
Dio! Chi hai ucciso? – urlò lei sconcertata,
portandosi le mani alla bocca
- Mary vuoi
essere un po’ seria? -
- Dai,
scusa scusa - rise la mia amica, alzando le mani in
segno di resa – Dimmi un po’ che hai combinato -
- Io…- le
parole sembravano non voler uscire, bloccate nella mia gola per la troppa
vergogna o forse per la paura di essere giudicato anche da lei che mi aveva
sempre capito.
“Andiamo! Da quando m’imbarazzo a parlare con lei?”
- Tu? –
m’incitò, curiosa di sapere qual’era
il peccato commesso e per cui tanto mi dannavo
- Io…ho fatto sesso con un ragazzo – risposi tutto d’un fiato,
cercando di contenermi nel mio autocontrollo.
- Cosa? E sarebbe questa la cosa
orribile? – mi chiese, assumendo un’espressione delusa
- E come la definiresti? E’ una cosa
completamente sbagliata – ribattei furioso, anche a causa della
delusione. Mi chiesi che diamine si fosse immaginata, quella pazzoide, per
reagire con tanta depressione.
- Non è
sbagliato -
- E allora cos’è? Malato? Sono malato? –
Le sue
sopraciglia, bionde come la sua folta chioma, si aggrottarono alla radice del
suo nasino alla francese, mentre le esili braccia si incrociavano
dietro la nuca – Non esiste amore sbagliato o malato, Steve
- concluse semplicemente, sorridendo al vuoto.
“Non
esiste…amore?”
- A-amore? – ripetei confuso dalla scelta di quella parola.
Io l’avevo definito solo sesso, pur sapendo che non si trattava unicamente di
un atto materiale, perché se così fosse stato non mi sarei dannato l’anima come
stavo facendo. Ma lei l’aveva addirittura definito
amore.
Un sorriso
arricciò le labbra di Mary, in un’espressione dolcissima che conservava fin da
bambina. Con un movimento fluido si spostò su di me, sedendosi a cavalcioni sul mio stomaco. I suoi occhioni
verdi iniziarono a scrutare attentamente i miei
- Sai da
quanto ci conosciamo, Steve? -
- Sono
tredici anni, più o meno – risposi, non riuscendo ancora a capire dove volesse andare a parare.
- Dindin, risposta esatta! E in tutti questi anni mai una volta ti ho sentito dire che
ti eri innamorato di qualcuno. Mai – mi disse, addolcendo a poco a poco il suo
tono – Di solito, quando andavi oltre al semplice bacio, lo dicevi come se non
fosse successo nulla d’importante. Addirittura la tua prima volta me la
descrivesti in questi toni – per qualche inspiegabile motivo il suo sorriso si
allargò, inondandomi con la sua luminosità - Ma stavolta, stavolta è diverso: sei preoccupato, turbato, confuso, e il tuo unico
pensiero è tuo fratello -
I miei
occhi si spalancarono increduli, mentre mi puntavo sui gomiti – E tu come fai a
sapere…? -
- Mi credi
davvero così stupida? – rise, nascondendo appena la bocca dietro alla sua mano
smaltata di un vivace viola - Ti conosco troppo bene -
- Allora,
se lo sai, perché continui a dire che non è sbagliato? – gridai,
ormai al limite della frustrazione – Non è forse un peccato da maledire?
Cazzo, è pur sempre mio fratello, no? E io me lo sono fatto, tranquillamente, come se fosse una
qualsiasi di quelle stupide che mi ronzano sempre intorno! Perché
continui a dire che non sono malato? – il mio tono di voce era diventato poco
più di un mormorio confuso con il rumore della pioggia che batteva sulla
tettoia – Perché non riesco a levarmelo dalla testa? – chiesi, abbassando lo
sguardo rigato dai cerchi dell’esasperazione. Ma Mary non mi permise di
nascondere la mia debolezza, e con dolcezza poggiò le mani sul mio volto costringendolo
a voltarmi verso di lei
-
Nell’amore non c’è nulla di sbagliato, Steve. L’amore
è il sentimento più puro e bello che qualcuno possa
provare. Non importa come, non importa per chi…l’amore ti fa sentire vivo, ed è
questo che conta. E tu, tu finalmente te ne sei accorto -
Rimasi lì,
immobile, con le sue mani gentili sulle mie guance, con le sue parole piene di
passione che riecheggiavano nel mio cervello senza darmi il tempo di
rifletterci.
- M-m-ma…insomma…noi…noi siamo
fratelli – cercai di ribattere, ma la mia amica non parve perdere la sua
determinazione.
- Ma mi ascolti sì o no? Non importa per chi! E poi cosa intendi fare? Fuggire da quello che tu stesso
provi? Impedire al tuo cuore di amare? Privarti della tua anima gemella? –
- La mia
anima gemella? – ripetei, scombussolato. Ma prima che
potessi prendere un attimo di respiro, Mary tornò a ricoprirmi con le sue
parole che intrecciavano maggiormente i miei pensieri in confusi teli senza
risposta.
- Non ti ho mai spronato a continuare una relazione, lo sai. Non ho
mai visto in te qualcosa per cui valesse la pena
farlo. Ma ora lo devo fare, devo perché so che se la
troncherai qui non farai altro che odiarti per il resto della tua vita. E, cavolo, ti voglio troppo bene per lasciarti fare senza
intervenire.
So che non
sarà facile. Non sono vissuta in un modo di rose e fiori neanch’io.
E so, anche, che sarà probabilmente l’amore più difficile e tormentato che io abbia mai sentito dopo Romeo e Giulietta. Ma non è impossibile, Steve. Nulla
lo è – concluse con un dolce sorriso poggiato sulle labbra, guardandomi come
per dirmi che lei sarebbe stata sempre al mio fianco
per sostenermi. Ricambiai il sorriso, stringendola in un abbraccio e
immergendomi nei suoi morbidi seni
- Grazie –
fui solo capace di dire
Paziente
sospirò, iniziando a giocherellare con le mie ciocche corvine - E di cosa? -
- Di essere
così. Di essermi sempre vicina. Grazie -
Free Talk
Eccomi
tornata con un nuovo capitolo, dopo aver affrontato di nuovo i capricci del mio
stupidissimopc -.- Dunque
in questo capitolo appare Mary-Jane, un personaggio
che in questa prima parte della trilogia è a dir poco secondario (direi anche
terziario vista la brevissima apparizione) ma che ritornerà vivacemente nella
seconda parte. Almeno ce n’è una che sprizza un po’ di allegria
^^
I miei
ringraziamenti a pucci2, ad effy&ale, a piccola90 che hanno commentato e a
tutti quelli che hanno letto e leggeranno ^^ Alla prossima…
Restammo
abbracciati così a lungo. Il mio respiro, ora calmo, che s’infrangeva
contro la camicetta della divisa di Mary, le sue dita affusolate che
s’intrecciavano con le mie corte ciocche setate.
- Sai –
esordì allegramente lei, dopo quei lunghi attimi di placido silenzio – Non so
come, ma avevo sempre saputo che il vostro legame sarebbe sfociato in qualcosa
di molto forte. Che avreste dimenticato quel giorno e sareste andati avanti -
M’irrigidii
nella stretta di quel corpo tanto morbido, al sentire nuovamente quel giorno fare capolino nel mio
presente. Quel maledetto giorno che tutti sembravano ricordare tranne il
sottoscritto, quasi tutto il mondo si fosse unito in una grande
congiura architettata per portarmi alla pazzia.
Ero stufo
di rimanere nell’oblio della mia memoria: io volevo conoscere cosa ci aveva divisi
in quel giorno.
Pigro,
alzai il volto verso quello della mia migliore amica - Quel giorno... -
soppesai con cura quelle due parole, dandogli più peso del dovuto – Anche Michael lo ripete spesso. Si può
sapere che è successo di tanto grave? - mi osai a domandare. Le iridi smeraldo
della mia amica, si allargarono incredule
- Davvero
non lo ricordi? – mi chiese, quasi scettica.
Scossi la
testa – Non completamente – ammisi, sconfitto dalla mia impotenza sul mio
stesso passato
- Non ti
ricordi neanche del vostro litigio? – continuò, sempre più stupita.
Scossi
nuovamente la testa. Non ricordavo nemmeno che ci fosse stato
un litigio!
Rassegnatasi
alla mia ignoranza, Mary si decise a raccontarmi ciò che mi ossessionava da due
giorni ormai.
Sospirando,
si sciolse dall’abbraccio e, assumendo il medesimo tono di un’anziana nonna che
narra le tristi vicende del suo passato, iniziò a
parlare
- C’ero
anch’io quel giorno – mi disse – Tu e Michael m’invitaste a giocare con il vostro nuovo
videogioco, cosa che avremmo sicuramente fatto se non fosse successo tutto quel
putiferio -
La mattina
era passata nel silenzio. Non ci fu nessuna parola tra noi, solo sguardi:
confusi, tristi, malinconici...freddi, crudeli, micidiali…
Le mie
speranze, createsi durante quella dolcissima notte, vennero
spazzate via in un attimo dalle sue gelide parole mattutine. La felicità di
essere riuscito a toccare il mio sogno sparì del tutto, seguito da ogni
speranza, emozione piacevole e sensazioni di gioia. L’unica cosa che permaneva
era l’amore per lui.
Un amore straziante immerso nella follia del peccato, ma pur sempre
amore…
Nonostante
mi sentissi alla stregua di una qualsiasi delle ochette con cui era solito
divertirsi non potevo fare a meno di sentire il mio cuore accelerare i battiti
e la gola seccarsi ogni volta che il suo nome mi saettava nei pensieri. La
realtà è che non avevo mai potuto fare a meno di
amarlo!
Non ricordo
quando iniziai ad accorgermi che i sentimenti che nutrivo per Steve non seguivano la giusta strada, ma da lì a provare
una forte attrazione anche sul lato fisico il passo fu assai breve. Iniziai ad
allontanarlo il più possibile da me, nella speranza di dimenticare quei
sentimenti impuri, e il litigio che si scatenò tra noi quel giorno fu un ottimo espediente. Ma nonostante
tutto non ci riuscì: continuavo ad amare mio fratello e, ogni volta che mi
guardavo allo specchio, vedevo solo un essere sporco, maledettamente sporco e
infinitamente perverso.
Cercai di allontanare questa perversione da me. Giuro che ci provai in
tutti i modi possibili!
In quel
periodo ebbi molte relazioni con diverse ragazze, ma con nessuna di loro
funzionò alle lunghe, neppure con colei a cui mi concessi per la prima volta.
Tentai, così, d’intraprendere questa strada con gli esponenti del mio stesso
sesso, pensando che i miei pensieri impuri fossero riconducibili a una mia strana inclinazione sessuale.
Andrew,
un ragazzo che incontrai casualmente ad una festa, fu colui
che potrei definire il mio mentore in questo campo. La nostra storia
andò avanti per otto mesi, con più bassi che alti, finché lui non mi lasciò.
- Mi sto
innamorando di te, Michael - mi disse con quel suo
sorriso triste che lo rendeva irresistibile - Ma so che tu non mi ricambierai
mai e io…io ho bisogno…- non lo lasciai finire: gli diedi un ultimo bacio e mi
allontanai. Ero ben consapevole di ciò che voleva dirmi, poiché io stesso me
n’ero sempre reso conto: ogni volta che lo baciavo, che mi abbracciava, che
facevamo l’amore io non vedevo lui…io vedevo Steve.
Amavo mio
fratello e non c’era modo di cambiarlo! Ero pervaso da un amore impossibile,
peccaminoso, condannabile da ogni senso morale. Come potevo sperare che un tale
sentimento fosse corrisposto?
Eppure
quella notte sotto i suoi baci, sotto i suoi tocchi, sotto i suoi sospiri iniziai a credere che potesse essere un amore a due vie. Oh
cavolo, ma come potevo essere così ingenuo?
Lacrime
silenziose scesero sulle mie guance. Le asciugai rapidamente prima che
spalancassi la porta della terrazza. L’odore umido della pioggia m’invase
velocemente, insieme all’insistente rumore delle gocce che s’infrangevano
contro la tettoia. L’unica cosa di cui avevo bisogno in quel momento
era di stare da solo con i miei pensieri, nel vano tentativo di schiarirli un
po’. Il mio desiderio, però, non venne esaudito:
qualcuno aveva già occupato quel luogo e, guarda la fortuna!, erano le ultime
che avrei voluto vedere in quel momento…o forse le prime…
- Non esiste amore sbagliato o malato, Steve –
sentì dire Mary-Jane
- A-amore?! – la sua voce era confusa, insicura. Ogni suo
dubbio pareva avere un suono.
“Di che
diavolo stanno parlando?” mi chiesi, aggrottando le sopraciglia “Di me forse?”
Vidi la
chioma dorata della nostra amica d’infanzia spostarsi sopra il corpo supino di
mio fratello, e non potei trattenermi di stringere gli
occhi per qualche breve secondo. Non ero geloso di Jane,
non avrei mai potuto esserlo, soprattutto sapendo che quei due erano
semplicemente grandi amici. No, non era gelosia quella che sentivo, era
semplice e pura invidia: volevo poter avere anch’io quella libertà con mio
fratello. Una liberà così scontata, così pura…ma io non ero affatto puro, e
allora come lo potevano essere i miei gesti?
Un altro
frammento del loro discorso mi giunse perfettamente nitido, facendomi sentire
maggiormente in colpa per quella situazione in cui ricoprivo il ruolo di
perfetta spia.
- Ma stavolta, stavolta è diverso: sei preoccupato, turbato,
confuso, è il tuo unico pensiero…tuo fratello…-
Ebbi la
conferma di ciò che sospettavo: il centro del discorso ero proprio io!
- E tu come fai a sapere…? -
- Mi credi
davvero così stupida? - rise lei - Ti conosco troppo bene -
- Allora,
se lo sai, perché continui a dire che non è sbagliato? Non è forse un peccato
da maledire? Cazzo, è pur sempre mio fratello, no? E io me lo sono fatto, tranquillamente, come se fosse una
qualsiasi di quelle stupide che mi ronzano sempre intorno! Perché
continui a dire che non sono malato? -
Quelle
parole mi trafissero il cuore, come una scheggia affondata con sadica lentezza,
per farmi soffrire il più possibile.
Ora
iniziavo a capire il suo comportamento discostante che aveva tenuto quella
mattina: io lo ripugnavo! Ciò che io avevo osato chiamare amore
lui lo trovava semplicemente abominevole.
“Come ho
potuto essere così stupido?” domandai a me stesso, mentre il gusto salato delle
mie lacrime mi bagnava le labbra “Come ho potuto credere per un solo istante
che potessi essere corrisposto?”
Soffocai i
singhiozzi contro la manica della giacca che componeva la divisa scolastica,
poggiando l’altra mano sul maniglione antipanico che
riconduceva dentro alla scuola, intenzionato a correre
il più lontano possibile da quella maledetta terrazza. Mi fermai non appena una
frase stuzzicò la mia curiosità
- C’ero
anch’io quel giorno – stava dicendo la ragazza - Tu e Michael m’invitaste a giocare con il vostro nuovo
videogioco, cosa che avremmo sicuramente fatto se non fosse successo tutto quel
putiferio -
Era un
altro caldo pomeriggio d’inizio Luglio. Uno come tanti
altri con il sole che batteva infuocato su tutte le case, il cielo azzurro
privato dei veli delle nuvole e il vento che pareva essersi addormentato in
qualche zona d’ombra, dimenticandosi di allietare con il suo sospiro i comuni
mortali. Un silenzio tombale si era sparso nelle strade, ormai
prive del via vai cittadino. In quel silenzio aleggiava la mia vocina
sottile, che intonava una canzoncina mentre saltellavo sul marciapiede. Più che
una canzoncina era una filastrocca che usavo nel gioco
della campana. Non ci volle molto, infatti, prima che iniziassi a saltare su un
piede solo o su entrambi, alternandoli mentre sotto di essi
andava a disegnarsi, con linee immaginarie, lo schema di quel gioco.
Un sorriso
ingenuo illuminava il mio volto infantile, scoperto da due buffi codini che
fermavano le miei ciocche dorate ai lati della mia
testolina. Tenevano molto caldo quei capelli e non avrei
esitato a tagliarli se Michael e Steve non mi aveste detto che erano più luminosi del sole e
più preziosi dell’oro.
Già, quei due fratellini che tutti non potevano fare a meno di adorare,
me compresa: di una bellezza quasi angelica, molto intelligenti nonostante la
tenera età e profondamente legati l’uno all’altro. Un legame così forte che nessuno
riusciva a immaginarseli separati.
Steve era
il più grande: aveva nove anni ed era un mio compagno di classe. Aveva ricevuto fin da subito la nomina a bambino più carino della
scuola e, in prima elementare, i nostri compagni fecero di tutto per
farci fare un fidanzamento ufficiale. La cosa durò a malapena una settimana.
Dopo fu solo la nostra amicizia a crescere, un’amicizia che ci avrebbe
accompagnato per molti e molti anni.
Michael,
invece, lo conobbi successivamente, quando il fratello
iniziò a invitarmi a casa sua sotto cortese richiesta della madre. Michael, forse a causa dei due anni che ci distanziavano o
forse per suo vero e proprio carattere, era molto più timido del maggiore, nonché assai più dolce e taciturno. Ricordo
che era in grado di farti intenerire soltanto con un suo flebile sorriso.
Proprio per
queste sue caratteristiche, Steve, forte sia di
carattere che di fisico, aveva coltivato una sorta d’istinto di protezione nei
suoi confronti, cosa che sembrava rendere la signora Guire
particolarmente felice.
Quel giorno
i due fratelli preferiti da tutto il circondato m’invitarono
a casa loro per provare il videogioco, regalatogli in occasione della festa del
4 Luglio: “Dolls & CarsAttack”, ossia il gioco che tutti i bambini
attendevano impazienti da due mesi.
Così,
saltellando come Cappuccetto Rosso alla volta della
casetta della nonnina, arrivai a casa loro, di poco distante dalla mia. Chi mi
venne ad aprire fu proprio il secondogenito
- Ciao Jane – salutò vivacemente, invitandomi ad entrare
- Piccola Mary-Jane, che piacere vederti
ancora – mi accolse gentilmente la padrona di casa. La signora Guire
era sempre dolce e premurosa con me e non si risparmiava dall’offrirmi ogni
genere di dolcetto preparato quotidianamente dalle sue mani di fata. Si
giustificava dicendo che le erano nati due splendidi maschietti ma che lei
aveva sempre desiderato una femminuccia.
- Sei
carina come al solito – mi disse, baciandomi la fronte
- Mamma! –
esclamò un’irritata voce dalle scale – Piantala di
fare complimenti a questa strega -
- Steve, suvvia, fai il gentile con la piccola Mary-Jane – lo ammonì dolcemente
la donna, pur sapendo che le sue frecciatine non
erano altro che il suo modo di dimostrarmi il suo affetto.
Dopo un
grosso bicchierone di latte e un paio di biscotti, salimmo tutti e tre in
camera di Steve e ci dilettammo
con il videogioco, commentando ogni minima cosa con l’eccitazione di cui sono
capaci solo i bambini. Eravamo più o meno a metà partita quando la voce
profonda del signor Guire ci raggiunse fino in
camera. Sarebbe iniziata allora la fine di molte cose…
- Michael vieni giù – sbraitò, con
il tono più infuriato che gli avevo sentito addosso. Il più piccolo ci dedicò
uno sguardo interrogativo, ma fu solo quando il fratello annuì deciso con il
capo che si decise a scendere dal padre, mentre noi ci appostavamo sulle scale
per poter vedere tutta la scena.
- No – la
voce strozzata della signora Guire uscì dalla cucina,
mista ai singhiozzi di un pianto che probabilmente la stava affliggendo – Vattene, ma lascia in pace loro –
- Taci! -
urlò l’uomo - Sono anche figli miei - ringhiò, prima di rivolgere il suo
sguardo al pargoletto che era appena entrato nella stanza. Il suo sguardo
confuso e impaurito si posò ripetutamente sia sul padre che sulla madre, la
quale tentò di chiamarlo ma venne bloccata da una
occhiata eloquente del marito.
Michaelvenne sollevato dalle forti braccia del padre, che sembrava
essersi un poco raddolcito con la sua vicinanza
- Cosa c’è, papà? -
- Michael, il mio ometto! Tu sei grande abbastanza per capire quello che ti sto per dire, vero? – il bambino annuì con scarsa convinzione – Papà va in un'altra casa –
Il piccolo
inclinò il volto da un lato - Perché? -
- Lui e la
mamma non vanno tanto d’accordo, così papà va via -
- Ma sarai sempre qui, vero? – chiese il figlio, non riuscendo
a comprendere pienamente quelle parole
- No, Michaelno.E’
per questo che voglio chiederti di venire con me. Saremo io e te soli…-
un gemito di dolore della signora Guire lo obbligò ad
interrompersi, prima di riprendere, più convinto di prima – Ti piace l’idea? -
- M-ma-ma la mamma e Steve? – balbettò confuso Michael.
Di certo non voleva che suo padre se ne andasse di
casa, ma non voleva nemmeno separarsi dalla sua mamma e, soprattutto, dal suo
caro fratello.
- Loro
resteranno qui, Michael -
Quella
frase suonò come una condanna a morte su quella casa.
Steve si
alzò di scatto, andandosi a chiudere in camera sua prima che il discorso
potesse terminare. Io mi limitai a scuotere pazientemente il capo, consapevole
che il mio amichetto era sempre stato troppo impulsivo, continuando poi a
seguire con interesse quella conversazione
- Io non
voglio. Non voglio separarmi da Steve - piagnucolò
- Michael cerca di capire…-
- No!
Voglio stare dove c’è Steve…io voglio stare insieme a lui e alla mamma -
- Oh, bene!
– esclamò l’uomo, ormai al limite della pazienza,
poggiandolo nuovamente a terra – Famiglia ingrata. Chissà cosa diavolo hai inculcato nella testa di questi due poveri bambini –
urlò rivolto alla moglie, che ancora singhiozzava in cucina – Una famiglia di
disgraziati! Ecco cosa diventerà – gridò, prima di
sbattersi la porta di casa alle spalle. Quelle, che suonarono quasi come un
cattivo augurio, furono le sue ultime parole e l’ultima volta che i suoi figli
lo videro.
Michael
rimase qualche attimo fermo a fissare la porta dietro alla quale suo padre era
scomparso, aspettandosi, forse, di vederlo tornare con in
mano i regali che aveva promesso ad entrambi insieme aibiglietti per la partita dei Dogers.
Ecco qual è
la colpa dei bambini: quella di sognare, di sperare, d’illudersi anche davanti
all’evidenza.
E la
colpa degli adulti? Di distruggere ogni sogni, ogni speranza, ogni illusione…
Rientrai
nella cameretta, mentre il più piccolo risaliva le scale in perfetto silenzio,
rotto solamente dal lamento incontrollato della signora Guire
al quale si era unito anche quello del mio coetaneo.
- Steve – lo chiamai cautamente, sedendomi sul letto, al
fianco della sua figura rannicchiata
- Va via -
- Non è
colpa di tuo fratello – cercai di spiegargli
- E invece sì! E’ lui che ha fatto andare via papà – borbottò
lui, scosso dal pianto
- No, non è
vero! – esclamai, indignata davanti alla sua ottusaggine
- Beh, papà
voleva portarselo via, no? – disse, alzando finalmente il volto e mostrandomi
le lacrime che lo rigavano – E’ lui il suo preferito -
- Io non vado via con papà – informò la voce minuta del fratellino,
ora fermo sulla soglia
- Non m’interessa – ribatté gelido l’altro, trafiggendolo con
un’occhiata dura
- Steve – tentai di rimproverarlo, ma non mi diede neanche
retta: per loro, in quel momento, non ero altro che uno spettro fastidioso.
- Io
pensavo che saresti stato felice se fossi rimasto qui -
- Ti credi
davvero così importante? Credi di essere così necessario da darmi la felicità?
-
Fu gelido,
spietato senza alcun ritegno: la rabbia aveva cancellato da lui ogni possibile
ragionamento logico.
Rabbia per
essere quello imperfetto, per essere sempre secondo tra i due, e soprattutto,
per la consapevolezza che il suo protetto, prima o poi,
non avrebbe più avuto bisogno di lui. Una furia cieca che lo portò a non notare
nemmeno gli occhi argentati che si velavano velocemente di lucido, mentre il
piccolo cuoricino del minore andava in frantumi a quelle parole.
- Ma…ma…-
- Sta
zitto! – urlò l’altro, alzandosi da letto e avvicinandosi a grandi passi al più
piccolo – Se volevi andare con papà perché non ci sei andato? Perché non sei andato via con lui, lasciando me e la mamma
da soli? Credi che non ce la sappiamo cavare? Credi che non potremo essere
felice senza di te? Beh, ti sbagli. Io… io…ti odio! -.
Un urlo che accompagnò il rumore sordo di qualcosa che cadeva a peso
morto giù per le scale: il corpo di Michael. Impaurito per il comportamento del
fratello aveva arretrato fino a poggiare i piedi sugli
scali e, scivolando su uno di questi, era caduto facendosi l’intera rampa
ruzzolando. Ma se le ferite riportate da quel volo sarebbero
guarite in meno di una settimana, la ferita che gli si era aperta nel
suo cuore non sarebbe mai stata risanata. Quel – Ti odio! – l’aveva
attraversato da parte a parte, più dolorosamente di qualsiasi schiaffo. Eppure proprio quell’urlo non era
riferito a lui. Steve non vedeva altro che suo padre
nel corpo minuto del fratellino. A lui era rivolto quel grido liberatorio. Ma i
bambini sono troppo ingenui per comprendere una cosa
tanto complessa.
Così Michael rimase immobile alla fine delle scale, con gli
occhi sbarrati e pieni di lacrime come quelli di suo fratello, che era corso a
rifugiarsi nuovamente nella sua camera, e come quelli della madre,
singhiozzante in cucina.
In quel bel
giorno d’estate, molte cose ebbero fine.
- Io-io…fu colpa mia – sussurrai incredulo da ciò che io
stesso avevo detto al piccolo Michael d’allora.
- No,
affatto – si affrettò a correggermi Mary – Non fu
colpa tua. Tu vedesti in Michael, il figlio prediletto,
la figura di colui che non ti aveva mai dato
importanza: tuo padre -
- Questo
non mi giustifica affatto – ribattei, iniziando ad
infervorarmi
- Non è una
giustificazione: hai reagito esattamente come qualunque altro bambino -
- Sono
stato semplicemente un ipocrita: ho detto di odiarlo, che non creava la mia
felicità quand’era l’esatto contrario -
- Ti
riferivi a tuo padre in quel momento, non a tuo fratello stesso – ripeté
pazientemente lei, rialzandosi in piedi e riaggiustandosi alla bell’e meglio la divisa.
- Smettila con questa psicologia da quattro soldi, Mary – dissi
esasperato. Lei sorrise pazientemente, accarezzandomi la guancia
- Che lagna che sei – mormorò, pochi secondi prima che il trillo
della campanella ci richiamasse nella nostra aula. La mia amica accolse con uno
sbuffo quel fastidioso rumore, che ricorreva fin troppo spesso anche nei suoi incubi
- Non ho
proprio voglia di subirmi un’altra le-zio-ne?! –
iniziò inspiegabilmente a sillabare, mentre il suo sguardo si perdeva in un punto
indeterminato dietro le mie spalle. La guardai per qualche attimo, aggrottando
le sopracciglia, prima di seguire la linea dei suoi occhi la
quale si posava sull’ultima persona che avrei pensato, e avrei sperato,
di vedere in quel momento
- M-M-Michael – balbettai – Da
quanto sei lì? -
- Da
abbastanza – si limitò a rispondere.
“Risposta
per niente positiva” sembravo l’unico a pensarla così,
visto che sul volto di Mary non c’era altro che uno sguardo trionfante,
estremamente irritante per il sottoscritto.
- Beh, io
devo andare o la professoressa si divertirà a torturarmi -disse, mentre si allontanava sempre più da
noi - Non preoccuparti: la trovo io una scusa che ti permetta di risolvere il
tuo…ehm…contrattempo. Prenditela con tutta calma – concluse, facendomi
l’occhiolino, prima di sparire velocemente dietro la pesante porta di ferro che
divideva il resto dell’edificio da quel piccolo pezzo di paradiso. Un paradiso piuttosto silenzioso, ad essere sinceri.
Come c’era d’aspettarsi, infatti, dopo la scomparsa della ragazza tutto
pepe nessuno di noi due ebbe il coraggio di spiccicare una sola parola,
lasciando che un filo di tensione ci legasse.
- Io…- tentai di dire qualcosa, ma nulla riuscì a sfuggire a quel nodo
che mi aveva chiuso la gola
- Io ti disgusto, vero? – mi chiese, abbassando lo sguardo rassegnato. La sua voce
tremava sotto la frustrazione e la disperazione che, sapevo, si nascondevano nel suo animo, ma non potei fare a meno di
guardarlo con un tono interrogativo
“Cosa? E questa quando gli è saltata
in testa? Come diavolo può credere che una persona così splendida possa
disgustarmi?”
- Michael, ma cosa stai…-
-
Stamattina mi hai respinto quasi fossi la peste e
adesso non facevi altro che ripetere che era sbagliato, un peccato da maledire.
Ti ho sentito, Steve – m’interruppe
alzando di poco la voce. Notavo il suo tentativo di rimanere il più calmo possibile, nonostante il suo nervosismo fosse ben
definito dal tremito che gli attraversava tutto il corpo. La sua voce tornò a
farsi sentire, questa volta con una piega che ben si sposava con la sofferenza
che gli batteva nel petto
- So come
mi vedi: sporco, perverso, una cosa da rinnegare, da nascondere. E’ inutile che
menti, perché io stesso mi vedo così. Ma anche se sono un mostro nulla ti da il diritto di giocare con i miei sentimenti, d’ingannarmi
solo per divertirti un po’ – urlò con quanto fiato aveva in gola, mentre le
lacrime uscivano violentemente dai suoi occhi grigi – Nulla ti dai il diritto
di prendermi ogni volta che il tuo corpo lo desidera, per poi lasciarmi quasi
fossi un ogg – fermai le sue parole stringendomelo
forte al petto. Non avevo più la forza per subire quelle sue continue critiche
rivolte a se stesso, e del tutto lontane dalla sua vera natura.
Lentamente
il suo corpo si sciolse nel mio abbraccio singhiozzando contro la camicia della
mia divisa. Iniziai a cullarlo con dolcezza, nella speranza di riuscire a
placare il pianto che lo strozzava.
- Basta
piangere – gli sussurrai
- Perché? – mormorò lui, visibilmente distrutto – Perché non puoi dirmi che mi odi? Almeno non dovrei soffrire così tanto
-
- Io non
posso odiarti, fratellino – gli disse, poggiando lievi baci sulle sue ciocche
scure – Sei talmente bello e pure da sembrare un angelo -
- Non dirmi
stronzate! – mi ordinò, battendo un debole pugno sui
miei pettorali che ebbe unicamente la forza di farmi
sorridere, intenerito davanti alla sua immagine. Il suo dolce profumo mi
avvolgeva i sensi e il calore del suo corpo stretto contro il mio m’irradiava
nel petto una piacevole sensazione, proprio come l’abbraccio che mi aveva
donato quella mattina e che mi aveva fatto sentire così…amato? Sì, finalmente
avevo trovato la parola giusta!
Mi appogiai con le spalle al muro, facendoci successivamente scivolare fino a terra. Timidamente si mosse
su di me, cercando di sistemarsi meglio in quella posizione
- Ero
confuso – mi giustificai, accarezzandogli pensieroso la testa, ora incastrata
nell’incavo tra la mia spalla e il collo – Spaventato del nuovo, di quello che
non conoscevo e di quello che avevo dimenticato -
Il racconto
della mia migliore amica mi ritornò alla mente, forte come una cannonata: ero
stato un infame con lui e, anche se Mary continuava a giustificarmi, non potevo
fare a meno di sentirmi colpevole per tutto quello.
Una colpa che volevo espiare soltanto con il suo perdono. Intanto lui pareva essersi
calmato: i suoi singhiozzi erano morti in lenti e profondi sospiri, che
parevano quelli di un addormentato. Nonostante fosse
incredibilmente piacevole quell’attimo di pace
cullato solo dal nostro respiro, mi costrinsi ad infrangerlo. Non potevo
lasciare che tutto rimanesse così, senza alcuna conclusione…
- Michael - lo chiamai ansioso. Lui annuì appena, dandomi
segno di poter continuare – Tu hai sentito quello che
mi ha raccontato Mary-Jane? -
Annuì
nuovamente con un pigro mugugnare, senza tuttavia abbandonare la posizione che
aveva assunto
“Sempre di
poche parole il ragazzo, eh?” commentai sarcasticamente nella mia testa
- Io, vedi…io non ricordo nulla di quel giorno. Ma ora, che almeno
so cosa è effettivamente successo io vorrei chiederti
per…- le mie scuse si spensero contro le sue dita affusolate
- Non
importa. E’ una cosa vecchia ormai – il suo tocco delicato salì fino alla mia
fronte – Il coma ti ha tolto tanti ricordi -
Già, il
coma: la fonte della mia amnesia. Non erano passati neanche due anni da quel
giorno di cui, tutt’ora dopo le varie sedute di riabilitazione, non riesco a
vedere che pochi e miseri frammenti: la pioggia, una macchina che esce
all’improvviso, uno scontro frontale a cui per miracolo sono sopravvissuto e
poi i lunghi tre mesi passati attaccato ad una macchina tra la vita e la morte.
Dovevo aver
assunto un’espressione turbata perché, quando tornai alla realtà, incrociai i
suoi occhi che preoccupati vagavano sul mio volto. Sorrisi,
posando due dita sotto il suo mento e costringendolo ad alzare quel viso
celestiale per poterlo avvicinare più facilmente al mio. Le mie labbra
sfiorarono le sue, prima di poggiarsi definitivamente in un casto bacio. Oddio,
la castità non durò poi molto, e non c’era da dubitarne conoscendomi!
Continuai a
guastarmi della sua bocca di pesca finché proprio lui non m’interruppe,
allontanandomi gentilmente da se. Un verso di disappunto librò
involontariamente dalla mia bocca, ma esso sparì immediatamente non appena
incrociai i suoi occhi, che, ora timidi, cercavano di sfuggirmi.
- Che succede? – gli chiesi, non comprendendo quel suo
repentino cambiamento.
- I-i-io..io volevo solo – iniziò a
balbettare, arrossendo vistosamente – Volevo solo dirti che…ti amo…-
Ognuna di quelle ragazze mi aveva
detto almeno una volta “Ti amo”. Piangendo, ridendo, arrossendo, in modi
diversi ma quello era il concetto. Eppure nessuna di
loro mi sentì mai rispondere a quell’affermazione: io
non l’avevo mai detto.
Sorrisi –
Ti amo anch’io, Michael –
sussurrai stringendolo di nuovo a me, e tornando a baciarne la fronte.
In quei
giorni di pioggia successero davvero molte cose: scoprì di avere un fratello,
scoprì il mio passato, scoprì la mia anima gemella e scoprì…di amarla.
§ THE END §
Free Talk
Dunquedunque un aggiornamento dopo un solo giorno. Ho paura di me
stessa, non è degno di me ^^’’’
Bene siamo
giunti alla fine della prima parte di questa trilogia ^^ Finale un po’ troppo
romantico per i miei gusti, e vi prego di perdonare tutte le sdolcinatezze di quest’ultimo capitolo ^^
Presto
aprirò le danze alla seconda parte di questa trilogia. Il titolo sarà Minutes & Seconds
(titoli che non centrano mai un cavolo, complimenti -.- NdWhite
– Fa un po’ di silenzio, tu >_< NdBlack). Spero
vi possa appassionare come questa prima parte sembra
aver fatto ^^
E
passiamo ai soliti ringraziamenti: dunque, vedo che pucci2 si è infervorata per il comportamento di Steve.
Beh, in effetti il suo è un comportamento infantile,
ma non fateglielo notare se no non lo ferma più nessuno. Come vedi Mary-Jane ha salvato abilmente la situazione ^^
Un grazie
anche a mimmyna:
sono onorata davanti a tanti complimenti, che non credo comunque
di meritare ^///^ Felice che la storia che ho creato sia di tuo gradimento,
nonostante la situazione spinosa ^^