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Pongo
qui i miei più sentiti saluti ai lettori ponendo due semplici ed elementari
condizioni:
1: Non
andatevene subito!
2:
Leggete almeno questo capitolo fino alla fine!
3: Se e
dico se, questo piccolo esperimento vi interessa, seguite le istruzioni a fine
capitolo.. ops Atto, pardon.
Questa
è una readerxPG. La protagonista della storia NON sono io, né mai lo sarò.
I
mugiwara e compagnia bella non sono mia proprietà (magari! Potessi me li
comprerei.) Questa fan fiction non è a scopo di lucro (per ora… chissà >:) )
Bando alle ciance e buona lettura!
Kaizoku no Allegretto
L’allegretto
del pirata
Atto 1
Preludio
Mi svegliai con la sensazione di galleggiare nel vuoto. Poi,
aprendo lentamente gli occhi, intontiti e bruciati dal sole, mi accorsi che non
era vuoto, ma acqua.
Un’enorme distesa di acqua azzurra come il cielo mi
circondava, profonda, salata.
Acqua di mare che mi impregnava i vestiti di cui non mi
ricordavo neppure l’esistenza, attaccandomeli alla pelle bruciata.
Un oceano.
E l’unica cosa che mi impediva di sprofondarvi era una pezzo
di legno scheggiato e grezzo che mi pungeva dolorosamente in mezzo alle dita
delle mani.
Provai a muovere le gambe che fluttuavano inerti nell’acqua,
ma solo per riscoprirle addormentate, così come le braccia stancamente poggiate
su quella piccola e fragile ancora di salvezza.
Sentivo i capelli secchi solleticarmi la fronte e le tempie
mi cominciarono gradualmente a pulsare, impedendomi di pensare.
Dove mi trovavo?
La mia vista era annebbiata e gli occhi mi bruciavano
insopportabilmente. Sulle guance sentivo la fastidiosa sensazione di sale
marino rappresosi sulla mia pelle tirata ed intorpidita.
Ruotai dolorosamente il collo da un lato, poggiando una
guancia sulla superficie spinosa della trave in legno.
Fu allora che notai qualcosa all’orizzonte: una nave.
Attraverso la mia vista sfuocata appariva come una chiazza
marrone allungata con una nube bianca informe che la seguiva, ma non poteva
essere che una nave.
Lentamente provai a tirare la testa e dar voce ad un urlo,
ma la sensazione di secco in gola, unita alle mie labbra secche che si
spaccarono appena ci provai, provocò solo la fuoriuscita di un grugnito
strozzato. Ritornai con la fronte sul pezzo di legno, non potevo fare altro.
Sperai che mi notassero, dal più profondo della mia anima,
mentre vedevo quella macchia farsi sempre più grande ai miei occhi.
Se non mi avrebbero vista, altrimenti,
io …
…
Già ma io … chi ero?
Sbarrai gli occhi, accorgendomi solo in quel momento di non
ricordarmi nemmeno il mio nome.
Quel pensiero assillante mi accompagnò finché non scivolai
lentamente nell’oblio dell’incoscienza.
Risuonò una voce. E l’acqua attorno a me si mosse inquieta.
Atto
1, scena 1
Sulla Moby Dick l’intero equipaggio fremeva, sporgendosi dal
parapetto dell’imbarcazione, nella speranza di scorgere meglio il volto del
naufrago che aveva fatto rallentare la loro possente nave. Dal proprio seggio,
Edward Newgate, alias Barbabianca, torreggiava il ponte della nave, osservando
divertito l’interesse quasi puerile dei propri figlioli, ridacchiando sotto i
propri lungi baffi a mezzaluna.Non era
difficile interpretare le varie esclamazioni che si confondevano l’una con l’altra
trai i membri dell’equipaggio.
“Ehi, spostati, non vedo-!” “Guarda che non ci vedo neppure
io, scemo!” “Ma chi è? Una donna o un uomo?!” “E che ne so! Lo chiedi a me?!”
“E piantatela! Lo stanno tirando sulla scialuppa!”
In mezzo alla marmaglia di curiosi, un po’ meno scalpitanti
e pressati dalla presenza dei propri fratelli, gli uomini più fidati del
capitano, osservavano come meglio potevano la scena, allungando chi più chi
meno il collo verso il fianco della nave.
“Ehi ragazzi, che ne pensate?” chiese uno dei più giovani
con i gomiti poggiati sulla ringhiera legnosa del parapetto, allargando sul
viso lentigginoso un sorriso impertinente al quale solo due degli altri
quattro, uno provvisto di un lungo cilindro e dei lunghi baffoni neri, e
l’altro con un alquanto bizzarro ciuffo biondo, risposero.
“Chissà…” rispose vago il primo di questi lisciandosi
pensoso uno dei propri baffi.
“Io dico che sarà interessante!” asserì deciso il secondo
dando un’occhiata d’intesa al più robusto ed alto di tutti che ancora a braccia
incrociate non accennava a sciogliere il proprio broncio burbero. Questo mosse
solo gli occhi in direzione del fratello, permanendo tuttavia rigido come una
roccia nella propria posizione.
“In effetti è la prima volta che raccogliamo un naufrago.”
Rispose comunque il gorillone dalla faccia austera, muovendo appena la mascella
nel farlo.
“E tu Marco?” azzardò il moro dal viso scoccando un’occhiata
insistente all’unico che non gli aveva ancora risposto.
Alla sua domanda il biondo dalla faccia assonnata e quasi
svogliata parve corrucciarsi un poco per poi mandare un sonoro sbuffo a
fondersi con l’aria salina della nave.
“Speriamo solo che non ci dia problemi.” Disse, provocando
le occhiate incuriosite degli altri.
A conferma delle sue preoccupazioni, i gridolini preoccupati
delle infermiere del capitano, anche loro accorse a vedere il nuovo arrivato,
riecheggiarono nelle loro orecchie, mentre queste ultime si guardavano piene di
apprensione coprendosi le labbra per lo stupore nel vedere più o meno in che condizioni
gravava il malcapitato.
“Oh no! Guardate com’è ridotta!”“Povera bambina!” “Penelope,
vai a prendere il necessario per darle un primo soccorso. Speriamo che non sia
troppo disidratata.” “Corro!” “Santo cielo! Guardatele la pelle!”
Tra i quattro comandanti per un attimo cadde il silenzio.
“Ma come fanno a sapere che è una donna?” chiese stupito ed
incredulo al tempo stesso Ace, non avendo neppure lui capito quale fosse il
sesso del nuovo arrivato, nonostante la sua fosse una buona postazione. A rispondergli
però furono le spallucce dei suoi compagni.
“Intuito femminile …” azzardò Satch, sedendosi sul parapetto
ed accavallando noncurante la gamba sinistra su quella destra, lasciata
penzolare nel vuoto aldilà della ringhiera.
Ormai la scialuppa era stata riagganciata e tirata su quasi
del tutto, tanto che la folla di pirati curiosi si era già raggruppata il più
possibile dove si sarebbe fermata, impedendo così ai cinque comandanti di poter
dare conferma o meno alle parole delle infermiere del babbo.
“Ma insomma, ragazzi! Datevi un po’ di contegno!” sbraitò
improvvisamente Marco, zittendo immediatamente il vociare dei suoi fratelli
che, punti sul vivo, si scambiarono qualche occhiata per poi mettersi a
ridacchiare imbarazzati.
“Scusi comandante. Ci siamo lasciati prendere
dall’entusiasmo!” ridacchiò un membro della prima flotta, seguito a ruota da un
altro: “Già, ci siamo comportati come un gruppo di poppanti in cerca di
caramelle.”
Seguì una risata generale che però si spense non appena il
gruppo di infermiere già munite di cassetta di pronto soccorso, acqua e di una
barella.
“Spostatevi spostatevi!” li incitò una di queste, mentre
sistemavano velocemente a terra la lettiga.
“Forza, aiutateci a metterla sulla branda.” Ordinò la prima
delle infermiere a due pirati accanto a loro che, annuendo, si afferrarono il
malato.
“1, 2…3!Via!” contò la donna, coordinando così l’azione dei
due.
Messo il nuovo giunto sulla barella le infermiere si
premurarono subito di rialzarla e dirigersi di corsa verso l’interno della
Moby, anche se dovettero sollevarla tutte e sei per riuscire ad avanzare senza
problemi.
Questo non fece che coprire quindi ulteriormente la visuale
ai cinque comandanti che videro soltanto le sei correre dentro la nave, mentre
una di loro incitava continuamente le altre:
“Su! Su! Portiamola al coperto!”
Fu tutto quello che udirono, prima di vederle scomparire
oltre l’enorme portone che portava alla sottocoperta.
Ace sbuffò deluso.
“E che diamine!”
Atto
1, Scena 2, Arioso della dispersa
Nella mia mente non facevano che passarmi immagini
confusionarie e caotiche. Voci echeggianti e deformate da chissà cosa.
Sensazioni fuggevoli che riuscivo a malapena a registrare a causa del torpore
che mi bloccava su quello che intuii essere un letto.
Sotto le braccia e sul collo a volte percepivo al gradevole
sensazione di fresco scontrarsi con la mia pelle e qualche volta, mi parve
addirittura di udire una voce femminile dire qualcosa con tono di richiamo per
poi sentire qualcosa di acquoso scivolarmi giù per le labbra.
La testa continuava a farmi male. Terribilmente. La mia
mente era pervasa continuamente da incubi veloci ed intensi che mi turbavano a
tal punto da farmi scoprire continuamente da delle coperte che qualcuno
continuava pazientemente a rimboccarmi.
Forse durante quelle ore, o giorni, pensai addirittura di
stare per morire.
Poi un giorno mi risvegliai, aprendo gli occhi lentamente, e
la prima cosa che vidi fu una figura così rosa e bionda da farmi desiderare di
nuovo il buio dei miei occhi chiusi. Intontita provai a dire qualcosa.
“Eh..n.” fu la sola cosa che riuscii a rantolare, temendo
che la pelle secca delle mia labbra si spaccasse di nuovo. La chioma gialla si
mosse, mostrandomi un volto ancora un po’ sfocato e graziosamente deformato
dallo stupore.
“Ara!” esclamò
quella portandosi le mani al viso “Anata
wa me wo sama shi desu!”
Non capii nulla di quello che disse. Rimasi un attimo a
guardarla confusa, ma quello che ottenni fu di vederla dirigersi velocemente
verso l’uscita della stanza affacciandovisi per poi gridare:
“Minna! Hayaku! Me wo
sama shi desu!”
Apparvero al tre donne da quella porta, tutte vestite in
rosa, e io quasi tremai, non capendo quello che stava accadendo. Le vedevo
semplicemente agitarsi davanti a me per la stanza, chiedendomi un sacco di cose
che non capivo.
Una di loro mi mise seduta con la schiena contro il cuscino.
Mi venne la nausea. Mi portai una mano alla bocca,
percependo comunque i muscoli del braccio tendersi dolorosamente in segno di
protesta. Non mi accorsi che una delle donne aveva alzato la voce, facendo
cessare il putiferio attorno a me.
Poi sentii il letto abbassarsi sotto il peso di qualcuno e,
rialzando gli occhi, incontrai le iridi azzurre della bionda di poco prima.
“Daijobu desu ka?”
mi chiese quella. Aveva un tono delicato e suadente e questo mi aiutò a
rilassarmi un poco, ma lo stesso non riuscii a cogliere il significato della
sua domanda.
“Non..” mi fermai subito sentendo la gola stringersi. Mi
misi una mano sul collo abbassando gli occhi, imponendomi di darmi un poco di
tempo pria di ricominciare a parlare. Vidi la mano smaltata e ben curata di
quella donna porgermi qualcosa. Mi stupii un poco, vedendo che era un bicchiere
d’acqua.
Ritornai ad osservarla e questa mi sorrise angelicamente “Nomu?” la vidi domandare inclinando la
testa di lato.
Intuii che significasse qualcosa riferito al bicchiere,
magari “Sete?”. Lo accettai di buon grado, svuotandone avidamente il contenuto
con una foga che non credevo di avere. Avevo davvero tanta tanta sete.
“Grazie.” Riuscii a dire non appena mi fui scolata anche
l’ultima goccia d’acqua, ma mi pentii quasi subito della mia risposta, vedendo
l’infermiera bionda sbarrare gli occhi stupita e venendo subito imitata dalle
altre che, intanto, si erano bloccare, rimanendo con oggetti a mezz’aria ed
altre posizioni strambe.
“Eto… nani?”
domandò un poco intimorita un’altra ragazza, mora e con un bel paio di occhiali
che le coprivano mezzo volto.
Le guardai stranita: non avevano capito quello che avevo
detto.
“Grazie, per l’acqua.” Specificai, alzando un pochino il
bicchiere, ma non ottenni un grande risultato a giudicare dalle occhiate
interrogative che lanciarono l’una con l’altra.
E di colpo mi sentii abbattuta nell’animo: non solo non
riuscivo a ricordarmi chi fossi o come mi chiamassi, ero anche finita in mezzo
a della gente che non parlava la mia lingua.
Sentii una lacrima scendermi sul viso, trovando nella mia
mente nient’altro che una distesa nera, dove una volta, forse, erano custoditi
i miei ricordi. Non ricordavo niente. Assolutamente niente.
Atto1,
Scena 3
Era ora di pranzo ormai sulla Moby e nell’enorme sala che
accoglieva l’immensa marmaglia di pirati affamati, mettendo a loro disposizione
tonnellate e tonnellate di cibo, i comandanti, riuniti accanto all’enorme mole
del loro capitano, si stavano rifocillando non meno ansiosi dei loro compagni:
era stata una giornata faticosa e come al solito tutti avevano dato il loro
contributo alle manovre mattutine della nave.
Il comandante della seconda flotta, Portuguese D. Ace, stava
sbranando contento un enorme pezzo di carne, addentandone soddisfatto un
boccone grande quanto la sua bocca spalancata.
“Uhm! Ragasci, mva
qvella naufhaga nomp dovebbe essersc i…” mugugnò masticando per poi
inghiottire tutto di colpo “ … svegliata?”
Accanto a lui Marco e Vista lo guardarono, ridacchiando:
tanto educato il loro fratellino, ma quando si trattava di cibo lasciava il
galateo in cabina chiusa a doppio lucchetto.
“Bhe, aveva preso un bel colpo di sole, dopotutto.”
Intervenne Satch, poggiando la bottiglia dal quale aveva tirato un grosso sorso
“Magari ci metterà ancora un paio di giorni.”
“Guraguragura!” tuonò divertito Barbabianca, attirando
l’attenzione dei propri figli che in risposta sollevarono solennemente boccali
e bottiglie in onore dell’allegria del padre, lanciando un urlo esultante.
“Ansioso di vedere la nuova arrivata, Ace?” chiese
sorridendo largamente il vecchio, sporgendosi appena dalla propria sedia per
afferrare un’enorme cosciotto di chissà quale specie di animale.
Ace non si curò della frecciatina e sotto gli occhi degli
altri quattro comandanti diede un altro paio di morsi alla propria bistecca.
“Piuttosto papà…” chiese con tono pacato il comandante della
prima flotta “… le tue infermiere non ti hanno detto ancora nulla?”
“Gurargura. Dicono che ormai il peggio è passato, ma fin’ora
non me l’hanno mai lasciata vedere.” Rispose il gigante tirando poi una lunga
sorsata al suo boccale di sake, contento che non ci fossero le infermiere a
dargli noia sulla quantità.
“Non la lasciano vedere a nessuno.” Precisò Marco infilzando
con la forchetta un pezzo di carne dal proprio piatto.
“Eeh.” Sospirò Satch accavallando le gambe “Le donne hanno
un grande senso di protezione verso gli animaletti feriti.”
Improvvisamente si sentì una delle porte che davano sulla
sala spalancarsi di botto, facendo affluire fra i tavoli tre o quattro
infermiere che, correndo, si avvicinarono il più possibile al tavolo del
capitano.
“Senchou! Senchou!” gridarono all’unisono le donne
vestite in rosa, facendo scattare i sopraccigli di molti nel tavolo dei
comandanti.
“Si è svegliata!” proclamò infine una di loro con sguardo
preoccupato.
“Bene!” disse gioioso “Rendetela presentabile e portatela
qui! Ho proprio voglia di fare quattro chiacchiere con lei!” concluse battendo
un paio di volte la mano sul bracciolo della sedia.
“Temo che sia impossibile, senchou.” Si affrettò ad
aggiungere dispiaciuta la donna, gelando sul nascere la risata tonante
dell’uomo.
“Uhm?” fece incuriosito Ace, mentre al suo fianco Marco
alzava un sopracciglio dirigendo lo sguardo stanco sulla donna “Non sarà mica
muta.” Azzardò il comandante della prima flotta ricevendo in risposta un segno
di dissenso da parte dell’infermiera.
“Appena si è svegliata abbiamo cominciato a parlarle, ma…”
continuò l’altra, tornando a guardare la figura imponente del loro capitano “…
non capisce una sola parola di quello che diciamo e sembra che parli un’altra …
lingua.” Terminò affranta nel vedere la delusione e lo stupore negli occhi del
suo capitano.
“Che? Un’altra lingua? Ma come? La nostra è una lingua
universale!” esclamò Satch voltandosi verso la donna, quasi incredulo.
“Deve venire da un posto veramente sperduto, allora.”
Intervenne laconico Jaws che fino ad allora non aveva aperto bocca.
“Però!” fece ammirato Ace, per nulla smontato da quella
notizia “Chissà da che isola proviene!Magari potremmo riaccompagnarla alla sua
terra natale! Sarebbe interessante scoprire un’isola ancora inesplorata, no?”
aggiunse poi , lanciando un’occhiata d’intesa al padre che gli rispose con
altrettanto entusiasmo.
“Guraguragura! Ben detto figliolo!” esclamò il vecchio
guardando poi l’infermiera “E dov’è ora?”
La donna un poco intontita dalla piega inaspettata che aveva
preso la conversazione, tentennò alla domanda per un attimo, ridandosi
immediatamente un poco di contegno.
“La stiamo lavando, penso che tra pochi minuti sarà pronta.”
Rispose subito, provocando il buon’umore del capitano.
“Bene! Bene! Sbrigatevi a portarla qui! Non vedo l’ora!”
Detto questo si aspettavano che tutte le infermiere si
dileguassero come ordinatole dal capitano, ma, con grande sorpresa di molti, la
stessa donna che aveva informato l’uomo delle condizioni della ragazza si fermò
avvicinandosi al tavolo dei comandanti.
I cinque si sentirono un poco turbati dal modo in cui la
donna gli analizzò da capo a piedi, accostandosi con fare pensieroso una mano
al mento ed assumendo un’espressione critica.
Infine gli occhi color nocciola di quella si fermarono su
Marco.
Il biondo per tutta risposta alzò un sopracciglio con fare
interrogativo, senza far tuttavia scomparire con la propria occhiata la
sicurezza dell’altra.
“Comandante Marco…” disse la donna indicandolo con il dito
indice “Potrebbe prestarci qualche suo vestito?”
Inutile dire che la tavolata dei comandanti ci rimase di
sasso.
Atto
1, Scena 4, Arioso della Bambola spoglia
Se non fosse stato per il fatto che avrei rischiato di farmi
finire tutta la schiuma in bocca, mi sarei messa ad urlare per il dolore.
Diamine! A contatto con il sapone la mia pelle bruciava come se sopra ci
stesseromettendo l’acido!
Per me fu un sollievo uscire da quella tinozza delle torture
e quasi mi venne voglia di abbracciare l’infermiera bionda che avevo visto la
prima volta che mi ero svegliata, quando la vidi porgermi un asciugamano.
“Grazie.” Sospirai inconsciamente non appena i miei piedi
rientrarono a contatto con il pavimento in legno della stanza. Quella rimase un
attimo a guardarmi per poi sorridere compiaciuta ed esclamare.
“Aah. ‘Grazie’ wa
‘arigatou’, desu ka. Neh?”
Rimasi un attimo a guardarla attonita, stringendomi addosso
il telo da bagno. Ok, avevo capito che nella frase centrava qualcosa il mio
“grazie”, ma il resto della frase mi rimaneva comunque estraneo.
“Ehm …” biscicai, ma venni interrotta dal suono della porta
che si spalancava. Non mi stupii nel vedere entrare un’altra infermiera rosa
dotata di una folta chioma rossa chiusa in una treccia ordinata. Era quello che
teneva in braccio che mi diede da pensare.
Specie quando finirono di mettermelo addosso.
Una camicia bianca seguita da un paio di pantaloni larghi.
Molto larghi.
Era palese che fossero i vestiti di un uomo.
Mi girai verso di loro incerta su come far capire loro che
magari avrei preferito un altro tipo di indumenti, ma le parole mi ritornarono
in gola nel vedere le 4 infermiere, bionda inclusa, pararsi di fronte a me con espressione
speranzosa, sostenendo insieme una “deliziosa” divisa rosa identica a quelle da
loro indossate.
Ovviamente ringraziai, tenendomi stretta la camicia che
avevo addosso.
Fu mentre ci dirigevamo verso una meta a me sconosciuta che
mi accorsi di un piccolo particolare: se stavo indossando degli abiti maschili,
allora sulla nave non c’erano solo donne.
Questa nuova scoperta però non fece che mettermi più ansia
di prima. Le mie ossa tremarono, forse anche a causa dell’aria umida del
corridoio che, confrontata alla mia pelle accalorata e spellata, pareva un
soffio gelido.
Non sapevo chi ero e nemmeno in che posto mi trovavo. La
gente attorno a me parlava una lingua a me sconosciuta e … tremai, udendo in
lontananza un grande vociare di tipo maschile farsi più vicino.
Una lacrima di frustrazione mi stuzzicò l’occhio destro.
Non sapevo cosa fare.
Atto
1, Scena 5
Marco ormai cominciava a spazientirsi delle battutine
allusive nei suoi confronti: non era un tipo dall’indole bellicosa, ma di certo
non era uno stinco di santo. E sentiva che se Ace avesse continuato a
lanciargli frecciatine, come minimo avrebbe dato fuoco al tavolo. Insomma,
aveva soltanto accettato di dare alla naufraga un cambio dei suoi vestiti, mica
di andarci a letto!
“Volete piantarla con questa storia?” disse a mo’ di
avvertimento, poggiando una mano sulla guancia con fare scocciato, senza però
soffocare, con suo grande rammarico, l’entusiasmo del fratello.
“Eddai Marco. Non è cosa da tutti i giorni avere una donna
nei propri panni. È normale essere emozionati.” Ridacchiò invece quello
dandogli un altro paio di pacche sulla schiena, provocando sia l’ilarità
generale, sia un paio di pensieri omicidi nella mente del comandante della
prima flotta.
Cosa non da poco per uno calmo come lui.
I suoi occhi socchiusi si mossero a sfidare quelli neri ed
impertinenti del compagno.
“Capito, Capito.” Aggiunse frettolosamente l’altro, capendo
di star percorrendo un terreno minato, per poi rivolgersi all’infermiera che
era rimasta lì a controllare che il babbo non esagerasse con il sake. “E la
nostra ospite quanto ci metterà? Sono curioso di vedere che aspetto ha.”
Quella, attraverso i propri grandissimi occhiali scuri, gli
lanciò un’occhiataccia puntellandosi con fare severo una mano sul fianco
generoso, provocando una conseguente esplosione di sangue dal naso di almeno
metà ciurma che sedeva dietro di lei. Eh sì, Newgate se le sceglieva bene le
infermiere.
“Gradirei che la piantaste, Comandante Ace. Quella povera
piccina deve averne passate di tutti i colori, e di certo non le serve che un
mucchio di uomini di mare in crisi di astinenza le renda insopportabili anche
le ore dei pasti. ”
Uhm, forse il babbo avrebbe fatto meglio a scegliersele non
così bene le infermiere.
“Ben ti sta.” Lo canzonò quasi disinteressato Marco, notando
l’espressione colpita del moro.
“Aah.” rise poggiandosi una mano dietro la testa scoperta
dal cappello, simulando imbarazzo.“Non ci so proprio fare con le donne di
carattere.”
Un brusio proveniente dalla loro sinistra gli fece distrarre
dalla loro coinvolgente conversazione, portandoli ad allungare il collo in
direzione della porta che conduceva all’infermeria e dalla quale, camminando a
ventaglio, sorridenti come sempre, le infermiere del pirata più temuto al mondo
sfilavano fiere, strappando qualche fischio di apprezzamento da parte della
ciurma.
Queste, non appena si fermarono dinanzi al capitano,
onorarono i più intraprendenti della nave di qualche saluto e bacio volante,
per poi cominciare finalmente a parlare.
“Senchou, l’abbiamo portata.” Lo informò Penelope, la bionda
più ambita dell’intero equipaggio, sorridendo amabilmente.
L’interpellato sorrise, sporgendosi quanto più i fili delle
flebo glielo permisero cercando con lo sguardo in mezzo alle sue donne più
fidate, la figura sconosciuta della naufraga, che, con suo grande disappunto,
non vide.
All’occhiata interrogativa sia del capitano che dei cinque
comandanti, le infermiere dietro Penelope ridacchiarono, trattenendo a malapena
le risa con le mani. La donna dai capelli biondi in risposta le zittì con una
occhiata severa, per poi voltarsi e cominciare a farsi largo tra le sue
colleghe.
“Mo, Mo. Daijobu.
Il nostro capitano non ti mangerà mica.” Disse con tono dolce e vellutato
Penelope, riuscendo a stupire il grande Barbabianca.
“Si è nascosta non appena l’ha vista, senchou.” Ridacchiò a mo di spiegazione Carol, la rossa con la
treccia che aveva chiesto i vestiti a Marco, indicando con il dito indice il
pavimento accanto a lei.
“Aah!Eccoti qui!” aveva intanto esclamato Penelope esultante,
essendo riuscita a trovare la loro paziente, attaccatasi disperatamente alle
calze di Carol.
A quella vista il pirata dai grandi baffi bianchi non riuscì
a trattenere una risata.
“Guraguragura!” tuonò, venendo però prontamente zittito
dalla bionda infermiera, preoccupata che la piccina potesse scappare via, se
avesse udito una seconda volta la risata tuonante del loro capitano.
“Senchou!” disse “La prego! È spaventata a morte!” concluse
riuscendo a far tacere l’allegria del grande pirata, ritornando a rivolgersi
dolcemente alla ragazza.
“Coraggio tesoro, coraggio. Devi ringraziare il capitano no?
Ricordi? ‘Grazie’.”
Il risultato però non fu migliore di quelli precedentie con un poco di dispiacere, Penelope di
rimise in piedi pensierosa, mettendo le mani sui fianchi.
“Bene ragazze.” Esclamò infine rivolgendosi alle colleghe
“Facciamo così: al mio tre allontanatevi tutte insieme da Carol.”
Quella strategia riuscì a far spalancare, inorridito ed
ammirato, persino la mascella di Jaws, seguito a ruota dai suoi fratelli.
Pazzesco, ora si capiva perché le donne pirata erano le più temute al mondo:
con un cervello così, il fisico giusto ed una buona tecnica di combattimento,
le donne avrebbero potuto benissimo conquistare il mondo. In tutti i sensi.
“Allora. Ichi.”
Cominciò a contare Penelope dopo aver battuto insieme un paio di volte le mani.
“Nii.” Ormai tutta
la sala si era zittita, in attesa del fatidico tre.
“San!”
Atto
1, Scena 6, Arioso indeciso
Riaprii un occhio impaurita e quasi mi sentii morire, nel
ritrovarmi scoperta. Completamente scoperta e sotto gli occhi curiosi di tutta
quella gente, mentre mi aggrappavo disperatamente alle sottane di una delle
infermiere. Sentii il sangue defluire velocemente dal mio viso per poi
rifluirvi arrossando le guance di botto.
E per poco non mi sentii svenire, mentre alzavo gli occhi su
quell’enorme gigante che torreggiava accanto a me, osservandomi sorridendo. Se,
quando l’avevo visto la prima volta entrando dalla porticina del corridoio mi
ero sentita prossima a darmela a gambe, in quel momento avrei anche venduto
l’anima pur di poter scomparire da quella sala.
Un paio di colpetti sulla testa da parte dell’infermiera
rossa mi fece tornare bruscamente alla dura realtà. Non capii quello che mi
disse, ma dal tono intuii che sicuramente le sue parole non significavano
“Prego tesoro, puoi restare attaccata alla mia minigonna per tutto il tempo che
vuoi”. No. Decisamente non voleva dire quello.
Le lasciai timorosamente la stoffa rosa della divisa,
guardandola dispiaciuta
“S-scusa.” Dissi, ma quella era già partita lontano,
raggiungendo le altre, lasciandomi lì in mezzo a tutti, rannicchiata come una
bambina per terra.
Inutile dire che mi venne quasi da piangere. Cosa dovevo
fare? Cosa?!
Cercai disperatamente gli occhi dell’infermiera bionda e,
quando li trovai sperai che mi potesse far capire come comportarmi. Quella però
non fece altro che sorridermi incoraggiante, tenendosi distante proprio come il
resto delle sue colleghe.
Perfetto, pensai in preda al panico ritornando ad osservare
il gigantone dai baffi assurdi. Ancora non aveva parlato. Era rimasto
semplicemente ad osservarmi per tutto il tempo senza spiccicare una parola.
E io a poco a poco, forse un poco incoraggiata da quel suo
silenzio, mi rialzai in piedi. Non appena ebbi disteso anche l’ultima vertebra
della mia schiena mi guardai nervosamente attorno, inizialmente per trovare una
rapida via di fuga, poi per osservare i vari volti che non smettevano di
studiarmi. Mi sentivo un animale da circo.
Che cosa volevano che facessi?
Se le mie deduzioni non erano errate il colosso di fronte a
me doveva essere il capitano della nave, quindi come minimo dovevo
ringraziarlo. In fondo era merito suo se non era morta in mezzo al mare.
Sentii una manica della camicia srotolarsi lungo il mio
braccio, finendo per penzolarmifino a
metà gamba, e io, rossa in viso, me la tirai su più in fretta che potei. Quasi
quasi rimpiangevo il vestitino rosa.
Attorno a me udii qualche risatina, soffocata immediatamente
da qualcosa che somigliava al suono di gomitate tirate dritte nello stomaco.
Presi un bel respiro, imponendomi di non pesarci.
“Ecco…” cominciai tenendo lo sguardo rivolto verso il basso.
“La ringrazio per avermi salvato la vita, signore…” sapevo
che le mie parole non avrebbero avuto alcun significato per le loro orecchie,
ma volevo comunque ringraziarlo a dovere. “La vita. Sa? … So che non mi capisce
…, ma, ecco, quello che volevo dirle è…” cincischiai un pochino sulle ultime
parole, cominciando a torturarmi inconsciamente l’orlo della camicia non mia.
“Grazie.”
“Guraguragura!!”
“Eek!” saltai all’indietro alla risata inaspettata del
capitano, portandomi d’istinto le mani all’altezza del petto e stringendo
spasmodicamente il cotone della maglietta, sentendo il cuore rimbombarmi
frenetico nelle orecchie.
Attorno a me il silenzio si era dissolto tra le risate
divertire del resto della ciurma e dal rumore di piatti scontrati l’uno con
l’altro.
Sentii le braccia dell’infermiera bionda circondarmi le
spalle, guidandomi ad uno dei tavoli, ma io non ci feci molto caso, preoccupata
com’ero a far ritornare il battito cardiaco al giusto ritmo. All’anima. Non
sarei riuscita a sopravvivere per più di un giorno in quel posto se per ogni
cosa rideva in quel modo.
Atto
1, Scena 7
“Povera piccola!” ridacchiò Satch guardando la nuova
arrivata venire condotta al tavolo delle infermiere. Era stato tutto il tempo
ad osservare le reazioni di quello scricciolo e a quanto pareva doveva essere
spaventata a morte. “Papà deve averle fatto una brutta impressione.” Concluse
sospirando, scatenando qualche risata da parte di Ace e Vista.
“No, ma non mi dire! Un uomo docile come papà?” ironizzò Ace “È solo il pirata più temuto al mondo!”
Alla sua battuta fece eco la risata del tavolo dei
comandanti a cui solo Marco non partecipò, apparentemente intento a terminare
di mangiare il proprio piatto, e questo ovviamente, non passò inosservato agli
occhi del comandante in seconda.
“Ehi, Marco. Che ti prende? La vista dello scricciolo ti ha
fatto perdere l’appetito?” chiese guardando preoccupato il modo in cui il
biondo stuzzicava il proprio cibo con la forchetta.
La Fenice sbuffò.
“No. Sto solo cercando di capire da che razza di posto possa
essere arrivata.” Si giustificò coinciso ritornando lentamente a mangiare,
mentre al suo fianco i suoi fratelli si guardarono: in effetti aveva ragione.
“E come.” Aggiunse infine, godendosi la vista degli altri
comandanti mentre cercavano di mettere insieme i neuroni.
“Oh bhe. Ci sono tante possibilità: una tempesta; un attacco
da qualche nave pirata;…” elencò Vista lisciandosi pensoso i baffi.
“Un Bustercall della marina.” Intervenne Jaws addentando il
quarto cosciotto della giornata.
Spazientito Marco si fece indietro con la sedia,
dondolandosi all’indietro con lo schienale che quasi raggiungeva il muro in
legno dietro di lui, tenendosi al tavolo con un piede: non era quello che
intendeva per “come”.
“E non avete pensato ad una nave di schiavi?”
Silenzio.
“Eeeh” sospirò il biondo “Ma dove la tenete la testa voi?”
Atto
1, Scena 8, Arioso agitato
Quelle infermiere cominciavano a darmi suoi nervi. Va bene,
lasciamo fuori la bionda che mi sta particolarmente simpatica, ma le altre
proprio no. Insomma! Avrei voluto sorseggiare il mio brodino di verdure in
santa pace! Non ero così messa male da farmi imboccare come una neonata.
…
O sì?
Un poco scocciata accettai l’ennesima cucchiaiata da parte
della rossa che si era assunta l’onere di imboccarmi. Non era tanto male il
minestrone, era il mio primo pasto dopo giorni dopotutto, ma il fatto di essere
trattata come una menomata mi faceva irritare un po’. E poi non faceva che
rovesciarmi il contenuto del cucchiaio sulla camicia!
Intercettai la sua mano, facendole capire con gli occhi che
preferivo mangiare da sola. La vidi scambiarsi un paio di parole con la bionda
e poi lasciarmi in mano il mestolino. Esultai mentalmente: gloria immensa,
potevo mangiare come si deve!
Dovetti ricredermi però non appena provai ad afferrare con
due dita la posata, perché sentii le ferite della mia pelle bruciata e spellata
aprirsi di colpo, formando come dei sottili taglietti sulla pelle viva.
“Ahia!” esclamai portandomi la ferita alla bocca e facendo
inevitabilmente ricadere sulla tovaglia il cucchiaio.
“Anataha mima shitaka?”
mi disse la rossa ridacchiando riprendendo possesso della mia posata “Saa. Ima tabete kudasai.”Concluse riempendolo di nuovo e facendo per
ricominciare ad imboccarmi.
Mi imbronciai delusa. Ma che dovevo fare io!? Se soltanto
avessi saputo interpretare mezza parola di quello che aveva detto mi sarei
sentita meno inutile!
Nonmi restò che
accettare di essere imboccata finché la mia zuppa non scomparve dal fondo del
piatto, senza che me ne accorgessi e, non ancora sazia, cominciai tristemente a
raschiare il fondo del mio piatto, tenendo il cucchiaio con l’indice ed il
pollice per non farmi male. Caspita, avevo davvero fame! Vidi la bionda e la
rossa sorridersi e quest’ultima alzarsi dal tavolo forse alla ricerca di altro
cibo e io ne approfittai per guardarmi attorno.
La sala mensa mi si presentava immensa come mi era apparsa
la prima volta che vi avevo messo piede. In ogni angolo della stanza erano
stati sistemati dei tavoli: quelli centrali erano stati provvisti di sedie, in
quel momento occupate da uomini affamati intenti a combattere, letteralmente,
per il cibo sistemato però in grande quantità sui tavoli laterali che seguivano
a ferro di cavallo l’andamento della stanza, lasciando spazio sul lato libero
al grande tavolo del capitan-gigante.
Mi fermai ad osservarlo trangugiare una quantità di cibo
quattro volte superiore a quella sistemata sui tavoli da buffet e venni colta
da un improvviso senso di nausea. Decisamente non ero ancora pronta per
mangiare qualcosa di solido.
Rimasi ancora un po’ ad osservare nei dintorni del capitano
quando notai un tavolo leggermente più vicino degli altri. Vi erano sedute
cinque persone, o meglio, cinque uomini completamente diversi l’uno dall’altro
intenti a prendersi in giro a vicenda. Il primo che notai era un uomo enorme,
non come il capitano, ma di mole assolutamente impressionante, scuro in volto
ed apparentemente seccato, con addosso una strana armatura; il secondo era un
uomo biondo con i capelli sistemati a ciuffo con chissà cosa ed un bizzarro
nastro blu con tanto di ficco al collo. Dopo di loro, verso sinistra, stava
seduto composto un uomo baffuto con un cappello a cilindro calato sulla testa che
gli donava una strana aria distinta. Gli ultimi due erano due ragazzi: uno moro
e l’altro biondo. Il primo aveva un’espressione simpatica in viso, forse
accentuata dalle lentiggini che gli puntellavano le guance, non indossava una
maglietta, e su una delle braccia chiare mi parve scorgere una sorta di
tatuaggio che percorreva in lunghezza l’avambraccio. Il secondo era il suo
completo opposto: biondo ed abbronzato, inclinato scompostamente sulla sedia
dondolante che minacciava di farlo scivolare da un momento all’altro.
Ma non è pericoloso? Mi chiesi concentrandomi su di lui.
Era un tipo strano. Non strano nel senso cattivo, ma … di
certo i suoi capelli non potevano essere ritenuti normali. Non che io avessi
chiaro il concetto di normalità ben chiaro.
Per me era come vedere un mondo completamente nuovo, mai
visto. In quel momento mi sarebbe potuto passare accanto anche un uccello a due
teste e non mi sarei meravigliata più di tanto. Ammettiamolo, dopo aver visto
un colosso enorme come il capitano, anche se mi fossi ricordata da dove venivo
e com’era la mia vita prima, il mio concetto di normalità, sarebbe finito
direttamente nel cesto della spazzatura.
Comunque, i capelli dell’ultimo seduto al tavolo mi
ricordavano qualcosa… Erano una sorta di ciuffo posto in cima alla testa che
lasciava il resto della nuca scoperto. La sua camicia era completamente aperta
e lasciava scoperto il torace dove faceva bella mostra di sé uno strano
tatuaggio di cui non capii la forma.
Stavo ancora esaminando quello strano simbolo quando
l’infermiera rossa tornò al tavolo con un’altra ciotola di brodo fumante.
Allargai un sorriso di gratitudine mentre mi poggiava davanti il piatto che
però s dissolse non appena vidi che il biondo dai capelli strani aveva spostato
la sua attenzione dal moro accanto a lui a … me.
Avvampai e voltai lo sguardo. In preda al panico mi chiesi
se mi avesse vista studiarlo. E mi rannicchiai la testa tra le spalle,
accorgendomi di aver nuovamente fatto la figura dell’idiota.
Atto
1, Scena 9
“Oh oh! La bambolina ti fa gli occhi dolci!” sfotté Vista.
Un fischio irriverente da parte di Ace gli stuzzicò fastidiosamente
l’orecchio sinistro, facendolo accigliare. Quel giorno era decisamente propenso
a farsi buttare fuori bordo.
Si rimise pigramente seduto composto, facendo scendere la
sedia con tutte e quattro le gambe ben attaccate a terra, poi poggiò il mento su
una mano, fingendo di non aver sentito nulla. Se i cani continuavano ad abbaiare,
l’unica era lasciare che si sgolassero per bene senza darci troppa pena. In
ogni caso continuò ad osservare la nuova giunta, vedendola rannicchiarsi
nuovamente su se stessa.
“Qualcuno dovrà insegnarle a parlare la nostra lingua, non
pensi papà?” chiese improvvisamente il comandante in prima.
Di colpo il tavolo si riempì di facce serie, compresa quella
di Ace.
“In effetti non possiamo sbarcarla nella prima isola che ci
capita senza che capisca una parola di quello che diciamo.” Constatò Pugno di
Fuoco, cominciando anche lui ad osservare pensoso la naufraga.
“Stai proponendo di farla seguire da uno dei tuoi fratelli,
Marco?” chiese Barbabianca dando un lungo sorso di sake.
Il biondo chiuse gli occhi con fare indifferentesenza dare risposta, segno che non voleva
mettere bocca sulle decisioni del padre, almeno, non su quella.
“Ma non pensi che le infermiere bastino?” domandò Vista,
meritandosi le occhiatacce di Marco e di Jaws.
“Le infermiere devono prendersi cura di papà, non possono
mettersi a fare anche da insegnanti a quella ragazzina.” Lo zittì un poco
acidamente il colosso, incrociando le braccia al petto.
“Uno dell’equipaggio andrà più che bene.” Aggiunse il
biondo, aspettandosi qualche proposta interessante da parte dei fratelli.
“Che ne pensi di Teach?”
Ok. Quella non sembrava affatto una proposta intelligente.
Gli sguardi di tutti si puntarono su Ace, fulminandolo inorriditi. Seguì una
risata collettiva che vide partecipe anche il capitano.
“Teach?! Ma scherzi? Con lui come insegnante la prima parola
che quello scricciolo imparerà sarà ‘crostata di ciliegie’!!” ridacchiò
tenendosi la pancia Satch, battendo freneticamente una mano sul tavolo come in
segno di resa.
“Già a pensarci bene non credo che Teach sia il tipo adatto
per fare da baby sitter.” Ammise un poco sconsolato il moro, guardando Marco
coprirsi con un braccio il volto poggiato sul tavolo nell’atto di riprendere
fiato dalla lunga risata.
“Qualcuno dovrà comunque prendersi questa responsabilità.”
Dichiarò Newgate “Nessuno dei vostri fratelli vi sembra adatto?”
La domanda del padre diede molto da pensare ai cinque
comandanti che si misero a ragionare intensamente sul carattere e i compiti
giornalieri di ogni singolo membro del proprio equipaggio.
“Nessuno.” Disse Satch dispiaciuto, seguito a ruota da Jaws
e Vista, che scossero la testa negativamente.
“Nessuno.” Ribadì Marco guardando infine Ace, ancora
pensieroso.
Il moro aprì la bocca per parlare e, cadde incosciente di
faccia nel proprio piatto, imbrattandosi i capelli di sugo di cinghiale.
“Guraguragura!!” tuonò più divertito che mai Barbabianca
assistendo ad uno dei soliti attacchi narcolettici del figlio.
“Eh, mi sa che anche lui non aveva nessuno di adatto.” Ironizzò
Satch ridendo insieme agli altri.
“Vorrà dire che a insegnarle la nostra lingua sarà uno di
voi, figlioli.”
I sorrisi scomparvero così com’erano venuti. Come prego?
Marco sbuffò. Avrebbe dovuto immaginarlo che sarebbe finita
così.
Fine
Atto Primo
Yeeeeheee!!
Complimenti! Avete finito il primo atto! Bene e adesso le istruzioni: questa
chicca o schifezza, va’ chiamatela come vi pare, l’ho concepita leggendo in
inglese una fan fiction che faceva in modo che il lettore potesse intercalarsi
nel personaggio, lasciato opportunamente privo di nome e aspetto fisico. Ho
voluto provare a scriverne una, partorendo Kaizoku no Allegretto aggiungendo
però un’altra cosa: essendo che io odio intercalarmi in personaggi che vanno a
finire nel mondo di un anime e manga che siano, ho deciso di fare nel seguente
modo.
Continuerò
la fanfic seguendo esclusivamente le proposte dei lettori, come in una Blog
novel, in modo tale che alla fine la storia possa risultare una cosa di tutti.
(già, la storia di una possibile fic a fine di lucro era una balla. Che ci
volete fare…)
Ok, spero
che la spiegazione sia stata esauriente!
Visto che
il primo capitolo lascia molte cose su cui pensare facciamo così: lasciate
perdere l’identità della tizia (tranquille, sarete in grado di darle un nome
più avanti.) e ditemi cosa vorreste che accadeste sulla Moby nell’immediato.
Non saranno
prese in considerazione proposte come:
Es. “Ciao!
Vorrei che la tipa intervenisse all’esecuzione di Ace” Primo: nella storia non
è ancora accaduto. Cavolo, sono ancora tutti felici e contenti sulla Moby!
Secondo: non sto dicendo di no ad una proposta come questa, ci arriveremo,
tranquilli.
Mi
raccomando proposte solo sugli accadimenti immediati
della storia!!
Ok!? Bye
bye! E mi raccomando, scrivete e recensite numerosi! ^^
Su
richiesta di HUNTERGIADA…
Note di LIBRETTO: Jap>Ita
Anata wa me wo sama shi
desu> Ti sei svegliata.
Minna! Hayaku! Me wo sama
shi desu!> Ragazze! Sbrigatevi! Si è
svegliata
Daijobu desu ka?>Tutto bene?
Nomu?>Bere?
Eto… nani?>Ehm… prego?
Senchou>capitano
Aah. ‘Grazie’ wa
‘arigatou’, desu ka. Neh> Aah.
‘Grazie’ sta per ‘arigatou’. No?
Non nel senso che mi stesi sul tavolo, ma poco ci mancò che
mi addormentassi sulla sedia. Il ragazzo biondo con il tatuaggio sul torace
aveva smesso di guardarmi e questo non fece che aumentare il torpore alla mia
testa, rilassandomi più del dovuto.
Avevo lo stomaco piacevolmente pieno e non era certo cosa
trascurabile visto che ero quasi morta di fame e di sete in mezzo al mare.
Sospirai appagata, massaggiandomi il pancino soddisfatta. Chiunque fosse il
cuoco aveva la mia eterna gratitudine.
Sentii la testa ciondolarmi leggermente in avanti, ma fui
subito sostenuta da un paio di mani femminili che mi scrollarono leggermente
facendomi recuperare un poco di lucidità.
Voltai lo sguardo dietro di me, incontrando gli occhi
azzurri dell’infermiera bionda ancora sorridente come un angelo.
Ancora non riuscivo a capire come potesse tranquillizzarmi
con un semplice sorriso.
“Io …” ripresi a parlare con la bocca ancora un poco
impastata dal sapore della zuppa e dal sonno, ma mi scappò un piccolo sbadiglio
proprio all’inizio della frase “… credo di avere un po’ di … sonno.” Conclusi
socchiudendo ancora di più gli occhi.
Alle mie orecchie stanche arrivò una risatina, sicuramente
appartenente alla donna dalla treccia rossa e quasi stavo per cadere nel mondo
dei sogni, quando sentii di nuovo la risata cavernosa del capitano attraversarmi
prepotentemente la testa, nonostante i rumori attorno a me fossero
piacevolmente ovattati.
Sobbalzai sulla sedia, spalancando gli occhi per
l’improvviso rumore.
“Uuuh…” mugugnai, stropicciandomi
gli occhi “… ma come fa a ridere in quel modo ..?”
Mi sentivo più frastornata che mai. Rivolevo il letto sul
quale mi ero ritrovata pochi minuti prima. Volevo infilarmi sotto le coperte e
digerire beatamente quella sostanza liquida e tiepida che ancora mi sentivo
nello stomaco. Tirai su un sospiro, richiudendo di nuovo gli occhi e quando
avvertii la bionda accostarsi a me, sussurrandomi qualcosa che non riuscii a
capire, mi ritrovai ad inclinare la testa verso di lei, afferrandole il lembo
del suo vestito con una mano.
Nella mia mente non c’era altro che il riposo.
Atto
2, scena 2
Dall’altro lato della stanza Barbabianca
invece faceva di tutto per non continuare a ridere, nel vedere la naufraga
ciondolare assonnata sulla sedia. I suoi figli, ancora presi dalla loro
discussione su chi si sarebbe dovuto prendere la responsabilità di insegnare la
lingua alla ragazza, furono attirati dal suo comportamento, girandosi prima
verso di lui e poi sulla nuova arrivata, sorridendo inteneriti alla vista di
quello scricciolo abbracciare, come una bambina in cerca di calore materno,Penelope.
“Eeeh…” sospirò intenerito Satch poggiando la guancia sulla mano “… è proprio uno
scricciolo.”
“Se ti piace così tanto, allora perché non le fai tu da
insegnante?”
Quella frase fece tornare di scatto l’attenzione del biondo
su Jaws che con il solito broncio aspettava che uno
degli altri comandanti decidessero chi, a parte lui, fosse adatto al ruolo
affidato loro dal padre. Tutti adesso avevano rivolto la loro attenzione verso
di lui e il comandante della quarta flotta si pentì di essersi esposto così
tanto: non aveva nulla contro lo scricciolo, ma decisamente non si sentiva
pronto per addossarsi la responsabilità di una cosina così minuscola e fragile.
Lanciò un’occhiata al comandante in seconda, ancora
beatamente ronfante bel proprio piatto, ignaro della cosa. Che fortuna
sfacciata, al suo risveglio avrebbero già scelto a chi sarebbe toccato l’onere.
“Jaws ha ragione, Satch. Tra tutti noi sei il più affabile, potresti essere
un ottimo insegnante.” Aggiunse nel frattempo Vista, dando manforte all’altro e
Satch quasi alzò gli occhi al soffitto: erano già
partiti tutti alla carica.
E adesso come faceva a dire di no?
“Ragazzi, un poco di serietà: è una ragazza, mica una patata
bollente.” La voce di Marco intervenne quasi immediatamente, attirando su di sé
l’attenzione degli altri che lo videro intento a punzecchiare con una forchetta
la figura inerte di Ace.
“Ace, svegliati, avrai tutto il tempo per dormire dopo.”
Sentenziò sempre con la sua classica espressione calma, tipica di chi ha la
situazione sotto controllo.
Gli altri comandanti si guardarono stupiti: non avevano mai
visto come Marco facesse per risvegliare Ace tutte le volte che veniva colto da
un attacco narcolettico, ma la cosa certa era che era
tutte le volte riuscito nel suo intento.
“Ace, guarda che faccio sul serio. Se non ti svegli userò le
maniere forti.” Avvertì ancora una volta il biondo al moro, ma tutto quello che
ottenne fu una serie di ronfi degni di una locomotiva.
Tutti videro Marco, sospirare sconsolato, smettendo di
punzecchiarlo con la forchetta soltanto per impugnarla meglio.
“Tappatevi le orecchie.”
Fu tutto quello che disse prima che un urlo atroce facesse
tacere tutta la sala. Vista, Satch e Jaws erano rimasti con gli occhi fuori dalle orbite, mentre
Marco tenevala forchetta ancora nei
pressi della sedia di Pugno di fuoco.
“Ma sei PAZZO?!” sbraitò il moro, massaggiandosi il
fondoschiena dopo essersi alzato in piedi, agitando minacciosamente una mano
verso il biondo.
“Ti sei addormentato, baka.” Fu la sola giustificazione
che diede il comandante in prima, poggiando nuovamente sul tavolo la posata
come se nulla fosse successo, aspettando che il fratello facesse altrettanto.
Il moro alle parole dell’altro si bloccò.
“Ah… davvero?”
Ripresosi dallo shock iniziale gli altri cominciarono a
ridacchiare. Satch non riusciva nemmeno a parlare,
tanto era piegato in due nell’atto di soffocare una risata storica.
“Come un sasso.” Affermò Vista, calandosi il cilindro sugli
occhi per nascondere una lacrimuccia divertita apparire sul’angolo dell’occhio
sinistro.
“… Ops?”
“Sei…sei…”
balbettò ormai al limite il comandante in quarta con una mano sulla fronte,
ormai prossimo ad esplodere.
Ace si grattò la testa imbarazzato: quella non era
certamente la sua giornata. Essere svegliato in modo così imbarazzante sotto
gli occhi di tutti! Nel distogliere lo sguardo i suoi occhi caddero sul tavolo
delle infermiere dove la naufraga stava già dormendo alla grossa tra le braccia
di Penelope.
Di colpo distese il volto in un sorriso.
“Ehi, ma la bambolina già dorme?” chiese risedendosi,
dimenticandosi improvvisamente di quello che era appena accaduto.
“Il babbo vuole che uno di noi l’aiuti con la lingua.” Gli
spiegò laconico Marco, dondolandosi nuovamente sulla sedia.
Il sorriso del moro scomparve così com’era apparso,
lanciando un’occhiata stupita a Marco come per aver conferma. All’espressione
seria dell’altro tornò a sorridere con espressione birichina, accentuata ancor
di più dalle lentiggini sulle sue guance.
“Uno dei comandanti? Però! Questa sì che è bella!”
Il suo sguardo color onice si spostò di nuovo sulla figura
addormentata della fanciulla, cullata dalle amorevoli cure dell’infermiera.
Intanto Satch aveva parzialmente vinto la battaglia
con il proprio stomaco, che ancora sembrava non volerne sapere di smetterla di
singhiozzare per il divertimento.
“Decidiamo in fretta, però.” Intervenne, questa volta
sorridendo, Jaws, non avendo potuto fare a meno di
assistere all’infilzata subita da Pugno di fuoco.
Marco dalla sedia sospirò: così non sarebbero andati a
finire da nessuna parte. Ma era mai possibile che toccasse sempre a lui
smuovere i suoi fratelli?
“Non credo che Jaws sia adatto al
ruolo.” Disse, incrociandosi le braccia dietro la testa, ricevendo un’occhiata
stupita dal diretto interessato ed una divertita da parte di Ace.“Con il tuo
aspetto, la prima che farà non appena ti vedrà, sarà riattaccarsi alle sottane
di Carol.”
Seguì una risata da parte di Vista.
“E perché non tu, allora?” chiese prontamente Satch, poggiando un braccio sul tavolo ancora stracolmo di
cibo. “In fondo sei stato tu a proporre la cosa.” Diede manforte il pirata dal
cilindro.
“Non ho detto di non volerlo fare.” Disse apparentemente
disinteressato la Fenice dopo un attimo di silenzio “Ma devo anche prendermi
cura della ciurma e potrei starle dietro soltanto mezza giornata, non di più.”
Al sorgere del dilemma tutti e cinque i comandanti si misero
a pensare, venendo tuttavia interrotti prontamente da una voce femminile
proveniente alla loro sinistra.
“Chiedo scusa, comandante Marco…”
intervenne l’infermiera dai grandi occhiali scuri, avvicinandosi a loro con la
cartellina clinica di Newgate sottobraccio. “… e se
voi ed il comandante Ace vi divideste i compiti?” propose, inclinando i fianchi
da un lato, facendo sbavare mezzo equipaggio.
“Compiti?” fece incuriosito Ace, un poco sorpreso
dall’infermiera.
Quella sbuffò, ostentando palesemente quanto le fosse
gravoso dare spiegazioni a quel branco di bambini che viaggiavano per mare
credendosi i padroni del mondo, per poi ritornare a parlare marcando la voce
con una vena di impazienza.
“Dite un po’, voi.” Sentenziò afferrando intanto cartelletta
e penna in una sola mano poggiata al fianco, facendo mancare il fiato ai comandanti
per via del suo improvviso cambio di tono “Avete mica idea di quante cose abbiamo
da fare noi infermiere??!”
La domanda retorica aveva una sola risposta: tante e troppe.
Questo lo capirono persino i secondini che assistevano rapiti alla scena,
sbranando cosciotti di carne come se fossero stati dei validi sostituti a
pacchetti colmi di pop-corn.
Nessuno dei comandati rispose, troppo intimoriti dalla
combattività della donna, lasciandola quindi libera di esporre a ruota le su
opinioni, avvicinandosi ad ogni parola sempre più vicino al loro tavolo
minacciosa.
Non che una donna con una simile scollatura potesse
definirsi altrimenti.
“Certamente anche voi comandanti avrete cose da sbrigare, ma
noi abbiamo un’intera nave di piagnucoloni con un senso di autoconservazione
pari a quello di una formica … E non mi interrompa!” fece verso Satch che come un bambino aveva alzato timoroso una mano,
chiedendo tacitamente il permesso di obiettare a quell’ingiusta definizione. Il
povero comandante ritrasse però istantaneamente il braccio con un gocciolone
sulla testa per l’assurdità della situazione. La donna d’altra parte aveva
tutte le ragioni del mondo per lamentarsi, visto che i loro fratelli, per
godere delle amorevoli cure delle bellissime infermiere del babbo, finivano a
volte per presentarsi lamentando qualsiasi cosa: dal più innocuo mal di testa
ad una mano slogata, rotta, chi più e chi meno, di proposito.
“Quella povera piccola non può certo stare chiusa in
infermeria tutto il santo giorno! Non le pare, comandante Marco?” calcò per
bene il nome del biondo sbattendo una mano ben curata sul tavolo.
Un segno di assenso da parte di tutti.
La donna, di nome Betty da quel che ricordavano i cinque
sventurati, annuì soddisfatta.
“Quindi, se il capitano non ha nulla in contrario…”
disse rivolgendosi con tono decisamente più rabbonito a Newgate
che, avendo assistito interessato all’intera sfuriata dell’infermiera, con un
sorrisetto a malapena celato dai suoi enormi baffoni, fece segno con una mano
di darle potere decisionale sulla questione.
I cinque ovviamente
ne rimasero spiazzati: ma perché il babbo a volte aveva quegli slanci di
generosità nei confronti delle loro carissime
infermiere?
“… il Comandante Marco si occuperà di insegnare la lingua
alla piccina.” Continuò assumendo, nonostante gli occhiali le coprissero gran
parte del volto, un sorrisetto compiaciuto che non presagì nulla di buono. E
quando i pirati di Barbabianca avevano il sentore di
guai non era mai un falso allarme. Mai.
“E il Comandante Ace si premurerà
di farle vedere la nave ed aiutarla ad ambientarsi. ”
Seguì un ghigno soddisfatto sulle labbra rosate della mora
che segnò la fine della conversazione, lasciando Marco ed Ace a rielaborare
quanto era appena accaduto.
La Fenice sbuffò, reagendo per primo alla conclusione del discorso
di Betty, poggiando un gomito sul tavolo e strofinarsi il retro della testa.
“Bhe, in fondo me lo dovevo
aspettare.” Decretò, accettando la cosa con filosofia.
“…”
Gli sguardi di tutti si incentrarono su Ace.
Subito dopo la faccia del moro affondò nel fitto strato di
panna e caramello che componeva il dolce davanti a sè.
Tra le risa generali Marco si chiese se il suo fratellino
fosse riuscito ad ascoltare il discorso di Betty, finché la voce di Penelope
non sovrastò il fragore della sala mensa, attirando il loro sguardi sullo
scricciolo, completamente abbandonato tra le braccia della bionda.
Atto
2, scena 3, Arioso insonne
Quando mi risvegliai
ero di nuovo in infermeria, sdraiata sul mio letto. Mi chiesi come ci fossi
arrivata, cercando di ricordare quando avessi lasciato la sala mensa della
nave. Osservai attentamente il soffitto in legno sopra di me per un paio di
minuti prima di realizzare, un poco stupita, che dall’oblò della stanza non
arrivava nemmeno un accenno di luce.
Mi alzai lentamente, aspirando a i denti stretti l’aria
fredda della cabina, nel sentirmi la pelle dolere e tendersi a causa di quel
movimento al quale di certo non ero più tanto abituata.
In punta di piedi cercai di sbirciare fuori dalla
finestrella.
Incontrai un cielo scuro e puntellato da tante lucine.
Era notte.
Non so perché ma la cosa mi entusiasmò. Ai miei occhi si
presentava uno spettacolo esaltante: dalla mia posizione riuscivo a scorgere,
nonostante le ristrette proporzioni della finestrella, una quantità di stelle
impressionante.
Mi staccai dall’oblò quasi senza rendermene conto, aprendo
la porta della mia stanza ed uscendovi con aria furtiva. Il corridoio fuori
dalla mia cabina era totalmente buio e la cosa mi diede un poco di sicurezza.
Procedendo a tentoni riuscii comunque a percorrere il
corridoio senza inciampare, tastando una delle pareti fino a scontrare il piede
con quello che mi parve uno scalino, seguito da un altro ed un altro ancora:
una scala.
Nel buio della nave sorrisi vittoriosa: potevo raggiungere
il ponte.
Salii tutti gli scalini che incontrai finché la flebile luce
di uno spioncino, rotondo come gli oblò, mi segnalò la presenza di una porta
che non esitai nemmeno un momento ad aprire.
Rimasi senza fiato. Dalla finestrella della mia stanza
quello che si vedeva non era lontanamente paragonabile a quello che si poteva
ammirare stando sul ponte. Sopra la nave il cielo era percorso in tutta la sua
lunghezzada una scia luminosa e
vibrante di stelle, bianche come delle perle, che con il loro splendore
rendevano il nero della notte più simile ad un blu intenso che si andava a
confondere con il mare sotto di esso.
Mi accorsi di star piangendo quando una folata di vento mi
congelò le guance, costringendomi a stringermi meglio i vestiti larghissimi che
tenevo ancora addosso e che ,contro l’aria notturna, mi offrivano un pessimo
riparo. Mi asciugai con una mano gli occhi e forse fu per quello che non sentii
arrivare qualcuno dietro di me.
“Ohi! Gaanatahamadaokiteiru ?”
Sbarrai gli occhi per lo spavento, constatando che si
trattava di una voce maschile e senza pensarci ,come se fossi stata punta da
un’ape, mi fiondai nuovamente sulle scale che mi avrebbero portato in
sottocoperta, quasi scontrandomi con l’uomo che mi aveva sorpresa.
Udii un tonfo dietro di me, e ,con il cuore in gola,
percorsi a ritroso la distanza che mi divideva dalla mia cabina, pregando che
quello lì non mi seguisse.
“Nan-!Chotto matte!”
gli sentii dire in lontananza. Mentre scendevo la scalinata sentivo il cuore martellarmi
nelle orecchie. Non sapevo il perché mi sentissi in dovere di scappare, né da
chi, ma il mio respiro tornò regolare solo quando ritornai nell’abbraccio
confortante delle mie lenzuola, tra le quali faticai un po’ per addormentarmi.
Atto
2, scena 3
La Moby Dick si svegliò lentamente, perforando con assoluta
lentezza l’aria fresca e impregnata di umidità in cui era immersa, mentre da
sotto la linea dell’orizzonte il sole cominciava a fare timidamente capolino.
Il cielo, ancora leggermente scuro verso ovest, donava alla struttura
dell’imbarcazione un non so che di mistico, mentre sotto le vele rimaste
spiegate si era formata una sottile nuvola di vapore, condensatasi come di
consueto non appena l’aria fredda della notte era stata sostituita dal calore
sempre più vicino del giorno.
Sulle sartie della possente nave si vedevano scendere
pigramente i pirati reduci dal proprio turno notturno, borbottando tra loro,
mentre nelle loro menti si faceva sempre più marcato di desiderio di toccare la
propria branda.
Quella mattina, con grande disappunto dei noti e temuti
figli di Newgate “Barbabianca”,
era bava di vento e questo provocò non poche imprecazioni da parte di coloro
che si sarebbero dovuti occupare della velatura quel giorno.
Nel giro di un’oretta, nonostante le lamentele quasi
bambinesche di quei lupi di mare, tutte le vele della grande imbarcazione,
controfiocco e controvelaccini compresi, furono sciolte dagli imbrogli che le
tenevano serrate ai pennoni, lasciate finalmente libere di esibirsi leggere al
sottile soffio di vento di quella mattina.
Finalmente sorto il sole, la nave cominciò come d’incanto a
brulicare di vita, man mano che tutto l’equipaggio si svegliava ed usciva sul
ponte per sgranchirsi un poco le gambe e godersi i primi raggi di sole.
“Aaah…” sospirò ancora un po’
intontito Ace tirando indietro le braccia stando seduto sul parapetto,
accompagnato dalla presenza di Marco, dalla cui espressione non si riusciva a
capire se fosse o meno ancora assonnato.
“Che fame.” Concluse poi il moro rimettendosi sulla propria
testa corvina il fidato cappello arancione.
“Resisti ancora un po’, vedrai che tra un po’ si saranno
svegliati tutti.” Lo rassicurò il biondo con la solita calma.
Era ormai consuetudine dell’equipaggio aspettare che tutti
si alzassero per fare colazione: il babbo ci teneva a mangiare con tutta la
famiglia riunita.
Sfortunatamente per Ace,il suo stomaco faceva molta fatica
ad adattarsi a quella regola, brontolando puntualmente alle sei del mattino,
ovvero, mezz’ora prima dello scoccare dell’ora “X”.
E ,quindi, persommagioia di Marco,diventava
fastidiosamente loquace, nel suo tentativo di distrarsi dalle fitte che la sua
pancia subiva nell’attesa.
“Ehi, Marco, sinceramente, cosa ne pensi della nuova
arrivata?”
Visto?
Il biondo dallo strambo ciuffo sbuffò lanciandogli
un’occhiataccia. Quello però rispose con un grande sorriso da malandrino,
presagio di una nuova serie di battutine a sfondo sessuale nei suoi confronti.
E no, col cavolo. Era stato costretto a sopportare in silenzio ieri senza
batter ciglio, ma se aveva intenzione di ricominciare a tartassarlo anche a
quell’ora del mattino, avrebbe avuto pane per i propri denti.
“Non saprei, non sono io quello in crisi di
astinenza.”rispose vago, sedendosi anche lui sul parapetto.
“Cosa?!” scattò immediatamente Ace “Io non sono in crisi di
astinenza!” obbiettò poi abbassando un poco di più la voce per non farsi
sentire dalla propria flotta che passava lì vicino in quel momento.
Di questo Marco fu pienamente soddisfatto, arricciando le
labbra in uno dei suoi sorrisi non molto frequenti.
“No, guarda, hai ragione.” Ironizzò la Fenice, guardando da
un’altra parte, come se il discorso per lui non avesse importanza. “A pensarci
forse non eri tu quello che è fuggito come un matto da una pioggia di attrezzi
da cucina, dopo aver fatto La
proposta alla ragazza incontrata sulla scorsa isola.” Terminò combattendo
contro il proprio istinto di girarsi e godersi l’espressione scioccata del
fratellino.
“Come lo sai…?” lo sentì
sussurrare dopo un po’. Accidenti doveva esserci rimasto davvero male.
“Passavo da quelle parti.” Fu tutto quello che si sentì in
dovere di rispondere, continuando a guardare il lavoro svolto dai suoi con
alcuni barili da risistemare in sottocoperta.
Un sospiro affranto dietro di sé gli fece capire di essere
riuscito a smontare Ace, forse anche troppo. Sbuffò alzando gli occhi al cielo.
“Che ti aspettavi? Che ti accogliesse a braccia aperte nel proprio
letto per poi vederti salpare la mattina seguente?” lo rimproverò allargando le
braccia, vista la risposta più che ovvia. “E che devo fare, andare per
bordelli?” fu la domanda a stento sibilata dal moro.
“Conoscendoti otterresti dei bei due di picche anche lì.”
Concluse facendo accenno al nome che aveva dato alla propria ciurma prima di
entrare a far parte della ciurma del babbo.
Dietro di lui Ace Pugno di Fuoco voltò lo sguardo
imbronciandosi come un bambino, mentre poggiava la guancia su una mano,
nascondendo in parte il proprio imbarazzo, causato dal ricordo dell’umiliazione
subita settimane fa.
“C’era un motivo per il quale ero il capitano dei pirati di
picche.” Affermò lugubre. Non era mai stato bravo con le donne. A piacere,
piaceva, ma a quanto pare alle donne che incontrava non andavano a genio i tipi
che volevano arrivare subito al “sodo”. Grugnì frustrato, osservando la porta
della sottocoperta riaprirsi al passaggio delle infermiere, occupate come ogni
mattina a stendere le innumerevole lenzuola fresche di bucato sul ponte della
Moby. Eh, grande nave, grandi lavori.
All’improvviso però gli si illuminò lo sguardo per la
sorpresa, nel vedere fare capolino da dietro una delle infermiere la figura
fragile ed incerta della loro nuova ospite che, alla luce del giorno, strizzò
per un attimo gli occhi per poi riaprirli e continuare a camminare dietro alle
altre, nell’atto di trasportare anche lei un cesto di lenzuola.
Il moro sorrise come se gli si fosse illuminata la giornata,
divertito nel vederla muoversi in quegli abiti troppo grandi per lei che
minacciavano di caderle di dosso da un momento all’altro, rendendola
deliziosamente impacciata anche per compiere il più semplice passo.
“Ehi! La tua pupilla si è fatta viva!”esclamò in direzione
di Marco che, nel sentirlo, distolse l’attenzione dai propri uomini,
constatando le parole del moro, ma solo per poi distogliere subito dopo lo
sguardo e dare fiato ad una semplice raccomandazione.
“Non importunarla, avrai tutto il tempo per attaccare
bottone a colazion- … ehi! Hai sentito quello che ho
detto?!”
Troppo tardi. Il moro era già partito spedito in direzione
della ragazza, saltando dal parapetto come un grillo, facendo opportunamente
orecchie da mercante alle raccomandazioni del biondo.
“Aaah...” Sbuffò Marco,
maledicendo la testardaggine del fratellino, rimanendo seduto sul parapetto
della nave per seguire meglio i suoi movimenti, pronto ad intervenire in caso
di bisogno.
Atto
2, scena 4, Arioso snervato
Le mani mi facevano leggermente male, mentre tenevo su come
meglio potevo quel cesto in vimini colmo di biancheria pulita. Come mi ero
ritrovata ad aiutare le infermiere a fare il bucato non lo sapevo neppure io,
ma di certo il compito non mi era per nulla facile.
Non solo la pelle tirata delle mani mi doleva, ma anche i
vestiti da uomo che indossavano mi rendevano arduo l’atto di camminare in
avanti.Alla terza mancata caduta in
avanti, mi accovacciai per terra con gli occhi umidi per la frustrazione: non
sapevo cosa fosse peggio rimanere in cabina a deprimermi sulla mia situazione
oppure rendermi ridicola di fronte a tutta quella gente.
“Herupu?”
Il suono di una voce maschile mi fece irrigidire e girare
piano piano dietro di me, avendo ancora in mente
l’episodio della scorsa notte.
Mi apparve uno dei ragazzi che avevo visto ieri al tavolo
vicino al capitano, quello moro con le lentiggini, intento ad osservarmi con un
gran sorriso e con le mani poggiate distrattamente sui fianchi lasciati nudi
dalla mancanza di una maglietta.
Lo guardai dubbiosa: non mi sentivo in vena di fidarmi di
qualcuno su quella nave, a parte le infermiere, ma era comunque mio dovere
rispondergli visto che, da quel poco che avevo capito, mi aveva chiesto
qualcosa.
“Helu…-pu?” provai a ripetere, ma
solo per vederlo ridacchiare dinnanzi alla mia, certamente, pessima pronuncia.
Completamente afflitta e sconfitta, provai a rialzarmi
rimettendo mano ai manici del cestino pronta a rialzarmi con uno slancio, ma
subito vidi quel ragazzo pararsi davanti a me, mettendosi alla mia stessa
altezza, accovacciandosi di fronte alla cesta.
“Sumimasen , akachanga, kimi o nahouhou de hanasu. Hontouni .”
Mi imbronciai, come al solito non afferrando nemmeno una
parola, capendo tuttavia che mi stava bloccando la strada di proposito. Ma
perché invece di prendermi in giro non si decidevano ad aiutarmi?
Vedere quel moro lentigginoso osservarmi tutto sorridente
ebbe un effetto devastante sul mio umore che ebbe un tracollo: ero piena di
dolori, ospite su una nave di gente che non conoscevo, reduce da una
disavventura di cui non mi ricordavo nulla, confusa, spaventata da quel gigante
del capitano e non ricordavo nulla del mio passato. Lentamente sentii la gola
stringersi e tutti i miei buoni propositi di rialzarmi e raggiungere
l’infermiera bionda al più presto, scomparvero non appena un fiume di lacrime
mi sgorgò dagli occhi peggio di un fiume in piena.
Feci appena in tempo a vedere il ragazzo davanti a me
sbarrare gli occhi per la sorpresa, prima di rannicchiarmi in posizione fetale
sul pavimento in legno del ponte, dando sfogo a tutto il mio malumore con rumorosi
singhiozzi e gemiti incontrollati.
Atto 2,
scena 5
“Che cavolo hai combinato?” chiese esasperato Marco
avvicinandosi a lui, tutto occupato a cercare di calmare la naufraga, colta
improvvisamente da quella che pareva essere una crisi isterica.
Ace si voltò con espressione disperata verso il biondo.
“E io che ne so! Volevo solo darle una mano quando
all’improvviso si è messa a piangere!” si giustificò Pugno di Fuoco, ancora chino
di fronte alla ragazza che tremante aveva nascosto la testa sulle ginocchia,
serrandovi attorno le braccia.
Intorno a loro intanto cominciavano a raggrupparsi altri
membri della ciurma, incuriositi dalla scena.
“Ehi, comandante, ma cosa le ha fatto?” “Non le avrà fatto
qualcosa di male spero!” “Guardate come trema!”
A quelle voci la faccia del moro divenne un po’ rossa:
sentendosi additato come causa principale del pianto disperato della loro
piccola ospite. Lanciò una rapida occhiata alle infermiere poco più lontane che
però cominciavano ad innervosirsi a causa di quell’improvviso trambusto. Si
ritrovò a sudare freddo.
Come avrebbe spiegato a quella pazza di Betty che lui non
aveva fatto nulla di male?!
Disperato e messo alle strette dai fatti, Ace fece la prima
cosa che gli venne più naturale fare.
“Non stare lì impalato! Aiutami!”
Imbarcare il povero Marco sulla sua stessa barca.
Fine
prima parte Atto Secondo
Io vi adorooo!! Indiscriminatamente e senza distinzioni! *_*
neanche nei miei sogni più arditi mi sarei immaginata di ricevere più di una
recensione al primo capitolo! Questo è tutto quello che sono riuscita a
sfornare per ora dell’Atto 2, ma anche se non troverete proprio tutto quello
che mi avete proposto non vi preoccupate! L’atto è solo a metà strada! Eheh!
Ed ora il
tema per la continuazione della storia!
Nome e identità della
dispersa
Si si! Avete capito benissimo! Potete cominciare a proporre un
nuovo nome per la protagonista e un’identità (chi è, da dove viene) anche se
qualcuno l’ha già fatto… >_> Si maya_90!
Parlo di te! ^^
Non
preoccupatevi sulla coerenza e roba varia, scrivetemi quello che vi viene in
mente! A mettere insieme le mie idee con quelle vostre ci penso io! XD
Detto
questo vi lascio! Amori miei! *_* No, non sono pazza. Solo esaltata. Bye bye! XDD
Su
richiesta di HUNTERGIADA…
Note di LIBRETTO: Jap>Ita
Herupu?>aiuto?
Sumimasen , akachanga, kimi o nahouhou de hanasu.
Hontouni.>Scusami, piccola,ma la tua
pronuncia è davvero strana. Sul serio.
Ohi! Gaanatahamadaokiteiru ?>Ehi! Ma sei ancora sveglia?
Ero frastornata. Tutto quello che volevo era scomparire in
quel preciso istante, magari avvolgendomi inuna di quelle lenzuola di cui era colma la mia cesta e dissolvermi sotto
di essa.
Le lacrime non facevano che scendermi copiose lungo le
guance una dietro l’altra, dandomi a malapena il tempo di respirare tra i
singhiozzi.
Dio che vergogna.
Dovevo essere davvero penosa e il solo pensiero non faceva
che accentuare di più il mio pianto.
Oltre il suono dei miei stessi lamenti, sentivo attorno a me
il vociare di altre persone, e tra esse due più vicine, indice che qualcuno mi
si era avvicinato accanto al moro di poco prima. Francamente però non mi
interessava affatto quello che si stessero dicendo, né tantomeno chi fossero.
Ne avevo abbastanza. Volevo essere lasciata sola. Ero arrabbiata.
Sì, proprio quello: arrabbiata, ma più con me stessa che con
loro, a causa della mia incapacità di reagire alla situazione. Non sapevo da
che parte girarmi. La mia lingua era troppo diversa alla loro e anche
sforzandomi non sarei riuscita a tirare fuori un ragno da un buco.
Quel pensiero non fece che farmi stringere ancor più
ostinatamente le braccia attorno alle ginocchia, facendo mici affondare con più
decisione la testa . Non avevo alcuna intenzione di alzare gli occhi e, oltre a
mostrare a tutto l’equipaggio, radunatosi senza dubbio attorno a me, le mie
lacrime, rivedere il sorrisetto del moro.
No… avrei finito col deprimermi
ancor di più.
Percepii qualcuno avvicinarsi a me, sovrastandomi con la
propria ombra, e dirmi qualcosa in quella strana lingua di cui non capivo una
sillaba, ma non mi mossi di un millimetro, decisa a rimanere rannicchiata su me
stessa anche a costo di metterci le radici su quel maledettissimo ponte.
E dire che di notte
era così bello quel posto… pensai quasi senza
accorgermene, prima di sentire qualcosa spingermi all’indietro premendo
semplicemente al centro delle mie braccia incrociate.
Il mio equilibrio vacillò pericolosamente facendomi cadere
sul ponte di schiena con un lieve tonfo, costringendomi a sciogliere il mio
corpo dalla posizione nella quale mi era costretta per evitare di ritrovarmi con
la colonna vertebrale dolorante per il colpo.
Mentre attutivo la caduta rivolgendo i palmi delle mani
all’indietro ebbi l’occasione di vedere chi fosse il responsabile di quel
gesto.
Spalancai gli occhi, ancora un po’ umidi, stupita ed a bocca
leggermente spalancata.
Il simbolo tatuato sul torace fu la prima cosa che mi
apparve, mettendomi addosso una strana ansia, poi venne la belle abbronzata,
l’espressione mezza annoiata e poi i capelli biondi dalla forma strana.
Davanti a me c’era lo strano ragazzo che mi ero messa a
guardare durante la mensa.
Il respiro mi si bloccò in gola, rischiando di soffocarmi a
causa della prolungata mancanza di ossigeno, poi le guance mi si riscaldarono
di botto per l’imbarazzo.
“I…i..” balbettai non capendo
neppure io cosa volessi dire a quello strano individuo che ora, affiancato dal
moro che tutto preoccupato mi guardava in aspettativa, mi osservava con occhi
socchiusi ed attenti.
Proprio come quelli di un rapace.
Un brivido mi percorse la schiena a quella similitudine
venutami spontanea alla mente.
Lentamente lo vidi chinarsi davanti a me, con un braccio
poggiato su un ginocchio flesso, mentre l’altro si piantava per terra, dandogli
appoggio.
Io repressi l’istinto di alzarmi e scappare via verso una
delle infermiere, mentre sentivo il corpo tornare a tremare.
“O namaewa nani desuka?”
Sul mio viso si stampò un’espressione allibita, mentre il
mio corpo smetteva di colpo di tremare, vinto dalla sorpresa. Mi aveva appena
chiesto qualcosa?
“Ohnamae…ua…?”
balbettai in risposta non capendo bene.
Vidi il biondo sospirare leggermente scocciato e questo mi
fece corrucciare infastidita: che ci potevo fare io se parlavamo lingue
diverse?Stavo appunto per rispondergli,
inutilmente, per le rime prima di vederlo alzare la testa con decisione ed
indicare se stesso con un dito inchiodandomi con il proprio sguardo fisso su di
me.
“Watashi.”
Disse semplicemente per poi spostare il proprio dito indice da lui a me.
“Anata.”
Disse poi.
Rimasi bloccata ad osservarlo ripetere l’azione un paio di
volte, poi, finalmente capii.
Le mie labbra si distesero automaticamente in un sorriso nel
capire quello che stava succedendo.
Mi stava insegnando la lingua! E io avevo capito! Avevo
capito! Il cuore mi saltò in petto per l’entusiasmo mentre mi rialzavo da terra
mettendomi a carponi per sporgermi verso di lui con occhi trepidanti.
Mi indicai con un dito come aveva fatto lui “Uàtashi” ripetei con la mia solita pessima pronuncia,
facendogli capire che la parola indicasse me stessa “Io” per poi indicare lui con
la stessa mano “Anàta” che senza dubbio stava a
significare “Tu”.
Vidi le sue labbra, puntellate da una leggera barbetta, piegarsi
appena con qualcosa di molto simile alla soddisfazione, prima che la voce
dell’altro ragazzo, il ragazzo dai capelli neri ed il cappello arancione,
intervenisse di nuovo, rivolgendosi a quello davanti a me.
“Marukowasubarashii! Anatagashittemoraukotoda~tsuta no!”disse
ridacchiando dando al biondo un paio di pacche sulla spalla alla quale
quest’ultimo rispose con uno sbuffo conciato da un mugugno
“Īe, anata mo suruoroka da.”
Il moro ci rimase un po’ male, visto che il suo sorriso
allegro evaporò come se non fosse mai esistito lasciando dietro di sé
un’espressione delusa ed imbarazzata. Per un attimo mi fece addirittura
tenerezza, vedendolo imbronciarsi come un bambino dispiaciuto. Quella visione
mi fece quasi vergognare. Che stupida, mi ero comportata peggio di una bambina
e lui forse non voleva fare altro che tirarmi su il morale.
Lentamente alzai la testa su di lui, accennando con la mano
ad un timido gesto atto a richiamare la sua attenzione.
“Ehm…” balbettai, vedendo tutti e
due concentrare la propria attenzione su di me “Senti…
mi dispiace… per come mi sono comportata.”
Vidi sul volto lentigginoso apparire un’occhiata
interrogativa. Da lì capii che continuando in quel modo non sarei andata da
nessuna parte. Sospirando unii le mani davanti al viso, abbassandolo in segno
di umiltà, come se lo stessi pregando.
“Mi dispiace.” Ripetei con più convinzione, sperando che mi
avessero capito.
Attorno a me si levò un boato di esclamazioni eccitate,
facendomi ricordare di essere al centro dell’attenzione di almeno metà ciurma.
Sentii il viso farsi quattro volte più caldo del normale e sentii gli occhi
inumidirsi di nuovo: mi vergognavo da morire.
Una mano bronzea del biondo mi ondeggiò davanti agli occhi
richiamando la mia attenzione su di lui.
Di colpo mi ritrovai di nuovo inchiodata dai suoi occhi
scuri che, come se riuscissero a perforarmi da parte a parte, mi bloccarono
facendo scomparire tutto quello che mi circondava, incentrando la mia
attenzione su di lui che ora mi osservava come se mi stesse avvertendo di
starlo ad ascoltare.
Lo vidi indicarsi di nuovo come prima
“WatashiwaMaruko.” Disse semplicemente facendo cadere un momento
di silenzio tra di noi.
“Mar..co?” ripetei la nuova
parola. Solo pochi istanti dopo ebbi l’illuminazione. Il nome! Mi aveva detto
il nome.
“Antàtauà
Marco!!” esclamai indicandolo di nuovo, non riuscendo a fare a meno di
sorridere a labbra strette nel vederlo annuire leggermente. Quindi,
ricapitolando uatashi=
io; anàta =
tu, Marco era il suo nome… e di conseguenza uà doveva
rappresentare il verbo essere o qualcosa di simile! Ero così felice da
dimenticarmi per un attimo di dargli retta.
Avevo capito! Questa era la cosa più bella mi potesse mai
capitare: se prima il mio umore era a livelli bassissimi, in quel momento
sfiorava il cielo!
Oh, sentivo che mi sarei messa a volare. Ne ero certa.
“Anatawa…?”
Fu quella domanda a rovinare tutto. Mi sentii come se mi
avessero afferrato per le gambe e rigettata sulla freddae dura superficie della realtà, infrangendo
quell’effimera sensazione di benessere che poco prima mi aveva invasa.
Mi stava chiedendo il mio nome.
Credo che il mio repentino cambio di umore non passò
inosservato, visto come le loro espressioni cambiarono, facendosi più attente e
preoccupate di prima.
Io abbassai la testa, sentendo lo sconforto assalirmi di
nuovo, appesantendomi le spalle di un nuovo ed invisibile peso rinnovato dalla
consapevolezza che non era cambiato nulla. Assolutamente nulla. Ero di nuovo
punto e a capo.
Scossi la testa più forte che potei, combattendo contro la
rigidità del mio stesso collo.
“Non lo so.”
Atto
2, scena 7
“Cosa?! Non ha nome?!” chiese incredulo Satch
pochi minuti dopo, guardando stupito la figura piccola ed indifesa della
naufraga, fatta sedere su uno dei barili del ponte, mentre lui, Vista e Jaws, ascoltavano a bocche spalancate le ultime scoperte di
Marco ed Ace riguardo lo scricciolo.
Il biondo guardò di sottecchi la ragazza tenere ancora bassa
la testa con fare quasi dispiaciuto, mentre attorno a lei si erano riuniti i 5
comandanti di Edward Newgate, giunti poco dopo la
fine del suo pianto dettato dall’ isteria. Lo stesso fece Ace, messosi più
vicino degli altri, scompigliandole affettuosamente i capelli con una mano
nella speranza di farla sorridere o, per lo meno, reagire a quella situazione.
“Vuoi dire che ha perso la memoria?” domandò per ottenere
ulteriore conferma Jaws, scoccando un’occhiata alla
ragazza che, alla vista dell’espressione poco rassicurante del comandante in
terza, fece apparire una lacrimuccia nell’angolo dell’occhio sinistro,
iniziando a tremare come una foglia.
“Jaws, smettila di guardarla.” Gli
ordinò laconico Marco, alzando gli occhi al cielo come se fosse prossimo
all’esasperazione.
“Già, non vorrai mica che si rimetta a piangere.” Lo
spalleggiò Pugno di fuoco, approfittando tuttavia della situazione per iniziare
a coccolare la ragazza, stringendosela al petto nudo per continuare ad
accarezzarle la nuca.
“E tu non farti strane idee, Ace.” Intervenne prontamente la
Fenice “Resisti fino alla prossima isola per certe cose, ma lei non si tocca.”
Decretò infine, incrociando il sorriso malandrino del moro.
“Eh? Di che stai parlando? Io non sto facendo nulla!” disse
con tono innocente. Subito dopo la ragazza gli si divincolò dalle braccia,
ritornando seduta come prima e, Marco ne era sicuro, un poco rossa in viso.
Sbuffò un poco sollevato e si voltò nuovamente verso gli
altri, che intanto avevano assistito in silenzio al loro rapido scambio di
battute.
“Comunque mi sembra di capire che la piccola ha perso la
memoria.” Si intromise Vista avvicinandosi di poco alla diretta interessata.
Questa si ritrasse di poco all’indietro, facendo scattare confusa gli occhi
verso gli altri, come per chiedere loro che cosa stesse facendo il baffone.
“Sono riuscito a farle imparare watashiwa e anatawa, ma quando le ho chiesto il nome ha cominciato a
rispondermi scuotendo la testa.” Spiegò meglio il biondo.
“Bhe. È già qualcosa.” Disse Satch. “Anche se a perso la memoria, non credo che per papà
sarà un gran problema. Prima o poi dovrà ricordarsi chi è, no?”
“E fino ad allora che si fa?” domandò un poco scontroso il
più muscoloso tra loro.
“Le diamo un nome, no?”
Tutti quanti si voltarono increduli verso Ace che, con un
sorriso se possibile ancor più largo e birichino del solito, stava dando dei
piccoli buffetti sulla testa della ragazza, manco fosse stata un cuccioletto.
Dal canto suo la naufraga però non fece durare quella situazione molto a lungo e
con un piccolo verso di disappunto cacciò via la mano del pirata, saltando giù
dalla botte e rannicchiarsi ai piedi di quest’ultima, lanciandogli
un’occhiataccia.
Gli altri risero, mentre Ace allungava il muso per lo
stupore.
“Ehi, piccola, mica ci sarai rimasta male!” disse il moro
alzandosi dal barile e sporgendosi per riuscire ad incontrare il volto della
ragazza ancora un poco imbronciato.
“Eddai tesoro, mi dispiace.”
A quelle parole, pronunciate in maniera quasi perfetta, la
ragazza alzò lo sguardo stupita.
“Eh sì, ho imparato come si dice. Contenta?” si rallegrò un
poco Ace vedendo la piccola smettere di evitare il suo sguardo, ottenendo però
di rivederla voltarsi dall’altra parte.
“È inutile Ace, sembra che proprio che non le piacciano i
tuoi modi.” Gli disse Marco ridacchiando sotto i baffi.
Il moro sbuffò, portandosi dietro la nuca le mani.
“Uffa.”
“D’accordo ragazzi, basta con le idiozie e pensiamo a che
nome darle.” Concluse il biondo, dando inizio a quella che si sarebbe potuta
chiamare una lunga ricerca.
“Che diamine le avete fatto?!”
Una ricerca interrotta dalle strilla di Betty.
Atto
2, scena 8, Arioso spiacente
Alla fine era arrivata un’infermiera a portarmi via. Non
seppi bene se dirle grazie o meno, visto che appena si accorse che i miei occhi
erano un pochino gonfi, cominciò a sgridare tutti e cinque gli uomini che si
erano fermati attorno a me, senza fare eccezioni.
Non sapevo perché, ma un po’ mi dispiaceva per loro. In
fondo non mi avevano fatto nulla di male. Ero stata io a reagire male alle
parole, incomprensibili, di quel moro e, anche se a volte mi dava fastidio come
mi trattava, non mi veniva da odiarlo.
Guardai da lontano sia lui che Marco, l’unico di cui
conoscevo il nome, strofinarsi la testa dove l’infermiera dai grandi occhiali
gli aveva colpiti senza pietà, facendo uscire dei piccolissimi bernoccoli.
Ancora non sapevo come classificare il biondo che mi aveva
insegnato un poco la lingua. All’inizio mi era apparso un poco pericoloso, con
quel suo sguardo inespressivo e serio,ma…
Sorrisi nel vederlo lamentarsi insieme agli altri,
dimostrando un’espressione diversa da quella che gli avevo visto indossare fino
ad allora. Era davvero…
La figura formosa ed austera dell’infermiera mora dagli
occhiali mi si parò di fronte.
“Daijobu. Chiisanaichi?” chiese con tono premuroso, per nulla simile a
quello che aveva usato con i cinque uomini.
Non sapevo cosa mi avesse detto, eppure mi parve di capire
che mi stesse chiedendo come stavo.
Daiijobu…
era la seconda volta che la sentivo, che strana parola. Me la annotai in caso
mi potesse servire in futuro.
“S-sì, sì. T-tutto
bene.” Risposi un poco incerta “Ehm, Anàtavuà…?” cercai di dire facendo scempio della parola in meno
di un secondo. Alla vista dell’espressione sconcertata dell’altra abbassai la
testa sconsolata. Non ce la potevo fare. Ero pessima.
Singhiozzai appena, incavando la testa nelle spalle, ma poi
senti le belle mani dell’altra prendermi dolcemente la testa dai lati e
rialzarmela, costringendomi a guardarla in viso. La vedi stendere le labbra in
un sorriso comprensivo e poi dirmi con tono dolce.
“Watashiwa Betty, chiisanaichi.Hajimemashite.”
Realizzai che mi aveva detto il proprio nome solo dopo un
attimo di smarrimento, ma quando finalmente riuscii ad assemblare le parti mi
resi conto di aver non solo capito che si chiamava Betty, ma che la parola che
aveva detto alla fine come l’aveva pronunciato mi appariva come un “piacere di
conoscerti.”
Mi buttai letteralmente al collo della signora, più alta di
me di qualche centimetro, cominciando a saltellare e a ripetere sorridendo Hajimemashite
come una scema, storpiando la pronuncia in tutti i modi possibili ed immaginabili,
attirando su di me l’attenzione di tutti.
Io non me ne curai, anche se sentii qualcuno mettersi a
ridere: ero troppo contenta. Liberai il povero collo di Betty, ancora un poco
provata dal mio assalto per reagire, quando all’improvviso, lanciando una
rapida occhiata a Marco che da lontano si era messo ad osservarmi insieme agli
altri, mi venne in mente un’idea.
“Betty?” richiamai l’infermiera, facendole segno di
avvicinarsi di più a me per chiederle una cosa.
Atto
2, scena 9
Satch stava ancora sorridendo,
dopo aver visto la piccola saltellare al collo di Betty, ripetendo
continuamente “Piacere”. Era stata davvero una scena degna di nota, specie il
sorriso che la ragazza aveva mostrato senza volere all’intera ciurma.
Sospirò. Era la prima volta che la vedeva sorridere, da
quando l’aveva vista in mensa il giorno prima e doveva ammetterlo che era stata
una bella visione vedere quel faccino triste accendersi come un lumino per
qualche semplice parola.
“I tuoi insegnamenti cominciano a dare i loro frutti, eh,
Marco?” disse Vista, rivolto al biondo che intanto si era seduto sul parapetto
insieme affiancato da Ace. Davvero, quei due erano inseparabili. Una coppia
eterogenea capace di devastare con un sol gesto un’intera flotta di navi
combattendo fianco a fianco e subito dopo cominciare a battibeccare come due
bambini ansiosi di dimostrare la propria superiorità all’altro. Ma alla fine
finivano sempre per equivalersi.
Marco si limitò ad annuire alle parole del comandante in
quinta senza esternare alcuna opinione in proposito, ma Satch
sapeva bene che il biondo nel profondo si sentiva soddisfatto di essere
riuscito a rendere felice quello scricciolo. Anche se era molto bravo a non
darlo a vedere, i suoi fratelli sapevano quanto buon cuore si celasse sotto quella
scorza da duro che Marco si premurava di indossare ogni giorno.
“Già, ma penso che ci
sarà parecchio lavoro da fare ancora.” Si limitò a dire il biondo dallo strano
ciuffo, alzandosi con un colpo di reni e cominciando ad allontanarsi sotto gli
sguardi incuriositi degli altri.
“Ehi, ma dove vai? Non dovresti continuare ad insegnare
qualcosa allo scricciolo?” domandò Ace fermando l’avanzata di Marco che si
voltò verso di lui con la solita aria annoiata.
“Ti ricordo che ci eravamo organizzati in modo che tu le
facessi vedere la nave al mattino e io le insegnassi la lingua al pomeriggio,
ricordi?”
A quelle parole sulla testa di Ace parve accendersi una
lampadina.
“Ah. Vero.”
“Ti consiglio di non addormentarti mentre stai con lei, la
spaventeresti.” Si premurò di aggiungere il biondo, ricominciando a camminare.
“Forza andiamo a mangiare.” Disse infine, facendo ricordare
improvvisamente allo stomaco di Ace quanto il cibo gli mancasse.
“Yuhuu! Si mangia!” esultò Pugno
di Fuoco mettendosi subito al fianco di Marco, tutto eccitato per l’imminente
banchetto.
Marco si lasciò sfuggire un sorrisetto all’infantilità del
fratellino, smettendo di guardare un attimo davanti a sé per poi ritrovarsi la
strada bloccata da nientemeno che la naufraga.
“Uhm?” fece Ace inclinando la testa da un lato per
l’improvvisa apparizione e il biondo accanto a lui si accigliò leggermente nel
vedere l’espressione leggermente corrucciata e decisa della ragazza che
spasmodicamente teneva il tessuto della sua camicia fermo al petto, come per darsi
coraggio.
Tutti e cinque i comandanti la videro alzare lo sguardo su
Marco e cominciare a parlare con una pronuncia non del tutto esatta ma
abbastanza comprensibile alle loro orecchie.
“Signor Marco… G-razie mille.” Concluse inchinandosi
leggermente in avanti per poi sgattaiolare via come un cerbiatto impaurito tra
le braccia accoglienti di Penelope e Betty, che intanto sorridevano alle
espressione inebetite dei cinque pirati più temuti al mondo.
“La piccolina voleva dirle grazie, comandante Marco!” esclamò
Penelope dande qualche amorevole pacca sulla schiena della piccolina.
Fu la risata a stento trattenuta di Ace a scuotere
l’attenzione degli altri quattro.
“Che hai da ridere?” chiese con il solito tono burbero Jaws vedendo le spalle del moro venire scosse da dei
singhiozzi soffocati, mentre quest’ultimo si copriva il viso con una mano,
cercando di mettere insieme una frase.
“Si è tenuta … la maglietta per evitare … che le vedessimo …
il seno!”
Non furono tanto quelle parole a lasciare basiti gli altri
quattro, ma la loro veridicità, visto che tutti quanti solo in quel momento si
accorsero che le manine della ragazza avevano tenuto più tessuto del dovuto,
probabilmente in vista del dovuto inchino.
Marco dopo un attimo di stupore, voltò lo sguardo sbuffando,
non sapendo come definire quella sensazione che gli aveva stretto lo stomaco,
non appena si era visto costretto a dar ragione al fratellino.
“Ma non pensi ad altro tu?!” chiese scocciato il biondo,
cominciando ad allontanarsi da Portuguese D. Ace il
più presto possibile, prima che cedesse all’istinto di dargli un bel pugno in
testa.
“Ma è vero!” obbiettò l’altro correndogli dietro, senza
smettere di ridere “So che avresti preferito non saperlo, fratello! La prossima
volta non te lo farò notare! Giuro.. ptff.”Si fermò prima di rischiare di scoppiare in
una fragorosa risata. Quanto si divertita a prenderlo in giro.
Era talmente occupato a tenersi la pancia che non si accorse
del fatto che Marco si era termato davanti a lui.
“Fammi un favore Ace.”
“Uh?”
“Alla prossima isola, cercati un bordello.”
Fine
secondo parte Atto Secondo
Finita la
seconda parte! Sì lo so non è un granché
come contenuti ed appigli per eventuali proposte, ma ho comunque delle buone
notizie!! Primo, il vero nome l’ho già scelto e parte del background sono
riuscita a costruirlo ora devo solo scegliere tra un paio di opzioni. Allora,
riguardo al nome nuovo in maggioranza avete suggerito Momo (fiore di pesco) e
ho deciso di lasciarvi questo capitolo per decidere se questo nome vi va bene
oppure vi andrebbe un altro.
Ringrazio KH4, Juli,
angela90, maya_90 e Mishka per aver aderito a
questo mio pazzo esperimento! XD In particolare vorrei tranquillizzare maya_90 riguardo il suo suggerimento
del nome della naufraga: tranquilla non l’ho dimenticato ma riutilizzato nel
background dandogli una certa importanza.
A proposito
del background c’è una situazione di pareggio per ben tre proposte che dovrò
cercare di mettere insieme al meglio.
E adesso
passiamo alla domanda … bhe … in parte c’è la
questione del nome e poi ci sarebbe un’altra cosina (giocherella con gli
indici):
Quale altro personaggio di Onepiece volete che appaia?(tipo Shanks,..si
lo so lui è immancabile … oppure qualche altro come Smoker
una delle Supernove ecc.)
Insomma, vediamo cosa
si può fare! ^^
Avverto che
dopo di questa domanda penso che nell’Atto 3 non ci sarà alcuna domanda per far
sviluppare la storia fin dove mi avete aiutato con le vostre idee. Tranquille,
a questo punto vi potrà sembrare che sto solo prendendo tempo perché sono in
alto mare, ma se vedeste la scheda che mi sono fatta sulla nostra ignota vi
ricredereste subito!
Detto
questo alla prossima! Kisskiss!
Vi adoro!
Su
richiesta di HUNTERGIADA…
Note di LIBRETTO: Jap>Ita
O namaewa nani desuka?>Qual è il tuo nome?/ Come ti chiami?
Daijobu.
Chiisanaichi?>Tutto bene, piccina?
Watashiwa Betty, chiisanaichi.Hajimemashite.>Io sono Betty, piccina.
Piacere di conoscerti.
La mia voce
risuonò un paio di volte in quell’immenso spazio buio, ritornandomi distorta
edebolmente ripetuta, come se i limiti
di quella strana stanza nera fossero troppo distanti. Mi guardai intorno
spaesata, ma era come se non mi fossi mossa, dato che niente, a parte il nero
del nulla, si mosse nei miei occhi. Mi cinsi le spalle con le mani, sentendole
tremare debolmente sia per la paura sia per il freddo, e gemetti sottovoce nel
tentativo di soffocare un singhiozzo disperato.
Poi un rumore.
L’eco di una risata infantile mi scosse l’anima facendomi scattare la testa da
dove sembrava fosse partita.
“C’è qualcuno?!” chiesi a voce strozzata, ottenendo in
risposta un’altra risatina.
“Dove sei?”
La mia domanda
ottenne in risposta una piccola luce, un’ombra chiara, talmente sfuocata da
sembrare un miraggio, che rappresentava una figura bassa e chiaramente umana
che ondeggiava una mano in alto, come a richiamare la mia attenzione.
Mossi
istintivamente un passo verso quella strana apparizione, ma, anche dopo dieci
passi o più, notai che quella rimaneva sempre nello stesso punto, come se non
mi fossi mai mossa di un millimetro dal punto di partenza.
“Chi sei?!”
Chi sei?
Trattenni il
respiro.
Non era la mia
voce quella che era ritornata indietro.
Percepii la mia
mascella cadere leggermente per lo stupore, mentre un’altra serie di risate
proveniva da quell’ombra indefinita che a poco a poco cominciò ad allontanarsi,
trasformandosi pian piano in un puntino luminoso.
“Aspetta!!” gridai cominciando, inutilmente a correre,
allungando un braccio verso di lui.
E mentre quella
figura si faceva sempre più piccola la sentii dire qualcosa, un richiamo, un
nome offuscato dalla distanza che ci divideva e da una foschia grigia apparsa
dal nulla.
Mi vennero le
lacrime agli occhi, capendo che quello doveva essere il mio nome. Cercai di
allungare il passo, ma lo stesso sembrava che non mi potessi muovere.
“Non andare! Ti prego! Non
andare via!”
Un’altra risata, musicale.
Sentii un nome
solleticarmi la gola ed il retro della lingua, ma prima che potessi
pronunciarlo il miraggio era già scomparso ed una forza invisibile mi cinse le
spalle, tirandomi all’indietro, richiamandomi a sé, ripetendo quasi
ossessivamente una parola ben definita ed udibile alle mie orecchie.
“Momo!!”
Atto 4, scena 2
Un altro scossone
mosse la grande Moby Dick, facendone tremare l’intera struttura a un ritmo
regolare e sostenuto che stava ormai andando avanti da un bel po’, bloccando
l’intera ciurma riunita nella mensa sul pavimento, impossibilitati da rimanere
in piedi.
“Ma che diavolo
succede??!!” urlò Satch mezzo inginocchiato accanto
al tavolo al quale pochi istanti prima era stato tranquillamente seduto.Un altro tonto terribile e proveniente dal
passo lo fece imprecare a mezza voce, peggiorando le urla acute e terrorizzate
delle infermiere, nonostante tra quelle emergessero i moniti autoritari di
Betty che cercava di mantenere l’ordine tra le colleghe.
Il comandante in
quarta lanciò uno sguardo al padre, accigliato almeno quanto lui con la
mascella contratta in una smorfia a dir poco furiosa che capitolava da sotto
gli enormi baffi.
“Papà!!” lo
richiamò il biondo, aggrappandosi meglio al ripiano del tavolo con una mano,
tentando si rialzarsi “Che cos’è-?!”
Un altro scossone
lo fece ricadere in ginocchio.
Dannazione!
Pensò, non riuscendo a capire da che parte cominciare.
“Momo!!” La voce
di Penelope, giunta chiara alle sue orecchie in mezzo a tutto quel trambusto,
gli fece alzare gli occhi verso il tavolo dove sia Ace che Marco si erano
radunati a pace fatta per decidere il nome dello scricciolo. Non gli servì
molto tempo tuttavia, prima che si accorgesse che il suddetto scricciolo era
steso inerme e privo di conoscenza per terra, circondata protettivamente dai
suoi due fratelli e da Penelope, che, serrando gli occhi tremanti, proteggeva
la testa della piccola con le proprie mani e braccia.
Quella vista lo
fece istintivamente scattare in avanti, dirigendosi verso il gruppetto colto da
una strana ansia, approfittando di una pausa di quei tremendi tonfi cadenzati.
Giunse a loro
scivolando proprio mentre la nave venne scossa da un altro sussulto,
accovacciandosi proprio accanto alla figura abbandonata sul pavimento della
ragazza.
“Che cosa le è
successo?!” esclamò in direzione di Marco, più accigliato del solito mentre
osservava con fare preoccupato la naufraga.
“Momo!!” ripeté
intanto Penelope in direzione della ragazza, rimanendo a carponi sul pavimento
con gli occhi sbarrati per l’apprensione, dandogli a capire di non aver nemmeno
percepito il suo arrivo.
“Che cosa le è
successo??!!” ribadì impaziente Satch, riuscendo ad
ottenere solo l’attenzione del comandante in prima, le cui tempie erano
percorse da un leggero strato di sudore, mentre Ace continuava a guardare la
situazione critica della ragazza, accigliandosi visibilmente.
“È svenuta poco
prima che la nave cominciasse a tremare!” gli rispose in breve il biondo dallo
strano ciuffo guardandolo negli occhi solo per un istante per poi tornare ad
osservare il volto apparentemente rilassato dello scricciolo.
Il comandante in
quarta mandò un paio di bestemmie in aria ad un’ennesima scossa, valutando
quanto quella situazione si stesse facendo complicata.
“Papà!!” disse
l’uomo dal pizzetto nero, voltandosi nuovamente verso il capitano della nave,
messosi miracolosamente in piedi con ancora tutte le flebo attaccate al proprio
corpo nonostante il tremore che faceva ondeggiare pericolosamente la sala
mensa.“Cerchiamo di salire sul ponte
principale e vedere cosa succede!!” disse ottenendo dal babbo un semplice segno
di assenso con il volto.
“Ace!” fece poi
in direzione del moro, attirandone l’attenzione “Prendi lo scricciolo! Lo
portiamo sul ponte! Ha bisogno di aria aperta!”
Gli occhi neri accigliati
del ragazzo vennero percorsi da un’ombra di incertezza: evidentemente non era
affatto convinto della decisione dell’altro.
“Sbrigati!”
sbottò prontamente Satch, scuotendolo quel tanto da
fargli afferrare la ragazza e mettersela in spalla con un movimento attento e
deciso ed un sibilo contrariato.
“Bene. Andiamo.”
Annuì Marco, alzandosi appena per poi voltarsiverso l’uscita della stanza, seguito sia da loro tre, Penelope compresa,che
dal babbo, che gli seguiva a ruota.
Atto 4, scena 3, Arioso del ritorno alla realtà
Fu come se dopo
che quelle mani invisibili mi ebbero attirate a loro, avessi cominciato a
galleggiare placidamente nel vuoto, avvertendo a poco a poco i miei sensi
acutizzarsi secondo dopo secondo, finché le mie palpebre non si schiusero al
fastidioso contatto della luce del sole.
Non fu la luce
del giorno però a farmi sbarrare terrorizzata gli occhi, ma uno scossone
terribile che fece sobbalzare il mio corpo disteso a terra , strappandomi il
lusso di chiedermi come mai fossi svenuta.
Mi girai di
fianco, impuntando una mano sul pavimento in legno nel tentativo di darmi
sostegno, guardandomi attorno con il cuore che mi batteva febbrilmente per il
violento risveglio.
Ero sul ponte
principale e la gente che insieme a me stava lì era in preda al caos più
totale, urlando e correndo da una parte all’altra dell’imbarcazione sporgendosi
dal parapetto cercando qualcosa.
Inghiottii un
groppone di saliva.
Che cosa stava
succedendo?
“Momo!” fece una voce dietro di me che
riconobbi subito come quella di Penelope.
Mi voltai,
incontrando gli occhioni blu ed apprensivi
dell’infermiera che, senza perdere tempo, mi posò le mani sulle spalle,
scuotendomi leggermente.
“Momo! Daijobudesuka?!” esclamò lei
lasciandomi un poco sorpresa.
Momo? Mi aveva
appena chiamato Momo?
Stavo per
chiederle cosa fosse quel Momo quando un’altra scossa non ci fece letteralmente
cadere all’indietro, allontanandoci l’una dall’altra. Mi ritrovai a scivolare sul
pavimento della nave, mentre il ponte si inclinava sotto di me, lasciandomi
letteralmente senza parole.
Guardai ad occhi
spalancati Penelope osservarmi terrorizzata, mentre lei si teneva ad una cima
di sicurezza di uno degli alberi della nave.
Non sapevo cosa
pensare: le urla, le scosse, il ponte che si inclinava sotto le mie mani che
cercavano con le unghie qualche appiglio. Attorno a me il mondo si stava
muovendo ad una velocità spaventosa, non lasciandomi quasi il tempo di
respirare. Accanto alla mia testa sfrecciò qualcosa. Un barile, che dal rumore
intuii che si andò a fracassare sul parapetto della nave, facendomi arrivare
alle narici l’odore pungente della polvere da sparo.
Una fitta alla
testa mi colse all’improvviso e le mani mi scattarono istintivamente alle
tempie, lasciandomi così senza quel minimo di appiglio che le mie dita erano
riuscite a darmi su quella superficie scivolosa in legno.
Strabuzzai gli
occhi capendo il mio errore proprio mentre il mio corpo cadeva all’indietro,
cominciando a precipitare nel vuoto. Il mio cervello si preparò al dolore, che
sarebbe presto arrivato con lo scontro tra il legno massiccio della ringhiera
del ponte e la mia schiena, ma poi…
“Momo!!”
…sentii qualcosa stringermi forte la vita,
bloccando la mia caduta.
I miei occhi
videro il mondo sottosopra con il cielo al posto del mare e viceversa, mentre
ci mettevo più tempo del dovuto a capire cosa stesse accadendo.
Forzai la testa,
sollevando la in modo da guardare chi avesse bloccato la mia caduta e… incontrai gli occhi scuri e neri di Ace che mi
osservavano contratti da una smorfia accigliata e preoccupata.
Aveva un braccio
attorno alla mia vita, tenendomi sottobraccio con facilità che di getto definii
sorprendente, mentre l’altra era artigliata letteralmente al ponte.
Fu nel guardare
meglio la suddetta mano che mi accorsi subito di uno sconvolgente particolare:
era letteralmente attorniata da delle fiamme che zampillavano come lingue
arancioni tra le dita, bruciacchiando ed annerendo la superficie in legno
inclinata, senza però provocare alcun danno alla sua mano.
Ritornai ad
osservarlo negli occhi allibita e senza parole.
Non capivo.
Perché nel vedere
la mano di Ace farsi di fuoco avevo sentito il cuore gonfiarsi di … sollievo?
Atto 4, scena 4
Ace osservò gli
occhi di Momo allargarsi alla vista della sua mano per un istante, prima di
distogliere lo sguardo da lei, puntandolo verso l’alto, dove Marco volteggiava
attorniato dalle proprie fiamme azzurre con le braccia tramutate in un paio di
ali inquiete al soffio dell’aria circostante.
“Che cazzo sta
succedendo??!!” sbraitò il moro, mentre il fratello, di ritorno dal suo rapido
volo di perlustrazione, si aggrappava all’albero maestro della nave con una
mano per poi lasciarsi scivolare verso i due, attirando così l’attenzione della
ragazza che, ancora silenziosa, li osservava ammutolita.
“Un Re dei Mari!”
rispose a voce alta il biondo cercando di mantenere la calma e di non guardare
la ragazza che, con la confusione ben visibile nei propri occhi, rischiava di
farlo distrarre.
“Che cosa?!”
esclamò Ace, incredulo “Non è possibile! Siamo in mare aper-!”
Un ennesimo
scossone lo interruppe, rischiando di fargli scivolare la presa attorno alla
vita sottile di Momo che, colta alla sprovvista, lanciò un piccolo urlo,
ritornando a ciondolare con la testa all’indietro.
“Momo!! Sta’
tranquilla! Aggrappati a me!” disse Pugno di Fuoco tentando inutilmente di
attirare l’attenzione della ragazza , che cominciava a tremare visibilmente
come una foglia.
Ace strinse i
denti, strattonando con uno scatto il
braccio attorno all’altra che, con un sussulto ritornò a guardarli. Gli
occhietti impauriti della ragazza passarono velocemente dal viso di Ace a
quello di Marco, poi ancora ad Ace ed ancora a Marco, fermandosi sul volto del
biondo.
Il biondo si
ritrovò a deglutire a quell’espressione implorante di aiuto: era evidente che
non sapesse cosa fare.
“Coraggio!”
esclamò il comandante della prima flotta, dandosi una scrollata, scattando poi
una mano verso la schiena di Momo, aiutandola a darsi una spinta sufficiente a
permetterle di allacciare le braccia attorno al collo di Ace.
Nel vedere
finalmente la piccola al sicuro tra le braccia del fratello, Marco tirò un
discreto sospiro di sollievo, voltando poi accigliato gli occhi verso la parte
più alta del ponte inclinato e con un salto, ritramutare
i propri arti in piume infuocate dirigendosi nuovamente oltre il fianco
innalzato dall’enorme serpente marino che aveva visto poco prima.
Non vide Momo
spalancare la bocca alla vista delle sue ali, così come Ace, ma del resto non
aveva tempo per curarsene: quel bestione sembrava seriamente intenzionato a
ribaltare la Moby Dick, troppo grande anche per un mostro delle sue dimensioni,
spingendola verso l’alto con la testa.
E ci stava
riuscendo. Eccome se ci stava riuscendo.
Quel maledetto
serpente con le squame nere come la pece aveva fatto già cadere in mare buona
parte dell’equipaggio e bloccato nei corridoi interni della nave il babbo,
impedendogli di intervenire.
Stava dando loro parecchie
grane.
“Tsk!” fece il biondo per poi scendere in picchiata verso il
mostro, che fece appena in tempo a volgere un occhio giallo verso quello strano
uccello azzurro, prima di sentirsi squarciare un fianco di qualcosa di rovente
ed acuminato.
Un ruggito sferzò
l’aria e la Moby cadde di nuovo dritta sull’acqua con un tonfo scrosciante,
mentre la bocca aguzza e dentata del Re dei mari veniva spalancata con rabbia.
Quando il mostro
riaprì gli occhi dorati, riacquistando un poco di calma, fece scivolare il
proprio corpo più in alto, facendo emergere buona parte delle sue sinuose
spire, affinché il suo muso serpentino si affacciasse sul ponte
dell’imbarcazione.
Marco sorrise
beffardo alla vista degli occhi accigliati e pieni di odio del serpentone nero,
scrollando con fare di sfida proprio davanti al suo naso una delle sue zampe
rapaci, dai cui artigli gocciolava ancora qualche stilla purpurea.
L’iride verticale
del rettile marino, a quella vista inequivocabile, si assottigliò visibilmente,
incentrando il proprio sguardo sulla figura del biondo.
“È stata una
pessima mossa disturbare un altro Re nella propria tana.” Lo schernì Marco,
godendosi quel momento mentre fletteva le ginocchia ed allargava leggermente i
propri arti alati, pronto a spiccare il volo.
Dietro di sé
intanto, Edward Newgate era finalmente uscito da
sottocoperta con gli occhi più furenti che mai, fulminando con mille e più
promesse di morte il mostro che aveva osato cercare di distruggere la propria
famiglia.
Gli occhi di
Marco si spostarono proprio in direzione del padre, senza mai smettere di
sorridere.
La coda sottile
del serpente sferzò l’aria verso di lui, nel tentativo di colpirlo in pieno e
scaraventarlo lontano, accompagnata da un ruggito cento volte peggiore di
quelli precedenti.
L’estremità
squamosa però colpì soltanto il resistente materiale della nave, mancando di
netto il bersaglio che con un balzo si era lanciato in aria, tramutandosi
nuovamente in una figura rapace e luminosa quasi quanto il sole.
La mente
dell’enorme serpente marino si accese nel vedere quell’uccello infuocato venire
verso di lui cercando battaglia e i suoi denti digrignarono, impazienti almeno
quanto il suo stomaco, deformando la sua grande bocca in qualcosa che pareva un
sorriso, prima che con uno scatto in avanti spalancasse la bocca verso il
comandante in prima.
Sul ponte
intanto, Ace grugniva cento e più maledizioni nei confronti della Fenice,
massaggiandosi il fondoschiena ora poggiato sul pavimento in legno della nave,
dopo averci scontrato con malagrazia, essendosi improvvisamente ritrovato senza
appoggio sotto le proprie mani infuocate.
“Uuuurgh…! Marco, questa me la paghi!” mugugnò promettendo
al fratello vendetta, mentre sulle sue ginocchia stava Momo, ancora intontita
dal modo in cui la Moby era stata sbatacchiata e con il mento sulla spalla del
ragazzo.
La ragazza strizzò
gli occhi, riaprendoli appena in tempo per vedere Marco tramutarsi a mezz’aria
in un volatile completamente ricoperto interamente di fiamme azzurre e
cangianti come il mare che rifletteva le prime luci dell’alba.
Quella vista la
sconvolse, tanto che si fermò ad osservare a bocca leggermente dischiusa quella
figura, aggraziata e potente come la freccia di un arco appena scoccata,
volteggiare con dignitosi battiti d’ali sullo sfondoceruleo del cielo, in quel momento pallido in
confronto alle sue piume crepitanti.
Le lunghe piume
della coda di quel maestoso uccello ondeggiavano come catene di acquamarina
rilucente, rapendo la sua attenzione con estrema facilità.
Quei movimenti,
ben cadenzati, leggeri, ma allo stesso tempo aggressivi, le diedero una strana
impressione … una sorta di … dejà-vu.
Fu solo per un
istante però, poiché uno scatto repentino da parte di quella creatura le fece
accorgere di cosa stava accadendo e della presenza di quell’enorme mostro con
le fauci spalancate e ben pronte contro il quale Marco stava andando letteralmente
contro.
Gli occhi di Momo
si allargarono a quell’orribile visione e la sua bocca si spalancò
automaticamente nell’atto di lanciare un urlo che però si tradusse in
qualcos’altro.
In quell’istante
tutti, compreso l’imperatore Bianco e i suoi figli precipitati in acqua,
udirono persino al di sopra dei ruggiti irosi della belva, il nome del primo
comandante venire pronunciato come se fosse stato un trillo veloce e melodioso,
simile al suono di un campanello che si sparse per metri e metri, raggiungendo
addirittura le sensibili orecchie del mostruoso Re dei mari.
Ace si voltò
allibito ad osservare in volto la ragazza, ritrovandola di nuovo rigida con gli
occhi persi davanti a sé come pochi istanti prima che svenisse nella mensa, per
poi volgere gli occhi ancora più indietro, ruotando il busto quel tanto che gli
servì per incontrare il brutto muso del mostro marino che gli osservava,
dimentico della presenza della Fenice davanti a sé.
Pugno di fuoco
vide le enormi narici del serpentone dilatarsi rumorosamente saggiando l’aria,
per poi bloccarsi e puntare gli occhi gialli dritti verso di loro con più
decisione di prima.
“Cosa diavolo…?” fece in tempo a dire il moro, mettendosi in
allerta e pronto a scattare, per nulla rassicurato dall’espressione del serpente,
prima di vedere la testa di quest’ultimo balzare nella loro direzione con la
mandibola lunga ed affilata ben aperta.
Da lontano Marco
vide il fratello riuscire a spostarsi agilmente fuori dalla sua traiettoria
all’ultimo secondo, trascinando sempre con sé Momo, stranamente ridotta ad una
bambola di pezza senza vita.
Gli occhi della
Fenice scrutarono ansiosi i movimenti del Re dei mari, vedendolo puntare solo
ed esclusivamente a suo fratello ed alla naufraga.
Non riusciva a
capacitarsene. Perché lo aveva improvvisamente lasciato perdere?
E che cos’era
stato quello strano urlo?
I suoi occhi si
incentrarono ancora una volta sul faccino della naufraga, congelato in
un’espressione che lasciava trasparire stupore e terrore, ma non una piena
coscienza di quello che stesse accadendo attorno a lei.
Era come se la
sua mente si fosse chiusa, estraniandosi dal resto del mondo.
Atto 4, scena 5, Arioso del terrore antico
presente
Sentivo il corpo
bloccato, come se fossi stata chiusa all’interno di una pietra con una cavità
scavata su misura per me, quando in realtà ero semplicemente aggrappata al
corpo di Ace, mentre il rumore di mascelle aguzze che scattavano si faceva
sempre più vicino alle mie orecchie.
Che cosa avevo
fatto poco fa? Perché la mia voce era uscita di nuovo così simile ad un canto?
Non mi curavo del
fatto che Ace stesse facendo letteralmente i salti mortali da una e dall’altra
parte della nave per sfuggire agli attacchi famelici di quel mostro.
La mia mente era
pervasa da troppe domande, troppe sensazioni, troppe emozioni che rischiavano
di farmi crollare da un momento all’altro.
Mi sentivo come
persa nel vuoto: la mia testa mi girava e pulsava impedendomi di carpire da
quelle sensazioni, quelle avvisaglie di consapevolezza, il vero significato di
quello che stava succedendo. Perché io sentivo
di sapere, nell’angolo più recondito della mia mente, come unire tutte quelle
cose.
Era come un filo,
sottile, trasparente che avrebbe potuto unire perfettamente le perle di una
lunga collana, dandole un senso, se solo fossi stata in grado di ritrovarlo.
Perché quel filo,
doveva essere, per forza, la mia identità che non faceva altro che scivolarmi
via dalle dita.
Il rumore quasi
metallico dei denti che si serravano nuovamente accanto a me ed Ace, mi fecero
correre un brivido lungo la schiena.
Quel mostro mi
avrebbe uccisa. Lo sentivo. Era una certezza la mia, anche se non sapevo da
dove mi venisse.
Sentii Ace
imprecare accanto a me e bloccare improvvisamente la nostra corsa, mollandomi
poi per terra, parandosi dinanzi a me.
Alzai gli occhi,
trovando per un istante la forza di muovermi, ma solo per vedere quella
mostruosità osservarci come due topi messi alle strette. Davanti a me Ace
allargò un braccio, calcandosi meglio il cappello sulla testa, e subito dopo quell’arto
venne ricoperto da una coltre di fiamme arancioni identiche a quelle comparse
tra le sue mani pochi minuti prima.
“Saa, shishi!” lo sentii dire con
tono quasi divertito e il mio cuore sussultò improvvisamente nell’intuire
quello che stava facendo: lo stava sfidando… stava
sfidando quell’immenso mostro!
“Fermo!” urlai
trovando voce, finalmente “Cosa vuoi fare?! Va’ via!! Va’-!” le mie grida
disperate vennero immediatamente bloccate dalla vista di quella testa
serpentina che si fiondava dritto su di noi.
I miei muscoli si
irrigidirono per un istante nel notare con orrore che il ragazzo moro davanti a
me, invece di spostarsi, come aveva sempre fatto fino ad allora per non
lasciarsi afferrare da quelle orrende fauci affilate come rasoi, non accennò ad
alcun movimento di evasione, anzi, il suo braccio venne caricato all’indietro e
la mano, ormai indistinguibile tra quelle lingue infuocate, sembrò addirittura
chiudersi a pugno.
Si stava
preparando a dargli un colpo diretto. E lo stava facendo parandosi, irrigidendo
i muscoli quasi con cocciutaggine, tra me ed il pericolo, nonostante ai miei
occhi apparisse ovvio che un semplice pugno non avrebbe sortito un grande
effetto, se non quello di una carezza.
Strinsi i denti
con rabbia e, rialzandomi di scatto, e sentii il mio corpo volgere in una
direzione a me sconosciuta, come se quella strana sensazione, insieme al
pulsare alle mie tempie, nel giro di qualche istante stesse sforzando la mia
mente intorpidita ad un’azione famigliare, ma al tempo stesso estranea.
Gonfiai le corde
vocali senza rendermene conto e sentii distintamente la punta delle dita
pizzicarmi lievemente.
Ma l’azione che
stavo per compiere fu fermata sul nascere dalla sensazione di qualcosa
accostatasi accanto a me, sfiorandomi lievemente la spalla con qualcosa di
ruvido.
La gola mi si
bloccò e istintivamente alzai gli occhi verso l’alto.
Il formicolio
alle mani scomparve e così i miei polmoni si svuotarono, facendomi emettere un
sospiro ammirato e sorpreso allo stesso tempo nel vedere accanto a me l’immensa
figura del capitano dagli enormi e strani baffoni a mezzaluna.
Lo vidi
rivolgermi un ampio sorriso sereno, facendo apparire attorno ai propri occhi
tante piccole rughette. Quell’espressione di certo
non era tipica di chi ha a che fare con un enorme lucertolone d’acqua salata
affamato che sta assalendo la propria nave.
Lo vidi brandire meglio l’immensa arma che
teneva in mano come uno scettro acuminato, ed alzarla come se stesse per
scagliare un fendente in aria.
In quell’attimo
sbarrai gli occhi, sentendo intorno a me l’aria farsi improvvisamente pesante e
mi sentii … vibrare. Sì, vibrare. Come una flebile fiamma che viene scossa dal
suo stato di quiete da una sospiro di vento troppo forte.
E poi il colpo,
simile ad un fascio di luce bianca, partì, spezzando l’aria come una ferita
diretta al centro della testa di quel mostro che non aveva mai smesso di guardarmi
dacché aveva posato i suoi occhi su di me.
La mia immagine
riflessa fu l’ultima cosa a scolpirsi nelle sue pupille gialle.
Atto 4, scena 6
Sulla Red Force faceva un caldo allucinante e di questo persino Ben,
infilatosi accortamente sotto il grande ombrellone del ponte principale insieme
agli altri, ne risentiva, come ben si
poteva intuire dalla grande quantità di sudore che gli stava colando dal mento.
Il primo comandante, con i sottili occhi socchiusi dalla calura, guardava senza
grande interesse il cielo completamente sgombro da nuvole davanti a loro.
Ben grugnì,
strofinandosi una spalla, libera dal solito mantello viola scuro che era solito
mettersi, in quel momento abbandonato sopra una delle botti di liquore,
maledicendo tutto quell’azzurro che minacciava di fargli scoppiare l’emicrania
più colossale di tutti i 4 mari.
Tutto quel sole
cominciava a dargli alla testa. Diamine. A volte Beckman
si ritrovava ad odiare l’imprevedibilità della Rotta Maggiore. Un attimo prima
sembrava che dovesse mettersi a diluviare, e l’altro subito dopo il sole
lanciava piccoli aghetti roventi sulle loro teste, ridacchiando sadico.
Una via di mezzo.
Chiedeva molto in quasi venti anni di onesta -questione di punti di vista-
pirateria?
Ormai Lucky e Yasopp erano crollati,
dopo quasi un’ora di interminabili lamentele agonizzanti a malapena biascicate
per il caldo, e di almeno questo Ben era contento, anche se accanto a lui Shanks compensava il silenzio dei due ufficiali con una
serie di suoni gutturali e nasali dettati dal sonno, accasciato scompostamente con
la testa poggiata all’indietro su ben
due botti di sake, spalancando la bocca tanto da
farla sembrare una grotta con tanto di ugola.
Come riuscisse a
ronfare con tutto quel caldo era un mistero che non smetteva mai di tormentarlo,
facendogli valutare ogni volta sempre più seriemente l’idea di imbavagliare il
proprio capitano e vedere come avrebbe reagito nel sentirsi costretto a
chiudere la bocca nel sonno.
Uhm… ma tutto sommato non sarebbe stata una
gran mossa la sua. I pugni di Shanks facevano ancora
male, dopotutto, anche se mollati per puro diletto di cimentarsi in una piccola
scaramuccia con il proprio vice. E decisamente Ben non era in vena di sprecare
energie sotto un sole capace di ustionarti la pelle dopo neanche tre minuti di
esposizione.
Come faceva ad
esserne sicuro? Semplice. Il motivo per il quale tutto l’equipaggio si era
radunato sotto il grande ombrellone della nave non era stato solo un disperato
tentativo di sfuggire all’afa, ma anche un’ottima occasione per assistere da
una buona postazione al lavoro del loro nuovo mozzo.
A proposito del
povero diavolo.
Ben volse
velocemente lo sguardo verso l’uomo che dopo tre o due orette piene, cercava in
quel momento di reggersi al manico della scopa con la quale non aveva fatto
altro che percorrere avanti ed indietro l’enorme ponte della loro nave. La
lingua, rossa almeno quanto la sua pelle bruciata dal sole, penzolava
disperatamente fuori dalla bocca, ansimante nella disperata ricerca di un poco
d’aria.
Il suo nome era Roid Brinata, se la memoria non lo ingannava, e si trattava
niente meno che dell’ex vice capitano della nave di schiavi accolto dal loro
capitano, nonostante la decisione iniziale di rigettarlo in mare aperto a far
compagnia al Re dei Mari di cui aveva tanto farfugliato con le lacrime agli
occhi.
Ben si portò
pensieroso una delle proprie sigarette alla bocca, senza accenderla,
mettendosia studiare con fare critico
l’aspetto del loro “ospite”, constatando quanto il suo aspetto facesse pensare
a tutto tranne che ad un vice capitano quale era lui.
Era un uomo sulla
trentina o giù di lì, come tutti loro del resto, dotato di un fisico sottile e
bianco come uno spaghetto che in quel momento, fiaccato dalla calura
insopportabile, lo faceva assomigliare ad un vecchietto malaticcio. Niente a
che vedere con le loro braccia scolpite da duri anni di continue sfide con il
mare e con assalti continui di marine pronti a far loro la festa.
Certo, i
pettorali erano comunque abbastanza accennati da farsi notare, essendo in quel
momento a torso nudo, ma se qualcuno dell’equipaggio avesse anche solo osato
chiamarli addominali si sarebbe dovuto come minimo aspettare un gran risata da
parte di tutta la ciurma.
Per il resto Roid Brinata non sembrava avere altri difetti riguardanti
il proprio aspetto fisico: un volto lungo e squadrato ancora abbastanza
piacente, nonostante il leggero pizzetto marrone che gli ricopriva il buona
parte del mento, un paio di occhi grigi leggermente tondi e molto attenti, ed
infine una zazzera mal curata ed un poco spinosa di capelli color argilla.
Il pirata sbuffò
posando il mento sulla mano pensando all’unico grande difetto che rendeva
Brinata un elemento non molto accetto: era un mercante di schiavi.
E da che mondo
era mondo un pirata non poteva definirsi veramente tale se vedeva di buon occhio
quelli della stessa risma di Roid: macellai che
scuoiavano persone di ogni specie e categoria della propria libertà per poi
rivenderli come pezzi di carne di prima qualità a quegli schifosi dei Nobili
senza che la Marina battesse ciglio.
Ma in fondo non
era un grande problema la vecchia occupazione del loro nuovo mozzo.
Tanto lo
avrebbero ben presto mollato sulla prima isola avvistata, lasciandolo però
completamente nudo per aggiungere un poco di beffa alla sua sorte (fin troppo
fortunata per i gusti di Shanks).
Un sorrisetto
sarcastico si distese sulle labbra del vice capitano, mentre si rialzava con un
poco di fatica avvicinandosi ancora un po’ alla balconata dalla quale gli era
possibile controllare le mosse del loro nuovo dipendente. Per un misero istante
Ben imprecò contro il grande caldo che aveva sommerso la loro povera
imbarcazione. Non una leggera brezza, nemmeno una bava di vento pareva spirare
nell’aria.
“Ehi, mozzo!”
urlò incrociando le braccia al petto, attirando su di sé lo sguardo stremato di
Roid “Smettila di battere la fiacca, prima che il
capitano si svegli e trovi il ponte ancora lercio per metà!” ordinò, gustandosi
con non poca soddisfazione l’espressione di puro terrore dell’altro che, manco
fosse stato punto da un’ape, ricominciò immediatamente a trascinare il panno,
oramai quasi asciutto, lungo le assi in legno massiccio della nave.
Uno sbadiglio
tutt’altro che decoroso gli giunse alle orecchie.
“Ancora vivo?
Credevo sarebbe svenuto nel giro di qualche minuto.” Disse la voce ancora un
poco impastata di Yasopp “Accidenti, ho perso la
scommessa.” Aggiunse poi il cecchino grattandosi la testa, ricordando la
scommessa fatta pochi minuti prima con Lucky su
quanto l’ex schiavista ci avrebbe messo a stramazzare al suolo implorando
pietà.
“È resistente.”
Constatò con semplicità Ben, guardando la faccia contrariata dell’ufficiale.
“Troppo. Che ne
dici se vado lì e lo metto al tappeto?” aggiunse velocementeil rasta, prendendosi il mento tra due dita
con fare pensoso, scatenando così una risatina del vicecapitano.
“Non sarebbe
giusto nei confronti di Lucky: una scommessa si vince
lealmente, no?”
“Giusto.” Asserì
con scarso entusiasmo il biondo, tornando velocemente all’ombra del parasole
con una certa fretta, sotto lo sguardo divertito di Ben.
I suoi occhi
scuri poi caddero casualmente all’orizzonte, trovando tuttavia un elemento di
disturbo nel panorama azzurro ed ondeggiante del mare. Aguzzando la vista, il
pirata riconobbe in quella sagoma una nave, ma gli bastò identificare la forma
della polena per sentirsi una stretta allo stomaco rovinargli l’umore.
Ci avevano messo
poco a mandare qualcuno: avevano cambiato rotta da almeno un giorno da quando
avevano ripescato Roid.
“Tsk. Non poteva scegliere momento peggiore.” Mugugnò
contrariato “Con questo caldo non combineremo granchè.”
Disse poi drizzandosi ed dirigendosi verso il capitano, ancora perso nelle
proprie fantasie oniriche.
“Ehi, Shanks! Sveglia! Il Pugno
è arrivato a farci un visitina!”
A quelle parole
tutta la ciurma si svegliò di soprassalto, mentre l’enorme bolla che
fuoriusciva dal naso del capitano scoppiò in un istante, dando inizio ad una
serie di borbottii impastati dal sonno da parte del rosso. Solo quando le
parole del proprio vice assunsero una forma più chiara e comprensibile nella
propria testa, Shanks strabuzzò gli occhi cercando
ulteriore conferma nella faccia seria del compagno.
“Garp?”
Al segno di
assenso di Ben, le sue labbra, prima socchiuse con sgomento, si stesero in un
ghigno soddisfatto come quello di un bambino fiero dei risvolti di una sua
marachella.
Questa volta Sengoku aveva mandato qualcosa di molto meglio delle solite
due flotte di pivellini.
Atto 4, scena 7
“Allora, come
sta?” chiese Satch sporgendosi oltre lo stipite della
porta dell’infermeria, incontrando lo sguardo avvilito di Penelope, tutta presa
dal coccolare la testolina tremolante di Momo, avvinghiata a lei come un
cucciolo di koala alla sua mamma.
Dietro di lui,
Marco aspettava a braccia conserte con le spalle poggiate alla parete,
affiancato da un Ace particolarmente serio e nervoso.
“Non ha detto
ancora nulla.” Rispose loro la bionda infermiera sospirando sconsolata,
guadando poi la piccolina stringersi istintivamente aggrapparsi con maggior
forza a lei.
Il capitano della
quarta flotta sbuffò, rigettando indietro la testa, lanciando un’occhiata ai
due fratellini che risposero con altrettanta preoccupazione. Nessuno di loro
sapeva cosa dire: era da quando il babbo aveva tranciato la testa del Re dei mari
che Momo si era completamente chiusa in sé stessa.
Non parlava. Non
mangiava. A malapena beveva.
Sulla Moby Dick
erano tutti molto preoccupati per lo scricciolo, tanto da rendere l’enorme
vascello nettamente più silenzioso. Persino le fragorose risate del babbo si
erano fatte meno frequenti, da quando aveva visto la piccolina scoppiare a
piangere davanti a lui tenendosi il petto con una mano.
Quello a cui
l’equipaggio si era visto spettatore il giorno prima era stato uno spettacolo
sconvolgente.
Marco vagò con lo
sguardo sulla parte superiore del corridoio nel ricordarsi l’impressione che la
piccola naufraga gli aveva dato mettendosi a singhiozzaresul ponte della nave in quel modo. Era stato
come vedere un fiore venire sbatacchiato di qua e di là da un vento crudele e
freddo, senza avere alcuna possibilità di prendere di nuovo possesso del
proprio destino. Poteva solo immaginare quanto si sentisse impotente in quel
momento.
“Secondo te che
cosa può averla fatta reagire in quel modo?”
La voce di Ace lo
fece sospirare, mentre riabbassava lo sguardo.
Non disse nulla:
non sapeva cosa rispondere, poteva trattarsi di tutto come di niente, magari
era stato un attimo di profonda debolezza emotiva, ma, cosa molto più
probabile, potevano addirittura essere stati loro a spaventarla mettendola di
fronte a troppe novità, troppe informazioni da registrare.
In fondo, per
quel poco che conoscevano di lei, proveniva da un’isola sconosciuta che, a
giudicare dalla lingua che parlava, non aveva avuto alcun contatto con il mondo
esterno. Era anche possibile che vedesse in tutti loro delle sorte di mostri.
La mascella gli
si serrò automaticamente a quel pensiero. Chissà perché quella non tanto remota
possibilità gli aveva fatto sobbalzare lo stomaco.
Ace inarcò un
sopracciglio verso il biondo, vedendosi ignorato, cosa che gli aveva sempre
dato un certo fastidio.
“Ehi, mi stai
ascoltando?”
Non pensò molto
però ad attendere la risposta dell’altro poiché, dall’infermeria, i tre
comandanti udirono improvvisamente la voce allarmata di Penelope richiamare
Momo che, nemmeno un secondo dopo, uscì dalla stanza a testa bassa,
aggrappandosi stancamente al pomello della porta spalancata.
Satch, Ace e Marco stettero a guardarla a
bocche spalancate: ansimava come se cercasse di accumulare quanto più ossigeno
possibile e, ad ogni respiro qualcosa si ingrandiva sempre di più all’altezza
della sua gola.
Una luce
sottopelle. Gialla. Iridescente. Situata proprio sulla cavità del collo.
Scintillava come
un piccolo cuore pulsante.
“Momo?!” esclamò
allarmato Ace facendo un passo in avanti, attirando di conseguenza gli occhi
della ragazza che però non lo aiutarono a far diminuire i timori sia suoi che
dei suoi fratelli.
“Ma che-?”
esclamò Marco, accigliandosi nel vedere le iridi della ragazza illuminate dallo
stesso tipo di luce situata in mezzo alle proprie clavicole. Parevano
addirittura dorate.
Tutto quello però
scomparve non appena però i suoi occhi incontrarono quelli scintillanti e quasi
surreali della ragazza che, come d’incanto, si spensero, tornando al loro
solito colore, seguiti a ruota dal lume al suo petto.
Tutto sparito. In
meno di un battito di ciglia. Come un sogno fatto ad occhi aperti,
un’illusione.
Satch osservò gli stessi occhietti di pochi
secondi prima, osservare spaesati tutti quanti: prima lui, poi Ace, Penelope ed
infine Marco, fermandosi su di lui.
Lentamente quelle
iridi cominciarono ad inumidirsi.
“Signor Ace,…Signor Marco …” sussurrò la naufraga con voce sottile ed incerta “Mi dispiace.”
Atto 4, scena 8, Arioso dei dubbi
Ero riuscita a
scuotermi un po’ dalla paura che la vista di tutto quel sangue, mi aveva
provocato.
Sentire la voce
di uno dei compagni di Ace e Marco mi aveva dato un po’ di sicurezza, e alla
fine mi ero fatta forza ed ero uscita ancora un poco intontita dalla stanza. La
mia testa aveva girato un attimo prima che vedessi accanto alla porta sia Marco
che Ace, facendo sparire sia il senso di nausea si quello strano battito
cardiaco sbucato da chissà dove all’altezza del mio petto.
La mia vista era
tornata nuovamente nitida in un istante non appena riconobbi i capelli neri e
scompigliati di Ace e quelli strani e biondi di Marco.
Poi, tornata
finalmente un poco in me, mi ero scusata con loro. Non c’era una ragione
particolare. Ok, forse era anche perché sapeva di essermi comportata come una
bambina.
Solo… sentivo di
doverlo fare. Era stato come una necessità quella di esternare quello strano
senso di colpa che mi stringeva le interiora. Avvertivo come il peso di una
responsabilità di natura ignota gravarmi sulle spalle.
Osservai ancora
un po’ gli occhi dei due ragazzi per poi, con sguardo basso, avvicinarmi
cautamente a loro due, arrivando poi, non so come, a poggiare la testa sul
petto di Ace.
Era caldo. Fu la
prima cosa che notai e spontaneamente nella mia testa riapparve l’immagine
delle sue dita attorniate dal fuoco. Socchiusi gli occhi, perdendomi in quella
sensazione di torpore e beatitudine che d’un tratto sembrò invadermi la testa.
Cos’era quello strano senso di nostalgia?
Qualcosa cominciò
a scompigliarmi energeticamente i capelli, facendomi sbarrare gli occhi
sorpresa, mentre alle mie orecchie arrivò la risata inconfondibile di Ace.
“Maa, maa. Daijobu.” Disse lui ridacchiando sotto i baffi.
Mi staccai
immediatamente da lui, imbronciandomi: non mi piaceva essere strapazzata in
quel modo.
Il suo sorriso da
bambino mi si parò innanzi, spingendomi a sorridere a mia volta. Quel ragazzo
aveva un sorriso davvero contagioso, mi sembrava impossibile non rispondergli
allo stesso modo.
Poi mi voltai
verso Marco e mi ritrovai trafitta dai suoi occhi, simili a quelli di un
rapace, esattamente come mi era apparso la prima volta sul ponte della nave,
poco prima di insegnarmi qualche parola nella loro lingua. Non mi piaceva come
mi stava guardando. Era arrabbiato? Oppure solo confuso dal mio comportamento?
Alzai
istintivamente una mano nella sua direzione, pronta a dirgli qualcosa, ma
quello strano formicolio, che mi aveva assalito pochi istanti prima all’altezza
della gola, mi fece cambiare immediatamente idea, cogliendomi nuovamente alla
sprovvista.
Desolatariabbassai lo sguardo, posandomi una mano
sulla gola, vedendo intanto ritornarmi alla mente la figura mostruosa di quel
serpente marino che, ne ero abbastanza certa, avrebbe fatto parte del pranzo
del capitano.
Non me la sentivo
di parlargli. Non se rischiavo di far uscire ancora quello strano suono dalla
mia gola.
Mordendomi le labbra,
mi voltai verso l’altro signore biondo con la barbetta nera, posandogli una
mano su un braccio. Volevo vedere se con gli altri succedeva la stessa cosa.
“Scusate.” Dissi ricevendo
da quello, che pareva rande di almeno cinque anni più di me, un sorriso
accondiscendente e sghembo.
Abbassai stancamente
la testa, delusa dal non aver avvertito alcun cambiamento nella mia voce. E di
colpo mi sentii contrariata. Che cos’erano quelle strane sensazioni che mi
impedivano addirittura di rivolgere la parola a Marco? Non ci capivo più nulla,
ma di una cosa ero certa: non ne potevo più di quella storia, dovevo capirci qualcosa.
I miei
ragionamenti vennero però interrotti da un forte brontolio proveniente dal mio
stomaco.
Mi corrucciai
imbarazzata e rialzai il viso verso l’altro, sorridente come prima.
“Anatawa…?” chiesi
ottenendo immediatamente il suo nome, accompagnato da una risatina divertita.
“WatashiwaSatch, misosazai.”
Ignoravo cosa
fosse quel “misosazai”, ma sentii Ace grugnire
sommessamente a quella parola, addirittura sentii lo sguardo di Marco farsi più
pungente sulla mia schiena.
Cercando di non
farci caso, feci segno con un dito alla mia bocca“Credo di aver fame.” Dissi, decidendo sul
momento di decidere cosa fare dopo … pranzo? Oppure era la cena?
Solo allora mi
accorsi di non sapere che ore fossero.
Accipicchia. E
dire che avevo una fame…
Fine Atto Quarto.
Firulà, firulì
e blablabla eccomi qua! XD
Contente? Sono riuscita a farvi una bella sorpresa? Spero di sì.
Devo ammettere che questo
capitolo non mi è piaciuto granché, almeno verso la fine. Vabbò
sarà perché questa è un’introduzione alla parte dove Momo comincia a diventare
un personaggio un po’ più attivo.
Comunque, a quanto pare il naufrago bastar…
ehm, ce lo dovremo tenere per un po’, mi dispiace ragazze che avete votato per
mandare Roid in pasto ai pesci! XD
Uhm, sto pensando alla prossima domanda, ma davvero non mi viene in
mente nulla di costruttivo. Uhm…Vabbò
per questa volta la domanda è:
Suggerimenti liberi
Ovvero, sbizzaritevi con qualsiasi cosa vi
venga in mente (accadimenti, possibili risvolti, critiche sullo stile, consigli
di vario genere insomma) Nel prossimo atto ci sarà di nuovo una domanda precisa
tranquille e spero di non mettervi troppo in crisi! =)
Detto questo vi lascio libere di rispondermi belle donzelle! Ci
vediamo al prossimo atto! Kisskiss! ^*^
Nei corridoi
della Moby Dick ormai l’aria era densa di aspettativa in vista dell’imminente,
e sostanziosa, colazione di cui già le narici avide dei pirati inspiravano gli
aromi che ormai impregnavano l’aria della nave. Molteplici esclamazioni
deliziate ed impazienti risuonavano alternate con frequenza sempre maggiore man
mano che la sala mensa si avvicinava.
Fu
un’esclamazione staccatasi dal coro a far sì che centinaia di sguardi
incuriositi si voltassero improvvisamente all’indietro per vedere una scena che
mai i figli del pirata più temuto al mondo si sarebbero aspettati. Cioè,
insomma, in un certo senso se la sarebbero aspettati, ma non a quell’ora del
mattino e soprattutto… non così seria.
“Andiamo Marco,
smettila di scherzare non è divertente.” Si sentì dire Ace, in fondo alla fila
formata dai loro fratelli, mentre affiancava con tono stranamente serio il
comandante in prima, anche lui più corrucciato del solito.
Ci vollero poche
battute perché la situazione fosse chiarita a tutti i presenti.
“Non sto scherzando
Ace, va’ in un bordello. Stai cominciando a farmi perdere la pazienza.” Decretò
il biondo facendo per aumentare il passo, ma fu fermato prontamente da una mano
dell’altro che gli afferrò saldamente la spalla, bloccandolo dov’era e
costringendolo a voltarsi verso di lui.
Gli occhi scuri
di entrambi si sfidarono per un attimo e gli occhi di brace di Pugno di Fuoco
si addolcirono un attimo, perdendo un poco di ostilità.
“Senti, so di
avere esagerato un pochino, ma non credo sia il caso di…”
“Scusati un’altra
volta, Ace. E assicurati di seguire il mio consiglio prima, vedrai che dopo mi
ringrazierai.” Lo interruppe prontamente il biondo, liberandosi dalla presa del
fratello con uno strattone e facendo per avanzare in mezzo alla folla, ma venne
inaspettatamente fermato un’altra volta, questa volta al braccio.
“Sai come la
penso, sui bordelli.” Sussurrò minaccioso Pugno di Fuoco, assottigliando gli
occhi all’ombra del proprio cappello.
La fronte di
Marco si corrugò in risposta al tono minaccioso dell’altro, facendo aumentare
in un instante la temperatura circostante.
Tutti quanti i
presenti indietreggiarono impauriti, sentendo l’atmosfera farsi pesante al
tatto. Incredibile, il potere di quei due era percepibile a pelle, sembrava che
l’aria si fosse fatta improvvisamente rovente.
“Conosci le
regole di papà. Niente liti gravi tra fratelli.” Lo avvertì Ace squadrandolo
minaccioso “Non voglio litigare con te Marco e ti ho già detto che mi dispiace.” Marcò bene le ultime
parole con un po’ di fatica, sperando di riuscire a farle entrare bene in testa
al biondo.
Da lontano Satch imprecò tra i denti, vedendo la situazione degenerare
lentamente. Questa volta Ace aveva detto qualche parola di troppo per Marco e
sembrava proprio che le cose non si sarebbero risolte con delle semplici scuse.
Tutto perché
Marco aveva messo di mezzo i bordelli. Accidenti, eppure sapeva che Ace gli
odiava dal più profondo dell’anima! Come gli veniva in mente di ordinargli di
andare a sfogare i suoi bassi istinti in uno di quei postacci?
Ace poteva anche essere un donnaiolo incallito, ma aveva anche lui i suoi
principi. E pagare una donna per qualche ora da spendere sotto le lenzuola non
rientrava tra questi.
“Marco deve
essersiinfastidito parecchio per
reagire così.” Si sentì grugnire Jaws, mentre la
temperatura del corridoio cominciava a far sudare e scottare la pelle dei loro
fratelli più giovani.
“Prepariamoci a
dividerli in caso di bisogno.” Sbuffò Satch, mettendo
mano alla spada che portava al fianco destro, percependo tuttavia una brutta
sensazione allo stomaco. Quella situazione non gli piaceva. Non gli piaceva per
niente.
“Che succede?”
intervenne una voce suadente ed allarmata alle loro spalle. Vista si voltò,
incontrando la figura leggiadra di Penelope, accostata da quella più minuta
della naufraga. Entrambe avevano un’espressione confusa e la bionda era
visibilmente sudata.
Sarebbe stata una
bella visione se soltanto la situazione non fosse stata così critica.
“Ace e Marco
stanno per suonarsele.” Le rispose velocemente Satch
accigliandosi, nell’avvertire l’aria cominciare a farsi irrespirabile.
“Cosa??!!”
esclamò l’infermiera portandosi le mani al viso“Mio dio, no! Fate qualcosa! Il capitano…!”
“Sì, Penelope lo
sappiamo.” Tagliò corto Jaws, indurendo la propria
espressione, senza mai staccare lo sguardo dai due, attorno ai quali si era
formato un enorme spazio vuoto.
“Penelope…?”
La voce sottile
ed incerta della naufraga attirò l’attenzione dell’infermiera sulla più
giovane, spingendola a staccare gli occhi cerulei da quello spettacolo
preoccupante per posarli sull’espressione confusa e preoccupata della ragazza.
La donna vide
quest’ultima alzare un dito indice verso i due comandanti.
“Tutto bene?” domandò con pronuncia
stranamente buona, riferendosi sicuramente a quello che stava avvenendo a pochi
metri da loro.
Penelope si
incupì un attimo, avvertendo una strana sensazione sottopelle, come se qualcosa
le stesse sfuggendo, ma non sapeva cosa. E sebbene non riuscisse a togliersi di
dosso quell’impressione, sforzò un sorriso nel risponderle.
“Tutto bene,
tesoro. Stai indietro, mi raccomando.” Si raccomandò prendendola delicatamente
per le spalle per suggerirle di rimanere indietro con lei. La temperatura ormai
si era fatta a dir poco soffocante e intanto quei due non accennavano a smetterla
di guardarsi in cagnesco. La bionda tremò, percependo che da lì a poco sarebbe
come minimo scoppiato un disastro.
Davanti a lei,
trattenuta ancora dalle belle mani curate dell’infermiera, la naufraga si era
intanto accigliata, ignorata da tutti. Senza preavviso si divincolò dalla presa
di Penelope, avanzando con decisione verso di due, provocando di conseguenza lo
sgomento generale.
“Scricciolo!”
esclamò allarmato Satch non appena si vide passare
accanto la ragazza, che però non parve neppure curarsi di quel richiamo,
continuando a marciare senza mai voltarsi.
Fu allora che
Penelope si accorse, insieme a Satch e gli altri
comandanti di un particolare a dir poco sorprendente: a differenza di loro, che
erano sudati ed ansimanti a causa del calore emanato dai due, la ragazza era
fresca come una rosa, e camminava in mezzo all’aria rovente senza dar segno di
percepire alcun cambiamento.
Atto 3, scena 2, Arioso del primo mistero
Camminai fino a
Marco ed il ragazzo di nome Ace, come mi era stato detto da Penelope poco prima,
ancora intenti a guardarsi in cagnesco. Io proprio non capivo. Che senso aveva
stare lì fermi senza dirsi niente? E poi perché gli altri attorno a restavano
lì a guardarli come se dovessero esplodere da un momento all’altro?
Mi avvicinai
ancora per un po’, guardandoli incuriosita, fermandomi a meno di un metro da
loro che intanto si erano voltati a guardarmi allibiti. Le loro espressioni mi
fecero un poco tentennare: che avevo di strano?
Vidi Ace sbarrare
gli occhi incredulo e Marco sussurrare qualcosa.
“Shinji rare nai…”
Io guardai
entrambi, cercando di capire cosa gli stesse prendendo, sentendomi un pochino
sotto pressione, notando inoltre che non solo loro, ma anche tutti gli altri
uomini della nave mi stavano fissando a bocca spalancata.
Ma insomma, cosa
stava succedendo? Avevo fatto qualcosa di sbagliato?
Mi affrettai a
concentrarmi sui due ragazzi davanti a me: meno consideravo il silenzio
piombato attorno a me, più sarei stata in grado di parlare e di capire quello
che stava accadendo.
“Marco-san?” dissi
aggiungendo quella strana parola alla fine del nome. Chissà cosa significava. “Daijobu?” ripetei
sforzandomi di dare una pronuncia decente a quell’unica parola che avevo
imparato.
Di colpo poi
sentii attorno a me tutti quanti tirare un sospiro di sollievo.
Confusa mi voltai
verso Penelope che aveva smesso di boccheggiare e mi guardava più allibita che
mai con la scollatura della divisa che le grondava di sudore.
Un momento, mi
dissi, accorgendomi solo in quel momento che tutti quanti attorno a me Marco ed
Ace erano sconvolti alla stessa maniera.
“Ma che succede?”
sussurrai ancora guardandomi attorno, non vedendo nemmeno arrivare alle mie
spalle Penelope che mi spinse dolcemente in avanti, in direzione della sala
mensa, sussurrandomi qualcosa di incomprensibile all’orecchio.
Non cercai di
oppormi a quel gesto, ma non potei fare a meno di lanciare un’ultima occhiata
interrogativa a Marco e a Ace che ancora non smettevano di seguirmi con sguardo
inebetito.
Atto 3, scena 3, da qualche parte nella Rotta
Maggiore
Sulla superficie
cristallina del mare piccoli e grandi pezzi di legno intorpidivano l’acqua,
diventando man mano sempre più frequenti verso un singolo punto dove, mezzo
sommerso, sorgeva il cadavere di un brigantino, abbandonato alla corrente senza
che alcun segno di vita si levasse da quello che rimaneva di lui.
A pochi metri da
loro, il grande e regale veliero dalla polena a forma di drago, assisteva
pigramente e quasi altezzosamente a quello spettacolo pietoso, mettendosi lentamente
in panna accanto ai resti di quella che, forse, un tempo era stata
un’imbarcazione di notevole pregio. Sull’albero maestro, sventolata da una
leggera brezza, la jolly roger dalle tre cicatrici
sorrideva, quasi ridendo macabramente di quel tragico spettacolo.
A bordo della Red
Force, di tutt’altra opinione era l’equipaggio,
accostatosi uno per uno lungo il fianco sinistro della nave, per meglio
guardare quello paesaggio desolato.
“Miseriaccia …”
imprecò a mezza voce Yasopp poggiando una mano sul
bordo della nave, sbarrando gli occhi a quel drammatico panorama, sicuramente
epilogo della tempesta dalla quale si erano ben curati dal tenersi fuori giorni
prima.
Accanto a lui,
accompagnato come sempre dall’acre odore di nicotina che proveniva dall’immancabile
sigaretta tenuta tra le labbra, Ben guardò di sbieco le travi di legno
scheggiate, osservando apparente freddezza i corpi senza vita di quei pochi
che, non essendo ancora stati ancora portati via dalla corrente, galleggiavano
inermi.
La Rotta maggiore
non perdonava quelli che l’attraversavano a cuore troppo leggero e quella a cui
stavano assistendo i pirati del temuto Imperatore Rosso ne era la prova.
“Che si fa
capitano? Cerchiamo qualche superstite?” suggerì il Vice-capitano scoccando
un’occhiata alla figura poco distante da lui, come al solito posta in prima
fila rispetto agli altri.
Delle lingue
rosso sangue ondeggiarono in aria, mentre gli occhi ben attenti del capitano
sondavano critici le acque dinanzi a lui, come se stesse mettendo lentamente
insieme tutti quei pezzi di legno morti.
“Due di noi
prendano la scialuppa e cerchino di trovare qualcuno che respiri ancora. Poi
vedremo cosa farne.” Decretò infine il rosso voltandosi subito, facendo
ondeggiare maestosamente il mantello nero calato sulle sue spalle per tornare a
sedersi con uno sbuffo ai piedi del grande ombrellone posto sul ponte
principale, attorniato da una rigogliosa e ben tenuta foresta di palme da
cocco.
La mano bruna
venne passata rapidamente sulla fronte, massaggiandola leggermente per poi
venire abbandonata nuovamente sulle ginocchia, non appena la figura di Ben Beckman, con una vena di preoccupazione che gli solcava il
volto, si accostò a lui.
“Poi vedremo cosa
farne?” lo citò alzando un sopracciglio il suo vice, incrociando al contempo le
braccia al petto “Non ti facevo così selettivo nei confronti dei naufraghi, Shanks.”
“Infatti.”
Rispose tranquillamente l’imperatore, cacciando indietro la testa per
crogiolarsi meglio all’ombra ristoratrice dell’enorme parasole.
“Ma sai, non sai
mai cosa può capitarti quando a colare a picco è una nave di schiavi.” Concluse
lasciando basito l’altro.
“Lo scafo della
nave è più alto del normale.” Spiegò meccanicamente il capitano, sorridendo
inconsciamente nell’immaginarsi l’espressione dell’amico, certo che quel
particolare gli fosse sfuggito. Essere capitano non era solo una questione di
titolo. “E questosignifica che nella
nave fosse presente almeno un ponte in più per favorire il trasporto di
qualcosa di molto pesante ed ingombrante.”
A quel
ragionamento rapido e coinciso Ben sorrise, sfilandosi dalla bocca la sigaretta
ed poggiandosi di schiena al grande pilastro che formava l’ombrellone.
“E facendo due
più due con il numero di cadaveri…” aggiunse poi
abbassando un poco la voce con fare cupo il Rosso “… non è difficile arrivare a
questa conclusione.”
Una nuvola di
fumo venne soffiata pigramente fuori.
“E nel caso
becchiamo uno dell’equipaggio che si fa?”
La mascella
puntellata da leggera barbetta si serrò leggermente,aprendosi poi solo per far uscire un ordine
che, Ben capì subito, non ammetteva repliche.
“Dategli qualcosa
da bere e da mangiare e poi lasciatelo a mollo.”
Quello non era
senz’altro un argomento da portare avanti, così il vice cambiò argomento con
abilità magistrale, facendosi saltare in testa la prima cosa che gli venne in
mente.
“Nella scorsa
isola la gente parlava del vecchio Newgate, pare
abbia bazzicato da queste parti ultimamente…” soffiò
calmo aspettando sapientemente la risata del capitano sferzare l’aria come una
ventata di aria fresca, come da copione in casi simili.
“Il vecchio?”
rise il rosso rimettendosi scompostamente dritto, come suo solito “Questa poi!
Credevo si sarebbe diretto ad Est.” Constatò mentre si rialzava, puntando la
mano destra sul rispettivo ginocchio.
“Vuoi fargli una
visitina? I ragazzi cominciano ad essere stanchi di questa calma…”
propose accennando ad un sorriso Ben, “… un poco di movimento non sarebbe
male.”
La figura
ammantata del rosso di fermò pensierosa, valutando attentamente quelle parole.
“Uhmm … ma sì perché no. In fondo un po’ di riscaldamento
con un paio di flotte della marina per sgranchirci le ossa non è una così cattiva
idea.” Scherzò allargando di nuovo un sorriso sul proprio volto, risparmiato
ancora dai segni del tempo.
A quella battuta
Ben ridacchiò, scuotendo visibilmente le larghe spalle: sempre il solito
tanghero.
“Non essere così
pessimista,capitano, magari questa volta ce ne mandano 4, tanto per andare sul sicuro.”
Ne seguì la
risata allegra e poco convinta del capitano, che decretò la fine della loro
conversazione.
Atto 3, scena 4, poco lontano nella Rotta Maggiore
“CHE COSA???”
Kobi ed Hermeppo si
irrigidirono istantaneamente alla potente voce del loro superiore, ancora
occupato a cercare di non stritolare il lumacofono
dal quale gli era appena giunta una notizia che mai si sarebbe aspettato dal
quartier generale di Marineford.
Dall’altro capo
del mezzo di comunicazione il Grande Ammiraglio Sengoku
ringhiò appena, di fronte a quel vero e proprio attentato al proprio udito, sul
quale però fece attenzione a sorvolare a causa della gravità della situazione.
“Hai sentito Garp. Sembra che il Rosso e Barbabianca
siano più o meno sulla stessa rotta.” Spiegò nuovamente, lisciandosi nel
frattempo la treccia che gli legava il pizzetto del mento.
La possente
mascella di Monkey D. Garp
si serrò con ostinata rabbia, nell’immaginarsi la faccia da schiaffi di quel
Rosso. Non avrebbe mai perdonato quel maledetto imperatore di aver spinto Rufy, suo nipote, sulla strada della pirateria.
La telefonata di Sengoku era giunta tanto gradita quanto inaspettata,
facendolo richiamare da un suo sottoposto con urgenza nella cabina di
telecomunicazioni, lasciandolo basito alla più inaspettata ed odiosa delle
comunicazioni.
Le braccia del
vice-ammiraglio si irrigidirono, gonfiando pericolosamente le grosse vene che
le percorrevano a tratti, tirando così la stoffa dell’impeccabile divisa bianca.
“Te la senti di
intercettarlo?” azzardò il superiore dopo un attimo di silenzio.
“DANNATAMENTE
SÌ!!!!” fu il ruggito che gli rispose prima che la comunicazione venisse
bruscamente interrotta, lasciandolo da solo con un terribile e doloroso fischio
nelle orecchie.
Atto 3, scena 5, Moby Dick
“Zehahahaha!”
La risata
stridente di Marshall D. Teach si propagò nella sala
mensa con una vibrazione a dir poco fastidiosa, mentre accanto a lui Ace, con
un broncio offeso e preoccupato, lanciava occhiatine alternate sia al tavolo
dei comandanti che a quello delle infermiere. Nel primo, seduto scomposto sulla
sedia come suo solito, Marco faceva finta che non fosse successo nulla tra
loro, rispondendo alle sue occhiate con indifferenza. Nel secondo Ace puntava,
insieme alla Fenice, la figurina tutta preoccupata e rannicchiata su sé stessa
della naufraga.
“Che strana
ragazzina, zehahaha!” continuò la propria risata il
pirata accanto a lui, in qualche modo divertito da quello che Ace gli aveva
raccontato poco prima. Il comandante in seconda studiò per un attimo
l’espressione impaurita della ragazza, tranquillizzata a stento dalle parole
che Penelope cercava di sussurrarle con fare rassicurante all’orecchio, per poi
afferrare con stizza il bicchiere di latte davanti a sé e berne il contenuto di
getto.
Ancora non
riusciva a capacitarsi come fosse stato possibile. Non poteva essere vero.
L’aria che si era formata attorno lui e Marco era un concentrato di aria calda
formata dai loro rispettivi fuochi. Il solo avvicinarsi di un metro avrebbe
come minimo provocato senso di spossatezza, se non uno svenimento in piena
regola a causa della rarefazione dell’aria.
Ondeggiò il bicchiere ormai vuoto con sguardo
perso ed accigliato.
Doveva capirci
qualcosa.
“Senti Teach…” disse automaticamente senza neanche mai spostare lo
sguardo dal calice vuoto, interrompendo inconsapevolmente la risata sguaiata
dell’altro “… hai mai sentito parlare di persone capaci di resistere a
temperature altissime?” chiese infine, sperando in cuor suo che il proprio
sottoposto, provvisto di ben più esperienza di lui, potesse dargli una mano.
“Mmmmh…nah. Nulla di nulla.”
Rispose velocemente l’energumeno infrangendo le proprie speranze sul nascere.
Sospirò, alzandosi dal tavolo per poi andarsi a risedere a quello dei
comandanti. Ne avrebbe parlato con papà e poi avrebbe avuto tutto il tempo di
scoprire qualcosa sulla naufraga durante la mattinata.
Intanto dietro di
lui Teach non aveva smesso di ridacchiare nel mentre
i suoi occhietti stralunati scrutavano il corpicino della ragazza con un non so
che di avido. Nella sua mente Barbanera formulò una serie di pensieri,
accentuando il proprio ghigno man mano che prendevano forma sempre più ben
definita.
La risata
cavernosa di Edward Newgate fece saltare leggermente
sulla propria sedia la naufraga, distraendo al contempo Teach
dalle proprie riflessioni.
Davanti al
capitano, stava in piedi Ace, affiancato incredibilmente da Marco, tutto
occupato a calcare meglio il cappello arancione sulla testa mora del fratellino.
A quella vista Teach trattenne a stento una smorfia.
“Tse!”
Avevano già fatto
pace.
Il sorriso
compiaciuto di Edward Barbabianca svettava appena da
sotto i propri baffi a mezzaluna, mentre davanti a sé i suoi figli si
riprendevano a vicenda come dei poppanti, dopo avergli riferito delle novità
riguardanti la loro naufraga, a quanto pareva, priva di nome proprio.
“Dunque la nostra
piccola ospite , oltre a non avere memoria, non risente del calore delle vostre
fiamme.” Ricapitolò in breve il gigante, indirizzando il proprio sguardo sulla
ragazza per un istante e subito dopo tornare sui due davanti a sé.
“E non volete
proprio dirmi il motivo che vi ha spinto ad alzare le armi tra di voi,
figlioli?” chiese con tono divertito mentre sia Marco che Ace si bloccavano e
dirigevano lo sguardo da un’altra parte, imbarazzati.
Il biondo che si
stava strofinando nervosamente il retro del collo sbuffò, tornando poi ad
affrontare gli occhi del padre.
“Colpa mia, papà.
Ho detto qualcosa che non avrei dovuto.” Ammise abbassando leggermente la testa
in segno di scuse.
Ace si voltò
stupito verso il biondo per poi scrollare la testa
“E io che dovrei
dire? Mi sono comportato peggio di un adolescente nel pieno della pubertà.”
Disse a mo’ di scusa il moro, evitando di incrociare lo sguardo dell’altro che
però, sotto lo sguardo divertito del comandante e degli altri, tra cui Satch, non permise che Ace avesse l’ultima parola sulla
questione.
“Piantala di colpevolizzarti.
Sono stato io a tirare fuori quella cavolata dei bordelli.”
“Già ma sono
stato io a farti perdere la pazienza!”
“E io avrei
dovuto tenermela la pazienza.”
“Mi sono
comportato come un -…”
“Tu ti comporti
sempre da bambino.”
“Ehi! Non darmi troppa
ragione!”
Dal loro tavolo Satch, Jaws e Vista si
scambiarono delle occhiatine complici, nel vedere la piega che aveva preso il
loro discorso.
“Hanno intenzione
di litigare anche su chi ha torto?” chiese il comandante in quarta, lanciando
un’occhiata burbera a Satch che intanto si era
appoggiato con un braccio sullo schienale della sedia, per guardare da lontano
la ragazzina che ancora tentava di mangiare qualcosa a causa delle condizioni
in cui gravava ancora il suo fisico, ancora parecchio debilitato dal naufragio.
“Non so.” Rispose
velocemente il biondo scrutando bene la ragazza che ancora non si accorgeva di
lui, troppo occupata a cercare di addentare e mandare giù senza danni un
biscotto.
“Ma credo faranno
bene a sbrigarsi, lo scricciolo laggiù ora più che mai ha bisogno di un nome.”
Atto 3, scena 6, Arioso del secondo mistero
Ondeggiai
imbronciata le gambe, guardando stranita sia Marco che Ace continuare
confabulare tra di loro proprio davanti a me dopo aver parlato per parecchi
minuti con il capitano della nave. Eravamo ancora nell’immensa sala colma di
cibo della nave e io avevo mangiato pochissimo sia a causa del dolore che mi
provocava ancora un poco muovermi ed ingoiare qualcosa di solido, sia per le
occhiate che mi sentivo lanciare dagli altri della nave.
Mi morsi il
labbro inferiore, abbassando lo sguardo sulla sedia sulla quale ero seduta.
Odiavo stare al centro dell’attenzione. Almeno questa cosa di me l’avevo
capita. Perfetto, magnifico, avevo scoperto di essere una fifona in piena regola.
Ma c’era qualcosa di me che fosse positiva?!
I miei occhi scattarono nuovamente sui due
ragazzi di fronte a me, ritrovandoli ancora a fissarmi nel mentre portavano
avanti quella che pareva essere una conversazione su di me.
Serrai di denti,
cercando di scaricare il fastidio che mi stava assalendo lo stomaco, e mi
accigliai, senza preoccuparmi delle rassicurazioni che Penelope mi stava
sussurrando all’orecchio né che quei due mi vedessero mentre mi immusonivo.
Se soltanto avessi potuto lontanamente intuire
a grandi linee quello che si stavano dicendo mi sarei anche potuta
accontentare, ma cavoli, quella stranissima lingua sembrava complicatissima!
Altro che Anatawa e Watashiwa …
Mi concentrai un
altro po’ sulle espressione del biondo e del moro enotai che quest’ultimo era stranamente serio.
Non sorrideva come al solito e questo mi mise un po’ di ansia.Lo guardai ancora un po’ negli occhi neri
come la brace, ma non ottenni alcuna reazione da parte sua. Il suo volto, che
il più delle volte mi era parso come quello di un bambino pieno di lentiggini,
in quel momento non sorrideva più, anzi sembrava volesse addirittura cogliere
con quell’attenta analisi qualcosa di me che gli era sfuggita e che ora lo
lasciava preoccupato.
Ma che cosa avevo
fatto?
Un gomito di
Marco, diretto alle sue costole, gli fece smettere -con mia immensa
gratitudine- di guardarmi in quel modo, facendolo piegare leggermente sul
fianco offeso, massaggiando ed imprecando (almeno così capii dalle smorfie sul
suo viso) a mezza voce.
“Teishiwakanojo no sono yōni mite. Osoroshiidesu.” Lo
ammonì il biondo ed Ace, come se si fosse risvegliato da uno stato di
catalessi, strabuzzò un attimo gli occhi per poi bofonchiare qualcosa in
risposta calcandosi un poco il cappello sulla testa.
“Ah…Gomenasai.”
Stranita dalla
situazione cercai lo sguardo di intesa di Marco, ma quello che trovai fu uno
sguardo molto simile a quello di prima che però venne interrotto molto prima
rispetto a quello di Ace.
Vidi il biondo
girare leggermente la testa verso Penelope, affiancata da Carol per la prima
volta da quando si erano messi a parlare di fronte a me.
“Soredewa, watashi-tachigaataerunamae?
Subete no aideadesuka?”
Inutile dire
quanto capii di quello che aveva detto. Un indizio: al posto degli occhi mi
apparvero delle girandole. Dietro di me Penelope si mise una mano sotto il
proprio mento sottile con fare pensieroso, lanciando poi un’occhiatina di
intesa a Carol che in risposta le annuì facendo le spallucce.
“Nani Momo dō desuka?”
Alle parole dell’infermiera
bionda vidi Marco inarcare un sopracciglio incerto, seguito a ruota da Ace che
sbarrò gli occhi sorpreso.
“Momo?” ripeté il moro, lasciandomi più
confusa che mai. Cos’era “momo”?
“Momo nazedesuka?”
E riecco di nuovo
“momo”, pensai in preda al panico.
A quella che
pareva essere stata una domanda, il sorriso angelico di Penelope si allargò ancora
di più e la risposta uscì talmente veloce da farmi desiderare di potermi alzare
da quella sedia ed andarmi a nascondere il più in fretta possibile da qualche
parte nella nave.
Il volto di Ace
si fece comicamente più lungo di due volte del normale e io mi lasciai sfuggire
di getto una risatina divertita.
Ne uscì una sorta
di trillo morbido e io sbarrai gli occhi guardandomi attorno per vedere se qualcuno
avesse sentito come me quello strano suono uscirmi dalla gola.
Ma erano ancora
troppo occupati a guardare Penelope per prestare attenzione a me.
Mi portai una
mano alla gola, colta da una strana inquietudine. Sentivo il petto tremare
dall’interno e la bocca del mio stomaco stringersi fastidiosamente, sentendo in
me come l’avvisaglia di aver fatto qualcosa di … sbagliato. Qualcosa di non
concesso e estremamente … pericoloso.
Ed ebbi paura.
Una paura vibrante mi si infilzò nel cuore come un pugnale affilato con cura,
oscurandomi la vista e rendendomi sorda a quello che stava accadendo attorno a
me. I miei pensieri di erano zittiti improvvisamente rendendo la mia mente
silenziosa, ma solo per un attimo prima che un eco, il fantasma di un rumore
lontano mi sfrigolasse nella mente.
Il giungere di
quella strana sensazione venne però sostituita istantaneamente da un dolore
lancinante all’altezza delle tempie, cosicché prima di riuscire a catalogarlo mi
piegai in due dal dolore con una mano alla tempia, quasi volessi inconsciamente
fermare quella sorta di enorme spillo che lentamente sembrava star penetrando
la mia carne.
Chiusi con forza
le palpebre, cercando nel buio dei miei occhi con una mano tesa un appoggio,
mentre sentivo il mondo mancarmi da sotto i piedi.
Lanciai un
piccolo grido. Poi un’oscurità pesante e densa mi accolse come la coltre di un
letto.
Atto 3, scena 7
Sul cielo che
sgombero e sereno che aleggiava attorno alle vele della Red Force,
un gabbiano, forse ben più grande del normale, stavasorvolando tranquillamente il grande veliero,
scrutando con i propri occhi scuri e tondi il gran movimento che si era creato
sopra di esso, attirato dal gran chiasso che uno di quei fastidiosi esserini a due gambe stava creando con ripetuti e petulanti
suoni vocali, mentre gli altri suoi simili si erano accalcati attorno a lui,
tenendosene a debita distanza.
“Vi prego!!” urlò
l’uomo, cercando, inutilmente, di mettersi in piedi, ricadendo ogni volta a
bocconi sul ponte, provocando il silenzio grave dei presenti.
Più avanti degli
altri, esattamente davanti all’unico naufrago che erano riusciti a ripescare, Shanks osservava impietoso quell’uomo allungare disperato
le braccia verso di lui, implorando quel poco di pietà che, dopo aver ricevuto
un minimo di acqua e di cibo avanzato, era venuta improvvisamente meno quando
la sua bocca arsa aveva in avventatamente lasciato scivolare il suo grado sulla
nave affondata pochi giorni prima.
“Vi scongiuro!
Non lasciatemi qui! Non ributtatemi in mare!” esclamò quel poco di voce che la
sua gola secca e stridente riusciva a dargli, strisciando a poco a poco verso
le caviglie del capitano pirata, ma solo per venire bloccato da una lunga lama
affilata piantatasi davanti a sé a mo’ di avvertimento.
“Che succede
Vice-capitano?” rispose con tono gioviale il Rosso, stendendo le labbra in un
sorriso che, per quanto innocente all’apparenza, nascondeva la più ferrea delle
decisioni “Non è da un uomo della sua carica
prostrarsi in quel modo davanti a dei pirati.”
Gli occhi scuri
dell’imperatore si riaprirono incupendosi di colpo “Non vorrà mica prendere
esempio da quei poveracci che aveva messo in catene, no?”
Un brivido di
terrore percorse la schiena dell’ex mercante di schiavi nel momento stesso in
cui quella voce, bassa e minacciosa come il ringhio di un leone che vuole
scoraggiare la propria preda, gli aveva penetrato le orecchie, mandandolo ancor
più nel panico.
Lui non voleva
morire! No! Aveva visto come giungeva la morte stando in mezzo all’oceano sotto
il sole cocente! Non poteva sopportare l’idea di impazzire per il caldo e bere
per la disperazione l’acqua piena di salsedine del mare solo per poi morire tra
conati di vomito e versi dettati dal delirio precedenti solo alla morte.
Rabbrividì. Non
se in giro ci fosse stata ancora quella cosa.
“Vi imploro!Vi pregoviprego! Non lasciatemi in questo posto sperduto!”
rincarò la dose di suppliche l’uomo, riuscendo a mettersi a ginocchioni ed a
unire le mani in segno di preghiera.
“A farci
naufragare è stato un Re dei Mari! Non voglio finire nella sua pancia!”
Vi fu un attimo
di silenzio. Ben Beckman smise per un istante di
aspirare il fumo dalla propria sigaretta, guardando stralunato l’uomo, venendo
imitato dal resto della ciurma.
Il naufrago
scattò la testa da ogni parte, ancora tremante per lo sforzo che aveva compiuto
per dire quelle parole, incrociando le occhiate prima allibite poi incredule e
successivamente divertite dei pirati che scoppiarono all’unisono in un boato di
risa.
“Ahah…” cercò di riprendersi Shanks,
accovacciandosi davanti allo schiavista, tenendosi la pancia con una mano per
via dell’improvvisa risata “Sai amico, se non fosse una cosa tecnicamente
impossibile ci avrei anche potuto credere! Davvero! Sei un attore nato! Ottima
interpretazione!”
“È la verità!” ribattè prontamente l’altro con lo sguardo pieno di terrore
“Di solito i Re dei Mari non escono dalle fasce di bonaccia! Ma questo…questo…” balbettò non
sapendo neppure lui come descrivere quell’immenso serpente zannuto che aveva
visto spezzare in due la sua imbarcazione con un rapido movimento di coda.
Poi gli venne in
mente una cosa.
Si ricordò che,
pochi istanti prima dell’apparizione di quell’orrendo mostro gli era successo
qualcosa nella sottocoperta dove stavano legati gli schiavi. Era andato come
sua consuetudine a dare un’occhiatina al lavoro svolto dai suoi sottoposti,
trovando, in mezzo a tutti quei pezzi di carne rumorosi e ancora abbastanza in
forze per implorare pietà, una ragazza di circa vent’anni stranamente piccola e
silenziosa che lo guardava con occhi supplichevoli e pieni di lacrime.
Era stato in quel
momento che si era ricordato che, dal momento stesso in cui avevano preso il
largo, quella piccola creaturina, che a detta del
capitano avrebbe fruttato loro non pochi spiccioli, non aveva mai aperto bocca,
se non per respirare appena l’aria fetida ed insalubre della sottocoperta.
E lui, ghignando
per aver trovato un delizioso e semplice passatempo, si era avvicinato a lei e
le aveva fatto un paio di proposte con parole oscene e carezzevoli, ma solo per
ottenere una scrollata di dissensoda
parte sua.
Irritato da
quella mancanza di rispetto gli aveva afferrato con forza i capelli,
strattonandola così tanto da far uscire da quella gola il primo suono dopo
settimane di silenzio.Ma quello che
sentì non era un gridò, ma qualcosa di molto simile ad un canto, una nota
musicale prolungata e poi bloccata a metà da un’espressione terrorizzata.
Aveva fatto
appena in tempo a chiederle che cosa avesse appena fatto, prima che il demone emergesse
dalle acque, accompagnato da una tempesta paragonabile solo ad un uragano.
E di colpo
l’ex-vice capì quello che doveva essere accaduto.
“È stata quella
strega!!” sbraitò alla fine, buttandosi improvvisamente al colletto del rosso,
perdendosi nei propri ragionamenti che, alle orecchie dei pirati della Red Force, parevano più i deliri di un pazzo. Gli occhi
dell’uomo erano già pieni di lacrime mentre i suoi occhi, ciechi per il
terrore, imploravano silenziosamente il rosso di credergli.
“È stata lei a
richiamarlo! Se ne stava zitta solo perché voleva dirgli di attaccare al
momento giusto!”
Quelle parole
furono ascoltate con non poca sorpresa da parte di Shanks
che, trovandosi assalito fisicamente da quell’individuo e non potendone più di
quella messa in scena, liberò il proprio Haki,
riversandolo sul malcapitato come un secchio d’acqua, ritrovandoselo in meno di
un secondo accasciato a faccia a terra con ancora le mani ben strette alla sua
camicia.
Guardò un poco
sconsolato quella figura inerte ai propri piedi, mentre la rotonda mole di Lucky si avvicinava ballonzolando a lui, con accanto Yasopp e Ben, immancabilmente accompagnato dalla scia di
fumo proveniente dalla sua bocca.
“Allora, che ne
facciamo?” mugugnò Lou tra un boccone e l’altro del
proprio cosciotto.
“Sei ancora certo
di volerlo mollare in acqua?” si associò Yasopp
incrociando le braccia al petto.
A Shanks non servi guardare in viso anche il proprio vice per
capire quello che stava pensando.
Sospirò,
abbassando la testa rossa verso il pavimento. Gli era capitato di dover
compiere scelte difficili, ma questa proprio avrebbe voluto non volerla
prendere.
Si passò
nervosamente una mano tra le ciocche rossastre dei suoi capelli, per poi alzare
di scatto la nuca con uno scintillio deciso negli occhi.
Fine Atto Terzo
Tataratatatadaaaan!!
Buongiorno o buonasera belle signorine! Sono tornata! Spero che il capitolo vi
sia piaciuto e che abbiate gradito la presenza mascolina ed estremamente figa (Shanks fan club forever) del
nostro beneamato rosso dalle tre cicatrici! XD
Diamo il bentornato alla nostra eowyn278
e, anche se maya_90 pare non aver
fatto in tempo a leggere il capitolo e a recensirlo,vi ringrazio come sempre di
esserci!
Dunque dunque… ora che stiamo lentamente
scoprendo un bel po’ di cosette interessanti della nostra ignota, le cose
cominceranno a prendere una piega un po’ diversa.
So di aver detto nel precedente atto che non ci sarebbe potuta essere
la domanda, ma per vostra sfortuna…c’è!
Ed eccola qua!
Shanks lascerà a mollo il naufrago o se lo porterà appresso?
Occhio, questa decisione può avere dei risvolti interessanti ed
avventurosi in entrambi i casi! **
Vi lascio ai vostri commenti, spero di aver fatto un buon lavoro!! Kisskiss! Alla prossima
Su
richiesta di HUNTERGIADA…
Note di LIBRETTO: Jap>Ita
Shinji rare nai…> Non ci
posso credere… / Incredibile
Teishiwakanojo no sono yōni mite. Osoroshiidesu.>Smettila di guardarla in quel modo. La spaventi.
Ah…Gomenasai> Ah… scusa.
Soredewa, watashi-tachigaataerunamae? Subete
no aideadesuka> Comunque,
che nome le diamo? Qualche idea?
Kobi ed Hermeppo
avevano potuto capire molte cose del loro comandante nel corso del loro duro
allenamento atto a farli diventare, usando una tipica espressione di Monkey D. Garp, dei veri uomini,
ed avevano imparato di conseguenza qualsiasi cosa lo infastidisse, nei minimi
dettagli. Avevano notato, spesso a loro spese, come ogni parola, gesto o
comportamento fuori luogo provocasse una reazione specifica in Garp, che aumentava di intensità e gravità, procedendo per
livelli.
Una parola
azzardata, per esempio, corrispondeva ad un sorriso ed ad una lieve punizione
corporale, che variava a seconda del soggetto. Hermeppo
ne sapeva qualcosa, Kobi un po’ meno.
Un gesto
sbagliato e lievemente offensivo nei confronti dei superiori o dei compagni
portava ad una punizione più pesante ed ad almeno una settimana o più di
digiuno, ma solo dopo aver assistito ad almeno un centinaio di vene gonfiarsi
sul pugno del vice ammiraglio. Hermeppo ne sapeva decisamente qualcosa, Kobisicuramente
meno.
Un comportamento
decisamente poco rispettoso e menefreghista poteva portarti alla quasi morte,
dopo aver visto gli occhi del comandante oscurarsi di un’ira paragonabile solo
ad un uragano di proporzioni mastodontiche e le sue spalle tremare come scosse
da un forte terremoto. E qui Hermeppo avrebbe potuto
scriverci un libro sulle sue esperienze, Kobi,
fortunatamente, nemmeno una riga.
Tuttavia, quello
a cui le due promettenti reclute stavano assistendo, accostati come di consueto
al fianco del vice ammiraglio, usciva completamente dagli schemi da loro
creati.
Non c’era modo di
descrivere quello che stavano vedendo , anzi, forse c’era: un VULCANO prossimo
all’eruzione.
Come fosse
possibile che Shanks il Rosso avesse potuto ridurre
in quello stato il loro comandante dopo un semplice ed innocuo scambio di
battute era a dir poco incredibile, ma di certo sia Kobi
che Hermeppo avrebbero preferito che non accadesse.
“Tu…” sputò quasi tra i denti, che digrignavano rumorosamente,
Garp, puntando uno sguardo pieno di odio verso la
faccia sorridente del Rosso, ancora in piedi sul fianco della propria nave,
affrontando il vecchio da una distanza che, essendo scandita della presenza del
mare tra loro, poteva essere definita “di sicurezza.”
“TU…!!!” rincarò la dose il vice ammiraglio ricominciando a
tremare pericolosamente stringendo spasmodicamente i pugni, ormai gonfi e
pulsanti.
Dalla sua nave Shanks allargò il proprio sorriso, constatando quanto il
vecchio non fosse cambiato: sembrava ricordarsi bene di lui, anche se questo
pensiero non avrebbe dovuto rallegrarlo più di tanto.
“Lieto di vederti
ancora in forma, Garp.” Disse per nulla turbato dal
comportamento dell’alto.
Un ruggito simile
a quello di un leone proruppe dalla gola del marine, facendo finire Hermeppo direttamente tra le braccia di Kobi,
paralizzato anche lui per il terrore.
“FERMA LA TUA BAGNAROLA DANNATO MARMOCCHIO!!!”
Tutti sulla Red Force si portarono un dito alle orecchie, stappandosele,
sospirando. A volte si chiedevano se Shanks
nascondesse un lato masochista, specie Ben. Sapeva quanto il vecchio Garp fosse suscettibile e la scelta di non fermare la nave
e procedere comunque a vele spiegate, senza però calcare troppo sulla velocità
in modo tale da permettergli di scambiare qualche parola con il vice
ammiraglio, poteva essere definita in un solo modo: completamente folle.
Il Rosso
ridacchiò sotto i baffi, cercando in tutti i modi di trattenersi, anche se la
cosa gli pareva piuttosto difficile, assistendo in prima fila alle espressioni
esilaranti i Garp, imbufalito in quel momento più che
mai.
“Mi piacerebbe
fermarmi a fare quattro chiacchiere, Garp, ma vedi …”
disse con tono innocente grattandosi il retro della propria chioma purpurea,
simulando un imbarazzo che Yasopp avrebbe potuto
scommetterci anche la vita, era fasullo come un pezzo d’alluminio dipinto di
giallo spacciato per oro.
“Io e i ragazzi
andiamo di fretta, sai, stiamo andando a fare una visitina al Vecchio Newgate.” Spiegò, aprendo poi gli occhi e sorridendo
irriverente, indicando poi con fare furbesco la propria nave con un pollice
della sua unica mano “Se vuoi puoi unirti a noi per il resto del viaggio.”
“GGGGGGGGHHHHHHNNNNFFFFF!!!!!”
Fu la risposta imbestialita e sbuffata fuori dal naso del marine.
Quel marmocchio
se la stava cercando: non solo si stava spudoratamente prendendo gioco di lui
davanti a tutti i suoi subordinati, ma lo aveva anche invitato tra le righe a
far parte della sua ciurma! LUI! Un MARINE!!
“MOCCIOSO
SFRONTATO!!!! FERMA QUEL DANNATISSIMO PEZZO DI LEGNO
E VEDRAI COME TI INSEGNERÒ COS’È LA DISCIPLINA!!!!”
A quelle parole
tutta quanta l’adulta compostezza di Shanks si
dissolse come una bolla di sapone e, come d’abitudine, la sua lingua fece
capolino mostrandosi in una rumorosa smorfia infantile in direzione del più
anziano.
“Bleeeh! La disciplina e io non siamo mai andati d’accordo,
nonnino. Ti conviene arrenderti.”
Per poco Ben non
si piegò in due dalle risate come già stavano facendo Lucky
e Yasopp sotto l’ombrellone, al riparo dal forte
caldo al quale solo il loro capitano pareva resistere, mentre accanto a loro,
ad occhi stralunati, Roid Brinata guardava
completamente incredulo il modo di fare infantile del suo nuovo capitano.
“Ma… ma come…?” balbettò allibito senza
però riuscire a dare voce alle proprie parole, attirando su di sé non poche occhiataccie da parte degli altri pirati dell’equipaggio,
che avrebbero preferito non dover percepire la sua presenza.
“Ehm… ” mugugnò imbarazzato ed incerto sulla propria sorte
l’ex-schiavista, decidendo di non esporsi troppo per tenere cara la pelle.
“La prego, signore si calmi!” implorò Kobi al fianco del più anziano, non volendo neppure
immaginare come il signor Garp avrebbe scaricato la
rabbia non potendo mettere le mani sul diretto responsabile.
Hermeppo invece, vuoi per il caldo, vuoi per la
fifa, si era premurato di dileguarsi zitto zitto il
più lontano possibile dal vice ammiraglio.
Un ghigno intanto
si era formato sotto i baffi grigi del marine, provocando nei suoi sottoposti
un brivido lungo la schiena: conoscevano quell’espressione. Significava una
cosa sola.
“Ehi, Shanks. Non credi di aver esagerato?” si fece avanti il
vice capitano della Red Force, sotto lo sguardo
attento di Roid, che non si perdeva silenziosamente
nemmeno una battuta di quella strana conversazione.
“Naaah. Va tutto secondo i miei piani, tranquillo.” Fece
l’imperatore senza mai smettere di sorridere.
Ben inarcò un
sopracciglio, dubbioso delle sue parole.
“Tu, un piano?”
Neanche quando
una palla di cannone si diresse fischiando direttamente verso di lui, Shanks smise di ridacchiare, scaricando prontamente una
fitta quantità di haki sufficiente a far esplodere in
aria il meteorite di metallo lanciato proprio dalle possenti mani di Garp.
“Visto? Niente di
cui preoccuparsi.” Rincarò la dose il bel rosso visibilmente a cuor leggero.
“Vedo.” Rispose
con non molto entusiasmo Ben, togliendosi dalla bocca la sigaretta non ancora
accesa “E in che cosa consisterebbe questo tuo brillante piano?”
A rispondergli
bastò un ghigno furbesco da parte del suo capitano, voltatosi verso di lui
proprio mentre il suo haki faceva esplodere un altro
paio di bombe scagliate da poco.
“Andiamo da Newgate, mi sembra ovvio.” Disse Shanks,
assottigliando poi gli occhi in un sorriso “E il nonnetto
ci viene dietro.”
Poco dopo, Ben
diede l’ordine a mezzo equipaggio di mettersi ai remi, pregando tutte le
divinità marine a lui conosciute che Shanks non
finisse per esagerare come suo solito.
Atto 5, scena 2, Moby Dick
Una luce di pura
determinazione passò sugli occhiali scuri di Betty, per un breve istante prima
che, con gesto elegante e teatrale, allungasse una mano in avanti in segno di
comando, elargendo un unico e semplice ordine che mandò nel panico Momo,
nonostante non capisse il preciso significato di quelle parole.
“Prendetela!!”
esclamò la donna.
Momo sbarrò gli
occhi, nel vedersi in pochi secondi circondare da almeno una dozzina di
infermiere che scattarono immediatamente su di lei, allungando le proprie mani
smaltate (che a lei parvero più simile a zampe artigliate) nel tentativo di
afferrarla.
La ragazza riuscì
a sgusciare miracolosamente via dalle grinfie di tutte quelle donne,
indubbiamente agili come delle leonesse, facendosi disperatamente strada sotto
i tavoli della mensa, ormai quasi completamente vuoti.
I pochi presenti,
tra cui proprio il capitano e i suoi cinque fidati comandanti, guardarono con
malcelato divertimento quella specie di corsa ad ostacoli nella quale Momo si
era buttata di sua spontanea volontà.
Ace si piegò
all’indietro sullo schienale, mettendosi una mano sugli occhi per via del
troppo ridere, tenendosi nel frattempo la pancia, ormai dolorante, mentre al
suo fianco Satch, Marco, Jaws
e Vista si appoggiavano con ben poca dignità sul ripiano del tavolo, soffocando
come meglio potevano il divertimento ormai palese sui loro volti.
“Oddio! Non ce la
faccio- ahah- no davvero, ditemi che non è vero!”
biascicò senza ritegno il comandante della seconda flotta, passandosi una mano
sulla fronte, lasciata scoperta dal cappello penzolante dietro la propria
schiena.
Accanto a lui Satch tentò di rispondergli, ma dovette rinunciare non
appena, con la coda dell’occhio intravide lo scricciolo sfuggire nuovamente
alla presa di Carol, decisa più che mai come le altre a farle indossare quella
divisa da infermiera che, con passaggi ben studiati, finiva nelle mani di chi
si trovava più vicina alla naufraga, dando vita ad una specie di gioco della
palla avvelenata dalla quale però Momo pareva non aver alcuna intenzione di
partecipare, visto come scappava non appena si ritrovava di nuovo quel vestito
rosa scollato e fatto su misura per lei.
I pirati di Barbabianca sapevano bene quanto Mindy,
la più brava nei rammendi e negli aggiusti da sarta tra le infermiere, avesse
speso su quella divisa, oggetto che riponeva tutte le loro speranze di vedere
la piccola dispersa far parte del loro reparto.
“Eeek!!”
Peccato che Momo
non pareva essere della stessa opinione, a giudicare da come frenava ogni volta
alla vista di quell’indumento.
Accanto a loro
Edward Newgate faceva di tutto per non cacciare una
delle sue colossali risate, ma sembrava ormai al limite della sopportazione.
Le loro
sofferenze furono fortunatamente interrotte tuttavia da quella che pareva essere,
finalmente, una conclusione a quella corsa sfrenata che aveva fatto da
spettacolo a buona parte di loro: la naufraga si era improvvisamente
accerchiatada tutti i lati, senza
possibilità di scampo e, per quanto facesse scattare febbrilmente gli occhi
sotto tutti i tavoli a lei prossimi, finiva sempre per notare un paio di
stivaletti leopardati ben piantati a terra.
Dall’angolo
dell’occhio sinistro della ragazza fece capolino una lacrimuccia.
“Insomma!”scoppiò inaspettatamente, scuotendo le braccia
con fare impaziente, parlando nella sua incomprensibile lingua, lasciando di
stucco le infermiere “Non la voglio
mettere quella roba! Capito?! No! No e ancora no!!”
“Povero
scricciolo.” Su si sentì in dovere di dire Satch,
ghignando con il suo tipico modo di fare scherzoso ed ottimista, attirando su
di sé un’occhiataccia molto eloquente da parte di Ace. Sembrava che di recente
il moro non gradisse quel nomignolo. Eppure non era da poco che aveva
cominciato ad usarlo.
Azzardò ad un
sorriso nei confronti del fratellino, ricevendo però in risposta solo un
ringhio sommesso.
Il comandante in
quarta sospirò a quella reazione, alzando le mani e lo sguardo verso l’alto per
sott’intendere con non aveva detto nulla di male, continuando tuttavia a
sorridere imperterrito, mentre con la coda dell’occhio vide Vista alzarsi per
soccorrere la ragazza, da bravo gentiluomo.
Il comandante dai
lunghi baffi non fece però in tempo a compiere due passi, che già Momo sbalordì
sia loro che il resto della ciurma, aggirando con un paio di mosse l’attacco
simultaneo di due donne più grandi per poi salire il più in fretta possibile su
un tavolo e scavalcarlo, uscendo così dall’accerchiamento nel quale era caduta
pochi istanti prima.
All’inaspettato
risvolto della situazione alcuni fischi di incoraggiamento si levarono dai
tavoli, diretti alla ragazza che stava dando il meglio di sé nonostante i
larghi e scomodi vestiti di Marco le impacciassero in modo considerevole i
movimenti.
“Vai Momo!
Seminale!! Coraggio!!” scattò in avanti Ace con un braccio, esaltato manco
stesse assistendo ad una corsa di cavalli. Accanto a lui Marco lo guardò
sorridendo, tornando successivamente ad osservare la corsa sfrenata della
naufraga.
Erano passati
pochi minuti da quando avevano accompagnato Momo nella deserta sala mensa,
essendo ormai l’ora di pranzo passata da un pezzo, eppure, nonostante la
situazione pareva essersi alleggerita di parecchio, non riusciva a non pensare
a quella stranissima luce che aveva visto pulsare sotto la pelle della ragazza.
Poi il suo nome
urlato come una nota musicale neanche ventiquattr’ore
prima, l’apparizione di un Re dei mari fuori dal proprio territorio … Tutti
quegli episodi fuori dall’ordinario, anche per una ciurma come la loro,
sembravano collegarsi ad una sola persona: Momo.
Il biondo poggiò
il mento sulla mano, strofinandoselo appena con il palmo, avvertendo appena lo
strato di ruvida barbetta che lo ricopriva. Ai suoi occhi, quella ragazza, che
correva a perdifiato evitando ad ogni passo di incappare in un assalto delle
infermiere, non sembrava nulla di speciale. Il suo aspetto era assolutamente
normale, tuttavia…
I suoi occhi
azzurri si assottigliarono impercettibilmente.
C’era qualcosa
che lo lasciava perplesso.
Era stato un bene
che lui ed Ace si fossero premurati poco prima di informare il babbo di quello
che le avevano visto fare davanti all’infermeria. Si poteva dire che quella
notizia aveva risollevato il buonumore dell’imperatore, facendogli pregustare
non solo una nuova avventura, ma anche un nuovo componente da aggiungere alla
famiglia.
Già, perché che
Edward Newgate finisse sempre per adottare qualunque
individuo gli ispirasse simpatia e forza di volontà non era affatto un mistero
e quella ragazzina, per quanto indifesa e debole all’apparenza non faceva eccezione.
“Ehi, Marco. Tu
che fai? Non tifi per la tua pupilla?”
La voce di Ace lo
riscosse, facendolo sbuffare da una parte. Era mai possibile che non riuscisse
a fare il serio per più di dieci minuti?
“Aaah.” Aggiunse subito dopo il moro, sorridendo malizioso,
facendo scintillare i proprio occhi neri con malizia “Ho capito!”
Un braccio
muscoloso dell’altro gli circondò le spalle, scrollandolo con non molta
delicatezza.
“Tu speri nella
vittoria delle infermiere! Eh, sporcaccione?”
La Fenice avrebbe
ben volentieri sferrato una gomitata nello stomaco del fratellino in risposta,
ma si ritrovò a prestare nuovamente attenzione al centro della stanza, dove
Momo si stava dirigendo a grande velocità in direzione del babbo, sempre
seguita dalla mandria inferocita di infermiere.
Atto 5, scena 3, Arioso dello scricciolo contro i gatti
Mi gettai a
capofitto tra i piedi del capitano, aggrappandomi con disperazione ai suoi
pantaloni, respirando pesantemente per la lunga corsa.
Poco importava
che fino a poche ora prima non mi sarei neppure lontanamente sognata di fare
una cosa del genere. Cavoli, c’era la mia dignità in ballo! Di certo sapevo
poco su di me, ma di una cosa era certa:non mi sarei mai messa negli stessi succinti panni delle infermiere!
Mai e poi mai!
Cercai di riprendere
fiato, notando con mia immensa gioia che le infermiere si erano fermate,
stupite del mio gesto, mentre le mie mani afferravano con più convinzione
l’enorme caviglia del capitano.
Quella che mi
aveva spinto a cercare rifugio proprio dall’ultima persona che mi sarei mai
immaginata era stata un’idea dettata dalla disperazione, ma infinitamente
sensata in fin dei conti.
Del resto quel gigantone non mi aveva mai fatto nulla di male e, essendo
fino a prova contraria la persona con più autorità sulla nave, avrebbe potuto
in qualche modo sbrogliarmi da quella situazione di stallo.
Alzai gli occhi,
assumendo la faccia più disperata e supplichevole che riuscii a racimolare dal
più profondo del cuore, incontrando così gli occhi stupiti ed ancora un poco sbigottiti
dell’enorme uomo dagli strani baffi.
“Signor capitano…!” esclamaiinterrompendomi a causa del fiatone che sembrava non volersi decidere ad
abbandonarmi “La prego,… mi aiuti!... Non ce la faccio più … a correre!”
conclusi, poggiando poi sfinita la fronte sul tessuto ruvido dei suoi
pantaloni, sperando in cuor mio che fosse riuscito a comprendere almeno a
grandi linee il senso delle mie parole.
Non avevo neppure
la forza di spaventarmi, nemmeno quando sentii la risata cavernosa del gigante
perforarmi da parte a parte come una lancia. Sentii altre voci, più vicine,
raggiungere le mie orecchie confuse, ma chiaramente divertite.
A quanto pareva
il mio comportamento era stato di loro gradimento, anche se io avrei volentieri
fatto a meno di assumere il ruolo di pagliaccio della nave.
Vidi con la coda
dell’occhio Penelope avvicinarsi quatta quatta
sorridendo angelica come suo solito e io di tutta risposta mi aggrappai ancor
di più alla caviglia del capitano, aderendo completamente con il corpo ai suoi
pantaloni e sorreggendomi sia con le braccia che con le gambe, gonfiando le
guance per farle capire che ero arrabbiata con lei. Non mi aspettavo che anche
lei si mettesse a rincorrermi per farmi mettere quel vestito osceno.
Un gocciolone
apparve sulla testa bionda dell’infermiera, seguita da un’espressione ferita.
Oh no, cavolo, no, la faccia da innocente pentita non riuscivo a reggerla!
Serrai gli occhi per non incontrare il volto supplicante di perdono di Penelope
ed evitare così il senso di colpa che minacciava di assalirmi lo stomaco da un
momento all’altro.
Poi sentii
qualcosa afferrarmi per la vita, tirandomi via dalla caviglia del capitano in
un attimo. Sbarrai gli occhi, voltandomi sorpresa, incontrando un viso
sorridente costellato di lentiggini e incorniciato da un chioma di capelli
ondulati e neri come gli occhi.
“Saa, Momo-chan. Watashi-tachiwa fune ni notte iku?” il sorriso di Ace mi lasciò alquanto
perplessa. Non sapevo che cosa mi avesse chiesto e per un attimo mi venne il
dubbio che mi stesse portando tra le braccia del nemico rosa, ma, quando mi
accorsi che mi stava trasportando in braccio verso l’uscita della mensa, mi
dovetti ricredere.
Mi voltai in
direzione di Marco, incontrando il suo sguardo, desiderando quasi di chiedergli
che cosa stesse succedendo.
Ma prima che
potessi anche solo cambiare idea sulle mie intenzioni uscimmo completamente
dalla mensa ed Ace mi posò nuovamente a terra, cominciando a camminare
incitandomi con una mano delicatamente poggiata sul mio braccio a seguirlo.
Dove stavamo
andando?
Atto 5, scena 4
Satch scoccò un’occhiatina divertita verso
Marco, improvvisamente rabbuiatosi in volto non appena Momo era scomparsa dalla
porta accompagnata da Ace. Il suo sorriso si allargò ancora di più, capendo
quello che si nascondeva dietro quell’espressione appena turbata da un’ombra di
delusione: il suo fratellino aveva una cotta.
Non era difficile capirlo: era da quando lo
scricciolo aveva spiccicato il suo primo ringraziamento nei suoi confronti che
Marco aveva cominciato a guardarla in maniera diversa. Se all’inizio il
comportamento della Fenice verso la naufraga era stato guidato da una
gentilezza di circostanza, in quel momento era più che mai evidente quanto
stesse velocemente diventando una gelosia di , per così dire, primo stadio,
talmente leggera da passare inosservata anche dallo stesso biondo .
Il comandante in
quarta sospirò: era certo che Marco non si fosse ancora accorto di tutto quello
che invece lui era riuscito a cogliere nei suoi gesti più recenti, e anche se
avesse tentato di farglielo notare non avrebbe ottenuto granché. Marco era
certamente il più ragionevole tra i suoi fratelli, ma sapeva anche essere più
cocciuto di un mulo, quando ci si metteva.
Tanto valeva punzecchiarlo e lasciare che gli
eventi si sviluppassero da soli, tuttavia… Nella
mente di Satch tornò alla mente l’occhiataccia che
Ace gli aveva rivolto quando aveva chiamato Momo “scricciolo” e il solo ricordo
fece sfumare un po’ il sorriso che si era stampato in faccia poco prima.
“Cavoli.”
Sussurrò, accorgendosi che la situazione era più complicata del previsto.
“Uhm? Hai detto
qualcosa Satch?” gli chiese Vista, sedutosi
nuovamente alla sua sinistra dopo essere ritornato dal suo tentativo a vuoto di
salvare la piccola Momo.
Lui non reagì
subito, osservando prima il vuoto davanti a sé, poi, scoccando un’occhiata
fugace a Marco, ancora perso nelle proprie pene d’amore, ritornò a sorridere
come nulla fosse successo.
“Niente, niente.
Stavo solo pensando che presto avremo qualcosa di cui parlare, fratellini.”
Concluse, lasciando di stucco sia Jaws che Vista.
Atto 5, scena 5
“Allora…” mormorò Ace, grattandosi la testa da sotto il
cappello con fare pensieroso, mentre con una mano accompagnava Momo sul ponte
della nave “… da dove cominciamo?” disse infine lanciando un’occhiatina alla
ragazza che, ancora confusa da quella situazione, lo guardava ad occhioni spalancati, cercando di capire cosa mai avesse
intenzione di fare.
Alla vista di
quel faccino, il volto di Ace si aprì istintivamente in un ghigno birichino che
fece preoccupare un poco Momo, indecisa se darsela a gambe o meno.
Non le andava
proprio di venire strapazzata un’altra volta da quel moro e l’idea di andarsi a
rifugiare nuovamente accanto all’imponente figura del capitano era sempre più
allettante man mano che il volto di Ace si…
avvicinava al suo?!
Il naso di Ace
arrivò a stuzzicare con la propria punta quello di Momo, rossa in viso come un
pomodoro e rigida come un pezzo di legno, fermandosi lì per un attimo per poi
ritrarsi di scatto, lasciando che il moro potesse godersi la vista della
ragazza completamente persa nel più completo imbarazzo.
Ace guardò Momo
balbettare qualcosa a mezza voce con labbra tremanti, ridacchiando poi a quella
scena mentre si abbassava appena il cappello sul viso. Sembrava una fragolina
tanto era arrossita.
Il comandante in
seconda serrò le labbra, cercando di non scoppiare in una risatina che sarebbe
potuta apparire offensiva all’altra, anche se la tentazione era molto forte.
Ma, d’altra parte non era per prendere in giro Momo che si era offerto di farle
compagnia per il resto della giornata: dovevano ancora fare il giro turistico a
cui Betty lo aveva costretto, anche se in quel momento non ne era affatto
dispiaciuto.
Avrebbeavuto tutto il tempo del mondo per rimediare alle
sue ultime gaffe con la piccola, specie quella derivata dal loro primo faccia a
faccia, date le proporzioni della nave. D’altra parte però la scelta da dove
cominciare il giro era ardua: avrebbe rischiato di farla annoiare se avesse
cominciato a mostrarle le cose più interessanti e poi i ponti che stavano più
in basso.
Ci ragionò un po’
su: la stiva era completamente fuori discussione, troppo in basso e troppo
fredda (per non parlare di troppo vicina all’acqua); gli alloggi dei più bassi
di grado nemmeno, quegli allupati erano messi peggio di lui in fatto di
astinenza ed era già tanto che riuscissero ad annusare anche solo da lontano le
infermiere del babbo; la mensa già la conosceva; l’infermeria pure, mmmh, magari…
D’improvviso
un’idea gli balenò in testa, facendolo di nuovo sorridere sornione.
Trovato.
“Ok, Momo.
Andiamo.” Disse dirigendosi verso un punto preciso della grande imbarcazione,
spingendo in avanti il più delicatamente possibile la ragazza che ancora lo
guardava dubbiosa.
Atto 5, scena 6
Negli immensi ed
intricati corridoi della Moby Dick, studiati e costruiti appositamente per
consentire il passaggio della mastodontica presenza del capitano Edward Newgate, Marshall D. Teach
marciava a passo spedito, ridacchiando a mascelle serrate, facendo mostra della
sua putrida ed irregolare dentatura con più convinzione del solito, facendo
rabbrividire non di poco i più giovani membri dell’equipaggio che notarono
quell’inquietante ed appena percettibile cambiamento.
Tutti sulla nave
rispettavano Teach, non solo per l’età e per la
distinta abilità con la quale si muoveva in battaglia, simile a quello di un
serpente che evita gli ostacoli più piccoli per poi puntare dritto sulla preda
nel modo più sicuro possibile, ma anche per il modo in cui era in grado di
cambiare radicalmente umore da un secondo all’altro. Molte volte, all’insaputa
del babbo, Teach Barbanera non aveva esitato a dar
sfoggio della parte peggiore di sé ai membri più inesperti dell’equipaggio,
finendo per mandare tra le braccia di Betty e Penelope gran parte dei suoi
fratelli con un braccio spezzato a causa di una parolina di troppo.
L’uomo in fondo
non si preoccupava di questi piccoli incidenti che il suo carattere a volte
provocava. Non era poi tanto strano che qualcuno della ciurma si recasse
piagnucolante dalle infermiere e poi nessuno di loro si era mai lamentato dopo
essere usciti da quella piccola fetta di paradiso che prendeva il nome di
“Reparto Ricovero”.
Si poteva anche
dire che la sua era una buona azione, no?
In ogni caso,
quello che faceva sorridere in modo così sguaiato Teach
non aveva nulla a che vedere con uno dei suoi temibili sbalzi di umore, né
tantomeno con l’equipe infermieristica del babbo, bensì con qualcosa di più
succulento ed allettante.
La porta della
sua piccola cabina gli si richiuse alle spalle con un cigolio appena
pronunciato, mentre con ben poca eleganza si lasciava cadere sulla branda,
afferrando al volo un piccolo volumetto seminascosto tra i pochi e grossi libri
che occupavano disordinatamente lo scaffale a muro mal sistemato sulla parete
in legno.
Era un taccuino
rosso e pieno di fogli volanti che sporgevano fuori, minacciando di svolazzare
allegramente per la stanza da un momento all’altro.
La mano tozza e
scura del pirata spalancò con gesto secco il povero libricino proprio dove la
sua mente aveva puntato con il pensiero ed i suoi occhi stralunati
lampeggiarono di una strana luce mentre scorrevano su quelle parole confuse e
veloci scritte di propria mano tempo addietro.
Una risata
scivolò sommessa tra i denti, riempiendo la stanza con quel suono minaccioso
che prometteva tutto fuorché qualcosa di buono.
Finalmente ne
aveva trovata una. Non avrebbe mai creduto di incappare in una di quelle
creature in modo così semplice e dire che l’isola dove risiedevano era
sconosciuta persino alla Marina. Osservò con fare maniacale ancora un paio di
volte gli appunti che era riuscito a su rischio e pericolo a raccogliere su
quelle straordinarie creature che aveva cercato più e più volte nel corso della
sua vita, ma solo per rinunciarvi dopo aver puntato sul frutto del diavolo da
lui cercato.
Il suo ghigno si
allargò se possibile ancor più di prima.
No. A questo
punto non avrebbe avuto senso cercare un frutto del diavolo. Non con quella
piccola fortuna capitata a bordo. Quasi gli scappò da ridere ancora più forte
al pensiero che nessuno a parte lui era a conoscenza delle vere capacità di
quella ragazzina dall’aria sperduta coccolata dalle infermiere.
Nemmeno quello
stupido di Newgate era riuscito a capire la sua vera
natura, nemmeno dopo gli ultimi avvenimenti. Ma lui sì.
Gli indizi
fin’ora raccolti erano inequivocabili e non lasciavano alcun dubbio.
Ora non gli
serviva altro che acchiapparla e procedere con il suo piano. Rilesse ancora una
volta le ultime tre righe dei suoi appunti.
“ … Notturne. Vivono di notte al centro dell’isola. Piante come difesa
(??). Di giorno se sveglie non escono mai allo scoperto a causa della forte
luce del sole e dei predatori.Linguaggio sconosciuto. Basato su suoni polifonici melodici. Amano la
musica. La notte dà loro sollievo fisico e mentale. Sono attirate dalle stelle.
…”
Alcune parti di
quelle informazioni non gli erano mai state chiare, ma una cosa la capiva:
doveva agire di notte.
Ridacchiò ancora
una volta, leccandosi oscenamente le labbraal pensiero dell’immenso potere che si sarebbe presto procurato. Nessuno
lo avrebbe sconfitto, né deriso. Nessuno.
Nemmeno Barbabianca.
Sarebbe stato
temuto dal mondo intero.
Atto 5, scena 7, Arioso al tramonto
Ero sollevata che
Ace mi stesse solamente facendo vedere la nave, ma questo non toglieva il fatto
che ero arrabbiata. Le mie guance erano gonfie già da un po’ a causa della
stizza che il ricordo del suo comportamento di poco prima mi provocava.
Pazzesco. Aveva
strofinato il suo naso con il mio! E io come una scema ero rimasta immobile
come un pesce lesso! Mi veniva quasi da piangere. Possibile che quel ragazzo
non facesse altro che farmi accumulare figuracce su figuracce?
Però, pensai
sentendomi la punta del naso prudere dolcemente e io me la strofinai,
sentendolo leggermente caldo. E di nuovo mi sentii intorpidita. Che cosa mi
succedeva?
Mi riscossi solo
dopo che il mio viso scontrò la schiena tatuata di Ace, fermatosi
all’improvviso davanti a me, facendomi lanciare un grugnito di disappunto.
“Perché ti sei
fermato?” dissi inutilmente, vedendolo solo voltarsi sorridendo come suo
solito.
No, no. Niente
sorrisetti.
Per favore. L’ultimo sorrisino che mi aveva
fatto era stato succeduto da uno scherzo di pessimo gusto in lavanderia. Al
solo ripensarci mi veniva la pelle d’oca. Ma che senso aveva sventolarmi sotto
il naso i calzoni sporchi di almeno mezzo equipaggio?!
Soltanto il ricordo di tutto quel fetore mi
faceva venire la nausea.
Purtroppo però la
sua espressione ebete non sparì, anzi, si accentuò mentre io indietreggiavo
intimorita.
“Ima, suguhairaitowashiteimasu!” Lo seniti dire
per poi scattare in un istante su di me circondandomi con un braccio la vita.
Arrossii violentemente mentre mi sentii tirare contro il suo petto. “Kokonikite.”
“M-ma… che fai?” balbettai cercando di ribellarmi alla sua
presa, ma fu tutto inutile e poco dopo mi ritrovai appesa al suo braccio,
mentre lui si arrampicava sulle sartie della nave.
Mi veniva da
piangere doppiamente. Pregai che Marco o Penelope venissero a salvarmi,
altrimenti sarei morta d’infarto con quello scemo che faceva finta di farmi
cadere ad ogni metro, ridendo di gusto alle mie esclamazioni terrorizzate.
“Giuro che se mai
imparerò la tua lingua ti farò rimpiangere questi momenti!” borbottai
sentendomi stranamente incline alla vendetta.
Già, imparare la
lingua. Di colpo mi rabbuiai, imbronciandomi. Come avrei fatto ad imparare la
lingua se non parlavo con Marco? Non potevo certo cambiare insegnante, si
sarebbe offeso, ma il pensiero di lasciar uscire ancora una volta quegli strani
suoni dalla gola mi mettevano una strana ansia addosso. Avevo il presentimento
che non sarebbe stata una buona cosa lasciarmi sfuggire un altro i quei versi,
almeno non ancora.
Mi mordicchiai il
labbro inferiore, presa da una strana, stranissima urgenza che mi puntellava il
petto: volevo parlare con Marco, lo volevo davvero.
“Saatsuitazo.”
Sentii Ace
appoggiarmi delicatamente su qualcosa di solido. Finalmente, pensai, non ce la
facevo più a penzolare con braccia e gambe sospese nel vuoto.
Sospirai
sollevata come non mai per poi scoccare un’occhiataccia significativa ad Ace
che, intuito quello che gli avrei tanto voluto dire, sorrise nervosamente
strofinandosi il retro del collo, mentre biascicava qualcosa che sperai, per il
suo bene, fossero delle parole di scusa.
“De, akachankite! Watashiwakoko o motarashitariyū ima watashiwaanata
o shōkaishimasu.Saa.”
Mi posò una mano
sulla spalla spingendomi da una parte e fu in quel momento che mi accorsi di
dove ci trovavamo: eravamo sulla vedetta più alta della nave. Non appena il mio
cervello riuscì a realizzare la situazione, mi voltai verso di lui a bocca
spalancata, cominciando seriamente a temere il peggio.
Che voleva fare?
Prendermi in braccio e buttarsi insieme a me nel vuoto, giusto per farmi tirare
definitivamente le cuoia. Sapevo che non ci saremmo fatti male, visto che,
durante la fuga dall’enorme serpentone nero dell’altro giorno, Ace mi aveva
dimostrato di avere un’agilità fuori dal comune.
Ma questo non
toglieva il fatto che avevo una paura tremenda!
Mi misi subito
sulla difensiva, guardandolo sospettosa, mentre con le mani mi assicuravo
all’albero maestro dietro di me, ma lui non fece altro che ridacchiare e, dopo
essersi seduto tranquillamente accanto a me, mi indicò con una mano un punto
imprecisato all’orizzonte.
Ancora un po’
indecisa se fidarmi o meno, lo studiai ancora per qualche istante per poi
finalmente seguire la direzione indicatami.
Rimasi di sasso e
di getto dalla mia bocca socchiusa proruppe un ‘esclamazione di puro stupore
che fece sorridere ancora di più Ace.
Davanti a me il
cielo era completamente ricoperto di rosso. Non mi ero accorta che fosse
arrivata la sera e vedere il cielo così colorato e ricco di sfumature mi lasciò
completamente sbalordita.
Non avevo mai
visto uno spettacolo simile. Ne ero certa. In tutta la mia vita, anche se non
me ne ricordavo, non mi era mai capitato di assistere ad una cosa tanto bella.
Il sole brillava all’orizzonte diviso a metà dalla linea del mare e la volta
celeste si era tinta di rosso, arancione rosa, giallo viola e blu, sfumandosi
in colorazioni sempre più fredde man mano che si allontanava da quel cerchio
luminoso.
Non mi accorsi di
essermi seduta anche io accanto ad Ace, né del fatto che mi stesse osservando.
In quel momento per me esisteva solamente il rumore delle onde che si
abbattevano lontane contro la chiglia della nave, le voci melodiche ed
echeggianti dei gabbiani in lontananza, il flebile ondeggiare
dell’imbarcazione, la sensazione del vento serale che mi accarezzava dolcemente
le guance, rinfrescandole appena.
Mi sembrava un
miracolo poter assistere una cosa simile e avrei tanto voluto che non finisse
mai.
Fu però la mano di
Ace a rompere quell’incantesimo, scuotendomi leggermente la spalla per farmi
svegliare dal mio stato di contemplazione.
Lo vidi
osservarmi con un sorriso intenerito, prima che mi scompigliasse delicatamente
i capelli, scendendo poi ad asciugarmi le guance.
Solo allora mi
accorsi di essermi messa a piangere senza rendermene conto.
Mi voltai da una
parte di scatto, pulendomi da sola il viso dalle ultime tracce del mio pianto.
Che figuraccia. Oltretutto, là dove Ace aveva passato le dita accarezzandomi appena
le guance, era rimasta una strana scia, una sensazione di calore che mi
solleticava ancora il viso, facendolo arrossire appena.
“Ma perché sono
sempre così scema?” sussurrai tra me e me, per poi sentirmi sollevare e
trasportare accanto a basso parapetto della vedetta.
“Ok, ima warewaregaiku!” disse
con il solito sorrisetto malandrino ricomparso sul suo viso per poi lasciarsi
cadere nel vuoto insieme a me. Feci uno sforzo a dir poco sovrumano per non
urlare, mentre mi aggrappavo con forza al suo collo.
Una cosa era
certa: quella era l’ultima volta che mi fidavo di Ace! L’ultima!
Atto 5, scena 8
Marco non era mai
stato un tipo apprensivo.
Era più che altro
uno di quei ragazzi calmi che vivono e lasciano vivere, senza mai mettersi ad
assillare i compagni di viaggio a meno che la situazione non fosse tanto
insostenibile da richiedere un minimo di disciplina. Erano in molti sulla nave
a tessere le sue lodi, sottolineando l’assoluta calma ed imparzialità che
adottava in ogni situazione, senza mai fare né preferenze né scenate di alcun
genere.
Non per nulla era
il comandante della prima flotta. In sostanza era un tipo riflessivo, dedito
più ai libri ed agli scacchi che alle scaramucce controproducenti nelle quali
alcuni della sua ciurma si gettavano a capofitto come dei bambini ansiosi di portare a casa qualche livido o cicatrice come trofeo.
Eppure in quel
momento, Marco, si sentiva in dovere di fare tutto fuorché riflettere. Specie
dopo aver visto Ace atterrare incolume sul ponte della nave con una Momo
tremante e spaventatissima tra le braccia.
Gli ci volle non
poca parte del suo encomiabile autocontrollo per sopprimere l’istinto di
prendere il fratellino per la calotta ed appenderlo alle sartie della nave.
Possibile che
quel Portuguese non ne combinasse una giusta?!
E dire che era
semplicemente venuto a controllare se il giro della nave fosse terminato!
Invece che cosa si ritrovava?
Momo spaventata e
tremante come un gattino a cui avevano pestato ingiustamente la coda, tenuta
stretta da Ace con un bel ghigno malandrino stampato in faccia.
Il biondo sospirò
esasperato, massaggiandosi gli occhi con due dita: aveva deciso di cercare di
parlare con Momo prima di cena, ma, date le circostanze, l’impresa si sarebbe
dimostrata più ardua del previsto.
E chi doveva
ringraziare? Ace, ovviamente.
Si avvicinò a
passo calmo verso i due, attirando così l’attenzione del fratellino che, appena
lo vide, sbiancò letteralmente, bloccando i suoi tentativi di calmare la
ragazza, ancora stretta al suo collo.
“Oh…” disse, cominciando a sudare freddo “… ciao, Marco.”
Quelle parole
fecero smettere istantaneamente di tremare Momo, che, al suono del nome del
biondo, si era voltata ad occhi spalancati, oltre la spalla del moro.
La Fenice inarcò
un sopracciglio, facendogli intendere che non se la sarebbe cavata così a buon
mercato.
“Posso spiegare.”
Fu la debole giustificazione di Pugno di fuoco, mentre la naufraga scivolava
via da lui.
Di nuovo Marco
gli lanciò un’occhiata sbieca, mentre si premurava di controllare con la coda
dell’occhio le mosse di Momo, ora voltata di spalle rispetto a lui. Quella
vista gli diede una brutta fitta allo stomaco che si costrinse a non ascoltare,
continuando a tenere sotto torchio Ace.
“E che cosa, c’è
da spiegare?” chiese ironicamente alzando gli occhi al cielo che si stava
imbrunendo sopra le loro teste “Io ti ho semplicemente visto scendere dalla vedetta
dell’albero maestro con il preciso intento di far spaventare Momo.”
“Ma no! No! Che
dici!” scosse vigorosamente la testa Ace, agitando le mani in avanti “Io volevo
solo farla divertire! Non credevo che si sarebbe spaventata così tanto da- …”
“Avvinghiarsi a
te come una piovra?” terminò con tono quasi acido il biondo, sfidandolo con gli
occhi a smentire.
A rispondergli
bastò il sorriso imbarazzato del moro, colto in fallo. Eh, poteva farla a
chiunque, ma non a Marco.
“E poi sarei io lo
sporcaccione.” Aggiunse con uno sbuffo Marco, riferendosi alla battuta
rivoltagli poche ore prima dal fratello. I suoi occhi azzurri si posarono sulla
schiena di Momo, ancora rivolta verso di lui.
La osservò
tristemente, indeciso se tentare o meno di parlarle, ma alla fine decise che
tanto valeva provarci, almeno per capire che cosa mai spingesse la ragazza ad
evitarlo.
Incrociò gli
occhi color onice di Ace.
“Vorrei provare a
parlare con Momo, ti dispiace?” chiese, ottenendo, dopo un paio di lunghissimi secondi,
un segno di assenso da parte del moro.
Quando Ace fu
scomparso dalla porta che conduceva alla sottocoperta, Marco si rivolse verso
la ragazza, ora intenta ad osservarla confusa dalla nuova situazione creatasi.
Sospirò chiudendo
gli occhi, evitando così di incrociare direttamente lo sguardo di Momo.
“Stai bene?”
cominciò, avvicinandosi di un passo a lei, constatando con suo grande sollievo,
che non cercò di allontanarsi in alcun modo, nonostante pareva più che decisa a
non rispondergli: non era spaventata da lui dunque.
Bene, pensò
sorridendo appena a quella constatazione, almeno non era lui il motivo di
quell’improvviso mutismo nei suoi confronti.
Momo intanto si
era ormai completamente girata verso di lui, scrutandolo in aspettativa, mentre
si torturava con le mani l’orlo dell’enorme camicia che le aveva prestato.
Doveva ammettere
che non le stava male, anche se era decisamente troppo larga rispetto al suo
corpicino esile e non ancora ripresosi dal digiuno del suo naufragio.
In effetti
mangiava davvero poco.
Un’idea lo
sorprese di punto in bianco.
“Aspetta qui.”
Disse indicandole il ponte con un dito per farle capire di aspettarlo e lei
parve capire, vistosil segno di assenso che gli
rivolse con la testa.
Dopo essersi
lasciato alle spalle la porta del ponte, Marco affrettò il passo, dirigendosi
verso la mensa della nave. Avrebbe usato il cibo per passare un po’ di tempo
con lei, così da riuscire a capire quello che stava succedendo e magari anche
scoprire qualcosa di più sulle sue strane capacità che avevano tanto esaltato
il babbo, quanto preoccupato lui.
Fine Atto Quinto.
Eccomi qua! Mi dispiace per il leggero ritardo =3 sono stata un po’
impegnata di recente che sto cercando di dare una spintarella anche a NanabanHana che proprio non
riesco a continuare se non a pezzi piccolissimi. Aaargh.
Sto impazzendo. Dopo questo capitolo mi metterò sopra NH e cercherò di
pubblicare i capitoli di entrambe le ff in
alternanza. E non si può continuare così!
Oook. Finito lo sclero. Ora
passiamo a KnA! Rispondo ad una domandina che mi è
stata posta da una di voi. Io conosco giusto un po’ di giapponese e lo studio
da autodidatta, quindi si può dire che conosco discretamente la lingua, almeno
le frasi più comuni, per le altre a volte mi devo aiutare con traduttori automatici
e il libro di grammatica.
Spero che abbiate gradito l’inserimento delle Note di Libretto! ^^
L’ho inserito anche alla fine dei capitoli precedenti! Sempre per
servirvi (inchino).
Allora. Parlando dell’atto: che dite sono riuscita a non essere monotona?
Nel prossimo capitolo ne vedremo delle belle! Infatti vi anticipo un incontro
tra Momo e lo schiavista str-Roid.
E qui si incentra la prossima domanda!
Momo
come reagirà alla vista di Roid? (ricorderà?
Non ricorderà? Scapperà? Altro?)
E dopo questo aggiungo un’altra domandina meno importante (>_> see come no, sono sicura mi lincerete):
Marco ruscirà a parlare con la piccola o finirà con un nulla di
fatto?
E qui vi lascio alle vostre recensioni costruttive!
Popolo! Votate! XD
Kisskiss.
Note di LIBRETTO: Jap>Ita
Saa, Momo-chan. Watashi-tachiwa fune ni notte iku?> Allora
Momo. Andiamo a fare un giretto per la nave?
Ima, suguhairaitowashiteimasu.>Ed
ora il pezzo forte.
Kokonikite.>Su vieni qui.
Saatsuitazo>Eccoci qua.
De, akachankite! Watashiwakoko o motarashitariyū ima watashiwaanata
o shōkaishimasu.Saa.>Eddai, piccola. Ora ti faccio vedere perchè
ti ho portato qui.
Nella mensa la
ciurma del grande Imperatore Bianco era già immersa nelle delizie della cena,
quando Ace, più mesto in viso che mai, apparve nella sala, dirigendosi a passi veloci
verso il tavolo dei comandanti, tenendo le mani nelle tasche dei pantaloni. Ad
attenderlo, con il suo solito sorrisino solare, c’era Satch,
affiancato da Vista e da Jaws, troppo presi a parlare
tra loro per accorgersi della sua apparizione.
Il moro si gettò
senza troppi preamboli sulla propria sedia, una delle più vicine al babbo,
sbuffando con una non trascurabile nota di stizza. E che stizza! Persino quel
musone di Jaws, dovette ammetterlo quando quel rumore
gli fece accorgere dell’arrivo del fratello, non sarebbe riuscito a fare di
meglio.
Satch lo squadrò, intuendo pienamente quello
che doveva essere accaduto e questo fece sì che il suo sorriso si sfumasse di
divertimento e soddisfazione.
Non avrebbe mai creduto che Ace e Marco ci
avrebbero messo così poco ad entrare in competizione: e dire che la Fenice era
scomparsa dalla mensa da nemmeno dieci minuti!
“Tutto bene,
Ace?” chiese il biondo ostentando la migliore delle sue espressioni da faccia
tosta.
Pugno di Fuoco
gli rispose dapprima con un ennesimo sbuffo, incrociando le mani dietro la
testa, calandosi meglio sul viso il cappello con lo stesso movimento, poi, con
le labbra rivolte all’ingiù in una smorfia tutt’altro che felice, diede voce ai
propri pensieri:
“Insomma.” Disse,
attirando non solo l’attenzione di Vista e di Jaws,
ma anche quella di Edward Newgate e Betty, lì vicino
solo per controllare meglio le dosi di sake
ingurgitate dal capitano. Il moro intercalò quella pausa con un sospiro mezzo
affranto e mezzo scocciato “Non è andata benissimo con Momo…”
Un sopracciglio
biondo di Satch scattò all’insù, non aggiungendo né
chiedendo altro in proposito, attendendo pazientemente che l’altro vuotasse il
sacco da sé. Ace poteva essere orgoglioso, cocciuto e tante altre cose, ma
sapeva bene di non potersi tenere troppo a lungo i propri crucci.
Bastava
pazientare un po’ e si sarebbe sfogato da solo.
Un ringhio
irritato esplose nella gola del comandante in seconda, mentre scattava in
avanti con la schiena, stropicciandosi nervosamente i capelli già spettinati di
loro. Il tutto sotto le occhiate mezze stranite, mezze divertite di Vista, Jaws e Barbabianca.
“Ma in che cosa
sbaglio?” fu la fatidica ed ingrata domanda, cacciata fuori quasi in un sospiro
dalle labbra del moro, fiondatosi, con la stessa grinta di un bradipo, con la
forchetta nel proprio piatto di pasta.
Satch fu sul punto di dire qualcosa ma,
bloccato dalle occhiatine significative di Vista, già sogghignante di fronte
all’invitante prospettiva di dar sfoggio delle sue conoscenze in materia, impose
alla propria natura da ficcanaso patentato di mettere bocca sulla questione in
un secondo momento.
“Non credo che
con la madamigella farai molta strada, continuando in questo modo.” Decretò
lisciandosi seraficamente i baffi il comandante in quinta, facendo scattare su
di lui gli occhi di tutti, in primis quelli stupiti di Ace.
“In che
senso?Spiegati.” rispose un poco punto sul vivo da quell’affermazione. Insomma,
lui cercava solo di farla divertire e farla sentire al sicuro, ma tutto quello
che faceva sembrava finire inevitabilmente con un bel buco nell’acqua.
Accanto a lui Satch ridacchiò e questo gli diede una buona ragione per
fulminarlo con gli occhi.
Da parte sua però
il biondo non accusò il colpo del fratellino: era troppo divertente vedere Ace
brancolare nel buio in quel modo, nonostante la risposta fosse talmente
semplice e lampante. Persino lui era riuscito a capire dove Vista volesse
andare a parare.
“Come ti appare
la signorina Momo?” rispose intanto l’uomo dal cilindro, quasi facendo finta di
non aver udito la domanda impaziente di Pugno d Fuoco, continuando imperterrito
ad accarezzarsi i baffi.
A quelle parole
il moro strabuzzò gli occhi, accigliandosi poi con fare sospettoso.
“Come mi appare?”
“Sì. Come la
descriveresti a parole tue?”
Ace gli scoccò
un’altra occhiatina sospettosa, alzando poi lo sguardo pensieroso verso l’alto,
ragionando meglio su quello che l’altro gli aveva chiesto.
Per un attimo si
figurò l’immagine di Momo, il suo corpicino esile non ancora del tutto ripreso
dal digiuno del naufragio, il modo in cui allargava gli occhi quando si
sforzava di capire qualcosa di nuovo, il tremore che sembrava scuoterla da capo
a piedi ogni volta che veniva colta da un attacco di panico, il modo in cui si
era poggiata al suo petto davanti all’infermeria…
Tutto quello gli
fece salire spontanei due aggettivi.
Satch lo guardò aprire bocca con trepidazione,
aspettando la fatidica risposta del moro che non tardò ad arrivare.
“Piccola e
fragile.”
E a quel punto il
comandante della quarta flotta non riuscì più a trattenersi dal parlare.
“Tombola!”
esclamò divertito, non riuscendo però a contagiare con il proprio sorriso anche
Ace che, troppo confuso dalla situazione, si limitò ad incitare il biondo a
starsene zitto con un’occhiata.
Cosa che,
ovviamente, Satch non fece.
“Sei troppo rude
con lo scricciolo, Ace, devi trattarla con un po’ più di riguardo!” aggiunse il
biondo, ricevendo appoggio da parte di Vista e Jaws,
che annuirono vigorosamente alle sue affermazioni.
“Ma io non sono
rude!” obbiettò con convinzione il moro lentigginoso, guadagnandosi da tutti,
compresi il babbo e Betty, degli sguardi decisamente poco convinti, cosa che
gli fece seriamente rivalutare le sue ultime parole.
Abbassò
istintivamente con una mano il cappello davanti agli occhi.
“Ok, forse un
pochino lo sono…” ammise, nascondendo il proprio
imbarazzo dietro la falda arancione del proprio copricapo “…, ma il fatto
rimane che non riesco a capire come trattarla! Ad ogni cosa che faccio o si
mette a piangere o si arrabbia!” si giustificò immediatamente, spostando lo
sguardo da una parte, provocando le risatine mezze intenerite e mezze divertite
degli altri quattro.
Satch ci aveva visto giusto: anche Ace era più
o meno nella stessa situazione di Marco, l’unica differenza era che lui almeno
sapeva di esserci, mentre il biondo ancora no. Soppresse a stento una risatina
di troppo: ci sarebbe stato da divertirsi.
“Uff… voi uomini.”
Tutti quanti si
girarono verso Betty, che, lasciato il compito di esaminare la cartella del
capitano a Carol, si era avvicinata verso di loro, ancheggiando in modo
talmente letale da scatenare una sinfonia di emorragie dal setto nasale di
almeno una decina di tavoli dietro di lei. Come faceva a non accorgersene?!
Quegli occhiali scuri che si ritrovava dovevano essere davvero micidiali per
non farle notare una cosa così lampante! Betty come carattere non era certo la
donna più socievole e trattabile del mondo - concesso -, ma se la si guardava
sotto un altro punto di vista, letteralmente, diventava immediatamente la più
bella cosa da guardare nell’ora dei pasti, omettendo l’eterea ed angelica
presenza di Penelope al suo fianco, e questo le aveva fatto guadagnare nel giro
di poche ore dal suo arrivo sulla
nave il titolo di “spezza-cuori della Moby”, tante
erano state le povere anime che, impavide, avevano tentato di, se non far
breccia nel suo cuore duro come il ghiaccio, riuscire nella folle impresa di
incastrarla sotto un intreccio di lenzuola.
I quattro
comandanti osservarono la formosa figura di Betty sedersi con nonchalance sul
ripiano del loro tavolo, cominciando a guardarsi distrattamente le unghie di
una mano, dando loro le spalle.
“Scovate ed
esplorate isole su isole seguendo qualche indicazione su una mappa ingiallita,
sbaragliate eserciti di marines con il semplice gesto di una mano…” disse con tono pensieroso la donna, accavallando
elegantemente le gambe. E via altri dieci tavoli. “… ma vi perdete come dei
bambini quando si tratta di leggere nel cuore di una donna.” Terminò con un
sospiro mezzo affranto.
Si voltò verso i
quattro comandanti, constatando, con una punta di soddisfazione visibile
nell’incurvatura della sua bocca, che pendevano letteralmente dalle sue labbra,
specie il comandante Ace.
Rimase per un
istante in silenzio, puntando i propri occhi invisibili su volto d Pugno di
Fuoco, saggiando compiaciuta la tensione da lei stessa creata, alzando poi una
per volta le dita della mano che poco prima stava esaminando.
“Delicatezza.
Moderatezza. Inventiva.” Disse in un lampo, lasciando spiazzato il moro e
prossimi ad uno scoppio di risate Satch e gli altri.
“Ovvero?” la
domanda scivolò quasi da sola dalle labbra di Ace, facendo sbuffare
clamorosamente Betty. Chissà se quel testone avrebbe capito meglio usando dei disegnini…
“Ovvero, Comandante Ace…” scandì, calcando con impazienza
le ultime due parole “…, trattatela con la stessa cura che si usa con una
bambola di porcellana, non fate il cafone, non invadete i suoi spazi e soprattutto…”
fece una pausa enfatizzando l’ultima parte come in una supplica, alzando gli
occhi, nascosti dalle lenti degli occhiali, al soffitto della mensa “… fate
qualcosa di carino per lei.”
La faccia di Ace
era a dir poco scombussolata.
“In sostanza,
fratellino: non fare più quello che hai fatto fino ad ora ed aspetta che sia
lei a venire da te. ” intervenne con tono divertito Satch,
non riscuotendo però alcuna reazione negativa da parte del moro, che intanto si
era messo a vagare con gli occhi neri come la brace un punto indeterminato
della sala.
Nella sua mente troneggiava l’espressione di
Momo davanti al tramonto che l’aveva portata ad assistere, il colore dei suoi
capelli reso più caldo dalla luce cremisi della sera, i suoi occhi spalancati e
rapiti da quello spettacolo come se non avesse mai avuto l’occasione di
contemplarne uno simile, le sue lacrime di pura commozione scivolare lungo le
sue guance leggermente abbronzate dal sole.
Un ghigno
furbesco gli stirò le labbra: ma sì, in fondo che ci perdeva ad essere un poco
paziente?
Di certo non
sarebbe volata via.
Atto 6, scena 2
Marco si stupì di
trovarla ancora lì quando riuscì a tornare sul ponte, tenendo con una mano il
vassoio discretamente pieno del poco che era riuscito a racimolare dalla mensa.
La notte era calata più velocemente del previsto ed il cielo si era imbrunito a
tal punto da far comparire in lontananza le prime stelle della sera.
Vide la ragazza,
rimanere seduta per terra a gambe incrociate con lo sguardo rivolto verso
l’alto, alla bramosa ricerca, forse, di altre stelle, senza neanche voltarsi in
sua direzione, sicuramente non avendo percepito il suo arrivo.
Rimase ancora per
qualche istante sulla soglia che collegava la coperta al ponte, osservandola
meglio nel suo vagare gli occhi lungo la volta del cielo notturno.
Il biondo si aspettò
di vederli tornare a brillare come poche ore addietro, ma poi distolse lo
sguardo, liberando la figura di Momo dal suo sguardo.
Non sapeva perché, ma fissarla in modo così
insistente in quella situazione gli diede quasi la netta impressione di star
assistendo a qualcosa di estremamente intimo, come se stesse assistendo ad un
momento strettamente privato di cui lui era indesiderato spettatore.
Fu tentato di
cedere all’urgenza di tornare sui propri passi, ma scosse subito la testa,
chiedendosi cosa diavolo stesse andando a pensare.
Non era da lui
comportarsi in quella maniera. Ma il fatto era che...
I suoi occhi
azzurri ritornarono sul volto di Momo, trovandolo ancora concentrato sui
piccoli lumini che uno ad uno iniziavano ad apparire sulle loro teste. Le
palpebre erano leggermente abbassate in un’espressione trasognata e vagamente
rilassata.
Serrò le
mascelle, maledicendo la linea dei propri pensieri.
… gli dispiaceva
distruggerle quel momento di tranquillità.
Si sforzò di
ignorare la rigidità che avevano assunto i suoi muscoli, trascinandosi con meno
facilità del solito al centro del ponte, dove Momo continuava ad osservare il
cielo.
Arrivò a meno di
un metro da lei senza troppi problemi, nonostante quella strana vocina dentro
il suo petto continuasse ad urlargli insistentemente di lasciarle lì il vassoio
e girare i tacchi.
Poi,
incredibilmente, la vide sbattere un paio di volte gli occhi stupita e girarsi
verso di lui, facendo incontrare i loro sguardi.
E la vocina
petulante si zittì in un istante.
“Ti ho portato da
mangiare.” Disse, recuperando immediatamente la propria compostezza,
abbassandosi alla sua altezza flettendo un ginocchio.
Gli occhi di Momo
indugiarono ancora un po’ su di lui, poi sul vassoio che aveva interposto tra
loro , sciogliendosi infine in un’espressione a cui il cuore di Marco reagì
mancando un battito: gli sorrise.
Non era nulla di
speciale come sorriso, le labbra erano semplicemente strette tra loro e
leggermente rivolteall’insù, ma al
primo comandante parve una cosa speciale come poche, così tanto che si era
ritrovato a desiderare inconsciamente di risponderle allo stesso modo.
Atto 6, scena 3, Arioso della cena
Mi ero stupita di
non aver sentito arrivare Marco.
Vedermelo
apparire a pochi centimetri di distanza così all’improvviso mi aveva colto alla
sprovvista, ma poi mi ero accorta che, oltre a non essersi dimenticato di me
come avevo temuto pochi istanti prima, si era anche premurato di portarmi la
cena.
Sorrisi di
gratitudine e di sollievo, stringendo però inconsciamente le caviglie
incrociate tra le mani a causa del prurito che di nuovo era esploso alla base
della mia gola. Sperai che il mio sorriso non apparisse troppo tirato a causa
di quella sgradevole sensazione che combatteva contro il mio forte desiderio di
ringraziarlo.
Se soltanto
avessi potuto dirgli “Arigatougozaimasu”
come mi avevano insegnato Betty e Penelope…
Ma sì, in fondo
che male avrebbe fatto un semplice “grazie”? Di certo non sarebbe crollato il
mondo.
Spinta da quel
mio veloce e rassicurante ragionamento, atto soltanto ad auto-convincermi,
diedi aria alla gola, guardando in viso Marco.
Il modo in cui
sbarrò gli occhi, sorpreso di vedermi fare una cosa simile, mi fece però
bloccare le parole a mezz’aria e io mi morsi le labbra per la rabbia.
Ma perché?!
Perché sentivo di non doverlo fare? Che cosa spingeva il mio corpo a reagire in
quell’assurda maniera?
Scossi la testa
serrando gli occhi, mentre con un ringhio strozzato mi voltavo da un’altra
parte, stropicciandomi i capelli per il nervoso. Non mi interessava che Marco
fosse lì a guardarmi reagire in quella maniera: ero arcistufa! Non ne potevo
più! Più cercavo di capirci qualcosa più mi sembrava impossibile dare una
spiegazione logica a tutto quello che mi ritrovavo a subire!
Eppure c’era una
spiegazione. Ne ero certa. In mezzo a quel profondo ed oscuro abisso che avevo
in testa, avevo il sentore si nascondesse qualcosa di concreto. L’unica cosa
che dovevo fare era dissipare quella maledettissima coltre che la sottraeva
alla mia vista.
L’odore di
qualcosa leggermente acre e lievemente salato mi stuzzicò le narici portandomi
a riaprire di scatto gli occhi,ritrovando davanti a me un piatto pieno di qualcosa che osai su due
piedi definire polpa di pesce.
Sbalordita seguii
la linea del braccio che mi teneva quella pietanza dinanzi, incontrando gli
occhi azzurri all’apparenza assonnati di Marco.
E mi venne un
colpo nel vederlo increspare le labbra in un leggerissimo sorriso.
“Anatagataberebahoogaiidesu.” Disse immediatamente lasciandomi stupita
dal modo in cui scandì bene la frase, forse per farmi capire al meglio
possibile le parole che la componevano.“Anatawawatashiyoriyasetadesu.” Terminò
con un tono che mi parve lievemente sarcastico.
Tra tutto quel groviglio
incomprensibile di parole ero comunque riuscita a capire soltanto anata e watashi, e mi
venne spontaneo solamente annuire ed allungare entrambe le mani sotto la
stoviglia che mi stava porgendo, arrivando con le dita a percepire il calore
emanato da quella pietanza attraverso la sottile ceramica di cui era composta.
La sua mano
scivolò via come un soffio di vento e io, un poco imbarazzata da quella strana
atmosfera che era improvvisamente calata su di noi, mi impegnai a portarmi alla
bocca piccoli bocconi con le dita, tenendo la testa china per non incontrare il
suo sguardo.
Cavoli, ma non
c’era proprio nessuno sul ponte a quell’ora? A parte il rumore delle onde che
si infrangevano sui fianchi della nave, l’unica cosa udibile in quel momento
sembrava il suono emesso dai miei denti che masticavano la carne bianca di
chissà quale animale!
Era strano però… Notai che, a differenza degli altri giorni, non mi
creava alcun fastidio ingoiare. Neanche un minimo accenno di dolore. Neanche
quando mandavo giù un boccone troppo consistente o mal masticato.
Lo trovai così
strano che mi bloccai nell’atto di portarmi alla bocca un’altra manciata di
pesce.
Osservai con fare
critico i rimasugli della pietanza nel mio piatto, analizzando con sospetto
ogni singolo filamento corposo che ne faceva parte, finché la voce di Marco non
mi giunse alle orecchie, distraendomi.
Atto 6, scena 4
Dopo essersi
seduto al suo fianco ed averle dato una delle pietanze da lui racimolate in
mensa, era rimasto ad osservarla con il volto inclinato e sorretto da una mano,
puntellando il gomito sulla gamba, studiandola in silenzio mentre masticava
lentamente e con gusto ogni piccolo boccone.
Almeno finché non
smise improvvisamente di mangiare senza alcun preavviso.
“Non hai più
fame?” disse il comandante della prima flotta, fronteggiando nuovamente gli
occhi della naufraga, in quel momento allargati da un leggero stupore, come se
si fosse improvvisamente ricordata che ci fosse anche lui, seduto accanto a
lei, sul ponte.
Alle sue parole
Momo tentennò, certamente confusa dalle sue parole e forse anche combattuta se
parlargli o meno. Non era difficile da capire. Poco prima l’aveva vista essere
sul punto di azzardare una parola, ma solo per bloccarsi un istante prima di
riuscirci e dissolvere quel momento di aspettativa che le sue labbra, schiuse
in sua direzione, avevano creato.
Il biondo si
corrucciò, sentendo l’irrefrenabile e frustante bisogno di far luce su quello
strano comportamento che, era ormai certo, era legato indissolubilmente al modo
in cui aveva pronunciato il suo nome soltanto un giorno prima.
Il problema però,
stava nel come.
Davanti a lui
Momo, avvertendo lo sguardo della Fenice mutare in un’espressione certamente
meno morbida del solito, parve farsi inquieta, girando gli occhi altrove,indirizzandoli nuovamente verso l’alto e,
dopo un attimo di esitazione dettato dallo stupore, illuminando il proprio viso
con un sorriso tanto entusiasta da portare Marco a fare lo stesso.
“Wow.” Fu tutto
quello che la Fenice riuscì a dire osservando quello che sopra di loro si era
andato silenziosamente a formarsi.
Una consistente e
brillante coltre di stelle, tanto densa da lasciare a malapena spazio al blu
scuro del cielo notturno, ondeggiava sulle loro teste, schiarendo con la loro
luce vibrante il ponte della Moby, quasi fosse stato giorno. Nella sua vita da
pirata Marco aveva avuto occasione di vedere cose bizzarre, delle quali ne
aveva letto l’esistenza sui libri che componevano la biblioteca della nave,
solitamente visitata solo da lui, ma mai
gli era capitato di assistere in prima fila ad un esibizione della famosa Mirukīu~ei.
Ai suoi occhi era
come se il cielo notturno avesse tracciato una rotta luminosa per la stessa
Moby, dividendo il cielo in due parti con una sorta di fenditura centrale, impreziosita
da quei piccoli brillanti paragonabili solo a qualcosa di timidamente
sovrannaturale.
Come piccole e
lontane fate bianche che con il loro bagliore incitavano quell’enorme
imbarcazione a proseguire sicura il suolungo viaggio, in una notte in cui soltanto una leggera brezza ne
gonfiava languidamente le innumerevoli vele.
Definire quello
spettacolo incantevole sarebbe stato
addirittura un insulto. Era semplicemente…
Per lui però la
calma provocata da quella vista spettacolare venne bruscamente interrotta da
Momo che, per chissà quale motivo, si era alzata di scatto, abbandonando il
piatto sulle travi del ponte, dirigendosi decisa verso il parapetto della nave,
dove si poggiò con entrambe le mani, sporgendo in avanti la testa in avanti,
nell’atto di osservare meglio quella scena che era stata capace persino di
mozzare il fiato a lui, uno dei più temuti uomini di Barbabianca.
Il biondo rimase
lì, fissandola passivamente da lontano, mentre quella si dondolava lievemente
allo stesso tempo dei suoi capelli, mossi dalle leggerissime folate di vento a
quell’ora ricco di salsedine fresca mettendosi poi a sorridere inconsciamente.
Quella ragazza,
che nonostante la corporatura doveva avere come minimo vent’anni, dava una
sensazione di spensieratezza fuori dal comune. Era come vedere un bambino che
si entusiasma per qualche fuoco d’artificio: stesso identico principio.
Le sue ciglia si
aggrottarono nel notare la spallina della camicia che indossava, scivolare
lungo la linea della spalla, lasciandola scoperta.
Distolse lo sguardo, maledicendo se stesso, la
sua camicia e le insinuazioni dannatamente fondate di Ace.
Quella che aveva
davanti non era una ragazzina.
Poi un’ombra lo
oscurò, facendogli accorgere che Momo si era riavvicinata a lui e questa volta
seria in volto. Non fu però solo quello a far inquietare Marco, anche se di
poco.
La ragazza lo
stava guardando intensamente e senza un’ombra di un sorriso, e con gli occhi
che brillavano. Erano diventati dorati.
Luminosi,
palpitanti, appena oscurati dalle palpebre lievemente abbassate, illuminati
come se al loro interno fremessero la soffusa e calda fiamma di una candela.
Il capitano della
prima flotta fece appena in tempo a rendersene conto prima che la voce di Momo vibrasse
in aria con la stessa tonalità di un lungo respiro ritmato da pause e parole
così ben misurate da somigliare ad una canzone.
Gli occhi cerulei
di Marco di dilatarono.
Quella, però, non
era una canzone.
“Vorrei
tanto che tu mi capissi. Ma purtroppo, dovrò aspettare di conoscere un po’
meglio questa lingua Marco-san.” Vi fu una pausa, scandita da un
sorriso imporporato sulle guance ma sincero “Non so perché parlo in questo
modo, ma … a quanto sento, pare che per parlarci dovremo aspettare la notte…Quindi… Visto che siamo
qui, … m’insegnerebbe qualcosa’altro a parte Anatawa e Watashiwa? ”
E si ritrovò ad
annuire inconsciamente, stupito di quello a cui stava assistendo.
Comprendeva perfettamente, nonostante la
confusione iniziale, quello che aveva voluto dirgli. E, anche se stentava a
crederci, mentre si alzava in piedi davanti a lei guardandola con occhi
indagatori, una cosa la capiva: gli aveva appena rivolto la parola. A lui, solo
a lui. In modo unico e spontaneo che sembrava andare oltre la sua volontà.
E il tutto sempre
guardandolo con quegli occhi fiammeggianti.
Atto 6, scena 5, Arioso sul ponte
L’espressione di
Marco dopo avermi sentito parlare in quel modo mi aveva un poco preoccupata. Lo
avevo visto alzarsi e puntarmi addosso i suoi occhi rapaci per dei secondi che
mi parvero interminabili, analizzandomi così intensamente il volto da farmi
quasi desiderare di scappare via.
Poi però, come se
il tempo si fosse improvvisamente sbloccato, lo avevo visto ricominciare ad
accompagnare le parole ai gesti, indicandosi la camicia slacciata che
indossava, pronunciando lentamente una frase che avevano diede inizio ad una
seconda ed inaspettata lezione di lingua.
“Watashi no shatsu.”
Era cominciata
così.
Ed io avevo cominciato a registrare ed a
ragionare su ogni singola parola, da lui pronunciata nel bel mezzo del silenzio
con tono lentoe strascicato, a volte
interrompendo l’atmosfera con i miei impacciati tentativi di imitare alla
perfezione la sua pronuncia, fallendo miseramente tuttavia ogni qualvolta la
mia voce provava a liberarsi da quell’assurdo modo di parlare mezzo cantato.
Ancora non
riuscivo a spiegarmi come mai mi fossi improvvisamente decisa a parlargli.
Era stato poco
prima che, mentre mi beavo del bagliore lontano di quella distesa di stelle, la
mia mente era stata scossa da uno schiocco improvviso, e i miei pensieri erano
deragliati in un istante sul fatto che non riuscivo a rivolgere la parola a
quello strano biondino.
Poi avevo sentito…qualcos’altro, come una consapevolezza
di sicurezza diffondersi nel mio petto, facendomi allargare gli occhi e
dirigere a passi veloci verso di lui, distante di soli pochi metri, cominciando
a pronunciare ogni frase in un modo che, per un istante, mi face dubitare che
fossi io a parlare e non qualcun’altro.
Marco però, anche
quell’iniziale attimo di mutismo, sembrava non avervi dato troppo peso e
continuava ad insegnarmi parole su parole, standomi seduto accanto con la
stessa identica espressione seria di sempre, mentre io, facendo di tutto per
non farmi distrarre da quel formicolio all’altezza della gola, stavo distesa di
pancia sul ponte, dondolando distrattamente le gambe avanti ed indietro,
ripetendo a mezza voce le sue parole.
Avevo imparato
molto in quei pochi intensi minuti: come si indicava una cosa estranea, cosa si
aggiungeva alla fine di una frase negativa o interrogativa, come dire sì o no.
Insomma, alla fine non era così difficile dopo aver capito qual’era il soggetto
e quale il verbo.
“Kore wa fune desuka?”
chiesi, sempre modulando in lunghi suoni le parole, oscillando il dito indice
sopra la superficie legnosa del ponte principale, come aveva fatto lui poco
prima. Mi stupii quando lo vidi scuotere leggermente la testa in segno di
negazione.
“Īa, kore wa fune no hashidesu. Kore wadekkidesu.”
Mi corresse, ondeggiando una mano in modo da simulare qualcosa di piatto e
allora capii: dekki = ponte della nave.
Annuii un poco
titubante, premendo con poca convinzione il dito indice sul legno freddo sul
quale ero sdraiata “Décchi” ripetei stravolgendo
la pronuncia. Mi morsi la lingua e cercai di ripetere quella parola un altro
paio di volte.
Fu allora che
Marco, sbuffando appena, si alzò da terra, chinandosi accanto a me con un
braccio poggiato sulla gamba flessa, mentre il ginocchio dell’altra si era
impuntato per terra .
Sbarrai gli occhi
quando lo vidiallungare una mano verso
e il mio viso e poggiarla delicatamente sui lati della mia mascella tastarne
delicatamente la pelle con la punta delle dita, scandendo poi la stessa parola,
tenendo la mano premuta sempre allo stesso modo.
“Dekki” ripeté, guardandomi dritto negli occhi. Io per un
attimo rimasi incantata, osservando il modo in cui le sue pupille, nonostante
la scarsa luce, mantenevano sempre la stessa tonalità di azzurro limpido, lo
stesso che assumeva l’acqua di mare quando la sabbia cominciava gradualmente a
prenderne il posto prima di diventare spiaggia.
“Dekki” dissi infine, combattendo contro la strana
inquietudine che quella mano premuta sulla mia gola mi provocava. Lo guardai
con occhi lievemente intimoriti e confusi, e parve accorgersene, a giudicare da
come sussultò e biascicò a testa bassa uno “scusa”, mentre allontanava le sue
dita ruvide dal mio collo, facendole scivolare via.
Mi sentii in
colpa, ma non ebbi nemmeno il tempo di dirgli di non preoccuparsi che subito
lui si era diretto verso il parapetto della nave, poggiandovi una mano e
grattandosi con nervosismo la testa china per l’imbarazzo.
Stavo giusto per
avvicinarmi a lui per chiedergli scusa quando vidi attraverso l’aria scura della
notte le sue spalle irrigidirsi e la sua testa scattare dritta, puntando con
gli occhi verso un preciso punto dell’orizzonte.
Indirizzai
istintivamente lo sguardo più meno nella sua stessa direzione e sentii
chiaramente il cuore cominciare a pulsarmi più forte nel notare qualcosa di
diverso galleggiare sulla imperturbata distesa d’acqua.
Due ombre grandi
e scure, si ergevano poco sotto la linea del cielo, oscurando di poco la vibrante
e cristallina superficie del mare. La sagoma di tante forme quadrate trafitte
da qualcosa di perpendicolare ad una terza forma indefinita si ripeteva una
seconda volta creando uno strano effetto di specularità, nonostante le
dimensioni delle due figure variassero di poco essendo chiaramente distanziate
tra loro di qualche metro.
Realizzai che si
trattava di due navi solo quando mi sentii afferrare per mano da Marco e tirare
via da lì, portandomigiù per la
sottocoperta, e mi venne quasi da obiettare quando i miei occhi vennero
duramente feriti dalla luce delle lampade che illuminavano l’interno
dell’imbarcazione, costringendomi a coprirmi il viso con una mano, mentre
davanti a me l’altro borbottava qualcosa con una punta di irritazione.
“HōmonsurunihitobitoAkagamiwashiranai.”
Atto 6, scena 6, Red Force
“Ehi Shanks.” La voce di Yasopp arrivò
stranamente limpida alle orecchie intorpidite del capitano, facendogli
socchiudere oziosamente un occhio, ma solo per poi richiuderlo non appena un
clamoroso sbadiglio proruppe dalla sua gola, allargandogli di almeno tre volte
tanto la bocca.
“Mmmh?” mugugnò poi, mentre cercava di focalizzare bene il
paesaggio notturno che circondava la sua nave, calata nel più completo silenzio
con l’arrivo dell’oscurità. Si strofinò la guancia destra con la mano,
rialzandosi faticosamente dal parapetto sul quale era crollato dopo aver fatto
uso del proprio haki per ben 18 ore di fila.
Diamine, ma dove
la prendeva tutta quell’energia il nonnetto?
Se il vecchio
Marine non si fosse provvidenzialmente addormentato in piedi durante la sua
ennesima scarica di lanci diretti alla sua nave, era certo che sarebbe stato
costretto a chiudere velocemente il loro piccolo diverbio con una ritirata
strategica.
Cosa che, tra
l’altro, non avrebbe fatto che sia peggiorare l’umore di Garp,
sia mandare a monte i propri progetti. Eh no, aveva aspettato da mesi
un’occasione simile e non se la sarebbe fatta sfuggire così facilmente!
Fortunatamente,
anche se il vice ammiraglio era stato interrotto da un inaspettato attacco di
narcolessia, i suoi sottoposti sembravano sempre più intenzionati a non perdere
di vista la Red Force ed a stare loro appiccicati
come delle sardine sul ventre di una balena.
Tanto meglio per
loro.
Ridacchiò tra sé
e sé, mentre al suo fianco il suo fidato cecchino lo squadrava dubitando
seriamente della sua salute mentale… non che avesse
mai fatto il contrario, ma, dopotutto, quello di essere un completo pazzoide
con un potere senza eguali tra le mani era una cosa che lo aveva spinto a
diventare suo compagno di disavventure.
Soprattuto disavventure.
“Siamo arrivati,
bell’addormentato.” Disse semplicemente il rasta, godendosi la vista
dell’imperatore Rosso sbarrare gli occhi per la sorpresa e scoccargli
un’occhiata incredula, con ancora l’unico braccio alzato nell’atto di
scompigliarsi la fulva capigliatura.
“Davvero? Così
tardi?” esclamò il capitano guardando il cielo completamente scuro sopra di
loro “Ma è notte!” obbiettò infine, ribadendo l’ovvio a quei pochi della ciurma
che, per godersi lo spettacolo fino in fondo si erano letteralmente accampati
sul ponte scolandosi del buon sake fresco di botte
fino a ritrovarsi più ubriachi che addormentati.
“Ma non mi dire.”
Sentenziò sarcastico Ben seduto a gambe accavallate sul parapetto della nave,
guardando i ponti della Moby Dick accendersi man mano che il vento li portava
più vicini all’imbarcazione nemica.
“E ci siamo
giocati l’effetto sorpresa.” Terminò lugubre, parlando con la sigaretta
consumata tra le labbra, che ben presto venne gettata senza troppi riguardi in
mare.
“Chi c’è al
timone?” domandò di getto Shanks accigliandosi più
serio che mai, mettendo in allarme i tre suoi ufficiali più fidati, che si
irrigidirono da capo a piedi per un istante.
“Rockstar.”
Rispose il vicecapitano tenendo ancora in mano la sostituta della prima stecca
di tabacco, senza osare accenderla per la tensione. Rockstar era solo un
novellino tra loro, e gli sarebbe dispiaciuto vederlo alle prese con uno dei
rari, ma comunque temibili, momenti in cui il Rosso si arrabbiava con uno di
loro. C’era solo da sperare che il capitanonon esagerasse o sia lui che Lou e Yasopp si sarebbero dovuti coalizzare per evitare inutili
scenate.
Ci fu un momento
di silenzio sulla nave, durante il quale il volto dell’imperatore Rosso venne
oscurato da un’espressione indecifrabile. Gli occhi vennero coperti da
un’ombra, accentuata dalla scarsità di luce dovuta all’ora tarda, e gli angoli
della bocca rivolti all’ingiù, aumentando l’ansia dei presenti, specie quella
del povero Rockstar, ora aggrappato al timone come un bambino colto con le mani
nel sacco dalla mamma ed irrigiditosi proprio nella stessa incriminante
posizione.
Il povero pirata
da 94.000.000 di berry sulla testa tremò al pensiero di dover già
rimpiangere i vecchi santini, regalati dalla sua povera mamma il giorno della
grande partenza, che aveva incoscientemente buttato via alla prima occasione,
ritenendoli “inutili gingilli per creduloni”.
Che male avrebbe
potuto fargli qualche piccola, e forse ultima, preghiera?
Poi però accadde
qualcosa. Le labbra del capitano si incurvarono lentamente ed inaspettatamente
nel senso opposto a come erano prima ed una fragorosa risata esplose dalla gola
del rosso, lasciando interdetta tutta la ciurma di bucanieri.
“Ahahah! Ehi, Rockstar! Bel lavoro! Continua per questa
rotta! Dopo io e te ci scoliamo cinque botti di sake
insieme!”
Tutti quanti si
guardarono con gli occhi che se non erano usciti dalle orbite poco ci mancava.
Ben e Yasopp si guardarono con altrettanta perplessità: si erano
persi qualcosa loro o il loro capitano si era rivelato ancor più ottimista di
quanto già non fosse?
Poco importava.
L’unica cosa che sembrava certa era che Shanks era
riuscito a sorprenderli per l’ennesima volta in circa vent’anni di pirateria.
“Dirigiamoci
ancora per un po’ verso la Moby e poi serrate le vele quadre per metterci in
panna!” decretò con voce chiara il Rosso, rivolgendosi a coloro che assistevano
a quella scena da sopra i pennoni del grande veliero, ergendosi nel bel mezzo
del ponte con la mano destra che gesticolava con una certa premura.
“E mi raccomando:
issate su la bandiera bianca! Non sia mai che anche il vecchio Newgate decida di prenderci a cannonate per precauzione!”
Atto 6, scena 7, Moby Dick
“Quel mocciosetto …” borbotto Newgate
con gli occhi puntati sulla nave sempre più riconoscibile che si stava
avvicinando a loro, portandosi appresso come un cagnolino una nave della
marina.
E non una nave
qualunque, pensò allargando ancor di più il proprio sorriso non appena
riconobbe l’inconfondibile polena a forma di cane, ma quella del vecchio Monkey D. Garp!
Quanto tempo era
passato dall’ultima volta che l’aveva visto? Dieci anni? Ricordava bene le
poche volte che le loro strade si erano incrociate e dire che il divertimento
fosse stato esaltante era addirittura poco.
Che motivo poteva
avere quel marmocchio dai capelli rossi per portargli un simile regalo?
I suoi grandi
occhi s’impuntarono su qualcosa che lentamente stava risalendo l’albero maestro
di quella barchetta, chiamata così pomposamente veliero, sventolando
freneticamente come se scalpitasse di venire notata.
Una bandiera
bianca. Addirittura.
“Moccioso irritante…” ribadì quasi dimenticandosi di essere in mezzo
ai propri figli che, come lui, si erano riuniti sul ponte principale dopo
essere stati avvertiti dal primo comandante Marco dell’arrivo di
un’imbarcazione nemica all’orizzonte.
E si poteva ben
immaginare lo scalpore generale quando la nave in questione si era rivelata
essere quella di Shanks il Rosso.
“Ma che diavolo
vuole il Rosso a quest’ora?!” “Non lo so, ma di certo nulla di buono.”
“Accidenti a lui…” “Ma siete ciechi o idioti?! Non
avete visto che a messo su bandiera bianca?!” “Bandiera bianca?!” “Vuole
arrendersi?!” “Se, se… aspetta e spera. Il Rosso non
si arrende mai.” “Al massimo viene qui a rompere le scatole.”
“Piantatela di
fare i bambini.” Sbottò con tono piatto la voce di Marco, passato accanto senza
neanche rivolgere loro lo sguardo con le mani infilate stancamente nelle tasche
dei suoi pantaloni, attirando così su di sé le occhiate di buona parte della
ciurma da lui zittita che però non perse tempo a ricominciare a bisbigliare,
questa volta riferendosi proprio al primo comandante della Moby.
“Ma che ha il
comandante Marco?” “Già, oggi sembra addirittura irritato.” “Chissà perché…” “Ma non l’avete la testa voi? Non vi ricordate con
chi era quando ha avvisato tutti in sala da pranzo?” “Con chi?” “Sveglia! Era
con Momo!” “Momo chi? Vuoi dire la naufraga?” “E chi se no…”
“Aaaah! Vuoi dire che il comandante Marco…?”
L’imperatore
bianco vide i volti dei propri figli allargarsi in sorrisetti sornioni e
compiaciuti almeno quanto il suo in quel momento, avendo sentito tutta la
conversazione.
Bene bene. Altre novità in arrivo.
“E dovè adesso?” “L’ha di nuovo affidata alle cure di
Penelope, ma neanche lei sembrava molto contenta di essere separata dal
comandante.” “Oh-o! Quindi gatta ci cova per
davvero!” “Ma non era la gallina a covare?” “È solo un modo di dire, idiota.”
Intanto, vicino a
Satch e gli altri comandanti, la Fenice stava
appoggiato al parapetto della nave, guardando con dovuto astio la Red Force farsi sempre più vicina. Non gli era andata giù
quell’interruzione da parte del Rosso e, il fatto che sembrasse essere capitato
tra capo e collo solo per infastidire con la propria presenza il babbo, non
faceva che rafforzare considerevolmente il nodo che gli stringeva
fastidiosamente la bocca dello stomaco.
Sbuffò più
rumorosamente del solito, voltando le spalle a quello spettacolo che rischiava
di fargli venire la prima ulcera della propria vita, e dirigendo gli occhi al
cielo dove le stelle continuavano tranquillamente a scintillare, facendogli
ritornare alla mente quella surreale situazione vissuta pochi minuti prima in
compagnia della naufraga.
Nelle orecchie
parve riecheggiare la voce appena sospirata e soave di Momo, mentre ripeteva
insistentemente ogni più piccola parola da lui presentata e spiegata, e sullo
sfondo del cielo nero sembrarono apparire due iridi dorate.
Aggrottò la
fronte.
Non era normale.
Non era normale che una persona per parlare
sentisse spontaneo pronunciare interi discorsi in quel modo dannatamente dolce
e melodioso.
Non era normale che lui, non appena scorta
all’orizzonte la nave del Rosso, avesse desiderato ardentemente che il tempo si fermasse solo per dargli ancora un po’
di tempo.
Tempo per capire
sia lei … che lui.
Perché,
soprattutto, non era assolutamente
normale che lui avesse provato il forte desiderio di avvicinarsi a quella bocca
vibrante tanto da poterne avvertire sulle labbra i suoni prodotti.
Merda, era l’unico pensiero che riusciva a realizzare, mentre si copriva
gli occhi con una mano, covando l’inutile speranza di riuscire ad oscurare
quelle immagini che continuavano però a tormentarlo.
E mentre Ace lo
guardava incuriosito, ignaro dei discorsi di Satch e
gli altri sull’arrivo del Rosso, Marco si ritrovò a sperare che l’imperatore
riuscisse a dimostrarsi irritante anche per lui.
Almeno avrebbe
impegnato la testa in qualcos’altro.
…
Merda.
Fine prima parte Atto Sesto.
Freme tutte! Non uccidetemi! Posate arpioni, cannoni, c4 e armamenti
vari!
Lo so! Ho finito l’atto troppo presto e l’ho pubblicato tardi! Non ho
fatto entrare in scena Roid e ne sono davvero
dispiaciuta! Ma capitemi! Y-Y Non volevo farvi un torto e non è nemmeno
mancanza di ispirazione! Giuro!!!
Ok. Sono riuscita ad impietosirvi?
*cicale di sottofondo*
Direi che ho fatto di peggio. Vabbè passiamo
al nocciolo della questione così magari evito di venire abbattuta da uno dei
vostri cecchini prima di porre le mie motivazioni e SOPRATTUTTO (alza un dito,
bloccando il cecchino in apnea) le domande fondamentali che arricchiranno la
seconda parte dell’atto!
*partonoapplausi*
Ah, la sala si è ripopolata. Bene bene.
Partiamo con raccomandazioni e ringraziamenti.
1°: L’incontro tra Momo e RoidS.S.P.M (non dico per cosa sta, fate voi. XD) ci sarà!
Eccome!
2°: Ringrazio Mishka per ribadire sempre
quanto le piaccia il mio stile di scrittura! ^^
3°: Ringrazio tutte voi che avete recensito, preferito, seguito questa
ff, che continuerà, dando un senso alla sua
esistenza! Y-Y sob, mi commuovo sempre.
Ok basta. È una ff su Onepiece non su 100 vetrine o chissà che soap opera.
Passiamo alle domande con le dovute spiegazioni:
1)Volete
dare un aspetto a Momo?
Breve motivazione di quest’assurda ed autolesionistica domanda: mi è
stata messa una pulce nell’orecchio da HG (sì! Tu che volevi il disegno!) su
un’impellente bisogno di sapere che aspetto ha la nostra Momo, ma, come dissi
nel primo capitolo/atto della fan fiction, essendo una readerxPG
il personaggio rimane immacolato per lasciare che il lettore (appunto reader) possa
immedesimarsi nella protagonista, ma se il vostro volere è dare un aspetto
preciso a questa bambolina pucciosa, io, come vostra
autrice schiava (calme eh?) asseconderò i vostri desideri.
Quindi, se la risposta alla prima domanda è sì passate direttamente
alla seconda:
2)Se sì,
compilate la seguente “scheda”
Occhi: colore
Capelli: colore, lunghezza, consistenza (crespi,
spinosi, ricci, lisci, ondulati), frangetta o meno
Pelle: colore/ abbronzata (di quanto)
Altri segni particolari
Come vedete sono solo le cose essenziali. Per scegliere sceglierò i
“denominatori comuni” per così dire, ovvero gli elementi più citati nelle
vostre descrizioni, componendo alla fine l’aspetto di Momo per mettere un po’
di tutto nella descrizione.
Ovvio che, se deciderete di
darle un aspetto in maggioranza io non mi tirerò indietro e posterò poi più
avanti un disegno della nostra pucciosa naufraga! X3
Ed inoltre la seconda parte dell’atto conterrà delle descrizioni fisiche di
Momo più dettagliate! Che dite?
Aspetto con ansia le vostre risposte!
Bye bye!
Note di LIBRETTO: Jap>Ita
Anatagataberebahoogaiidesu
>Sarebbe meglio se mangiassi.
Anatawawatashiyoriyasetadesu>Sei più magra di me.
Watashi no shatsu>La mia camicia.
Kore wa
fune desuka?>Questo è la nave?
Īa, kore wa fune no hashidesu. Kore wadekkidesu>No, questo è il “ponte della nave”. È il
ponte.
Dekki>Ponte (della nave)
HōmonsurunihitobitoAkagamiwashiranai. >Il
Rosso non sa quando far visita alla gente
Dire che Monkey
D. Garp era furibondo sarebbe stato un eufemismo di prima categoria. I suoi
muscoli gonfi e tesi, ora perfettamente visibili attraverso la stoffa bianca
della divisa miracolosamente ancora intatta, stavano pulsando come non mai ad
un ritmo che pareva seguire il suono dei suoi denti che stridevano ogni
qualvolta serrava con più forza la mascella.
Tutti sulla nave
del temuto e rispettato vice-ammiraglio si erano irrigiditi sul ponte, posti
sull’attenti in attesa dell’imminente scoppio che avrebbe segnato l’inizio di
un clamoroso sfogo da parte del loro superiore. Ed era proprio questo pensiero
a far lacrimare silenziosamente gli occhi dei più giovani e tremare
impercettibilmenteKobi ed Hermeppo,
costretti come al solito a stare in prima fila rispetto agli altri, essendo
degli allievi del marine.
Non sarebbe stata
una bella esperienza. Non lo era mai. Vero. Ma quello alla quale stavano per
assistere andava ben oltre un semplice ruggito. Garp non si sarebbe calmato
molto presto: quando si era svegliato dal suo attacco di narcolessia non
c’erano state parole per descrivere la sua espressione nel vedere la nave del
rosso ferma ed accostata accanto all’immensa imbarcazione di Barbabianca.
I pugni
continuavano a tremargli violentemente al solo ricordo di quella visione
assurda, offuscata dai postumi dell’inaspettata dormita.
Che doveva fare?
Aveva clamorosamente fallito nel suo tentativo di intercettare quel moccioso
sai capelli rossi ed adesso si trovava lì, in piedi sulla polena della sua
stessa nave a guardare i risultati del proprio fallimento, con quell’orrenda
bandiera nera dalle tre cicatrici che gli sorrideva beffarda, prendendosi gioco
di lui.
“S-signore…” osò
sussurrare Kobi con le labbra che gli tremavano per la paura “il … il R-rosso
ha, m-esso b-bandiera b-bianca, s-signore. ” balbettò sotto gli sguardi
impietositi dei suoi compagni e quello non meno terrorizzato di Hermeppo,
grondante di sudore.
“E-e si s-sta
accostando a-all-a Mo-moby-..”
“LO SO ….”
Quella sorta di
grugnito fuoriuscito dalla gola del vice ammiraglio ebbe il potere di congelare
la spina dorsale di tutti i presenti sulla nave e Kobi si zittì immediatamente,
tendendosi come una corda di violino, immediatamente imitato dal suo compagno
di addestramento.
Una scintilla di
pura follia brillò negli occhi di Monkey D. Garp, anticipando un ordine che,
oltre a rendere sordi per una buona manciata di minuti, Kobi ed Hermeppo,
avrebbe steso più della metà della ciurma, tanto sarebbe stato impregnato di
Haki.
Atto6, scena 9, Arioso della perla
Davanti a me la
porta dell’infermeria era stata appena chiusa a chiave.
Intrappolata,
bloccata.
“Ma perché?!” mi
lamentai dando qualche colpetto con un pugno il legno della porta, sperando che
questa si riaprisse. E che altro potevo fare?
Penelope e Betty
mi avevano praticamente segregata dentro la mia camera, liquidando le mie
lamentele con un paio di “Mi dispiace, Momo-chan”, prima di girare senza alcuna
pietà la chiave dentro la toppa della serratura.
Mi sentii una
lacrimuccia fare capolino dall’angolino di uno dei miei occhi. Proprio adesso
dovevano far saltare fuori una chiave? Io non volevo rimanere chiusa lì dentro!
Mi guardai
nervosamente attorno, studiando con fare agitato quello che, a parte il mio
letto, componeva l’arredamento della stanzetta diventata dal giorno del mio
risveglio la mia abitazione fissa.
Era colma di
fili, aggeggi a lucine inquietanti e, sopra una mensola posta a metà tra dei
flaconi di medicine disinfettanti e garze c’erano dei … coltelli …
Non so perché, ma
mi venne spontaneo distogliere lo sguardo, focalizzando al meglio delle mie
possibilità le striature del legno della porta.
Non mi piaceva
quella situazione. C’erano troppe cose che non capivo: il comportamento di
Marco in primo luogo e in secondo quello delle infermiere.
Il biondo mi
aveva tirato dentro la mensa così velocemente che avevo a malapena avuto il
tempo di scorgere il cappello di Ace, prima di venire portata via da Penelope
Betty e Carol. E la cosa non mi lasciava tranquilla.
Ritornai alla
mente a quelle strane figure che erano apparse dirigendosi proprio verso di noi.
Mi imbronciai,
assottigliando inconsciamente gli occhi.
“Fatemi uscire!”
piagnucolai, alzando all’improvviso la testa, ma ancora una volta ottenni il
silenzio come unica risposta.
“Sob.” Dissi
facendo ciondolare sconsolata la testa verso il basso, per poi alzarmi e farmi
cadere sul materasso morbido e freddo della mia brandina.
La mia mano
destra incontrò qualcosa di leggermente ruvido e leggero, diverso dalla stoffa
trapuntata della coperta. Lo guardai, girando la testa incuriosita e, dopo un
attimo di stupore, mi venne da sorridere.
Accanto a me, abbandonato
sul letto con grazia confusa stava un semplicissimo vestito di cotone con le
spalline strette e la scollatura quadrata, accostata da un paio di pantaloncini
che dovevano arrivare più o meno a metà coscia.
Sospirai un po’
sollevata ed un po’ dispiaciuta.
Mi avevano fatto
un vestito su misura.
Lo presi con le
dita, facendo scivolare via con un fruscio dalla superficie un poco più ruvida
ed usata della trapunta.
Lo soppesai per
un po’ e poi ne tirai leggermente i lembi, constatandone la leggerezza e la
resistenza.
Accidenti, e dire
che mi avevano fatto tanto penare per farmi indossare la loro divisa…
Decisi di
indossarlo senza troppi pensieri e mi spogliai dei vestiti larghissimi che mi
avevano fatto da vestiario fino a quel momento. L’aria fresca e tagliente della
stanza mi colpì la pelle nuda facendola rabbrividire di riflesso, mentre
sistemavo con cura i vestiti da uomo che avevo tenuto prima. Stavo per
afferrare il vestito bianco quando la mia attenzione fu attirata dal mio stesso
braccio.
La mia bocca si
spalancò di poco, non credendo a quello che stavo assistendo sulla mia stessa
pelle: laddove proprio ieri avevo controllato lo stato pietoso delle mie piaghe
dovute alla forte insolazione, non solo la pelle si era cicatrizzata
perfettamente, ma, dove rimanevano ancora pochi millimetri prima che la pelle
si richiudesse del tutto … luccicavo.
O meglio. Erano
gli ultimi squarci sulle mie braccia a luccicare, quasi avessi avuto delle
piccole pagliuzze gialline in mezzo alle ferite.
“Ma che…?” balbettai
, facendo per toccarmi con una mano quello strano fenomeno, prima di saltare
letteralmente su letto della spavento, udendo un improvviso ringhio far vibrare
l’interno della mia cabina. Mi attorcigliai alla bene e meglio sotto le
coperte, tirandomele con le mani tremanti sopra la testa. Che cos’era stato
quell’…urlo?
Atto 6, scena 10
Salendo sulla
Moby, Shanks il Rosso aveva fatto letteralmente una strage. No, forse non
proprio letteralmente, ma c’era andato molto vicino.
Sul ponte,
riversi di faccia con la schiuma alla bocca, erano crollati quelli che per
primi si erano parati di fronte all’imperatore che altro non aveva fatto,
dacchè aveva messo piede sulla grande nave dello stimato avversario, che
camminare e sorridere spensieratamente, con in viso la stessa espressione che
avrebbe assunto qualsiasi altra persona che stava facendo visita ad un
carissimo amico di vecchia data.
Di tutt’altra
opinione però erano invece i superstiti della sua venuta che, squadrandolo in
cagnesco gli auguravano come minimo di inciampare sui propri piedi pur di
vedergli scomparire dalla faccia quel sorrisetto da schiaffi.
E di certo Marco
non era da meno, anche se stava osservando con apparente imparzialità l’haki
del rosso far crollare uno dopo l’altro i membri della sua divisione, lasciando
in piedi solo quelli con più sangue freddo.
Accanto a lui Ace
sorrideva divertito a quella scena ed il biondo si accigliò di conseguenza, non
capendone il motivo.
“Ti diverte la
cosa?” chiese, ricevendo un sorriso malandrino da parte del moro, che si
abbassò di riflesso il cappello sugli occhi.
“Abbastanza.”
Disse quello senza che le proprie labbra abbandonassero la piega che avevano
assunto.
In una situazione
differente Marco avrebbe chiesto ulteriori chiarimenti sull’insolita reazione del
fratellino, ma la sua mente era occupata da ben altre preoccupazioni.
Tipo, il motivo
che aveva portato Shanks il Rosso a piombare da loro nel bel mezzo della notte
e chiedere un colloquio con il babbo.
Ora i due
imperatori, l’uno di fronte all’altro guardandosi intensamente come due leoni,
erano entrambi sul ponte principale confrontandosi silenziosamente, ma in modo palesemente
intuibile da come l’aria si stava facendo tremendamente pesante, a fitti colpi
di Haki.
Barbabianca
sfoggiò uno dei suoi larghi sorrisi.
“Sembri stanco, mocciosetto.”
“Ahaha, bhe,
diciamo che sono stato piuttosto occupato nelle ultime ore.” Ridacchiò,
allargando ancor di più le proprie labbra in un sorriso che anticipò il
dissolversi di quella strana cortina pesante ed irrespirabile che era diventata
l’aria. Molti sul ponte di ritrovarono a sospirare sollevati, capendo che il
breve confronto tra i due imperatore fosse appena finito.
L’imperatore
rosso di rilassò notevolmente, arrivando non solo a spaparanzarsi comodamente
sul ponte, ma anche a slacciarsi dalla cinta la sua fedele sciabola,
poggiandosela di fianco, sottintendendo che sì, le sue intenzioni erano
amichevoli, ma che nulla gli avrebbe impedito di difendersi, anche in quella
situazione di evidente svantaggio.
“Io l’ho sempre
detto che il rosso è completamente pazzo.” “Concordo.” Disse qualcuno tra
l’equipaggio sottovoce, facendo ridacchiare Ace ed accigliare ancora di più
Marco.
I grandi occhi di
Newgate vagarono ancora per un po’ sulla figura piccola ma insidiosa del proprio
rivale, senza mai abbandonare la piega che le sue labbra avevano assunto.
“Tsk. Sempre il
solito arrogante.” tuonò poi all’improvviso affrontando apertamente gli occhi
gioviali di Shanks “Non solo ti presenti senza preavviso, disturbando la quiete
dei miei figli oltre che la mia.”
E qui tutto
l’equipaggio, tra cui molti erano quelli assonnati e prossimi a cedere al dolce
ed ipnotico richiamo della branda, avrebbe volentieri affiancato le parole del
babbo con un bel coro di imprecazioni ed esclamazioni nei confronti del rosso,…
ma no, non era il caso di rendere quel colloquio ancor più teso del necessario.
“Ma hai anche la
sfrontatezza di chiedere asilo sulla mia nave, senza portare nulla in cambio e
per di più dopo esserti portato appresso un equipaggio di marine!!” la voce
dell’imperatore bianco sferzò l’aria come un rombo che preannuncia una tempesta
e molti furono quelli che sentirono un gelido tremore percorrere la colonna vertebrale
fino a rizzare le punte dei capelli.
In quel momento
sarebbe bastata una parola sbagliata da parte di Shanks per scatenare il
finimondo. Nel vero senso della parola.
“Che posso dire?
È stato più forte di me.”
Eppure la
risposta non tardò ad arrivare.
La leggerezza con
la quale Shanks aveva risposto al babbo fece per poco crollare a terra Ace
dalle risate. Il moro, sotto le occhiate stranite degli altri comandanti, si
teneva in quel momento la pancia con una mano e con l’altra tentava di
nascondersi il viso, calcando il più possibile il cappello sugli occhi.
Adorava quel
rosso. L’aveva preso in simpatia dal giorno in cui era riuscito a scovarlo e a
dirgli grazie per aver salvato Rufy e, in quel momento, vedendolo alle prese
con il babbo, giustificandosi spensieratamente con una scusa così banale e
sincera, sentiva di ammirarlo ancora di più.
Ma le cose non
erano così semplici. I suoi occhi scuri si indurirono di poco mentre, dopo aver
ritrovato la solita spensierata compostezza, osservava il padre ammutolire indispettito
alle parole del Rosso.
Con un colpo di
reni scese dal parapetto, facendosi strada a medie falcate verso il centro del
ponte guadagnandosi le occhiate ben più che stranite dei suoi fratelli.
Aprì bocca per
dire qualcosa, alzando in braccio in direzione del rosso, ma qualcosa lo
interruppe, lasciandolo stordito in meno di un secondo.
“DIRIGETE LA NAVE VERSO LA MOBY DIIIICK!!!”
Pugno di fuoco
rimase un attimo in silenzio e stordito come i suoi compagni, tenendo la mano
ancora sospesa a mezz’aria, mentre sentiva sul collo la fastidiosa sensazione
di venire punzecchiato da qualcosa… un presentimento.
Quella voce…
Per un attimo
impallidì, ma solo per darsi subito dello stupido e ridere di sé stesso e delle
sue folli idee. Non era possibile.
“Ops.” Disse
Shanks, ruotando la testa in direzione del fianco della nave, dove si poteva
vedere la polena dell’imbarcazione del Pugno puntare nella loro direzione. “A
quanto pare il vecchio Garp si è svegliato prima del previsto.” Concluse
sorridendo sbarazzino, rivolgendosi poi verso Barbabianca, meno che mai in quel
momento incline a rispondere ai suoi sorrisini fanciulleschi.
Dietro di loro,
intanto, Ace era diventato bianco come un lenzuolo.
Garp. Vecchio
Garp, aveva detto il Rosso. Quanti Garp potevano esistere al mondo che facevano
i Marine?
Un fitto strato
di sudore freddo ricoprì interamente il volto del moro, mentre pregava che di
vecchi Garp ne esistessero almeno un centinaio nella Rotta Maggiore e che, oh
santo patrono dei pirati, quello che aveva appena urlato con la potenza di un
Re dei Mari imbestialito non fosse suo nonno.
“Ohi, Ace. Che ti
prende?” Lo punzecchiò con un dito Satch, non capendo cosa potesse essere
successo al fratellino per ridurlo in quello stato. Ammetteva che anche lui
c’era rimasto un po’ stordito di fronte a quella sorta di muggito apocalittico,
ma non credeva che avrebbe avuto tanto effetto sul moro.
Il biondo, non
ricevendo alcuna risposta, scoccò un’occhiata di intesa a Marco che come lui si
era mobilitato per recuperare il più giovane, guadagnando però dall’altro
nient’altro che una lieve alzata di spalle ed uno sbuffo.
La Fenice guardò
accigliato come suo solito la nave ammiraglia avanzare verso la Moby, divorando
a poco a poco la distanza che le separava. Soppresse un grugnito esasperato.
Che situazione
assurda.
Poi, l’immagine
di Momo, chiusa nell’infermeria ed in preda al panico più totale a causa di
quel ruggito, lo colse improvvisamente, facendogli sobbalzare il petto per la
preoccupazione.
Con un poco di
fatica, si impose però di calmarsi, schiacciando quella sgradevole sensazione
sotto un paio di respiri profondi.
Non era il
momento di perdere la testa.
Atto 6, scena 11, Arioso dell’usignolo in fuga
Finii di
sistemarmi il vestito addosso, rimanendo sotto le coperte. Le braccia mi
tremavano ancora un poco a causa della paura provata poco prima e ci misi un
bel po’ prima di trovare il coraggio di riemergere da sotto le lenzuola del
letto.
Scivolai
lentamente lungo il fianco della branda, accucciandomi accanto ad esso con il
cuore pulsante in gola, e con gli occhi sbarrati e pronti a percepire il più
piccolo segnale di pericolo.
A pensarci bene
sembrava che fossi un esperta in materia.
Non sapevo cosa
fosse stato quel suono di poco prima, ma non me la sentivo ancora di alzarmi
sulle mie stesse gambe e, anche se avessi voluto, non sarei riuscita comunque
ad andare da nessuna parte, rinchiusa com’ero nella stanza.
Le spalle mi vibrarono
ancora un po’ mentre gattonavano incerta sul pavimento, dirigendomi vero la
porta dell’infermeria.
“C’è nessuno?”
squittii con la voce ridotta ad un filo sottile dalla paura.
Le mie mani si
poggiarono imploranti sul legno dell’uscio e io rimasi a guardare quella
crudele serratura rimanere ferma e muta, ma solo per un attimo, prima di
accigliarmi e cominciare a guardarmi attorno più interessata a quello che mi stava
attorno che a quello che ci sarebbe potuto essere.
Non avevo alcuna
intenzione di rimanere in quel posto un minuto di più. Volevo uscire. Dovevo
uscire. Sentivo chiaramente di doverlo fare, quasi nella mia testa trillasse un
campanello di allarme.
Una sorta di
sesto di senso.
I miei occhi
caddero casualmente sulle stesse mensole che poco prima mi ero ripromessa di
non guardare più.
Coltelli e altri
oggetti metallici e sottili scintillavano sinistri a pochi metri da me.
E un’idea mi
balzò alla testa.
Sottili.
Metallici.
“Trovato!”
sussurrai, alzandomi di scatto ma solo per ricadere sul pavimento a causa del
tremore che ancora continuava a scuotermi le ginocchia. Mi accigliai dandomi
della stupida, scoccando un’occhiata furiosa alla mensola che era diventata la
mia meta.
Anche se può
sembrare folle, più in là avrei ricordato il mio tentativo di raggiungere il
ripiano ed afferrare almeno un coltello per forzare la serratura della porta
come la prima grande sfida della mia vita.
Le mie mani
infatti, non appena si chiusero attorno al freddo metallo di un coltellino,
sembrarono tremare più di prima e la consapevolezza di quello che stavo
afferrando sembrò portarmi sull’orlo di farmi andare in tilt il cervello.
Qualcosa dentro la mia testa urlava di lasciare quel piccolo aggeggio e
risultava piuttosto persuasiva, vista la forte nausea che cominciò a torcermi
lo stomaco.
Tirai un lungo e
liberatorio sospiro di sollievo quando, dopo svariati tentativi, la serratura
della porta scattò sotto la pressione precaria della sottile lama del bisturi.
Mollai
immediatamente la presa sul coltello, lasciando che cadesse tintinnando sul
pavimento in legno, e mi affrettai a lasciarmelo alle spalle, affacciandomi
cautamente dalla porta, controllando che non ci fosse nessuno in giro. L’idea
di venire beccata da Betty subito dopo non mi allettava affatto.
A dispetto di
quello che pensavo però il corridoio era deserto. Nessun tipo di rumore, fatta
eccezione per il lieve scricchiolio delle travi che, oscillando alla spinta del
mare sotto la grande barca, rendeva il tutto ancora più inquietante.
Mi mordicchiai il
labbro inferiore.
Dov’erano finiti
tutti quanti?
Atto 6, scena 12
Il passo pesante
degli scarponi di Marshall D. Teach echeggiarono pigramente tra le mura legnose
della nave, ritornando ovattate alle orecchie sporche ed appena otturate di
cerume del padrone, senza però riuscire a distrarlo dai suoi loschi pensieri,
mentre, man mano che sulla sua strada si faceva sempre più vicina l’infermeria,
il suo sorriso irregolare e marcio si ampliava a vista d’occhio.
Nella mano
destra, in netto contrasto con le unghie scure e la pelle pelosa e bruna del
dorso, una corda sottile e bianca come latte, quasi nuova di zecca, oscillava
languidamente verso il pavimento.
L’arrivo del
Rosso era stato provvidenziale, dovette ammettere Teach. Non si sarebbe mai
aspettato di vedere la nave di quel piantagrane apparire all’orizzonte in un
periodo di relativa calma come quella.
E per di più di
notte! Pensò allargando inconsciamente il proprio sorriso.
Un’occasione
perfetta. Se fosse stato in rapporti migliori con Shanks il Rosso, l’avrebbe
ringraziato dal più profondo del cuore.Quasi gli doleva di avergli inferto quella cicatrice sull’occhio
sinistro durante il loro primo ed l’ultimo scontro.
…
Nah. A pensarci
bene non se ne pentiva affatto.
Un pollice rugoso
carezzò con riverenza il materiale liscio e quasi setoso di quella corda che
aveva tirato fuori poco prima da uno dei pochi cassetti della propria cabina. Già
si immaginava l’espressione che quella piccola ninfetta avrebbe fatto nel
vederlo entrare nella sua stanza e ritrovandosi nel giro di pochi istanti
legata come un delizioso pacchetto regalo.
Oh, bhe. Almeno
quella era la sua visione delle cose. Non era molto sicuro che la piccola
avrebbe condiviso il suo pensiero con un corda ben stretta attorno al proprio
collo ed ai propri polsi, impedita così di compiere qualsiasi mossa avventata.
Ma in fondo, che
gli importava?
Il suo sorriso fu
però spento in un istante nel notare, finalmente giunto a destinazione, un
piccolo ed irritante inconveniente. Spalancò del tutto la porta dell’infermeria
guardandovi sconcertato all’interno.
Vuota.
Assolutamente vuota. Solo un bisturi abbandonato sul pavimento e i vestiti del
comandante Marco, indossati dalla piccola, poggiati ordinatamente sul letto.
Ma della sua
preda nessuna traccia.
Un ringhio
rabbioso gli brontolò nella giugulare, mentre si precipitava nuovamente nel
corridoio con gli occhi scintillanti di rabbia. Il suo sguardo stralunato
saettò da una parte all’altra del corridoio, alla disperata e furiosa ricerca
di un piccolissimo segnale che gli indicasse dove quella ragazzina fosse
andata.
Poi dei passi.
Provenienti dalla sua destra.
Leggeri. Incerti.
Cauti.
E il sorriso di
cui molti avevano terrore tornò trionfante a scoprire la sua dentatura
irregolare.
Atto 6, scena 13, Arioso fuggevole
Camminavo
lentamente lungo il corridoio, fortunatamente non ancora del tutto buio grazie
ai pochi lumini rimasti accesi sulle pareti.
Ero riuscita a
darmi un po’ di coraggio ed ad avventurarmi fuori dalla mia stanza, eppure,
quella stessa sensazione di pericolo imminente non mi aveva ancora abbandonato.
Anzi. Sembrava accentuarsi man mano che procedevo verso la scaletta che mi
avrebbe portato sul ponte.
Tenevo le mani
strette al petto, torturando nervosamente il tessuto latteo del vestito,
pensando che forse sarebbe stato meglio tornare indietro.
L’immagine di
quell’enorme serpentone nero e del sangue zampillato dalla sua ferita mi
colpirono improvvisamente, bloccando la mia camminata.
E se a provocare
quell’urlo fosse stato un altro di quei bestioni? Che cosa avrei potuto fare
io?
Di nuovo il
ricordo di Ace e Marco occupati a sostenermi ed a proteggermi a costo della
loro stessa vita mi crollò addosso, appesantendomi le spalle proprio quando la
scala del ponte si trovava a due passi da me.
Il mio sguardo
vagò sulle venature del pavimento che, sotto i miei piedi nudi, ondeggiavano sinuose,
ricordandomi il mare sul quale stavo inconsapevolmente navigando e dal quale
ero stata tratta in salvo giorni addietro.
Salvata.
Costantemente. Sempre.
La mia sembrava
essere un’abitudine. E l’odiavo. Sentivo chiaramente di odiarlo.
Feci un passo
indietro, ma la mia schiena si imbatté in qualcosa di strano che mi fece
rimbalzare leggermente in avanti.
La sensazione di
pericolo era tornata a farsi sentire, in quel momento più forte di prima e,
finalmente sveglia dalle mie riflessioni, mi girai di scatto, rabbrividendo nel
vedere dietro di me la forma di una persona, un uomo forse, con il volto
completamente oscurato e dotata di una mole rotonda ed imponente.
Sbarrai gli occhi
nel vedere, dal nulla di quel viso invisibile, comparire la sagoma di un
sorriso deforme che precedette solo l’avvento di un suono che non avrei mai e
poi mai dimenticato.
“Zehahaha…”
Rantolai
d’istinto all’indietro finendo col cadere sul primo degli scalini dietro di me,
riuscendo a malapena ad afferrare la ringhiera per reggermi.
Tremavo. Tremavo
da capo a piedi. Avevo paura.
No, quella non
era paura. Era terrore allo stato puro.
La mia gola pizzicò
di nuovo in quello strano modo che avevo imparato a riconoscere.
Una grossa mano
scura di alzò, spalancandosi ed avventandosi verso di me, lasciandomi a
malapena il tempo di rotolare su un fianco eludendo così la presa di quel
mostro senza volto che, al mio gesto istintivo, smise di ridere, imprecando per
un istante a mezza voce.
Non feci molto
caso a quello che disse e mi affrettai con il cuore in gola a risalire al
meglio delle mie possibilità la lunga scala che mi separava dal ponte. E non
era affatto facile con le ginocchia che mi tremavano neanche fossero fatte di
burro.
Avanzai di soli
due scalini prima di sentire una di quelle mani afferrarmi saldamente la
caviglia e strattonarmi verso il basso, facendomi ruzzolare di nuovo alla sua
mercé. Serrai d’istinto le palpebre e lanciai un lamento sommesso e trillante.
“No…!”
Qualcosa mi ghermì
la gola con forza, schiacciandomi la voce in una morsa impietosa che mi fece allargare
gli occhi dal dolore, portandoli sull’orlo del pianto. Sembrava volesse
strangolarmi.
Boccheggiai in
disperata ricerca d’aria,artigliando confusamente quell’enorme e fetida mano
con le mie piccole dita, ma risultato fu solo un aumento di pressione di quel
mostro sul mio collo.
“Ee, ia, chibi. Nai Gorgheggi.”
Non feci caso al
fatto che avesse detto una parola nella mia lingua.
Soffocavo. Stavo
soffocando. L’aria stava velocemente scivolando via dai polmoni, facendoli
bruciare disperatamente dall’interno. La vista cominciava ad annebbiarsi,
sfuocando i contorni delle cose.
Aria. Avevo
bisogno di aria.
“Las..lascia..”
Ciondolai la
testa da un lato e una lacrima mi solcò l’angolo del viso, ma quella presa
ancora non si allentava.
“Zehahah. Hontōni suteki na kēki.”
E di colpo la mia
mente fu pervasa da quel suono odioso, facendomi dimenticare della sensazione
di bruciore all’altezza della gola. Lacrime di frustrazione si unirono a quelle
di disperazione.
Rideva. Io stavo
soffocando. E lui rideva.
La collera prese
posto alla paura, rendendomi preda di un groviglio di emozioni che mi portarono
ad esercitare tutta la forza rimastami sul polso del mio assalitore,
artigliandovi con rabbiosa convinzione le unghie sottili.
Sentii la mia
pelle formicolare sui polpastrelli e un alone luminoso oltrepassare la barriera
acquosa formatasi sui miei occhi lacrimanti. Eppure i miei denti erano serrati
in una smorfia adirata che, ne fui certa quando sentii quella stretta farsi
nettamente più marcata, non sfuggì all’altro.
Rideva.
Era tutto quello che
riuscii a pensare, mentre lo strano bagliore scaturito dalle mie dita fu
subitamente sostituito da l’odore di pelle bruciata ed un urlo di dolore.
La mia gola fu
liberata all’istante, lasciando finalmente che l’aria tornasse violentemente a
scorrermi verso i polmoni, benvenuta come mai era stata in tutta la mia vita.
Caddi sul pavimento tossicchiando e massaggiandomi il collo con una mano.
La mia vista si
rischiarì, permettendomi di capire in che situazione mi trovavo.
La strana figura
dinanzi a me stava rannicchiata su se stessa, tenendosi il braccio lanciando
imprecazioni certamente non molto velate. L’odore di pelle abbrustolita aveva
ormai riempito tutto il corridoio, ma non ebbi cuore di pensarci oltre.
Ero prontamente
scattata sulle scale, più veloce che mai, arrivando a pochi centimetri dalla
maniglia.
Mi venne quasi da
urlare vittoriosa quando il freddo metallo del pomello entrò a contatto con la
pelle delle mie dita, abbassandosi con un poetico cigolio.
Un secondo dopo
ero fuori,circondata dalla protettrice
luce delle stelle.
Solo che quello
che mi trovai di fronte non sfiorò minimamente le mie catastrofiche
aspettative.
Scattai la testa
da una parte all’altra del ponte, gremito di gente mai vista prima. Cosa strana
perché bene o male gli uomini della nave si riconoscevano bene per via di
tatuaggi o di altri segni contraddistitivi.
Era la mia
impressione… o si erano aggiunte altre persone?
“OI SHUKUTAI!!!”
“Eeek!”
Atto 6, scena 14
“NIPOTE DEGENERE!!!”
Gli occhi di
Monkey D. Garp, più fiammeggianti di quelli di un Re dei Mari imbestialito per
essersi fatto fregare il pranzo da un branco di squaletti agguanta-carogne,
erano in quel momento puntati sulla figura imbarazzata, e scomodamente al
centro dell’attenzione, di Portuguese D. Ace.
Il giovane si
stava massaggiando la testa, rielaborando ad una velocità mostruosa centinaia
di piani per levarsi velocemente da quella situazione scomoda, ma solo per
scartarli subito dopo.
Come spiegava
adesso al babbo che, oltre ad essere il figlio consanguineo del suo più
acerrimo rivale, era anche il nipote adottivo di nientemeno che un marine dal
rispettabile grado d Vice-ammiraglio?!
“Ehilà. Ciao
Nonno.” Gli venne solo da rispondere grondando sudore da tutti i pori, lasciando
di stucco tutta la ciurma, persino Edward Newgate era rimasto sorpreso della
risposta del figlio.
Gli unici che
facevano a meno di spalancare oscenamente le mascelle, come già stavano facendo
i figli dell’imperatore Bianco, erano i pirati di Shanks il Rosso, saliti sul
ponte della Moby sotto esplicito consenso del capitano stesso alla domanda
postagli dal Rosso.
“Che ne diresti
di mettere da parte divergenze inutili e coalizzarci per proteggere le nostre
navi solo per questa volta?” aveva chiesto, non proprio umilmente, l’imperatore
dai capelli rossi, sorridendo sfacciato. Era stato un miracolo che Barbabianca
avesse deciso, per una volta tanto, di dare corda a quel mocciosetto, ma
d’altra parte, con le infermiere bloccate con loro sul ponte principale e la
piccola naufraga chiusa nell’ambulatorio della nave, non poteva rischiare di
provocare gravi danni all’imbarcazione, sapendo in che modo sarebbe stato
diretto l’attacco.
E infatti una
palla di cannone fischiò a pochi millimetri dall’orecchio di Ace, prontamente
intercettata dalla mano diamantina di Jaws, che la ridusse all’istante in tante
piccole briciole ferrose.
“GGGNFFHH!!! COME OSI RIPRESENTARTI DAVANTI A ME COSÌ SPENSIERATAMENTE
DOPO QUELLO CHE HAI COMBINATO!?”
Ormai il naso di
Garp il Pugno sbuffava getti di vapore alla stregua di una ciminiera,
provocando in Shanks, in piedi accanto al vecchio Newgate, una risatina a
malapena sommessa. Era uno spasso vedere il vecchio alle prese con il nipote
ribelle.
“Bhe, nonno… se
vogliamo essere precisi io non mi sarei lontanamente sognato di ripresentarmi
…” puntualizzò il moro, sorridendo nervoso mentre si riaggiustava con una mano
la falda del cappello, volatogli quasi via a causa dell’attacco precedente.
“… sei stato tu a
venire a trovar-..”
Un’altra sfera di
metallo, questa volta diretta al suo viso, schivata appena in tempo con un
rapido movimento del ragazzo, chinatosi su se stesso con una mano ben salda sul
proprio copricapo arancione.
Ace continuava a
sorridere imperterrito, nonostante il suo istinto, benedetto istinto, gli stesse
suggerendo vivamente di darsela a gambe levate come mai in vita sua.
Non era sua
abitudine scappare di fronte a qualcosa, tutt’altro, ma eccezionalmente suo
nonno riusciva a risvegliare quel suo desiderio di autoconservazione come
nessun’altro al mondo.
“Eddai nonno. Non
fare così.” Fece accondiscendente, come se quella che aveva appena schivato
fosse stata solo una semplice ciabatta polverosa.
“TACI! GGNNNFFH! DEVI SOLO SPERARE CHE UNA TEMPESTA SI INTERPONGA TRA
ME E QUELLA BAGNAROLA SU CUI SEI IMBARCATO! PERCHÉ NON AVRAI ALTRO MODO DI
SFUGGIRE ALLA TUA GIUSTA PUNIZIONE! MOCCIOSO INSOLENTE!”
Ace sbuffò
sconsolato, rinunciando definitivamente a far ragionare il nonno.
Marco gli si
accostò proprio in quel momento, scrutandolo incuriosito proprio come Satch,
Jaws e Vista, che avevano seguito il suo esempio, attendendo pazientemente come
lui qualche spiegazione da parte del fratellino.
“Tuo nonno?”
chiese con fare incredulo Marco e la testa di Ace ciondolò sconsolatamente in
avanti.
“Già … ”
“Ma che gli hai
fatto per farlo arrabbiare così tanto?” domandò Satch, accostando una mano alla
fronte per aguzzare lo sguardo verso il marine. Il moro si abbassò ancor più
abbattuto al pensiero del motivo per il quale il suo vecchio stava cercando di
ridurre la nave del babbo ad un pezzo di groviera.
“Sono diventato
un pirata.” Disse con fare ovvio, mentre con uno slancio si rimise in piedi,
stavolta più serio e deciso in volto, pronto più che mai a rispondere per le
rime agli attacchi a catena del vice-ammiraglio.
Una nuova
scariche di palle di cannone si proiettarono verso di loro, ma stavolta Pugno
di Fuoco non rimase impassibile e, con un rapido movimento del braccio, ne
deviò una diretta proprio al suo petto, scagliandola talmente lontano da farle
perdere forza, piombando così in mare aperto.
Un fischio di
ammirazione sfuggì dalle labbra di Satch nel notare la piega che aveva preso la
discussione.
“Ci va proprio
giù pesante con te, neh?”
“Credimi.”
Sospirò Ace sorridendo ancora un po’ abbattuto “Questo non è neanche la metà.”
“Bene. Allora
direi che si può cominciare.”
Gli occhi dei
quattro comandanti s puntarono all’unisono sulla maestosa immagine di Shanks il
Rosso, interpostosi tra loro con la solita fierezza.
“Ehi, Shanks.” Lo
salutò Ace con un cenno del cappello, per poi incrinare la voce con un vago
tono di rimprovero “Ma ti pare il modo di venire a trovare la gente? Avresti
potuto fare a meno di portartelo dietro.” Concluse il ragazzo riferendosi
chiaramente alla presenza del nonno.
Il Rosso si
limitò a ridere senza alcun cenno di imbarazzo, mettendo mano all’elsa della
propria spada estraendola poi con una velocità tale da renderla quasi
invisibile per un istante, troncando di netto ben quattro sfere ferrose
scagliate dalle mani del nemico.
“Mi farò
perdonare più tardi.” Promise brevemente il pirata, lasciando sottinteso quello
che potè esprimere pienamente con una delle sue consuete espressioni giulive: Adesso pensiamo a divertirci.
Ben Beckman a
volte si trovava indeciso su come descrivere il suo capitano: c’erano momenti
in cui lo definiva semplicemente pazzo, seguendo l’esempio di molti, altre
volte invece lo definiva solamente stupido.
Ma stupido
davvero.
Atto 6, scena 15
“Fa uno strano
effetto essere sulla nave del vecchio Newgate, non trovate?”
La voce di
Yasopp, aveva miracolosamente sovrastato il rumore delle bombe di Garp,
facendosi sentire dai propri compagni, radunatisi attorno a lui e gli altri
ufficiali della Red Force, riuscendo comunque a mantenere una calma di per sé
fantastica.
Insomma. Erano su
una nave nemica e sotto attacco di uno dei più temuti Marine in circolazione.
Di certo mantenere
il sangue freddo in un momento simile non era cosa da poco.
Accanto a lui
Lucky strappava ed inghiottiva dai rimasugli del proprio cosciotto gli ultimi
bocconi di un ottimo spuntino di mezzanotte, annuendo e sorridendo solennemente
alle sue parole, apparentemente non facendo caso alle meteoriti che saettavano
allegramente sopra le loro teste.
“Auguriamoci di
non metterci le radici o peggio le ossa.” Borbottò Ben con i denti leggermente
stretti attorno al filtro della propria sigaretta, mettendo mano alla fedele
baionetta, poggiata come al solito sulla spalla.
“Sempre ottimista
tu, eh?” gli fece eco il cecchino, lanciandogli un sorrisino ironico.
Poco distanti da
quel breve scambio di battute, il viso bianchiccio e leggermente squadrato di
Roid colava sudore da ogni poro, irrigidendosi ad ogni fischio che le palle di
cannone perforanti l’aria della notte provocavano.
“Non ha tutti i
torti.” Sussurrò lugubre di fronte al pragmatismo distruttivo del
vice-capitano, rivolgendosi a nessuno in particolare, dato l’enorme spazio
vuoto che si era formato attorno a lui non appena aveva osato cercare riparo
nel punto dove i suoi “compagni di ciurma” si erano ammassati in maggiore
quantità.
Roid Brinata
aveva sempre avuto grandi progetti per la propria vita: diventare ricco,
comprarsi un titolo nobiliare, abitare su una bella e lussureggiante isola
estiva ed acquistare almeno una dozzina di schiave avvenenti.
Non era però così
tanto certo di poterli realizzare in quel momento, vista la sua attuale
situazione.
Era un ex mercante
di schiavi in mezzo a non una, ma ben due ciurme di pirati pronti a testare sul
suo scalpo i fili delle loro spade. Bhe… diciamolo tranquillamente: era praticamente
passato dal ventre della vacca al letame.
Era uno di quei
casi in cui l’orgoglio maschile andava a farsi un lungo giretto, lasciando
spazio ad un solo e disperato pensiero.
Mammina.
Sarebbe rimasto
lì ad autocompatirsi per tutto il resto dell’attacco se i suoi occhi, forse nel
tentativo di trovare rifugio dalla pioggia metallica lanciata dai marines, non
avessero notato qualcosa di luccicante sporgersi da dietro una delle botti di
sake accostate alla porta della sottocoperta.
Non avrebbe mai
immaginato di ritrovare su quell’immensa imbarcazione nemica una faccia
famigliare. Tantomeno quella della piccola strega che aveva fatto naufragare la
sua nave.
Roid Brinata non
fece caso al fatto di essere in territorio nemico, né tantomeno allo strano
bagliore che gli occhi della ragazza avevano assunto, sostituendo il loro
colore naturale con una gradazione diffusa su tutta l’iride. La pupilla era
diventata arancione, confondendosi con il resto dell’occhio, sfumato di un
colore eguagliabile solo alla luce dorata di una fiamma.
“TU!!”
E l’ex mercante
di schiavi non si curò di quell’assurdo particolare, mentre sguainava con
convinzione il proprio coltello estraibile dalla tasca dei pantaloni,
avvicinandosi a grandi passi verso la fonte dei propri guai.
“Tu, piccola puttana!”
Il suo urlo per
sua fortuna si confuse con l’ennesimo scoppio di una delle palle di cannone
scaraventate in aria, ma non impedì alla piccolina di accorgersi dell’imminente
pericolo.
I suoi occhi
gialli si allargarono dalla sorpresa, saettando velocemente sull’arma impugnata
dallo sconosciuto al viso di quest’ultimo, per poi farla scattare
repentinamente in piedi e scattare il più rapidamente possibile tra la folla
radunata davanti a lei.
Le labbra di
Brinata si storsero in una smorfia animalesca, mentre vedeva quella streghetta
farsi strada tra i membri della sua nuova ciurma, spintonando con le sue
piccole braccia chiunque le stava davanti.
Ma non aveva una
meta precisa. Roid lo capì immediatamente, non appena vide in che modo
avanzava.
Confuso, Impaziente,
Caotico.
Una preda fin
troppo facile.
Con un sorriso l’uomo
si infilò di nuovo il coltello nei pantaloni cominciando ad aggirare con
facilità il percorso della ragazza, trovando una scorciatoia che lo portò a
ritrovarsela proprio davanti, tremante e sconvolta come non mai.
“Ti ricordi di
me?” la schernì rimettendo mano alla lama, vedendola indietreggiare d’istinto,
ormai con tutte le vie di fuga bloccate da persone troppo prese dall’evitare l’attacco
nemico.
La piccola lo
osservò ancora per un istante, stringendo un attimo gli occhi, per poi
spalancarli con consapevolezza.
Allora si
ricordava. Oh. Eccome se si ricordava. Che senso avrebbe avuto scappare
altrimenti?
“Bene.” Fece lui,
avanzando di un passo, notando con piacere che la ragazza si era irrigidita per
la paura “Allora MUORI!!”
Atto 6, scena 16, Arioso doloroso
Non sapevo chi
fosse. Né che cosa volesse da me.
Ma qualcosa nel
suo viso mi inondò in un istante la testa con una terribile sensazione di
dolore. Una scossa elettrica che mi perforava il cranio.
Non lo vidi
arrivare.
Scivolai
semplicemente per terra, con le gambe troppo deboli per sostenermi un istante
di più, e mi presi la testa tra le mani, guardando in preda al panico il legno
davanti a me.
Uno spostamento d’aria
più veloce mi colpì le braccia, facendomi sobbalzare il petto per lo spavento e
urlare con tutta la frustrazione che mi trovavo in corpo, mentre mi paravo il
capo con le mani.
Di colpo tutto
divenne silenzioso e calmo. Non c’erano più fischi in aria, né urla, né il
leggero fresco della brezza notturna. Era come se attorno a me si fosse formata
una bolla di sapone, separandomi dal resto del mondo.
Quando riaprii le
palpebre non rialzai lo sguardo, ma vidi le assi del mondo apparirmi in modo
differente.
Non erano più
marroni, ma arancioni. Era come se fosse diventato tutto più chiaro. Più di
quanto lo era stato prima, quando lo strano formicolio si era trasferito
improvvisamente agli occhi, schiarendo lievemente il paesaggio notturno della
nave.
Con la coda dell’occhio intercettai la
posizione dei miei gomiti, ritrovandomi a fare i conti con qualcosa di
inaspettato.
Fiamme gialle.
Crepitanti come se si stessero cibando della mia pelle, ma dolcemente tiepide
al tatto.
Innoque.
Feci appena in
tempo a notare il modo in cui ricoprivano tutto il braccio partendo dalla
spalla fino alle punte delle dita, prima di ricevere una nuova fitta alle
tempie, talmente violenta da farmi premere di nuovo le mani, sempre infuocate,
tra i capelli, stringendo i denti nello sforzo di reprimere un altro urlo.
Le mie orecchie
si riempirono poi di frase sconnesse e veloci.
[Ehi! Ma tu…!][Non è sicuro avvicinarsi a
quello!!] [Ti prego….! Ripensaci!][Col cavolo che ti lascio da sola!]
E i miei occhi
cominciarono a vedere qualcosa di diverso dal pavimento ligneo della nave.
Qualcosa che
sapeva di ricordi.
Fine seconda parte Atto Sesto.
Lo ammetto. Per questo capitolo ho fatto più fatica del previsto. Sia
a causa degli esami che dell’afa estiva che abbatteva continuamente la mia
ispirazione.
Bene bene. Ora che ci troviamo qui, capirete come si sta svolgendo la
storia.
Sia chiaro. Io per Shanks ho un’adorazione assoluta. Qualunque
descrizione che possa aver fatto pensare il contrario non ha niente a che
vedere con il mio pensiero personale! ^^
Allora. Il risultato del sondaggio si è concluso in parità (contando
voti indecisi come doppi) e quindi mi sono ritrovata a prendere codesta
decisione: le descrizioni di Momo si limiteranno ai segni particolari più
citati, senza entrare nel dettaglio.
Vi sta bene?
Non ho messo molto in questo Atto, ma tornerò all’attacco nel
prossimo. Ehehe.
Ok… Adesso passiamo alla domanda odierna:
Momo
comincerà a ricordare qualcosa, ma ricorderà il proprio nome?
E ancora…
Come
reagirà la ciurma di Shanks alla vista delle capacità della piccola?
Bene! E con questo concludiamo! Spero vi sia piaciuta la lettura e che
continuerete a seguirmi.
Bye bye! XD
Note di LIBRETTO: Jap>Ita
Ee, ia, chibi. Nai Gorgheggi
>Eh, no, piccola. Niente Gorgheggi.
Davanti a me
c'era un ragazzo. Un ragazzo biondo, alto e dalla pelle chiara che si guardava
intorno tenendo una mano poggiata sulla mia spalla.
Il paesaggio
intorno a me era cambiato improvvisamente, tramutando la colorazione tersa del
cielo notturno sopra la grande nave in un azzurro turchese tipico delle
giornate più serene.
Una grande
quantità di gente andava e veniva, incrociandosi nel grande sciamare della
folla che riempiva quella che sembrava una piazza.
Già. Una piazza.
La piazza di un
villaggio dai tetti blu.
"Andiamo
via."
Dentro di me il
cuore ebbe un sussulto nel sentire la voce calma e ferma di quello sconosciuto senza
nome dei miei ricordi parlare la mia stessa lingua. Eppure non potevo parlare.
Era come se
davanti a me scorresse un nastro di immagini impossibile da fermare.
I miei occhi
vennero inchiodati da quelli blu cobalto dell'altro e mi venne spontaneo il
desiderio di chiedergli chi fosse, ma non ottenni alcuna reazione dal mio
corpo.
Di quella scena
ero solo una semplice spettatrice.
Mi vidi annuire
con la testa e questo un po' mi rassicurò: non era uno sconosciuto e il fatto
che mi fossi fidata di lui bastava per capirlo.
Si guardò ancora
un paio di volte guardingo, assottigliando gli occhi con sospetto su ogni
persona che ci passava troppo vicino, per poi stringere la mia mano in una
presa lenta e decisa.
"Mi
raccomando non dire niente e resta calma." sussurrò ancora mentre mi
trascinava via, facendosi strada in mezzo alla folla.
Annuii di nuovo a
vuoto, ma questa volta, nel mentre mi lasciavo guidare dalla sua mano, mi persi
ad osservarlo meglio.
Era un ragazzo
circa della mia stessa età, biondo chiarissimo, alto, slanciato, con un paio di
occhi color blu brillante e un viso ovale dai lineamenti delicati e femminei
quasi.
Aveva un aspetto
vagamente elegante. Specie per via di quell'orecchino argentato sul lobo
sinistro e della curva delicata del naso.
Sentii
improvvisamente quella stessa mano strattonarmi ed irrigidire la propria presa
tenendomi all'indietro e facendomi appiattire contro un muro.
Il biondo
imprecò, lanciando una sbirciatina oltre l'angolo del muro dove ci eravamo
fermati.
Dalla mia
angolazione riuscivo a vedere ben poco, ma intravedevo comunque qualcosa: la
linea dell’orizzonte del mare ed un paio di barchette che si scontravano
pigramente tra loro sotto la spinta dell’acqua.
Eravamo vicino ad
in porticciolo.
"Merda. Ma
cosa diavolo sta facendo Viola?" sibilò ancora una volta l'altro,
trascinandomi fino ad un piccolo vicolo con alcuni cassonetti di spazzatura a
fare da uniche disgraziate decorazioni, e lì abbandonò la mia mano.
Mi guardò per un
istante quasi dispiaciuto e reticente, prima di ricominciare a parlare.
"Non c'è
altra scelta. Mi toccherà fare un po' di casino." sospirò e lo vidi
estrarre dal retro dei propri pantaloni qualcosa che mi fece gelare il sangue
nelle vene: dei coltelli.
Mi vidi scuotere
la testa in segno di negazione, rimanendo sempre muta come mi era stato detto,
facendo per prendergliene uno dalle mani, ma questo me lo allontanò con uno
scatto ben calcolato, alzando il braccio verso l'alto, portandolo fuori dalla mia
portata.
I suoi occhi
cobalto erano di nuovo corrugati in una smorfia desolata.
"Mi dispiace!
Davvero...calmati,..per favore! Ascolta, so bene quanto tu odi la violenza, e
ti prometto che non ferirò gravemente nessuno, ma senza un minimo di scompiglio
non possiamo sperare di andarcene da quest'isola sani e salvi!"
Le mie mani si bloccarono
e i miei tentativi di strappare dalle sue mani quegli aggeggi infernali si
placarono di colpo. Mi ero fermata a guardarlo senza dire niente, dando vita
forse ad un silenzioso scambio di battute.
Lo vedevo nei
suoi occhi che mi capiva e, anche se non sapevo cosa stessi esprimendo con gli
occhi, capii che non aveva parlato a sproposito quando aveva affermato che gli
dispiaceva dover ricorrere ai propri coltelli.
Aveva la stessa
identica espressione di un cucciolo bastonato. E non gli donava affatto.
Non saprei come
spiegarlo, ma … quell’espressione stonava parecchio con il suo aspetto.
Sembrava quasi
non appartenere alle sue abituali espressioni tanto era tirata e mi venne
spontaneo paragonarlo … sì, ad un’aquila che tenta di cambiare la propria
nobile espressione d’alterigia in una un po’ più umile.
Nonostante si
vedesse lontano un miglio quanto fosse sincero, gli riusciva veramente male.
“Aspettami qui e
fai un sonnellino già che ci sei. Io torno subito.”
Feci sì con la
testa prima di vederlo andar via.
Qualunque cosa ci
fossimo ripromessi tra di noi con quel gioco di sguardi doveva aver comunque
portato un consenso da parte mia.
Poi il paesaggio cambiò di botto.
Non mi trovavo
più in mezzo ad un vicolo sporco e maleodorante, ma tra dei barili.
Il pavimento
sotto le mie ginocchia nude era granuloso e alle mie orecchie giungeva tenue lo
scrosciare del mare seguita da qualche piccolo soffio di brezza fresca.
Notte, sul porticciolo,
ed ero sola.
Le mie mani
scattarono in fretta sul lembo di stoffa che mi circondava viso, coprendolo
tutto fatta eccezione per gli occhi, e lo aggiustarono con premura.
Mi chiesi cosa
fosse successo a quel ragazzo biondo, ma in quel momento la mia vecchia me
stessa sembrava essere sì preoccupata, ma di qualcosa che si trovava poco sopra
le sartie di una nave appena appena visibile dalla
mia postazione.
Un lume rossastro
si accese su una vedetta, ondeggiando furioso mentre illuminava a stento una
figura umana posta lì vicino.
Le mie spalle si
alzarono lievemente mentre prendevo un profondo respiro e mi levavo in piedi
camminando a passo spedito tra le tenebre che ricopriva il molo. I miei occhi
non sfrigolavano, né vedevano il mondo in modo più chiaro.
Stavo
letteralmente procedendo alla cieca, come se mi fossi imparata un tragitto da
percorrere ad occhi chiusi.
Un altro cambio di scena.
Un forte odore
acre e nauseabondo mi riempì le narici, facendomi bruciare la gola con dei fumi
caldi e pesanti, tipici di un ambiente malsano.
La mia mano
destra teneva ancora in mano il lembo di stoffa di cui mi ero appena liberata e
i miei occhi saettavano di qua e di là per un ambiente legnoso e carico di
gemiti disperati e singhiozzi malriusciti.
La vista di schiarì
improvvisamente e qualche urletto e gemito di puro
panico venne sospirato in una strana lingua.
“Sumimasen! Onegaishimasu!Onegai!Onegai!” sussurrò
disperata una donna che subito mi apparve rannicchiata in un angolino con delle
catene che le tintinnavano alle caviglie.
Sussultai nel
vedere nello stesso stato tutti gli innumerevoli occupanti di quel posto, ora
chiaramente simile ad una stiva.
Ero dentro la
stiva di una nave.
Cosa stavo
cercando?
Un gemito forte
mi distolse dalla contemplazione di quella donna, facendomi scattare in avanti
tra il lieve scalpore generale.
Non feci molta
strada perché trovai quello di cui ero alla ricerca pochi metri più avanti: davanti a me il ragazzo biondo del mio primo
flashback era seduto con la schiena poggiata alla parete, grondante di sudore,
lerciume e sangue rappreso sulla pelle e sui capelli, legato sia ai polsi che
alle caviglie.
Capii come
dovevano essere andate a finire le cose dai lividi e dai tagli che gli
ricoprivano il viso. Il suo tentativo di creare un diversivo con un po’ di
confusione doveva essersi concluso male.
Molto male.
“Non dovresti
essere qui.” I suoi occhi azzurri si erano alzati sui miei, guardandomi con
rimprovero.
Non so come
reagii a quella frase, ma parlai.Senza cantare, pronunciando ogni parola con
assoluta normalità.
“Eravamo
preoccupate. Non tornavi.” Risposi con tono calmo e ovvio, ma la sua replica lo
fu altrettanto e addirittura velata di sottile sarcasmo.
“Ti pare che sia
in grado di allontanarmi?” un sorrisetto sarcastico gli increspò le labbra
spaccate, riaprendogli di poco una ferita sul labbro inferiore. Sospirai
tranquillamente ad un suo lamento scocciato e mi fermai a fissare i grossi lacci che
lo tenevano bloccato.
“Dov’è Viola?” la
sua voce però mi ri-attirò subito.
“Ci aspetta
fuori.” Disse la mia voce mentre mi chinavo affianco a lui posando le mani
sulle corde di stoppa raggrinzite , stando stranamente attenta a non far
entrare a contatto le mie mani con la pelle dell’altro. “Sai come la pensa.”
Una risatina mi
giunse alle orecchie, mentre vedevo le mie piccole mani affusolate
stringersiattorno gli spessi e freddi
lacci di quelle costrizioni abominevoli, illuminandosi poco a poco con una luce
gialla e forte.
“Teh. Per lei non esistono le eccezioni eh?”
Ero troppo
occupata ad osservare il materiale filamentoso delle corde sfilacciarsi poco
per volta tra le mie dita, bruciacchiandosi alle estremità, per riflettere
sull’identità di questa Viola.
Avevo appena
bruciato una corda! Una corda! A mani nude!
“Non prendertela
così, dai. Non lo fa perché è cattiva.”
E la mia vecchia
io non se ne stupiva affatto!!
Ero già saltata ad un altro flashback
prima di potermene meravigliare ulteriormente.
Il volto del biondo
era stranamente tornato pulito e privo di ferite, ma l’atmosfera non era più
silenziosa come prima. Eravamo ancora accanto al porticciolo, ma il cielo era
meno terso ed apparentemente sempre più prossimo ad illuminarsi con la luce di
un nuovo giorno.
Attorno a noi si
era radunato uno sciame di persone armate di spade e sciabole. Capii dalle loro
espressioni che non eravamo i benvenuti, nonostante fossimo sul ciglio della
nave, prossimi a cadere in acqua.
Ma non eravamo
più solo in due. Me ne accorsi sentendo qualcosa stringersi a me con più forza
e, abbassando lo sguardo, vidi un bambino, sporco e spaventato con una
testolina corvina che tremava come una foglia sul mio petto.
Guardai il
ragazzo senza dire nulla e lui rispose con una smorfia di dissenso.
“Non se ne
parla!” esclamò perentorio.
“Arch, è quasi
giorno! Non potrò fare più nulla!” obiettò la mia voce con insistenza,
spingendogli addosso il bambino “Devi andare via. È l’unico modo!”
“Col cavolo che
ti lascio da sola!” rincarò la dose l’altro spingendo verso di me il ragazzino,
accigliandosi sempre di più.
“Arch! Ragiona! Se ora vengo con te morirai!”
“No!”
“Non hai altra
scelta! Porta via questo bambino!”
“NO! Io non vado via senza di te! Questa
è una nave di schiavisti!”
Era quasi l’alba
ormai. Il sole aveva appena cominciato a fare capolino all’orizzonte e forse fu
per questo che feci quello che feci.
“Mi dispiace Arch.”
Dissi mortificata prima di spingere tutti e due oltre il parapetto con tutta la
forza che avevo.
I suoi occhi
increduli furono l’ultima cosa che vidi prima che sia lui che il bambino
piombassero con un tonfo sordo in acqua.
E io guardai il
cielo farsi improvvisamente più chiaro serrando le mascelle con decisione.
Mi accorsi dopo
di stare tremando, sentendo risatine e parole incomprensibili farsi sempre più
vicine alla mia schiena.
Tremavo. La
vecchia me stessa tremava da morire.
Aveva appena fatto
un’enorme sciocchezza.
Atto 7, scena 2
Il mondo si era
letteralmente fermato.
La Moby Dick e i
suoi occupanti, provvisori e non, erano in quel momento sospesi in un silenzio
volto alla pura e semplice contemplazione di quello spettacolo fenomenale.
Persino Monkey D. Garp, notando
nel pieno della propria furia quello che stava accadendo sulla nave avversaria
si era irrigidito di colpo con un braccio levato in alto nell’atto di lanciare
forse la centesima bomba di metallo.
L’uno accanto
all’altro, Marco, Ace e Shanks erano stati gli ultimi
a voltarsi al suono di quell’urlo femminile, mettendoci più tempo degli altri
ad assimilare i particolari di quella scena inattesa che si delineò davanti ai
loro occhi.
La folla di prati
della Moby si era divisa, dando respiro al punto preciso dove stava l’oggetto
della loro attenzione.
Rannicchiato sul
ponte, tenendosi rabbiosamente il polso con una mano, un uomo, non appartenete
alla ciurma di Edward Newgate, come poté constatare
egli stesso, bestemmiava in tutti i modi possibili ed immaginabili contro il
motivo del rossore che gli aveva raggrinzito la pelle del braccio. Nonostante
però la gravità di quella piaga, così ben esposta agli occhi dell’intero
equipaggio, Roid Brinata non demordeva e continuava a
cercare di riprendere possesso del proprio pugnale abbandonato lì davanti, ma
senza poterlo trattenere per più di un secondo, tanto il manico era diventato
caldo.
Non era poi tanto
quella strana ed assurda scena che vedeva l’ex schiavista come protagonista a
lasciare a bocca spalancata le due ciurme di pirati, quanto quello che stava a
pochi metri da lui.
All’inizio a
molti era parsa come una grande focolare giallo appiccato sul legno liscio del
ponte, ma poi una più attenta analisi di quelle lingue infuocate, della loro
forma e anche delle piccole e leggiadre ombre interne che sembravano far loro
da scheletro avevano rivelato una figura umana.
E immaginare
quanto dolorosamente si fosse fermato il respiro in gola a Marco e ad Ace, nel
constatare che si trattava della piccola naufraga, non sarebbe stato comunque
sufficiente.
“MOMO!” erano
entrambi scattati all’unisono verso di lei, superando in un istante Roid ancora occupato a cercare di riprendere possesso della
propria arma, avvicinandosi quindi abbastanza per focalizzare meglio i tratti
della ragazza in mezzo a quella sorta di manto dorato.
Stava seduta sul
ponte con gli occhi che, serrati con disperazione e con le ciglia lunghe ricoperte
di piccole ed impossibili gocce salate, tremavano per lo sforzo, così come le
mani, passate tra i capelli, anch’essi incandescenti, mentre la bocca si
apriva, si richiudeva, boccheggiava senza però emettere alcun tipo di suono,
niente che facesse intendere che stesse bruciando viva.
Il suo corpo si
era visibilmente irrigidito nel tentativo di contenere qualcosa, di
trattenerla, aggrappandovisi con tutto il corpo. Marco ed Ace a modo loro
questo l’avevano capito, e ne erano in egual modo angosciati.
Il perché non
risentisse del calore asfissiante delle loro fiamme, e anche perché i suoi
occhi si illuminassero come lava incandescente erano cose che si spiegavano
solo in quel momento.
Non era una
semplice ragazzina spaurita.
La loro immediata
preoccupazioneera rivolta tuttavia ,
più che alle capacità svelate della naufraga, al suo stato di salute che momentoquel in
risultava tanto precario .
Le braccia di
entrambi tremavano ansiose di fare qualcosa, ma nessuno dei due sembrava sapere
cosa per l’esattezza.
Avevano paura di toccarla. Il timore di farle
danno svegliandola da quello stato di trance nel quale stava galleggiando era
più forte di qualunque cosa. Ace smaniava per metterle le mani sulle spalle e
scrollarla con forza e poter quindi rivedere quei grandi occhi spaventati
trovare conforto nel riconoscere il suo viso.
Così come Marco,
tutto preso dalla contemplazione di quelle strane e mistiche fiamme gialle che
circondavano la minuta figura di Momo, rendendola ai loro occhi una sorta di
leggiadra e struggente rappresentazione dell’angoscia e della fragilità.
Era come vedere
un pulcino ferito ad una zampina: si ha il desiderio di prenderlo tra le mani
ed accarezzarlo sulla testolina per farlo sentire al sicuro, ma allo stesso
tempo si sa che solo restando fermi e lasciando che trovi la forza per
camminare da solo anche con quel piccolo dolore si potrà vedere che sta
nuovamente bene.
“Momo…” esalò in un sospiro il biondo con le labbra appena
socchiuse.
“Dannata! Ti
strozzo a mani nude!!” il ringhio di Roid Brinata
spaccò l’aria silenziosa della notte, colpendo come una bastonata alla nuca
tutti i presenti, memori della presenza dell’ex schiavista solo in
quell’istante, preso da una tale sete di vendetta da caricare con uno slancio a
testa bassa verso la ragazzina, mirando ad oltrepassare i due comandanti della
Moby passando nel mezzo dei loro corpi.
Sarebbe accaduto
il peggio se entrambi, con dei riflessi che solo i capitani di una delle
divisioni del Re Bianco potevano avere, non avessero bloccato ognuno a modo
proprio la corsa del mozzo.
Il mento
leggermente squadrato si ritrovò in un batter d’occhio scagliato all’indietro,
incassando in un sol colpo un pugno da parte del moro ed un calcio da parte del
biondo, ma questo, a quanto parve, non fu sufficiente a mandare a nanna l’uomo
che, rialzandosi a stento sui gomiti rispose con altrettanta grinta gli sguardi
furiosi dei due ragazzi, indicò con l’indice della mano ancora sana la piccola
naufraga.
“Quella strega ci
ucciderà tutti!” fu la rivelazione che diede una scossa di incredulità alle
fronti di tutti i presenti. Non c’era un solo sopracciglio che non si fosse
alzato alla sua confusionaria e decisamente troppo sintetica spiegazione.
Fu così che Roid, scattando da parte a parte la testa e non vedendo nei
presenti alcuna traccia di consapevolezza, si affrettò ad aggiungere
qualcos’altro, ricercando con lo sguardo la figura imponente ed autoritaria del
suo nuovo capitano.
“Capitano Shanks!” gridò, calcando con il braccio alzato la direzione
da lui indicata che puntava sulla ragazzina. “È lei! È lei quella strega! È
stata lei! Lei ha chiamato quel bestione a far affondare la nave su cui ero
imbarcato!”
Dalla loro
posizione i membri della ciurma del Rosso sbiancarono non sapendo cosa fosse
peggio tra dover fare i conti con uno Shanks chiamato
capitano da un elemento simile o prepararsi ad una bella rissa fra ciurme dopo
che quell’imbecille aveva appena dichiarato di far parte della ciurma del Rosso
dopo aver attaccato così apertamente un protetto di Barbabianca.
“Dovevamo
buttarlo a mare.” Mugugnò a denti serrati sul filtro della propria sigaretta
Ben, più furioso che mai e pronto in qualsiasi momento a tirare il collo a quel
coniglio sottoforma di essere umano di nome Roid.
Non era certo
cosa aspettata che Shanks si muovesse silenziosamente
e senza dar segno di turbamento verso il suddetto mozzo, facendolo tacere
all’istante con solo un paio di passi.
Inutile dire
quanto Brinata fosse terrorizzato nel vedere dal basso la figura
dell’imperatore Rosso bloccarsi a solo un passo da lui, oscurandolo con la propria
ombra.
Le sue ossa
tremolavano talmente tanto da poter essere perfino udite e gli angoli dei suoi
occhi pungevano sotto la spinta di lacrime di panico.
Un sorriso
apparentemente innocente si distese serenamente sul viso del Rosso, mentre si
abbassava con calma esasperante all’altezza dell’altro e già questo bastò per
far imprecare a mezza voce una dozzina dei suoi, tra i quali spiccava Yasopp. Dannato Roger e il giorno in cui aveva imbarcato
quel lunatico dai capelli rossi sulla sua nave.
Gli occhi furbeschi
e aperti come quelli di un bambino sinceramente incuriosito dalle parole di un
adulto, si inchiodarono sul viso grondate di sudore dell’ex schiavista,
impedendogli implicitamente sia di fare marcia indietro sulle proprie parole
sia di distogliere il suo sguardo dal proprio.
La lama della
spada del capitano rosso gli brillò tagliente a pochi millimetri dal viso.
“Eh…Male, signor ex capitano, proprio male. La buona
educazione non è il suo forte eh?”
Roid inghiottì un groppone di saliva a vuoto,
nel sentirsi la gola disidratarsi di colpo.
“Fare i comodi
propri sulle navi altrui.” Lo canzonò scrollando un poco la testa con falso
tono accondiscendente. Lucky e Ben augurarono non
molto convinti allo schiavista di avere in tasca qualche fumogeno o altro aggetto
insidioso, perché solo in quel caso avrebbe potuto sperare di sottrarsi al suo
triste destino.
Era in quei
momenti in cui era bene tenersi lontani da Shanks
almeno 10 metri di distanza. E Roid quella distanza
di sicurezza l’aveva appena infranta alla stragrande, aprendo la fogna che si
era scoperta essere la sua bocca.
Il rosso continuò
imperterrito la propria ramanzina sotto gli occhi strabiliati dei figli del
Bianco, non consapevoli della vera identità dell’uomo e, di conseguenza, del
motivo che rendeva il Rosso così intrattabile nei confronti di un membro della
propria ciurma.
“Non ci siamo, signor
Roid. Proprio no.” Cantilenò oscillando un po’ la
spada in segno di negazione, rischiando di ferire con il filo gli zigomi
dell’altro “Saltare in quel modo addosso ad una ragazza…”
la spada venne provvidenzialmente spostata un po’più in là, mentre il rosso
lanciava un sorriso interessato in direzione della fanciulla in questione, ma Roid non fece in tempo a gioirne perché il viso sorridente del
capitano si accostò minaccioso al suo.
“Eeh…” sospirò il Rosso “… mi vedo costretto ad insegnarle
un po’ di buone maniere.” Terminò come se fosse la cosa più ovvia e indevitabile nella loro situazione.
La pelle già
pallida di Roid sbiancò di botto e il suo istinto di
sopravvivenza tornò a pretendere di essere ascoltato, incitandolo a darsela a
gambe levate e tentare la sorte buttandosi fuori bordo per chiedere così asilo
presso la nave della marina che gli aveva attaccati.
Ma si vide
costretto ricacciare quella idea in un angolo della propria mente, ricordando
con terrore la velocità di cui era provvisto l’uomo che aveva davanti. Uno come
lui avrebbe avuto si e no le stesse possibilità di scappare di un topolino
dentro una gabbia e attorniato da una dozzina di gatti affamati.
“U-un momento! Le-ei … è u-una
strega, capitano! ” obbiettò debolmente l’uomo sperando solo che quel pazzoide
del capitano rosso lo ascoltasse, ma dopotutto non aveva più nulla da perdere e
se davvero sarebbe dovuta essere quella la sua fine…bhe… almeno sarebbe andato all’altro mondo ribadendo il
vero fino alla nausea.
“Ha affondato la
mia nave!!”
La sua
affermazione fu subito seguita da un brusio di obiezioni rivolte verso di lui.
“Momo-chan? Ma per favore! Quante botti di sake si è scolato quello pazzo?” “La nostra sorellina non
farebbe del male ad una mosca!” “Già! A momenti ha paura della sua stessa
ombra!”
Le critiche dei
più audaci scemarono tuttavia poco dopo, nel dover ammettere nonostante tutto un
fatto inconfutabile: quello che stava circondando come un manto protettivo il
corpo della loro sorellina indifesa era fuoco.
E se la piccola
naufraga fosse stata in grado di usarlo anche contro qualcuno … sarebbe stato
giusto continuare a definirla indifesa?
Shanks, nel sentire con più attenzione le ultime
parole di difesa dell’ex schiavista però non diede alcun segno di sorpresa, né
d tentennamento.
Semplicemente
sorrise.
Non che non
l’avesse fatto dacché aveva cominciato a minacciare Brinata con la propria
sciabola, ma il modo in cui sollevò gli angoli delle labbra, scoperchiando la
dentatura lattea in un sorriso da malandrino, era sostanzialmente diverso da
come aveva fatto fino da allora.
E Ben capì al
volo.
Quello non era
l’espressione tipica di Shanks quando cercava di
contenere la propria rabbia per una situazione fastidiosamente avversa, ma
l’esatto contrario.
Era felice.
Estremamente contento. Proprio come un bambino al quale vengono date più
caramelle del previsto e si mette a gongolare mentre mantiene per sé quei dolci
zuccherini.
“Uhnn…”
Fudavvero per tutti una secchiata d’acqua
gelida sentire la voce della ragazza ammantata di fuoco fare finalmente
capolino, sciogliendolo Roid da una scomoda
situazione ed Ace, Marco e tutti i pirati della Moby da una tormentata attesa.
Atto 7, scena 3, Arioso del caos
Riemersi da
quella tempesta di ricordi come se fosse stato una densa pozza d’acqua tiepida.
Ero intontita,
frastornata da quel diluvio di emozioni ed immagini che mi aveva colpito con
forza nel’animo, sbatacchiandomi di qua e di là come una fogliolina al vento.
Era strano
tornare in quel modo alla realtà. Il mondo mi appariva traballante, precario,
ma, ripensandoci, forse ero io ad esserlo.
La notte non era
ancora tornata nera e io, accumulate nuove e sconcertanti informazioni su di
me, non mi stupii: quella era la mia vista. O meglio, la mia vista notturna.
Ormai l’avevo capito, anche se un po’ mi lasciava stranita.
Non era più tanto
ritrovarsi con delle capacità simili, spuntate da chissà dove, dopo aver
analizzato per bene quello che avevo rivisto nella mia testa. Era stata la
stanchezza e la mancanza di forze provocata dalle ferite e dal naufragio ad
aver costretto il mio corpo a conservare quante più energie possibili.
Eppure… pensai rabbrividendo ai ricordi
spaventosi che avevano succeduto la mia cattura su quella nave piena di povera
gente picchiata ed incatenata.
Io ero rimasta
lì.
Avevo sofferto le
stesse pene di quelle persone. Niente cibo. Acqua piovana filtrata dalle travi disassate della nave per evitare la disidratazione.
E specialmente… niente luce.
Non un filino di
sole. E io, in quegli orribili momenti, dove i miei occhi vedevano naturalmente
attraverso le tenebre di quella stiva degli orrori, ricordavo di aver
cominciato a piangere silenziosamente mordendomi le labbra per non gridare come
gli altri, implorando di sapere quale fosse il giorno e la notte.
Pregando di
riuscire a capirlo un’altra volta e poter finalmente urlare tutto il mio dolore
ed andarmene da quel posto infernale, senza dover tener conto delle conseguenze.
Il solo pensiero
di quei momenti spaventosi mi fece rabbrividire da capo a piedi e portare le
mani alle labbra, mentre, con palpebre tremolanti, riaprivo ancora un po’ gli
occhi tenendoli bassi e chiedendomi se quelle fiamme gialle si fossero dissipate
insieme ai miei flashback.
Invece erano
ancora lì. Premute contro il mio viso calme e placide come un soffio di aria
tiepida. Lunghe ed affusolate al pari di tante piume sottili e leggere.
Un po’
rassicurata da quel calore impalpabile spinsi il mio viso a guardare ancora un
po’ più in alto, pur non riuscendo a fermare le mie spalle al pensiero di
rivedere il viso di quell’uomo di cui in quel momento conoscevo l’identità.
Non avrei avuto
la forza di scappare. No. Le mie ginocchia tremavano troppo per poter anche
solo pensare di sostenermi.
Invece ebbi un
tuffo al cuore.
Le lacrime mi
salirono meccanicamente agli occhi e cominciarono a sgorgare in tante gocce
sulle mie guance. Provavo un’enorme vergogna per quello che stavo facendo, ma
non riuscii a trattenermi rivedendo il viso di entrambi. Per me era come se la
loro presenza lì equivalesse ad un oasi in mezzo ad un deserto. Mi sentivo
debole, spaventata, con un’enorme vuoto all’altezza del cuore.
Spossata in tutti
i sensi e loro erano lì, davanti a me.
Io mi limitai a
fare di loro il mio appiglio, buttandomi istintivamente verso di loro a braccia
aperte, riuscendo a malapena a cingere loro le gambe, incurante di avere quelle
fiamme crepitanti sulle braccia.
Piansi forte.
Così tanto da cercare di soffocare i miei stessi singulti nella stoffa dei
pantaloni di Marco la mia voce e le mie lacrime.
Odio, tristezza,
rimorso, sollievo, delusione e paura stavano spintonando l’uno contro l’altro
nel mio cuore. Avevo ricordato molte cose, ma non tutte. I mio nome rimaneva
ancora avvolto dalla nebbia.
E io desideravo
tanto di ricadere incosciente sul ponte della nave per potermi beare di un po’
di quiete.
Atto 7, scena 4
Il suo era un
pianto doloroso, soave, un suono che ti entrava nell’anima come una fragranza
di sofferenza e che ti faceva contrarre il petto per la pena. I suoi singhiozzi
consumavano a poco a poco l’aria circostante impregnandola con le loro
vibrazioni,
Non ci fu una
sola persona lì presente che non desiderò trovar modo di farle trasformare
quella litania in una risata cristallina di pura gioia.
Nemmeno Roid Brinata, nonostante i suoi precedenti propositi di far
scontare a quella ragazza tutte le proprie sfortune, riuscì a sopprimere quella
sensazione di dispiacere nel vederla in quello stato.
Marco ed Ace
osservarono le calde fiamme gialle che erano diventate le braccia di Momo,
cingere loro le gambe, stringendo con forza disperata e supplicando per
qualcosa.
Quel qualcosa
arrivò da entrambi contemporaneamente.
Indifferenti alla
presenza del fuoco di lei, i due comandanti si chinarono abbracciandola,
spingendola a sprofondare i suoi singhiozzi sui loro petti.
La ragazza,
tremolando con tutto il proprio minuto corpo, sospirò diminuendo il ritmo dei
propri lamenti, allacciando le braccia attorno il corpo di entrambi e
circondandoli con le sue fiamme dorate.
Era visibilmente
più calma e di questo Barbabianca, sebbene molto
discretamente, ne fu sollevato, così come tutti i suoi figli sul ponte,
affiancati dalle stupite ed un po’ confuse infermiere.
Marco osservò nel
frattempo le lingue vibranti che stavano carezzando morbidamente sia lui che
Ace senza compiere alcun danno, e si chiese se il motivo di quella mancanza di
effetti negativi derivanti dalla loro vicinanza fosse dovuta ad una specifica
capacità di lei oppure dal fatto che lui ed il suo fratellino erano
essenzialmente composti di fuoco.
“Non
voglio più ricordare…” sussurrò lievemente la
naufraga evidentemente rivolta verso di lui. A quelle parole pronunciate in
quello strano modo Pugno di fuoco alzò di poco la testa, dando sfoggio di
un’occhiata interrogativa che fece il giro di tutti i presenti sul ponte, fatta
eccezione per Newgate, Shanks
e Marco stesso.
Persino Ben
rischiò di far cadere la sigaretta a terra, colto dall’improvvisa
consapevolezza di cosa provocasse il sorriso compiaciuto del proprio capitano,
anche in quel momento più vistoso che mai.
Le labbra strette
di Beckman, tornate a stringere saldamente il filtro
della cicca, si piegarono in un sorriso discreto e divertito.
In che razza di situazione
gli aveva imbarcati stavolta?
“Nooooo!!”
L’urlo straziante
di Roid colpì di sorpresa tutti quanti nessuno
escluso, facendo incupire ancor di più il viso a Shanks,
ora preso dallo scrutare l’ex vice capitano, rannicchiatosi a riccio su se
stesso con la fronte sul ponte, come se su di lui stesse per calare l’ascia del
boia.
“SIAMO MORTI!!
MORTI!!!”
“Ehi tu, che diav-!” esclamò Ace, scocciato da quelle parole deliranti e
assolutamente prive di ogni logica, alzandosi di poco da Momo, deciso più che mai
a costringere quel piagnone bastardo a smetterla con i suoi deliri ed ad uscire
più in fretta che poteva dalla sua vista, prima che perdesse la pazienza, ma
un’occhiata eloquente del biondo accanto a lui lo fece restare dov’era.
Gli occhi azzurri
di Marco puntellarono i suoi facendogli capire che non era il momento di fare
colpi di testa e Pugno di Fuoco dovette riconoscerlo anche senza che l’altro
glielo spiegasse: c’erano due ciurme sulla nave del babbo, ed una di queste era
quella di Shanks il Rosso, poi, ad aggiungere un po’
di fastidioso pepe a quella situazione tesa, c’era anche suo nonno, in quel
momento presosi una breve pausa visti gli avvenimenti straordinari della Moby.
La fronte del
moro di corrugò appena, oscurando il suo viso lentigginoso con un’ombra di
serietà, mentre rispondeva mutamente all’intensa occhiata di Marco.
Estrema cautela.
Ecco che cosa ordinavano gli occhi cerulei del fratello.
Una sola mossa
avventata e il minuscolo, precario equilibrio formatosi sulla loro nave si
sarebbe sfasciato come un castello di carte. Poco importava chi fosse sulla
nave di chi. Se quello che aveva tentato di mettere le mani addosso a Momo era
davvero un membro della ciurma del Rosso, sarebbe stata responsabilità del
capitano della Red Force provvedere, non loro.
“HA CANTATO! HA
CANTATO!” continuò a lagnare l’ex schiavista, strisciando sul legno del ponte
con il viso pallido come quello di un morto e i capelli disordinati appiccicati
sulla fronte a causa del sudore che la percorreva.
L’imperatore
Rosso, sospirando affranto, lo guardò da dietro, riponendo nel frattempo la
propria sciabola.
Uno spettacolo
davvero pietoso.
Che fosse per
quello che non l’aveva buttato in mare?
Bha. Era comunque ora di porre fine a quella
scenetta tragicomica.
“Ben.”
Gli bastò
sbuffare il nome del vice capitano perché quest’ultimo avanzasse immediatamente
in avanti con la baionetta in mano e con un colpo secco alla nuca mandasse a
nanna il loro improbabile mozzo.
“Poveretto…” sussurrò impietosito Rock Star, grattandosi la
tempia con un dito. Un poco sentiva di capire quel diavolaccio di uno
schiavista. Certo però,… dare di matto in quel modo per una ragazza..!
Il primo ed il
secondo comandante del Bianco erano ancora mezzi scombussolati dall’ordine del
rosso prima che la voce di quest’ultimo arrivasse alle loro orecchie con il
consueto tono tranquillo e zelante di cui era tanto famoso.
“Vi consiglio di
portare la piccolina in un posto sicuro.” Disse il Rosso rivolto verso di loro,
facendo accigliare con un piccolo grugnito Marco, mentre stringeva ancora un
po’ di più Momo tra le braccia.
Quell’uomo non
gli era per niente simpatico, era troppo sfrontato, e il sentirsi dare ordini
proprio da lui, che aveva scombinando in quel modo la serata alla Moby Dick, in
un'altra situazione sarebbe stato un motivo più che sufficienteper invitarlo cordialmente a riservare quel tono di comando per il suo di equipaggio e togliere le tende
nel giro di 4 secondi.
Ma non ci fu
alcuna reazione da parte del biondo, a parte un’occhiata furtiva lanciata verso
il babbo ed un lieve segno di assenso in risposta all’occhiata significativa di
quest’ultimo.
“Il vecchio Garp potrebbe tornare all’attacco.” Aggiunse poi Shanks voltandosi da dove prima erano state scagliate sfere
metalliche, incontrando, senza dare un minimo accenno di preoccupazione, il
volto di Monkey D. Garp,
ancora bloccato con una palla di cannone tenuta alta a mezz’aria e la mascella
lanosa spalancata per lo stupore.
Shanks si divertì
come un matto ad osservare gli occhi del vice-ammiraglio ingranditisi di almeno
tre volte tanto, mentre indugiavano allibiti sulla figura tremante e luminosa
di Momo.
Bene, bene. A
quanto pare anche lui aveva capito di chi si trattava. Chissà come avrebbe
reagito.
Atto 7, scena 5
Monkey D. Garp era
rimasto letteralmente pietrificato. Il suo mento tremava, non osando dare nome
a quello che aveva appena visto, quasi nella speranza che si trattasse solo di
un enorme sbaglio, di un’allucinazione, o meglio, di un brutto sogno.
Ma non c’era
nulla di surreale nella sensazione di freddo metallo ancora stretto nella sua
grossa e callosa mano.
Ed era certissimo
di non essere caduto vittima di un altro attacco narcolettico.
No. Quella che si
era mostrata in tutto il proprio titubante fulgore sulla nave da lui puntata, e
stretta con disperazione al corpo del nipote e di un altro membro della ciurma
di Newgate, non poteva essere che una di quelle
creature.
Serrò i denti,
senza dar segno di abbassare il braccio muscoloso dalla propria posizione, e
grugnì in gola tutto il proprio malcontento.
Che fare? Non
avrebbe avuto cuore di mettere a repentaglio la vita di un’innocente in quel
modo.
Era sempre stato
un tenero di cuore nel profondo, proprio come lo era stato nel caso di Ace
tempo addietro, ma quella ragazzina era un caso eclatante sul quale uno con le
sue stesse convinzioni non avrebbe mai e poi mai sognato di alzare un solo
dito.
Sapeva bene cosa
doveva aver passato. Oh, il solo mare sapeva cosa quegli occhietti impauriti e
abbagliati dovevano aver visto.
Già il fatto che una
come lei fosse così lontana dalla propria isola natale era una prova delle sue
disavventure.
Se la sua memoria
non lo ingannava era stato incaricato Akainu di
quella missione che doveva aver dato avvio alle sventure di quella bambina.
Quanti mesi fa? Otto? Sì, era stato all’incirca otto mesi fa. Se lo ricordava
troppo bene il modo in cui quel bastardo del suo superiore di grado era
rientrato dall’incarico, decretando con tono strascicato ed auto compiacente
“La missione ha avuto pieno successo”.
Come aveva fatto
a sfuggire alla furia omicida di quel marine fanatico? Doveva essere nata sotto
una stella baciata dalla fortuna per essere sopravvissuta ed essere scivolata
via dall’occhio vigile dell’ammiraglio Cane.
Una sola domanda
lo assillava: come fare in modo di non venir meno agli ordini, senza dover
porre fine al di certo travagliato viaggio di quella piccolina?
“Signore… ?” Koby scelse proprio
quel momento per avvicinarsi al proprio insegnante, rassicurato dall’immobilità
che ne aveva bloccato i bruschi movimenti, procedendo lentamente passo dopo
passo con Hermeppo aggrappato alla sua schiena come
la conchiglia di un paguro.
“Come siamo messi
a munizioni?” domandò a bruciapelo, quasi senza rendersene conto.
Dietro di lui i
suoi allievi, guardandosi l’un l’altro con labbra tremanti si scambiarono una
reciproca occhiata d’incoraggiamento.
“S-signore, q-quella che tiene in m-mano è la nostra u-ultima
palla d-di cannone…” balbettò titubante il più
giovane dei due, indicando la suddetta sfera nelle mani del marine con la mano
tremolante.
Il cervello di Garp il Pugno, vuoi per l’ora tarda, vuoi per via dello
shock subito pochi istanti prima, ci mise un po’ a rielaborare l’informazione ricevuta
da Koby, ma ne valse la pena, poiché, appena ne ebbe
valutata l’utilità, i suoi zigomi si arcuarono in sorriso soddisfatto.
I muscoli interni
del suo braccio si gonfiarono, caricando all’indietro tutta la forza rimasta con
un solo gesto per poi scagliarla in avanti, sferzando l’aria con un fischio che
si fece sovrano dell’aria notturna assieme all’avanzare dell’ultima munizione
rimasta sull’ammiraglia.
Al passaggio di
quel pezzo di metallo tutti i pirati della Moby ammutolirono, vedendolo passare
a pochi millimetri di distanza da loro con precisione quasimillimetrica, rivelando in neanche mezzo
istante l’ultimo l’obbiettivo del marine.
Shanks ridacchiò rifoderando la propria spada,
mentre due perfette semisfere nere rotolavano dietro di lui.
La grinta certo
non mancava al nonnetto. Non aveva nemmeno esitato a
scegliere la sua faccia come bersaglio ultimo della sua pioggia di meteoriti. E dire che gli stava simpatico quel vecchio
brontolone …!
“BWAHAHAHAHAH!”
tuonò forte la risata del Pugno, facendo scattare un paio di volte il
sopracciglio sudato di Ace,mentre la figura del nonno assumeva la tipica posa a
pugni chiusi sui fianchi ed a petto in avanti, gonfio di boria.
“Non avrei voluto
arrivare a questo mocciosetto capelli rossi, ma così
come stanno ora le cose non mi lasci altra scelta!!” esclamò sfidando il
capitano della Red Force con lo sguardo.
“Ti do tempo fino
a domani per levare le tende da quella bagnarola su cui ti sei fatto
clandestino! Se non lo farai puoi anche dire addio all’Equilibrio ed aspettarti
uno scontro in piena regola!” terminò puntando un grosso dito indice in
direzione del Rosso, ora tutto occupato a sorridere a metà tra lo sfacciato ed
il riconoscente.
Lui, rompere l’equilibrio?
Ma quando mai? Era una battuta così inverosimile che dovette sforzarsi per non
scoppiare a ridere lì seduta stante.
“E tu, NIPOTE
DEGENERE!”
Ace alzò gli
occhi al cielo, calcandosi con disperazione malcelata il cappello sugli occhi,
sperando di poter scomparire al più presto nella stiva della nave, mentre dava
appunto le spalle al nonno nell’atto di recarsi alla porta della sottocoperta
insieme a Marco e Momo.
“Non credere di
essertela scampata! Puoi scommettere che non ti mollerò un solo istante!
Continuerò a tenerti d’occhio finché non mi capiterai sotto mano e allora-..!”
Il fragore di schegge
che saltavano in un sinfonico scricchiolio, provocato da un pugno ben assestato
sul parapetto dell’ammiraglia, bastò ed avanzò per far crollare ad Ace ogni
speranza riguardo un’ipotetica tregua tra lui ed il nonno e agli altri
comandanti della Moby la voglia di chiedere ulteriori dettagli sulla relazione
tra quella belva di Monkey D. Garp
ed il loro avventato fratellino.
“Coraggio mezze
cartucce! Tutti in branda!” decretò il vecchio marine, scendendo dalla propria
postazione e lasciando di sasso i propri uomini.
“M-masignore… ” azzardò Hermeppo, mentre dietro di lui i suoi compagni si
lanciavano sguardi apprensivi e confusi “… e i turni di guardia-..?”
“BASTA E AVANZO
IO!”
Non servì altro
per far correre di filato nelle proprie cabine l’equipaggio di marine. Ah, la
gerarchia militare aveva i suoi risvolti positivi in certi casi. Specie se si
era il più alto di grado.
E mentre Garp di metteva a gambe e braccia incrociate sul ponte,
puntando con occhio vigile la nave pirata ormeggiata accanto alla sua, gli
venne spontaneo grugnire tra sé e sé un avvertimento in direzione dell’odioso
Rosso.
“Sbrigati a
metterla al sicuro, marmocchio.”
Atto 7, scena 6
“Su Momo, su.” Supplicò
la voce incitante di Penelope, mentre tentava invano di far allontanare la
piccola naufraga dai due comandanti, stando attenta a non avvicinarsi troppo a
quelle fiamme dall’aspetto minaccioso che la ricoprivano da capo a piedi.
Per tutta
risposta le mani della ragazza non fecero che stringersi con più convinzione su
entrambi, spiegazzando un poco la camicia sbottonata di Marco e premendo le
dita sulla schiena nuda di Ace, con una forza tale da far desistere in pochi
minuti il gruppo di infermiere, sceso con loro nella grande sala da pranzo
insieme a tutti gli altri.
La bionda lanciò
un’occhiata di puro sconforto verso il capitano della Moby, scuotendo la testa
negativamente. Edward Newgate mandò giù un altro
sorso di sake per nascondere una smorfia di
preoccupazione, scoccando poi una sbirciatina di puro fastidio al Rosso seduto
dinanzi a lui con tutta la propria ciurma appresso.
Ma come diavolo c’era
finito quel fastidioso insetto sulla sua nave?
Le sue labbra
abbandonarono l’orlo del proprio boccale con un lieve schiocco, mentre scostava
la testa da un lato per meglio osservare il sorriso sfrontato ed infantile del
proprio rivale.
Le enormi dita
della sua mano tremarono, stritolando il manico del bicchiere che venne poi
sbattuto con un botto sul pavimento della mensa, lasciando senza fiato i suoi figli.
Satch sospirò, facendo del proprio meglio per
ignorare il groppone che gli era salito in gola. Male, davvero molto molto male.
L’odore
lievemente acidulo e pungente delle poche gocce di sakè, che erano saltate via
dal boccale, invase le narici dei presenti, che dovettero accontentarsi di
umettarsi le labbra a quell’invitante fragranza, vista la tensione che gli
costringeva a tenersi fermi in attesa di un risvolto decisivo da parte dei due
imperatori.
Era tale l’ansia
da far seccare la gola a tutta la nave.
Persino Yasopp e Lucky sembravano
soffrire dell’aria pesante della sala, eccezion fatta per Ben che, trovatosi
una buona sedia sulla quale accomodarsi, si era messo a ad aspirare con calma
snervante dalla propria sigaretta lunghe boccate di fumo, lasciando accasciato
ai propri piedi il corpo esanime di Roid, senza
degnarlo del minimo sguardo.
Eccoli che iniziano, pensò il vice capitano
della Red Force, anticipando di pochi istanti l’inizio
della conversazione.
“Spero tu abbia
una buona ragione per tutto questo, moccioso.” Strascicò la sua voce cavernosa,
mentre i suoi occhi si assottigliavano minacciosi verso l’altro, tutto
sorridente e decisamente meno ostile nelle intenzioni. Bhe.
Almeno in apparenza. Con Shanks il Rosso non c’era
mai nulla di certo. Poco ma sicuro.
“Oh, niente di
speciale.” Rispose con nonchalance l’altro, alzando con fare superficiale la
mano destra “Il solito: la noia, il caldo… sai, un po’
di tutto. Mi stavo allegramente crogiolando sul ponte della mia nave
chiedendomi come fare per dare un po’ di senso alla giornata e poi *ting* ho
pensato: perché non fare un salutino al vecchio Newgate?”
Il suo
ragionamento spiazzò letteralmente tutti quanti, facendoli finire a gambe all’aria
quei pochi che avevano resistito alle sue ondate di haki
di poche ore prima. Ben Beckman si sforzò di tenere a
bada sia la pesante emicrania che gli aveva trapassato la testa, sia gli
istinti omicidi che lo avevano assalito nell’udire le parole del proprio
capitano.
Sperava vivamente
che quello spostato sapesse quello che stava facendo, perché se Newgate non l’avesse ucciso ci avrebbe pensato lui. Oh, altroché.
Ace deglutì a
vuoto, non sentendosela di proprio ridere sopra una simile situazione.
Rispettava Shanks, ma in quel momento, vedendo il
babbo prossimo a far scoppiare tra le mani il calice di sake
nel tentaivo di contenere la rabbia, l’unica cosa che
gli veniva da pensare era: Che cavolo sta combinando, quell’idiota?
E Marco non era
certo da meno. Anzi, il suo cervello stava già rielaborando più e più modi per
poter mettere personalmente le mani su quel Rosso presuntuoso e gettarlo fuori
dalla Moby il più in fretta possibile.
“Il resto puoi
facilmente intuirlo.” Continuò intanto Shanks,
incurante delle occhiatacce della propria ciurma e dello sguardo di puro odio di
Newgate diretto su di lui.
“Già… Ti sei fatto seguire di proposito dal vecchio Garp e poi ti
sei fatto imbarcare sulla mianave…” la voce pericolosamente tremante dell’imperatore
Bianco rimbombò tra le mura legnose della mensa, toccando nel profondo le
interiora di ogni singolo individuo lì presente.
Il contatto con l’haki del Bianco dava l’impressione di essere pressati da
qualcosa dall’interno con lentezza esasperante e Momo a quella sgradevole sensazione
si lasciò istintivamente sfuggire dalle labbra un singulto, aggrappandosi con
più forza alle spalle dei due comandanti.
Accorgersi del turbamento
che stava provocando nella piccola, aiutò Barbabianca
a calmarsi quel tanto che bastò a fargli alleggerire l’ondata di haki che inavvertitamente aveva lasciato traboccare fuori
dal proprio corpo insieme all’ira.
“Colpevole.” Fu tutto
quello che disse a propria discolpa il Rosso, alzando una mano e se ci fosse
stata anche l’altra, lo avrebbe fatto anche con entrambe per esprimere il
proprio desiderio di scusarsi, ma si sarebbe potuto accontentare solo di dare a
vedere di essersi assunto la responsabilità dell’accaduto, anche se in modo
molto bambinesco.
“E come
giustifichi il comportamento del tuo uomo nei confrontidi mia figlia?”
A quella frase la
sala si zittì in attesa della risposta dell’altro. Gli occhi azzurri e quelli
carbone di Marco ed Ace si puntarono sul rosso, anche loro ansiosi di sentire
le sue scuse e qualche spiegazione riguardo le parole deliranti dell’uomo.
Le labbra di Shanks si incurvarono impercettibilmente: alla fine erano
arrivati al nocciolo della questione.
“Mozzo
provvisorio, prego.” Tenne a precisare, riaprendo gli occhi dall’espressione
tutta sorrisi di poco prima, poggiando il braccio sul rispettivo ginocchio.
“E per quel che
riguarda la tua nuova pargoletta …” aggiunse subito dopo, voltandosi verso
Momo, che proprio in quel momento stava osservando con la coda dell’occhio il
pirata, tenendo il viso premuto contro il petto tatuato di Marco.
Ci fu un breve
istante in cui l’occhietto dorato e incredibilmente lucido di lacrime incontrò
quelli scuri e vispi del rosso, prima che quest’ultimo si voltasse nuovamente
verso il suo interlocutore.
“… devo farti le
mie congratulazioni, vecchio. È proprio un diamante allo stato grezzo.” Ridacchiò
per un attimo “E non è facile trovarne di altre come lei per i mari. Anzi,
oserei dire quasi impossibile con i tempi che corrono.”
Quelle parole
lasciarono Newgate perplesso, tanto che un
sopracciglio scattò all’insù, decretando ufficialmente che le parole del suo
rivale erano riuscite a scalfire la corazza della sua rabbia, insinuando a lui
una certa perplessità mista a curiosità.
E Shanks esultò interiormente come in bambino: che spasso!
Vedere il vecchio Bianco pendere dalle sue labbra non aveva prezzo!
Finse un’occhiata
stupita, come se avesse compreso solo in quel momento che il capitano della
Moby non era a conoscenza della vera identità della giovine da lui stessa
nominata figlia.
“Oh? Non dirmi
che non lo sapevi!”
“Se non la smette
di fare il santarellino … !” sussurrò a denti stretti Marco, prossimo ormai ad
esplodere. Poteva darla a bere a tutti, ma non a lui. Sapeva benissimo cosa si nascondeva
sotto quella faccia da innocentino e se avesse continuato quella messinscena un
solo istante di più, per tutti i 4 mari, giurava, avrebbe-..!
Un tremolio un po’
più forte da parte di Momo lo fece distrarre al momento giusto, rendendolo
conscio di star perdendo la solita pacatezza. Sospirò appena strofinando con
più convinzione la schiena della ragazza. Non poteva permettersi colpi di
testa. Non proprio lui. Doveva pensare che era per il suo bene.
Shanks poggiò una guancia sulla mano destra, facendo
perno con il gomito sulla gamba, crogilandosi di
soddisfazione alla vista del volto sempre più confuso di Newgate.
Sarebbe stata una vera soddisfazione continuare quel giochetto un po’ più a
lungo, ma conosceva bene il temperamento del nonnetto
e non era dei migliori. Avrebbe fatto meglio quindi a porvi fine seduta stante,
a meno che non volesse dare inizio ad una vera e propria guerra in neanche …
uhm no, forse lo spazio non era nemmeno così angusto come pensava.
“Andiamo! Hai una
Paradisea a bordo!”
“Una cosa?” sbottò automaticamente Ace con
sguardo dubbioso, come del resto anche gli altri suoi compagni. Il moro fece
incontrare i propri occhi con quelli di Marco, ma non vi trovò niente di
diverso da quello che aveva letto negli sguardi di Satch,
Vista e Jaws, stupiti tanto quanto lui.
Per poco Ben non
esplose in un sospiro liberatorio.
Finalmente! Ci
voleva tanto per dire quella maledettissima parola?! Cavoli. Non se ne poteva
semplicemente uscire con un “Ehi, Newgate, la ragazza
che quel cretino del mio mozzo ha cercato di accoltellare è una Paradisea. Sai cosè? No?! Se vuoi te lo racconto!Tanto non ho nulla da
fare al momento!”, NO! Lui doveva fare giri e rigiri di parole assurdi!
Oh! Un altro po’
e avrebbe commesso ammutinamento!
Anche lui aveva
capito a grandi linee la vera identità della piccola ed era stato un vero e
proprio parto aspettare che quell’idiota patentato del suo capitano vuotasse
buona parte del sacco a Newgate.
Santo patrono dei
pirati, che stress.
“Moccioso.” Proruppe
con calma snervante il Bianco, adocchiando duramente la figura accovacciata del
Rosso che smise di ridere immediatamente, intuendo che il tempo delle risate
era finito.
“Spiegati.” Fu il
comando con tono di avviso che gli venne rivolto.
Si concesse un ultimo
sorriso prima di riassumere la sua vecchia espressione seria. Era il momento
delle spiegazioni.
“D’accordo, d’accordo.”
Fine
Atto Settimo.
Alloraaaa! Rieccomi qui!
Contente! È stato abbastanza difficile scrivere questo capitolo. Sob. Avere più personaggi da far interagire
contemporaneamente è un lavoraccio! X( Oda sei un genio! Solo dei personaggi
profondi e ben caratterizzati possono far sudare in questo modo un’autrice di fan
fiction!
Ok,
terminato lo sfogo. Passiamo a cose più importanti.
Immagino
che vi starete chiedendo: che caspita sono le Paradisee??!! Voglio saperlo!
Calmine lettrici care! Ehehe!
Io so cosa sono le Paradisee e non preoccupatevi: il prossimo atto sarà
incentrato alla spiegazione della natura della nostra Momo-chan!
*_*
La prima
domanda si incentra più che altro sui flashback, e via con il grassetto!
I personaggi citati nei flashback di Momo (Arch e Viola) compariranno o no?
E ancora…
Quanto ci metterà Momo ad imparare decentemente
la lingua?
Mi
raccomando non mi abbandonate! E recensite più che potete che fa bene al cuore
sia mio che vostro! §.§
Vi
aspetto al prossimo atto! Bye bye!
Note di LIBRETTO: Jap>Ita
Sumimasen! Onegaishimasu!Onegai!Onegai! > Perdonatemi! Vi scongiuro! Vi supplico! Vi
supplico!
Continuavo a
guardare quell’uomo di sottecchi, nonostante sapessi che lui se ne era già
accorto prima, studiandolo senza freni in ogni suo minimo particolare, passando
dalle sue ciocche rosso incandescente al suo mantello nero più della notte. Era
davvero un individuo carismatico, e lo capii da come non riuscivo a staccargli
gli occhi di dosso. Sentivo come se attorno a lui si sprigionasse un’energia
magnetica, simile a quella che avevo sentito poco prima, ma dotata di un timbro
diverso.
Dava
l’impressione di essere pesante tanto uguale, ma stranamente meno marcato, …
quasi fosse trattenuto.
Io intanto non
smettevo di tremare, sentendo le mani di Marco e di Ace stringermi rassicuranti
intorno alle spalle.
Mi dispiaceva
dover essere un tale peso, ma davvero non riuscivo a fare altrimenti: il
ricordo di quelle immagini, che mi vedevano vittima della stessa sorte degli altri
stipati nella nave di schiavi, erano ancora troppo marcati perché potessi
calmarmi.
Le mie mani
risposero alle mani dei sue, stringendosi appena, proprio come avevano fatto
con me pochi istanti prima, premendo le mie spalle con gentile e rassicurante fermezza.
Sentii i loro corpi sciogliersi un poco, facendomi sospirare sollevata. Non
potevo sopportare l’idea di farli preoccupare troppo.
Dovevo
riprendermi.
Cominciai a
cercare di fare qualche respiro profondo, nel tentativo di calmare il sordo
tonfo del mio cuore che mi tamburellava nelle orecchie.
Due odori ben
distinti penetrarono subito nelle mie narici, solleticandole con delle
fragranze saline e spolverate di un odore buono, invadendomi il petto come un
potente calmante.
Non so quanto
tempo stetti lì, ma qualche istante dopo mi resi conto di aver mollato un poco
la presa sulle loro spalle e di aver poggiato l’orecchio sul petto glabro di
Marco e la mano sinistra su quello di Ace, ascoltandone affascinata i suoni che
vi provenivano, trapassando a stento i lembi di pelle tatuata o meno, e
sincronizzandosi ad un ritmo che solo io
riuscii a cogliere.
Quei due battiti
musicali mi cullarono per qualche minuto, riportando alla mia mente sensazioni
di antico calore e luce, di speranza, quotidianità, di libertà.
“Ningyo no monogatari o ikutsuanatashimasuka?”
Aprii appena gli
occhi – quando gli avevo chiusi?- rivolgendo nuovamente il viso verso l’uomo
seduto di fronte al capitano della nave.
Lo avevo sentito
parlare anche prima, eppure quella volta percepii qualcosa di diverso. Il suo
tono aveva subito un radicale cambiamento, modulando la voce con un suono
profondo e meno trillante di prima.
Era come se
avesse – anzi – aveva appena finito di scherzare.
Tentai a poco a
poco di riemergere dall’invitante torpore nel quale ero piombata.
…
Accidenti però se
era difficile.
Atto 8, scena 2
Marco ce la stava mettendo tutta. Veramente.
Non c’era una sola cellula del suo corpo che non fosse tesa nello sforzo di
resistere all’impulso di prendere Momo ed andarsene di filato da quella sala.
Le sue mani si
mossero da sole, andando a serrarsi ancora un po’ di più su quella parte di
corpicino roseo che si era ritrovato a condividere con il fratello, mal celando
la loro natura possessiva.
I suoi occhi
cerulei, vagarono, corrisposti da uno sguardo altrettanto turbato, verso il
volto di Ace.
Il moro si era
inizialmente stupito della reazione dell’altro, poi si era lentamente
accigliato, capendo in quel preciso istante i pensieri del fratello.
Un sorrisino
spavaldo fiorì sul viso fanciullesco di Pugno di fuoco, incitando quello più
maturo dell’altro a raccogliere la sua sfida. La Fenice non si fece ovviamente
pregare, inarcando le bionde ciglia verso il centro del viso, rimarcando così
la sua decisione finale.
“Aah… quei due.” sospirò Satch con
un sorrisetto sulle labbra, notando come si fossero silenziosamente aperte le
loro ostilità. Povero scricciolo, si ritrovò a pensare, stava sulla Moby da
nemmeno tre giorni circa e già si ritrovava due teste di legno a contendersi il
suo cuoricino.
Strinse gli
occhi, dissimulando il formarsi di una piccola gocci di sudore sulla tempia con
una mano tra i capelli, facendo finta di lisciarseli all’indietro.
Gli sarebbe
presto toccato fare da arbitro.
E lì, mentre un semplice
abbraccio si trasformava, sotto gli occhi divertiti e curiosi dei 3 comandanti,
in un breve susseguirsi di strette prolungate, atte solo a sottolineare la
determinazione di entrambi i contendenti, il Rosso diede apertura alle proprie spiegazioni
con una semplice domanda diretta a loro padre, attirando su di sé l’attenzione
di mille e più occhi.
“Quante storie conosci
sulle Sirene?” aveva chiesto secco, fronteggiando lo sguardo severo e
impaziente del gigante. Quest’ultimo si limitò a corrugare la fronte, cercando
con ansiosa premura nella propria mente motivo del collegamento tra il popolo
delle sirene e la razza citata dal rivale.
Non gli servì
rispondere perché l’altro capisse di dover dirigere il discorso senza domandine
a trabocchetto. In fondo era la sua ciurma quella ad aver invaso una nave
altrui. Meglio andare velocemente al nocciolo della questione.
“Sai, prima che
il governo stipulasse quell’inutile ed inefficace legge sull’interruzione della
persecuzione degli uomini pesce e le sirene, ce ne erano parecchie.” Cominciò,
godendosi per qualche istante il silenzio tombale nel quale regnava solo il
suono delle sue parole “Ovviamente queste non avevano molta importanza per i
compratori di schiavi. Gli schiavisti partivano, piazzavano qualche ingegnosa
trappola in mare ed ecco servito una gamma di merce di ottima qualità, pronta
per l’acquario … ” proseguì gesticolando vivacemente con la mano destra,
nonostante la sua voce denotasse una piccola increspatura di fastidio in quello
che stava raccontando. Il Rosso era famoso per essere un convinto sostenitore
del “vivi e lascia vivere” e altrettanto per averlo fatto capire a suon di
fendenti di lama.
Edward Newgate
osservava oramai rapito la spiegazione dell’altro, catturandone ogni singolo
significato del filo logico di quel discorso, ansioso di vederne la fine.
“Eppure c’era un
particolare che nelle testacce dei nobili è sempre
rimasto impresso grazie a queste storie.”
Ormai era
impossibile togliere gli occhi dalla figura del rosso.
Diavolo, era
davvero un narratore nato. Non c’era un singolo pirata su quella nave che non
pendesse dalle sue labbra.
Shanks si concesse un sorriso di vittoria. Ah,
quanto amava stare al centro dell’attenzione.
“Il Canto.”
Concluse, lasciando qualche istante perché tutti quanti assimilassero quello
che aveva detto.
“Non è cosa tanto
strana associare le Sirene a dei canti melodiosi …” concesse non appena riprese
il discorso “ …, ma all’epoca non lo era neppure dare a queste canzoni la
capacità mistica di ammaliare la gente, talmente tanto da … ”
Un altro momento
di silenzio e la punta dell’unico dito indice fatto combaciare lentamente con
la superficie piatta del pavimento.
“… far colare a
picco le navi.”
Ci fu un breve
momento in cui decine di brusii positivi rumoreggiarono nella stanza, scandendo
quella nuova pausa del capitano rosso.
Affondare le
navi? In effetti non era cosa nuova sentire una diceria simile, ma era un
pettegolezzo sorpassato da tempi immemori. Tutti quanti sapevano che le Sirene
cantavano solo per diletto e che non possedevano alcun potere ipnotico.
Ma, ancora, dove
voleva andare a parare il Rosso parlando delle Sirene? Non doveva spiegare cosa
fossero le Paradisee?
“Immagino che vi
suoni un po’ strano sentirmi parlare delle Sirene, … ” aggiunse frettoloso e
condiscendente il capitano della Red Force,
rassicurando sia il Bianco che i pirati attorno a lui “ …, ma se pazientate un
attimo vi sarà tutto più chiaro. ”
Prese un respiro
profondo prima di ricominciare. Quella che stava per venire era la parte più
tortuosa, ma doveva ammettere di aver fatto un ottimo lavoro con le prime
spiegazioni.
“Le Sirene in
realtà non hanno mai fatto affondare una nave. La loro sola colpa fu quella di
essere state accomunate a loro insaputa ad un altro tipo di creature, amanti
della musica tanto quanto loro.”
Gli occhi neri di
Newgate fissavano bramosi di sapere quelli marroni
del rosso, incitandolo silenziosamente a proseguire il proprio monologo.
“Creature
soprannominate all’epoca Sirene degli
scogli.”
Molti dei pirati
di Barbabianca sperarono che il padre non desse di
matto a quell’ennesima sospensione del discorso, ma stranamente il gigante dai
baffi a mezzaluna non disse né fece nulla di avventato, lasciando libero il
rosso di continuare.
Strano.
Shanks da parte sua sospirò sollevato: si era aspettato
una reazione peggiore.
“E su questo
argomento preferirei lasciare la parola al mio fidato vice.” Sorrise, indicando
con un pollice all’indietro la figura stravaccata di Ben, ormai prossimo a
buttare via un’altra cicca.
Beckman spostò rapace gli occhi sottili verso il
proprio capitano, nascondendo a meraviglia la sorpresa dalla quale era stato
colto sentendosi tirare in causa da quel pazzoide, con il quale si era
ritrovato a condividere la stessa nave per anni.
“Avanti Ben, non
fare il timido. Le infermerie di Newgate non ti
assaliranno, tranquillo.” Lo prese un po’ in giro Shanks,
notando la lentezza della reazione del vice, scatenando un paio di risatine tra
il reparto infermieristico della Moby e anche tra l’equipaggio.
“Sì Ben, vai
tranquillo” “Già, sei troppo stagionato per loro ormai!”
Le braccia di Ben
fecero uno sforzo sovrumano per non afferrare quel sacco di patate di Roid e gettarlo addosso ai due suoi compagni che avevano
osato parlare alludendo alla sua età. Fortunatamente ebbe abbastanza
autocontrollo per dirigere le gambe verso il centro della mensa, dove il suo
capitano lo attendeva ancora con un sorriso da schiaffi stampato in faccia.
Prese un sorso di
fumo, soffocando così l bisogno di mollare un calcione al suo capitano. Bha, nonera il caso
di prendersela così. Avrebbe avuto tutto il tempo di fargliela pagare sulla Red… con gli interessi, ovviamente.
I suoi occhi
grigi passarono quasi casualmente sulla figura della ragazzina, analizzandone
in pochi istanti l’aspetto, il colore delle sue fiamme, e anche la forma che
esse formavano attorno al suo corpo.
Prese un’altra
boccata e la rigettò fuori, non curandosi delle occhiatacce provenienti dalla
ciurma avversaria.
Non c’erano
dubbi.
Posò lo sguardo
su un punto indefinito della stanza, aprendo bocca con gli occhi fissi su un
pensiero invisibili a tutti.
“È strano a
dirsi,… ma le Sirene un tempo erano solitamente rappresentate in due modi…” cominciò allontanando lentamente da sé la sigaretta
con una mano, mentre l’altra veniva poggiata sul fianco.“… o come abitanti del
mare dotate di una coda di pesce…” portò ancora una
volta la sigaretta alle labbra, spostandola nuovamente
“… o come mostri alati,
abitanti di un’isola composta da soli scogli, che si tramutavano in splendide
donne quando si avvicinavano abbastanza alle imbarcazioni passanti dalle loro
parti.”
“Ma non capisco…” intervenne la voce dubbiosa di Ace, su cui venne
posta l’attenzione dell’intera nave. Il moro era visibilmente confuso, con le
ciglia aggrottate e gli occhi stretti e seri nel tentativo di assemblare
l’insieme di informazioni fornite dal rosso e dal suo vice.
“… che cosa
centrano le Sirene degli scogli con le Paradisee … e con Momo?”
Di nuovo gli
occhi della ciurma del Bianco furono diretti su Shanks,
sorridente come una volpe che aveva scaltramente ottenuto quello che voleva.
“Perché le
Paradisee sono delle Sirene degli scogli.” Disse il rosso.
Questa volta il
brusio che ne derivò fu più forte di quello precedente. Le Paradisee erano
delle Sirene? Quindi Momo era una Sirena? Non ci capivano più niente.
“Calmi, calmi.”
Fece di nuovo Shanks, tornando per un attimo
sorridente e beato, come se al posto di una ciurma di tagliagole ci fosse stata
una banda di bambini ansiosi di sapere il finale della storia e cominciano a
fare congetture inutili.
“Ora vi spieghiamo. Dunque, tutte le volte che
si parlava di Sirene, all’epoca si finiva sempre a parlare della loro pessima
abitudine di annegare intere ciurme di sventurati che passavano accanto alla
loro casa. Ma erano stranamente racconti poco dettagliati, almeno nelle storie
riguardanti le Sirene per metà pesce. Quelle delle Sirene di scoglio erano
invece erano più ricche di particolari, ambientate esclusivamente di notte: si
iniziava con l’avvistamento di una serie di fuochi sul mare, accompagnati da
una serie di canti dolci e vari, per poi continuare con l’avvistamento di
un’isola non appena l’imbarcazione si avvicinava abbastanza …”
A quelle parole
per Marco fu quasi automatico collegare alla parola fuochi e canti la ragazza
che teneva stretta tra le braccia. Possibile che si stesse parlando proprio di
Momo? Lei che così fragile e impaurita si rifugiava appena possibile tra le
braccia di qualcuno?
“A volte le
storie finivano così: la nave si avvicinava attirata dalla musica e si
sfracellava sugli scogli. A volte però non era così semplice e prima
dell’inevitabile accadeva qualcosa …”
Dannazione aquel rosso ed alle sue pause studiate per
arricchire la suspense!
“Alla nave si
avvicinavano a grande velocità delle figure luminose e alate che si
aggrappavano ad ogni parte della nave e cominciavano a cantare…
tramutandosi in pochissimo tempo in donne dall’aspetto angelico.”
Un silenzio
tombale invase l’enorme stanza della Moby. Nessuno fiatava. Quello di cui gli
aveva appena messi a conoscenza il Rosso era troppo strano. Ricco di
particolari sì, ma decisamente troppo ambiguo.
Cosa stava
cercando di dire? Che la piccola e spaventata Momo non era altro che un mostro
in grado di affondare intere navi? Ma non si era congratulato prima? E quel suo
uomo che aveva attaccato la piccola era uno dei pochi sopravvissuti?
“Moccioso…” la voce di Edward Newgate
tornò a risuonare pericolosamente verso il Rosso, mentre l’immensa mole dell’
imperatore Bianco si sporgeva minacciosa verso quest’ultimo, avvertendolo con
uno sguardo eloquente di stare attento alle proprie parole.
“Bada a quello
che dici.”
“Ahaha. Tranquillo. Non avevo intenzione di offendere la tua
pargoletta.” Rise in risposta Shanks, evitando
magistralmente un ennesimo attacco d’ira del rivale.
“E allora cosa
volevi dire, spiegandoci che le Paradisee sono conosciute anche per affondare
le navi?” chiese la voce di Marco con una vena di asprezza.
Di tutta risposta
il Rosso guardò con un sorriso da furfanteil biondo.
“Scommetto che la
piccolina non parla la nostra lingua, neh?”
La Fenice e Pugno
di fuoco ci stettero letteralmente di sasso, irrigidendosi di botto. Come
faceva a sapere una cosa simile?
“Per loro è
naturale parlare come se stessero cantando.” Continuò imperterrito l’altro “È
la loro lingua. E il fatto che non abbiano mai avuto modo di entrare in
contatto diretto con il nostro mondo, spiega in parte il perché
dell’avvicinarsi alle nostre navi.”
“Erano
semplicemente curiose.” Intervenne Ben, rimasto sempre al suo fianco.
“Ma perché solo
di notte?”
Di nuovo Ace
aveva introdotto un nuovo ed utile interrogativo, facendo gonfiare il petto del
Rosso di orgoglio nel vedere il proprio discorso andare avanti proprio come
previsto.
“Insomma…” continuò il moro, strofinandosi il retro del collo
con una mano libera, mostrando un poco di imbarazzo per la propria
intromissione “… hai appena detto che sono in qualche modo dotate di ali e che sanno
volare… com’è possibile che di giorno non provassero
ad uscire dall’isola né si manifestassero con canti o…”
fece una pausa, adocchiando le innocue spire di fiamme gialle che lo stavano
ancora abbracciando.
“… fuochi?”
“Perché la loro
isola è un concentrato di pericoli.” Disse questa volta Ben, anticipando il
proprio capitano, pronunciando queste ultime parole quasi sovrappensiero,
mentre tornava stancamente al proprio posto, ritenendo di aver detto tutto il
necessario e che Shanks avrebbe potuto continuare
benissimo da solo.
Il Rosso osservò
con la coda dell’occhio il suo amico rimettersi sulla sedia da lui
precedentemente occupata, tornando subito a parlare.
“L’isola delle
Paradisee non è affatto un paradiso come può sembrare ad un primo sguardo.”
sentenziò l’imperatore Rosso incupendosi leggermente “A partire da pochi metri
dalla costa rocciosa è composta da un solo immenso rilievo montuoso che si
innalza verso l’alto per chilometri e chilometri, ricoperto da migliaia e anche
più tipi di piante, rigogliose e fitte, impenetrabili per chiunque. Il tutto
contornato dalla adorabile presenza
di altrettante specie carnivore pronte a fare delle Paradisee il loro
pranzetto.”
“Per questo sono
costrette ad uscire solo di notte.” Affermò Barbianca,
ricevendo un segno di assenso dall’altro.
“Senza contare il
fatto che sono nel bel mezzo di una fascia di Bonaccia.”
A quella frase
nemmeno Satch e Vista poterono evitare di spalancare
la bocca per lo stupore.
Una fascia di
Bonaccia?! Tutti quanti improvvisamente venne in mente l’apparizione
inaspettata di quell’enorme Re dei Mari al di fuori del proprio territorio e di
come avesse tentato di mangiare in un solo boccone la loro piccola sorellina.
Un Re dei Mari… l’aveva seguita solo per papparsela?
Shanks rise, interpretando perfettamente le loro
espressioni, poggiando il viso su una mano.
“Sembra che
abbiate già avuto un piccolo spiacevole incontro in proposito.”
“Più che
spiacevole! Quel lucertolone ha cercato di ribaltare la Moby!” annuì
vigorosamente Ace, allargando le braccia per rendere l’idea di quanto fosse
immenso quel bestione che aveva cercato di divorare sia lui che Momo.
“Eh già…” ridacchiò il Rosso “I Re dei Mari sono molto bravi a
captare la presenza delle Paradisee. Il loro canto si sente a miglia e miglia
di distanza passando attraverso l’acqua, e il calore dei loro corpi quando sono
in quello stato…”disse accennando al corpo in fiamme di Momo “… è inconfondibile.”
Marco osservò un
attimo le lingue dorate di Momo, ragionandovi un po’ su. Prima di attaccare
Momo, il lucertolone aveva mirato a lui.
Che fosse stato a
causa della sua forma di Fenice?
“Capite ora? Se
quella bambina ...” riprese Shankssempre riferendosi alla naufraga “… osasse
aprire bocca di giorno, la vostra nave sarebbe assalita da un branco di Re dei
Mari pronti a contendersela, quindi l’unico momento in cui può parlare è la
notte. Esattamente quando i Re dei Mari vanno a nanna.”
“Alla fine quindi
le leggende che vedono come protagoniste le Paradisee sono pressoché invenzioni
dettate dalla paura.” Disse infine Edward Newgate.
“Esattamente.”
Annuì vigorosamente Shanks, felice di aver dato sfoggio
della propria conoscenza a quel burbero del rivale. “Alcuni dicono che le
Paradisee, avvicinandosi alle navi, cercassero di avvertire i marinai del
pericolo, ma senza conoscere la lingua non si può dirlo con certezza…”
“E tu come fai a
sapere tutte queste cose?”
La domanda del
primo comandante marcò nell’aria un momento di silenzio imbarazzato, scandito
poi dalla risata nervosa del Rosso, mentre si strofinava la nuca imbarazzato.
“Bhe…”borbottò tornando poi ad ostentare la sua tipica
espressione gioviale“… diciamo che una mia vecchia conoscenza ha avuto modo di
conoscerle a fondo.”
Molti nella sala
si sarebbero guardati l’un l’altro, storditi da quella vaga risposta, ma il
rosso, prontamente alzatosi da terra ed afferrato un boccale su uno dei tanti
tavoli ancora mezzi imbanditi, gli batté sul tempo, indossando la migliore
delle sue faccetoste ed alzando con scherzoso fare
reverenziale il bicchiere verso l’imperatore Bianco, anche lui preso alla
sprovvista da quella mossa inaspettata.
“Ma basta
parlare! Propongo un bel brindisi in onore della vostra nuova pulcina!”
Un boato scosse
da poppa a prua la nave, mentre centinaia di birre venivano scontrate l’una
contro l’altra e versate a grandi gocce sul pavimento della Moby. Ben alzò gli
occhi al cielo sorridendo insieme agli altri della Red Force.
Non si smentiva
mai, quell’ubriacone.
Atto 8, scena 3, “Polacca”
Sulle rocce
sconquassate dal vento del golfo di CopperSulfate, Arch osservava
inflessibile il sole scomparire oltre l’orizzonte, sondando attraverso le
ultime calde luci del giorno ogni minimo accenno di giallo, sperando di poterne
riconoscere in qualche modo la figura dell’amica.
Restò lì anche
quando del sole non rimase che una lieve linea dorata, subito sostituita da un
alone violaceo sfumato di blu. Poi si lasciò cadere stancamente sulle rocce,
con le mani a sostenerlo da dietro, graffiandosi tra gli spuntoni levigati dal
vento e dall’acqua di quel posto.
I suoi occhi
cobalto di solito freddi ed inespressivi, si strinsero, tremando di impazienza
e le sue dita si afferrarono più saldamente su quegli scogli, ferendosi ancor
più del dovuto.
Non tornava.
Perché non
tornava?
“Ancora qui a piangerti addosso?”
La voce
impregnata di sufficienza della sua compagna di viaggio lo aiutò a recuperare
un poco della dignità perduta, facendolo voltare per rispondere con altrettanta
grinta a quegli occhi color nocciola che lo fissavano con alterigia.
Dietro di lui
Viola si teneva in equilibrio tra gli spuntoni di roccia, senza mostrare alcun
tipo di fastidio nonostante fosse a piedi nudi, rimanendo a braccia conserte
davanti il petto fasciato da un corpetto nero e con un coprispalle
bianco a maniche lunghe ormai sgualcito che svolazzava al vento della sera
insieme ai suoi lunghi capelli argentati ed ondulati. Il solo pareo di tessuto
ruvido marrone copriva ben poco delle sue gambe, lasciando poco
all’immaginazione, ma nascondendo abbastanza per non cadere nel volgare.
“Sei patetico.”
“Tu non sembri
fare diversamente.”
Arch non si stupì di vedere una pietra
ammantata di fuoco rosso puntare a grande velocità al suo viso e fu solo per
questo che riuscì a scansarlo, dando prova dell’unico pregio cui Madre Natura
l’aveva dotato: i riflessi.
Il volto ovale e
delicato di Viola era oramai contratto in un smorfia tipica di chi, se potesse,
afferrerebbe una cosa ben più pesante di quella appena lanciata e tentare il
medesimo attacco.
“Non paragonarmi a te, maschio di ultima categoria.” Sibilò la
ragazza con tono di avvertimento.
Il biondo si
rialzò, togliendosi dalle mani e dai vestiti un poco di sabbia e di grumi di
sangue rimasti attaccati, rispondendo con voce atona alle frasi dell’altra,
come al solito.
“È inutile che
parli la nostra lingua madre. Sai che capisco anche quella.”
“Lo so idiota! Masai che non sono ancora pratica di questa schifosissima lingua!”
disse voltandosi da una parte con le spalle rigide, nascondendo così il rossore
che le aveva colorato le guance.
“Ti conviene
farci più pratica invece, Viola.” Disse con tono di comando, guadagnandosi un
altro attentato al proprio viso, stavolta con una pietra più grande, per poi uscirsene di punto in bianco con una domanda che lasciò la
ragazza un poco interdetta.
“Dov’è Morgan?”
chiese il biondo facendo saettare gli occhi cobalto negli immediati dintorni,
quasi aspettando di veder comparire da dietro le rocce la testolina corvina del
bambino da loro tratto in salvo.
Ottenne dalla
ragazza argentata uno sbuffo stizzito e un’aria di sufficienza.
“Gli ho fatto capire di trovarsi una giusta
sistemazione che non includesse noi.”
“Cos’hai fatto?!”
Era raro che Arch parlasse la loro lingua, non essendoci quasi più
abituato, ma lo era altrettanto che alzasse la voce in quel modo. E Viola non
poté fare a meno di sentire di aver fatto qualcosa di totalmente sbagliato,
vedendosi inchiodare in quel modo dagli occhi sottili del biondo.
Non si accorse
nemmeno che Arch l’aveva afferrata per il coprispalle sollevandola di pochi millimetri da terra con
fare minaccioso.
“Ce l’ha affidato per tenerlo al sicuro! NON
PER MOLLARLO COME UN PACCO INDESIDERATO!”
La voce del
biondo perforò i timpani dell’altra, lasciandola ancora per qualche istante in
stato confusionale, finché la grinta non riprese il proprio posto, facendola
reagire.
“Io non voglio condividere il viaggio con
quell’insulso esserino!”
“È così che ti prendi cura di qualcosa che
ti ha affidato Allegra??!!”
Quelle ultime
parole, soffiate con disprezzo, ebbero il potere di far salire al petto della
ragazza una sensazione di tradimento, come uno spuntone conficcato dritto al
cuore, causando la fuoriuscita di altrettanto sprezzo e risentimento verso chi
stava o avrebbe giudicato il suo gesto avventato.
Con un braccio
allontanò di colpo la mano del biondo dai suoi abiti, liberandosi e
indietreggiando di un passo per scrutarlo malamente in viso. Tutto il corpo di
Viola era teso, quasi chino in avanti, pronto per scattare da una parte e
parare un altro assalto dell’altro. Le sopracciglia chiare erano corrugate,
ombrando gli occhi scuri più di quanto le sue ciglia lunghe ed argentate già
non facessero. Le labbra, strette dalla lenta tortura dei denti che prevenivano
l’uscita di una nuova serie di insulti, erano già più rosse del sangue,
nonostante non avesse usato alcun tipo di rossetto per dipingersele.
Le bastava
arrabbiarsi per cadere in quello stato prossimo all’esplosione della sua vera
indole, e Arch lo sapeva!
Per questo si
sforzò di far uscire piano ogni parola, ponderando su ogni sillaba, pur di
evitare di combinare la stessa cosa accaduta nell’ultima località dove erano
capitati. Odiava Arch, lo disprezzava a priori,
qualsiasi cosa facesse, dicesse, o addirittura pensasse, finiva sempre per
urtarle i nervi, sfidando il suo già fiacco autocontrollo.
“Allegra … è sempre stata troppo buona con
questi mostriciattoli…” sibilò, sfidando con gli
occhi il suo indesiderato compagno di viaggio ad interromperla “Dice di rispettarli … di cercare di capirli…” disse cominciando a parlare più a se stessa
che al biondo “.. , ma dimmi Arch … ”
Arch, sentendo il suo nome venire pronunciato
in quel modo dalle labbra di Viola, ebbe un fremito lungo la schiena che gli
comunicò quanto fosse palesemente importante allontanarsi di qualche passo
dalla ragazza.
A meno che essere
abbrustolito fino all’osso non rientrasse nelle sue immediate aspirazioni.
“… come si fa a capire queste creature dopo
quello che ci hanno fatto?”
Ecco che partiva
lo sfogo e con esso una vena di ironia a condire la voce dell’altra.
“Oh, vero. Tu non hai motivo di odiarli. Tu
odiavi noi. Non è vero,schifoso sangue
misto … ?!”
E questa volta fu
il turno di Arch di sentirsi colpito. Non gli era mai
piaciuto essere definito in quel modo, ma non poteva nemmeno negare di aver
disprezzato la compagnia di quel popolo che aveva emarginato sia lui che la sua
povera madre.
Strinse gli
occhi, combattendo per non abbassarli, poiché avrebbe sancito la vittoria di
Viola, rievocando quanto più velocemente il vero motivo che l’aveva spinto ad
intraprendere quel viaggio insieme all’amica ed a quella snob di Viola.
“Bene, tu potrai anche crogiolarti nel tua quieta
esistenza piena di gratitudine nei loro confronti…”
Serrò i pugni,
dandosi forza: no, non era affatto vero, lui non aveva mai odiato il popolo
della sua isola natia. Forse aveva odiato il modo in cui l’avevano trattato, ma
tutto il suo disprezzo era rivolto verso quel mostro che avevano colpito prima
sua madre, lasciandola incinta e abbandonandola poco dopo, poi il resto
dell’isola, indirizzando i suoi simili verso la loro casa, trasformando il loro
paradiso in un caos fatto di sangue e urla disumane.
Ragionandovi bene,
lui sarebbe dovuto essere il primo a desiderare la distruzione del popolo che
aveva seminato tanti mali nella sua vita, ma era riuscito comunque ad
incentrare il proprio odio su un singolo individuo, non tutti.
E in fondo era
questo che lo distingueva da Viola: lui sapeva porsi dei limiti, lei no.
Nel mentre di
queste sue riflessioni, la ragazza era infine esplosa, fortunatamente non con
la sua solita forza dirompente, in un grido rabbioso.
“Ma io
non ho intenzione provare pietà per una razza che non ne ha avuta per noi!!!”
Un silenzio,
frazionato da un sottile soffio di vento marino, scandì una piccola e pesante
pausa tra i due. Nessuno di loro pareva voler né rispondere né riprendere il
discorso e questo non faceva che rendere più difficile lo sbrogliarsi da quella
situazione.
Fu un piccolo
mugolio conciato ed incerto a sbloccare la scena, attirando l’attenzione dei
due verso il lato destro di Arch. Bastò la vista del nuovo giunto per far
storcere il naso a Viola, mentre volgeva lo sguardo altrove per non guardare
quel piccolo mostriciattolo di cui, a quanto pareva, non era riuscita a
liberarsi.
Vicino a loro
Morgan, un bambino di circa 6-7 anni dagli occhi e dai capelli neri come il
carbone, li guardava timoroso, torcendo le mani attorno l’orlo di una maglietta
trafugata poche ore prima dal bucato di una casa estranea, aspettando forse di
trovare il coraggio per mettere insieme una frase coerente.
Di fronte alla
vista di quel bambinetto dai grandi occhioni, ad Arch sarebbe anche potuto salire un sorriso alle labbra, se
soltanto non avesse avuto così poca pratica con quel tipo di espressione. Quel
bambino, ancora sporco a causa del loro essere senza tetto ed acqua, dai tratti
delicati tipici del mare orientale, gli ricordava in un certo senso Allegra
prima della loro fuga da Nido Leila, la loro isola.
Sempre insicuro.
Balbettante e poco propenso a spiccicare più di due parole di fila quando
attorno a lui c’erano troppe persone.
Forse quel suo
esitare continuamente, che faceva andare in bestia di non poco Viola, era da
attribuire alla brutta esperienza di cui era stata vittima prima che l’amica lo
traesse in salvo, ma in fondo a lui non importava granché.
A lui interessava
che dimostrasse di saper parlare. Non il modo in cui lo facesse.
“E tu che ci fai ancora qui?”
Ovviamente Viola
però non era dotata della sua stessa opinione.
La reazione fu
immediata e Morgan cominciò a guardarsi i piedi balbettando disperato, cercando
inutilmente di comporre una frase decente.
“L-L-a v-v-vo-ost-t-t-tra a-amica?” il balbettio che ne uscì fu
più comprensibile alle orecchie di Arch che a quelle
di Viola, non tanto abituata alla lingua del bambino.
“ARGH! Parla piano!!!” sbottò la ragazza
facendo sobbalzare per lo spavento il bambino e meritandosi un’occhiataccia da
parte del biondo. Oh, bhè. Arch
poteva definirsi sempre accigliato, ma a forza di stare con lui Viola aveva
cominciato a distinguere le varie sfumature del suo sguardo inespressivo,
arrivando a coglierne gli stati d’animo, studiando nient’altro che le
impercettibili contrazioni dei muscoli facciali.
“Non è ancora
tornata.” Rispose il biondo, riuscendo a far calmare Morgan con il suo
atteggiamento freddo e distaccato.
“E-e n-non l-la a-andate a… a c-c-c-cer-c-care?” riprovò il piccolo cercando di rialzare
lo sguardo, ma ancora una volta la voce aggressiva di Viola gli perforò le
orecchie, facendolo andare ancora una volta nel panico.
“Partiremmo anche subito, se per salvare il
culo a te, e a questo imbecille, non avessimo perso la nostra barca!!!”
Arch si limitò a guardare da una parte, non
volendo ammettere di avere parte della colpa: era stato lui ad aver attaccato
gli schiavisti durante un colpo di testa, ma non aveva avuto scelta visto che,
quei bastardi, riconosciuta la loro piccola imbarcazione, avevano quasi dato
fuoco all’albero maestro con una torcia accesa sul momento. La nave si era
salvata, almeno fisicamente, ma uno di quei manigoldi era riuscito a tagliare
la corda con la quale l’avevano assicurata al molo ed a spingerla alla deriva.
Dire che Viola,
venuta a sapere dell’accaduto era stata sul punto di dare di matto, era una
minimizzazione assoluta.
La piccola mano
di Morgan ondeggiò in alto a palmo aperto, agitandosi ansiosa di farsi notare
dai due ragazzi che, immediatamente, lo osservarono stupiti da quel raro
slancio di sicurezza.
“E-ecco…” sussurrò lentamente con il viso rosso di vergogna
per il suo gesto, aveva alzato la mano d’istinto, felice di aver sentito la
risposta di quella strana ragazza che urlava quasi sempre, ma nel sentirsi nel
bel mezzo della loro attenzione si era sentito il coraggio venire meno ancora
una volta.
Deglutì forte,
facendosi coraggio e stringendo i pugni all’altezza del petto. Non doveva
balbettare. Non doveva balbettare.
“C-credo di averla recuperata.”
Atto 8, scena 4
Avevano finito
col mangiare i rimasugli della sala da pranzo con la ciurma del Rosso.
Due ciurme di
pirati nemiche tra loro che si ubriacavano e si offendevano scherzosamente come
degli amici di vecchia data. Non poteva crederci. Marco era completamento perso
nel torpore della propria incredulità, accorgendosi a stento di star ancora
tenendo tra le braccia Momo.
Quest’ultima si
era finalmente ripresa, alzando completamente la testa, facendo mostra del suo
visino confuso ed ancora impaurito, mentre osservava il gran casino che si era
formato in mensa con l’arrivo di quella ciurma di esaltati della ciurma del
Rosso. A quanto pareva le risate dei bucanieri e la tensione alleggeritasi
nella stanza era servita a infonderle più sicurezza.
Inutile dire che
Ace, alla vista di lei, si era subito premurato di sorriderle, azzardando
qualche semplice frase rassicurante.
“Tutto bene, Momo-chan?”
L’altra, ancora
accesa come una torcia umana, aveva sbattuto le lunghe ciglia, guardando fissa
il volto lentigginoso del moro con i propri occhi luminosi, per poi annuire
sommessamente ed aprire finalmente bocca.
“S-sì, Ace-san, sto
bene.” Sussurrò con voce flebile, arrossendo ed abbassando di poco lo
sguardo per vergogna sia della sua stessa pessima pronuncia, sia della
posizione in cui si era resa conto di trovarsi. “Grazie.” Concluse poi allentando di poco la presa delle sue piccole
mani sulle spalle di entrambi i ragazzi.
Intanto Ace si
era voltato verso Marco, sorridendo stupito da quella piccola novità.
“Ehi, ma ha fatto
passi da gigante!” esclamò contento in direzione del biondo. Quest’ultimo non
rispose subito, perso ancora nelle sue riflessioni riguardanti le ultime scoperte
che riguardavano da vicino Momo e le ultime disavventure della Moby.
Gli occhi cerulei
della Fenice vagarono sugli arti sottili e fittamente coperti da lingue
infuocate della ragazza, studiandone ogni minimo dettaglio, valutando in poco
tempo ogni potenziale minaccia, seppur minima, che si sarebbe potuta celare
sotto quella figura esile e minuta.
Una creatura
nemica naturale dei Re dei Mari.
“Ehi! Mi ascolti?”
Avrebbe dovuto
sentirsi in qualche modo turbato da quella scoperta, ma…
La linea della
spalla, che salendo elegantemente fino al viso tracciava la linea delicata del
collo, prese spazio nella sua mente, stregandolo con la stessa intensità di
poche ore prima, quando la sensazione di indicibile attrazione verso le labbra
di quella ragazza piena di interrogativi era stata rotta dall’apparizione del
Rosso.
La mano aperta di
Ace, sventolante a pochi centimetri dal suo viso, lo riscosse, portandolo
nuovamente alla realtà ed al discorso al quale non aveva ancora risposto.
“Finalmente!”
sospirò Ace un poco offeso da quella mancanza di attenzione da parte dell’altro
per poi accennare ad un sorrisetto malizioso “Di un po’, che stavi guardando,
eh?” chiese allusivo, facendo sbuffare un po’ contrariato Marco.
“Nulla che ti
riguardi.”
Una freccia
puntellò la schiena del moro, colpendolo nell’orgoglio. Eh, no. Quella era proprio
una dichiarazione di guerra aperta.
“Nervosetti, eh?”
rispose facendo buon viso a cattivo gioco Pugno di Fuoco, aggiustandosi con
fare nervoso il cappello sulla testa abbassando poi di poco la voce, quel tanto
che bastava perché gli altri non lo sentissero“A quanto pare la crisi di
astinenza non è solo affar mio…”
“Quindi lo
ammetti.”
Stavolta la
frecciatina fu più dolorosa della precedente.
Un ringhio gli
salì spontaneo alla gola.
Al diavolo, ingaggiare una battaglia verbale
con Marco era persa fin dal principio. Almeno se il contendente era lui,
ovviamente.
Non avrebbe mai
potuto concorrere con il biondo nella capacità di destreggiarsi con le parole:
lui era per definizione un tipo d’azione, una testa calda di prima categoria, pronto
a buttarsi a capofitto contro un Re dei Mari affamato a fauci spalancate,
piuttosto che fermarsi a pensare alle possibili conseguenze . No, proseguire lo scontro a suon di battute
che aveva appena ingaggiato con il primo comandante della Moby non avrebbe decisamente volto la situazione a suo
favore.
“Cos’è quello?”
Entrambi i
ragazzi si voltarono all’unisono verso Momo, che con una mano alzata,
nonostante fosse avvolta dalle fiamme, e stranamente con una voce priva delle
cadenze musicali della sua lingua, stava indicando candidamente Shanks, barcollante e nel pieno di un attacco di risate
sguaiate.
Ace si coprì di
colpo la bocca con entrambe le mani, cercando di fermare l’improvvisa risata
salitagli in gola, ma, come Marco, dovette ben presto arrendersi e lasciarsi cadere
a ginocchioni sul pavimento, battendo una mano a terra implorando tregua al
proprio stomaco.
Quello! L’aveva chiamato quello!!
Di colpo tutti i
propositi di vendetta che Marco aveva nei confronti del Rosso scomparvero come
neve al sole.
Oooh, non c’era prezzo per una cosa simile.
Far definire l’imperatore Rosso come una cosa priva di definizione propria,
anche se da una persona dal vocabolario ristretto come Momo, era una cosa che
non aveva precedenti!
Tutti quanti
nell’enorme salone si erano fermati a guardare quei due, talmente presi a
ridere a crepapelle dal non accorgersi neppure che la ragazza, inizialmente
confusa dalle loro risa e poi offesa, si era allontanata da loro, fermandosi
con aria decisa, e le guance leggermente gonfie di disappunto, dinanzi al
capitano della Red Force.
Shanks rimase basito con, forse, il quinto
boccale di sake sospeso a mezz’aria, seguito poi dal
resto della sua combriccola.
“Oh..” disse il
capitano, aprendo la propria espressione sorpresa in un largo sorriso colorato
sulle guance di un poco di rosso dovuto al lieve torpore dell’alcol “Che cosa
succede, signorina?”.
“Tu sei?” rispose schiettamente la
ragazza, rimanendo in piedi davanti all’uomo con una luce di sicurezza negli
occhi, resa quasi tangibile dalla colorazione e dalla sensazione di calore che
essi trasmettevano con il loro bagliore, paragonabile allo stesso della lava
bollente.
Molti della Moby
rimasero ammutoliti, tenendosi pronti ad allontanare la loro sorellina da quel
lunatico dell’imperatore Rosso al minimo accenno di pericolo. Era risaputo che Shanks fosse un tipo mansueto quando trattava con gli
esponenti del gentil sesso, ma nessuno, a parte la sua ciurma, l’aveva mai
visto parlare ad una donna con i fumi dell’alcol ad annebbiargli il cervello.
L’uomo restò un
po’ di stucco nel sentire quella creaturina parlare
la sua stessa lingua, ma non si scompose più di tanto, mostrando alla ragazza
una delle sue solite espressioni vivaci.
“Sono Shanks, signorina. Shanks detto
il Rosso. Piacere di conoscerla.” Biscicò molto
distintamente, nonostante i bicchieri già trangugiati, abbozzando addirittura
un inchino con la testa.
Momo vacillò
notevolmente al tono amichevole dell’uomo, ritornando ad essere improvvisamente
insicura e cincischiando un poco sul da farsi, guardandosi attorno mentre si tormentava
le dita sottili. Forse non si era aspettata una reazione così delicata da un uomo
così trasandato o forse, molto più probabilmente, il fatto di star intrattenendo una vera e
propria conversazione con una persona di un’altra lingua l’aveva un po’ colta
alla sprovvista, agitandola di conseguenza.
Il Rosso osservò
con piacere la reazione della ragazza, lanciando al proprio vice un’occhiata d’intesa
che venne pienamente ricambiato.
Una pargoletta
davvero interessante, non c’era che dire. Shanks ne
aveva sentite di storie sulle Paradisee, sulla loro bellezza unica, sul
bagliore delle loro fiamme, ma vederne una così da vicino lo aveva emozionato
come un bambino. Era pur sempre un pirata e, per quanto avesse già visto e
vissuto sia sulla Rotta Maggiore che oltre la Red Line,
nulla l’avrebbe mai annoiato se si trattava di qualcosa a lui sconosciuto. Era
stato ed era rimasto un’anima d’avventuriero.
Ben lo sapeva,
non c’era via di scampo una volta finito sulla nave del suo capitano.
Il Rosso intanto
stava già dando aria ai polmoni, pronto a dar voce ad una serie di domande
volte a dar soddisfazione alla sete di conoscenza che lo aveva colto su quella
creatura mistica di cui aveva sentito solo parlare sporadiche volte, ma venne
prontamente fermato dalle voci arrabbiate degli uomini del Bianco, svegliatisi
dal trance in cui l’azione inattesa della ragazza gli aveva gettati.
“Ehi! Chi ti ha
dato il permesso di parlare alla nostra sorellina Rosso!” “Hai già combinato
abbastanza guai al babbo per oggi!” “Vedi di lasciare stare Momo!”
Un gruppetto di
energumeni spalleggiò la ragazza con aria minacciosa e braccia incrociate,
confondendola a tal punto da cercare meticolosamente, e con piccoli scatti
della testa, un modo per tornare quatta quatta al
proprio posto, dal quale si era incautamente allontanata, ma le fiamme le
limitavano i movimenti e, circondata in quel modo, non se la sentì proprio di rischiare
e optò per rimanere ferma e zitta al proprio posto.
Nel frattempo Shanks si era voltato in direzione del Bianco, sperando
forse in un aiutino, ma quello che ne derivò dalla sua muta richiesta di aiuto
fu solo un sorriso soddisfatto appena visibile da sotto i grandi baffi bianchi.
La mano di Newgate fece cenno a Marco ed Ace di avvicinarsi e i due
ragazzi non si fecero pregare, poiché il loro attacco di ridarella era, grazie
al cielo, finito prima del previsto.
“Sì papà?” Chiese
Ace nascondendo con meno successo del biondo accanto a lui il divertimento che
lo aveva quasi fatto secco poco prima.
“Sembra che vostra
sorella starà tutta la notte sveglia …” disse il gigante, ricordando i piccoli
dettagli derivanti dalla spiegazione del rivale “Uno di voi le dovrà fare
compagnia.”
Marco stava
prontamente per offrirsi volontario, ma la sua voce venne sovrastata da quella
del fratellino.
“Lo faccio io.” Disse
allargando le labbra in un sorriso malandrino che rivolse proprio al biondo,
meritandosi quindi un’occhiataccia in piena regola “Tanto per me non è un
problema fare le ore piccole.” Continuò lui affrontando sfrontato la faccia
accigliata della Fenice, battuta in modo così eclatante. Ace avrebbe saltato di
gioia: Marco poteva anche sapere centinaia di modi per farti inciampare nelle tue
stesse parole, ma solo lui era in grado di dare scacco matto a qualcuno con un’azione
avventata e tempestiva come quella appena compiuta.
La Fenice non
sentì nemmeno il babbo che dava il consenso all’altro, mentre ricambiava con
una silenziosa promessa di rivincita il sorriso dell’altro. Fu solo quando Ace
e Momo scomparvero oltre la porta della sala, per dirigersi verso il ponte
principale, che si rese conto di essere osservato dalla maggior parte delle persone
nella stanza.
Si guardò
attorno, sondando ogni viso presente, sia sorridente che stupito, che gli
capitò di ricambiare, senza però capirci granché.
Persino il Rosso
se la rideva, ghignando alla stregua del babbo.
Ma insomma, che
aveva fatto??!!
Satch gli circondò il collo con un braccio da dietrò, cogliendolo un poco alla sprovvista e facendolo
barcollare in avanti.
“Dura da digerire
quando ti soffiano la tua bella da sotto il naso, eh?” scherzò allusivo il
comandante in quarta, inclinando di poco la testa e mettendo la mano destra sul
fianco.
“Cos-?”
“Ah…L’amour.” Sospirò quello con un sorriso a trentadue denti
chiudendo gli occhi con fare nostalgico, quasi stesse rivangando i bei tempi
andati.
A Marco bastò quella
frase per capire di essere incappato in una brutta, bruttissima, scomoda ed
imbarazzante situazione. Ormai era chiaro a tutta la nave quello che bolliva in
pentola. Era bastato un semplice gioco di sguardi tra lui ed Ace per rendere
noto, con un’efficacia maggiore di un annuncio urlato con tanto di lumacofono, cosa stesse accadendo tra loro tre.
Un solo pensiero
gli affiorava alla mente, mentre veniva strapazzato da Satch
e punzecchiato amichevolmente da gli altri suoi fratelli.
Accidenti ad Ace…
Atto 8, scena 5
Teach imprecò per l’ennesima volta tra le mura
della propria stanza, sentendo la carne viva del braccio tendersi ad ogni giro
di garza.
I suoi occhietti
spalancati seguivano meticolosamente ogni movimento del tessuto bianco che si
stava avvolgendo sulla zona ferita e non appena ebbe finito osservò il proprio
lavoro, valutando il risultato di ore e ore di preparativi e di ricerche volte
a mantenere più pulita possibile l’ustione di secondo grado che Momo gli aveva
provocato.
Non era stupido:
sapeva quanto fosse importante tenere pulita una ferita ed utilizzare bende
pulite per evitare complicazioni inutili quali un’infezione. Se soltanto fosse
potuto andare in infermeria a farsi fasciare da Betty o Penelope avrebbe speso
meno tempo.
Da sotto gli
strati della sua fasciatura, mentre rigirava il braccio incredibilmente ossuto
per osservarne il bendaggio, poté cogliere il sottile e doloroso movimento degli
strati della propria pelle raggrinzita, obiettare brutalmente, facendogli
salire inevitabilmente il sangue al cervello.
Gli venne
spontaneo sfondare con un movimento brusco dell’altra mano, stretta a pugno, il
comodino accanto al proprio letto.
Riprese fiato
guardando fisso un punto imprecisato della camera, senza curarsi del sudore che
a goccioloni gli percorreva il volto sudicio e leggermente puntellato di
barbetta sul mento.
La gola arsa e
stretta dalla rabbia gli impedì fortunatamente di dar voce alla propria frustrazione
con un ringhio mastodontico.
Dannata mocciosa!
Da dove diavolo era saltata fuori quella capacità?
Era andato tutto
a puttane! Ora avrebbe dovuto aspettare un’altra occasione per metterci le
mani!
Con tutta la
forza di cui era capace, infierì ulteriormente sui resti del mobile distrutto,
calpestandolo senza pietà. Schegge innocue e sottili gli punzecchiarono il
viso, attaccandosi alla pelle sudaticcia del collo e del mento.
Fu allora che lo
rivide.
Un libricino
nero. Simile a quello rosso su cui aveva annotato l’essenziale sulle Paradisee,
ma ben più vecchio ed imbottito da annotazioni e fogli volanti rispetto al
precedente. E se ne ricordò.
Oh, davvero. Che
stupido. Non si era nemmeno ricordato di quegli appunti. Il suo solito sorriso
si fece stra da tra le sue gote sudaticce mentre
raccoglieva con calma quasi reverenziale quel piccolo taccuino.
Si buttò pesantemente
sul letto e cominciò a sfogliarlo avidamente.
Annotazioni, su
storie, voci, persino disegni illustrativi che ritraeva quelle splendide
creature nel pieno della loro attività notturna.
Cominciò a
ridacchiare a tono basso.
Gli sarebbe
bastato studiare a fondo quel suo piccolo tesoro per restituire con gli
interessi il regalino che quella signorina gli aveva lasciato sul braccio.
Nah. Non era così tragico.
In fondo di notti
ce ne erano parecchie.
Fine Atto Ottavo.
Rieccomiquaaa!! ^O^
Salve
sono tornata e riemergo dal mio stato di apparente inattività!
Ooooh! *_* cosa vedono i miei occhi!? Delle new entry tra le mie adepte! *____*
Mwahahaha!
Sì, lo
ammetto io voglio farvi odiare sia quel biiip di Teach che quel biiiipbiiipbiiiiiiiiiiiiiiip
di Akainu, e non me ne pento! Sono dei bastardi! Uno
è un voltafaccia di prima categoria e il secondo è un guerrafondaio fanatico!!
Le categorie che più di tutte odio!!! X((
Benissimo,
ora passiamo alle tanto sospirate, o almeno spero, domande:
1)Chi di
voi vuole una scena con atmosfera romantica tra Ace e Momo?
E qui,
Signore e Signori (?) si riaprino i battenti per i suggerimentiliberi!
Ah-a! Speravate in domande specifiche! E invece no!
^^ Sbizzarritevi! Ditemi cosa vorreste accadesse a questo punto e io mi
impegnerò! XO
Ovviamente
sono ben accetti anche suggerimenti specifici, cosa volete che accada tra Ace e
Momo, cosa volete che non accada, ma tranquille, non limitatevi a questa scena
di cui ho fatto anticipazione! Poteteanchedivagaresualtrecose! ^_^
Ed ora popolo… votate!
Ah! E
un’ultima cosa!!!!
In questo atto vorrei segnalare la presenza di
colonne sonore. Sono certa che in molte avrete notato quel “Polacca” accanto l’intestazione
della scena 3.
Spiegazione:
la Polacca
(o Polonaise)per chi non se ne intende molto di musica a certi livelli (tranquilli
io ho dovuto fare i salti mortali!), è un tipo di composizione musicale che fa
spesso da incipit per via del suo andamento vivace e vario ed è eseguito in molti casi su pianoforte (gli
esempi più eclatanti sono le polonaise di Chopin). La polacca a cui però io mi
riferisco è una composizione di Niccolò Paganini trovata per puro … gladeusmaximus, su youtube, eseguito da
un gruppo chiamato “Gli Interpreti Veneziani” con degli archi, per la precisione
quattro violini un violoncello ed un contrabbasso. La composizione e le
emozioni trasmesse mi erano piaciute così tanto da ispirarmi la scena 3 dell’atto.
*___*
inserisco
anche il link per il video nel caso vogliate vederlo
Eravamo risaliti dalla sottocoperta, ma, a causa del cuore
che a mille mi batteva in petto, non mi ero nemmeno resa conto di essere stata
condotta fuori dalla sala grande da Ace.
Ancora non riuscivo a crederci.
Faceva uno strano
effetto parlare e capire il significato di un’altra lingua. Quando quello
strano uomo dai capelli rossi mi aveva parlato, presentandosi con naturalezza
alla mia schietta , e forse un po’ rude, domanda,mi ero sentita sopraffare dall’emozione. Era
stato come se paura, eccitazione e confusione si fossero fusi insieme nello
stesso momento, impedendomi di continuare quello che avevo cominciato.
Ed era stato meraviglioso.
Di colpo mi parve di vedere quegli ostacoli insormontabili,
che mi avevano fatta piangere e disperare pochi giorni prima, frantumarsi come
tanti castelli di sabbia smossi da un vento lento e placido.
Sentivo di potercela fare, di poter fare qualsiasi cosa.
Eravamo appena usciti sotto il cielo notturno quando una
mano mi scompigliò dolcemente i capelli, facendomi sussultare sul posto ed
irrigidire, ma solo per poi rilassarmi alla vista del sorriso sghembo di Ace.
Le fiamme si erano gradualmente ritirate dal mio corpo,
arrivando a ricoprire, fortunatamente, soltanto braccia e capelli. Era stato un
bene uscire all’aria aperta. Essere attorniata da troppe persone, e troppo
legno, rimanendo in quelle condizioni, non avrebbe certo contribuito a
rilassarmi.
E poi Ace, da quel che mi ricordavo, era in qualche modo
immune al fuoco, no? Fu per questo che non sentii di dovermi arrabbiare per
quel piccolo contatto.
Non ce ne sarebbe stato motivo, dopotutto. Gli sorrisi
contenta ed un poco scherzosa, poggiando le mie mani sulla sua sulla mia testa,
trattenendola e lo vidi cambiare espressione, sbigottito.
Poverino, mi ritrovai a pensare,accorgendomi solo in quel
momento di non avergli mai mostrato molta simpatia in quei pochi giorni
trascorsi in sua compagnia.
Certo però che lo scherzo della lavanderia…
No, meglio non pensarci.
Mi limitai a rispondere sorridendo ancora di più,
crogiolandomi nel tepore che quella mano, a contatto con la mia testa,
provocava. Non era la prima volta che mi capitava, ma in quel momento la
percepivo come una cosa più famigliare. Quella mano grande che mi ricopriva a
palmo aperto tutta la nuca non era più qualcosa da allontanare e di fastidioso.
La mano infuocata di Ace che artigliava disperatamente il
legno della nave inclinata per reggere sia il mio che il suo peso mi saltò alla
mente.
Chiusi gli occhi. In quel momento capii perché quella vista
mi aveva provocato sollievo.
In qualche modo io, lui e anche Marco, eravamo simili, più
di quanto mi aspettassi.
Mi venne da piangere, ma riuscii a soffocare il tutto in due
singhiozzi sommessi. Non volevo che Ace mi vedesse in quello stato. Non potevo
mica piangere per tutto!
Aprii gli occhi, ma, come previsto, i miei singulti non
erano passati inosservati e il moro mi osservava preoccupato e confuso, quasi
credesse di aver fatto qualcosa di sbagliato. La sua mano scivolò via dalla mia
testa, sempre tenuta dalle mie più piccole ed illuminate di giallo.
Oh no. Che dovevo fare? No. Non potevo farlo sentire in
colpa per una cosa tanto assurda. Dovevo fargli capire che non ero triste.
Scossi furiosamente la testa per fargli capire che si
sbagliava e mi spremetti le meningi: com’era quel modo di dire che mi aveva
insegnato Marco?…Cavoli! Non me lo ricordavo!
“Watashiwa…”
sussurrai cercando di prendere tempo, stringendo di poco la sua mano, e di
colpo mi venne in mente.
“…ureshii!” dissi di colpo, forse con troppo
slancio.
Ace sbarrò gli occhi non sapendo che cosa dire e io abbassai
la testa arrossendo di botto.
“Watashiwa…ureshii...” ripetei piano, mentre mi davo mentalmente
tanti colpi in testa. Le solite figure del cavolo!Non ebbi molto tempo per insultarmi comunque,
perché di nuovo una mano, non quella che tenevo tra le mie, mi si poggiò sulla
testa.
Sospresa alzai gli occhi. Ace mi
sorrideva rassicurante, tenendo la propria mano libera esattamente dove prima
si trovava l’altra. Lo vidi sciogliere quell’espressione in uno dei suoi soliti
ghigni, quelli che avevo cominciato pian piano a conoscere e, in quel momento,
ad apprezzare.
“Watashi mo, chibi-chan.”
Una sola cosa mi saltò all’orecchio: cosa voleva dire chibi-chan?
Atto 9,
scena 2, Notturno
Quei capelli sembravano seta. Ace sapeva di stare esagerando
con la fantasia, ma non poteva farne a meno.
Erano veramente morbidi nonostante, ricoperti dal fuoco
dalle radici alle punte, sprigionassero un calore molto simile a quello delle
sue fiamme. Era incredibile poterne percepire la consistenza in quella maniera.
Prima di allora aveva avuto modo di poggiarle le mani sulla testa,
approfittando di qualche suo slancio scherzoso per strapazzarla un po’, ma non
si era mai soffermato su quel piccolo particolare.
Le punte di quei capelli, mischiati a quelle del fuoco,
zampillavano furiosamente tra le sue dita, dibattendosi come nel tentativo di
liberarsi, mossi dagli invisibili movimenti che la brezza marina provocava
attorno alla Moby Dick in pieno movimento. Gli venne spontaneo sorridere
soddisfatto, a quella vista unica. Shanks e Ben Beckman non avevano esagerato descrivendo le Paradisee come
donne dall’aspetto angelico. Gli sembrava strano accumunare quella strana
parola alla ragazza di fronte a lui, eppure non poteva non ammettere che la
descrizione dell’imperatore rosso le calzava a pennello.
Chissà com’era fatta la sua isola?
Dai pochi particolari che il Rosso gli aveva dato, non sembrava
essere il luogo più tranquillo del mondo dove vivere.
Gli occhi soffusi da un calore uguale a quello dei capelli
che stava accarezzando si alzarono curiosi su di lui.
La gola divenne improvvisamente arida, sottolineandogli
quanto fosse nervoso in realtà. A pensarci bene aveva compiuto la scelta di fare
compagnia a Momo troppo alla leggera.
Erano settimane che non aveva a che fare con una ragazza.
Settimane. Non certo pochi giorni. Come gli era saltato in mente di gettarsi a
capofitto in quella situazione? Sperava ardentemente di riuscire a freddare i
suoi bassi istinti, anche perché non avrebbe fatto i conti solo con Marco se
avesse azzardato qualcosa.
Già i suoi compagni avevano dimostrato quanto potessero
diventare protettivi e non aveva intenzione di dover fare ammenda per un
piccolo momento di debolezza. Un brivido gli percorse dietro la schiena,
stilando una rapida classifica dei modi peggiori con la quale il babbo avrebbe
potuto punirlo.
In primo luogo con il digiuno. Eh già, quello era senz’altro
uno dei modi più efficaci per fargli implorare perdono con un minimo di carne
per contorno. Al secondo posto c’erano le strigliate di Betty. Oh, quelle, quelle non le batteva nessuno. Sarebbe
stata peggio di un gabbiano gigante inferocito se solo avesse alzato un dito su
Momo.
A volte si chiedeva
perché il babbo se le scegliesse così autoritarie, mmmh
… avrebbe indagato.
Al terzo posto invece c’era poco da dire: Marco, Jaws, Vista e Satch. I suoi
adorati fratelli non erano certo da meno in quanto persecutori, anche se Betty
li batteva in quanto potenza vocale. Sapeva bene quanto i suoi compagni
potessero diventare maneschi,… nulla di grave, ma vedersi rimproverare e
pestare nello stesso tempo dai suoi fratelli non era uno dei suoi sogni nel
cassetto.
Poi Jaws era fatto di diamante… eh.
Staccò malvolentieri la mano dalla testa della ragazza,
calcandosi nervosamente il cappello sul viso.
No, decisamente avrebbe fatto meglio a controllarsi.
“Ace-san?” gli chiese la Paradisea sbattendo un
poco le palpebre, guardandolo dal basso incuriosita.
Si morse l’interno della bocca. Dannazione, ma perché era
così maledettamente dolce?
Ci mise un po’ a sorridere come prima, ma alla fine ritrovò
la forza di mettere da parte una frase e pronunciarla senza problemi.
“Sto bene, piccola. Sto bene.” Disse non riuscendo comunque
a convincere del tutto né lei, né tantomeno se stesso.
Sospirò: doveva inventarsi qualcosa.
“Allora..!” disse rizzandosi sulla schiena con una mano
poggiata su un fianco e l’altra sempre sul cappello “… io e te staremo insieme
per un po,’piccola. Cosa vuoi fare?”.
Non ottenne molto comunque. Momo inclinò confusa la testa da
un lato, non capendo cosa volesse dire con quel groviglio di parole a lei per
la maggior parte sconosciute. Ah già, quasi dimenticava: non doveva usare
troppe parole.
“Capito,capito.” Si grattò la testa, pensandoci un po’ su.
Ripeté mentalmente i consigli di Betty: delicatezza,
moderatezza, inventiva; non doveva essere rude, rispettare i suoi spazi e cercare
di fare qualcosa di carino per lei. Più facile a dirsi che a farsi, per uno
come lui. Non sapeva da che parte iniziare.
Poi l’idea.
“Sai volare?” chiese di getto con interesse verso la ragazza
che però a quella domanda improvvisa, allontanò la testa, protendendosi
leggermente all’indietro.
Accidenti, aveva usato troppo slancio per chiederglielo.
“Scusa…”disse mettendo le mani avanti a palmo aperto
in segno di scusa. Delicatezza, delicatezza, si impose mentalmente Ace,
rimuginando su come continuare il discorso e farle capire quello che intendeva
dirle.
“Volare.” Disse semplicemente mimando con entrambe le
braccia il gesto di scuoterle come un paio d’ali e finalmente la vide sbarrare
gli occhi, dandogli prova di aver reso bene l’idea. Al moro venne quasi da
sorridere compiaciuto: stava facendo grandi progressi con Momo.
Era la prima volta che non si arrabbiava con lui o si
metteva a piangere spaventata. Chissà come l’avrebbe presa Marco non appena
l’avrebbe scoperto.
Il suo buon’umore però venne bruscamente interrotto dalle
parole ansiose e negative della ragazza, in quel momento protesasi verso di lui
scuotendo lievemente la testa con un’ombra di paura ad indurirle il viso. Oh
cavolo, ecco un altro danno provocato dal suo comportamento iniziale:doveva essersi ricordata del loro piccolo
lancio nel vuoto dalla vedetta della nave.
“Mannaggia a me e alle mie idee geniali.” Sospirò sconsolato
Pugno di fuoco, ciondolando le braccia in avanti e imbronciandosi a testa bassa
come un bambino. Avrebbe tanto voluto vederla spiccare il volo come aveva sentito
dire dal Rosso poco prima, e invece si era ritrovato con un pugno di mosche.
Pazienza, in fondo se l’era cercata. Momo si scusò con lui un paio di volte, avvicinandoglisi a poco a poco per guardarlo meglio in viso
e scambiare con lui un’occhiata di sincero dispiacere.
Ace ricambiò con un sorriso un poco tirato.
“Non è niente piccola. Mi passerà.” Cercò di rincuorarla
mettendo in ogni parola quanta più intonazione possibile.
Si ritrovò improvvisamente le mani luminose e calde di Momo
sul viso e, spalancando gli occhi, la vide fissarlo intensamente negli occhi a
pochi centimetri dal viso con espressione corrucciata ed indagatoria.
Non capiva cosa stesse facendo, eppure, nonostante non stesse esercitando alcun
tipo di forza per trattenerlo non riuscì a scostarsi. Non fu tanto per
l’attrazione che provava per lei a tenerlo ancorato in quella posizione, quanto
l’impressione di essere studiato.
Sì, perché quegli occhi dello stesso colore della lava
incandescente, lo stavano sondando fin d’entro l’anima. Era stupido, eppure
sentiva che era così.
Era talmente preso da quella strana sensazione da non
accorgersi nemmeno che l’aveva liberato dalle sue mani. Cosa strana, perché
solitamente la pelle delle altre persone gli appariva sempre leggermente più fredda
della propria ,e questo gli consentiva di avvertirne quasi sempre la presenza
ed i conseguenti spostamenti. Avevano la stessa temperatura?
Momo si scostò velocemente da lui voltandosi di spalle ed
allontanandosi di pochi passi, lasciando dietro di sé una scia luminosa
provocata dalle fiamme della testa e delle braccia.
Per un attimo Ace ebbe la terribile sensazione di essere
riuscito ancora una volta a farla sentire a disagio, ma poi la vide allargare
le braccia fiammeggianti, provocando la caduta di qualche scintilla sul legno
resinato del ponte della nave e, dopo aver preso un solo respiro profondo,
abbassarle di scatto.
Più che il gesto in sé, fu il fatto di vedere Momo
innalzarsi di una buona decina di metri verso l’alto a farlo rimanere di
stucco.
Dall’alto Momo spalancò gli occhi di terrore e stupore,
irrigidendosi quel tanto che le bastò per far sì che cadesse all’indietro
iniziando a precipitare verso il basso,esattamente da dove era arrivata.
“Cazzo!” imprecò il moro scattando immediatamente in avanti,
ritrovandosidove il salto della ragazza
era partito. Non perse tempo a guardarla cadere e tramutò la parte inferiore
del proprio corpo in fuoco, lanciandosi verso l’alto con un salto. Le sue
braccia accolsero decise il corpo esile ed abbandonato della ragazza,
intercettandolo nel pieno della caduta, per poi stringerlo e accompagnarlo in
una discesa decisamente più dolce, attutita dall’effetto delle sue fiamme.
Ace atterrò sul ponte flettendo le gambe, sospirando di
sollievo.
“Accidenti che spavento.” Disse lanciando poi un’occhiata
alla ragazza.
La trovò ad occhi aperti di nuovo fissi su di lui
apparentemente non molto scossa da quello che era appena accaduto. Il ragazzo
si accorse solo in quel momento di quanto si fossero avvicinati in quei pochi
minuti: molto più di quanto si era ripromesso poco prima.
Ghignò malandrino, non riuscendo a trattenersi.
“Dev’essere la mia serata
fortunata.”
Momo, al sorriso dell’altro, scoppiò a ridere, perforando
l’aria della notte con un suono argentino e musicale, venendo seguita a ruota
dall’altro. Fu a malincuore che, poco dopo, Ace, quando le loro risate si
furono calmate, la sciolse dalle sue braccia, lasciandola libera di
allontanarsi da lui. Ancora con il sorriso sulle labbra e qualche singulto
divertito a scuotergli la schiena, il pirata non poté comunque fare a menodi pensare a Marco ed a come se la stesse
passando in mezzo agli altri.
A lui era andata di lusso.
Mise le mani dietro la nuca, seguendo la sirena di scoglio
che si sedette sul parapetto della nave per godersi le stelle. Continuò a
pensarla in quel modo per tutta la notte mentre osservava le fiamme dell’altra
protendersi verso il cielo stellato, ondeggiando alla brezza marina.
Eh, sì. Gli era andata proprio di lusso.
Atto 9,
scena 3
Penelope sospirò intenerita vedendo il comandante Marco
venire strapazzato in lontananza da tutta la ciurma. Tutto il reparto
infermieristico si era messo in disparte, assistendo da lontano alle pene del
primo comandante, troppo occupato a zittire il comandante Satch
per rispondere alle frecciatine degli altri, nel mentre sistemavano e
ripulivano gli angoli meno affollati della mensa, recuperando le tovaglie da
mettere a lavare.
“Certo che il comandante Marco ha lasciato tutti molto
sorpresi.” Affermò angelica la bionda verso Betty, come al solito accompagnata
dall’inseparabile cartellina dei valori del comandante, prelevati durante
l’ultima mezz’ora, nonostante fosse già tardi, sui quali stava annotando
qualcosa di indecifrabile. La mora si voltò verso la bionda, bloccando la penna
a mezz’aria, rispondendole atona ed apparentemente disinteressata.
“Già, non avrei mai pensato che si sarebbe innamorato della
piccola così in fretta.” Asserì, tornando immediatamente con la testa sul
proprio lavoro.
Penelope, seguita a ruota da Carol, sbarrò gli occhi:
“Tu sapevi che sarebbe successo??!” esclamò Carol a bocca
spalancata provocando nella capo reparto
una risatina sommessa.
“Tesoro…” cominciò l’infermiera
dagli occhiali scuri, inclinando la testa all’indietro ed ondeggiando la penna
accanto al viso con fare furbesco “… col tempo capirai che l’amore è tutta
questione di chimica. Poco importa quanto sembrino incompatibili due persone:
una volta messi l’uno davanti all’altro non c’è via di scampo. Tutto quello che
si può fare è aspettare inerti l’inevitabile e sperare di non rimanerne
bruciati.”
Quella piccola perla di saggezza fece spalancare ancor di
più la bocca della rossa e ridacchiare la bionda che fece per tornare
tranquillamente alle proprie faccende, quando si sentì colpire da un pensiero
improvviso.
La loro piccola Momo non era umana, o almeno, le sue
capacità non erano proprie degli esseri umani e una cosa l’aveva lasciata
stranamente perplessa: come mai inizialmente era stata in grado di parlare di
giorno? Rimase lì ferma con un lembo della tovaglia debolmente trattenuta dalle
sue dita ben curate, ragionandoci su per poi sorrideresoddisfatta alla spiegazione che era riuscita
a trovare: la disidratazione.
Il primo giorno che la ragazza era stata caricata sulla nave
e messa sotto osservazione nel loro reparto, lei era stata una delle prime a
visitarla constatando a che gravità versavano le condizioni della piccola.
Inutile dire quanto era stato difficile stabilizzarla. La lunga esposizione ai
raggi del sole aveva escoriato e bruciato la pelle in più punti, e la mancanza
di liquidi avevano portato ad un livello di incoscienza prossimo al coma.
Persino la lingua era secca, ma in particolar modo Penelope ricordava quanto
fosse stato difficile aprirle la bocca e sollevarle la testa senza provocare
ulteriori danni aggiunti a quelli che la disidratazione e la calura avevano
causato alla gola.
Dovevano essere stati appunto quelli ad impedire alla voce
della piccola di uscire come invece avrebbe potuto in situazioni ottimali. Così,
quella che alle loro orecchie era parsa una voce normalissima, per una
paradisea come Momo, abituata ad intonazioni molto più acute ed armoniche,
sarebbe parsa rauca.
Ma non era solo quello a dar da pensare alla bionda: anche i
rapidi, quasi impossibili, ritmi di guarigione della ragazza erano stati motivo
di sorpresa tra le infermiere. Le escoriazioni cutanee e gli arrossamenti erano
ormai completamente spariti e come se non bastasse la voce era tornata normale.
Non che a Penelope o alle altre la cosa creasse fastidio o dispiacere, tuttavia
la bionda aveva cominciato a pensare ad un possibile collegamento tra i
miglioramenti della paradisea e le fiamme gialle di cui si era scoperta essere
utilizzatrice.
La cosa gli veniva dallo stesso comandante Marco.
Le infermiere non assistevano quasi mai alle battaglie ma
c’era stata un’occasione che l’aveva lasciata perplessa riguardo il biondo,
proprio durante i momenti immediatamente successivi ad uno scontro
particolarmente cruento. Come al solito c’erano stati dei feriti e tutte loro
si erano mobilitate in massa per trasportare i più gravi in infermeria ed era
stato in quell’occasione che Penelope aveva assistito alla miracolosa
sparizione delle ferite del primo comandante per mezzo delle proprie fiamme
azzurre.
Se lo ricordava come se fosse stato ieri. Ogni singolo
taglietto o ferita da arma di fuoco ci era volatilizzato dopo pochissimi
istanti, sparendo sotto lo sfrigolio di lingue azzurre e gialle. Ed era stato
quello a far impensierire Penelope, riguardo la piccola Momo. Ogni singola
ferita del comandante Marco veniva prontamente curata dall’azione delle sue
fiamme blu, vero, ma l’infermiera bionda aveva notato benissimo che soltanto la
parte gialla di queste ultime andava a toccare direttamente i lembi di carne
offesi.
E dopo questi ragionamenti era pronta a scommetterci il suo
amato cappellino da crocerossina che le fiamme di Momo erano simili, se non
identiche, a quelle del biondo.
Tornò ad osservare il ragazzo in questione.
Forse Betty non aveva tutti i torti a dire che era questione
di chimica.
Atto 9,
scena 4
“Allora, signor
innamorato!” esclamò per l’ennesima volta Satch,
circondandogli il collo con un braccio, mentre lui faceva del suo meglio per
non dare peso alle risatine provenienti sia dai suoi fratelli che dai pirati
del Rosso. I primi avrebbe potuto benissimo sopportarli, ma i secondi gli
davano lo sgradevole effetto di tante zanzare attorno alle sue orecchie. Ancora
non sapeva come sbrogliarsi da quella situazione. Non solo era in balia delle
amorevoli cure di Satch, il peggio che potesse
capitargli tra tutti i comandanti, ma era anche bloccato da qualsiasi tentativo
di fuga dai suoi compagni, raggruppatisi a cerchio intorno a loro con la stessa
espressioni di tanti bambini eccitati per uno spettacolo di marionette.
E lui non faceva che sperare ad uno spiraglio che gli
permettesse di fiondarsi verso la scala che conduceva al ponte.
“Com’è ritrovarsi in balia delle pene d’amore dopo tutto
questo tempo?” lo riscosse la voce del comandante in quarta , richiamando così
la sua attenzione.La Fenice lo squadrò
per un attimo, provocando un silenzio pieno di aspettativa, pensandoci
seriamente. In effetti era passato parecchio tempo dall’ultima volta che una
donna era riuscito ad interessarlo in quella maniera, ma non era stato che un
miraggio stroncato di netto dal disprezzo che aveva visto negli occhi
dell’altra quando aveva accennato di essere un pirata.
Da allora non aveva avuto molte avventure, e si era messo il
cuore in pace impiegando anima e corpo nel suo ruolo di comandante, proteggendo
fedelmente il babbo e i suoi fratelli anche a costo di incassare al loro posto
mille e più proiettili. D’altronde quale donna avrebbe mai guardato con amore
un uomo di mare per definizione dedito a razzie, soprusi e battaglie all’ultimo
sangue? Le infermiere erano un caso eccezionale: donne dal carattere forte per
uomini forti pronti a morire il giorno successivo. Ma nessuna di queste si
sarebbe mai azzardata a legare in
quel senso con uno di loro.
“Strano…” rispose quasi
sovrappensiero alla domanda di Satch, osservando
disinteressato il liquido semitrasparente che ondeggiava nel suo boccale e
rompendo così l’attesa dei suoi compagni.
“Aah..!” sospirò il comandante della quarta flotta con fare
comprensivo rifilandogli qualche leggera pacca sulla spalla “Ti capisco, ci
sono passato anch’io. Una ferita sul cuore dopo un po’ si anestetizza.” Decretò
allargando la bocca in un sorrisino e, voltandosi verso le infermiere, mise una
mano accanto alla bocca ed esclamò.
“Dico bene, Carol?”
La rossa in questione si voltò verso di loro prima stupita
per poi accigliarsi indignata e voltare di scatto la testa con il naso verso
l’alto, allontanandosi dalla loro vista con il cesto delle tovaglie sporche tra
le mani, venendo accompagnata dalle risate degli altri che avevano assistito
alla figuraccia del quarto comandante. Carol era stata una delle primissime
cotte di Satch, ed era noto a tutti il modo con cui
era finita la loro piccola parentesi amorosa fatta di declini e contro declini
da parte della rossa: per farla breve, il comandante dal pizzetto si era
ritrovato con un netto segno rosso a cinque dita affusolate stampate sulla
guancia.
All’inizio il biondo non l’aveva presa molto bene e si era
depresso come non mai, tanto che la nave pareva essere abitata da un fantasma,
ma, fortunatamente per l’atmosfera della Moby, la situazione si alleggerì e Satch tornò allegro e smagliante come un tempo, dopo poco
più di una settimana. La cosa non si poteva dire anche per Carol che da allora
non gli aveva più rivolto neanche mezza parola, evitandolo come la peste ogni
volta che poteva.
“Eeh. Decisamente non mi ha ancora
dimenticato.” Ridacchiò il biondo, avvicinandosi il boccale di birra alle
labbra.
“La tua faccia se la ricorderà per sempre. Questo è certo.”
Intervenne Marco facendogli andare di traverso il sorso che aveva cercato di
mandare giù proprio in quel momento.
Un eco ridente fece capolino nell’aria proprio in quel
momento, guizzando dalle pareti lignee della nave come un campanellino melodioso,
lasciando di sasso tutti quanti.
“Sembra che la pargoletta si stia divertendo con il giovane
Ace.” Disse Shanks intrufolandosi tra di loro come se
niente fosse e sedendosial fianco di
Marco con un sorriso sulle labbra che fece venire voglia alla Fenice di
rifilargli un bel calcio diretto.
Lo faceva apposta. Eccome se lo faceva apposta. Farlo
innervosire sembrava divertirlo da matti. Come se il fargli notare una cosa
simile lo potesse rendere felice! Sentiva da dentro la gelosia montare sempre
di più. Non che fosse arrabbiato con il moro. Sarebbe stato stupido prendersela
con lui che stava solo facendo quello che poteva per la ragazza, ma il fatto di
essere preso in giro da nientemeno che Shanks il
Rosso lo mandava in bestia e gli faceva desiderare di potersi alzare e risalire
velocemente lo scafo della nave.
“Può darsi.” Bofonchiò affondando il viso nel proprio
bicchiere.
La risata di Shanks fece da
sottofondo a quel suo scarso tentativo di nascondere il proprio disappunto.
“Sembri proprio un animale in gabbia!” ridacchiò di gusto
l’imperatore procurandosi un’occhiata d’intesa da Satch.
Marco sbuffò interiormente: ci mancava solo che quei due diventassero alleati.
La risata cavernosa di Edward Newgate
fece capolino, attirando l’attenzione dei propri figli su di sé.
“Basta così, figli miei, abbiamo anche prolungato fin troppo
i festeggiamenti. Tornate alle vostre stanze.” Dichiarò imperioso, provocando
un po’ di malcontento tra le file di ubriaconi che, lagnandosi come dei
bambini, si diressero pian piano verso l’uscita, augurandosi buona notte gli
uni con gli altri.
Marco, Satch e gli altri
comandanti furono gli unici a rimanere, mentre la ciurma di Shanks
il Rosso e il rispettivo capitano, continuava ad occupare la sala senza dare
segno di volersene andare.
Le grandi mascelle del Bianco si irrigidirono in risposta
all’occhiata sveglia e per nulla abbacchiata del rivale. Cos’altro voleva da
lui.
“Sarebbe meglio…” fece Shanks, voltandosi verso Barbabianca
con tono nuovamente formale“decidere
come fare con il vecchio Garp là fuori…”
concluse alzando il pollice indicando dietro di sé.
Tutti quanti, Marco compreso, si irrigidirono: si erano
completamente dimenticati della presenza del vice ammiraglio nei pressi della
loro nave. Newgate alzò un sopracciglio:
“Credi davvero che oserà attaccare la mia nave?” domandò
quasi incredulo. Monkey D. Garp
era conosciuto per essere uno sconsiderato, degno del proprio cognome, ma la
senilità che si portava sulle spalle avevano comunque contribuito a mettere in
quella zucca di marine un po’ di buonsenso. Barbabianca
ne era certo, non avrebbe mai spinto i propri uomini in un’azione suicida.
Quindi, a cosa si riferiva quel marmocchio del Rosso?
Marco lanciò un’occhiata significativa al capitano,
ricevendo un segno d’assenso con il capo e quindi il permesso di congedarsi
insieme agli altri comandanti. Tutti e cinque si diressero fuori dalla stanza
con in volto un’espressione truce: avevano gozzovigliato anche fin troppo,adesso dovevano fare del proprio meglio ed
essere pronti a qualsiasi evenienza, mantenendo i nervi tesi al massimo. Non si
poteva stare mai tranquilli con una nave della Marina che ti galleggiava
allegramente accanto. E l’idea di un attacco a sorpresa non allettava nessuno
di loro.
“Naah.” Rispose con un lieve ghignettoShanks non appena
l’ultimo gruppetto scomparì da dietro la porta,
accompagnato dalle ultime infermiere cariche di panni lerci. “Il vecchio non si
azzarderebbe mai a fare una cosa tanto avventata, se è quello che temono i tuoi
uomini.”
Una vena pulsante comparì sulla tempia dell’imperatore
Bianco. Quel marmocchio petulante aveva capito anche quello. Che il mare se lo
inghiottisse!
“Piuttosto … ” continuò intanto l’altro, accovacciandosi
nuovamente a terra davanti a lui “ sarebbe meglio trovare un modo che gli
consenta di allontanarsi senza dover dare troppe spiegazioni a Sengoku.”
Gli occhi sottili e rugosi del Re Bianco si allargarono, per
poi stringersi più di prima. Aiutare Garp ad
andarsene tranquillamente, senza ripercussioni su di sé? Il gigante sondò
attentamente gli occhi del rosso, trovando in essi un motivo per quella frase.
“Che cosa intendi, moccioso?”
Il sorriso di Shanks sparì così
come era venuto. Non era per scherzare che aveva atteso che tutti i figli del
Bianco si ritirassero, quello di cui stava per parlare era una questione
delicata.
“C’è ancora una cosa da dire, riguardante le Paradisee …”
disse alzando gli occhi fissi sull’altro.
Barbabianca stette in silenzio per
tutto il tempo, ascoltando il discorso del Rosso dall’inizio alla fine. E
quando il rivale pronunciò l’ultima frase di quel lungo monologo, trovò molto
difficile sopprimere l’impulso si sbattere un pugno venoso sul pavimento.
Atto 9,
scena 5
“NIPOOOOTEEEEEEE!!!!!!!!!”
Ace aveva in viso l’espressione più sconvolta del mondo,
mentre davanti a lui la figura furente del nonno si sbracciava in sua direzione
dalla polena della propria nave.
Ma perché?! Stava andando tutto così bene! Perché il punto
dove lui e Momo si erano fermati a guardare le stelle doveva coincidere proprio
con la parte che si affacciava davanti l’ammiraglia??
E lui che pensava fosse la sua serata fortunata!
Si calò il cappello sugli occhi, sperando in cuor suo che
quello bastasse per far scomparire la figura del parente adottivo, attirando
così un’occhiata confusa della ragazza accanto a lui. Che figure del cavolo gli
capitavano. Ringraziò il fatto che Momo non conoscesse ancora bene la lingua
perché altrimenti la situazione sarebbe stata più difficile da digerire di
quanto già non fosse.
“E NON NASCONDERE IL TUO VISO DAVANTI A ME!!!! SE PENSO A
TUTTI I GUAI CHE HAI COMBINATO IN QUESTI ANNI, RIMPIANGO DI
AVERTI PERMESSO DI PRENDERE IL LARGO!!! AVREI DOVUTO
RIPESCARTI A NEMMENO DUE METRI DALLA COSTA!! ”
Già - si ritrovò a pensare Pugno di fuoco, grato al destino
- fortuna che tu in quel momento eri a miglia e miglia di distanza da Foosha.
Nonostante le parole del vecchio, non mostrò di voler
rialzare lo sguardo, augurandosi che il gesto lo facesse demordere.
Illuso - disse una vocina nella sua testa - Garp il Pugno non demorde mai.
E come previsto, la voce del vecchio marine tornò alla
carica, trapassandogli fastidiosamente i timpani e facendo gemere di dolore Momo,
anche lei ferita da quel suono dirompente che l’aveva portata a coprirsi le
orecchie. Ace digrignò i denti, combattendo l’impulso di rispondergli.
Non rispondere.
NON rispondere.
“LO SAI A CHE COSA HA PORTATO IL TUO GESTO SCONSIDERATO!!!??
RUFY È DIVENTATO UN PIRATA!!!! SARESTE DOVUTI ENTRARE ENTRAMBI IN MARINA COME VI AVEVO ORDINATO!!! E INVECE ORA MI
RITROVO A FARE I CONTI CON VOI CHE COMBINATE GUAI DA OGNI DOVE DELLA GRANDE
ROTTA!!!”
A quel punto Pugno di fuoco non riuscì più a trattenersi e,
scattando in piedi su parapetto della nave, rialzò lo sguardo sul nonno,
puntandogli contro lo sguardo più seccato che avesse mai avuto.
“Insomma, nonno!!! Non vedi che sono nel bel mezzo di un
appuntamento romantico!? So che è da tempo che non ci vediamo e non vedevi
l’ora di farmi la ramanzina, ma, per favore, non potresti chiudere un occhio per
questa volta??!!”
Quell’uscita improvvisa ebbe un certo effetto sul
vice-ammiraglio che, sbarrando gli occhi, identificò nella figura femminile e
fiammeggiante accanto al nipote, quella della creatura da lui riconosciuta poco
prima sulla nave pirata di fronte. Suo nipote? Con quella creatura?
Appuntamento romantico??!!
La voce dirompente del Pugno tornò immediatamente a farsi
sentire, accompagnata da un paio di grosse vene pulsanti sulle nocche delle
mani serrate.
“SCORDATELO!!!!
CHIUNQUE SIA QUELLA RAGAZZA NON TI PERMETTERÒ MAI DI
METTERE AL MONDO ALTRI PICCOLI DELINQUENTI COME TE!!”
Ace ringhiò stropicciandosi i capelli per il nervoso, dando
le spalle al vecchio brontolone. Ormai ci aveva rinunciato: l’atmosfera di poco
prima era totalmente sparita e con suo nonno pronto a perseguitarlo per tutta
la notte, non avrebbe più avuto possibilità di stare tranquillo da solo con
Momo.
Dov’era un attacco narcolettico
quando serviva?
“E NON MOSTRARE QUELL’ORRENDO TATUAGGIO A TUO NONNO! NIPOTE SCELLERATO!”
Sarebbe stata una lunga notte…
Atto 9,
scena 6, Sinfonia Andante con Moto
Morgan cercò di non piangere mentre la barca veniva sempre
più trascinata via dalla correnteminacciando di sfuggire alle sue piccole dita paffute con strattoni
sempre più violenti. Si morse le labbra per non far sfuggire altri gemiti
disperati, quando le mani di Viola andarono ad infierire ancora una volta sulla
sua debole stretta che ancora per poco gli avrebbe permesso di non essere
abbandonato in mare a pochi metri dalla baia di CopperSulfate.
“Smettila Viola!! Piantala con questa storia!” gli venne in
aiuto la voce di Arch-san, che stava in qualche modo
trattenendo la furia della ragazza dai capelli argentati, sforzandosi di
bloccarla da dietro le spalle, anche se con pochissimo successo.
Il bambino riuscì infatti a vedere una gomitata arrivare
dritto sul mento del biondo,che venne spinto di conseguenza dall’altro capo
della loro piccolo Cutter. A Morgan venne ancor di più da piangere, constatando
che la forza fisica non era tra i pregi del proprio alleato.
“Ho detto di no!”
sbraitò Viola tornando a perseguitarlo, che nulla stava facendo di male se non
rimanere attaccato allo scafo della barchetta facendo appello più alla forza
della disperazione che ad altro.
“Vi prego…” mormorò lui singhiozzando,
mentre le mani della paradisea scioglievano con pochissimo sforzo la presa di
una delle sue manine infantili. Aveva paura. Non voleva rimanere ancora una
volta da solo in mezzo a persone a lui sconosciute pronti a rapirlo come
avevano fatto quegli schiavisti che lo avevano imprigionato. La sua unica
speranza, ora come allora, era attaccarsi a quei due ragazzi che in un modo o
in un altro lo avevano salvato dal suo triste destino, insieme a quell’angelo
dorato che lo aveva sciolto dalle catene della sua ingiusta prigionia. “… lasciatemi… venire con voi.”
La sua mano destra mollò la presa e lui per un attimo
trattenne il respiro, pronto ad affondare con la testa nel nero liquido del
mare notturno.
Fu uno strattone al polso però ad evitare il peggio, trascinandolo
un po’ a fatica verso l’alto, finchè non riuscì a
portarlo completamente a bordo. Arch aveva il viso
sporco del sangue che gli colava dal naso e dal labbro spaccato, effetti
collaterali del suo prendere le difese del ragazzino orientale, ed ansimava
pesantemente mentre tratteneva il braccio del bambino tra le mani.
Morgan non sapeva spiegarsi come, era riuscito ad afferrarlo
poco prima che piombasse in acqua, spostandosi ad una velocità quasi
impossibile da una parte all’altra del piccolo veliero.
Scrollò la testa. No, doveva essere stata la sua
impressione.
“Che cavolo fai?!”
il ringhio di Viola lo svegliò, facendogli tendere nuovamente i nervi con la
consapevolezza che il pericolo non era ancora stato scampato del tutto. Era
riuscito a salire sulla barca, ma la ragazza non si sarebbe certo arresa per
così poco.
Con scatto fulmineo Arch gli si
parò davanti, nascondendolo dietro di sé, rimanendo accucciato a terra. Morgan
non potè vedergli il volto, ma era pronto a giurare
di aver visto una scia sanguinea spostarsi in coincidenza di dove si sarebbe
dovuto trovare il suo occhio destro. Anche per quello il bambino diede colpa
alla stanchezza ed ad una sua falsa impressione.
“Va’ in sottocoperta.” Gli sussurrò in un soffio il biondo e
lui non se lo fece ripetere due volte, fiondandosi con le ultime forze
rimastegli nelle ginocchia oltre la porticina della cabina interna. Fece appena
in tempo a richiudersela alle spalle prima di sentire il suono sordo di due
corpi che cozzavano violentemente tra loro, dando inizio ad una serie di tonfi
ed imprecazioni inequivocabili.
Quei due se le stavano dando di santa ragione.
Viola fu la prima ad urlare, sprigionando con la propria
voce una rabbia tale da far rabbrividire il piccolo Morgan oltre la sicura ma
flebile protezione del legno della porta, rannicchiatosi sugli scalini accanto
ad essa.
“Non proteggere quel
mostriciattolo!”
Uno feroce scricchiolio fece capire a Morgan che una trave
del ponte doveva essersi incrinata di parecchio.
“È soltanto un bambino! ” fu la risposta nasale ma
ugualmente aggressiva di Arch.
“Non mi importa! Fosse
anche un neonato lo butterei in pasto agli squali! È uno di loro!! ”
Un altro fragore di schegge che partivano da tutte le parti.
“E non distruggere la mia barca!!”
“Non me ne importa un
accidente della tua barca Arch!Fammi passare
dannazione! Fammi passare!!!!!”
“No! Non torcerai a quel bambino neanche un capello!!”
Tra le ombre di un punto remoto della stivaMorgan tremava rannicchiato con gli occhi
neri fissi sulla porta, sperando che Arch-san non
finisse ammazzato da quella furia dai capelli argentati. Possibile che tutte le
donne fossero così? Eppure la signorina che l’aveva liberato dalla nave di
schiavi gli era sembrata così gentile…
Trattenne il respiro sentendo la maniglia tremolare
pericolosamente, ma solo per essere brutalmente lasciata stare dalla presenza
minacciosa che era riuscita in qualche modo ad afferrarla per un istante.
“Non lo voglio su
questa nave!!!” ribadì rabbiosa la voce di Viola e Morgan seppe che la sua permanenza
su quella barca non sarebbe stata affatto facile come aveva sperato.
“Datti una calmata Viola!!!”
Atto 9,
scena 7
A Marco era parso di sognare quando aveva visto, e sentito,
in che situazioni versava il fratellino. Non che si aspettasse di meno, a
pensarci bene. Quello che lo aveva reso soddisfatto della sua scelta di
controllare di persona, insieme a Satch e gli altri,
le mosse del vice-ammiraglio, era stato più che altro il constatare quanto la
fortuna potesse essere girata dalla sua parte.
Proprio davanti a lui, un esasperato Ace stava facendo i
conti con gli improperi continui del proprio parente, cercando con scarso
successo di non dargli troppa corda, e quel che condiva il tutto con una vena
di forte comicità, stava nel fatto che quella situazione era stata
evidentemente generata dalla decisione del moro di accostarsi alla paradisea
sul parapetto della Moby, forse per assistere meglio insieme a lei allo
spettacolo notturno sopra le loro teste.
E nel mentre Pugno di fuoco abbassava la testa ad ogni
muggito carico di critiche del proprio vecchio, Momo assisteva a quella buffa
situazione nascondendosi proprio dietro la ringhiera della nave, spuntandovi da
dietro con la testolina fiammeggiante e gli occhietti palpitanti ben visibili,
rimanendo con le ginocchia rannicchiate al petto con una goccettina
di sudore che fluttuava sulla sua testa.
Unsorrisino
soddisfatto gli salì alle labbra alla vista di quella piccola vittoria, e
proprio in quel momento Satch si fece avanti
lisciandosi il pizzetto con fare mezzo dispiaciuto e mezzo divertito.
“Ahi ahi. La solita sfortuna. Questa proprio non ci voleva. ”
biascicò il comandante in quarta lanciando poi un’occhiata di sottecchi a
Marco.
“Già, povero Ace.” Gli fece eco Vista, poggiandosi
elegantemente accanto uno degli alberi maestri lì presenti.
“La sua dev’essere una
maledizione.” Si unì al coro Jaws, con un grugnito
non molto discreto, dato il suo naturale timbro vocale.
“Vado a dargli una mano.” Se ne uscì improvvisamente Marco
camminando in avanti verso i due con la tranquillità di sempre, accompagnato
dalle occhiate dubbiose ed interessate degli altri presenti. Sembrava chequella situazione non facesse né caldo né
freddo alla Fenice, ma Satch poteva ben intuire
quanto lo avesse rincuorato non trovare lo scricciolo ed Ace in una situazione
più intima del dovuto.
“E STAI PUR CERTO CHE NON MUOVERÒ UN SOLO DITO QUANDO TI
SPEDIRANNO AD IMPEL DOWN, RAGAZZINO INSOLENTE! SONO STATO ANCHE FIN TROPPO
BUONO CON TE IN TUTTI QUESTI ANNI…!”
“Oioi. Vecchio, cerca di abbassare
la voce, spaventi la ragazza.”
L’intervento di Marco, pronunciato quasi con fare annoiato,
bloccò la situazione, attirando su di sé le attenzioni di tutti e tre nel
medesimo istante. Le reazioni furono ben distinte a seconda del soggetto: Monkey D. Garp si irrigidì
sbuffando nuvolette di vapore dal naso con gli occhietti ciechi dalla rabbia
per l’essere stato zittito così facilmente da uno sbarbatello; Momo, dopo un
piccolo momento di stupore, aveva cominciato a gesticolare verso il moro e il
vice-ammiraglio,chiedendogli contemporaneamente nella propria lingua aiuto;
Ace, infine, aveva alzato la testa e, riconoscendolo, l’aveva immediatamente
abbassata di lato, sbuffando.
“Ti diverti?” fu la domanda ironica del moro, sentendo in
quel momento il destino estremamente ostile e beffardo nei propri confronti.
Il biondo rimase un attimo in silenzio,poi si poggiò, anche
lui di schiena, sul parapetto della Moby con i gomiti tirati indietro nell’atto
di sorreggerlo, mentre, con la testa all’indietro, osservava un po’ le stelle
sopra di loro.
“Sei sicuro di volere una risposta sincera?.” Gli rispose
retoricamente, ricevendo uno sbuffo.
“No grazie. Ne faccio a meno.”
“In effetti mi sto divertendo un sacco.” Sorrise il biondo,
mandando immediatamente in bestia il compagno lì accanto.
“Ti ho detto di fare a meno della sincerità!!” ringhiò il
moro con i denti e gli occhi improvvisamente più aguzzi del solito.
Un occhio di Marco incontrò la figura luminescente di Momo,
ancora attenta alle loro mosse, ma , evidentemente, del tutto incapace di
capire cosa si stessero effettivamente dicendo, nonostante le sue lezioni gli
avessero dato le nozioni base della loro lingua.
“Sai…” disse la Fenice, bloccando
con il suo tono pensieroso e serio Pugno di Fuoco “… non mi aspettavo che ci
saremmo potuti trovare in questa situazione.” Sussurrò, tornando dritto con un
sorriso amaro sulle labbra.
E lì Ace capì che la situazione non lo stava divertendo
affatto, come invece gli aveva dichiarato prima. Anche a lui del resto non
allettava l’entrare in competizione con il fratello per una ragazza e non lo
avrebbe mai fatto se le circostanze glielo avessero concesso. I suoi occhi
color brace puntarono di sottecchi la figura incuriosita di Momo, studiandola
di poco.
Vale davvero la pena?- si chiese critico, ma gli bastò
quella rapida occhiata alla paradisea per fargli rispondere affermativamente
alla propria domanda. Sì ne valeva la pena e non era solo questione di
astinenza o attrazione fisica. Sentiva davvero qualcosa di strano quando guardava
Momo, una sensazione che non sarebbe riuscito a spiegare nemmeno con mille e
più parole. Una sorta di magnetismo, di brivido e di ignoto. Una miscela che
non gli lasciava via di scampo. Che le Paradisee riuscissero davvero ad
ipnotizzare con la sola voce? Ma lei non stava cantando in quel momento.
“Neanch’io.” Fu la sua replica
quando riuscì a staccarle gli occhi di dosso, poi prese un respiro profondo
e,alzando la testa e chiudendo al contempo gli occhi, disse “…Essere in competizione con te è una cosa da veri
masochisti, ma chi me lo ha fatto fare dico io? Bha,
devo essere impazzito.”
La risposta di Ace spiazzò totalmente il biondo che lo
guardò prima incredulo, poi mezzo divertito.
“Quindi non rinunci?”
A rispondergli fu uno dei tipici sorrisi da malandrino del
fratello, accompagnato dal suo tipico gesto di alzarsi leggermente con un dito
la falda del cappello alla cowboy.
“Neanche per tutto l’oro dello OnePiece.”
Marco stese ancora una volta le labbra un sorriso sbieco.
Quella era una vera e propria dichiarazione di guerra.
“Oioi. Non ti dare troppe arie. Ti
ricordo che sarò io a dover passare più tempo insieme a lei, essendo il suo
insegnante.”
“Oh, tranquillo. Le sfide non mi spaventano.” Lo rassicurò
sempre sorridendo furbesco. Ormai non si poteva più tornare indietro.
“Ah, lo sai che la piccola sa volare?” affermò
immediatamente dando a malapena il tempo a Marco di percepire il cambio di
discorso. La Fenice inarcò le sopracciglia verso l’alto stupito da quella
notizia e fu per questo che ad Ace non servì che glielo chiedesse perché non
potesse rispondere a quella domanda sottintesa: glielo leggeva in faccia.
“Già, si è quasi sfracellata sul ponte. Immagino che si sia
dimenticata anche quello, oltre al proprio nome.”
“Ace-san? Marco-san? Cosa…?” si fece avanti Momo alzandosi lentamente in
piedi e Marco poté finalmente vederne la forma delle fiamme che ne ricoprivano
le braccia. Erano esattamente come le sue quando assumeva la sua forma ibrida
di Fenice. Forse non proprio esattamente: le fiamme erano meno marcate e per
via del colore lasciavano ben intravedere la forma degli arti, ma non c’era
alcun dubbio che in qualche modo formassero una sorta di paio d’ali.
L’atmosfera fu presto rotta dalla comparsa di Satch, inaspettatamente comparso al fianco della ragazza e
avvinghiatosi con un braccio alle spalle di Ace con un sorriso gioviale.
“Ehi, voi due! Non spererete di tenervi lo scricciolo tutto
per voi, spero!” esclamò il comandante della quarta flotta, meritandosi
un’occhiataccia da parte del moro. Inutile, ad Ace non piaceva proprio il
soprannome che aveva dato a Momo, ma lui non ci diede troppo peso, facendo
finta di non accorgersene e rivolgendosi immediatamente alla ragazza.
“Io sono Satch, scricciolo,
piacere di conoscerti. Spero che andremo d’accordo e…”
a quella pausa sia Marco che Ace corrugarono la fronte incuriositi.
“… e di riuscire a proteggerti da questi due zoticoni in
calore.”
Momo non fece in tempo a rispondere adeguatamente alla buffa
ed alquanto lunga presentazione dell’altro che già se lo ritrovò davanti con un
paio di bernoccoli da parte degli altri due comandanti ad ornargli la testa.
Chissà se ci avrebbe mai fatto l’abitudine.
Fine Atto
Nono.
Ed eccomi qua! Fiuuu!
Che bello postare un capitolo dopo tanto tempo!! Sono fiera di me!
No Jaws,
quella di Ace non è una maledizione, ma io! *_* mhwahaha!
Uhm… ma non lo starò maltrattanto
troppo il povero Ace? O-o
Ok spero di non avervi deluso in
alcun modo e di avervi fatto divertire con questo nuovo e, a mio parere,
esilarante capitolo!! Arch e Viola sono finalmente
partiti alla ricerca della loro compagna con Morgan nella stiva a tremare dalla
paura e finalmente, dopo una lunga ed agognata attesa…
ci saranno i primi salti temporali!!! Era ora!
Pertanto non perdiamoci in chiacchere e passiamo al momento clu
di questa serie!
Domande:
1)Su che tipo di isola sbarcherà la
ciurma di Barbabianca? (estiva, invernale.. o altre
cose! Ditemi cosa preferite!)
2)Chi è il padre di Arch?
Ed ora popolo…
votate! Ci vediamo al prossimo capitolo! Vi aspetto con entusiasmo! Kisskiss
TS
Note
di LIBRETTO: Jap>Ita
Watashiwaureshii. > Sono contenta.
Watashi mo, chibi-chan. > Anch’io, piccola.
Ita>Jap
Sai volare? > Anatawa sono ba
o shitteiru?
Volare > Tobu.
Non è niente piccola. Mi
passerà > Nai mo nai, chibi-chan. Watashimasu.
“Allora…!” esclamò con fare
enfatico il Rosso, poggiando sull’elsa della spada la mano destra, mentre
guardava fiero i suoi uomini pronti per entrare in azione, nonostante si
trovassero sul ponte di una nave nemica.
“Pronti per lo spettacolo?!” proclamòallargando le labbra in un sorriso entusiasta,
constatando lui stesso di quanto l’impazienza del suo equipaggio fosse salita
alle stelle in quelle ultime ore. Un boato affermativo carico di eccitazione
sovrastò l’aria fresca della Moby, inghiottendoin sé ogni rumore che non fosse quello delle arme che con un sibilo di
lama venivano sguainate.
Il vice comandante della Red Force
si crogiolò in quell’atmosfera a cui il suo capitano e i suoi compagni erano
riusciti a creare in così pochi attimi di distanza dal loro colloquio con Newgate. L’adrenalina aveva iniziato immediatamente a
scorrergli sotto la pelle, vibrandogli sulle spalle e sulle braccia, ora
frementi più che mai in vita loro. Ben Beckman non
era un tipo da rissa, più di quanto potesse esserlo Shanks,
ma passare così tante settimane di completa inattività potevano essere
snervanti anche per uno come lui e l’occasione che si era presentata loro era
stata tanto propizia quanto allettante. Certo, in circostanze diverse avrebbe
dato un pattone al capitano per essere il solito avventato e lo avrebbe
costretto a ragionare a suon di pedate.
Ma no – si disse sorridendo attorno al filtro della propria
sigaretta, accendendola proprio in quel momento con uno dei suoi fiammiferi
–stavolta una bella baruffa ci sta.
Ovviamente i pensieri di Lucky e Yasopp non erano da meno. Persino Monster
, quell’esagitato del loro scimpanzé, si aggrappava più che poteva alla testa
pelata di Foras, il suo padrone, trattenendosi a
stento dal saltare giù e partire alla carica.
Poveri noi, siamo messi proprio male se anche una scimmia si
comporta alla nostra pari – pensò, annotandosi di non dire mai una cosa simile
a Foras. I motivo erano semplicissimo: Foras, nonostante la corporatura massiccia, era
estremamente sensibile quando si parlava di animali. Era conosciuto tra di loro
come L’orco Dal Cuore D’oro, poiché, a
dispetto dell’apparenza, era un vero e proprio bonaccione, tanto che tutti gli
animali non appena lo vedevano lo adoravano, intuendo il suo animo gentile, e
lui ricambiava con altrettanta premura le attenzioni che quelle palle di pelo
gli riservavano, difendendoli a spada tratta ogni qualvolta era necessario.
Sigh. Si ricordava come se fosse
stato ieri la prima volta che Lucky, in piena
astinenza dei suoi amati cosciotti, aveva osato proporre di cucinare il primate
per compensare la mancanza del prosciutto. C’erano volute ore perché quei due
si calmassero e smettessero di darsele di santa ragione.
Shanks si voltò, procedendo a
grandi falcate in direzione dell’ammiraglia, per poi affacciarvisi con un
sorriso scanzonato a sfidare la smorfia rugosa di Garp.
Il vice-ammiraglio non sapeva che intenzioni avesse quel moccioso dai capelli
rossi, ma una cosa era certa: non sopportava la sua faccia!
“Ehi nonno!” salutò il rosso tutto contento, facendo finta
di non avvertire il ruggire silenzioso dell’haki
dell’altro, circondato dai suoi fidati uomini, scesi dalla branda avvertendo il
rumore poco rassicurante di sciabole e lame sguainate.
“Spero tu sia
contento, io e il vecchio Newgate non siamo riusciti
ad arrivare ad un accordo… ” mentì spudoratamente,
sospirando con fare teatrale, assumendo un’improbabile aria affranta.
“Eeeh… e dire che ci ero andato
così vicino....”
Dalla nave ammiraglia arrivò un insieme di brusii incerti.
Tutti i marine si guardavano l’un l’altro, confusi sul da farsi.
Il rosso aveva appena ammesso di aver fallito e che il loro
comandante ne era direttamente responsabile. Sulle bocche di tutti si formò
un’espressione vittoriosa nel collegare, nonostante le nebbie del sonno
rallentassero la loro attività mentale, il tardivo intervento del vice
ammiraglio al fallimento dell’imperatore.
L’unico a non gioire di quella frase era il vice-ammiraglio
che, fermo come una roccia nella propria espressione arcigna, sondava
mentalmente le intenzioni del Rosso. Cosa stava a significare quella
sceneggiata? Era ovvio che volesse attaccar briga. I suoi uomini, già armati e
pronti ad uno scontro dietro di lui lo stavano tecnicamente urlando a suon di
inquietanti sibili di lame strisciate l’una contro l’altra.
Dannazione- pensò il vecchio marine, adocchiando dietro di
sé Koby ed Hermeppo rigidi
come delle statue e per nulla rilassati, come invece erano anche fin troppo i
loro compagni- non mi aspettavo una simile svolta da parte del mocciosetto.
Non era un bene trovarsi a così pochi metri di distanza dal
Rosso. Era risaputo anche tra i gradi più bassi della marina. Non c’era via di
scampo alla sua imprevedibilità, nemmeno per uno come lui, Monkey
D. Garp, che poteva vantare di aver conosciuto
persino quel pazzoide di Gol D. Roger.
Certo, Roger era stato un ottimo anfitrione per il rosso.
Degno portatore del titolo di pazzo furioso privo di ogni remora, persino il
giorno della propria esecuzione. Eppure quel malpelo scalmanato continuava, a
suo parere, a battere il buon vecchio re dei pirati.
Era un manigoldo con la faccia da santarellino con una
logica tutta sua, completamente fuori da ogni schema, per certi aspetti
paragonabile a quella di uno squilibrato. Un attimo prima te lo trovavi tutto
allegro a brindare insieme a te con un bicchiere di sake
sotto mano, e un attimo dopo te lo vedevi ridacchiare e sguainarti la spada
contro con l’espressione di un bambino monello stampata in faccia.
I pugni tozzi e venosi di Garp si
strinsero rumorosi. Una vera e propria carogna, Shanks
il Rosso. Specie in quel momento, mentre gli stava silenziosamente intimando di
mettere in allerta i propri uomini per mettere mano alle armi e dare il via ad
una battaglia tra le loro ciurme.
Il vecchio continuò a sfidare lo sguardo dell’imperatore con
il proprio. Che fare? Aveva dato a Shanks carta
bianca perché mettesse al sicuro la piccola Paradisea,in quel momento ospite di
Edward Newgate, non perché lo mettesse con le spalle
al muro come un allocco!!
Mai fidarsi di un pirata! Mai! Com’era potuto cadere così in
basso!?
“Sono molto, molto arrabbiato.” Proclamò Shanks
con un ghigno bianchissimo a cui solo Garp, Koby ed Hermeppo non credettero nemmeno per un istante. Quella non era la faccia
di una persona arrabbiata, ma di una persona che smania per andarsi a prendere
ciò che vuole. Un bambino troppo cresciuto che non vede l’ora di fare a botte
con il capo della banda avversaria.
L’assalto prese il via come se al posto di una ciurma di
pirati ci fosse stato uno sciame d’api, in modo talmente veloce da lasciare a
malapena il tempo ai suoi marines di mettere mano alle baionette, eppure Garp, mentre distingueva la Red Force
venire allontanata a poco a poco dalla Moby, sentiva che qualcosa non tornava.
Da quando al Rosso piaceva attaccare briga? Certo, amava le battaglie, ma mai
se non era strettamente necessario. Non
era il tipo da scagliare la prima pietra. Ma allora perché?
Cos’era quella novità?
Lo stridore di una lama sguainata lo fece scansare poco
prima che la spada di Shanks si abbattesse sul suo
braccio. Anche quello non fece che aumentare i sospetti di Garp:
Shanks il Rosso non era il tipo da attaccare qualcuno
di disarmato, tantomeno con così poca precisione. Se solo avesse voluto, gli
avrebbe anche potuto tranciare di netto l’arto dal resto del corpo.
Ad accogliere la sua occhiataccia arcigna fu l’espressione
serafica del pirata.
“Non dovresti distrarti nel bel mezzo di uno scontro, nonnetto.” Lo canzonò.
Attorno a lui Garp sentiva i suoi
sottoposti agitarsi e contrattaccare debolmente agli attacchi dei loro
assalitori, completamente disorientati e scoordinati.
“Che diamine stai facendo, dannato pazzoide?!” ringhiò
sputandogli quasi contro per la rabbia che stava provando. Voleva che mettesse
a rischio la vita di centinaia di uomini. I suoi
uomini. Persone di cui conosceva uno ad uno nome e cognome. Tutti quei ragazzi
avevano una famiglia, dannazione, come faceva il rosso a non capire la sua
posizione??!!
“Io ?” Chiese ancora una volta Shanks
guardandolo come se non capisse cosa intendesse mentre siaccingeva a caricare un altro fendente
malriuscito verso il marine, pur mantenendo intatta la propria espressione da
finto tonto.
“ Io sto solo attaccando una nave della marina, no?”
ridacchiò, abbassando lo sguardo in modo significativo, come una volpe che furbescamente
si mette d’accordo con la faina mentre attorno a loro il pollaio e tutto un
fremito.
“È normale per un pirata. Dico bene?” aggiunse infine
scaricando verso di lui con così poca convinzione che l’albero maestro della
nave si vide solo intaccare leggermente dalla spada del Rosso.
Garp strabuzzò un attimo gli
occhi, indietreggiando di un altro paio di passi, non capendo bene cosa
significasse quell’espressione. I suoi occhi caddero poco sopra la spalla
dell’Imperatore, dove la piccola paradisea, dalla nave di Newgate,
continuava a guardare a fiato sospeso lo scontro e fu allora che allargò al di
sotto della propria barba lanosa un ghigno. Confermò di persona i propri
sospetti vedendo quello che veramente stavano combinando gli uomini del rosso.
Da esperto veterano di scontri tra pirati e marine, riuscì a
riconoscere soltanto ferite superficiali, colpi sferrati su punti non vitali e
quasi sempre con la sola forza di pugni e calci.
Ora si spiegavano molte cose.
“Già,..” concordò finalmente, mettendosi in posizione di
guardia “… dannatamente normale.”
Atto 10,
scena 2
“Non saremo in debito con lui, vero?” grugnì poco contento Jaws, guardando quell’assurda messinscenaportare sempre più lontane le due navi
nemiche. Al suo fianco Ace e Marco ridacchiarono ognuno a modo proprio: quel
diavolaccio di un Rosso era riuscito a creare al babbo un sacco di guai e poi
andarsene come se nulla fosse successo.
Bhe, perlomeno il suo malaugurato
arrivo era servito a dar loro qualche informazione in più su Momo. La ragazza
in questione stava ancora osservando tutta presa dalla scena le due navi,
osservando con crescente preoccupazione la battaglia che, a quanto pareva, si
sarebbe allungata di parecchio, prima di finire definitivamente.
“Eeeh, temo di sì.” Sospirò Satch tastandosi con una mano i due grossi bernoccoli che
gli sbucavano dalla testa, lasciando miracolosamente intatto il suo amato
ciuffo. Bella roba avere dei fratelli così permalosi. Mica aveva detto così
grande cattiveria! Va bene, passi per lo “zoticoni”, ma dire che erano in
calore non era poi totalmente sbagliato, giusto?
“Il Rosso riesce sempre a sconvolgere la vita di chi gli sta
attorno.” Ridacchiò Vista a braccia conserte godendosi gli ultimi sprazzi
visibili della battaglia in lontananza.
Ace poggiò le braccia all’indietro sulla ringhiera interna
del ponte, voltandosi soddisfatto verso Marco che seduto sopra di essa tirava
anche lui un sospiro di sollievo. Pugno di fuoco non riusciva a crederci: era
riuscito a scampare alla furia del nonno. Gloria immensa, quello squilibrato
mentale di Shanks l’aveva sbrogliato dalla peggiore
delle situazioni in cui poteva capitare.
“Oh bhe, direi che ci siamo
divertiti.” Affermò ridacchiando di sottecchi verso il biondo accanto a lui
che, a quella velata provocazione, si imbronciò poggiando stancamente il mento
su una mano, voltando lo sguardo.
“Parla per te. Avessi potuto gli avrei tirato il collo.”disse
per poi vedere Momo sedersi accanto a lui, accennando ad un sorriso così timido
da farlo sorridere di riflesso. Di tutta risposta a quella piccola e quasi
insignificante vittoria, Ace si premurò immediatamente di accostarsi a sua
volta accanto alla ragazza, sorridendo sbarazzino, mentre quest’ultima si
ritrovava seduta in mezzo ai due in una situazione alquanto scomoda.
Sarebbero state scintille se Satch
non fosse prontamente intervenuto, pronto più che mai a rasserenare gli animi e
a dare alla fanciulla un poco di quiete da quella battaglia di cuori che, senza
che potesse accorgersene, stava cominciando ad infuriare attorno a lei.
“Ok, piccioncini. Tutti a nanna. Lo scricciolo ha bisogno di
quiete, ha già avuto troppe emozioni forti per oggi.” Sentenziò e venendo
prontamente imbeccato dal moro, per nulla turbato dalle parole del comandante
in quarta.
“Attento Satch, parli proprio come
Betty quando è in vena di fare la maestrina.” Disse il ragazzo dalle
lentiggini, facendo bloccare sul posto tutti quanti.
“Ehm... Ace?” provò disperatamente a farlo desistere Marco.
“Fossi in te non parlerei di-..” si unì al coro Satch, facendo segno come Jaws e
Vista di stare zitto con le mani, ma venne bloccato da una risata dell’altro.
“Ahaha!” rise Ace battendo una
mano sul legno della ringhiera, scoppiando dal ridere al solo pensiero “Davvero
Satch!Ti manca solo la sua divisa da urlo, scommetto
che diventeresti l’idolo della ciurma in meno di venti secondi! Anche se tu non
hai il suo stesso lato B!”
“Immagino.” Disse tetra una voce femminile dietro di lui.
La reazione di tutti fu ben intuibile dalle urla che
succedettero la pessima figura di Ace.Momo si portò le mani alle labbra, incredula di fronte a quell’aspetto
di Betty che non aveva mai avuto la possibilità di vedere; Vista e Jaws abbassarono la testa, non avendo la forza e la voglia
di sostenere l’altro nella sua lotta contro l’infermiera; Satch
si sforzò di sorridere forzatamente di fronte a quella brutta situazione,
dispiaciuto per non aver potuto avvisarlo in tempo e Marco si limitò a
sospirare guardando il fratellino perdere terreno ad ogni parola della donna,
che incombeva sempre più su di lui come uno tsunami che minaccia di infrangersi
su una povera piccola isola.
Dopo qualche istante la Fenice spostò lo sguardo dal
fratello alla propria sinistra, dov’era seduta Momo. Quello che lo stupì fu il
trovare il posto accanto a lui vuoto.
Il respiro gli si mozzò in gola per la sorpresa e ancor di
più quando tornò a Betty ed Ace, trovando la ragazza tra di loro in tutto il
suo dorato fulgore con le braccia alate spalancare nell’atto di proteggerlo
dalla furia cieca dell’altra.
“Betty-san, p-per favore si
fermi.”
Da dietro gli occhiali scuri l’infermieraingrandì gli occhi di tre volte tanto,
seguita a ruota dai cinque comandanti. Quando era arrivata? Era comparsa
davanti a lei in sì e no in un battito di ciglia! Penelope le aveva parlato
delle conclusioni alle quali era arrivata su Momo e sulla sua incredibile
capacità di autorigenerarsi, infatti si era recata da
lei proprio per quello, presa dalla smania di vedere quelle fiamme fantastiche
con i propri occhi e valutarle con la dovuta calma.
Ma una simile velocità non se la sarebbe mai aspettata!
“Per favore, per
favore, per favore.” Ripeté intanto Momo con delle piccole lacrime dettate
dal panico agli angoli degli occhi, non sapendo dire altro in difesa del moro,
e sperando che la donna non cominciasse ad urlare contro di lei come l’aveva
vista fare prima.
Ace, con una mano posta sul retro del cappello, non riusciva
a credere a quello che aveva appena visto. Una velocità simile non l’aveva mai
vista. Era stato come se la piccola fosse comparsa dal nulla in uno schiocco di
dita, senza fare il benché minimo rumore. Sorrise contento: non era poi così
indifesa come avevano pensato inizialmente.
Fu ben contento di non vedersi più sgridato da Betty che,
nonostante lo smarrimento iniziale, mise le mani sui fianchi sorridendo
accondiscendente verso Momo per poi portarla via, malgrado qualche lieve
obiezione da parte della piccola. I cinque capitani sospirarono nell’udire più
attentamente il modo di parlare della ragazza: era come ascoltare una canzone
dal tono flebile ed armonico. Sembrava quasi un usignolo caduto dal nido che
implorava aiuto.
Ma quelle fiamme che pericolose sembravano circondarla in un
abbraccio protettivo, dicevano il contrario, mettendo dentro di loro una sorta
di ansia. Non era solo una questione di conquistare o meno il suo cuore, come
invece era in buona parte per Ace e Marco, ma una specie di sentore di
pericolo, qualcosa che non si poteva esprimere a parole se non con una stretta
di spalle e la convinzione che l’unico modo di capire a che cosa si riferisse,
fosse quello di andare avanti e lasciare che il destino facesse il suo corso.
D’altronde, chi poteva dire cosa sarebbe successo, con una
creatura canterina come quella a movimentare le loro giornate?
Atto 10,
scena 3
Era ormai giorno quando finalmente riuscì a mettere piede
nella sottocoperta. Diavolo, quello scemo di Arch era
certamente più debole rispetto a lei, ma in quanto resistenza era peggio di uno
scarafaggio! Viola si sfregò una guancia, sentendo i grumi di sangue rappreso
dell’unica ferita che il biondo era riuscito ad infliggerle, graffiarle la
pelle in modo così fastidioso da farle ringhiare scocciata.
La sua pelle era stata sfregiata da quel maschio di ultima
categoria,… e per che cosa? Per un fottutissimo marmocchio umano.
Sentì Arch grugnire dolorante dal ponticciolo della loro bagnarola e in qualche modo si sentì
il morale salirle considerevolmente per un paio di istanti. In fondo si era
tolta uno sfizio che si portava avanti da anni.
Bene- si disse accigliandosi, mentre le sue gambe
procedettero con sicurezzatra
l’oscurità della stiva – il bastardo è sistemato, ora è il turno del
vermiciattolo.
Inciampò su una corda abbandonata per terra ancor prima di
attivare la propria vista notturna, rischiando di lasciarsi sfuggire un
imprecazione melodica, fortunatamente bloccata da una mano sulla sua stessa
gola. Rantolò per terra, maledicendo si gli assurdi oggetti di Arch “utili per la navigazione” e anche quel marmocchio su
cui non vedeva l’ora di mettere le mani.
“No…” fu una voce flebile che la
sorprese ancora a terra. Si rialzò con una smorfia di disappunto sulle labbra:
quello stupido si era accorto della sua presenza e stava andando nel panico.
Non poteva chiedere di peggio.“No… mamma..!” lo sentì
pigolare ancora, facendola sbuffare mentre si metteva impaziente le mani sui
fianchi stretti. Grande Spirito, quanto odiava i bambini piagnoni. Meglio
liberarsene- pensò schiarendo la propri vista in meno di un secondo – prima che
mi saltino i nervi.
Per lei fu quasi uno shock trovarsi in una situazione
totalmente diversa da quella che si era aspettata.
Morgan si era appallottolato in un angolo della
sottocoperta, pressato contro la cassapanca ed un barile che si erano portati
appresso da CopperSulfate.
Attraverso il rosso dei propri occhi Viola vide le sue spalle venire scosse da
degli spasmi incontrollabili, le sue manine contratte nell’atto di afferrarsi
il tessuto sottile della maglia al petto e gli occhi spalancati che sgorgavano
lacrime da tutte le parti.
“Mamma..!” rantolò di nuovo il piccolo orientale, respirando
così velocemente, neancheavesse corso
per chilometri di fila.
Che diavolo…?!- pensò Viola,
accostandosi velocemente al piccolo ma solo per realizzare che, anche se
sembrava sull’orlo di soffocare, quello non era altro che un brutto,
bruttissimo, attacco di panico, talmente forte da rendere il piccolo Morgan
quasi incosciente. La ragazza argentata avrebbe detto che stava fingendo, in
una situazione diversa, ma quegli occhi neri non sembravano nemmeno vederla.
Erano persi in un mondo totalmente differente dal suo.
“E-ehi!” balbettò non sapendo che
altro fare se non rimetterlo seduto e cercare di scrollarlo da quello stato di
trance paranoico. Le spalle di Morgan non si placarono e nemmeno il suo respiro,
ma le sue mani si mossero inaspettatamente verso di lei, stringendole
disperatamente il materiale teso del corpetto che le fasciava il seno.
Viola rimase di stucco vedendo la testolina del bambino
nascondersi nel suo petto, in cerca di un calore che forse non era il suo, ma
di qualcun altro.
“Mamma… t-ti prego.” Mugugnò
ancora il bambino “P-promettoc-che…
(snif) n-on lo farò più. Mamma…
Non mandarmi via. Mamma…mamma…!”
Era disperato. Viola sapeva che non si stava riferendo a
lei, ma, sebbene i suoi occhi castani fossero sbarrati ed increduli per essere
stata appena abbracciata da un bambino umano, di cui fino a pochi istanti prima
voleva disfarsene, non ebbe altra reazione dalle proprie mani se non quella di
poggiarle su quella massa arruffata di capelli scuri, strofinandoli con quella
che le sembrò una carezza.
E il peggio venne dalle sue labbra.
“Va tutto bene.” Disse arrochendo così tanto la voce da
farla sembrare normale alle orecchie del bambino. I singhiozzi e i respiri
affannosi di quest’ultimo rallentarono gradualmente smorzandosi appena.
Eppure un’ultima frase uscì da quelle labbra infantili e
spaurite.
“Non voglio salire… su quella…n-nave.”
Viola rimase in quella posizione ad occhi spalancati,
andando contro le intenzioni che l’avevano spinta fino a quel punto, pestando Arch, distruggendo quasi la Clara pur di mettere le mani su quel bambino e gettarlo a mare. E
allora che cosa la stava frenando?
Non era pena quella che stava provando, vero? Vero?!
Quasi non sentì Arch scendere a
fatica gli scalini della stiva, fermandosi poi sull’ultimo di essa guardandola
con un occhio livido chiuso ed un braccio fermo a tenere l’altro aderente al
resto del corpo, quasi potesse cadere a terra spezzato.
Vedendolo Viola poté dire di aver fatto un ottimo lavoro.
Almeno la prossima volta ci avrebbe pensato due volte prima di sfidarla.
“E va bene…” grugnì abbassandosi
al livello di parlare come quegli umani che aveva tanto deriso per il tono
sgraziato che li distingueva dalle paradisee “… può restare, ma appena comincia
a creare troppi problemi lo mollo nel primo posto che mi capita…
e non ridere!!” sbottò infine vedendo le
labbra sottili del ragazzo traballare stranamente sotto l’effetto di uno
stimolo estraneo persino a lui medesimo.
Alla fine Arch ci rinunciò e,
alzandosi con non poca difficoltà, disse un’ultima cosa prima di scomparire
dietro il materiale sicuro della porta che conduceva al ponte, assumendo il
solito tono piatto.
“Saresti un’ottima mamma.”
E fu tutto quello che disse,prima di sentire una bottiglia
infrangersi contro la superficie di legno.
Atto 10,
scena 4, Arioso del mattino
Sospiraitrascinandomi dietro la cesta di biancheria pulita da stendere. Il sole
stentava ancora a risalire l’orizzonte quando io e tutte le infermiere ci
levammo dalle brande per compiere quelli che dovevano essere i lavori di
routine. Non che rendermi utile mi dispiacesse, ma ero veramente stanca e prima
di risalire dalla sottocoperta avevo fatto in tempo a guardarmi allo specchio.
Ero pallida come un cecio e delle sottili macchie scure mi erano apparse sotto
gli occhi. Sembravo un fantasma senza le mie fiamme.
Avevo passato una
nottata davvero impegnativa con Betty. Davvero.
Sebbene la vista del cielo notturno mi avesse rallegrato,
ritrovarmi da sola insieme alla mora in infermeria, era stato davvero
sfiancante. All’inizio non era stato granchè: tutto
quello che aveva fatto era stato osservarmi da capo a piedi e poi cominciare a
toccarmi. Toccarmi! Alle braccia!
Avevo letteralmente fatto un salto di tre metri, vedendola
mettere un dito tra le fiamme che mi uscivano dal corpo. Che cavolo! Sono
fiamme, no? E le fiamme bruciano! Cosa le era saltato in mente?!
Vederle però il dito perfettamente illeso era stato per me
un colpo veramente forte. Non una bruciatura, nemmeno un lieve arrossamento.
Era stato come se avesse infilato la mano nel nulla.
E da lì era cominciato tutto. Betty aveva cominciato a
tastarmi dappertutto: sulla testa, sulle guance. Poi, non contenta, si era
ferita con uno dei bisturi. Sì, si era proprio tagliata! Insomma, un taglietto
da nulla, ma vederla fare una cosa simile mi aveva mandata nel panico totale.
L’avevo vista infine avvicinarsi a me e infilare la mano
offesa tra i miei capelli, ritirandola subito dopo. La ferita era letteralmente
scomparsa. Mi girava la testa e dovetti sedermi per evitare di cadere per
terra. Non ci capivo nulla.
Mi ero fatta tante paranoie solo per scoprire che le mie
fiamme non potevano fare del male a nessuno?! Anzi, potevano addirittura curare
le ferite?! Ero arrossita fino la punta dei capelli. Che vergogna.
Poggiai la cesta di vimini per terra, ricordando con
stanchezza crescente cosa mi aveva fatto fare Betty dopo quella, almeno per
lei, entusiasmante scoperta. Mi aveva messo davanti la cosa più brutta che
avessi mai visto: un manichino umano con tutti gli organi esposti.
Mi veniva da piangere al solo pensiero. Non si era limitata
solo a mostrarmelo, spiegandomi passo dopo passo il nome di ogni singolo
componente di quell’obrobrio, ma lo aveva anche
smontato costringendomi a rimontarlo pezzo per pezzo, ripetendo il nome proprio
di ognuno di loro.
Avevo passato tutta la notte in quel modo, senza possibilità
di fuga poiché l’infermiera si era premurata di serrare la porta e nascondere
la chiave nel suo voluminoso decoltè.
Sospirai ancora una volta, sentendomi le palpebre
pesantissime. Mi sentivo uno straccio. Insomma io non potevo stare sveglia
notte e giorno!! Un po’ di pietà dico io!
“Momo-chan…”
mi voltai verso Penelope, accostatasi a me con il solito insostituibile sorriso
sulle labbra “Tabetai?” mi chiese docilmente. Non era da
tanto che stavo su quella nave, ma ormai avevo capito che le parole che
cominciavano per ‘tabet-’ si riferivano al mangiare e
di conseguenza il mio stomaco reagì prima della mia bocca, gorgogliando come
non mai e facendomi cadere nel più completo imbarazzo.
Accidenti, non avevo ancora fatto colazione.
La risata argentina di Penelope mi fece diventare ancora più
rossa. Ma perché dovevo essere così imbranata?
La vidi abbassarsi sul mio cestino, afferrandolo con
disinvoltura i manici di quest’ultimo per poi rialzarsi elegantemente,
lanciandomi un’occhiata accondiscendente.
“Dōzomeshiagare. Watashiwakokonitadoritsuku.”
Per un attimo aprii la bocca per risponderle, ma di nuovo la
sensazione di non dover dire nulla mi colse, bloccandomi le parole in gola,
così mi limitai ad annuire ed ad osservarla con ammirazione, mentre si
allontanava da me con la sua consueta innata grazia.
Quanto avrei voluto essere come lei. La sua figura flessuosa
e slanciata gridava maturità e bellezza da qualunque parte la si guardasse. Per
un attimo mi guardai tristemente il petto, trovandolo penosamente piccolo e
sgraziato in confronto a quello di Penelope. Chissà se con il tempo sarebbero
cresciute.
Un altro grugnito del mio stomaco mi fece capire che era
tempo di pensare al cibo e, dandomi qualche schiaffetto su entrambe le guance,
mi rialzai, dirigendomi frettolosamente verso la mensa.
Avevo una fame che non ci vedevo più, e poi ero impaziente
di rivedere Ace e Marco. Pensai a Satch, l’uomo che
mi si era presentato ieri: mi era sembrato simpatico di prima impressione.
Atto 10,
scena 5
“Aaaah…”
sbuffò Ace allungandosi sul tavolo con aria sofferente. A neanche un centimetro
dal suo viso, stava un piatto fumante di salcicce, pancetta e uova, eppure i
suoi occhi parevano trapassarlo completamente. Tutti quanti nella sala lo
guardavano preoccupati, persino Barbabianca osservava
allarmato il figlio, il cui appetito gli era stato fin dai primi giorni ben
chiaro. Il gruppo delle infermiere osservava con altrettantaansia le condizioni del moro.
Se Portuguese D. Ace aveva perso
davvero l’appetito, allora l’intera ciurma avrebbe fatto meglio a correre ai
ripari per far fronte alla tempesta imminente che si sarebbe certamente
abbattuta sulla Moby.
Un altro sospiro eruppe dalla bocca del moro, mentre la sua
testa oscillava da una parte, completamente senza forze “Dov’è Momo?” fu la
domanda che fece uscire fuori dalle orbite gli occhi di tutti quanti.
Marco sbuffò, alzando gli occhi al cielo mentre si dondolava
all’indietro con la sedia.
“Sei senza speranze.” Lo provocò, ottenendo immediatamente
una reazione dell’altro che, alzando di scatto la testa e guardandolo in cagnesco,
gli rispose per le rime:
“Parli bene tu! Io mi sono visto soffiare una serata con
Momo da Betty!”
“Forse se non avessi fatto quegli apprezzamenti sul suo lato B, te l’avrebbe lasciata.” Fu la
degna scoccata della Fenice, che continuò a guardare tranquillamente il soffitto
sopra di lui.
“Ma che ne sapevo io!” obiettò il moro ritornando alla
propria posizione di sconforto, poggiando il mento sul tavolo. “Se avessi
saputo che era dietro di me non avrei mai detto quella frase.” Mugugnò infine.
“Fatti tuoi. Ora Betty se la legherà al dito fino alla
morte.” Rispose un poco più aspro del solito il ragazzo con la testa ad ananas,
attirando su di sé un’occhiata incuriosita dell’altro che lentamente rialzò la
testa alzando un sopracciglio.
Rimasero in quella posizione per un po’, l’uno a guardare il
biondo e l’altro a far finta di non accorgersene.
“Hai finito?” sbottò improvvisamente Marco senza cambiare espressione,
gli occhi socchiusi come loro solito in un’espressione quasi imbronciata.
Ace ridacchiò, intuendo finalmente cosa ci fosse sotto, non
appena vide che anche il piatto dell’altro era rimasto intoccato.
“Ace.” Lo avvertì non proprio amichevolmente Marco,
provocando però in lui l’effetto contrario: ovvero, quello di fargli rischiare
una fragorosa risata.
“Sono contento…” disse non appena
riuscì a frenare l’attacco di ridarella che gli era salito in gola “… di non
essere l’unico senza speranze.”
“Beccato.” Si intromise Satch
infilzando una salciccia con la forchetta. Come aveva pensato all’inizio
sarebbe stato una spasso. D’altra parte però un po’ rimpiangeva quella piccola scenetta.
Eeeh, cosa avrebbe dato per ritornare giovane di
giusto una decina di anni.
Stava per tornare ad ascoltare quell’interessante
battibecco, quando vide comparire, nemmeno l’avessero evocata, la diretta
interessata, completamente libera dalle proprie fiamme mentre si faceva strada
tra i tavoli gremiti di gente. Ad ogni passo che faceva riceveva un saluto da
parte dei suoi fratelli e, non sapendo come rispondere, rallentava ogni
qualvolta che poteva inchinandosi leggermente in avanti in segno di rispetto
per poi ripartire a razzo verso di loro.
Sorrise ancora di più nel vederla un poco provata. Aveva il
viso più pallido rispetto alla sera precedente.
Chissà cosa le ha fatto fare Betty…
- si domandò accarezzandosi il pizzetto pensieroso, lanciando poi un’occhiata in direzione dei due contendenti al suo fianco:
non si erano ancora accorti dell’apparizione della piccola.
Ok, - pensò, chiudendo un attimo gli occhi - allora me ne
occupo io.
“Ma guarda un po’!” disse con meraviglia costruita “Lo
scricciolo si è fatto finalmente vivo!”
Per poco Marco non cadde dalla sedia nel sentirglielo dire,
mentre Ace scattò immediatamente sull’attenti, sorridendo radioso non appena si
accorse che quello di Satch non era stato uno
scherzo.
“Momo!” esclamò il moro tutto contento, sentendo la fame tornare
ad attanagliarli le viscere.
La ragazza si fermò proprio davanti al loro tavolo,
eseguendo l’ultimo di una lunga serie di inchini, facendo sorridere Newgate per la sua dimostrazione di buona educazione. Poi
un suono prolungato emerse subitamente dal suo stomaco, bloccando tutti quanti
e facendola arrossire di botto.
“Ahaha!” intervenne prontamente Satch alzandosi e facendo spazio alla piccola, invitandola
con un gesto della mano a sedersi al suo fianco “La piccola deve essere
affamata.”
Evitò di guardare Marco ed Ace, conscio di che razza di
occhiatacce gli avessero indirizzato, per via delle libertà che si stava
prendendo con Momo che senza farselo ripetere due volte si fiondò al proprio
posto con gli occhioni luccicanti alla vista di tutto
quel ben di dio.
Fece appena in tempo ad afferrare una mela proprio davanti a
lei, prima che qualcosa di scuro apparisse davanti a lei, bloccandole in un
istante sia la vista del resto della sala, sia il frutto. Gli occhi confusi di
Momo, insieme a quelli degli altri, si mossero sulla mano pelosa che, tenendo
ben ferma la mela da lei stessa scelta, le impediva di portarla verso di sé. L’attenzione
si mosse poi verso l’alto dove si presentò rugosa e grottesco il viso umanoide
di un essere che tutta la ciurma identificò come quello di una scimmia.
Già, una scimmia dalla coda pensile che ondeggiava
freneticamente all’indietro e con uno stranissimo codino a spazzola sopra la
testa.
Sulla testa di ognuno di loro apparve un punto
interrogativo.
“Una scimmia?” disse
Ace incredulo. Non c’erano scimmie sulla Moby, che lui sapesse.
Quella però non attese che la situazione di sbloccasse e con
un bello strattone portò via in un sol colpo il frutto conteso dalle mani della
piccola, correndo immediatamente verso l’uscita della sala con la refurtiva in
ben stretta tra le tozze dita, sbraitando contenta la propria vittoria con
suoni acuti e prolungati.
Tutta la ciurma della Moby era rimasta a bocca spalancata
per quella inattesa ed alquanto assurda scena e fu naturale per tutti guardare
la reazione di Momo.
Quest’ultima non si era mossa di un millimetro, talmente shockata
per il sopruso appena subito da non avere nemmeno la forza di muovere gli occhi
né tantomeno cambiare espressione. Poi la videro abbassare lentamente gli occhi
alle proprie mani, vuote e desolate come non mai.
Sbatté un paio di volte le palpebre , per poi fare qualcosa
che fece mancare il fiato a tutti quanti. Le sue sopracciglia si incrinarono
verso il centro e la mandibola le si irrigidì rabbiosamente, facendole
stringere le labbra proprio mentre gli occhi scattavano verso l’alto, ansiosi
di trovare la scimmia ladra.
La paradisea piantò le mani sul tavolo con talmente tanta
forza da farlo sobbalzare, rialzandosi di scatto e con un balzo partire all’inseguimento
della propria colazione, sotto gli occhi sbalorditi di tutti.
Marco ed Ace guardarono Momo scomparire a grandi falcate dietro
la grande porta della sala, esattamente dove di era diretta la scimmia ladra.
Entrambi tentennarono un pochino prima di riprendersi da
quello che avevano visto, ma, non appena riuscirono a darsi una scrollata, il
ricordo della nuova espressione assunta da Momo fece partorire loro un unico ed
innegabile pensiero.
Dannazione quant’era sexy quando si arrabbiava.
Atto 10,
scena 6, Arioso del rocambolesco inseguimento
Ero arrabbiata. Furiosa come mai ero stata in vita mia. Non
era tanto il fatto di volermi riprendere quella particolare mela a farmi correre
come una forsennata dietro quella scimmia, ma il principio! Accidenti, ero su
quella nave da 4 giorni! Quattro giorni! E in ogni singolo momento di quel
breve periodo non avevo fatto altro che accumulare figuracce su figuracce.
Credevo di poter quietare almeno durante i pasti. E invece
no! Adesso mi vedevo fregare la colazione da una scimmia comparsa dal nulla!
No, non ci stavo. Avessi anche dovuto correre a perdifiato per tutta la nave l’avrei
trovata e l’avrei costretta a ridarmi quella stupidissima mela!
Lo so, non era molto maturo pensarla in quel modo. Ma che
potevo fare? Non ne potevo più di quella situazione.
Finalmente l’avvistai: stava ciondolando a testa in giù dalla
ringhiera della scalinata principale. Di riflesso accelerai, portando lo
spostamento d’aria a tirarmi indietro i capelli, ma quella, vedendomi, mi diede
appena il tempo di compiere uno scatto, prima di sgusciarmi dalle dita,
facendomi quasi stampare la faccia sul pavimento.
La guardai più accigliata che mai e questa mi rispose
ballandomi davanti agli occhi, giocherellando con la mela tra le mani, e poi
darsi due sonore pacche sul sedere in mia direzione.
E la rabbia montò più forte di prima. Voleva la guerra? E
guerra avrebbe avuto!!
Mi rialzai immediatamente, ottenendo solo di farla scattare
lungo la continuazione del corridoio. Avrei tanto voluto urlarle contro di
fermarsi, oh se lo volevo, eppure mi bloccai decidendomi sul da farsi. Alzai
gli occhi, determinata a finire quello che avevo cominciato.
Mi preparai mentalmente, flettendo le gambe e richiamando in
me le sensazioni che mi avevano fatto scattare in quel modo tremendamente
veloce la sera prima davanti ad Ace. Per me era stato strano fare una cosa
simile, ma anche se non sapevo da dove mi venisse, ero sicura di poterlo rifare.
Bastava che rifacessi le stesse cose della sera precedente.
Portai le braccia al resto del corpo, in modo tale da farle
aderire completamente, e poi alzai gli occhi sulla figura ormai lontana dell’animale.
Strinsi i denti, caricando quanto più slancio riuscii. Non
le avrei permesso di andarsene in quel modo.
Poi partii, flettendo il corpo durante il salto e voltandomi
a mezz’aria. Un istante, e già mi ritrovai davanti alla scimmia, con le braccia
al petto ed un piede a tamburellare sul pavimento in segno di impazienza. Quella
spalancò la bocca scandalizzata, cominciando a tremare da capo a piedi alla mia
vista.
Io però non mi feci intenerire: o la mia mela o niente
perdono. Mossi lentamente una mano puntandone l’indice verso terra, facendole
capire che doveva poggiare il frutto della nostra contesa a terra.
Quella però non solo mise la mela perfettamente dove avevo
indicato io, ma si prostrò letteralmente ai miei piedi, mettendosi a faccia e
braccia a terra.
Nonostante un breve momento di smarrimento,sorrisi
vittoriosa, contenta della mia piccola grande impresa.
“Momo!” “Chibi-chan!”
Le due voci famigliari provenienti dalla fine del corridoio
mi fecero riaprire gli occhi, ritrovandomi a faccia a faccia con Ace e Marco, evidentemente
accorsi in mio aiuto. Entrambi mi guardarono sbalorditi quando mostrai loro la
mela, ridacchiando contenta.
Atto 10,
scena 7, Red Force
“MONSTER!!”
L’urlo infelice di Foras squarciò quasi
in due la Red Force, mentre Ben ed Usopp tentavano in tutti modi di calmare il gigante pelato,
chino a terra con la testa tra le mani, singhiozzando disperato come un
bambino, dandogli delle amichevoli pacche sulle spalle.
Ormai erano ore che continuava in quel modo e nulla sembrava
potesse tirarlo su di morale. Il combattimento con la marina si era protratto
fino all’alba e solo in quel momento si erano accorti che al loro equipaggio mancava
un componente: la loro mascotte, Monster. Foras all’inizio
aveva creduto si stesse solo nascondendo, ma dopo ore ed ore di ricerca si era
reso conto che il suo adorabile compagno di viaggio non si stava nascondendo da
lui, semplicemente non era presente sulla nave.
Shanks guardò dispiaciuto l’amico,
non sapendo proprio che pesci pigliare. Avevano fatto di tutto. Si erano mobilitati
in massa per ritrovare il loro fedele e casinaro
compagno, ma niente. Avevano addirittura messo sotto torchio Roid, stavolta chiuso nella stiva della nave, sperando di
poter ricavare qualche informazione utile, ma anche quella volta i risultati
furono deludenti.
Il Rosso si sfregò il mento più pensieroso che mai,
prendendo in analisi ogni possibile eventualità. Pensare che Monster fosse caduto in mare non era possibile, data la sua
innata capacità di arrampicarsi e di nuotare come lo stesso Foras
gli aveva insegnato. Che fosse rimasto sulla nave del vecchio Garp era un’altra opzione da scartare: non avevano visto il
primate neppure in quell’occasione.
Rimaneva un’unica problematica possibilità.
Diede un paio di colpetti sulla testa calva dell’amico,
facendogli alzare la testa con le lacrime che ancora gli solcavano il viso.
“Tranquillo amico mio, Monster starà
benone…” ridacchiò lasciando di stucco tutta la
ciurma “…, ma faremmo meglio ad andare a riprendercelo, prima che il vecchio Newgate lo faccia legare al pennone della nave.”
Atto 10,
scena 8
“Cambiamo rotta?” ripetè Marco, non
credendo alle parola appena sentite pronunciate dal babbo. Erano tornati da
pochissimo dal loro breve ma memorabile inseguimento, portando come trofeo la
scimmia legata come un sacco di patate. Momo aveva fatto in tempo a saziarsi
come tanto desiderava prima che il capitano della Moby desse loro quella
notizia.
Accanto a lui Satch, Vista e Jaws lanciavano sguardi interrogativi al padre, non volendo
azzardare domande inutili che avrebbero in ogni caso ottenuto risposta: al
capitano non piaceva dare ordini ai propri figli senza le dovute spiegazioni.
Eppure Ace non riusciva mai a trattenersi in simili situazioni.
“Ma papà…” intervenne Pugno di
Fuoco aggiustandosi il cappello con un dito “… le nostre scorte di acqua e di
cibo sono sufficienti per altri 3 mesi.Perchè fare
una deviazione?”
Lo sguardo che Edward Newgate
volse verso la piccola paradisea fu più che sufficiente a spiegare buona parte
delle sue motivazioni.
“Ho intenzione di far diventare la piccola Momo parte della ciurma…” rispose il gigante serio in volto, cosa strana per
un uomo come lui, specie quando si parlava di adottare un nuovo membro nella
famiglia “… e vorrei che cercasse di coltivare le sue capacità in un ambiente
più consono.”
Tutti quanti annuirono, d’accordo con il pensiero del
vecchio. Momo poteva essere dolce e simpatica, ma era anche indifesa ed essere
figlio di Edward Barbabianca non prevedeva essere
scarsi nel combattimento, visti i continui attentati alla vita del comandante
ed alla nave stessa che si ripetevano periodicamente. Quello a cui si stava
riferendo il babbo era un vero e proprio allenamento, atto a far sì che alla
piccola fosse dato un posto nella ciurma.
“E per dove?” fu la
domanda fatidica sulla quale Marco aveva ragionato più tempo del dovuto
poggiato scompostamente sullo schienale della sedia ed osservando attentamente
Momo continuare a mangiare, non potendo capire i loro discorsi. Aveva una
strana sensazione. Un brutto presentimento, circa la destinazione che sarebbe
potuta essere la decisione del babbo.
Non che lui avesse avuto problemi per le isole da loro
protette e visitate periodicamente, ma ce n’era una in particolare per la quale
mai e poi mai avrebbe voluto deviare.
“Inari Fountain.”
Dalla sua postazione Momo vide il volto abbronzato di Marco
impallidire notevolmente e si chiese se si stesse sentendo male a causa di
qualcosa che aveva mangiato.
Fine Atto Decimo.
E anche questo atto è finito. Ho
solo un unico piccolissimo annuncio da fare, anzi due in uno: primo, se e dico seOda-sensei
mi fa lo scherzo di uccidere anche Marco, giuro GIURO
che vado lì e rapisco sua madre, suo padre e chicchessia, ma non mi può
uccidere anche lui! Cappio! È una caspita di fenice! Se riesce ad uccidere
anche lui vuol dire che proprio ce l’ha con noi fan girl! Secondo! Perché ditemi
perché ci devono illudere a noi
povere scrittrici? Dico, da un SECOLO che portiamo questa convinzione assoluta
che Satch sia biondo e loro cosa fanno? Eh? Cosa
fanno? Lo fanno pel di carota!! Ecco cosa succede a fidarsi delle prime
immagini di personaggi manga sullo schermo! Ti trasformano il biondo dei
capelli in ARANCIONE! No, basta per favore trattenetemi o giuro che mi alleo
con i cinesi e faccio guerra al giappone. Conquisterò
Tokyo e metterò a ferro e fuoco casa Oda.
Va bè,
basta così, sono scontenta di aver aggiornato prima del previsto, ma visto che
stanno cominciando le lezioni e io devo fare ancora tre esami, direi che è
meglio sveltirsi. Ehehe^^’’
Quindi, passiamo alle domande e non
sperate di passarla liscia alleandovi! Voglio originalità! Datemi la giusta
ispirazione attraverso le vostre idee più pazzoidi, donne!
1)Che frutto del diavolo fareste mangiare al
piccolo Morgan? (spoileronee!! XD)
2)Che stile di combattimento vi immaginereste
per Momo alias Allegra?
Popolo votate!! XD
Ci vediamo tra massimo due
settimane!! Kisskiss!! ^*^
Il crepuscolo
stava già calando sulle immense vele, pigramente ammainate, della nave dell’Imperatore
Newgate, portando con sé un torpore che fiaccava sia
nel corpo che nello spirito i temuti figli del Bianco.
Era passato quasi
un mese da quando Momo, una strana creatura senza memoria, era salita sulla
Moby, stravolgendo completamente la vita dell’intera ciurma. Tutti ormai,
parlando e facendo correre la voce sull’immensa imbarcazione riguardo sua indole,
ben lungi dalla definizione di coraggiosa, e del suo aspetto dall’apparenza
fragile, avevano cominciato ad adorarla, forse anche per merito di un certo
istinto paterno collettivo.
Non c’era stato un
solo attimo di tregua per la ragazza dacché aveva cominciato la propria vita su
quella immensa imbarcazione: di giorno dormiva, nonostante i suoi piccoli e
deboli tentativi di ribellione per scappare dalla camera prima che l’alba fosse
già diventata un ricordo dell’orizzonte, di notte invece faceva di tutto per
imparare quanto più poteva sia della lingua che delle proprie capacità, andando
incontro però a parecchi limiti.
In particolare, durante
le sue prime lezioni di volo, che il comandante della prima flotta aveva cercato
di impartirle, aveva scoperto di non essere in grado di volare. Non nel vero
senso della parola,almeno. Quello che riusciva a fare era più simile ad un
enorme balzo a senso unico, simile a quello che aveva usato la prima volta per
acchiappare la scimmia che le aveva rubato la mela.
Oltre tutto
questo,Betty aveva deciso, di propria iniziativa, di affiancare il comandante
Marco, contrariato non di poco, nel turno di notte con la piccola per
introdurla a modo proprio nel mondo del reparto medico della nave,
costringendola, nel vero senso della parola, a studiare i meccanismi di ogni tipo
di organo vitale e non, presente nel corpo umano.
Momo rimaneva
sempre shockata dopo le lezioni della infermiera occhialuta, arrivando a
lasciarsi abbracciare da Monster, la scimmia perduta
della ciurma del Rosso, per ore, bofonchiando qualcosa al vento notturno con
tono amareggiato e mezzo disperato, attirando così le attenzioni preoccupate
dei cinque comandanti che, bene o male, erano quelli che passavano più tempo
con lei.
Quando la scimmia
non saltava loro addosso per allontanarli dalla ragazza, ovvio.
Satch era stato fino a quel momento la vittima
preferita di quel primate combina guai, che, da quando una chiamata al lumacofono del babbo ne aveva sentenziato la sua
appartenenza all’odiata ciurma rivale, aveva rischiato più volte di essere
buttata a mare, se non fosse sempre stato per il tempestivo intervento di Momo
che la prima volta, a rischio di finire in acqua, si era appesa a testa in giù
per le sartie della nave con una sola caviglia a reggere il suo peso,
acchiappando in extremis l’animale che da allora l’aveva eletta come sua
padroncina.
E il viso
graffiato di Satch ne sapeva qualcosa.
Erano stati comunque grandi i progressi che la
Paradisea aveva compiuto in quel breve lasso di tempo, impegnandosi a
memorizzare perfettamente ogni frase dettale da ogni componente della ciurma,
Marco ed Ace inclusi. Il livello di Momo era salito di tantissimo, certo,
c’erano dei modi di dire che le rimanevano ancora oscuri, ma era comunque
sufficiente a renderle possibile una conversazione in piena regola con chiunque
ed ad impedire definitivamente ad Ace e Marco di dire più di mezza frase che
lei non capisse.
E visto che di
solito loro si punzecchiavano proprio a causa sua, era sempre più difficile
parlare senza che Momo intuisse qualcosa circa il vero stato delle cose. Strano
ma vero, nessuno dei due si era fatto avanti e sulla nave non si parlava
d’altro. Quei due non avevano fatto altro che “accumulare punti”, se così si
poteva dire, arrivando però ad una situazione di assoluta parità.
Satch sospirò, poggiando pesantemente una delle
ultime botti sul ponte, come Penelope gli aveva chiesto gentilmente. Sorrise
inconsciamente al ricordo del visino dolce dell’infermiera bionda.
“Eh, vecchia
volpe..”si disse massaggiandosi una spalla con un sorriso sghembo in faccia “… mi
sa che ti stai innamorando di nuovo.”
“Innamorando di chi, Satch-san?”
Il comandante
della quarta flotta quasi fece un volo alto tre metri nel sentire una voce
proprio alle sue spalle, voltandosi poi con una mano puntata sul cuore nel
tentativo di calmarlo. Davanti a lui Momo lo guardava stranita, come se non
desse molta importanza al fatto di averlo appena colto di sorpresa,
spaventandolo. Un sopracciglio della ragazza era scattato all’insù, vedendo
l’altro lanciare un sospiro di sollievo nel constatare che ad averlo sentito
era stata solo lei e non qualcun altro.
“Scricciolo!”
esclamò con mezzo tono di rimprovero il biondo “Non dovresti apparire così
all’improvviso.” La ragazza sbuffò contrariata, vedendo che l’altro aveva
evitato di risponderle.
“Scusi,Satch-san,
ma di cosa stava parlando?”sorvolò l’altra con una rapida scusa, lasciandolo
perplesso e con una domanda scomoda alla quale rispondere. Satch
doveva ammetterlo, la ragazza aveva fatto veramente passi da gigante. Bhe, la pronuncia era sempre articolata al canto, ma ormai
i verbi ed il modo di comporre le frasi sembravano non avere più segreti per
lei.Si grattò la testa, ah, quanto
avrebbe preferito che non avesse imparato così bene la loro lingua. Colpa di
Marco e delle sue lezioni: ora chi lo toglieva da quella situazione?
“Mi dispiace
scricciolo, te lo spiegherò più avanti.” Tentò di defilarsi, voltandosi da una
parte ma solo per vedersi apparire davanti, in un lasso di tempo simile ad uno
schiocco di dita, la ragazza con le mani avanti e gli occhi sbarrati,
mostrandosi in un evidente stato di agitazione.
“Unmomento!”
Uao…- pensò, sudando una gocciolina fredda
sulla tempia, sbalordito da quella capacità che aveva visto pochissime volte –
ha imparato in fretta ad usare quella roba. Ammise a se stesso, concentrandosi
poi su quello che la ragazza stava tentando di dirle, con qualche balbettio
provocato certamente dalla confusione. Da
quando era salita sulla Moby aveva acquisito un po’ di autocontrollo e
coraggio, ma il più delle volte preferiva defilarsi dalle brutte situazioni
piuttosto che affrontarle di petto. Certo che era un po’ strano che il babbo
avesse voluto adottare una creatura così chiaramente inadatta al combattimento,
visto comunque il loro tipo di ambiente.
La ragazza
sospirò abbassando sguardo e testa per darsi una calmata, mettendo insieme bene
le parole prima dopo essersi rilassata. Persino le fiamme che le ricoprivano i
capelli si ritirarono di poco, sottolineando il suo precedente statod’animo.
Il biondo alzò un
sopracciglio, preoccupato da quel comportamento. Ormai aveva imparato a capire
le sue emozioni anche in base all’atteggiamento del suo fuoco. C’era da dire
che lui e lo scricciolo erano diventati parecchio affiatati a lungo andare, a
causa delle sue continue intromissioni durante gli impacciati tentativi di
corteggiamento che Ace e Marco avevano nei suoi confronti. Il prezzo da pagare
erano stati un bel po’ di bernoccoli tra i suoi capelli, prontamente aggiustati
da una passata di brillantina, ma si poteva dire che Momo gli aveva dato
parecchia fiducia, nonostante il suo istinto a volte la facesse insospettire, intuendo
che le nascondesse qualcosa.
“Ace è svenuto di nuovo.” Concluse un po’
amareggiata, guardandolo con occhi mortificati da cucciolo bastonato. A Satch venne da sorridere intenerito: Momo aveva passato
parecchio tempo con il capitano della seconda flotta negli ultimi tempi, ma non
si era ancora abituata ai continui attacchi narcolettici
del moro, andando nel pallone tutte le volte che lo vedeva piombare nel mondo
dei sogni. La prima volta che si era addormentato di fronte a lei si era messa
a gridare ed a piangere disperata, allarmando l’intera nave che però, vedendo
la situazione creatasi, si era messa a ridere, confondendo ancora di più la
ragazza, che capì di aver fatto una pessima figura solo quando Ace,
risvegliatosi, le sorrise a nemmeno 5 centimetri dal viso.
Inutile dire che
il moro si ritrovò con un piccolo bernoccolo in testa e che Momo si rintanò
sulla ringhiera della piazzola interna alla nave, abbracciando Monster per scoraggiare chiunque dall’avvicinarsi a lei.
“Ok scricciolo.”
disse capendo in pieno la tacita richiesta di aiuto della paradisea.
Ultimamente Ace non faceva che addormentarsi nei posti più disparati e a volte
Momo, quando non riusciva a trascinarlo da sola in una posizione o un luogo più
adatto ad una dormitina, veniva da lui in cerca di un paio di braccia in più. La
ragazza si chinò in avanti in segno di gratitudine, cominciando a camminare
verso una direzione ben precisa.
“Grazie infinite Satch-san,
ma, mentre andiamo mi può dire cos’è uno scricciolo? È da quando sono salita
sulla nave che non fa che chiamarmi così.”
“Bhe…” cincischiò ancora una volta il biondo, grattandosi il
lato della testa guardandola: cambiava argomento con una facilità e naturalezza
disarmante. Era chiaro che fosse diventata un po’ più sicura di sé: gli
insegnamenti di Betty, uniti ai confronti continui con Mindy,
la loro sarta, dovevano averle rafforzato un po’ i nervi.
Non avrebbe mai pensato che quella creaturina all’apparenza indifesa si sarebbe messa a
contrattare la forma dei propri abiti. Mindy non era
affatto contenta di non poter confezionare vestiti a modo proprio, ma a quanto
pareva Momo rifiutava qualsiasi cosa che implicasse termini come rosa e scollato, e alla fine la loro povera infermiera esperta in suture e
rammendi, si vedeva costretta a sistemare le sue creazioni aggiungendo un
colletto dove prima stava una “bellissima scollatura a v” o trasformando una
gonna in un pantaloncino. Satch però doveva ammettere
che dopo le dovute modifiche i vestiti di Momo diventavano più fantasiosi, mantenendo
sempre quella punta di semplicità che la caratterizzava. Non che la camicetta a
quadri azzurra e il paio di pantaloni neri a pinocchietto
che indossava in quel momento facessero molto, ma addosso a lei davano proprio
una bella impressione: il giusto equilibrio tra praticità e stile.
“Uno scricciolo…” si
diede una svegliata per cercare di non far attendere troppo la ragazza. Si grattò
un altro paio di volte la testa, per poi sorridere bonario come solo lui, su
tutta la nave, sapeva fare “… è un uccellino piccolo e carino che saltella
continuamente.”
Satch stava quasi per piegarsi in due dal
ridere vedendo l’espressione sbalordita della ragazza avvampare di imbarazzo.
“Satch-san!”
“Oh, andiamo
scricciolo! Io lo trovo molto carino come soprannome!” rise l’altro accelerando
il passo per riuscire a starle dietro.
Atto 11, scena 1
La scena che gli
si presentò non fu delle più serie. Satch era
indeciso se stramazzare al suolo, piegandosi in due dalle risate, o risparmiare
a Momo l’imbarazzo e fuggire dall’altra parte della Moby per dar sfogo alla
propria ilarità.
Oh, ma perché
prima di diventare pirata non aveva rimediato uno di quegli aggeggi
d’invenzione del governo chiamati macchina fotografica? In quel momento avrebbe
dato qualsiasi cosa per averne una sottomano. A parte la sua brillantina, eh.
“Come…” disse cercando di non scoppiare a ridere, vedendo il
viso della ragazza assumere una tonalità più rossa del normale “Come ha fatto a…?”
“È caduto dalla vedetta.” Rispose
bofonchiando Momo, vergognandosi fino alla punta delle proprie fiamme per la
figura che stava facendo Ace.
Il capitano della
quarta flotta però la guardò stupito, con capendo bene come il fratello fosse
riuscito a finire in quella posizione assurda, cadendo solamente dalla vedetta.
“E…?”
Momo se possibile
continuò ad avvampare, diventando ancor più rossa.
“Ho cercato di acchiapparlo…”
bofonchiò la ragazza abbassando la testa man mano che parlava “… ma l’ho mancato, spingendolo addirittura
verso quelle corde… ” alzò un dito tremante verso
una delle corde tese che collegavano la vela di supporto all’albero maestro.
Non poteva
crederci.
“È rimbalzato…”
Una cosa così
accadeva una volta su mille.
“… e si è attorcigliato con quelle corde.” Terminò con la voce oramai ridotta ad un
filo.
Sopra le loro
teste Ace ancora ronfava alla grande con il cappello che, appeso alla propria
giugulare grazie alla cordicella attaccata, subiva il suo stesso dondolamento
provocato dalla posizione tutt’altro che naturale. Era praticamente in bilico
su due corde che, attorcigliandosi un po’ attorno alle gambe un po’ ai gomiti,
lo avevano bloccato a testa ingiù, lasciando in lui ben poco di quella dignità
che si portava dietro ogni giorno.
E a quel punto Satch non riuscì più a trattenersi, optando a malincuore
per la prima opzione.
“Non c’è niente da ridere! Non posso tirarlo
giù da lì da sola!” protestò stringendo poi le mani a pugno e stringendo le
labbra per la stizza.
Il biondo però
non ce la faceva, rimaneva bloccato a terra con una mano sulla fronte e l’altra
sullo stomaco, impossibilitato dall’articolare qualsiasi tipo di frase
coerente.
“Dai Satch! Mi devi
dare una mano!” implorò alla fine Momo, scuotendolo per le spalle.
“Scricciolo… ” riuscì a dire rimettendosi faticosamente in
piedi “… veramente io non sarei la persona più adatta a cui chiedere.”
Momo sbuffò
incrociando le braccia e guardando dall’altra parte, offesa da quella
osservazione.
“L’avevo
notato.”
“Andiamo
scricciolo. Io sono messo peggio di te. Tu sai saltare fino a lì, io invece
posso solo provare ad arrampicarmi e cercare di tagliare le corde per liberarlo,
ma danneggerei la nave e poi tu dovresti prenderlo al volo.”
Il ragionamento,
forse troppo lungo, lasciò Momo un tantino perplessa, ammutolendola per qualche
istante, dando così il tempo a Satch di esporre
meglio le proprie ragioni.
“Magari Jaws ci può dare una man-..”
“NO!” esclamò con un mezzo urlo la
ragazza, bloccando le parole dell’altro sul nascere, scuotendo freneticamente
mani e testa in segno di negazione “Non
voglio chiedere a Jaws.” Spiegò semplicemente,
sperando di non dover dare ulteriori chiarimenti, ma il comandante in quarta
distinse chiaramenteuna lacrimuccia
fare capolino da un angolo del suo occhio sinistro.
Si ritrovò a sorridere intenerito di fronte
alla realtà dei fatti.
“Hai ancora paura
di Jaws?” fu la domanda retorica dell’altro che, non
appena l’ebbe pronunciata, vide le fiamme della paradisea strepitare con più
forza, quasi rizzarsi a causa di un brivido incontrollato.
“No! N-non è vero.
” balbettò, ma un sopracciglio inarcato, accompagnato da un sorriso di chi ha
ormai capito tutto, la fece ritornare sulle proprie parole “Bhe…” si corresse, tormentandosi
le mani “… forse un pochino.”
Rimase così a
testa china per un bel po’, quasi raggomitolata tra le proprie spalle nel tentativo
di nascondere il proprio disagio. Non era questione di avere paura di una
persona o meno, Satch l’aveva intuito, c’era qualcosa
di più sotto. Momo poteva anche aver stretto una certa amicizia con lui Ace e
Marco, ma con gli altri, tranne che con il babbo, sembrava non voler proprio
sciogliersi. La cosa forse poteva apparire normale detta così alla leggera, ma
per il comandante della quarta flotta aveva coltivato quel dubbio giorno dopo
giorno, vedendo come la ragazza rifuggiva terrorizzata qualsiasi tipo di
presenza al di fuori di loro tre.
La cosa era parsa
più evidente con Jaws che, anche se non lo dava a
vedere, un po’ ci soffriva per essere l’unico a non riuscire ad avvicinarsi
entro una distanza di dieci metri alla piccola senza metterla in allerta. Se
poi tornava indietro con la mente,in effetti Momo aveva mostrato di temere la
presenza del loro caro musone, ma non aveva mai cercato di defilarsi o evitarlo,
almeno le prime volte. Che cosa le aveva fatto cambiare atteggiamento? Jaws non le aveva fatto nulla di male.
No,- concluse Satch
– qui c’è qualcosa di più sotto.
“Scricciolo.” La
chiamò con tono piatto, dopo averci pensato un po’, camminando verso la
piazzuola, per poi sedersi sopra la ringhiera ed invitarla a fare altrettanto,
picchiettando sulla trave con una mano.
Momo non disse
nulla, stupita da quel gesto, ma si limitò a sedersi accanto al biondo,
guardandolo si sottecchi. Si sentiva come una bambina alla quale stavano per
fare la predica.
“Hai ricordato
qualcosa?”
Quella domanda la
disarmò completamente.
Nessuno, da quando quell’uomo dai capelli
rossi aveva causato lo spiacevole incontro tra lei ed il suo ex-aguzzino, si
era mai degnato di chiederle se avesse ricordato qualcosa. D’altra parte era
passato parecchio tempo da quando la sua mente le aveva restituito qualche
immagine riguardante i suoi ipotetici compagni di viaggio dai quali era stata
divisa, rinchiusa in quell’inferno galleggiante che, aveva scoperto dopo, era
una nave di schiavi.
Ci pensò
intensamente, portandosi le gambe al petto: non aveva avuto modo di pensare ai
suoi ricordi, né alla propria vita precedente. Il tempo era trascorso così in
fetta da riempirle le giornate, impedendole di pensare ad altro se non alle
poche e gravi preoccupazioni che aveva accumulato dal giorno in cui quella strana
ombra gigante e ghignante aveva cercato di strangolarla.
Rabbrividì al
solo pensiero. Buffo, non ricordava nulla di quello che aveva sentito dire da
quel mostro nascosto nel buio, ma nella sua mente era rimasta scolpita un solo
suono, indelebile ed inquietante come il sentore di una lama che strisciava
lungo la pelle con la punta, vezzeggiandola pronta ad affondare in essa in
qualsiasi momento.
“Zehahaha”
Quell’orrenda
vibrazione l’aveva accompagnata continuamente, persino durante le ore in cui
lei, distesa sul lettino dell’infermeria, avrebbe dovuto dormire, le aveva
impedito il più delle volte di fare dei sogni che non implicassero il ricordo
di quella notte. Ancora non riusciva a capacitarsi cosa fosse stata quella cosa
che l’aveva attaccata, mettendo in allarme quella specie di suo sesto senso che
non si era fatto più sentire.
Poteva dire di
sentirsi al sicuro in mezzo ad Ace, Marco e gli altri, ma era sempre attorniata
da qualcosa che le impediva di sciogliersi completamente. Si sentiva una preda.
Ecco, proprio una preda. Scrutata dall’alto da un predatore spietato e pronto a
ghermirla con i propri artigli.
Come poteva
rilassarsi in quelle condizioni? Avrebbe anche potuto spiegare la situazione ad
il capitano, ora che sapeva la lingua, ma cosa gli avrebbe detto? Che uno dei
suoi musuko,
come li chiamava lui, aveva cercato di ucciderla e che per questo non riusciva
a fidarsi di nessuno a parte Marco, Ace e Satch?
Lei non faceva
nemmeno parte della ciurma. Che diritto poteva avere per lanciare accuse a vuoto?
“Scricciolo?”
La voce di Satch la richiamò, facendola riemergere dal freddo
provocato dalle sue stesse incertezze.
Si affrettò a
rispondere alla sua domanda.
“Poco.” Disse, stringendo un po’ di più
le ginocchia “Quando quell’uomo mi ha ……”
“Aggredito?” l’aiutò nella scelta delle parole
il biondo. Momo annuì, sperando che quella parentesi terminasse lì.
“Che cosa
precisamente?”
Gli occhi
luminosi della paradisea si abbassarono ancora di più, e le sue braccia si
ricoprirono a poco a poco di nuove fiamme gialle, circondandola in un abbraccio
protettivo. Satch conosceva quella reazione: Momo
faceva sempre così quando si sentiva a disagio e sospettava che quel modo di
reagire fosse una sorta di tentativo di difendersi da qualcosa. La stessa cosa
che le impediva di legare con gli altri membri della ciurma.
“Un’isola con dei tetti blu…”
sussurrò tesa la ragazza,trovando facile citare l’unica cosa che le era stato
concesso di ricordare.
“La tua isola?”
azzardò Satch.
“No…” scosse la
testa Momo “… non sapevo nulla di quelle
persone.”
“Eri su un’isola
a te estranea, quindi.”
Momo annuì.
“Eri da sola?”
“No.” Rispose subito “… c’erano altre due persone con me,… forse.”
“Forse?”
“La seconda persona non l’ho vista.” Spiegò
immediatamente Momo, notando la confusione nella voce dell’amico “Ma… credo fossero un maschio e una femmina.”
“Un ragazzo e una
ragazza.” La corresse il biondo, ricevendo un segno di assenso da parte dell’altra.
Non era ancora abituata ad usare parole specifiche.
“Nient’altro?” fu
l’ennesima domanda del comandante, che ancora si stava scervellando su cosa
stesse tormentando la sua piccola amica.
“Il ragazzo è stato … catturato e io e Viola,
la ragazza, siamo andate a liberarlo.” Continuò l’altra, ansiosa di finire
il discorso “Ma sono stata catturata al
posto suo.”
“E sei finita
sulla nave di schiavi.” Concluse al posto suo Satch,
capendo bene il collegamento che aveva avuto il riaffiorare di quel ricordo con
l’apparizione di quell’ex-schiavista. Fu il silenzio poi a regnare tra di loro,
interrotto ritmicamente dal sottile russare di Ace, ancora appeso sopra le loro
teste.
“E non hai avuto
alcun tipo di ricordo da allora?”
Satch sapeva di stare camminando sul filo del
rasoio, il silenzio di Momo glielo provò, facendo crepitare le fiamme di lei in
un ritmo più inquieto del solito.
“Satch.” Lo chiamò
Momo, alzando leggermente la testa, affondata poco prima tra e braccia
incrociate. Il comandante dal pizzetto vide i suoi occhi tremolare sotto la spinta
di qualcosa che, sospettò essere delle lacrime “Hopaura.”
La ragazza si
stupì di sentire qualcosa attirarla verso la propria destra, circondandole le
spalle e facendole incontrare con la nuca il petto dell’altro. Satch la stava abbracciando, noncurante come non mai della
presenza del fuoco giallo dei suoi capelli che zampillava a pochi centimetri
dalla sua barba. Momo sbarrò gli occhi e sentì una sensazione di vergogna
salirle al petto.
Ma perché..? –pensò
sentendo nuovamente il pianto pungerle gli occhi – perché siete tutti così
gentili con me?
“È naturale avere
paura, scricciolo.” Sussurrò rassicurante, mentre sentiva le dita sottili della
ragazza aggrapparsi disperatamente alla sua camicia dando finalmente sfogo al
proprio dolore, portato avanti per giorni e giorni dietro sorrisi rassicuranti
ed occhiate smarrite.
Se Ace e Marco mi
vedessero adesso… - pensò il biondo avvertendo già la
violenza di un paio di pugni scolpirgli senza pietà i due soliti bernoccoli –
come minimo mi fanno secco.
“Cosa sta
succedendo qui?”
Satch giurò che lassù qualcuno doveva volerlo
morto sul serio. Marco lo stava scrutando con uno sguardo che, se avesse voluto,
avrebbe incenerito un’isola intera. Le iridi azzurre del fratello passarono da
lui, o meglio il suo braccio sopra le spalle di Momo, alla ragazza, accalcata
sul suo petto ed Ace, ancora perso nel mondo dei sogni.
“Posso spiegare.”
Fu tutto quello che riuscì a dire il comandante in quarta, alzando una mano
fermando sul nascere qualsiasi giudizio dell’altro nei propri confronti.
Atto 11, scena 2
“Tutto bene,
scricciolo?” gridò Satch dal basso, guardando Momo venire
trattenuta a mezz’aria dal becco di Marco per il colletto della camicetta,
mentre lei faceva del proprio meglio per districare Ace dalle corde della nave.
“Tutto bene, Satch-san!”
esclamò di rimando la ragazza, facendo del proprio meglio per non pensare all’assurdità
della situazione. Dietro di lei Marco,trasformato in fenice, la sorreggeva,
tenendosi ben lontano dalle funi che trattenevano il fratello sospeso, onde
evitare di danneggiarle con le proprie piume roventi e causare così una
violenta caduta del comandante della seconda flotta.
Momo stava
facendo del proprio meglio per liberare a poco a poco Ace, pronta ad afferrarlo
e portarlo delicatamente a terra come avevano pianificato lei ed il biondo
dietro di lei. Satch intanto guardava il tutto dal
ponte, pronto ad intervenire nel caso Ace, invece di essere accompagnato verso
il basso, fosse piombato giù come una pera cotta.
“Mi dispiace Marco-san.
Ho quasi finito.” Disse corrucciandosi a causa di tutta la concentrazione
che stava mettendo per districare l’amico senza danni. Si stupì di sentire la voce dell’altro risuonare
dietro di lei, nonostante il becco fosse ben fermo e quasi le sfuggì una delle
corde dalle mani per via del sussulto che l’aveva colta per lo spavento.
“Tranquilla.” Disse
la voce placida della Fenice “Sei molto leggera.”
“Ma-ma-ma-ma riesci a parlare?!” esclamò dopo aver
preso di nuovo possesso delle corde, cercando di guardare l’altro al di sopra
della propria spalla.
“A quanto pare.” Rispose
Marco sorridendo interiormente per via della vicinanza di cui poteva godere in
quel momento. Attraverso le narici riusciva a percepire il sottile profumo
proveniente dal retro del suo collo, leggero e rilassante.
“Certo che tu ed Ace siete strani…” fu il sussurro che lo riscosse da quei
pensieri poco convenienti alla situazione.
“In che senso?”
“Tu sei un volatile infuocato…”
“Fenice.” La corresse
divertito, facendole scuotere la testa irritata per essere stata corretta ancora
una volta.
“… ed Ace è fatto di fuoco.”
“Tu sei ricoperta
da fiamme su braccia e capelli.” Fece notare l’altro, osservando nel frattempo
il lavoro della ragazza: ormai erano poche le corde da disincastrare prima che
si potesse passare all’ultima fase del recupero.
“Lo so…”
bofonchiò l paradisea, toccata sul vivo “…
è che… non so … mi sembra strano.” Concluse con
un lieve rossore in viso. “Oh, ho finito.”
Disse poi, accorgendosi di quanto le mancasse prima di prendere il moro per le
spalle. Marco non era molto contento: non aveva mai avuto la possibilità di
parlare così tanto con Momo, a causa delle continue interruzioni di Satch, Betty ed Ace. I sottili occhi rapaci della Fenice
ebbero un fremito: mancavano pochi giorni all’avvistamento della Red Line e la ragazza era migliorata di molto, stando in mezzo
a tutti loro.
Ma non era
abbastanza. Inari Fountain sarebbe stato meno
clemente con lei, se ad allenarla…
“Possiamo scendere, Marco-san.”
Lo avvertì Momo, mentre teneva ben salda le spalle di Ace e lui cominciò a
planare di conseguenza.
“Bentornati.” Gli
salutò ridendo Satch con le mani sui fianchi. Marco si
ritramutò nella propria forma umana e, proprio mentre
Momo poggiava delicatamente il moro sulla ringhiera della piazzuola del ponte,
questo sbarrò inavvertitamente gli occhi, risvegliandosi con la ragazza a pochi
centimetri dal proprio viso.
Momo sbattè un paio di volte le lunghe ciglia, prima di vedere
sul volto, dapprima stupito, dell’altro comparire un sorriso sghembo ed una
mano premerle sulla nuca avvicinandola ancora di più a lui.
“Mi sa che sto
ancora sognando.” Fu tutto quello che riuscì a dire prima che Marco, con un calcione,
lo facesse rotolare via da Momo.
Tra i capelli del
biondo era comparsa una vena irritata e le mani erano costrette davanti al
petto, per evitare che infierissero sull’altro.
Satch si grattò il retro della testa,
ridacchiando, accostandosi poi a Momo, un po’ rossa in viso per quello che era
appena successo.
“Bentornato dal
mondo dei sogni, Ace…” disse.
“Sei un idiota.” Aggiunse
Marco.
Atto 11, scena 3
“Mi stai dicendo che piaccio a Marco ed Ace??”
chiese scandalizzata la ragazza, inseguendo per il corridoio della nave Satch, più che mai desideroso di tornarsene a letto, dopo
quando successo. In effetti era ora che la piccola se ne accorgesse, ma non si
sarebbe mai aspettato che la parte delle spiegazioni sarebbe toccata a lui.
“Bhe…” cincischiò un po’prima di vuotare definitivamente il
sacco “… sì.”
Momo gli comparì
davanti veloce come un lampo, sbarrandogli la strada, fulminandolo con uno
sguardo accusatorio.
“E da quando?!”
“Bhe…”
“No, aspetta. Non voglio saperlo. Da quando tu
lo sapevi?!” riformulò la domanda con le fiamme che ormai zampillavano
nervose.
“Ehm, da un po’?”
rispose il biondo sudando freddo. Qualcosa gli diceva di non voler vedere lo
scricciolo arrabbiarsi seriamente. Specialmente non con lui.
“E non me lo hai detto???!!!” sbottò
incredula e furiosa al tempo stesso la ragazza stringendo a pugno le mani, le
cui fiamme stavano a poco a poco assumendo un inquietante colore biancastro.
“Scricciolo, non
prenderla così male.” Tentò di calmarla il comandante, indietreggiando di un
passo con le mani in avanti. Momo si fermò un istante, serrando così tanto le
labbra da farle quasi scomparire, e per un attimo Satchcredette di essere riuscito a frenarla, ma si dovette
ricredere quando vide un paio di lacrime rigarle le guance.
“Immagino che vi siete divertiti a ridermi dietro… la schiena!” esplose la paradisea, lasciando l’altro
basito, essendosi aspettato di tutto tranne un’accusa così pesante. Non fece in
tempo a replicare che già l’altra era fuggita dalla parte opposta ,
impedendogli così di negare.
Già, ma negare
cosa?
Solo in quel
momento si rese conto di quanto lui, e tutti gli altri, fossero stati ingiusti
nei confronti di Momo, tenendola volutamente all’oscuro dei fatti per semplice
convenienza personale.
E si sentì un
verme.
Atto 11, scena 4,
Arioso della rondine sdegnata
Ero arrabbiatissima. Non mi ero mai sentita
così tradita in tutta la mia vita, ne ero certa. Correvo disperatamente tra i
corridoi vuoti della nave, dirigendomi sicura verso la stanza del capitano. Non mi
importava che a quell’ora dormisse o meno. Io non ne potevo più. Dovevo chiarire
le cose e se per farlo mi sarei dovuta mettere ad alzare la voce con quel
gigante dall’aspetto minaccioso, poco male.
Scontrai contro
qualcosa, o meglio qualcuno, ma non mi fermai e, anche se vidi con la cosa dell’occhio
una bocca sdentata, oscenamente spalancata per lo stupore, continuai la mia
corsa.
Ancora oggi mi
chiedo cosa sarebbe successo, se mi fossi fermata.
Atto 11, scena 5
Marshall D. Teach si sarebbe aspettato di tutto, tranne vedere la sua
gallina dalle uova d’oro scorrazzare di notte dalle sue stesse parti. Da quanto
tra lei e quella streghetta c’era stata quella
piccola parentesi che gli aveva procurato un’ustione sul braccio, aveva preso
le dovute precauzioni, cambiando zona e bazzicando il meno possibile di notte
dalle parti del ponte e della mensa, specie nell’ora di cena, quando la ragazza
usciva dal letto per la “colazione”.
All’inizio aveva
pensato ad un vero e prorio colpo di fortuna, ma l’intuire
la sua meta congelò in lui ogni oscuro proposito. C’era solo una cosa da
raggiungere, procedendo sempre dritto per quel corridoio. Digrignò gli ultimi
denti rimastigli, maledicendo la sua sfortuna e il suo dannatissimo libricino
che non gli stava dando niente se non cattive notizie.
Era stato
settimane intere sulla prima metà di foglietti presenti nel volumetto e quello
che aveva trovato era solo una misera ed incoerente frase scritta di suo pugno,
certamente copiata parola per parola da una delle sue tante fonti cartacee.
“Non cedono
la loro Essenza a nessuno, a meno che non lo vogliano o si vedano sopraffare da
un potere più grande.”
L’Essenza sapeva
bene cosa fosse, oh eccome, ma da quel che aveva capito non sarebbe stato uno
scherzo costringerla a cedergliela. Gli serviva un “potere più grande” e lui
già sapeva quale fosse. Era esattamente al secondo posto, almeno da quando
aveva riconosciuto in quella signorina la fonte di un altro di egual misura.
Sghignazzò continuando
per la propria strada. Ancora una volta avrebbe dovuto cambiare progetti, ma
era un tipo paziente.
Avrebbe
aspettato.
Atto 11, scena 6
Il vedere la figura massiccia del capitano
torreggiare in mezzo alla stanza, scrutandola silenziosamente, per un istante le
fece perdere di colpo tutto il coraggio che aveva accumulato nel tragitto.
Cosa le era
saltato in mente? Piombare in piena notte nella stanza del capitano,
costringerlo a concederle un colloquio e poi? Fargli la predica?
Sembrava quasi
una barzelletta.
“Volevi parlarmi,
musume?” chiese
la cavernosa voce dell’uomo.
Momo annuì,
facendo un paio di passi in avanti con la testa china. Le guance presentavano
su di esse la scia secca delle lacrime che aveva versato.
“Sì.”
Riuscì a dire.
Alzò lo sguardo
incontrando con un po’ di apprensione nel cuore il volto solcato di rughe del
capitano. Attorno a lui ed alla sua immensa sedia, tanti fili attaccati al suo
petto con degli aghi rendevano la sua stazza ancora più spaventosa.
Deglutì. Non
sarebbe stato facile, ma l’avrebbe fatto. Era una questione di rispetto. E lei
il rispetto non l’aveva dato per poi vedersi umiliata.
Fine Atto Undicesimo
FirulìFirulà!
Che fatica! -.- Accidenti che lavorone. Poi tra esami
fantasma e quant’altro non sapevo più dove girarmi! Belle signorine sono
tornata! ^^ Salti temporali inclusi e, spero, meno prevedibilità! In questo
capitolo non ci sono tante traduzioni. Giuste due paroline. Adesso che Momo ha
migliorato un po’ il proprio livello di conoscenza del giapponese posso
cominciare a sveltirmi un po’.
Le domande non si sono quindi l’opzione di questo capitolo è:
1)Suggerimenti
liberi
Oh, e con questo posso rimboccarmi finalmente le maniche su Nanaban e i miei prossimi 3 esami! Arrivoooo!!
Ci sentiamo presto ragazzuole! E mi scuso per il
ritardo! ^_^ KISS!
“E dunque cosa
volevi dirmi?” chiese interessato Barbabianca
guardando dinanzi a se la sua novella musume cincischiare su quello che doveva dire, torturandosi
con un certo nervosismo le dita mentre cercava di racimolare le parole giuste.
Per un attimo si preoccupò seriamente di averle messo addosso troppa pressione,
conscio di quanto il suo aspetto contribuisse ad agitarla, ma poi la vide
irrigidirsi e con un sospiro, spalancare gli occhi brillanti in sua direzione.
Nelle mente del
Bianco per un breve momento fecero eco le parole del Rosso: un diamante allo
stato grezzo. E nonostante gli costasse ammetterlo a se stesso, era inevitabile
dire che la definizione le calzava chiaramente a pennello.
“Perché nessuno mi ha detto che piaccio ad
Ace e a Marco?”
La crudezza con
la quale era stata pronunciata quella domanda fece strabuzzare l’Imperatore,
preso alla sprovvista dall’assoluta mancanza di peli sulla lingua da parte
della ragazza, poi le labbra semi nascoste degli enormi baffoni a mezzaluna si
tesero in un sorriso mezzo divertito e mezzo orgoglioso. Vedere quella piccolina tirare fuori gli
artigli gli dava una soddisfazione immensa. Per uno come lui, che considerava
ogni singolo componente della propria nave come un figlio di sangue, vedere
quella pargoletta tirare fuori la grinta era come assistere ai suoi primi passi,
essendo quella, nel mondo della pirateria, essenziale quanto lo stesso
respirare.
Ma non aveva
tempo per pensarci. Gli occhi abbagliati di Momo lo puntavano accigliati e per
nulla contenti della sua prima reazione.
“Perché?” ripetè
con tono spazientito, incrociando le braccia luminose al petto.
Il tono
stranamente amaro con il quale aveva parlato gli fece alzare un sopracciglio e
tornare ad una espressione più seria.
“C’è forse
qualcosa i grave nel non averlo saputo prima?” domandò il capitano non capendo
bene dove fosse il problema.
“Ovvio!!” sbottò la paradisea pestando un
piede un avanti per la rabbia “Ace ha
cercato di.. di…!!” cincischiò sull’ultima parola
indicandosi con impazienza le labbra, non conoscendo la parola esatta per
indicare l’atto in sé di cui si era stata quasi vittima. Grugnì spazientita
emettendo un lungo suono sofferente ed intonato, così come era il resto delle
proprie parole.
Dall’alto del
proprio seggio l’Imperatoreintanto si
immaginava la scena, lottando contro il suo stesso sorriso per non far
arrabbiare ancora di più la ragazza. Un’azione audace quella del figlio, anche
se, doveva ammetterlo, troppo prematura.
“Deduco che la
cosa ti ha dato fastidio.” Constatò, provocando l’imporporarsi delle guance di
Momo che subito abbassò la testa.
“Io..” disse quasi in un sussurro per poi
scrollarsi immediatamente la testa, capendo di star quasi perdendo il filo del
discorso.
“Non è questo il punto!” sbottò
abbassando poi lo sguardo.
“Io…” mormorò
stringendosi la testa nelle spalle e mordicchiandosi lievemente il labbro
inferiore. Si vedeva lontano un miglio che era un fascio di nervi e questo non
fece che preoccupare ulteriormente il capitano. Quest’ultimo stava appunto per
dire qualcosa prima che la ragazza riprendesse improvvisamente a parlare
bloccando le sue parole sul nascere.
“Io vi sono grata per avermi salvato la vita…” disse con calma la paradisea con l’ombra dei
capelli ad oscurarle il viso “… ,ma,
quando ho saputo che Satch e voi mi avevate tenuto
all’oscuro di questo…” continuò provocando sul
viso del capitano il formarsi di un’espressione stupita.
“…mi sono sentita come tradita.”
Una goccia
brillante si infranse con un ticchettio sordo sul legno del pavimento e solo in
quel momentoEdward Newgate,
colosso più vicino di chiunque altro a riscattare il trono di regnante
indiscusso dei 4 mari, si accorse di avere di fronte un ostacolo ben peggiore
di un Re dei Mari affamato.
Momo, sotto un
certo aspetto la più giovane tra i suoi figli, stava piangendo di fronte a lui,
affermando con disperata sincerità di essersi sentita ferita dalla sua nuova
famiglia, forse più profondamente del normale.
Una mano avvolta
da gialle fiamme scattò verso il gli occhi umidi per asciugarli velocemente da
quelle imbarazzanti gocce salate, ma solo per dare via libera ad altre più
veloci e pesanti.
“Hai perso
fiducia nei tuoi kyodai?”
I singhiozzi di
Momo si ruppero sorpresi nel sentire la voce pesante del capitano intervenire
con tono inaspettatamente vellutato. Le ci volle un po’ per realizzare quello
che le aveva appena chiesto e scrollare velocemente la testa in segno di
negazione. Non voleva dire che non si fidava più di nessuno sulla Moby: era
arrabbiata certo, ma non così tanto da arrivare ad un punto di non ritorno.
“No… ” rispose debolmente, provocando nel vecchio capitano
un mezzo sospiro di sollievo “…, ma non posso sopportare di essere stata
lasciata in disparte su questa cosa.” aggiunse velocemente “…mi riguarda troppo da vicino.”
Gli occhi di Momo
tornarono ad affrontarlo esprimendo con essi una totale ed infelice convinzione
su ciò che stava per dire .
“So di non fare
parte dei suoi musuko,
ma io vorrei davvero potermi fidare di voi.”
Quelle parole,
sussurrate quasi con vergogna, ebbero il potere di far sussultare il cuore del
grande imperatore Bianco, portandolo a sciogliere appena il suo viso, indurito
dall’età, in una espressione dispiaciuta. La bambina ancora non aveva capito di
essere ormai diventata parte dei suoi figli o forse sentiva di non esserlo
totalmente. E questo lo rendeva davvero triste.
Seguito dal
tintinnio delle proprie flebo, Newgate si protese in
avanti, spaventando di non poco Momo che, vedendolo muoversi in quel modo, si
ritrasse di poco, osservando ad occhi spalancati il capitano fermarsi poco
sopra di lei, in modo tale che i loro volti fossero l’uno di fronte all’altro.
“Tu sai cos’è una
famiglia?”
La domanda di Barbabianca aleggiò in aria come una nuvola di fumo,
lasciando la ragazza immobile e sorpresa, finché le parole non assunsero
significato preciso ed ebbe modo di muovere il viso in segno di affermazione.
“I miei musuko sono la mia famiglia. Chiunque su questa nave lo è.”
Precisò vedendo la piccola osservarlo rapita “Sono loro padre e li proteggo
come se fossero carne della mia carne.”
Gli occhi
luminosi di Momo si allargarono, capendo solo in quel momento cosa fino in quel
momento le era sfuggito sul significato di quelle parole che continuamente
aveva sentito pronunciare sulla nave.
Oyaji, musuko,kyodai, kozaku… musume.
Rantolò capendo
improvvisamente quanto si fosse sbagliata fino ad allora. Si portò le mani alla
bocca, sentendosi improvvisamente un nodo alla gola stringerle dolorosamente la
voce e gli occhi pungerle.
Come aveva fatto
a non capirlo subito?
Davanti a lei gli
occhi stanchi e severi del capitano le apparvero improvvisamente più dolci.
“Nessuno, dal
momento in cui sale sulla Moby viene lasciato fuori…”
continuò Newgate, guardando due fili di lacrime
solcare felici le guance della figlia, infilandosi tra le sue dita sottili,
quasi volendosi nascondere vergognose alla sua vista.
“… nemmeno tu.
Momo.”
“Io sono…”
sussurrò in preda a piccoli singhiozzi la paradisea, balbetando
incerta qualcosa che forse non sapeva nemmeno lei “…, ma io…sono…io… sono nessuno.” Concluse cominciando a tremare senza
freni.
“Non importa chi
tu sia. Siamo tutti figli del mare.” Decretò con voce profonda il capitano,
asciugandole con un enorme dito una piccola parte di quelle lacrime che, goccia
dopo goccia, sembravano dargli nuove ferite nel petto, diverse da quelle che,
ormai raggrinzite e scurite dal sole, gli solcavano impietose i pettorali
scoperti.
Momo non riuscì
più a trattenersi e, spinta dal peso che il senso di colpo le opprimeva sulle
spalle, sprofondò completamente con il viso nelle mani. Come aveva potuto
trattare in quel modo Satch? Solo in quel momento si
rendeva conto di quanto in realtà fosse stata dura con lui, incolpandolo senza
pietà.
“Oyaji…” sussurrò
quest’ultima, facendo gonfiare di gioia il petto del capitano, essendo la prima
volta che la ragazza lo chiamava in quel modo, come una qualsiasi dei suoi
figli.
“Mi sono arrabbiata con Satch…”
ammise Momo, senza mai riemergere dalle proprie mani “… e gli ho detto cose orribili.”
“Gurarararah!”
Il modo in cui la
risata del capitano tuonò nella stanza fece saltare Momo sul posto, lasciandola
stupefatta di fronte la reazione del tutto inaspettata del gigante.
Incredibilmente, Barbabianca si era messo a ridere di
fronte a lei, come se tutto quanto si fosse risolto per il meglio, alleggerendo
la tensione con una semplicità sorprendente.
“Ma…?” disse non sapendo come reagire di rimando.
“Allora sarà
meglio che tu vada a scusarti con tuo fratello, no?” concluse con un sorriso
talmente largo da essere addirittura visibile al di sotto dei suoi grandi
baffoni bianchi.
Momo non trovò
altro da fare che sorridere ed annuire.
Atto 12, scena 2
“Aaaah…” sospirò affranto il comandante della quarta flotta,
mentre, curvo su una delle botti del ponte, continuava ad auto commiserarsi per
quello che era successo tra lui e lo scricciolo, accompagnato dai lamenti
solidali degli altri due compagni che, come lui erano veramente giù di morale.
“Scricciolo…” piagnucolò, venendo subito seguito da Ace.
“Siamo sulla
stessa barca, Satch.” Disse il moro, senza neppure
preoccuparsi di imbeccare l’altro riguardo il nomignolo che aveva affibbiato a
Momo, restando calmo ad osservare tristemente le stelle sopra di loro.
“Se non fosse
stato per la tua trovata geniale…”
intervenne Marco sopra di loro, appollaiato sulle sartie della nave, cogliendo
al balzo l’occasione per ricordare ad Ace il proprio errore “… a quest’ora non
saremmo qui a piangerci addosso.” Concluse il biondo.
L’altro sospirò,
calandosi con vergogna il cappello sugli occhi “Lo so. Lo so. Credi che la cosa
mi piaccia?” si lamentò “Avrei preferito non farglielo sapere in questo modo.”
Concluse bofonchiando mentre si tirava di nuovo su la falda del cappello,
appena in tempo per vedere una stella cadente attraversare sinuosa il cielo.
Le sopracciglia
di Ace si inarcarono nuovamente, formando un’espressione piena di rammarico.
Non era così che avrebbe voluto far sapere a Momo quello che sentiva quando la
vedeva. All’inizio era stato più qualcosa di fisico, ma poi, conoscendola
giorno dopo giorno, aveva cominciato a sentire verso di lei qualcosa di più.
Era come se qualcosa di lei lo attirasse. Forse era il modo in cui gonfiava le
guance quando si indispettiva, forse il modo in cui arrossiva quando faceva una
figuraccia … o forse il semplice fatto di essere così adorabile ed infantile al
tempo stesso. Finì col sorridere, attirando inevitabilmente su di sé
l’attenzione degli altri due.
“Che hai da
ridere?” chiese laconico Marco, sinceramente curioso di sapere cosa rendesse il
fratello così allegro in un momento del genere.
“Oh nulla.” evitò
abilmente la domanda, voltandosi da una parte, non riuscendo tuttavia a
trattenersi dal ridacchiare, accentuando ancor di più su di sé la curiosità dei
suoi fratelli che si scambiarono un’occhiata dubbiosa e per nulla convinta.
“Fammi
indovinare.” Intervenne Satch, tornando a sorridere
come suo solito, sollevandosi su un gomito sulla botte dove si era accasciato
“Immaginavi lo scricciolo.”
Il sorriso
irriverente di Ace gli rispose.
“Beccato.” Ammise
Pugno di fuoco, prima che un paio di fiammelle azzurrognole e del tutto innocue
gli cadessero sul fidato cappello, facendolo balzare in piedi e cominciare a
salvare come meglio poteva il suo fedele compagno di viaggio.
Marco lo squadrò
al di sopra delle sartie trattenendo un sorrisino
“Fai meno il
porco, scemo.” Gli disse con il suo solito tono di voce serio e strascicato.
“E chi ti dice
che pensavo qualcosa si sconcio?” ribatté il moro non appena ebbe allontanato
dal proprio copricapo ogni singola scintilla giallastra, voltandosi di scatto
ed alzando minacciosamente un pugno verso l’altro.
“La tua crisi
d’astinenza.” Gli rispose per le rime la Fenice, alzando la testa e incrociando
le braccia dietro la nuca come se nulla fosse, immaginandosi la faccia rossa
del fratellino.
“Come come?”
intervenne come da copione Satch, di fronte a quella
piccante scoperta. “Il nostro rubacuori è in crisi d’astinenza?” chiese interessato
ed incredulo al tempo stesso “…, ma … quella ragazza…?”
cominciò ricordandosi anche lui la bella figliola che Ace era riuscito ad
adescare alla locanda della precedente isola attraccata.
“Buco
nell’acqua.” Gli chiarì velocemente la situazione Marco, senza scendere in
imbarazzanti particolari come padelle e oggetti volanti vari.
“Ahiaiai.” Fece eco il biondo sorridendo un poco dispiaciuto
per l’altro, ormai completamente perso nel più completo imbarazzo.
“Sono fatti
miei!” esplose indignato alla fine il ragazzo, sentendo di dover cercare di
mettere in salvo il proprio orgoglio, avvicinandosi minaccioso a Satch, incombendo su di lui con una grossa vena pulsante
sulla fronte. Il comandante dal pizzetto indietreggiò di rimando, non
sentendosi al sicuro in quella situazione scomoda.
Il dolce
scrocchio che le nocche di Ace emisero in segno di avvertimento sarebbero stati
più che sufficienti, ma il comandante in seconda preferì comunque sottolineare
il punto della questione:
“Una sola parola
al resto della ciurma e dì addio ai tuoi capelli, Satch.”
Decretò lugubre, facendo sbiancare di netto il povero biondo, che di riflesso
si andò a lisciare la sua povera chioma, tirando al contempo un angolo della
bocca all’insù in un sorriso forzato.
“R-ricevuto.” Riuscì solo a balbettare, mentre il moro
distoglieva l’attenzione da lui per dedicarsi pienamente a Marco che però
sembrò precederlo.
“Oioi. Non
trattare così Satch, Ace.” Intervenne prontamente
quest’ultimo sorridendo sfrontato, facendo inarcare un sopracciglio all’altro,
incuriosito da quell’insolito slancio di solidarietà con l’altro, fino a quel
momento diretto responsabile dei loro rispettivi fallimenti con Momo, ma si
sbrigò a spiegare:
“Tra tutti e tre
Momo ha strapazzato solo lui.” Disse sciogliendo il volto in una espressione di
compassione verso Satch ed Ace non potè fare a meno di tornare ad osservare il comandante in
quarta con il volto illuminato e pieno di comprensione.
“Ahi.” Disse
aggiustandosi il cappello mentre guardava il povero biondo piombare nuovamente
nella più tetra delle depressioni. Non doveva essere stato facile per lui
litigare con la piccola paradisea.
“Sigh. OOff-!” Fece in tempo a singhiozzare prima che una serie di
guaiti e risate acute gli piombassero addosso sotto forma di una palla di pelo
con tanto di ciuffo a spazzola sulla testa, schiacciando la sua schiena sotto
il dolce peso di un primate dispettoso.
“Monster…” digrignò i denti tirando su la testa quel tanto
che bastava per vedere il viso grottesco dell’animale ridergli senza ritegno in
faccia e con un salto scendere dalla sua schiena, allontanandosi contenta,
senza neanche dargli il tempo di contrattaccare e prendersi la dovuta
rivincita.
Erano settimane
che non faceva che fargli scherzi del genere. Momo o non Momo nei paraggi, lui
e Monster erano diventati nemici giurati. E una
tregua sembrava veramente impensabile, viste le ostilità in corso e la
testardaggine di entrambi.
Marco sospirò,
scivolando giù dalla sua posizione ed atterrando silenziosamente sul ponte.
“Quella scimmia sembra
averti proprio preso in antipatia.” Disse Ace guardando stupito il primate
risalire con velocità impressionante uno degli alberi secondari della nave,
arrivandovi in cima emettendo una serie di strepiti vittoriosi.
Satch sbuffò, poggiando il mento sul palmo
della mano,e sostenendosi grazie al gomito, puntellato sulla botte.
“La cosa è
reciproca, ma lo scricciolo lo adora.” Disse con l’entusiasmo di un bradipo “E
adesso che ha iniziato, dubito che mi lascerà avvicinare a lei per scusarmi…” concluse amareggiato.
I due stettero a
guardare il compagno per un poi, per poi voltarsi in contemporanea verso la
scimmia, poi di nuovo su Satch. E all’improvviso fu
l’illuminazione: il biondo ed il moro allargarono gli occhi, girandosi l’uno
verso l’altro, quasi chiedendosi a vicenda se anche il rispettivo rivale avesse
avuto la stessa intuizione.
Si sorrisero
complici, era un’idea geniale, sbucata fuori da chissà dove nella mente di
entrambi nel medesimo istante.
Un vero miracolo,
insomma. Alla stregua di un segno divino.
“Facciamo così…” iniziò Ace, avvicinandosi con la stessa eleganza di
un gatto che si acquatta per acchiappare il topolino, lasciando poi spazio a
Marco, poggiatosi con le mani sui fianchi accanto al comandante dal pizzetto.
“Noi teniamo a
bada Monster per tutta la sera, in modo che tu riesca
a fare pace con Momo…”
“… e tu ci lasci
campo libero con lei per un mese!” terminò il moro con un sorriso malandrino a trentatrè denti .
Satch li guardò prima stupito, poi dubbioso,
non sapendo seriamente cosa rispondere: da una parte c’era la possibilità di
chiarire le cose con lo scricciolo, scusandosi per il suo pessimo
comportamento, dall’altra invece c’erano i suoi fratelli in piena competizione
amorosa che chiedevano, in cambio di un piccola opportunità di rappacificarsi
con la ragazza, un mese di assoluta tranquillità con lei.
Ciò significava
niente interventi del genere, niente battutine,… niente di niente. Lo
scricciolo avrebbe dovuto affrontare da sola per un mese le avances di quei due zoticoni in calore.
“Allora?” lo
incitò sorridendo ancora Ace.
Satch sospirò. Lo scricciolo non l’avrebbe
presa molto bene.
Atto 12, scena 3
Facile dire che
si sarebbe scusata con Satch. Non c’era dubbio che il
babbo riuscisse a rendere più semplici le cose più complicate.
Momo continuava a
camminare adagio a adagio per i corridoi interni della nave, osservando con
falso interesse i solchi dritti dei pannelli del pavimento in legno, ragionando
su come affrontare Satch dopo la pessima figura
compiuta. Per un attimo si bloccò in mezzo al corridoio e, presa completamente
dal panico, fece retrofront, proseguendo a ritroso il
tratto che aveva compiuto per allontanarsi dalla cabina del capitano.
Non poteva farlo,
si vergognava troppo. Accidenti a lei ed al suo coraggio da coniglio. Ma perché
aveva trattato in quel modo Satch?! C’era stato
proprio bisogno? Lui in fondo l’aveva fatto per darle meno pensieri per la
testa.
Si fermò
all’istante, non sapendo nemmeno di quanto fosse tornata indietro.
Già: meno
pensieri per la testa. Solo in quel momento, dopo aver finalmente capito il
proprio ruolo all’interno della ciurma, ovvero quello della sorellina minore,
capì che non doveva essere stato facile per il biondo dal pizzetto proteggerla
da una preoccupazione in più, arrivando anche a farsi gonfiare da Ace e Marco.
A proposito..-
pensò la ragazza, accigliandosi leggermente ed abbassando con fare pericoloso
le lunghe ciglia, ombrando le proprie iridi color lava incandescente a causa
dell’ora tarda - ..dovrò dire quattro paroline anche a loro.
Si fermò un
attimo a pensare, tornando improvvisamente a rimuginare sul punto scottante
della questione: già, ma come faceva a chiedere scusa a Satch?
Si appoggiò con un sospiro su una delle pareti, scivolando poi a terra, stanca
come non mai.
Non poteva
presentarsi lì e con tutta tranquillità dirgli “Scusa Satch-san,
mi sono comportata male, mi può perdonare?”.
Assolutamente no.
Sbuffò passandosi
fluidamente una mano affusolata tra i capelli fiammeggianti, innervosita dalla
sua stessa goffaggine. Qualcosa le diceva che le scuse non erano il suo forte.
Si rese conto che
al colloquio con il capitano non aveva nemmeno parlato dell’incidente avvenuto settimane
prima tra lei e la misteriosa figura ghignante. Accidenti a lei!
Abbassò la testa
dandosi mentalmente della stupida, oltre che fifona.
“Tutto bene scricciolo?” disse una voce al suo
fianco.
Momo allargò gli
occhi esterrefatta, senza osare alzare lo sguardo, incerta se meravigliarsi più
del tempismo dell’altro o del fatto di non essersi accorta che qualcuno si era
avvicinato a lei. Rimase a testa china, arrossendo di botto, nel capire al volo
chi gli si trovava di fronte. In fondo chi altri la chiamava con quel
soprannome?
“Ciao Satch-san.”
“Ciao
scricciolo.” Rispose sorridendo, un po’ sollevato, l’altro, essendosi aspettato
come minimo che scattasse per allontanarsi da lui o che lo scacciasse via in
malo modo.
“Posso sedermi?”
chiese un po’ titubante, chianandosi leggermente in
avanti quel tanto che gli bastò per cogliere la testa dell’altra ondeggiare in
un movimento affermativo. Non appena si fu seduto, Satch
si sentì come se si fosse poggiato su un letto di chiodi. Si passò una mano
dietro la testa nervoso, non sapendo da che parte incominciare e vedere la
piccola a testa china non l’aiutava.
Oh, andiamo. Si
disse racimolando quanto più coraggio riuscì.
“Senti…” cominciò, lasciando uscire la prima parola in modo
talmente rauco da assomigliate di più ad un rantolo“ …mi
dispiace per…”
“È colpa mia.”
La voce della
paradisea lo colse impreparato, bloccandogli all’istante tutte le parole che,
dal ponte fino a lì, si era preparato mentalmente.
“Non è vero che mi stavi prendendo in giro,
non parlandomi di Ace e Marco….” Continuò la
ragazza senza mai alzare lo sguardo, anzi, voltandolo leggermente di lato, con
vergogna malcelata. “L’ho capito.”
Aggiunse infine, aspettando in silenzio la risposta dell’altro.
Satch, d’altra parte non sapeva come reagire:
era partito spedito con l’intenzione di chieder scusa allo scricciolo e, in
quel momento, lei si stava scusando a sua volta. In che situazione si trovava?
“Quindi,…”
azzardò allungandosi in avanti, sperando di scorgere il visino dell’altra “… mi
perdoni?”
Il caldo crepitio
delle fiamme che circondavano la figura di Momo fece da sottofondo al loro
silenzio, almeno finché con lo stesso tono melodioso di sempre, forse anche un
po’ più incrinato del solito, non intervenne nuovamente, facendo sorridere di
gioia il comandante della quarta flotta.
“Solo se tu perdoni me.”
Atto 12, scena 4
“Devi tenerlo
fermo!”
“Parli bene tu!
Cazzo, dove si è mai vista una scimmia che sa usare l’Haki??”
Chiunque avesse
visto Ace Pugno di Fuoco e Marco la Fenice in quel momento si sarebbe come
minimo aspettato di svegliarsi di soprassalto da un sogno ai limiti
dell’inverosimile, oltre che del comico. Erano passati solo venti minuti dacché
Satch era partito alla ricerca di Momo, coperto
dall’azione tempestiva di entrambi non appena la scimmia Monster
aveva cercato di bloccare la sua fuga, e già cominciavano a rimpiangere la loro
scelta.
I graffi, sebbene
superficiali, che Monster era riuscito ad infliggere
ad Ace, bruciavano come lava bollente, consumando ad ogni sferzata il fuoco che
di norma avrebbe dovuto comporre il suo corpo, rendendolo immune al dolore
fisico. C’era voluto poco per capirne il motivo: quel dannato primate sapeva
usare l’Haki e si dibatteva come un forsennato, non
risparmiando loro nemmeno un attimo di respiro.
I due comandanti
ansimavano già, sfiancati dall’irruenza micidiale dell’animale, stringendo i
denti per evitare di dargliela vinta e lasciarsela scivolare via dalle mani.
Marco stava cominciando a ponderare su utilizzare le proprie ali nel vedere il
loro netto svantaggio nei confronti di Monster, ma il
pensiero di dover poi fare i conti con Momo, oltre che con Shanks
il Rosso, lo bloccò.
Monster era pur sempre il preferito della
paradisea e se gli fosse successo qualcosa di grave era certo che non
gliel’avrebbe fatta passare liscia. Se poi si contavano i relativi casini che
sarebbero derivati, se un ufficiale membro della ciurma del Rosso fosse rimasto
ferito durante la permanenza sulla Moby…
Il biondo evitò
per un pelo un pugno villoso di Monster diretto al
suo viso. Quel bipede dalla voce stridula ne sapeva una più del diavolo!
“Se mi rovina il
capello, Shanks me ne dovrà uno nuovo.” Borbottò Ace mentre
bloccava con una mano la testa all’animale, evitando così che potesse vedere
dove indirizzare i propri colpi.
“Meno chiacchiere
Ace.” Ribattè immediatamente, facendo del proprio
meglio per tenere ferma la coda e le zampe posteriori del loro nemico comune.
Una cosa era
certa: il loro mese senza intromissioni con Momo se lo stavano sudando. E alla
grande.
Atto 12, scena 5
“Dimmi che non è vero.”
Implorò esasperata Momo alzando gli occhi al cielo.
Satch la guardava mortificato per
averle appena riferito il patto tra lui e i due comandanti. Neanche a lui
piaceva quella situazione e, se fosse stato per lui, non le avrebbe detto nulla
al riguardo, pur di preservare la sua tranquillità. Tuttavia aveva già commesso
l’errore di nascondere qualcosa a Momo per lo stesso motivo ed il risultato si
era visto con la precedente sfuriata della ragazza nei suoi confronti.
“Scusami scricciolo,…” disse, guardando l’altra ricambiare
il suo sguardo con uno leggermente comprensivo “…, ma Monsterè…ehm… come dire…” cincischiò non sapendo che aggettivo esprimere per
riferirsi all’animale, ma tutto quello che gli veniva in mente erano parole
tutt’altro che gentili. Dirle davanti a Momo sarebbe equivalso a farla
arrabbiare.
Era abituato a rischiare la vita ogni giorno, essendo un
pirata, ma sinceramente il modo in cui le sue fiamme diventavano chiare quando
succedeva, non lo attirava più di tanto in quella direzione.
“Invadente.” Intervenne
Momo, salvandolo da una situazione scomoda “Loso.” Sospirò, facendo così cadere
l’argomento “Midispiacechetuabbiadovutopromettereunacosasimile.”
Satch non sapeva proprio cosa dire
e, nel silenzio imbarazzante che si era creato, si lisciò nervosamente
all’indietro i capelli, imbarazzato almeno quanto Momo, rossa sulle guance e stranamente
interessata alla parete di fianco a loro. Il modo in cui la paradisea stava
evitando accuratamente il suo sguardo gli fece capire che non doveva sentirsi a
proprio agio in quelle circostanze: prima scopriva che Ace a Marco stavano
cercando di accaparrarsi il suo cuoricino sperduto e spaventato, e adesso
veniva a sapere che avrebbe dovuto per forza affrontarli per un intero mese,
senza nemmeno sperare nel suo aiuto.
“Satch-san.”
Lo chiamò “Nonsocomecomportarmi.” Ammise arrossendo ancor di
più.
Il biondo la guardò intenerito, posandole una mano sulla
testa infuocata e strapazzandogliela dolcemente, facendole chiudere un occhio
per la sorpresa.
“Hai due pretendenti scricciolo, è naturale.”
“No! Non è per quello!”
lo bloccò l’altra, scostandosi in fretta la mano dell’amico dalla testa e
guardandolo con occhi disperati.
Satch la guardò interrogativo, non
capendo il motivo di quella reazione. Capiva il disagio di sentirsi messa in
mezzo, ma così era un po’ esagerato.
A meno che…
“Che succede se io
sono già impegnata con un altro ragazzo?!” confermò i suoi sospetti Momo,
avvicinandosi a lui piena d’ansia. Per il comandante della quarta flotta non fu
difficile collegare quella domanda ai pochi ricordi riacquistati dalla
paradisea, di cui era stato, fortunatamente, messo al corrente.
“Il ragazzo di cui ti sei ricordata?” chiese ulteriore
conferma, alzando entrambe le sopracciglia, sperando quasi di sbagliarsi.
Momo annuì, per sua sfortuna, tornando all’attacco.
“E se lui fosse il mio
fidanzato? Io ho solo visto che io lui viaggiavamo assieme e che ci capivamo in
modo particolare…”
“Era un bel ragazzo?”
Momo ci pensò un po’ su.
“Bhe… sì.”
Satch cacciò all’indietro la
testa, sospirando, pensando e ripensando a quello che sarebbe potuto capitare
se l’ipotetico fidanzato della naufraga fosse piombato un giorno, pronto a
riprendersi la propria bella. Una gran bella gatta da pelare.
“Allora non so proprio cosa dirti, scricciolo.” Ammise
dispiaciuto.
L’espressione di Momo si fece più abbattuta di
prima.
“E se invece
fosse stato il ragazzo dell’altra che viaggiava con voi?” suggerì, valutando
anche quella come una valida opzione. Almeno era decisamente meno dolorosa
della prima “C’era un’altra ragazza con voi, no?”
Momo lo guardò
meravigliata, sinceramente stupita per non aver preso in considerazione quella
possibilità. Il comandante dal pizzetto sorrise mezzo divertito e mezzo
intenerito, nel vederla arrossire e rannicchiarsi con le ginocchia davanti al
viso per nascondere l’imbarazzo.
“Ma non so come affrontarli…”
La paradisea
sentì ancora una volta la mano di Satch percorrere
con affetto i suoi capelli fiammeggianti, dandole in parte il coraggio di
andare avanti con il proprio discorso.
“Sono arrabbiata con loro…”
disse indurendo di poco il tono di voce, ma solo per alleggerirlo nel
proseguire “… ma … allo stesso tempo … mi
sento responsabile … per averli fatti … litigare.”
“Naah. Di questo non ti devi preoccupare.”
A quelle parole
Momo, alzò la testa di scatto, guardandolo confusissima e provocando di
conseguenza un’ennesima risatina dell’altro.
“Tranquillizzati
pure scricciolo: quei due sono peggio di due gemelli siamesi, anche se uno dei
due fregasse una bistecca all’atro, tornerebbero a scherzare come se nulla
fosse dopo nemmeno cinque minuti.” Disse Satch,
sperando di aver finalmente dato il proprio contributo a risollevare l’animo
della piccolina.
“Io non sono una bistecca.” Lo stroncò di
netto quest’ultima, accigliandosi.
“Ah, giusto.
Colpa mia. Esempio sbagliato.” Si scusò grattandosi la testa con una gocciolina
sulla tempia, ridendo nervosamente.
“Satch.” Lo
richiamò esasperata, alzando la testa verso il soffitto del corridoio. Per un
attimo il biondo credette che gli stesse per ribadire
il suo disperato bisogno di un buon consiglio, ma dovette ricredersi quando,
dopo un lungo sospiro, la vide rialzarsi di scatto e, appoggiandogli le manine
sulle spalle, posargli un bacio sulla fronte con un piccolo salto ben
calcolato.
Rimase lì
sbigottito a guardarla sorridere candidamente, non sapendo nemmeno cosa dire di
fronte ad una simile dimostrazione di innocenza.
“Vai pure a dormire.” Gli intimò pazientemente
e Satch lesse nel suo sguardo luminoso una scintilla
di comprensione per le sue appena accennate occhiaie che, poteva ben intuire,
non erano passate inosservate ai suoi occhi, ben abituati alla semioscurità che
i corridoi della Moby assumevano presso quell’ora.
“Ma…” provò a ribattere
“Me la caverò.” Venne nuovamente
interrotto dalla voce cadenzata e rassicurante della paradisea, ma si vedeva
lontano un miglio che lo stava facendo solo perché sapeva di non poter
pretendere troppo da lui in quel momento. Dopotutto aveva sprecato ore di sonno
per stare con lei.
Si sentì quasi
inutile.
“Scricciolo…” sussurrò dispiaciuto, incavando un poco la
testa nelle spalle.
Fu il sorriso di
Momo a bloccargli il resto delle parole in gola.
“Non vado mica in battaglia, Satch-san.” Lo rassicurò ancora un po’ “Ne parliamo domani, ok?”
Non poté
trattenersi dal scompigliarle ancora un po’ i capelli, sorridendo paterno.
“Buona fortuna,
scricciolo.”
“Grazie infinite, Satch-san.”
Passò giusto un
attimo prima che accanto al comandante in quarta si sentisse un rumore molto,
forse troppo, simile a quello un eloquente e rapida sequenza di tossiti atti
solo ad attirare l’attenzione.
La mascella di Satch cadde letteralmente a terra nel trovare, davanti
all’angolo del corridoio dove si era fermato, il suo angelo biondo sorridere
imbarazzata con una pila di tovaglie pulite tra le braccia, accompagnata da Carol
ridacchiante come non mai.
“Abbiamo
interrotto qualcosa, comandante Satch?” chiese candidamente dispiaciuta Penelope,
posando una mano sulla guancia, apparentemente senza notare l’attacco di
ridarella che aveva colto la propria collega dalla treccia rossa.
Il biondo non
sapeva cosa fosse peggio: essersi fatto vedere in una situazione compromettente
da Penelope o prepararsi all’essere deriso dalla sua vecchia fiamma pettegola.
Atto 12, scena 6
Era stato un
lumicino all’inizio, come se dalla nave fosse emersa una fiammella, diventata
poi un’elegante ed impossibile apparizione. Per Ace e Marco era sempre come la
prima volta quando vedevano Momo uscire dalla coperta durante le ore notturne,
illuminando con la proprio luce soffusa l’aria.
Per questo erano
rimasti a bocca aperta, per un attimo dimentichi del fatto di star legando Monster alla bene a meglio con una corda di sicurezza e,
sicuramente, fu sempre per lo stesso motivo che per quest’ultima risultò
facilissimo fuggire, calciandoli all’indietro, saettando poi giù per le scale
dalla quale era appena apparsa la Paradisea.
“Cazzo…” imprecò Ace rimettendosi seduto mentre si
risistemava il cappello.
Momo apparve in
un lampo a circa un metro di distanza da entrambi, ancora occupati a rialzarsi.
Sarebbe stata la prassi per loro vederla avvicinarsi a loro in quella maniera,
se solo, come riuscì a notare perprimo
la Fenice, la ragazza non avesse avuto le braccia incrociare al petto e gli
occhi colmi di rammarico.
“Momo..?” osò
provare a chiamarla il biondo, ottenendo solo unmusicale sospiro affranto da parte ed uno
scatto fulmineo che la face sparire dalla sua vista.
La paradisea
riapparve rapidamente sul reticolo delle sartie accanto a loro, volta verso
l’orizzonte ormai lontano.
“Come è andata
con Satch…?” cominciò un poco titubante Pugno di
fuoco, riassumendo in poco tempo parte della propria naturale spensieratezza.
“Avete fatto
pace?” concluse per lui Marco, tenendo le braccia incrociate al petto e
fissandola intensamente le spalle, in quel momento rivolte verso di loro. Alla
Fenice stringeva il cuore vedere quella schiena sottile e sconsolata mostrarsi
a lui, senza che lui potesse trovarvi rimedio.
“Sì.” Fu la breve risposta dell’altra,
accompagnata da un lievissimo e quasi impercettibiledivampare più forte delle proprie fiamme,
schiaritesi per un istante verso qualcosa di più simile al bianco.
Quella strana
reazione colpì entrambi i comandanti. Non avevano mai visto il fuoco giallo
della ragazza comportarsi in quel modo, ma se ne sapevano abbastanza sull’elemento
del fuocoquell’intensificarsi del
colore poteva solo stare ad indicare che le fiamme erano diventate per un
istante più incandescenti.
“Sei arrabbiata?”
azzardò Ace, facendosi avanti, togliendo letteralmente le parole di bocca a
Marco, già prossimo anche lui a prendere parola per il medesimo motivo.
Un silenzio
scomodo gli avvolse per un istante.
“Sì.” Fu la breve e scioccante risposta
della ragazza.
Marco ed Ace
ebbero appena il tempo di trattenere il fiato, prima che Momo scomparisse e
riapparisse in un attimo di fronte a loro, affrontandoli a viso aperto con gli
occhi fiammeggianti di rabbia.
“Sonoarrabbiata.”
Confermò, mentre entrambi indietreggiavano, preoccupati per la situazione. Momo
non sembrava essere particolarmente forte rispetto a loro, ma vederla così
grintosa gli faceva sentire a disagio. Il corpo della ragazzina era rigido e
teso, quasi trattenuto dal fare qualsiasi mossa avventata, e la sua voce, di
solito melodica e ben cadenzata, tremava alla fine di ogni parola.
“Siete … infantili … egocentrici …”
balbettò, pronunciando a fatica le parole a causa della confusione che la
collera le provocava. Di scatto prese la corda che i due avevano cercato di
usare per fermare Monster e la gettò a terra con
rabbia. Per il biondo ed il moro parve incredibile notare che, a differenza
delle altre volte, il materiale della corda si era incendiato.
“Non riesco ancora a crederci …!”
“Momo…?!” provò ad avvertirla Marco, ma questa si fece
ancora più avanti con le fiamme che, su di lei sempre più crepitanti e chiare,
avevano cominciato ai suoi piedi a percorrere la fune per tutta la sua
lunghezza, minacciando di invadere da un momento all’altro la superficie non
meno infiammabile del ponte.
“Costringere Satch
a barattare la possibilità di scusarsi per .. per…!”
continuava intanto Momo, serrando gli
occhi con le guance rosse di vergogna, non avvertendogli avvertimenti degli altri due.
“Momo! Le
fiamme!” esplose improvvisamente Ace e la ragazza sbarrò finalmente le
palpebre, accorgendosi del disastro che aveva appena combinato. Lanciò un urlo,
tornando immediatamente gialla su braccia e capelli.
Il fuoco sulla
corda subì lo stesso destino, tornando immediatamente nella propria innocua
colorazione iniziale per poi estinguersi nel nulla, lasciando dietro di sé solo
l’odore di stoppa annerita .
“O cavoli.”Sussurrò Momo sgomenta,con una mano a
coprirle le labbra, dimenticando di parlare in modo che gli altri due la
capissero. Questi osservarono la paradisea entrare nel panico più totale,
cominciando a guardarsi intorno ansiosa, tremando da capo a piedi.
Gli occhi azzurri
di Marco fecero appena in tempo ad incontrare quelli luminosi di lei, prima che
il vuoto andasse a sostituire la sua figura, lasciando soltanto una scia
brillante ed evanescente fondersi con il vento notturno.
Rimasero per un
po’ così, incerti su quello che era appena accaduto. Poi entrambi sbuffarono,
l’uno passandosi una mano tra i capelli biondi, stropicciandoli con
esasperazione, tenendo l’altra poggiata sul fianco, l’altro portandosi all’indietro
il cappello con una mano, scoprendosi la fronte.
“Ma è un’esperta
nelle fughe!” esclamò meravigliato.
Marco alzò gli
occhi al cielo.
“Andiamo a
cercarla.” decretò segnando quella che sarebbe stata certamente una notte piena
di risvolti interessanti.
Atto 12, scena 7
Si passò le mani
sul viso, non credendo a ciò che aveva fatto. Per poco non mandava a fuoco la
nave del babbo, e per cosa? Per essersi arrabbiata per un istante con Marco ed
Ace.
Com’era potuto accadere?
Non era mai successo che il suo fuoco bruciasse veramente qualcosa! Era
sempre rimasto sul suo corpo, ben lungi dal danneggiare qualsiasi cosa, anzi,
tutto il contrario! Persino Betty non ne era rimasta ferita, intingendovi in
pieno un dito!
“Ma cosa mi succede…”
pianse un po’, percependo solo pochi attimi dopo il venticello fresco della
notte passarle tra i capelli, donandole una piacevole e fuggevole sensazione di
calma. Osservò il cielo scuro sopra di lei, tenendosi le ginocchia al petto e
sospirò: le stelle in cielo erano tristemente diminuite rispetto la prima volta
che era uscita dalla coperta della nave. Ricordò di riflesso la notte in cui
lei e Marco stettero ad osservare quella magnifica scia di astri luminosi come
diamanti seguire la stessa rotta della Moby. Poi le venne in mente il tramonto
che Ace l’aveva costretta a guardare, facendola piangere commossa.
Corrucciò la
fronte, incavando la testa tra le spalle. Si sentiva stranamente fragile nel
ricordare quei momenti, e il vento pareva riuscire ad entrarle in petto al solo
scopo di metterla a disagio, affogandole il cuore in una coltre gelida e vuota.
Era da tempo che
non si sentiva in quella maniera. I giorni lunghi e pieni di impegni sulla nave
l’avevano presa a tal punto da non concederle un attimo da dedicare alla
propria memoria smarrita.
Era riuscita ad
adattarsi, a farsi degli amici, o ,meglio ancora, una famiglia, eppure il
ricordo di quel ragazzo biondo con un orecchino nelle ultime 24 ore aveva
cominciato a riaffiorarle alla mente con troppa intensità per i suoi gusti.
Un soffio caldo
le scosse lievemente i capelli della nuca, facendola sobbalzare per la
sorpresa.
Non pensava l’avrebbero
trovata così presto.
Si voltò piano,
trovando Marco accovacciato con le ginocchia flesse al petto e le braccia
tramutate in un paio di lunghe cerulee ali di fiamma . Tremò impercettibilmente
alla vista degli occhi dell’altro inchiodarla sul posto. Gli occhi della Fenice
non erano particolarmente rivelanti per la forma, perennemente occultata dalle
palpebre cadenti che gli conferivano un’espressione mezza annoiata,ma per il colore, paragonabile soltanto a
quello del limpido piumaggio che gli faceva da mantello in momenti come quello.
Eppure Momo,
continuando ad osservare atterrita quel paio di iridi azzurre cielo, non
riusciva a scacciare via l’inquietudine che le derivava dal constatare quanto
gli occhi di Marco fossero impenetrabili. Indecifrabili. Profondi come un pozzo
pieno d’acqua che, man mano se ne cercava di scorgere il fondo, diventava
sempre più scuro.
“Sei facile da
trovare.” Disse Marco, mentre, rialzandosi con gesto fluido da dove si era
appollaiato, ritramutava i propri arti.
“Come…?” ribattè non
capendo bene il senso di quell’improvvisa affermazione.
“Ti piacciono i
luoghi alti.” Osservò con naturalezza il biondo, indicando con l’indice della
mano destra ciò che, dall’alto del pennone della vela maestra, pareva essersi
rimpicciolito di un paio di volte. Momo, che aveva seguito il gesto dell’altro,
alla vista di quella drastica distanza che la divideva dalla superficie solida
del ponte, deglutì distogliendo
velocemente lo sguardo.
“Molto …” rispose, trovando meno doloroso
tornare ad osservare il volto del comandante “… è cadere che non mi piace.”
Si lasciò
sfuggire un mezzo urletto, nel ritrovarsi il volto
serio dell’altro a meno di quanto era stato pochi istanti prima. Le sue gambe di
riflesso si prepararono a compiere un altro salto evasivo che venne, per sua
sfortuna, prontamente intercettato dalle mani della fenice che la trattennero
sul posto aggrappandosi alle sue spalle.
La paradisea
sbarrò gli occhi: quella era la prima volta che riuscivano a fermare un suo
salto.
“Oi…” la chiamò
Marco“Perché scappi?”
“Sono ancora
arrabbiata” gli rispose immediatamente la ragazza, evitando il suo sguardo come
meglio poteva. Il cuore le batteva nelle orecchie e un sottile strato di sudore
le si formò sulle tempie, prontamente asciutto dall’azione del vento che
spirava intorno a loro. Quella vicinanza la stava facendo andare nel panico.
Nella mente della
Paradisea affiorarono le più disparate possibilità: implorarlo, spingerlo via,
insultarlo, chiederglielo simulando calma o mille altri modi ancora. Dal
momento che sapeva come stavano le cose per lei avvicinarsi o lasciarsi
avvicinare da Marco o Ace equivaleva ad esporsi ad una scelta. Sapeva cosa
significava piacere a qualcuno e non voleva che uno interpretasse male i suoi
atteggiamenti nei confronti dell’altro.
Avrebbe rischiato
di perdere l’amicizia di uno di loro, o peggio, di entrambi.
E non voleva.
“Stai tremando?”
constatò Marco puntandole con sguardo rapace le braccia, colte nel loro tremare
incontrollato.
“N-no.” Scrollò la
testa con voce balbettante, ma quello continuò a guardarlo fisso senza
accennare a mollare la presa.
Momo si sentì
prossima ad urlare esasperata quando percepì la mano ruvida di Marco serrarsi
attorno ad uno dei propri polsi, costringendola ad alzarlo ed avvicinandolo
verso di lui.
Strinse i denti,
sentendo la propria mente andare in blackout per la confusione.
Le labbra della
Fenice incontrarono la sottile e liscia pelle del dorso roseo della Paradisea,
accarezzandola per un breve attimo lì nei pressi delle nocche, affondando il
viso tra le innocue spire delle fiamme gialle. Momo, sbarrando agli occhi
stravolta, rimase a fiato sospeso, guardando poi l’altro allontanarsi lentamente,
indietreggiando piano lungo la lunga trave del pennone.
Se prima gli
occhi seri di marco gli erano parsi inespressivi ed enigmatici, in quel momento
le stavano riferendo solo una profonda tristezza.
“La scelta spetta
solo a te.”
Fu tutto quello
che disse prima di calarsi già dall’albero maestro, ritramutando
le braccia in ali. Posò un mano sull’altra, percependo, là dove vi era stato
quel fuggevole contatto, un sottile calore farsi strada sotto la propria pelle.
Atto 12, scena 8, Aria in catene
Il suono lontano
e ritmico delle onde era l’unica cosa che sentiva entrare dalla piccola fessura
della finestra serrata della sua prigione rossa.
Rosse erano le tende si seta, lunghe fino al freddo pavimento in marmo rosso, ed ornate di filamenti violacei
dalle fantasie semplici. Rosse erano
anche le pareti lisce ed anonime della stanza, scure quel tanto che bastava per
assomigliare all’amaranto, oh amato amaranto. Rosso ciliegio i mobili eleganti, lisci e lucidi lì presenti,
talmente curvilinei da sembrare essere stati scolpiti con letali e precisi
colpi su un ceppo d’albero ancora vivo.
E rosso era il letto a baldacchino sulla
quale era incatenata con dure e pesanti anelli alle caviglie. Rosse le coperte di velluto, le federe,
i cuscini. Persino le rose fresche di giornata, disposte sul comodino lì
affianco.
Tutto quel
trionfo di rosso aveva cominciato a farle male agli occhi, ma il suo carceriere
aveva una passione sviscerale per quel colore e mai le avrebbe permesso di
domandare un piccolo cambiamento agli accostamenti di quella stanza,
specialmente se questi ultimi erano stati architettati per evitarle di pensare
ad altro se non al rosso.
Lui si
identificava in quel colore.
Sapere che il
rosso fosse continuamente nei suoi occhi, nei suoi pensieri, lo tranquillizzava
durante le sue lunghe assenze, diceva.
Clarina non sapeva mai cosa rispondergli quando
le diceva quelle cose. Ne aveva paura, ma lui tutte le volte, maledettissime
volte, soffocava le sue proteste in baci affamati da mesi di lontananza troppo
lenti per lui e troppo veloci per lei.
Finiva sempre con
l’assecondarlo. Aveva imparato a farlo. Farlo arrabbiare sarebbe stato peggio e
lei aveva solo un momento per continuare le sue suppliche, aggrappandosi alle
sue gambe con le lacrime a rigarle le guance, la voce rotta in una serie di
domande che non trovavano mai risposta, senza rischiare di ricevere qualche
livido in cambio.
Lui l’avrebbe
guardata impassibile e, senza una parola, l’avrebbe abbandonata lì sul freddo
pavimento della prigione in cui l’aveva relegata, con i lunghi e ondulati capelli
biondi sparsi su di esso e il singolo orecchino sul lobo sinistro a pendere
scosso dai suoi stessi singhiozzi.
Tutte le volte Clarina vedeva i suoi occhi cobalto arrossarsi e gonfiarsi,
senza avere la possibilità di poterseli sciacquare se non ore dopo, quando le
veniva portato il pranzo, per poi potersi mettere davanti all’unica cosa che
non le restituiva solo quell’orrendo colore: lo specchio.
Passava ore a
fissarsi, trovando sollievo nell’unica cosa che le ricordava la ragione che
ancora le permetteva di resistere senza impazzire. I suoi capelli, il suo viso,
i suoi occhi, tutto di sé stessa le ricordava la sola persona che il destino
non le aveva ancora tolto.
“Archetto…”
sussurrò, corrucciandosi nello sforzo che le provocava tenere basso il timbro
vocale.
Lui non era
morto, come Lui le aveva detto più
volte. Ne era certa.
Le sue parole esprimevano sicurezza, ma non
corrispondevano a verità.
I suoi bambini
erano salvi.
La porta rossa della stanza cigolò e lei si
affrettò a prendere la raffinata spazzola a setolerisposta lì accanto. Non le serviva guardare
nello specchio per sapere chi fosse appena entrato.
Una grossa mano
le si poggiò sulle spalle, strofinandole la base del collo con il pollice.
Sospirò, alzando
lo sguardo con un sorriso elaborato ad ornarle i lineamenti di donna adulta.
“Bentornato, Sakazuki…”
Fine Atto Dodicesimo.
Donneeeee!!! XD sono tornata! Credevate di
avermi persa eh? E invece no! Sono sempre qui. Rallentata da una vita
universitaria sfiancante, caotica e piena di avventure!!! XDD Vi prego di
perdonarmi quindi il leggero ritardo e… rullo di tamburi….è arrivato il momento per la domanda che tutti
aspettavate.
(fischi e
applausi)
Donne
votate! E non mi deludete!
1) Chi sceglierò Momo? Marco o Ace?
2) A che distanza si trovano Arch, Viola e Morgan rispetto la Moby? (avete ideuzze?)
ATTENZIONE: LA PRIMA DOMANDA LA DIVIDERÒ IN
TRE PARTI OVVERO, LE RISPOSTE NON DARANNO ESITO DEFINITIVO A QUESTA SCELTA MA
LA RIPETERÒ IN ALTRI 2 CAPITOLI, IN MODO TALE CHE EVENTUALI NEW ENTRY POSSANO
ESPRIMERE IL LORO PARERE!!!
Per il
resto tutto normale donne! Ora vado a nanna! Ciaaoooo!!
Kisskiss! ^*^
Note
di LIBRETTO: Jap>Ita
Oyaji>
Babbo/papà
musuko /musume> figlio/i –figlia/e
kyodai>fratelli
kozaku> famiglia
Note
di LIBRETTO: Ita> Jap
Perché scappi? > Nazeanatawajikkō sa rete iru-yoi?.
La scelta spetta solo a te.
> Sentakuwaanatashidaidesu-yoi.
Ormai era ora di mettersi in branda anche
per Marco ed Ace, nonostante la voglia di lasciare in sospeso la ricerca della
piccola e dolce causa della loro rivalità fosse ben poca. La ragazza era
rimasta sul ponte, osservandoli silenziosamente dal pennone della nave con
occhi traboccanti di sofferenza, senza nemmeno osare rispondere alla buonanotte che il moro le
aveva mandato a gran voce, con consumati e più svariati tentativi di
convincerla ad uscire allo scoperto.
Marco si era ben riguardato dal riferire
all’altro Ace la posizione di Momo, accompagnandolo, senza mai fiatare, di
nuovo nella sottocoperta, in direzione dei loro alloggi. Fu proprio questo
silenzio ad insospettire Ace che,percependo
nella sua espressione neutra una nota di consapevolezza, non poté fare altro
che dare voce ai suoi presentimenti, piantandosi improvvisamente in mezzo al
corridoio con le mani sui fianchi, scrutando l’altro con un sopracciglio
alzato.
Non servirono parole per comunicare la
domanda sottintesa, ma eloquentemente espressa, del moro.
Marco rispose al suo sguardo con
un’occhiata stanca, prima di continuare per la propria strada come se nulla
fosse.
“Non so dove sia.” Disse laconico,
meritandosi da parte dell’altro uno sbuffo che sapeva di amaro e sarcastico.
Non passò comunque molto, prima che se lo
ritrovasse affianco.
“Amico mio, sarò pure astinente,…” disse attirando su di sé una fuggevole
occhiata del biondo “…, ma non scemo.”
Quella dichiarazione fece nascere un
sorrisino sulle labbra della Fenice.
“Già, a volte dimentico che qualcosa in
quella zucca rimane, oltre alla cenere.” Ironizzò, aspettandosi una risposa
acida dall’altro, ma ottenne soltanto un sospiro ed un Ace decisamente poco
propenso ad un battibecco. Durante le ultime settimane erano state molte le
occasioni che gli avevano visti schermirsi con battutine e controbattute di
ogni sorta, e forse fu per quello che Marco si stupì, abbandonando la propria e
saltuaria sfrontatezza per ricadere nel serio.
“Non ci perdonerà facilmente, eh?”
“Tu che dici?”
Ace scoccò una breve occhiataccia
all’altro, sentendosi preso in giro.
“Dico che più va avanti questa storia, più
mi sembra di non capirci nulla.” Disse con tono aspro, lasciando di stucco
Marco, che si fermò, spalancando gli occhi azzurri davanti al fratello,
occupato a rimuginare a testa bassa su quello che aveva appena sputato dallo
stomaco, dandogli le spalle mentre si poggiava le mani sui fianchi.
“Pensi di essere il solo a pensarci?
Guarda che anche io ho ragionato su quello che è successo un mese fa.” Disse a
denti stretti.
A quelle parole la Fenice poté finalmente
ben intuire quello a cui si riferiva il fratello, poiché i suoi pensieri erano
gli stessi, da quando il padre aveva sentenziato di cambiare rotta verso Inari Fountain.
“Momo non ricorda ancora niente. O almeno
non ci rende partecipi…” fece una pausa mordendosi
quasi la lingua nel correggersi “…a parte Satch.”
Marco sbuffò, incrociando le braccia al
petto “Non puoi incolparla per essere diventata amica di Satch…”
“Non parlare come se la cosa non
infastidisse pure te.” Lo imbeccò, zittendolo.
Il biondo si ritrovò a dare ragione
all’altro, più di una volta aveva dovuto compiere uno sforzo più forte del
dovuto per non prendere da parte Satch ed implorarlo
a suon qualche calcio in testa di limitare le sue boccate d’aria fresca in
compagnia della paradisea.
“Abbiamo un mese di tempo, Ace. Non
cominciare a fare storie.”
Un ringhio sommesso irruppe lieve dalla
gola del moro “Fosse solo per questo.”
Marco stette ad osservare attentamente
l’altro, non capendo bene il senso di quell’ultima frase. Cos’altro poteva
infastidire il suo educato e irruente fratellino tanto da fargli spasimare in
quel modo, quasi impercettibile ad occhio che non fosse stato acuito dai sensi
sovrannaturali di una Fenice, le mani e i muscoli visibilmente tesi a fior di
pelle?
“A volte, durante le ultime settimane…” cominciò Pugno di fuoco con tono strascicato e
forzato “… ho ripensato alle parole di Shanks, … alla
vita delle paradisee, alle loro capacità … è stato semplice sentirselo spiegare
allora dal Rosso, ma…”
Una mano gli scattò con fare istintivo
poco sopra gli addominali appoggiandosi a mo’ di artiglio dove si sarebbe
dovuto trovare lo stomaco.
“Più ci penso, più sento che … “
“Manca qualcosa.” Terminò per lui la
Fenice.
Ace annuì, incrociando il suo sguardo
color brace con quello cristallino dell’altro. Marco rispose pienamente a
quell’occhiata significativa: lui ed Ace avevano intuito la stessa cosa.
“Ti ricordi cosa successe, dopo quella
sera di bevute?” domandò il moro.
“Sì, papà rimase solo con il Rosso per
circa una mezzoretta.”
“Ma quello che si sono detti lui e il
Rosso, non ce lo ha mai riferito.”
Nel silenzio che seguì, Marco si poggiò di
schiena alla parete del corridoio a gambe accavallate e braccia incrociate.
“Anche tu pensiabbia a che fare con Inari Fountain?” chiese il biondo, abbassando le palpebre con
fare pensoso.
Un altro ringhio.
“E come faccio a pensarlo, se non so
nemmeno che tipo di isola è?!”
Quelle parole lasciarono letteralmente di
sasso il comandante della prima flotta.
“Come?” chiese incredulo.
“Ho chiesto a tutti della Moby, e sembrano
avere le bocche cucite!!Mi snobbano non appena ne faccio parola!!” esclamò,
strofinandosi nervosamente la fronte, alzandosi lievemente il cappello per
passarsi una mano tra i capelli corvini.
“Insomma, cosa c’è ad Inari Fuontain?!” terminò spazientito mentre si parava proprio di
fronte al biondo con sguardo che non ammetteva né repliche né ritirate
strategiche di alcun tipo.
Marco era indeciso se ridere o meno: non
poteva credere che, a distanza di anni, l’intera ciurma ricordasse ancora
l’ordine, che aveva dato non appena finita la sua piccola disavventura sulla
temibile isola dei Ciliegi Cicalini, di non fare mai più parola né del padrone
dell’isola né dei suoi abitanti.
Cavolo, ed Ace, essendo entrato nella
famiglia molto tempo dopo quel fatto, non aveva mai avuto modo di sentirla
nominare!
Si lasciò sfuggire una risata appena
accennata, giusto per non offendere troppo il fratellino.
“Colpa mia Ace, sulla Moby non si parla di
Inari Fuontain a causa mia.” Disse incitandolo con un
gesto della mano a accostarsi a lui.
L’altro inarcò un sopracciglio, accogliendo
in pieno l’invito.
“Allora?” lo incitò spazientito,
provocando un’altra risata del biondo.
“Bene cominciamo dal principio…”
disse il biondo alzando la testa verso l’alto con improvviso fare assorto “…InariFuontain è l’inferno.”
A quelle parole, Ace quasi capitombolò a
terra per la sorpresa. Che razza di inizio era quello?
“Cos-?!”
“E io mi ci sono allenato per 6 mesi,
prima che tu entrassi nella ciurma.”
Ace registrò le informazioni ottenute con
un certo sforzo, era tardi dopotutto, e gli ingranaggi del suo cervello avevano
dato l’ultimo sprazzo di energia per esporre i propri pensieri a Marco.
“Sei mesi?!” sbottò infine, ricevendo un
cenno affermativo da parte del biondo.
“Perché diavolaccio ti sei allenato per
sei mesi su un’isola? Cos’è, un campo di addestramento da far invidia alla
Marina?!”
“Tutt’altro…”
ridacchiò amaramente alle parole del fratello.
Un campo di addestramento sarebbe stato
più morbido e meno sfiancante, si ritrovò a pensare.
“È un’isola famosa per i sui impianti
termali e le feste serali.” Spiegò quasi facendosi venire il voltastomaco al
ricordo di come anche lui, all’epoca molto più giovane ed ingenuo, si era
lasciato fuorviare da quella subdola descrizione.
“E allora qual è il problema?” chiese
sinceramente confuso Ace
“Il padrone dell’isola…”
spiegò in un sospiro “… è stato il mio incubo notte e giorno.”
Il volto di Ace era ormai un punto
interrogativo vivente, non si sforzava neanche più a porre domande
“Ti basti sapere…”
disse la Fenice, tirandosi su dall’appoggio ormai scomodo delle pareti in legno
“… che una volta entrato su quell’isola, devi lottare per uscirne.”
“Ehi!” Lo richiamò Ace intercettandogli
una spalla per fermarlo, parandoglisi di fronte con
voce tagliente
“Non troncare il discorso a metà! Cosa
centra questo con Momo?” chiese perentorio.
Marco lottò contro il groppone che gli si
era formato in gola per rispondergli degnamente: non amava parlare del suo
soggiorno su quella maledettissima isola primaverile-estiva,
ogni volta che ci ripensava sentiva la spina dorsale tremargli come se dietro
di sé avvertisse, in un angolo buio della nave, ancora occhi gialli e ghignanti
studiarlo, attendendo solo il momento propizio.
“AmaterasuRyogan.” Disse infine chiudendo gli occhi “Il padrone
dell’isola. È un patito delle razze del Nuovo Mondo. Conosce ogni singola
specie o essere vagamente interessanti che sorvoli o abiti quelle acque.”
Non aspettò che Ace facesse un’altra
domanda, ben intuendo il suo .
“… e
se le Paradisee non sono conosciute nella Grande Rotta…
è molto probabile che vengano da lì.”
Atto
13, scena 2
“Senti
Arch…” sibilò a denti stretti Viola, guardando
fisso negli occhi il compagno di viaggio, parato davanti a Morgan per
proteggerlo dall’imminente attacco d’ira dell’altra “Non mi ripeterò una seconda volta: spostatevi. ORA.”
Dietro il biondo il bambino orientale
tremava come una foglia, impaurito dallo sguardo feroce che l’altra stava poco
a poco assumendo. Pregò che il signor Arch riuscisse
a calmare un’altra volta quella furia dai capelli argentati, o si sarebbero
ritrovati per l’ennesima volta a dormire al freddo.
“No, se prima non ti calmi.” Ribattè monotono il ragazzo, apparentemente calmo e gelido
come dimostravano i suoi occhi dal taglio sottile.
Viola strinse i pugni più forte di prima,
sorda alle ammonizioni dell’altro, puntando poi con convinto intento omicida
gli occhi nocciola sull’uomo seduto poco distante dal loro tavolo.
Era una locanda semplice quella in cui si
trovavano, senza troppe pretese, con una clientela varia, più o meno
tranquilla, pareti in pietra grezza e un solo camino a riscaldare l’ambiente
che minacciava di congelarsi come l’aria di fuori. Un’isola invernale.
“Mi.
ha. palpato. il. culo.” Scandì pericolosamente, facendo sbiancare di netto
sia Morgan, che si annotò mentalmente di non palpare mai e poi mai il sedere ad
una donna, sia i pochi che, vedendoli in piedi a fronteggiarsi in quel modo,
avevano ascoltato il tono infuriato della ragazza dai capelli argentati.
Arch si accigliò lievemente, vedendola
accennare un passo in avanti.
“Non fare casini Viola. L’ultima volta ci
abbiamo quasi rimesso le penne.”
“Ma
mi ha palpato il culo!!!” sbottò indignata, facendo zittire mezza locanda,
non essendosi premurata di tenere basso il tono di voce.
Arch sentiva gli sguardi di tutti puntarsi su
di lui. Non andava bene. Per niente. Si preannunciava un’altra notte
all’insegna di denti battuti tra loro per il freddo.
“E che cosa vorresti fargli, sentiamo.”
Tentò di salvare la situazione incrociando le braccia al petto, sfiorando
appena con la punta delle dita i manici dei suoi pugnali nascosti sotto la
giacca, in prossimità del costato.
“Gli
strappo una ad una le dita sudice che si ritrova e gliele faccio ingoiare.”
Fu la risposta schietta e velenosa che fece trattenere il fiato all’intera
sala.
Il colpevole in questione, di fronte a
quella discussione di cui aveva capito, nonostante il rhum gli annebbiasse un
poco il cervello, era il malaugurato protagonista, fece una cosa che, se avesse
saputo chi era quella bella gnocca a cui aveva
saggiato le forme, sarebbe equivalsa ad un suicidio in piena regola.
Tracannando nel frattempo ancora un po’ di
liquore dalla bottiglia, si avvicinò ai tre, ignorando volutamente i gesti
disperati del bambino che gli intimavano di non fare un altro passo.
“Cosha c’è amico…hic…” sghignazzò,
poggiandosi pesantemente con un braccio sulle spalle del biondo, che barcollò
pericolosamente “… la tua bella non ha…hic… gradito il mio complimento?” Si scolò un altro sorso
veloce, umettandosi quel tanto che gli serviva le labbra.
“Ha proprio un bel sedere sai? Hiiic. Sarebbe un vero e proprio reato no-..”
Arch si spostò appena in tempo per non venire
anche lui colpito dal pianoforte verticale appena lanciato da Viola,
premurandosi di scattare ed allontanare Morgan dal centro della sala.
“Niente camera nemmeno stanotte, vero
signor Arch?” chiese sconsolato il bambino guardando
la tempesta di neve che aveva cominciato a soffiare brutalmente contro i vetri
della finestra appannati della locanda.
“Temo di no.” Rispose il biondo rimettendosi
in piedi.
“Ehi tu! Fatina bionda!”
A quell’esclamazione diretta verso di sé
il ragazzo si paralizzò, avvertendo alle proprie spalle la presenza di almeno
un paio di energumeni arrabbiati per il trattamento che stava subendo il loro
compagno di bevute. Sbuffò. Perché tutte le volte che Viola faceva casino ci
andava di mezzo lui? Non facevano prima ad andare ad aiutarlo?
La razza di suo padre era veramente
ipocrita.
Azzardò un’occhiatina frustrata
all’indietro, constatando di aver avuto un’altra volta ragione, per suo enorme
sfortuna.
Contò ben tre paia di braccia muscolose e
una mazza. Non male. Di solito gli andava peggio.
“Cosa pensi di fare?”
“La tua amichetta sta pestando Miguel come
un sacco da boxe.”
“Allora?!”
Arch rimase zitto, scoccando una significativa
occhiata a Morgan che, annuendo, si affrettò ad uscire, non senza un certo
rammarico, dalla locanda, addentrandosi nel freddo della notte con le braccia
strette al petto.
“Ehi! Parlo con te facc-”
Una mano callosa gli artigliò una spalla,
costringendolo con uno strattone a voltarsi e fronteggiare quell’ennesima
seccatura. Il suo occhio sinistro si aprì, scintillando solitario di una luce
color amaranto che gli bruciava dolorosamente e lentamente il nervo ottico.
A quella vista i tre uomini ebbero un
attimo di ripensamento indietreggiando, ma solo per un istante. Quello che
brandiva la mazza si scagliò in direzione del giovane, colpendo però il vuoto.
“Pizzicato
d’Ape ”
Fu la sola cosa che riuscì a sentire
venirgli sussurrato all’orecchio, prima di venire trafitto al fianco destro da
qualcosa di corto ed affilato. Intravide una lama corta venire estratta con
velocità dalla propria carne, scintillando sinistra di un colore rossastro,
prima di cadere a terra dolorante.
“Bastardo!” gli ringhiò contro uno degli
altri due, indietreggiando tuttavia confuso.
Il biondo pulì con noncuranza la lama sul
gilet che indossava e sospirò estraendo anche l’altro pugnale, preparandosi
all’attacco ormai imminente.
Avrebbero finito con lo scappare via anche
da quell’isola, poco ma sicuro.
Ed infatti eccoli lì, sotto la neve e con
un misero albero dalla chioma conica a ripararli, neanche tanto bene, dal vento
gelido.
“La prossima volta dammi retta.”Ruppe il silenzio Arch,
stringendosi nelle spalle più che poteva. Non era come una paradisea lui, e le
sue fiamme non gli fornivano protezione dalle intemperie, ma questo,
ovviamente, non importava più di tanto a Viola, bella calda attorniata dalle
sue fiamme rosso vivo.
“Non
usare quel tono con me Arch.” Lo imbeccò, raggomitolandosi con una lieve
smorfia sulla neve“Ha avuto quel che si meritava.” Concluse, lanciando un’occhiata
incuriosita a Morgan, perso con il viso tra le mani in chissà quali pensieri,
mentre osservava con interesse alle reazioni di Arch
ad ogni spiffero di vento.
“Ti rendi conto c-che siamo dei fuggiaschi
per la quinta volta di fila?” provò
inutilmente a controbattere senza far tremare le mascelle.
“Chi
se ne frega. ” rispose Viola sbuffando di nascosto. Sapeva di essere la
causa dei mali dell’altro, ma non l’avrebbe mai ammesso. L’unica a poterle
estorcere una confessione simile era Allegra e nessun’altro.
“Ma non lo riscaldi?”
La ragazza cadde quasi di faccia sulla
neve nel sentire quelle parole provenire dalla bocca di Morgan.Come? Cosa? Aveva sentito bene? Lei riscaldare Arch?! Cosa aveva bevuto in
quella bettola?!
“E
come di grazia?” chiese con un tono di avvertimento ed un sopracciglio
argentato inarcato.
“Con il corpo.” Fu la semplice ed
innocente ribattuta del bambino.
“Non
ci metto nulla a romperti l’osso del collo, marmocchio.”
Ed altrettanto semplice e dura fu la
risposta di Viola.
“S-scusa.”
Borbottò incavando con vergogna la testa tra le spalle.
“Tu piuttosto…”
riprese la ragazza, dimentica di come Arch stesse
assumendo via via un colorito sempre più bluastro “…
non hai freddo?”
“Veramente io…”
Il suono sordo del corpo del biondo che
cadeva sulla neve acquistò tutta la loro attenzione.
“Merda.”
“Signor Arch!”
scattò il bambino terrorizzato, accostandosi con apprensione al corpo
accasciato del ragazzo.
“Signorina Viola non può fare
un’eccezione? Morirà di freddo di questo passo.” Implorò una volta valutato dal
colore violaceo delle labbra e delle dita la gravità della situazione.
“Ma
se tu stai benissimo.”
“Ma io…!” fece
per replicare prima che un mugolio sofferente da parte del biondo lo
interrompesse.
Di colpo il viso infantile di Morgan si
corrucciò, assumendo quello che Viola definì un’espressione matura e ferma
nelle decisioni appena prese.
La ragazza guardò con stupore malcelato il
bambino dai capelli neri togliersi la magliettina e riporla accanto all’albero,
per poi scoccarle uno sguardo apprensivo.
“S-signorina…
n-non si spaventi p-p-per favore.”
Fu tutto quello che ottenne come
spiegazione, prima di vedere i tratti del fanciullo ingrossarsi e scurirsi al
tempo stesso, assumendo un colore tendente al castano, per poi improvvisamente
spaccarsi nei pressi degli occhi e del naso, alzandosi con degli scricchiolii
secchi sempre più verso il basso, sul collo, sul petto, sulle braccia. Viola vide
le mani piccole di Morgan allungarsi e incurvarsi con i piedi ad assumere la
stessa trasformazione, mentre dalle mascelle, improvvisamente allungatesi,
spuntavano delle zanne piccole e quasi arrotondate.
La cosa peggiore fu quando dalla schiena
del bambino si allungò velocemente in qualcosa di molto simile ad una coda. Una
coda lunga circa quanto il corpo e affusolata alla punta.
Davanti a lei era comparso un lucertolone
con delle grosse scaglie lignee e tutto preso a raggomitolarsi il più possibile
ad Arch.
“Grande
Spirito…” escalmò
incredula Viola, paralizzandosi sulla neve.
“Cosa…?Come…?”
Gli occhi neri della lucertola si
abbassarono con vergogna, emettendo dalle profondità della lunga gola un suono
sofferente, prima di diventare qualcosa di più comprensibile.
“Sono così da un po’.” Ammise la voce di
Morgan, balbettando“N-non volevo dirvelo p-perché avevo paura mi m-m-mandastevia…co-come la ma-mamma.”
Un cumulo di neve gli arrivò dritto in
faccia e subito dopo si ritrovò Viola addosso con le mani ad allargargli le
mascelle per scrutarci dentro.
“Caccia
fuori il marmocchio, lucertolone!” esclamò convinta la ragazza.
“M-m-ma
signorina! Sono io!”
Atto
13, scena 3, Marineford, il giorno dopo, ore 9,30 del
mattino
Monkey D. Garp odiava
dare rapporto. La considerava di per sé una pratica, oltre che
controproducente, essenzialmente atta a stringergli il collo, come se quelli
dei piani alti si premurassero di ricordargli, con una saltuariascrollatina di
guinzaglio, chi tra di loro comandasse.
L’eroe dal Pugno di ferro non avrebbe mai
ammesso, ma lui detestava dover chinare sempre la testa come un cucciolotto obbediente.
Chi
non l’avrebbe fatto?
Era un essere umano anche lui dopotutto e
la libertà, anche nel più sottomesso dei purosangue viziati di cui si attorniavano
pomposamente i Nobili, era un richiamo che difficilmente poteva essere
soppresso del tutto. Se poi alla sua indole decisamente poco accondiscendente e
molto più incline a colpi di testa, distruttivi il più delle volte, si
aggiungeva anche una certa esperienza nel mondo dei ProtettoridellaGiustizia era naturale che le sue azioni
dessero l’impressione di una scalpitante voglia di liberarsi da quelle catene
per poter finalmente dare lui stesso una scrollatina al mondo.
A cominciare da Akainu.
Oh, lui sì che avrebbe meritato una bella
lezione. Più giovane di lui di ben vent’anni e già a presiedere la carica che
lui aveva, con grande disappunto di Sengoku, più
volte rifiutato. In tutta la sua carriera non aveva mai visto un marine più
spregiudicato e ottuso. Cieco e sordo ad ogni parola o qualsivoglia cosa che
osasse mettere in dubbio la malata idea di giustizia.
Per la barba assurda di Sengoku, quello non era un ammiraglio, ma un mastino
lasciato a guinzaglio sciolto!
Neanche l’avesse fatto apposta, in quel
momento l’occhio li cadde proprio sulla porta rossiccia e intarsiata della
stanza privata del suddetto ammiraglio Rosso, dove non mancava mai di chiudersi
ermeticamente dopo ogni missione.
Senza uscirne per delle ore.
Al solo pensiero il naso del vice
ammiraglio si storse indignato e sbuffando dalle narici dilatate due nuvolette
di fumo.
Un alloggio personale, bah, ai suoi tempi
a un marine non sarebbe servito che un po’ di paglia ed un misero tetto
gocciolante sulla testa per sentirsi a casa. E lui aveva persino chiesto ed
ottenuto un alloggio personale.
Ah, queste epoche … - pensò rammaricato,
scuotendo la testa mentre continuava ad allontanarsi, ma le cose non andarono
come previsto.
“C-c’è nessuno…?”
Si gelò sul posto, sbarrando gli occhi
rotondi.
Era stato un sussurro femminile quello che
aveva udito o la vecchiaia aveva cominciato finalmente a corrodergli il
cervello?
“Qualcun-o mi sente…?”
Realizzando di non esserselo immaginato,
si girò di scatto, irrigidendosi istintivamente con i pugni ben chiusi, ma non
trovò nulla ad attenderlo dietro di sé.
Un’enorme punto interrogativo gli si formò
sulla testa. Garp inclinò la testa confuso, non
capendo lui stesso in che situazione si trovasse.
“Ma…” grugnì,
grattandosi la testa brizzolata con una mano e quasi scattò un’altra volta
sull’attenti, quando un rumore continuato di una mano sbattuta su del legno
iniziasse a rimbombare nel corridoio.
“Aiuto..!” fece nuovamente la voce
femminea, cominciando una litania che si protrasse finché non ne ebbe individuato
l’origine.
Monkey D. Garp avrebbe
immaginato di tutto, persino uno spettro.
Nella sua carriera d’altronde ne aveva
viste tante di cose strane: asini che volavano, piante mangia-nuvole
e molte altre ancora.
Ma scoprire che nella camera privata dell’ammiraglio
Cane Rosso c’era una donna, o almeno così aveva potuto intuire dalla voce, che
implorava flebilmente di essere aiutata, era l’ultima cosa che si sarebbe mai
aspettato.
Ancora accompagnato da qui lamenti
estranei ripetuti, il vice ammiraglio si accostò meglio all’uscio.
“Ehm…”
“Mi faccia uscire…
!” sbottò di nuovo quella voce , incrinandosi pericolosamente verso qualcosa di
simile al pianto “La prego… ! Mi faccia uscire… !”
“Ehi ehiehi!” disse portando avanti le mani come ad
intimarle di calmarsi, non pensando al fatto che lei non potesse vederlo.
“Calma! Diamine, non riesco a pensare!”
Per lui fu un sollievo sentire le
suppliche continuate di quella voce cessare di botto.
Sospirò, mettendosi una mano su un fianco
e l’altra sulla testa, a stuzzicargli la testa con qualche grattata.
“Bene… prima di tutto… ” disse chiudendo gli occhi con fare pensoso,
riaprendoli poi di scatto, dirigendoli verso la superficie liscia e
pomposamente cesellata della porta.
“… con chi parlo?” domandò infine.
“Con me.”
Garp cadde quasi sul pavimento. Incredibile-
pensò, mentre si manteneva a stento in equilibrio, massaggiandosi le tempie –
questa è di certo la cosa più assurda che mi sia mai capitata.
Fare un interrogatorio ad una porta… bah.
“E come si chiama lei?”
“Clarina…
Sassonia.”Fu la nuova risposta della
voce.
Bhe, era un passo avanti. “E che ci fa in
quella stanza?” ricominciò incrociando le braccia al petto, pronto a ricevere
qualsiasi tipo di spiegazione assurda.
“Non lo so..!” disse la donna, ponderando
stranamente su ogni singola parola, quasi facendola uscire con sforzo studiato.
“Voglio uscire…!” sussurrò di nuovo con tono
disperato.
“Ma lui no vuole…!
Sono mesi che sono qui…!”
A
quelle parole i muscoli di Garp si contrassero,
irrigidendosi più di quanto non lo fossero già, e i suoi occhi stralunarono
increduli.
Lui?! Aveva sentito proprio LUI??!!
Si impose la calma. Non doveva arrivare a
conclusioni affrettate. Una parola non condannava una persona e lui non poteva
certo collegarla alla prima che gli veniva in mente.
Si accigliò duramente, sondando con
sospetto quella porta quasi a volerla oltrepassare con lo guardo e vedere
finalmente il volto di chi gli stava facendo sorgere un grande atroce dubbio.
“Di chi sta parlando?” domandò a denti
stretti.
“L-lui… lui ha detto… di chiamarsi S-sa..”
balbettò con cautela la donna oltre l’uscio, lasciandolo su un letto di chiodi
per la tensione.
“Saka-zuki.”
Una decina di vene si ingrossò sulle
enormi braccia del marine, minacciando di strappare il tessuto pregiato della
divisa, mentre le mandibole possenti digrignavano furiose.
Rinchiudere una persona in un alloggio di Marineford???!!!
“GNNNNNNGHHHFFFF!!!” ringhiò trattenendosi
a fatica dall’urlare ai quattro venti il nome del superiore. No, era
troppo.In meno di un nanosecondo la
mente di Garp prese una decisione. Al diavolo i
gradi. Al diavolo il protocollo. Ed al diavolo le manie d’onnipotenza di quel
pomposo e scellerato del suo superiore.
“La preg-…!”
“SI SPOSTI…”
disse caricando all’indietro un braccio per poi abbatterlo impietoso contro
l’ostacolo che la divideva dalla prigioniera.
In men che non
si dica un polverone di schegge rosse e segatura si alzò per quel breve tratto
di corridoio, oscurando la vista stessa del marine, tanto era fitta. Non si
preoccupò di aver esagerato nel caricare un colpo, come suo solito e senza
ripensamenti mise piede nella stanza.
Gli cadde la mascella e dovette
sputacchiare un po’ per via della polvere che gli si depositò sulla lingua a
causa del suo gesto. Per tutte le strambe isole della Rotta Maggiore, non aveva
mai visto una cosa tanto malata.
In quella stanza non c’era un solo
oggetto, angolo, suppellettile che non fosse rosso. Rosso sul soffitto, sulle
pareti, sui mobili, sul pavimento. Neanche quella testa bacata di Shanks, che quell’orrendo colore se lo portava in testa, avrebbe
saputo pareggiare una pazzia simile.
Era… era assurdo.
Non riuscì realizzare altro, poiché un
improvviso peso gli pressò delicatamente il petto, permettendogli di prestare
attenzione a qualcosa che non fosse il colore della camera.
Una cascata ondeggiante di capelli biondi
era riversa sulla seta tesa della sua giacca, tremando e tirando con le proprie
mani quanto più materiale riusciva a raccogliere.
Dall’alto della propria statura, Monkey D. Garp riconobbe nel
corpo alto e ricoperto da un semplice lembo di coperta, attorcigliata a mo’ di
tunica, una donna di non più di una trentina di anni, spaventata e certamente
sull’orlo di un pianto liberatorio alla vista della fine del proprio lungo ed
indimenticabile incubo.
Le poggiò le mani tozze sulle spalle nude,
scostandola un po’ da sé, e quello che vide fu certamente il volto di una delle
più belle e regali donne che avesse mai visto. Due gemme cobalto posate a
regola d’arte su un volto ovale e perfetto, come tutto il resto, specie le
labbra rosee e piene come quelle infantili di una bambina. Deglutì
inconsciamente di fronte a tanta perfezione e capì immediatamente il motivo per
il quale Akainu si chiudeva ad ogni rientro in quella
stanza.
Di certo non per riposare.
Un paio di gocce salate stillarono fuori
da quelle gemme sottili e profonde come l’acqua dell’oceano, scendendo lungo le
guance.
C’era un’altra cosa che Garp non avrebbe mai e poi mai imparato ad affrontare:
ossia le lacrime di una donna.
“La preg- ..!” sighiozzò questa portandosi le mani alla bocca, attutendo
di poco le proprie parole.
“Mi
porti via da qui…! Mi porti dai miei figli!”
Garp decise che avrebbe fatto rapporto molto più tardi.
Atto
13, scena 4, una delle isole della Rotta Maggiore
“Insomma sei diventato così dopo aver
mangiato un frutto.” Ricapitolò brevemente Arch,
innalzandovelocemente la vela maestra
del Cutter. Il tessuto sottile della piccola imbarcazione si gonfiò
immediatamente sotto la frenetica spinta dei venti invernali dell’isola e ben
presto all’orizzonte i tre viaggiatori poterono assistere, con loro grande
sollievo, alla vista di un gremire feroce di gente radunatosi sulla riva,
allontanarsi sempre di più man mano che la corrente li trascinava via.
“Uhm.” Annuì in risposta Morgan poggiando
le mani sulle ginocchia, stando seduto per terra. “Aveva un sapore
orribile.”aggiunse poi cacciando fuori la lingua al solo pensiero del gusto
amarognolo che gli aveva percorso la gola quella volta.
Finalmente lontani. Arch
poté mettersi seduto al timone, senza mai però perdere di vista il bambino,
quasi si aspettasse che si ritramutasse da un momento
all’altro. Inutile dire che Morgan si sentì a disagio, scrutato dagli occhi
freddi e come sempre inespressivi dell’altro.
“Che tipo di frutto era?” fu la rapida e
semplice domanda del biondo, sempre attento ai gesti del bambino.
Il piccolo ci pensò un po’ su.
“Giallo.” Disse infine “Era come un
grappolo d’uva enorme e lungo, ma non aveva il raspo.”
“Uva?” chiese improvvisamente il ragazzo,
lasciando un po’ confuso l’altro.
Arch scosse la testa, scusandosi per averlo
interrotto.
“Lascia stare.” Disse, virando di 30 a
gradi in modo tale da far coincidere il verso giusto del loro Log Pose con
quello della rotta intrapresa dall’imbarcazione.
Da lì in poi non parlarono per tutto il
viaggio.
Morgan dopo un po’ decise di schiacciare
un pisolino, non avendo dormito granchè la scorsa
notte, ma Arch non smise di pensare un solo istante.
Doveva la vita a quel bambino. Lo
ammetteva e gli sarebbe stato eternamente grato, ma quello che aveva capito
avrebbe fatto meglio a non tenerselo per sé. Viola era andata a sua volta a
dormire per via delle sue abitudini di paradisea, ed era stato un bene.
Di certo non avrebbe reagito bene alla
notizia e Morgan avrebbe fatto meglio a non essere nei paraggi per allora.
Sospirò.
La ricerca di Allegra e sua madre si stava
complicando più del previsto.
Atto
13, scena 5, Moby Dick, giorno.
“Tesoro, non pensi di dover andare a
dormire?” fece preoccupata Penelope, districandole delicatamente da dietro i
capelli, ormai spenti, con una spazzola a setole. Erano entrambe sedute sul
letto di Momo, uno dei tanti dell’infermeria che per decoro le infermiere della
Moby non cedevano mai a nessuno.
La ragazza strizzò gli occhi, ben consapevole
di quanto il suo viso, solcato da un paio di occhiaie più profonde del solito,
angosciasse l’infermiera dai capelli biondi.
Scosse la testa, sentendo il pettine
venire delicatamente posato sul comodino poco lì affianco. Come al solito non
poteva parlare in pieno giorno, ma questo non impedì a Penelope di capire.
La donna sospirò, capendo bene come si
dovesse sentire. In una notte aveva scoperto di essere contesa da due capitani
della nave ed aveva quasi rischiato di mandare a fuoco la Moby per un momento
di rabbia.
La scorsa notte aveva ascoltato le sue
spiegazioni dalla prima all’ultima parola, senza fiatare, affiancata
dall’immancabile ed autoritaria presenza di Betty accanto alla porta.
“Capisco.” Le disse, passandole le lunghe
e smaltate dita tra i capelli, sperando in cuor suo di tranquillizzarla con
quel misero gesto di solidarietà, ma ottenne solo il secco fruscio delle pagine
di anatomia che venivano sfogliate.
Betty le aveva dato un ottimo passatempo,
mettendo sotto il naso della paradisea uno dei suoi primi libri di medicina, ma
vedere la ragazza immergersi così ostinatamente in quella lettura la rendeva
inquieta.
Si alzò sconsolata dal letto, uscendo
dalla stanza senza mai togliere gli occhi dalla figura ricurva della ragazza,
nemmeno quando l’ultimo spiraglio che si creò nel richiudere l’uscio si fu
annullato del tutto, lasciandola da sola nel corridoio.
Cominciò a dirigersi verso la mensa con la
cartelletta in mano, ripensando con sguardo assente a quello che le aveva
confessato Momo la scorsa notte.
Le aveva confessato di non aver ancora
ricordato. Per quanto si sforzasse di capire chi fossero i visi che le
giravano, offuscati e deformati da chissà cosa,nella mente, tutto sembrava privo di significato.
Forse il capitano avrebbe dovuto dirle
quello che erano riusciti a scoprire sulle sue origini, anche grazie alle
confessioni del Rosso.
Già perché non dirle niente? Non sarebbe
stato più semplice?
Penelope corrugò la fronte. Non era una
cosa che succedeva spesso, ma qualcosa non le tornava. Il capitano non aveva
mai dato segno di voler rivelare alla ragazza la sua identità, seppure in
minima parte.
Allora perché?
“Buongiorno Penelope!”
Si voltò e a risponderle fu il largo e
solare sorriso di Satch, in piedi dietro di lei con la
solita ed impeccabile divisa bianca a doppio petto ed il ciuffo imbrillantinato
pettinato all’indietro. Le venne naturale sciogliersi in uno dei propri sorrisi
angelici.
“Buongiorno a lei, comandante Satch.”
Per un attimo il comandante dal pizzetto
tentennò, colpito da quell’espressione candida che l’infermiera gli aveva
rivolto, ma si costrinse a riprendersi il più in fretta possibile, tornando
alla propria consueta compostezza.
“Come sta il nostro scricciolo?” chiese
accennando con un piccolo movimento della testa la porta dell’infermeria.
Si pentì immediatamente nel vedere il bel
volto di Penelope indurirsi in un’espressione preoccupata.
“Non bene.” Sospirò con rammarico la
donna, facendo per compiere un passo che venne ben presto imitato dall’altro
“Non vuole nemmeno dormire.” Ammise provocando in Satch
lo stesso moto di preoccupazione.
Non era normale che la ragazza non
dormisse. Il suo corpo non era abituato e chissà quale stress mentale avrebbe
aggiunto quello fisico. La spina dorsale gli tremolò appena nel ricordare la
corda bruciacchiata dalle fiamme di Momo che Marco ed Ace gli avevano mostrato,
chiedendogli se lui ne sapesse qualcosa.
Anche lui era rimasto sorpreso da quel
nuovo risvolto, ma non poteva dirsi totalmente sorpreso di quello che era
successo. In fondo il suo istinto, come sempre benedetto, lo aveva più volte
avvertito di non far arrabbiare lo scricciolo. E in quel momento aveva capito
il perché.
“Sono preoccupata, comandante Satch.” Lo riscosse
la voce sottile e tirata dell’infermiera, che si portò una mano al viso,
posandola delicatamente sulla guancia “C’è qualcosa che la turba.”
Parecchie cose direi…-
pensò satch, lanciando un’occhiata all’indietro,
sperando che la ragazza stesse bene, o almeno, prossima a lasciarsi abbracciare
da Morfeo.
Avrebbe voluto farle visita, ma in quel
momento era di maggiore importanza fare un’altra cosa.
“Penelope…”
“Sì?” si voltò l’infermiera incontrando
ancora una volta il sorrisone sereno dell’altro.
“Per caso hai visto Jaws?”
Atto
13, scena 6
Momo leggeva.
Leggeva con foga quei fiumi infiniti di
parole senza mai vederne la fine.
Davanti a lei frasi e frasi descrivevano
il corpo umano con meticolosità quasi maniacale, analizzando viscere, vene,
tessuti muscolari o semplicemente epidermici con una crudezza che il suo
stomaco aveva imparato in pochissimo tempo a sopportare.
Per un attimo si chiese chi avesse scritto
una cosa simile, ma continuò la sua ricerca sfogliando e sfogliando ancora
quell’enorme volume, ignorando la propria curiosità.
Si soffermava sulle parole che le
sembravano più significative, sulle frasi, ma solo per scartarle ed andare
avanti, pregando di avere più fortuna nelle pagine successive.
Niente. Niente.
Tutto quello che leggeva per lei aveva
senso, come non lo aveva. La sua mente, oramai abituata alle analisi di quel
tipo, cercava di evitare la sensazione di stranezza che le immagini di persone
svestite della propria pelle le creava, soffocando in gola piccoli conati acidi
di nervosismo.
Per tutte le stelle…
perché sentiva che anche quello significava qualcosa?!
Arrivò all’ultima pagina.
L’ultima pagina.
I suoi occhi arrossati ondeggiarono sulle
ultime ed insignificanti parole del libro, prima che le sue mani lo lasciassero
scivolare con un tonfo sordo a terra.
Non ci trovava niente in quel volume.
Niente di quel modo di pensare, di analizzare di vedere le cose, come aveva
visto nelle intense e rugose pagine del libro, le apparteneva. Nulla.
Assolutamente nulla.
Perché quella sensazione? Perché,
nonostante la lingua, i vestiti e tutto il resto, sentiva che quel mondo non le
apparteneva?
Si era gettata a capofitto su quelle
pagine, spinta da un’urgenza incontrollata: capire chi era. Le era venuto
naturale dopo gli avvenimenti della scorsa notte.
Capire chi era significava capire se
stessa e, di conseguenza, sapere quello che voleva, poteva e doveva fare.
Chinò la testa in avanti, sperando forse
di alleggerire così le proprie spalle dall’enorme peso che le dava la
sensazione di pensare.
Davanti a lei soltanto il legno del
pavimento. Strizzò gli occhi: doveva ricordare.
Chi era Arch?
Un
ragazzo dai capelli biondi e occhi blu. Chi?
Chi
era Viola?
Una
figura lontana con una fiamma rossa in mano. Chi?
Perché un’isola diversa?
Quale
isola?
Perché il sospetto?
Gli
occhi freddi e distaccati del ragazzo. Perché?
BASTA!
L’urlo nella sua mente fu accompagnato da
un senso di pesantezza al petto, talmente forte da farle gocciolare la fronte e
boccheggiare alla ricerca disperata di aria.
Pensa a qualcos’altro…
– si impose, rovistando nella propria mente, ma più cercava, più le immagini di
quel giorno in cui aveva fatto cadere Arch in acqua
ritornavano prepotentemente in superficie – …pensa a
qualcos’altro !!
Un
bacio sulla mano. Una sensazione di bruciore al cuore.
NO!
Si alzò di scatto e, raccogliendo il libro
che aveva lasciato cadere, si diresse a passo svelto verso la porta.
Ritrovarsi a girovagare tra i corridoi
della Moby non l’aiutò più di tanto e, con la stanchezza ad intorpidirle le
ossa, anche il più piccolo gesto sembrava urlarle di stare ferma.
Poi un movimento sbagliato di un piede la
fece ciondolare pericolosamente in avanti, ma , stranamente, l’impatto con il
pavimento non arrivò.
“Tutto bene?”
Una domanda grugnita dietro di lei, e la
sensazione di una mano stretta al colletto della propria camicia, la fece
voltare scoprendo l’identità del proprio occasionale salvatore.
Deglutì.
Bene. Non sarebbe potuta andare peggio.
Avrebbe preferito Ace: almeno lui si sarebbe limitato a prenderla un po’ in
giro dopo averle evitato, un capitombolo del genere. Certo si sarebbe un poco
vergognata della goffaggine che si portava dietro, ma almeno la tensione si
sarebbe alleggerita un po’.
Jaws non era mai stato un tipo loquace, da
quel che ricordava.
Il comandante della terza flotta la poggiò
delicatamente a terra, senza neanche darle il tempo di annuire, per poi tornare
nella solita posizione a braccia conserte.
Tornata con i piedi per terra Momo ebbe
l’istinto di scappare via, di corsa anche, vedendo gli occhi corrucciati
dell’altro osservarla con insistenza.
Si irrigidì sul posto vedendolo chinarsi
accanto a lei, allungando una mano e le cadde la mascella quandoquest’ultima riapparve nel suo campo visivo
con il libro di Betty in mano.
“Ti è caduto.” Disse semplicemente porgendole
il volume con la grossa mano bruna ad avvolgerne completamente la copertina.
Una lacrimuccia le affiorò automaticamente
nell’angolo dell’occhio sinistro, nel constatare intimorita quanto il grosso
libro che aveva trasportato apparisse piccolo nelle mani del comandante
Diamante.
Eppure le sue mani andarono lo stesso ad
accettare l’oggetto, forzando un sorriso a combattere contro la sua stessa
paura.
I duri lineamenti di Jaws
si ammorbidirono in un istante, sciogliendosi in un’espressione dispiaciuta e,
forse, fu proprio nell’accorgersene che Momo si rese conto di aver esagerato.
Abbassò lo sguardo di lato,
imbronciandosi.
Cosa gli aveva fatto Jaws?
Assolutamente nulla.
Non era colpa sua se la sue enorme stazza
le ricordava in modo spaventoso quella della figura che aveva tentato di
strangolarla.
“Lo portavi indietro?”
Spalancò gli occhi, tentennando confusa.
Indietro?
Indietro dove?
Forse si riferiva a Betty.
Racimolò quanto più coraggio trovò per
sostenere lo sguardo del gigante che, pur non avendo nulla a che vedere con la
mole del babbo, pareva scrutarla dall’alto con un cipiglio a dir poco
minaccioso.
Annuì. E, per tutte le stelle del
firmamento, quanto le costò non saltare via quando Jaws
si mosse sorpassandola, grugnendo un appena udibile:
“Seguimi.”
Atto
13, scena 7, Arioso delle conoscenze
Trattenni il fiato, spalancando la bocca
alla vista di quello spettacolo maestoso.
Quella dove Jaws
mi aveva portata era una stanza immensa, talmente tanto da poter, ad occhio e
croce, occupare si è no quattro decimi della Moby.
Davanti a me c’era una quantità
esorbitante di libri.
Libri.
Libri.
Libri.
Volumi su volumi che oscillavano in pile
dall’equilibrio precario, oppure, ben riposti su scaffali ben ordinati e
numerati.
Le mie narici percepirono l’odore
polveroso e pungente di carta antica, intorpidendomi la mente di una sensazione
simile all’euforia.
Era straordinario.
Gli occhi mi brillarono emozionati,
portandomi a farmi strada di un paio di passi tra gli scaffali che componevano
quella che, capii in pochi istanti, era la libreria della nave, accessibile, a
giudicare dalle dimensioni, anche al capitano.
Dimenticai di essere stanca e strinsi con
trepidazione il libro di anatomia di Betty.
Non che disprezzassi le letture che
l’infermiera mi affibbiava, ma vedere così tanti testi di dimensione e colore
diversa mi fece salire in petto una curiosità crescente.
Chissà cos’altro avrei trovato sotto
quelle copertine.
Avrei iniziato da quelli più piccoli,
continuando via via con quelli più complicati.
Arch.
Mi bloccai di colpo, sorpresa da quel mio
stesso pensiero che aveva fatto affiorare, spontaneo sulle mie labbra, un
sorriso.
Me le coprii con una mano.
Cos’era quella sensazione? Era come se …
desiderassi che vedesse quel posto.
La sensazione di essere sollevata di
scatto da terra mi strappò quasi un grido, che fortunatamente soffocai appena
in tempo con entrambe le mani.
Mi ritrovai appoggiata su qualcosa di
carnoso e liscio.
Jaws mi aveva poggiato sulla propria clavicola,
facendomi sedere poco sopra le grandi e pesanti spalle della sua armatura,
permettendomi in quel modo di sovrastare ben 3 ripiani colmi di volumi.
Lo guardai perplessa e lui rispose con un
gran sorriso. Era il primo che gli vedevo fare, dacché ero salita sulla nave.
Sorrisi di rimando constatando quanto
facesse tenerezza con quell’espressione. Sembrava proprio un’enorme
orsacchiotto.
Annuii, dando il via ad un pomeriggio
fatto di gesti e continue ricerche di libri interessanti.
Atto
13, scena 8
Marco chiuse il libro con un gesto della
mano, sorridendo di fronte la scena che gli si profilò sotto gli occhi, dall’alto
della sua postazione.
Era solito passare parecchio tempo in quel
posto, ricercando, in completa calma e solitudine, anche grazie la sua capacità
di volare che il Frutto gli conferiva, tomi dimenticati e di cui solo lui
sembravaconoscere l’esistenza. Quel
giorno aveva deciso di farci una capatina, sperando che qualche copertina
impolverata l’avrebbe aiutato a staccare un poco dalla routine in cui era
caduto a seguito della sua rivalità con Ace.
Speranza vana, dato che non appena
incontrava qualche carattere scolpito nero su bianco che contenesse una “M” di
troppo, tornava sempre a strofinarsi gli occhi esasperato, cercando di
cancellare inutilmente il ricordo di un paio di occhietti spaventati dalla sua
stessa presenza.
Accanto a lui, testimoni della sua infruttuosa
ricerca di pace interiore, stavano almeno una dozzina di volumetti di poco
conto, tutti presi ed abbandonati per un altro dopo nemmeno dieci pagine.
L’ultima
spiaggia era stata rifugiarsi sullo scaffale più alto della biblioteca, dove
nemmeno i libri arrivavano più.
Anche quello, purtroppo si era dimostrato
un fiasco completo ed aveva ricominciato ad analizzare uno per volta il
contenuto degli scritti da lui scelti.
Non si sarebbe mai lontanamente immaginato
di vedere Momo e Jaws entrare nella biblioteca e
cominciare a rovistare tra i libri in quel modo.
All’inizio c’era rimasto male, allargando
gli occhi stupito, poi, invece, aveva cominciato ad osservarli attentamente, accorgendosi
che, man mano che una quantità sempre crescente di libri si accumulava tra le
braccia forzute del comandante in terza, l’atteggiamento della Paradisea si
faceva più rilassato nei confronti dell’altro.
Bravo Jaws –
aveva pensato, felice di poter vedere l’espressione rilassata della ragazza,
prima di cogliere un piccolo particolare nel volto di quest’ultima.
Sbuffò, sentendosi immediatamente ricadere
nei sensi di colpi.
Non aveva dormito, anzi, non stavadormendo.
Poi guardò meglio e sorrise.
Non avrebbe passato molto tempo a non
dormire, se le sue palpebre avevano già cominciato ad abbassarsi a quel ritmo.
Ebbe modo di palesare la sua presenza al
fratello solo quando Momo crollò letteralmente sulla spalla dell’altro,
stringendo al petto quello che sembrava rappresentare in copertina una sorta di
isola conica e completamente composta da verde.
Si lasciò ricadere con un colpo di anche
giù dall’altissimo mobile, atterrando con leggerezza per terra.
“È un bene che si sia addormentata.” Disse
avvicinandosi con le mani sui fianchi.
Jaws lo scrutò per un istante di troppo, prima
di voltarsi e grugnire un sommesso:
“Già.”
Marco fece scattare un sopracciglio al’insù:
conosceva Jaws da anni e sapeva riconoscere quando
qualcosa non andava.
“C’è qualcosa che vuoi dirmi?”
Susseguì un momento di silenzio, smorzato
di netto dalla voce roca dell gigante Diamante.
“Sì…” disse guardandolo
nuovamente dritto negli occhi “… datele un po’ di tempo.”
Un sorrisetto tese le labbra del biondo: Jaws sapeva essere veramente protettivo nei confronti di
chi si dimostrava più indifeso.
“Stiamo andando ad Inari Fountain.” Fece presente con un po’ di amaro ad invadergli
la gola “Non credo avremo molto tempo per stare con lei, se papà ha deciso di
farla allenare lì.”
Di nuovo silenzio.
“Non può decidere se non sa chi è.” Fu l’unico
e semplice argomento che Jaws gli presentò, spiazzandolo.
Aveva ragione, doveva ammetterlo.
Si passò una mano tra i capelli a ciuffo,
guardando la ragazza in questione venire poggiata con delicatezza forzata su
uno dei divanetti della biblioteca.
Sapere la propria identità era certamente
importante per Momo, ma lui, ripensando alle lacrime che le aveva visto versare
all’affiorare dei primi ricordi, aveva iniziato a temere il momento in cui la
sua mente avrebbe ritrovato la propria strada.
Si sarebbe allontanata. Lo sentiva.
Sarebbe partita e non sarebbe più tornata, Inari Fountain
o meno.
Questo, aggiunto alla piena coscienza che con
tutta probabilità non l’avrebbe rivista per un tempo indeterminato e
considerevolmente lungo, non appena approdati sull’odiata isola dei Ciliegi
Cicalini,gli faceva crescere l’urgenza di accelerare i tempi, e non era un bene.
Era stato delicato la scorsa sera sul
pennone della nave, più di quanto avrebbe voluto, ma sapeva di non potersi più
permettere di rimanere buono.
Persino Ace, che in quel momento stava
entrando dalla porta della stanza, esprimeva la sua stessa convinzione,
esternandolo in ogni singolo movimento del corpo, tenendo in mano una copia del
giornale mattutino.
Gli occhi color brace di Pugno di Fuoco
indugiarono un attimo sulla ragazza rannicchiata lì accanto, sciogliendosi poi
in un sorrisone malandrino che però non nascondeva perfettamente un certo
disappunto.
“Ma come? Mi assento un attimo e già vi
ritrovo a fare qualcosa di sconveniente alla mia ragaz-?”
l’occhiataccia che gli rifilarono gli altri due lo zittirono all’istante.
“Ok, tregua, ma solo per oggi.” Ammorbidì la
situazione aggiustandosi con fare nervoso il cappello, sbuffando contrariato.
“Qualche notizia interessante?” cambiò
argomento Marco, scoccando un’occhiata eloquente al giornale arrotolato nelle
mani del fratello.
Questo lo srotolò con espressione
dubbiosa.
“Due nuove taglie in prima pagina.” Sintetizzò
il comandante della seconda flotta tirando fuori dalle pagine del
quotidianoi due avvisi di cattura
allegati, passandoli agli altri due, mentre leggeva con fare assorto l’articolo.
“Sono stati avvistati poco lontano dalla Red Line, in prossimità dell’arcipelago Sabaody.
Catalogati dannosi per la popolazione civile a causa di episodi di violenza gratuita
in ben 5 isole della Grande Rotta che hanno avuto la sfortuna di ospitarli. Il
sindaco dell’ultima di queste, il signor IgnatiusCrowder di Mercurian Island, ha dichiarato:
<<
Hanno assalito senza alcun motivo quattro dei nostri concittadini! Senza alcuna
ragione! Due di loro sono finiti in ospedale pugnalati a tradimento e uno con
ben 20 ossa fratturate! Hanno distrutto l’unica locanda del paese e poi se la
sono data a gambe levate!>>”
Marco fischiò ammirato di fronte la
descrizione che il sindaco dell’isola aveva fornito, ben sapendo che qualcosa nella
dichiarazione doveva essere stato per forza ingigantito più del dovuto.
“I due fuggitivi…” continuò Ace “… una
coppia di ragazzi, di cui ci è stato possibile rintracciare i nomi,con un
bambino appresso, si sono diretti, secondo le varie testimonianze, suuna barca a vela estremamente veloce in
direzione Est, probabilmente verso la Red Line. La
Marina non rilascia dichiarazioni in proposito, ma sembra aver già disposto per
la loro immediata cattura. In allegato le taglie dei due delinquenti (l’immagine
del bambino non ci è stata pervenuta). Qualsiasi informazione alla redazione
del giornale sarà più che benvenuta. ”
“Insomma
hanno fatto un bel po’ di casino.” Riassunse Jaws
lanciando un’occhiata alle due taglie.
La prima immagine rappresentava un ragazzo
snello e dai lineamenti talmente delicati e femminei da risultare quasi
androgini. La posizione in cui era stato fotografato, di profilo con il resto
del corpo teso nell’atto di voltarsi dalla parte opposta dell’obbiettivo,
mentre si faceva strada con due pugnali bloccati tra due dita in mezzo ad un
putiferio fatto di schegge e energumeni con le gambe all’aria, gli aveva
bloccato i capelli biondi e lisci scompigliati a mezz’aria e l’occhio azzurro
in un’espressione contratta da uno sforzo incoerente, vista la facilità con la
quale aveva appena messo fuori uso i suoi avversari. A parte il vestiario,
composto essenzialmente da una camicia bianca, un gilet sbottonato ed un paio
di pantaloni, niente sembrava essere degno di nota.
Sotto l’immancabile dispaccio da ricercato
“DEAD or ALIVE”
faceva la sua bella figura il titolo:
ARCH
Angelo Infido
14.000.000
L’altra taglia, incredibilmente, ritraeva
una ragazza. Una bellezza, avrebbe aggiunto Ace, con una lunga chioma di
capelli ondulati, talmente chiari dal risultare quasi bianchi, e occhi color
nocciola, in quel momento assottigliati dallo sforzo che stava facendo per
sollevare sopra la propria testa nientemeno che una credenza in legno massiccio.
Una credenza!
“Tostissima la tipa.” Si sentì in dovere
di dire il moro.
“Pericolosa.” Aggiunse Marco immaginandosi
di doversi ritrovare alle prese on una donna in grado di un gesto simile.
Fenice o meno, venire colpito da una cosa del genere faceva comunque male! In
quel momento capiva la parte del “20 ossa rotte” che era apparsa nell’articolo.
Sotto tale foto, che la ritraeva con un copri
spalle bianco, un corpetto, forse troppo stretto per la misura del proprio
decolté, ed un pareo sgualcito, torreggiava il suo nuovo appellativo:
VIOLA
La Sollevapesi
25.000.000
“Appropriato.” Bofonchiò Jaws con le mani conserte al petto.
“Le taglie sono basse.” Ammise Marco
guardando ancora un po’ la foto della Sollevapesi . C’era
qualcosa di familiare …
“Secondo me faranno strada.” Si intromise
entusiasta Ace, afferrando a tradimento dalle dita di Marco la taglia della
ragazza.
“Specialmente lei.” Continuò indicandola
con il dito indice “Si vede che ha grinta da vendere.”
Marco si ritrovò tra le mani il giornale,
rileggendo la parte che indicava la loro rotta.
Sabaody…
Anche loro sarebbero passati da quelle
parti.
“Dite che gli incroceremo?” chiese Ace
ripiegando le due taglie, pronte per essere mostrate al resto della ciurma.
“Chissà.” Concluse la Fenice continuando a
rimuginare sulla sottile familiarità che il volto della Sollevapesi
gli aveva comunicato.
Ebbe un colpo di genio improvviso e si
voltò di scatto verso Momo, ancora addormentata.
Incredibile.
“Ace! Passami le taglie!”
Fine Atto Tredicesimo.
Sempre siano lodate le vacanze
natalizie, il PC e tutte quelle piccole grandi cose che mi permettono di
scrivere, seppur in ritardo. Donneee!!! Sono tornata!
Lo so, vi faccio sempre venire degli infarti e mi dispiace! Come promesso ecco
alcuni risvolti interessanti! Ihihi!
E come ancora promesso si continuano
le domande che creano la nostra piccola grande opera!!
1)Chi sceglierà Momo? Marco o Ace? [second round!XD]
2)Arch
e Viola arriveranno a Sabaody prima, con o dopo la
ciurma del Bianco? Se sì immaginatevi cosa succederebbe!
Popolo!
Si vota!
Vado a
nanna che è mezzanotte! Kisskis ragazze! Baciooooniiiii!!
Nota:
Non uccidetemi! Questo special non è la continuazione
della storia, ma una sorta di Spin-off!! Un piccolo tributo a chi attende il
nuovo capitolo! Auguri a tutti! E grazie per le splendide recensioni!
La piccola paradisea si sfregò il nasino
arrossato con un dito, guardando di sottecchi Ace che, non appena sentito il
suo flebile lamento, si era sporto in avanti oltre lo schienale della poltrona
dove si era seduta a leggere un libro. Ilsorrise del comandante della seconda flotta la sovrastò, facendole
immergere ancora di più il viso tra le pagine che, in quel momento, le venivano
molto utili per nascondere il lieve rossore che l’imbarazzo l’aveva colta nel
vedersi sorprendere così dall’altro.
“Non ti avevo mai sentito starnutire
prima.” Continuò l’altro poggiandosi il viso su una mano, mentre accennava con
uno sguardo alle fiamme che le ricoprivano testa e braccia.
“Non ti starai ammalando spero.”
“Ma no…” lo rassicurò lei, strofinandosi ancora una volta
il naso “… sarà l’umidità.” Ipotizzò,
cercando di tornare alla propria lettura. Nella biblioteca però non c’erano
spifferi o altre cose che potessero in qualche modo nuocere ai libri.
Strano…
Dietro di lei il moro sorrise ancora di
più, per poi sbuffare teatralmente.
“Eeeh, peccato.”
Disse con fare amareggiato, sporgendosi poi con scatto felino più vicino a un
orecchio della Paradisea.
Il sussurro che arrivò la fece tremare da
capo a piedi.
“Avrei potuto riscaldarti io, sai?”
“NO!”
Il libro che stava leggendo Momo risultò
parecchio duro per la faccia di Ace, colto completamente alla sprovvista.
“Insomma
Ace! Sto cercando di leggere!” lo rimproverò l’altra riprendendosi il libro
e stringendoselo al petto, saltando per sicurezza di un paio di metri di
distanza.
Il comandante si massaggiò la parte
colpita, un poco ferito nell’orgoglio.
Non aveva fortuna con le ragazze, ma
cascasse il mondo non avrebbe mollato per così poco!
“Ehi! Io mi stavo solo preoccupando per
te!” protestò tornando ad appoggiarsi stancamente sullo schienale della
poltrona rossa della biblioteca.
A rispondergli fu un’occhiataccia
particolarmente profonda dell’altra.
“Sì,
certo.” Fece poco convinta.
“Come vuoi.” Rispose Ace facendo finta di
nulla, impossessandosi con un balzo del posto poco prima occupato dalla
ragazza.
“Aaah! Grazie
per avermi riscaldato il posto.” Ridacchiò accoccolandosi meglio tra il velluto
del morbido sedile.
Momo avvampò di rabbia e di vergogna.
“SCEMO!”
L’urlo fu enfatizzato da un libricino
lanciato dritto in mezzo alla fronte del comandante in questione.
“Cavoli che dolore.” Si lamentò il ragazzo
massaggiandosi l’enorme bernoccolo che in quel momento gli ornava la testa,
facendo quasi cadere a terra dalle risate gli altri tre.
Sul ponte della Moby erano fatte rimanere
accese le lanterne, appese agli alberi con un paio di candele chiuse al loro
interno. I pochi che ancora passeggiavano sulla nave, all’ombra delle enormi
vele ammainate, si erano premuniti di sciarpe, proteggendosi dal freddo secco
che aveva circondato come una nebbia limpida la ciurma dei pirati di Barbabianca.
Nell’aria si respirava aria di festa,
grazie ai brusii e le risate appena udibili provenienti dalla mensa, dove chi
più chi meno stava festeggiando con qualche boccale di troppo.
Tutti quanti sapevano il motivo di quel
buonumore, preludio di una veglia lunga come la notte stessa.
E come dimenticarlo?
In fondo era la vigilia di Natale.
“Ridete, ridete, pure.” Bofonchiò
Ace,facendo il mezzo offeso, scrutando
il ponte quasi deserto della nave, cercando una persona in particolare.
“E Marco?”
I fischiettii tutt’altro che innocenti di Satch e la risatina di Vista lo fecero saltare subito giù
dalla propria postazione, per poi dirigerlo alla ricerca della Fenice e la
Paradisea,non prima però di aver detto
un’ultima frase:
“Ma voi da che parte state?!”
Momo si guardò intorno, sporgendosi con
fare guardingo dallo stipite della porta che accedeva alla biblioteca.
Assicuratasi che non ci fosse nessuno a
parte lei, sospirò, partendo alla ricerca del libro che aveva lanciato ad Ace
prima di scappare via, evitando così di mandarlo a fuoco in seguito al suo
scatto d’ira, tenendolo in mano.
“Vediamo…” mormorò cominciando a rovistare attorno alla
poltrona dove era avvenuto il lancio del libro.
Ci teneva a quel volumetto, aveva deciso
di fare una sorpresa a tutti sulla nave, visto che era la prima volta che
passavano la notte in bianco come lei.
“Etcì!” starnutì improvvisamente sentendosi pizzicare il
naso.
“Salute.”
Alla voce improvvisa scattò all’insù con
la testa, scontrando purtroppo il duro sottofondo in legno della poltrona sotto
la quale si era infilata a gattoni, sperando di trovare l’oggetto della propria
ricerca.
“Ahiaiai.” Sussurrò uscendo allo scoperto massaggiandosi la
testa, certa che presto o tardi nel punto offeso si sarebbe gonfiato un bel
bernoccolo.
“Marco.”
Sussurrò in tono di rimprovero non appena, aprendo un occhietto, riuscì a
focalizzare la persona che, seduta comodamente sulla poltrona con un braccio sullo
schienale, teneva in mano quello che stranamente somigliava al libretto che
stava cercando.
“Lettere
di dieci vite?” lesse il titolo con un poco di stupore il biondo,
vedendosi però strappare via di mano con uno scatto improvviso il volumetto da
una Momo imbarazzata fino alla punta dei capelli fiammeggianti.
La ragazza non appena appropriatasi del
libro, si girò di scatto tenendoselo in petto, tremando come una foglia : c’era
mancato poco che scoprisse tutto.
Accidenti a lei e i suoi scatti d’ira!
“Grazie per averlo trovato.. etcì!” esplose ancora una volta in un piccolo starnuto. Ma
come era possibile che adesso di punto in bianco starnutisse continuamente?!
Uno spostamento d’aria le fece capire che
Marco le si era accostato da dietro. E la mano che le tirò indietro la testa,
tastandole la fronte, le fece intuire di quanto si fosse avvicinato.
“Oi, stai bene?”
chiese incrociando i suoi occhi cristallini con quelli di lei.
“Benissimo!”
sbottò la paradisea sgusciando in fretta dalla presa dell’altro scomparendo
così in poco tempo dalla sua vista.
Il comandante della prima flotta rimase
così, in mezzo alla sala con la mano ancora sospesa a mezz’aria. Aveva proprio
ragione Ace, quella ragazza era un’esperta nelle fughe.
La mente gli tornò al libricino che le
aveva suo malgrado restituito.
Lettere di dieci vite…
Anche lui una volta aveva avuto occasione
di leggerlo e doveva dire che era un po’ strana come scelta.
Sorrise, partendo alla ricerca di qualcosa
per ravvivare un po’ la sera e che, se ricordava bene, Betty aveva sistemato
proprio da quelle parti.
Su
un’isola poco lontana…
“ETCÌÌÌÌ!!!!”
“La delicatezza non è mai stata il tuo
forte, Viola.” Sussurrò Arch, evitando accuratamente
lo sguardo furente che gli lanciò l’altra, nascondendo il viso nell’atto di
sorseggiare il caffè che si era fatto portare.
“Sta’
zitto, vermiciattolo a due zampe…” ringhiò con
voce nasale la ragazza, coprendosi il naso con una mano.
“Merda, ma perché non riesco a smettere?!”
Avevano avuto fortuna quella volta: erano
riusciti ad entrare in una locanda senza essere assaliti da cacciatori di
taglie, Morgan aveva già chiesto al padrone di prenotare due camere a loro
carico e non c’erano ancora stati episodi di molestie nei confronti di Viola.
Un gran bel passo avanti davvero. Per una volta Arch
si sentì positivo in proposito.
Forse avrebbero dormito al caldo quella
notte.
Però era strano…
Si guardò attorno, chiedendosi come mai
dacché erano entrati nessuno era sembrato dare peso alla loro presenza. La
gente attorno a loro si ubriacava, strepitava, scherzava, com’era da prassi,
insomma, eppure c’era qualcosa di diverso.
L’atmosfera non era la stessa…
Proprio in quel momento arrivò
trotterellando Morgan, tenendo tra le mani un volantino di pergamenta
ricamato con disegni di inchiostro rosso e verde ai bordi
“Signor Arch!
Signorina Viola!” urlò felice il bambino orientale, poggiando il pezzo di carta
sul tavolo con entusiasmo.
“Oggi è la Vigilia di Natale!” annunciò
con un sorrisone il bambino, aspettandosi chissà che cosa dagli altri due.
“La Vigi-che?” disse Viola, ancora presa dallo
strofinarsi il naso
“Che cosa sarebbe?” chiese un po’ più
educatamente il biondo, non riuscendo comunque ad evitare che un’espressione di
pura delusione si delineasse sul viso del bambino.
“Ma come? N-non
sapete c-cos’è il Natale?” balbettò in preda alla
confusione Morgan, ricevendo però dei cenni di dissenso dagli altri due.
“Oh…” fece un
po’ dispiaciuto per loro. Il Natale era la cosa più bella che avesse mai avuto
la possibilità di provare, quando ancora la sua mamma non l’aveva mandato via,
e sapere che i suoi due amici non l’avevano vissuta neppure una volta quella
stupenda esperienza un po’ lo rendeva triste.
“È una festa!” Esclamò alla fine, allargando
il viso in un altro sorriso, pronto a dare le dovute spiegazioni.
“Cade solo una volta all’anno! Si sta
svegli fino a tardi e la gente si scambia dei regali che si possono aprire solo
la mattina seguente!”
Arch e Viola rimasero un attimo in silenzio, guardandosi
poi attorno.
“Ah…” disse il
biondo capendo solo in quel momento il motivo di tutta quella baldoria. “Adesso
capisco.”
“Si canta e si balla anche..?” chiese in
un istante Viola, sporgendosi con fare stranamente interessato verso Morgan.
“Bhe.. sì.”
A quella risposta Viola ridacchiò maligna,
lanciando un’occhiatina di sottecchi al biondo accanto a lei, ancora occupato
ad osservare la baraonda della locanda.
“Allora non è una festa per Arch. Lui è pessimo nel canto.” Disse accentuando in
maniera quasi sconveniente la terza parola.
Morgan fu tentato di dire a Viola che i
maschi non cantavano molto spesso a Natale, o almeno era quello che gli aveva
detto sua madre, prima di vedere accostarsi al tavolo una ragazza più meno
della loro stessa età, con dei bei boccoli color rame nascosti sotto un
berretto rosso e bianco ed un vestitino talmente succinto e corto da sembrare
un corpetto.
Il bambino a quella vista abbassò lo
sguardo, vergognandosi da morire.
“Ehi bel viaggiatore…”
sussurrò con fare seducente quella, chinandosi quel tanto che serviva per
mettere il proprio seno giusto sotto il naso di Arch,
facendo storcere di non poco il naso di Viola.
Non credeva affatto fosse una casualità
quel gesto.
Bleah!
“Ti va di farmi compagnia?” chiese ancora
un po’ provocante la nuova arrivata, aspettandosi una risposta affermativa.
“Spiacente.” Le rispose il biondo,
stranamente senza alcun segno visibile di imbarazzo o di emozione alcuna “…, ma
non ho alcun interesse nella tua compagnia.”
A quella risposta la fanciulla si drizzò,
soffiando come una vipera, girando i tacchi a spillo ed allontanandosi dal loro
tavolo.
Dopo un attimo di silenzio, la risata
malevola di Viola tornò a farsi sentire.
“Capisciperché non hai mai avuto successo con le
ragazze, Arch?”
Il biondo sembrò non fare caso a quella
battutina, tornando a sorseggiare il proprio caffè.
“Non capisco a cosa tu ti riferisca.”
L’argentata grugnì, scalciando un’occhiata
verso l’alto per poi girarsi da una parte.
Notò lontano dal loro tavolo un ragazzo
abbastanza carino lanciarle un occhiolino significativo.
Lei rispose cacciando fuori la lingua con
disgusto, smontandolo in un secondo.
Morgan non sapeva con che tipo di
individui fosse capitato, ma una cosa era certa: sarebbe stato un Natale
difficile da dimenticare.
Sulla
Red Force…
“BALDORIA!!” echeggiò in alto nel cielo
imbrunito il consueto urlo di battaglia del capitano dalle tre cicatrici,
mentre centinaia di mani sue amiche alzavano simultaneamente al suo altrettanti
boccali traboccanti di ogni tipo di liquore.
Non ce n’era uno che non ridesse sulla
nave dalla polena a forma di drago, assefatto
dell’inebriante effetto dell’alchol.
Bhe… forse uno sì.
“Monsteeer…!!”
gracchiò la testa pelata di Foras, soffocando i
propri singhiozzi con una consistente sorsata di ruhm.
Attorno a lui gli altri guardavano la
scena preoccupati: era raro che il loro domatore di bestie esagerasse con gli
alcolici, ma d’altronde era una cosa comprensibile.
Lui e Monster
erano sempre stati inseparabili e per quel pezzo di burro, capace di spaccare
in due delle ossa umane come un fruscello, doveva
essere stato proprio un duro colpo vedersi allontanare l’amico primate di
miglia e miglia di distanza.
Vero che lo stavano andando a recuperare,
ma il pensiero facevo comunque male.
“Coraggio Foras!
Non ti abbattere!” intervenne in mezzo al ponte la figura barcollante, ma
sempre giuliva del capitano Rosso, assestando sue sonore pacche sulla schiena
al povero domatore che, alzando leggermente gli occhi lacrimanti, tirò di un
paio di volte su col naso.
“Siamo a Natale! Un po’ di buon’umore su!”
lo incitò ancora una volta l’altro con un sorriso da birbante ubriaco come una
spugna imbevuta nel sakè.
“A Monster!”
tirò su il primo calice che trovò, lasciando di stucco tutta la ciurma. Ben tirò
su una boccata dalla sua sigaretta, nascondendo un sorrisetto: quel balengo … riusciva sempre ad uscirsene
con le cose più imprevedibili.
Un’ondata di calici alzati tornò ad
ondeggiare sulle teste di tutti, seguiti da altrettanti auguri diretti al compagno
peloso:
“Che si sia trovato una scimmietta sulla
nave del Bianco”
“E che se la stia spassando quel
birbante!”
“Che stia facendo fuori tutte le scorte
del vecchio Newgate!”
“E che stia facendo dannare mezza ciurma!”
Il rosso rise di gusto, notando con la
coda dell’occhio un sorriso riaffiorare sull’enorme bocca dell’amico.
Eeeh, lo conoscevano proprio bene il loro Monster.
“A Monster!”
ribadì la voce di Foras “E che passi uno splendido
Natale!”
“A MONSTER!!”
Sulla Moby Dick…
“Ho detto di nooooooo!!!”
si impuntò l’infermiera rossa aggrappandosi come una disperata allo stipite
dell’infermeria, lottando con tutte le proprie forze contro le due avversarie
che in quel momento la tiravano all’indietro, decise come non mai a
coinvolgerla nei loro piani.
“Ti
prego Carol! Tipregoripregotiprego!” ripeté Momo
per la quarta di volta di seguito, bloccandole a terra una gamba, impedendole
così di avanzare.
A farle da manforte c’era Penelope,
angelica e fresca come sempre anche se tutta occupata a trattenere per le
spalle la collega.
“Andiamo, in fondo cosa ti costa?” chiese
con leggerezza la bionda, facendo scattare stizzita la testa dell’altra in sua
direzione
“Mi costa il lavoro Penelope!”
“Ma
hai detto di averlo già fatto in passato!” protestò dal basso la Paradisea,
ricevendo lo stesso sguardo acido che Penelope aveva subito.
“È stato tanto tempo fa! E poi come
pretendi che lo faccia in un momento come questo??!! Sono occupatissima!Il
turno di oggi è mio! Devo rimettere a posto l’infermeria! Riordinare gli esami
del capitano! Fare l’inventario! Mi dici dove lo trovo il tempo di --?!”
“Ti sostituisco io.”
La rossa guardò Penelope con occhi
stralunati, sbattendo le palpebre un paio di volte, aspettandosi da un momento
all’altro di vederla scomparire come una bolla di sapone.
“C-come..?”
“Sono abituata a fare questo genere di
cose e poi Betty non si arrabbierà per così poco.” Continuò serena come sempre
la bionda, lasciandole finalmente le spalle.
“M-ma..”
“Su su.” Le incitò l’altra sfilando dalle
dita della collega la cartella clinica che teneva in mano ed entrando
finalmente nella sala “Andate o non farete in tempo.”
Fu tutto quello che ottennero le due prima
di vedere la porta in legno dello studio chiudersi di fronte ai propri occhi.
Momo e Carol si guardarono, incerte sul da
farsi.
Poi la rossa si accigliò sfilando con uno
strattone la gamba dalla presa dell’altra, facendola finire inevitabilmente a
faccia a terra.
“Ahi.”
Si lamentò Momo, alzando la testa appena in tempo per vedere l’infermiera
dirigersi a falcate decise lungo il corridoio, costringendola a rialzarsi e
seguirla con un balzo.
“Io suono e basta, capito?” fu la
raccomandazione che le fece Carol primadi aprire una delle tante porte della nave, rivelandole una delle tante
stanze che non aveva ancora avuto modo di conoscere.
Sulle labbra di Momo si delineò un
sorriso, mentre al petto si stringeva ancora una volta il libro che aveva preso
dalla biblioteca.
Sì, sarebbe stato indimenticabile.
“Che stai facendo?”
Marco alzò lo sguardo incontrando il viso
lentigginoso del fratello, intento ad osservarlo dall’alto di uno scaffale.
Preso con le mani nel sacco – si disse un
poco indispettito il biondo, cercando di nascondere alla bene e meglio quello
che aveva appena preso dalla cassa posta in un angolo della libreria, tenendolo
nella mano destra.
Sfortunatamente però Ace fu più veloce,
inclinando la testa quel tanto che bastava per capire da solo di cosa si
trattasse
“Quello è vischio?” chiese alzando un
sopracciglio, facendo quasi imprecare ad alta voce la Fenice che, a quel punto
si era già arreso all’evidenza: il suo piano era appena andato a farsi benedire
da Gol D. Roger in persona.
“Esatto.” Si limitò a dire estraendo da
dietro la schiena il ramoscelloappiccicoso e dalle bacche bianche, mostrandolo al moro.
“E che ci dovevi fare? Avvelenare
qualcuno?” chiese Ace, facendo volutamente la parte del tonto.
Di rimando l’espressione già abbastanza
seria di Marco si accigliò ancora di più, scoccandogli un’occhiataccia capace
di gelare il sangue a chiunque, tranne a lui.
Era pur sempre fatto di fuoco..
“In effetti ci sarebbe qualcuno…”
sussurrò con fare pericoloso ed allusivo. Stavolta il moro deglutì e cominciò a
sudare freddo: non stava mica dicendo sul serio vero? Vero?!
“Scemo.” Sbottò improvvisamente il biondo
ridacchiando vittorioso, voltandosi da una parte ed allontanandosi come se
nulla fosse, lasciandolo lì come un fesso.
“Ma che-?! Ehi!” protestò vedendolo
perdersi oltre la soglia della biblioteca.
“Al diavolo.” Bofonchiò poi aggiustandosi
il cappello.
L’occhio li cadde automaticamente sulla
cassa piena di Vischio lasciata aperta dallo stesso reparto infermieristico.
Sorrisemalandrino, agguantandone uno e fiondandosi fuori dalla stanza.
Non si sarebbe fatto superare in quel
modo.
“Ancora una volta?” chiese Carol,
stranamente seria per come aveva reagito inizialmente alla proposta della
paradisea.
“Sì.”
Annuì Momo, prendendo fiato, ma non fece in tempo a fare altro poiché l’aria le
si bloccò in gola facendole uscire l’ennesimo starnuto della serata.
“Ma ti stai ammalando?” chiese incredula
la rossa, inarcando entrambe le sopracciglia per lo stupore.
“Sniff. No no. Sto bene.” La rassicurò lei, ma subito la mano
dell’altra se si poggiò sulla fronte misurandole la temperature.
“Senti febbre? Dolori muscolari? Mal di
testa?” Elencò con velocità sorprendente l’altra, lasciandola quasi senza
parole. Quasi si aspettò che comparisse dal nulla un termometro.
“N-no!” rispose
balbettante “… mi prude solo il naso!
Tutto qui!”
Un lumino di consapevolezza passò negli
occhi dell’infermiera.
Tuttavia le spiegazioni furono interrotte
sul nascere da un rumore proveniente dall’esterno della loro stanza, che si
trasformò nel fischio scricchiolante della porta, aperta da nientemeno che Ace
Pugno di Fuoco.
“Ah, eccovi qui.” Disse piacevolmente
sorpreso, avvicinandosi a loro “Penelope mi aveva detto che bazzicavate da
queste parti, ma non pensavo di trovarvi qui dentro.” Disse guardandosi attorno
per un attimo.
Momo per un attimo sentì il cuore mancarle
di un battito. Oh cielo. E adesso che gli raccontava?!
“Allora? Che state combinando?” chiese con
il solito sorriso sghembo di cui andava tanto fiero.
“E-e-e-ecco, i-io,
cioè, n-noi…” balbettò agitatissima, gesticolando
inconsciamente con le mani in avanti.
“Momo mi ha chiesto di aiutarla a capire
che cosa le provocava allergia.”
Entrambi si voltarono simultaneamente
verso Carol.
“Allergia?” fece Ace, non capendo.
“Etcì!” su la
risposta automatica che la ragazza diede di getto.
“Allergia, sì.” Confermò la rossa
incrociando le braccia al petto con fare solenne.
“Nella sala Musica?”
“Differenziare. Comandante Ace.
Differenziare.” Disse solo Carol, dirigendosi verso l’uscita, seguita da Momo,
piuttosto sollevata da come si era risolta la situazione.
La ragazza però non fece in tempo ad
oltrepassare la soglia che un braccio infuocato apparve dal nulla, bloccandole
la strada.
“Un momento!” disse sorridendo furbesco
quello, indicando di colpo qualcosa verso l’alto.
Momo si stupì nel vedere appesa sopra la
portaun ramoscello con delle strane
bacche bianche, a suo parere tutt’altro che invitanti.
“Cos’è quello?”
“Ma come?” chiese incredulo il moro “Non
sai cos’è il vischio?”
Ace saltò quasi di gioia nel vedere il
visino di Momo accennare ad un diniego.
“È una tradizione di Natale.” Spiegò il
furbetto, avvicinandosi di qualche centimetro al viso dell’altra, che finì per
inclinare all’indietro la testa, cominciando a temere il peggio.
“Chi passa sotto il vischio si deve baciare.”
“Eh?”
Per un secondo le sembrò di riuscire a
contare tutte le lentiggini sul viso di Ace.
Poi un forte pizzico le invase il naso.
“Etcì! Ahia-!”
cacciò in avanti la testa scontrando inevitabilmente la fronte del comandante
in seconda.
“Cazz-!!” sbottò
il moro prendendosi la fronte tra le mani. Non era possibile! Aveva centrato
perfettamente il punto dove l’aveva colpito con il libro!
Vedendolo rannicchiarsi per terra per il
fronte dolore, dopo essersi a sua volta ripresa dalla fitta che la collisione le
aveva provocato, Momo si paralizzò, temendo il peggio.
“Scusa
Ace! Mi dispiace! Ti ho fatto male?” chiese chinandosi accanto a lui, che,
accennando un sorriso sghembo, fece del suo meglio per rassicurarla.
“Sto bene. Sto bene. Ho avuto momenti
peggiori.”
“Scusa.”
Si rannicchiò nelle proprie spalle mortificata la piccola.
Ace stava giusto per dirle qualcos’altro
di rassicurante, ma si ritrovò con le mani di lei ai lati del proprio viso e un
sensazione di dolce bruciore sulla fronte.
Non riuscì a scuotersi neanche quando la
ragazza fu partita a razzo dalla porta, lasciandogli detto un “Bacio dato! E stai attento a non farti male
un’altra volta!”.
L’unica cosa che poteva sentire era che quel
bruciore sulla fronte era rimasto, consumando a poco a poco il dolore di prima,
e lui non poté fare a meno di pensare che si sarebbe dovuto far male più
spesso, se significava essere curato in quel modo da Momo tutte le volte.
Nei loro viaggi la ciurma di Edward Newgate ne avevano viste di cose che riuscissero a farli
intenerire, ma… cascasse la polena della Moby, nulla
gli avrebbe convinti che la piccola Momo non rientrasse tra quelle.
“Guardate come si sbraccia!” disse Satch, ridacchiando alla vista dello scricciolo che, dal
centro del ponte, saltellava e gesticolava con le mani per attirare
l’attenzione di tutti.
“Ehi
ascoltate! Devo dirvi una cosa! Dai smettetela di ridere! È una cosa
importante! Ehi! Smettila di bere un secondo!!” esclamava di continuo la
piccola, riuscendo comunque, rivolgendosi ovunque, ad attirare l’attenzione dei
propri fratelli.
Non appena ebbe conquistato l’interesse
generale poté finalmente permettersi di riprendere fiato, mettendosi a piedi
per terra.
“Io
e Carol..”
E qui ci fu una piccola e lontana
parentesi da parte della rossa:
“Avevi detto che non mi includevi, piccola
bugiarda!”
Momo le scoccò da lontano una linguaccia,
provocando una piccola ondata di risate.
“Dicevo… io e Carol,
abbiamo organizzato una sorpresa nella Sala Musica. Potreste…
insomma, venite tutti perché altrimenti salta tutto!” concluse scattando in
un istante in direzione della sottocoperta, coprendosi il volto con le mani per
evitare che tutti notassero il rossore diffuso sul suo viso.
“Andiamo.” Disse all’improvviso Marco,
atterrando dall’alto dell’albero maestro con le mani sui fianchi , incitando
gli altri a seguire il suo esempio con un sorriso scanzonato.
“Sono
calma sono calma sono calmaaa…”
“Smettila! Mi dai il nervoso!” le ordinò
Carol mettendosi comoda sul seggiolino e lisciandosi il vestito rigorosamente
rosso che aveva tenuto tempo addietro per l’occasione.
Momo le rispose con un’occhiata degna un
cucciolo bastonato.
“Ma
io..”
A quel punto la rossa sbottò, sbattendo le
mani provocando un suono assolutamente sgraziato e disarmonico.
A volte quella donna le ricordava qualcuno…
“Insomma, io non ti capisco! Canti sera
alla mattina! Che ti prende?!”
“P-panico da
palcoscenico?” balbettò l’altra attorcigliandosi nervosamente l’orlo
dell’abitino azzurro che le era stato confezionato a tempo di record. Lei non
l’avrebbe mai notato che, a sua insaputa, in un angolo del vestito era stata
cucita un’etichetta con una faccina stilizzata in pieno atto di fare il segno
della vittoria con accanto due semplici e significative parole: MindyRulez!
Carol sbuffò, tornando suo malgrado al
proprio posto.
Non l’avrebbe mai capita quella ragazza.
“Ok, si comincia.”
La Sala Musica della Moby non era mai
stata affollata come in quel momento.
Era stata studiata e progettata in modo
tale che potesse contenere tutta la ciurma in una volta, e questo aveva portato
il carpentiere a farle occupare un intero ponte della nave. Chiunque entrato
sarebbe rimasto sbalordito dalla delicatezza dell’arredamento e delle colonne
in legno scuro che circoscrivevano l’enorme palco che stava al delimitare della
stanza.
Nulla era stato lasciato al caso in quella
sala, ogni singolo drappo, colore o luce era stato scelto e posto in modo tale da
migliorare il più possibile la resa dell’acustica e della visione del
palcoscenico.
La marina certamente se la sognava una
cosa simile e se si fosse aggiunto che era stata anche aggiunta, incavata nel
pavimento, la postazione per l’orchestra, si sarebbero come minimo mangiati le
mani.
“Ehi, ho saputo.” Disse Ace arrivando
dietro gli altri cinque comandanti “Un gran bel pubblico, neh?” aggiunse
guardandosi attorno. A occhio e croce non ne mancava uno della ciurma, persino
il babbo si era presentato, sovrastando l’enorme sala dall’alto della propria
statura.
Era venuti tutti quanti per la sorpresa di
Momo.
Marco però non faceva che continuare ad
osservare con fare avido il palco, aspettando da un momneto
all’altro l’inizio dello spettacolo.
Gli venne quasi da sorridere capendo solo
in quel momento il perché del libro “Lettere di dieci vite”.
Sarebbe stato indimenticabile.
Le luci alle pareti laterali fino ad
allora accese, si abbassarono di colpo e il sipario color ebano si allargò.
Marco ci scommise dieci delle proprie
piume che dietro tutta quell’efficienza c’era l’intero reparto infermieristico.
La sala piombò nel silenzio all’apparire
di Momo proprio al centro del palco, a mani congiunte in grembo con lo sguardo
un poco spaurito ed un vestitino azzurro senza maniche lungo fino alle
ginocchia.
La paradisea, rimase un po’ in quella
posizione, sospirando poi per darsi coraggio e poi procedere come dovuto.
“Grazie
a tutti per essere venuti.” Iniziò, provocando una serie di esclamazioni di
sostegno che la fecero sorridere confortata.
“Oggi
è un giorno speciale per tutti voi…” continuò
facendo ammutolire di nuovo tutti “E
anche se questo genere di tradizioni non mi è … come dire … proprio familiare…”
Qualcuno ridacchiò, facendola arrossire un
poco.
“Mi
sono resa conto che per voi questo è un giorno importante, quindi…bhe… volevo rendere significativa la mia
partecipazione, essendo comunque l’ultima arrivata. ”
Le sue fiamme ormai erano diventate
talmente limpide da accentuarle ancora di più il rossore del proprio viso,
mandando in visibilio praticamente mezza ciurma che iniziò a fischiare di
ammirazione.
Inutile dire che tra questi ci fosse anche
Ace.
“Questo…bhe… questo è il mio regalo di Natale, spero che vi
piaccia!” concluse, girandosi con le mani al viso e correndo verso Carol che,
seduta al pianoforte, le diede qualche pacchetta sulle spalla, dicendole di
calmarsi.
Non appena tutto si fu risolto, la
paradisea tornò in avanti, e prendendo un respiro profondo, diede il via a
Carol.
Un suono leggero e morbido di corde
vibranti invase l’aria, lasciando spazio dopo un paio di battute alla voce
calda della paradisea.
“HaikeikonotegamiyondeiruanatawaDear
you, who's reading this letter Doko de naniwoshiteiru no darouI
wonder where are you and what are you
doing
now
Juugo no bokuniwa
dare ni mo hanasenaiFor
me who's 15 years old Nayami no tanegaaru no desuThere are seeds of
worries I can't
tell
anyone Mirai no jibunniatetekakutegaminaraIf
it's a letter addressed to my future self, KittosunaoniuchiakerarerudarouSurely
I can confide truly to myself”
A Marco non
servirono che quelle poche strofe per capire da dove avesse tratto quelle
parole: era l’ultima lettera del “Lettere di dieci vite”. Come molti prima e
dopo di lui, la Fenice abbassò le palpebre, lasciandosi trasportare dall’inizio
fino alla fine da quelle parole cariche di sentimento e significato.
“Imamakesou de nakisou deNow,
it seems that I'm about to be defeated
Kieteshimaisounabokuwaand
cry Dare no kotobawoFor
someone who's seemingly about to
disappear Shinji arukeba
ii no?Whose
words should I believe in? Hitotsushikanaikonomuneganando
mo barabaraThis
one-and-only heart has been broken so
niwaretemany
times Kurushiinaka de imawoikiteiruIn
the midst of this pain, ImawoikiteiruI live the present.
Morgan
guardò con sconforto il cielo bianco di nuvole sopra la propria testa,
indispettito dal fatto che ancora non accennasse a scendere nemmeno un fiocco
di neve. Tra le manine bianche, rosse alle punte a causa del poco freddo che
riusciva a provare, teneva un piccolo pezzo di vischio.
“Ehi marmocchio.”
La voce di
Viola lo fece saltare sull’attenti in un secondo, certo che si sarebbe bene o
male ritrovato con qualche rimprovero a rincorrergli la schiena.
“Che cosa ci fai qui?”
Morgan tornò
ad osservare il cielo pensieroso, sollevato da quel placido procedere della
situazione, indice che non avrebbe dovuto piangere alcuna scusa.
“Aspetto che
nevichi.” Disse semplicemente.
“E sarebbe?”
Non si stupì
più di tanto a quella domanda: dopo un mese di convivenza aveva capito quanto
poco conoscessero, Arch e Viola, delle cose più
comuni.
“È ghiaccio
morbido che scende dal cielo.”
Un
sopracciglio argenteo della paradisea rossa scattò all’insù.
“E ti danni tanto per del ghiaccio?”
chiese sarcastica “Bha, voi maschi umani..”
“Ma a me piace…” si lamentò l’orientale, abbassando nuovamente lo
sguardo sul ramoscello che stringeva tra le mani.
Un paio di
dita affusolate gli sfilarono elegantemente dalle mani la pianticella,
lasciandolo senza parole.
“Da’ qua.”
Fu tutto
quello che udì prima di sentirsi premere qualcosa di morbido sulla fronte.
Due minuti a
mezzanotte.
“Buon natale, marmocchio.”
“Haikeiarigatoujuugo no anataniDear
you, thank you
Tsutaetaikotogaaru no desuI
have something to tell the 15-year-old you Jibun to wanani de doko e mukaubeki kaIf
you continue asking what and where you
should
be going ToitsudzukereebamietekuruYou'll
be able to see the answer
Aretaseishun no umiwakibishiikeredoThe rough seas of youth may be tough Asu no kishibe e to yume no funeyosusumeBut
row your boat of dreams on Towards
the shores of tomorrow Imamakenai de nakanai deNow,
please don't be defeated and please
Kieteshimaisounatokiwadon't
shed a tear Jibun no koewoshinjiarukeba
ii no?During
these times when you're seemingly
about
to disappear Otona no boku mo kizutsuiteJust
believe in your own voice NemurenaiyoruwaarukedoFor
me as an adult, there are sleepless
nights when I'm hurt NigakuteamaiimaikiteiruBut
I'm living the bittersweet present”
“Ehi Shanks…” fece Ben, senza dare molto peso al fatto che il
proprio capitano stesse ormai più di là che di qua con il cervello, pieno
com’era dalla testa ai piedi di almeno tre differenti tipi di alcolici.
“Uhm?”
chiese ciondolando un po’ la testa, stravaccato ai piedi del grande ombrellone
del ponte principale.
“Ti guardi
mai indietro, pensando che magari avresti potuto fare di più?”
Un mugugno
mezzo divertito gli rispose.
“Ogni volta
che mi ci fai pensare, Ben.” Tirò su gli angoli della bocca il rosso
“Ogni volta che
mi ci fai pensare …”
“Jinsei no subeteniimigaarukaraThere's
meaning to everything in life Osorezunianata no yumewosodateteSo
build your dreams without fear
La lala, la lala,
la lala Keep on believing
La lala, la lala,
la lala
Keep on believing, keep on believing, keep on believing
Makesou de nakisou deSeems
like I'm about to be defeated and cry KieteshimaisounabokuwaFor
someone who's seemingly about to
disappear
Dare no kotobawoshinjiarukeba ii no?
Whose words should I believe in? AaMakenai de nakanai dePlease
don't be defeated and please don't
shed
a tear KieteshimaisounatokiwaDuring
these times when you're seemingly
about
to disappear Jibun no koewoshinjiarukeba ii noJust
believe in your own voice Itsu no jidai mo kanashimi moNo
matter era we're in SaketewatorenaikeredoThere's
no running away from sorrow EgaowomiseteimawoikiteyukouSo
show your smile, and go on living the
present ImawoikiteyukouGo on living the present
HaikeikonotegamiyondeiruanatagaDear
you,
Shiawasenakotowonegaimasu...Who's
reading this letter I wish you happiness….”
Le dita
leggere di Carol carezzarono le ultime due note, facendole risuonare per ultime
nella sala con un eco morbido non appena la voce di Momo si fu spenta.
Gli applausi
esplosero nello stesso tempo, facendo arrossire come non mai Momo, che
sprofondò il viso tra le mani, desiderando ardentemente di sparire il più in
fretta possibile da lì.
E l’avrebbe
anche fatto, se soltanto le mani dell’infermiera rossa non l’avessero costretta
a rimanere ed affrontare l’ondata di ringraziamenti e complimenti che i figli
di Barbabianca le stavano indirizzando.
“Fantastica!”
esclamò Ace fischiando per poi continuare a battere le mani.
“Sei grande
scricciolo!” fece eco Satch
Accanto a
loro Marco continuò ad applaudire sorridendo e sinceramente ammirato.
Pazzesco, aveva
trasformato una poesia in una canzone in piena regola aggiungendo soltanto un
accompagnamento musicale.Vederla
arrossire quasi sull’orlo del pianto gli fece ripensare al ramoscello di
vischio che ancora si teneva in tasca.
E mentre la
osservava scendere dalle scalette del palco, pensò che era decisamente arrivato
il momento di usarlo.
“Che roba!
Mi si è accapponata la pelle!” esclamò tutta eccitata Carol, camminando dietro
di lei, spingendola per le spalle.
“Già.” Pigolò ancora scossa la piccola, non
credendo lei stessa a quello che aveva appena fatto. Cantare davanti a tutti
quanti in quel modo. Cielo… ma che le era saltato in
mente?
“Ehi! Guarda
che sei stata bravissima!” cercò di rassicurarla Carol e forse avrebbe aggiunto
anche qualcos’altro se non si fosse ritrovata il comandante Marco dinanzi.
“Buonasera
Carol.” Disse il biondo, facendola sentire stranamente a disagio.
“Betty ti
sta cercando.”
Bastò quello
perché l’infermiera sparisse alla velocità della luce, lasciando Momo intontita
dall’improvvisa mancanza della presenza della rossa dietro le proprie spalle.
In quel
momento però c’era qualcos’altro che la preoccupava.
“Sei stata
molto brava, lì sul palco.” La precedette la Fenice, cogliendola come al solito
alla sprovvista.
“Gr-grazie.”
Prima che
potesse anche solo pensare a qualcos’altro un’ombra verdastra entrò nel suo
campo visivo, facendole alzare lo sguardo sulla mano di Marco, che teneva in
sospeso sulle loro teste qualcosa di lei ormai conosciuto.
“Vischio.”
Disse per lei il biondo, incontrando i suoi occhi gialli e fiammeggianti con i
propri azzurri.
La mascella
di Momo cadde leggermente nel vedere quel paio di vetri color cielo calare su
di lei.
“Marco-san … io..”
Fuori
dall’oblò cominciò a nevicare, man mano che la distanza tra i loro volti si
annullava.
Il naso le
pizzicò più forte che mai, facendole abbassare di scatto il viso, rendendo
inevitabile lo scontro della sua fronte con il petto tatuato dell’altro.
“Etcì!”
Il biondo ci
rimase un po’ male all’inizio per poi scoppiare in una risata divertita,
piegandosi in due sulla testa dell’altra, scompigliandole con una mano i
capelli fiammeggianti.
Un momento
di silenzio vibrò in aria, prima del grande boato che si propagò per tutta la
Grande Rotta in meno di un istante.
“Qui starà bene.”
Affermò Garp, conducendo Clarina
dentro l’alloggio della propria nave, chiudendo furtivamente dietro di sé
l’uscio, premurandosi di controllare che nessuno dei suoi uomini avesse
adocchiato con troppa insistenza la figura aggraziata della sua ospite,
nonostante ben coperta dalla sua enorme giacca bianca che aveva ceduto durante
il tragitto dal quartier generale all’imbarcazione.
Il tessuto pregiato della divisa strisciò
sul pavimento, emettendo un suono di protesta contro le travi laccate per
essere appena retrocessa ad una sorta di mantello a strascico.
Clarina azzardò un paio di passi nella sala,
spalancando gli occhi cobalto con fare interessatissimo, mentre osservava
rapita i vari elementi che componevano l’alloggio.
Confrontato alla sua precedente gabbia di
velluto era fresca e rilassante, nonostante la sua natura un po’ caotica. Sulla
scrivania in mogano per esempio, si ergessero disordinatissime torri di fogli e
pratiche sicuramente ancora da leggere.
La donna si fermò per un istante stupita,
sbattendo le lunghe ciglia un paio di volte: era una ragnatela quella che aveva
appena visto brillare alla luce della finestra posta dietro la sedia dello scrittorio?
Si sentì un poco in imbarazzo, vedendosi
sorpassare su un fianco dal vice-ammiraglio, guardandolo poi sedersi dietro
quel caos, ma non mostrò alcun tipo di incertezza quando i suoi occhi sottili e
regali, ricambiarono lo sguardo perforante dell’eroe dal Pugno di Ferro.
Garp non sapeva che dire in quel frangente e,
vuoi per l’assoluta stranezza della situazione in cui era piombato, vuoi per
l’atmosfera bizzarra che lo scambio di occhiate tra lui e miss Clarina aveva creato, si ritrovò a grattarsi i capelli
brizzolati con una mano, guardando da una parte con una tremenda sensazione di
disagio sulla testa.
Che si era aspettato, dopotutto? Che non
appena chiusa in un’altra stanza da quattro mura gli avrebbe raccontato tutto?
Sbuffò, guadagnandosi un’altra sbattuta di
palpebre: mossa sbagliata.
“Com’é…e-ehm…”
tossì, cercando di recuperare un tono dignitoso “Come’è finita nella stanza
dell’Ammiraglio Sakazuki?”
Al suono del nome dell’aguzzino, Clarina sbarrò gli occhi, facendoli improvvisamente
scattare da parte a parte, quasi si aspettasse di vederselo apparire da un
momento all’altro. Quella vista fece intenerire di molto il marine, amareggiato
di vedere l’espressione regale della donna ridotta ad una di puro terrore.
Cosa le aveva fatto quel bastardo del suo seperiore per ridurla in quello stato?
“Ehi!” intervenne alzando le grosse mani
in segno di scusa “Si calmi! Si rilassi! Non le verrà fatto alcun male!
Garantisco!” esclamò notando un notevole miglioramento, avendo riacquistato
l’attenzione della donna.
Garp grugnì, massaggiandosi le tempie con due
delle sue enormi dita: non gli era facilee
comportarsi con delicatezza, la sua natura burbera e rude andava in netto
contrasto con momenti del genere. D’altronde non gli era mai capitato di
trattare con donne spaventate e, come aveva potuto ben intuire dal modo in cui
non aveva compreso il senso della sua precedente domanda, di lingua diversa.
Il pensiero prese forma concreta con
qualche secondo di ritardo, facendogli aprire gli occhi di scatto.
Un momento.
“Lingua diversa??!!”sbraitò con due palle
da bowling al posto degli occhi, facendo spaventare di conseguenza Clarina, presa alla sprovvista dal tono improvvisamente più
alto del normale dell’anziano.
La consapevolezza di chi si trovasse di
fronte non fece che accrescere il malumore del vice ammiraglio.
“Dannazione..” borbottò, tornando a
guardare la donna, stavolta con più decisione.
Avrebbe iniziato con le domande più
semplici.
“Si chiama Clarina
Sassonia?”
Una domanda sciocca e inutile visto che
era stata lei stessa ad affermarlo, ma doveva instaurare un dialogo, prima di
arrivare alle domande più complesse.
Dopo un attimo di indecisione, il volto
magro dell’altra gli rispose con un lieve cenno di assenso.
“Viene da Nido Leila, isola del Nuovo Mondo?”
continuò facendosi più teso, sporgendosi inconsciamente sulla scrivania.
Un nuovo segno affermativo.
“Cerco i miei figli.”
La voce elegante ed impercettibilmente
trattenuta fece la sua improvvisa entrata in scena, scioccando il marine più di
quanto già non fosse. Sbuffò, annuendo con fare comprensivo e avrebbe fatto
un’altra domanda se quella non l’avesse interrotto.
“Un maschio e una femmina.” Tornò un poco
titubante il suono, impregnato di qualcosa, quasi il fantasma di un suono
melodico. Non ne ebbe pensiero in quel momento, Monkey
D. Garp, in fondo sapeva bene con chi stava
conversando.
“La prego… mi aiuti… Archetto e Allegra…sigh.. anche mia nipote…”
L’unica cosa di cui si sarebbe dovuto
premurare sarebbero state le lacrime della donna, sgorgate con la prepotenza
improvvisa di un fiume in piena, e della punizione da infliggere ai suoi
allievi, ruzzolati in quell’istante dalla porta della sua cabina dopo aver
fallito miseramente nel loro proposito di origliare senza essere scoperti.
Koby ed Hermeppo
sapevano che accostandosi alla porta del loro superiore avrebbero rischiato ben
più della loro effimera carica sulla nave, ma vedere il volto del
vice-ammiraglio oscurarsi come nascosta da una maschera nera, atta a celargli
gli occhi brillanti e ricchi di spirito quasi assassino, faceva sempre pentire
delle scelte compiute.
Clarina, vedendo quei due poveri ragazzi svenire
sotto l’effetto di due sonori pugni del suo salvatore, si chiese se anche sua
figlia si fosse ritrovata in balia di gente così strana e simile per
temperamento a Viola.
Atto
14, scena 2
“Incredibile.” Sussurrò forzatamente
Ace,studiando ancora una volta
attraverso la trama rugosa e polverosa del volantino, i lineamenti della Sollevapesi.
Pazzesco. Se Marco non gliel’avesse fatto notare…
Spostò nuovamente lo sguardo sulla
Paradisea, placidamente assopita tra i guanciali vellutati del divano della
biblioteca dove Jaws, con una delicatezza
insospettabile, l’aveva posata poco prima.
Dopo una veloce analisi della sirena di
scoglio, tornò alla foto della neo-ricercata, stupendosi ulteriormente: come
aveva fatto ad accorgersi della similarità tra le due?
Si grattò la testa, sperando, nel
controllare nuovamente, di trovare qualcosa che contraddicesse l’ipotesi di
Marco, ma dovette ben presto desistere: la somiglianza tra le due ragazze era
innegabile, benché non toccasse più di tanto l’aspetto.
Viola la Sollevapesi
era di gran lunga più formosa ed alta, dotata di una bellezza più simile a
quella di una pantera flessuosa e vigorosa, al contrario di Momo, avvolta da un
alone di modestia ed eleganza paragonabile a quella di un cigno,tuttavia, come
aveva ben detto Marco, era il volto quello che le accomunava.
Più Ace scrutava con fare attento i
lineamenti distorti e rabbiosi di Viola, più si rendeva conto che la Fenice ci
aveva ancora una volta azzeccato.
Per la barba di loro padre!
La Sollevapesi
era identica a Momo quando si infuriava!
Non nel vero senso della parola, ma,
avendo avuto la sfortuna di vedere la Paradisea in quel pericoloso frangente,
nessuno di loro poté negare che quel modo di esprimere la rabbia, stringere le
mascelle e arricciare verso il basso gli angoli della bocca, come a trattenere
a stento un’ondata di collera, le rendeva quasi gemelle. Se poi si contavano i
capelli argentati della Sollevapesi e li si
confrontavano con le fiamme notturne della sirena di scoglio, bianche e pregne
di pura ira, tutto sembrava assumere forma più concreta.
Quelle due erano imparentate, poco ma
sicuro. Non c’era altra spiegazione.
Gli occhi neri di Ace si rialzarono,
finalmente convinti,scontrandosi con gli sguardi degli altri due.
“Che facciamo?” la domanda fatidica
scivolò dalle labbra del comandante della seconda flotta, affidando al fratello
e amico la pesante responsabilità di come gestire la loro scoperta.
La Fenice si massaggiò con due dita i lati
degli occhi, sentendosi decisamente troppo sotto pressione per dare sfoggio del
consueto sangue freddo.
Le possibilità erano molte: svegliare
Momo, sperando che tra le nebbie del sonno riuscisse a dare loro una
spiegazione a quell’immagine sconcertante, o parlarne direttamente al Babbo,
preparandosi ad spiegazione che difficilmente sarebbe arrivata, visto
l’orgoglio e la testardaggine che loro padre si portava dietro.
Il vecchio Barbabianca
non si sarebbe mai permesso di farsi estorcere dai propri figli un’informazione
trattenuta e di certo loro, i maggiori tra la ciurma, non si sarebbero mai
azzardati ad accelerare i tempi del padre.
Una cosa, infatti, era risaputa sulla
Moby: Edward Newgate non nascondeva mai qualcosa ai
propri figli senza una buona ragione, e in nessuna occasione avrebbe loro
omesso informazioni importanti più del tempo necessario. Sulla Moby la fiducia
era vitale e rompere quel tacito accordo di rispetto reciproco era cosa che nessuna
delle due parti si sarebbe sognata di fare, neanche con la garanzia di un
sospetto così effimero.
Sarebbe stato il padre a dar loro le
dovute spiegazioni, a tempo debito.
A conti fatti l’unica opzione disponibile era
un’altra, ma, prima di esporla, Marco abbassò la mano degli occhi, ritrovandosi
davanti la seconda taglia allegata dal quotidiano: Arch
Angelo Infido. Decisamente un ragazzo di bell’aspetto, talmente delicato da
dare l’impressione di un ermafrodito.
Il suo stomaco di contrasse per un
istante, ritornando al ricordo delle parole lette da Ace: Viola e quel ragazzo
viaggiavano assieme.
Con un bambino.
Una strana inquietudine lo colse,
seccandogli la gola in un istante, e trovò molto difficile non apparire nervoso
quando finalmente, degnò Diamante e Pugno di Fuoco di una risposta:
“Andiamo da Satch.”
Atto
14, scena 3
Arch non sapeva se aveva fatto bene ad
avvertire Viola di quello che aveva capito sul conto di Morgan e se doveva
essere totalmente sincero se ne stava pentendo, man mano che gli occhi castani
scuri dell’argentata assumevano una colorazione sempre più incline al rosso.
Si portò i capelli all’indietro con una
mano, sbuffando: quanto avrebbe voluto che sua sorella fosse stata lì. Allegra
era l’unica in grado di far calmare Viola.
Lui, nonostante potesse vantare di una
freddezza e prontezza mentale invidiabile, non c’era mai riuscito, andando
sempre ed inevitabilmente a cozzare con l’ostinazione dell’altra, che le faceva
fare beatamente orecchie da mercante di fronte ad ogni suo ragionamento.
“Ripetilo.”
Arch riaprì gli occhi cobalto di scatto,
fulminandola con lo sguardo.
“Te l’ho già ripetuto due volte, Viola.”
Sottolineò, scocciato di doversi continuamente ripetere.
“E
IO VOGLIO SENTIRLO UNA TERZA VOLTA!” esplose la ragazza alzandosi di scatto
dal bordo della barca, i capelli rivolti verso il cielo notturno come un
turbinio di lingue rosse.
Il biondo si morse la lingua, ricordandosi
di non fare mai più una cosa simile.
“Morgan si è trasformato in quel modo dopo
aver mangiato un frutto..”
“UN
FRUTTO???!!!”
La voce soprana di Viola era cento volte
peggio del solito e, cosa che metteva a dura prova la propria pazienza, aveva
osato fare una cosa che lo mandava letteralmente in bestia: l’aveva interrotto.
Le mani della paradisea rossa lo
afferrarono per il colletto, avvicinandolo di più al volto contratto di
impazienza dell’altra.
I suoi occhi non promettevano nulla di
buono.
“Mi
stai prendendo in giro, Arch?” sussurrò
pericolosamente Viola, sfidandolo ad ammettere di essersi inventato tutto si
sana pianta.
Per tutta risposta lui strinse gli occhi,
indurendo i lineamenti del proprio viso.
“Non ho così tanta immaginazione, Viola.”
Venne gettato di malagrazia all’indietro.
“Lo
spero per te.” Gli disse l’altra, sedendosi nuovamente dove era stata prima
“Perché non è divertente.”
“Credi che a me diverta invece?!”
Arch avrebbe tanto voluto continuare quella
che sarebbe voluta essere l’inizio di una ramanzina, ma vedere la faccia di
Viola lo bloccò: era sconvolta. Certo non era da biasimare. Dopotutto lei e
Morgan avevano cominciato da poco ad avvicinarsi, molto più di quanto la
ragazza avrebbe mai ammesso, e ritrovarsi con un così grande dubbio tra le mani
era peggio di un martello sbattuto sul loro fragile rapporto.
Se i loro sospetti fossero stati fondati
Viola non sarebbe mai più stata in grado di guardare il marmocchio come prima.
“Controlliamo prima.” Ruppe il silenzio il
biondo, mentre si metteva al timone.
“Non è detto che il frutto di cui ha parlato
Morgan fosse uno di quelli.”
Una risata nervosa fece capolino dalla
gola di Viola
“E
cos’altro potrebbe essere?”
Quella fu l’ultima battuta sarcastica che
le sentì dire per tutta la notte. Lui non seppe cosa risponderle.
Maledizione.
Atto
14, scena 4
Satch ebbe l’istinto di scappare, nel trovarsi
alla porta Marco ed Ace con delle facce degne di far concorrenza a quella di Jaws, e quasi temette che i due avessero scoperto che aveva
detto al burbero comandante della terza flotta di vegliare sullo scricciolo per
conto suo, prima che un paio di volantini nuovi di zecca gli sventolassero
davanti al naso.
Non ci volle molto prima che le
spiegazioni arrivassero con la stessa potenza di un’onda anomala.
“Non mi dite..” disse con il solito
sorriso sulle labbra riguardando la foto della Sollevapesi,
riconoscendo lui stesso che la somiglianza era molta, non eccessiva, ma
decisamente significativa, nonostante le due ragazze in questione fossero due
esemplari chiaramente eterogenei tra di loro.
In particolare le gambe della ragazza
ritratta nel volantino erano decisamente degne di nota. Senza offesa per lo
scricciolo, ma se un uomo avesse dovuto scegliersi la compagna guardando solo
le gambe…bhe, Viola Sollevapesi sarebbe stata sulla lista di molti.
“Momo ti ha detto qualcosa?” lo interruppe
Marco, stando seduto davanti a lui con sguardo assorto.
Il comandante della quarta flotta non
rispose subito, passando a guardare il secondo dispaccio di cattura: Arch Angelo infido.
Una cosa che il comandante dal pizzetto non
avrebbe mai e poi mai capito era da dove quelli della marina pescassero quei
soprannomi idioti. Già chiamare ‘angelo’ un uomo era sinonimo di un grado di
perversione notevole, se poi si metteva in conto che il ragazzo di turno
dimostrava a stento la propria virilità, la cosa si sarebbe potuta classificare
come un vero e proprio attentato all’autostima di quest’ultimo!
Satch però, osservando attentamente i
lineamenti effeminati del ragazzo, dovette ammettere che non avevano avuto
tutti i torti a dargli quell’appellativo. Nel complesso era un gran bel
ragazzo, certo, dall’aspetto un po’ troppo delicato, ma pur sempre di notevole
bellezza.
Sorrise involontariamente: in quel momento
gli fu chiaro perché lo scricciolo fosse tanto preoccupato sul rapporto tra lei
e il suo compagno di viaggio.
Per lui non c’erano dubbi: quei due
neo-ricercati erano i compagni di viaggio della piccola paradisea.
“Sì.” Rispose apertamente il biondo dal
ciuffo brillantinato, facendo scattare all’insù i
sopraccigli dei due rivali.
“E spero per voi che questo bel ragazzo
non sia il fidanzato dello scricciolo, perchè…” fece
una pausa che gli permise di gustarsi le facce inorridite dei suoi fratellini
“… a quanto pare avete trovato la sua vera famiglia, cari i miei zoticon-”
I suoi capelli pettinati ai limiti
dell’impeccabile scansarono appena in tempo due fasci fiammeggianti di colore
diverso.
“Ehiehiehiehieheeeehiii!!”
protestò lisciandosi premuroso il ciuffo, mentre si rialzava da terra “Calmi!
Dovreste farvi una camomilla prima di venire a parlare con me! Ci rimetterei
meno anni di vita! Che diamine! Sì che non sono più giovane, ma gli ultimi anni
dell’età doro me li voglio godere!”
“Risparmia il fiato.” Lo interruppe Ace
squadrandolo dall’alto, scrocchiandosi le nocche “Che cosa ti ha detto Momo?”
Satch, evitando egregiamente l’ira del fratello
più giovane, fece appena in tempo a spiegare che a lui lo scricciolo aveva
confidato di essersi separata dai suoi compagni di viaggio, un ragazzo ed una
ragazza, su un’isola dai tetti blu e di ricordare solo l’aspetto del maschio.
Nel mentre di tutto questo, invisibile
agli occhi degli altri due, Marco abbassò lo sguardo sulla taglia appartenente
al ragazzo, Arch,e si sentì stringere alla bocca dello stomaco, colto nuovamente da
un’improvvisa sensazione di inquietudine. Le sue dita si accartocciarono
lievemente sulla pergamena, provocando nella stanza un lieve ma significativo
scricchiolare di carta.
Avrebbero fatto bene a rendere nota quella
scoperta a Momo?
Fu tentato per un attimo di nascondere
quell’insidioso pezzo di carta e dimenticarsene per sempre, ma poi, scrollando
la testa, si impose un poco di buonsenso.
Uscì dalla stanza accompagnato da Ace,
sperando solamente di fare la cosa giusta.
Atto
14, scena 5
“Siete
stati veramente maleducati.”
Koby si sentì sprofondare la terra sotto i
piedi mentre la voce melodica e materna della signora Clarina
rimproverava lui ed Hermeppo per la loro entrata in
scena completamente fuori luogo, fasciando loro comunque la testa con dei giri
di benda.
Era stato incredibile il cambiamento che
la donna aveva assunto nel giro di poche ore, arrivando finalmente a parlare
con scioltezza con il calare della notte, stringendo in poco tempo amicizia con
i due poveri ragazzi che avevano sofferto l’ira del maestro sulle proprie
teste.
“Mi scusi ancora.” Sussurrò Koby, profondamente amareggiato per il proprio
comportamento, non venendo comunque imitato a parole dal biondo, troppo
orgoglioso per chiedere perdono così apertamente come il rivale.
“Oh!”
disse la donna, facendo un gesto veloce, come per cacciare via quella scusa non
richiesta con uno schiaffo “Non fa
niente, dopotutto siete giovani. È normale essere curiosi.” Concluse
rialzandosi poi da terra con addosso un paio di pantaloni bianchi ed una
camicia del medesimo colore, presi in prestito dal più magro dell’equipaggio.
“E
ad essere sinceri le persone che preferisco sono quelle curiose!” disse
lanciando loro un occhiolino che li mandò letteralmente in visibilio.
I due apprendisti la guardarono con
ammirazione mentre si allontanava, camminando con eleganza innata sul ponte,
quasi per lei fosse stata una cosa normalissima e sperimentata diverse volte.
Koby stette ad osservarla con un po’ di
nostalgia nel cuore: c’era comunque qualcosa di infinitamente triste dietro
quella figura che si allontanava da loro a poco a poco, indossando un radioso
sorriso sulle labbra.
“Ehi ehi!” attirò poi la sua attenzione Hermeppo, facendogli segno di tendergli l’orecchio e al
contempo di abbassare la voce. Lui fece quanto richiesto ritrovandosi la voce
del compagno rivale a chiedergli, con voce sommessa ed un poco maliziosa:
“Secondo te quanti anni ha?”
Non ebbe neanche il tempo di arrossire di
fronte a quell’allusione che dietro di loro comparve la voce della diretta
interessata.
“Ho
cinquant’anni!” esclamò sorridendo Clarina, china
lievemente in avanti con le mani sulle ginocchia.
I due ruzzolarono sul pavimento per la
sorpresa per poi, realizzando le parole della donna, spalancare la bocca per
l’incredulità.
“Cin-cin-cin…!!”
balbettò l’occhialuto indicandola tremante con un dito, ma fu Hermeppo, con la sua delicatezza pari a quella di un
elefante in una cristalleria, a completare la frase, enfatizzando il tutto con
un dito puntato direttamente sulla donna, sorpresa per la reazione eccessiva.
Aveva detto la verità in fondo.
“CINQUANTA???!!”
La bionda sbuffò un poco offesa e
disorientata, mettendosi le mani sui fianchi con fare autoritario.
“Bhe sì. Che c’è? Solo
perché una donna decide di rimanere giovane non vuol dire che sia una bugiarda!”
esclamò grintosa più che mai. L’aria fresca le stava facendo parecchio bene,
grazie al cielo.
“E
io non ho paura di dirlo: ho cinquant’anni e sono la madre di due splendidi
bambini! ” concluse gonfiando il petto con fierezza. Non avrebbe permesso a
nessuno di negare quello che era: la sua natura glielo avrebbe impedito in
tutte le maniere anche portandola all’autodistruzione.
Era fatta così. Che poteva farci?
“Ma..Ma lei è giovanissima!!” esclamò Koby affiancando l’amico tremando per lo shock.
“Certo!
Ho promesso a mio marito che sarei rimasta tale e quale fino al suo ritorno e
non voglio deluderlo!” disse con semplicità, sbattendo le palpebre non
capendo bene perché mai dovessero fare tante storie.
Che strani gli umani.
Un ruggito proveniente dalla cabina del
vice ammiraglio le fece comprendere che era tempo di spiegare tutta la
situazione al suo salvatore.
Niente di più facile: avrebbe solo dovuto
dire la verità.
Atto
14, scena 6
Shanks riguardava attentamente quella taglia, sentendo
il proprio sorriso fiorire ad ogni secondo che passava.
Che roba…
Quella canaglia somigliava sputato a sua
madre.
Una risata minacciò di esplodergli dal
petto quando Ben gli si avvicinò con la solita espressione di chi, con un poco di
circospezione, ti sta per chiedere:
“Che diavolo hai da ridere, balengo? Sappi che se è un’altra delle tue trovate geniali ti appendo all’albero maestro
per le caviglie.” Disse il vice confermando come sempre i suoi sospetti.
Il rosso si tirò all’indietro ridacchiando
sommessamente, lisciandosi indietro un paio di ciocche rubiconde, nascondendo
di con un movimento fluido il volantino, dietro la schiena.
Sulla nave regnava la solita baraonda
pomeridiana, il sole era diventato meno soffocante da quando avevano superato
un’isola primaverile, e la ciurma sulla Red Force
chiacchierava beata come non mai, godendosi le ventate di aria fresca che il
mare regalava loro.
Il capitano però sapeva bene che la
situazione di relativa calma non sarebbe durata, viste le ultime esaltanti
notizie che il giornale si era premurato di fornirgli.
“Ehi Yasopp!Lou!Foras!” gli chiamò con un
sorrisone, vedendoli avvicinarsi incuriositi, a loro si unì anche Rock Star,
deciso a prendersi una pausa dalla lagnosa presenza di Roid,
ancora imbarcato con loro a causa dei ritmi che il viaggio aveva assunto per
via del salvataggio di Monster.
Shanks non andò per le lunghe e con uno scatto,
mostrò loro il foglio tenuto nascosto, sventolandoglielo allegramente sotto il
naso.
“Dite un po’… chi vi ricorda?” chiese
malandrino nel vedere una ad una le facce dei suoi uomini, escluso
Rockstar,spalancarsi prima per lo
stupore, poi per l’euforia.
“Ma.. ma..!” balbettò Foras
con una lacrimuccia ad un occhio.
“Ma di che parlate?” intervenne Beckman afferrando il foglio dalla mano del capitano,
riuscendo finalmente a vederlo. Tutte quelle storie per una nuova ta-...
Deglutì, lasciando cadere clamorosamente
una sigaretta sul ponte.
Per la barba di Roger.
Shanks si godette la vista del suo migliore
amico sbiancare di netto, curvandosi sulla foto con foga maniacale, sicuramente
nel tentativo di trovare qualche differenza che smentisse la sua prima
impressione.
Non ebbe successo, a giudicare dal modo in
cui si poggiò all’albero maestro, coprendosi la fronte con una mano.
Accidenti. Accidenti. Accidenti.-
pensò,cominciando a grondare sudore freddo sotto gli sguardi divertiti dei suoi
nakama.
Era talmente sconvolto da non vedere
nemmeno la mano di Shanks abbattersi sulle sue
spalle, assestandogli una sonora pacca che rischiò di farlo ruzzolare per
terra.
“Su con la vita, Ben! Dovresti essere
contento! Non capita spesso di scoprire di essere papà con una taglia!” il
rosso si fermò, ignorando completamente le occhiatacce del vice per scrutare
meglio l’ammontare della ricompensa “Anche se non molto alta…”
Schifò per un soffio un pugno da parte di
Ben, slanciando la testa all’indietro.
In suo soccorso arrivarono giusto in tempo
Yasopp e Lou, fregando la
pergamena dalle mani dell’amico, guadagnandosi così la sua completa attenzione.
“Ammettiamolo Ben, non ti somiglia neanche
un po’.” Disse Yasopp con fare critico.
“Già, ha preso tutto da Clarina.” Diede il suo contributo Lucky,
addentando un pezzo di prosciutto.
“Booooofh! Che
bella cosa…sigh…essere
papà!” singhiozzò il loro addestratore, nascondendo il viso dietro un braccio.
Ben però non dimostrava di essere molto
contento.
Guardando la taglia gli venne in mente il
viso sorridente di Clarina, lei al suo fianco tra le
rigogliose piante di Nido Leila, la sua schiettezza, la sua indomabile
curiosità nei confronti del mondo oltre gli scogli insidiosi della sua isola,
la prima volta che l’aveva vista, livido e grondante di sangue dopo la lunga
scalata che l’aveva condotto al villaggio delle Paradisee, il modo in cui l’aveva
curato chiedendo in cambio solo di imparare la sua lingua.
Rise di riflesso, ricordandosi il modo in
cui l’aveva descritta, una volta imparate abbastanza parole:
“Sgraziata come un gabbiano gigante sulla
terraferma, ma decisamente interessante.”
Forse era proprio per quello che si era
innamorato di lei.
Ma scoprire di averla abbandonata con un
bambino in grembo.
Si sentì male.
Era andato via, certo che si sarebbero
incontrati, e per lui venire a sapere che il governo mondiale aveva inviato lo stesso
Akainu da quelle parti era stato come un pugno allo
stomaco. Tornato in fretta e furia, vide la pericolosa, ma tanto amata, isola,
dove anni prima era naufragato, completamente data alle fiamme e per lui fu un
colpo troppo duro da sopportare non trovare alcun superstite.
Fu Shanks a
decidere di lasciare per un po’ il Nuovo Mondo, condividendo il dolore
dell’amico: aveva conosciuto anche lui Clarina e,
dalle poche parole che erano riusciti a scambiarsi, aveva capito che amava
veramente Ben e che l’avrebbe aspettato anche fino alla morte.
Ben si era ormai arreso all’evidenza che
le probabilità che la sua amata fosse sopravvissuta eranorasenti a zero, ma non avrebbe mai e poi mai
immaginato che sarebbe rimasta incinta e che durante la sua assenza avrebbe
dato alla luce un bambino. All’epoca la sua Clarina
gli aveva confessato candidamente di avere già una bambina piccola, di cui
aveva solo sentito parlare per via del periodo che ogni Paradisea, compiuto un
anno, era costretta a trascorrere lontano dal nido famigliare, ma non avrebbe
mai pensato che…
Si passò una mano sulla fronte: come aveva
fatto quel ragazzo, il suo, a
sopravvivere?
E, domanda essenziale, dove aveva imparato
a maneggiare dei coltelli??!!
Una sonora pacca sulla schiena lo fece
traballare in avanti e fu solo per miracolo che non cadde faccia a terra.
Scattò con la testa per vedere il
colpevole e non si stupì più di tanto nel ritrovarsi di fronte il sorriso a
trentatré denti di Shanks.
“Speriamo solo che il ragazzo non abbia
preso il tuo caratteraccio! Sai che rottura per la povera ragazza che lo
accompagna?!”
“Ragazza?” inarcò un sopracciglio.
“Già!” intervenne il loro cecchino
leggendo l’articolo, mentre con una mano libera sventolava la taglia di Viola
“Viola La Sollevapesi,
25 milioni di beri.”
Ci fu un fischio di apprezzamento da parte
di Rock Star “Ah, e sembra che con loro ci sia un bambino. ”
Era raro che Ben Beckman
rischiasse di strozzarsi con la sua stessa saliva, ma lo fece, finendo per
tossire in preda al panico.
Come biasimarlo? Aveva appena scoperto di
essere papà, ma non era pronto per pensare a sé stesso come nonno.
Naaah, magari era la sorella. – pensò – Oh,
Roger Santissimo, fai che sia la sorella.
“Arch, eh?”
rimuginò il rosso sul nome del ragazzo nella foto e ridacchiò, intuendo il nome
completo.
Accidenti, Clarina
era proprio negata per i nomi.
Atto
14, scena 7
“Archetto
e Viola.” Spiegò Clarina indicando i due
volantini che il signor Garp le aveva messo davanti
agli occhi. C’era voluto un po’ prima che si calmasse, superando l’euforia che
il sapere che suo figlio stava bene le aveva dato, ma alla fine aveva ceduto
alle occhiatacce del marine e, mettendo da parte la propria felicità, aveva
cominciato a spiegare meglio. D’altra parte il suo salvatore sembrava conoscere
la sua specie, quindi non si cincischiò in preamboli inutili e arrivò
velocemente al succo della questione.
“Rispettivamente
hanno fiamma amaranto e fiamma rossa. Archetto non è una paradisea per intero e
questo gli ha dato parecchi problemi prima che…”
si fermò un attimo “…, ecco… lo sa.”
“E la ragazza?” tagliò corto Garp con le braccia incrociate, guardando la foto di Viola,
tutta presa a scagliare una credenza sul povero malcapitato “È sua figlia?”
“No
no!” esclamò scossa la donna, agitando con convinzione le mani in avanti “Viola è mia nipote! Mia sorella non è mai
riuscita a farla calmare, sa.. i giovani, sempre pieni di energie. Viola non è
mai riuscita a stringere grandi amicizie a causa di questa sua mania di
lanciare oggetti.” Indicò la foto della paradisea, per poi sospirare
“Gli
unici con cui abbia un rapporto stretto sono Archetto e Allegra. Grande
spirito, quella ragazza è così sola, se soltanto la smettesse di fare la
sostenuta avrebbe uno stuolo di corteggiatori e di ragazze pronte a fare la
fila per conoscerla.” Pronunciò tutto d’un fiato, lasciando un poco
interdetto Garp, non abituato ad una simile
parlantina. Di solito chi interrogava era restio a parlare, ma quella donna
diceva tutto quello che le passava per la mente!
Tutto! Diamine, in tutta la sua carriera
non ne aveva mai incontrata una così!
Si ricompose dando qualche colpo di tosse,
cercando di riprendere le redini della conversazione. Aveva una pulce
nell’orecchio e avrebbe fatto meglio a togliersela, prima che la lingua veloce
di Clarina prendesse il sopravvento.
“E sua figlia Allegra? La potrebbe
descrivere?”
“Certamente!”
esclamò entusiasta quella, partendo a raffica con una descrizione che capì solo
a metà.
“…
ha degli occhioni bellissimi, oh, l’avesse vista da
neonata: l’ho adorata fin dal primo istante! Uff, se
solo si fosse decisa a maturare un po’ di più, liberandosi un po’ della propria
Essenza! Le ho sempre detto di togliersene un po’ di dosso per diventare un po’
più alta, ma lei dice che non se la sente… e poi..!”
“GGGGNNNNFFHHH!!!”
“Ops!!” sussultò
mettendosi una mano sulla bocca, capendo dal colorito violaceo che aveva
assunto il vice-ammiraglio che come suo solito aveva parlato troppo.
“Perdoni!
Ho la pessima abitudine di parlare a sproposito quando si tratta dei miei
figli!” si scusò cercando di darsi un po’ di contegno.
“CHE
TIPO DI FIAMME HA?!” chiese scuro in volto l’altro, sporgendosi pericolosamente sulla
scrivania.
“Iiiih!” squittì Clarina “Gialle! La
mia bambina ha le fiamme gialle!”
Garp si lasciò andare sulla poltrona, contento
di aver finalmente ricevuto una risposta decente e trovando così l’ultimo
tassello del puzzle. I suoi sospetti si erano rivelati fondati: la ragazza che Newgate aveva accolto era una di quelle creature e per la
precisione figlia della donna dinanzi ai suoi occhi. Non si somigliavano granchè: madre e figlia sembravano essere due sconosciute,
ma, d’altronde, una delle poche cose che sapeva riguardo le paradisee era che
il fatto di non essere propriamente umane le scioglieva da vicoli di parentela
quali l’aspetto. Era contento poi di essere riuscito a strappare il colore
delle fiamme da Clarina: un’altra particolarità di
quelle creature era che il loro manto infuocato era da considerarsi come un
piumaggio, inconfondibile e ripetibile solo per un numero limitato di volte.
Era raro che due paradisee avessero le fiamme gialle. Era un colore troppo alto
per appartenere a più di due paradisee della stessa generazione.
La voce un poco impaziente di Clarina attirò nuovamente la sua attenzione.
“Ehm…,adesso posso sapere perché ci sono dei numeri
sotto le foto di mia nipote e del mio bambino?”
Atto
14, scena 8, Aria piena di torpore
Ero immersa in un torpore così avvolgente
ed invitante che non me la sentii di aprire subito gli occhi, quando una voce
ovattata mi richiamò da lontano, trascinando fuori da quella coltre vellutata e
nebbiosa la mia mente appesantita dal sonno.
Mi rigirai su un fianco, riparandomi la
testa con un braccio, quasi a volermi riparare dall’imminente risveglio, ma il
mio gesto non fece granché.
I suoni divennero più chiari, la luce più
intensa e la mente più lucida.
Mugugnai contrariata, strofinandomi gli
occhi con una mano e tirandomi su con l’altro braccio. Quant’era comodo quel
divano!
“Neh,
akachan. Saa! Me o samase!”
Ci misi un po’ a rimettere insieme le
parole, esattamente il tempo per focalizzare il viso come sempre sorridente e
lentigginoso di Ace su di me.
Oh…bhe… anche per
quello mi ci volle un po’, infatti la prima cosa che feci, non appena capii chi
effettivamente mi trovassi davanti, fu scattare seduta e rannicchiarmi da una
parte. Vidi la sua espressione felice congelarsi appena, deluso dalla mia
reazione e mi pentii immediatamente, sentendomi orribile.
Avrei voluto dire qualcosa in mia discolpa,
ma mi morsi la lingua, accorgendomi, nel guardare l’orologio a muro della
biblioteca, che effettivamente era troppo presto per tornare a far sentire la
mia voce.
Unii in segno di scusa le mani dinanzi al
viso, simulando un inchino da seduta non molto ben riuscito.
Mi sentii un po’ meglio, vedendolo tornare
a sorridere come prima.
“Tranquilla piccola!” disse ridendo,
poggiando una mano sul ginocchio.
“Avremmo qualcosa da farti vedere.”
Congelai. La voce calma e pacata che aveva
appena parlato dietro di me non poteva che essere di una persona.
Mi voltai.
Marco ricambiò il mio sguardo con una
delle sue occhiate profonde ed indecifrabili. Sentii un tremito percorrermi la
schiena, facendomela inarcare leggermente, e, neanche fossi stata punta da un
ape, saltai in piedi, scendendo con un balzo dal divanetto sotto le occhiate
stranite di Jaws, Marco ed Ace.
Ma che cosa avevo fatto di male per
ritrovarmi in una situazione così scomoda?
Cercando di non fare caso all’impellente
bisogno di scappare ed all’inconfondibile calore che mi stava divampando sulle
guance, mi raddrizzai, irrigidendomi di colpo per evitare di agitarmi più del
dovuto.
Presi un respiro profondo.
Calma. Calma.
Passato il momento critico lanciai
un’occhiata interrogativa a Jaws, che però, riassunta
la sua tipica faccia da burbero, mi indicò di nuovo Marco, come a spiegarmi che
era a lui che dovevo rivolgermi.
Così feci, battendomi conl’istinto di schiarirmi la gola stretta tanto
fastidiosamente da sembrare essersi annodata da sola.
Fortuna che non dovevo parlare.
Davanti a me gli occhi cristallini di
Marco fecero cenno ad Ace che mi comparve nuovamente davanti, stavolta un po’
meno sorridente e con in mano un paio di fogli.
Notai subito quanto si stesse sforzando di
tirare all’insù gli angoli della bocca.
“Ehm.. So che dopo quanto è successo non
sarebbe il momento più adatto, ma…” cincischiò per un
po’,allungandomi infine quei pezzi di
carta con un’aria un poco apprensiva.
“Pensiamo che questi potrebbero servirti.”
Accettai quanto consegnatomi, senza però
fare a meno di assumere un’espressione confusa.
Che intendeva dire?
“Per la tua memoria.”
Non era un po’ strano che tutto d’un
tratto sentire la voce di Marco facesse scattare in me un senso di allerta?
Anche se ripensandoci…
Scacciai velocemente la sensazione di
formicolio sul dorso della mano strofinandomelo distrattamente, mentre mi
mandavo mentalmente degli insulti.
Dovevo concentrarmi su quello che mi
avevano detto, diamine, non divagare su cose che non centravano nulla!
Non persi altro tempo e girai i volantini
che mi avevano dato, posandovi gli occhi quasi con rabbia.
Un singulto mi saltò al petto.
Atto
14, scena 9
I tre comandanti si erano aspettati di
tutto, dopo aver mostrato alla paradisea le immagini dei suoi vecchi compagni
di viaggio. Ace si era addirittura preparato mentalmente ad uno scoppio di
lacrime, com’era accaduto la volta prima che la ragazza aveva rammentato
qualcosa.
Eppure non accadde nulla.
Nulla.
Assolutamente nulla.
Quello che riuscirono a percepire dalla
ragazza fu semplicemente il leggero schiudersi della bocca, causato dalla
mascella lasciata inaspettatamente libera di ciondolare verso il basso.
Il modo in cui Momo si era bloccata aveva
lasciato a fiato sospeso tutti e tre, incatenando i loro sguardi sulla sua
espressione: alla vista delle due foto, la ragazza aveva semplicemente sbarrato
gli occhi e socchiuso la bocca, dando segno di uno stato d’animo che le era
proibito esprimere a parole.
Poi la situazione si sciolse di colpo.
La videro muoversi per alzare lo sguardo
atterrito e pienamente consapevole su di loro e fu quasi uno shock: non era lo
sguardo di una persona sull’orlo delle lacrime, ma c’era qualcosa che per un
istante fece loroavvertire l’errore
compiuto.
Così, quando la paradisea si voltò,
scomparendo in meno di un secondo dalla biblioteca, per loro fu peggio di un
fulmine a ciel sereno.
Inaspettato e sconvolgente
Non capirono bene quello che era accaduto esattamente,
finchè una voce fin troppo conosciuta, e proveniente
dal ponte principale, riempì l’aria con il un suono argentino che li mandò
letteralmente nel panico, facendoli sbiancare come dei lenzuoli insieme al
resto della ciurma, che aveva avuto la sfortuna di vederla al momento del folle
gesto.
“YATTAAAAA!!!!!”
Fine prima parte Atto Quattordicesimo
Mi vergogno di me stessa…
Ritardo e nemmeno i degno di un Atto completo. Sigh.
Sono pessima lo so. Non preoccupatevi, ne sono consapevole. Il motivo di questa
mia pubblicazione (a mio parere anticipata). Sta nel fatto che è in arrivo un
altro periodo duro (quando mai l’università non è dura?) e quindi, avendo già
scritto abbastanza (non sono arrivata a 15 pagine, ma 10 sì) ho voluto evitarvi
l’agonia di attendre probabilmente un altro mese.
Lo giuro! Il prossimo capitolo sarà più denso e con
più risvolti in tempo reale. Non la mollo non la mollo nonlamollononlamollononlamolloooo!! <- mantra dell’autrice
determinata.
Perfetto e oa passiamo alle
cose serie(inforca gli occhiali e legge un foglio):
Il precedente sondaggio si è chiuso con la vittoria
schiacciante di Marco… (si volta verso una figura
rannicchiata in un angolino a disegnare cerchietti nella polvere) mi spiace
Ace.
“Sigh.”
Non ti preoccupare, c’è ancora speranza nell’ultimo
sondaggio (dice facendogli patpat
sulla schiena)
Tornando a noi. I vostri voti sono sempre fonte di
ispirazione per me e vi ringrazio tantissimo (inchino).
Passiamo adesso aaaal…
(caccia via occhiali e foglio, riassumendo l’aspetto da fanatica)
MATCH FINALE!!!
Domande:
1)Chi sceglierà Momo? Ace o Marco?
2)Clarina cosa farà
scoprendo che i suoi figli sono ricercati?
Ci vediamo
belle bimbe!! XDD
Kisskiss
TS
Note
di LIBRETTO: Jap>Ita
Neh, akachan.
Saa! Me o samase! > Ehi,
piccola. Su! Svegliati!
“Aspetti un momento…”
balbettò Clarina, mettendo le mani avanti come per
fermare la valanga di parole di cui il vice-ammiraglio Garp
la stava tempestando. Come richiesto il vecchio si bloccò, incrociando le
braccia al grosso petto, con il solito cipiglio severo, attendendo che la donna
rimettesse insieme le idee.
Dal canto suo l’altra non ci mise molto e,
non appena collegate alcune delle parole fondamentali con il giusto
significato, rialzò si scatto la testa, allargando gli occhi con espressione
scioccata.
“Fuorilegge??” ripetè
incredula la bionda, ricevendo come risposta un cenno di assenso da parte
dell’altro.
Non passò molto tempo, prima che una furia
cieca invadesse gli occhi della paradisea, inondandogli di un bianco che non
prometteva nulla di buono.
Garp fece in tempo a ricordarsi che le
Paradisee mostravano le loro vere potenzialità con l’avvento delle ore
notturne,prima di ritrovarsi seduto sulla scrivania a subire in silenzio il
tono di voce fastidiosamente alto della propria ospite.
Clarina aveva piantato di getto le mani sulla sua
scrivania, fissandolo con ferocia trattenuta. Le sue braccia, così come i suoi
capelli si infiammarono di bianco, dando così prova della sua vera natura.
Una Paradisea fiamma bianca pura.
Da non credere – pensò il vice ammiraglio
indeciso se guardarla con ammirazione o sospetto , escogitando al contempo un
piano per limitare i danni alla propria nave in caso la situazione fosse volta
al peggio.
“Mi sta forse dicendo che miofiglio…” scandì la donna sporgendosi minacciosamente
verso di lui, flettendo le dita quel tanto che bastava per segnare con le
unghie ben curate il legno pregiato dello scrittoio.
Il marine decise di non interromperla,
nonostante chiunque si fosse permesso un comportamento simile nei suoi
confronti sarebbe finito dritto in mare.
Ma – si ripetè
cercando di tenere a freno il suo brutto carattere e la quantità di sangue ed
adrenalina che gli stava pompando nelle vene – una donna è sempre una donna.
“..E
una paradisea arrabbiata è molto pericolosa.” Gli aveva detto una volta una
certa persona.
“… è accusato di aver ferito
volontariamente delle persone innocenti??!!”
Garp grugnì in risposta, capendo di dover dare
delle spiegazioni in merito, cosa che lui detestava fare.
“Attualmente suo figlio è indagato per
danni a civili che hanno giurato di non aver fatto nulla per..- ”
“Sciocchezze!!!” esplose ancora una volta
la donna con tanta prepotenza da far quasi perdere completamente la pazienza al
vice ammiraglio, ormai occupato a digrignare i denti e stringersi i lembi della
divisa per trattenersi.
Poi, inaspettatamente, ci fu un momento di
quiete e il crepitare ostile delle fiamme bianche si attenuò a poco a poco,
divenendo in pochissimo tempo un placido scoppiettio.
Garp spalancò gli occhi, stupito da
quell’improvviso cambiamento, ma, purtroppo, sapeva che non era ancora finita.
A dare prova dei suoi sospettifu la mano bollente e veloce della donna che,
con uno scatto, lo afferrò e lo tirò per la cravatta verso di sè, facendogli incontrare il viso gelidamente calmo
dell’altra.
Per un istante il marine si stupì di
quanta regalità risiedesse in quel viso, illuminato da una luce bianca e quasi
innaturale, ma si impose di tornare con i piedi per terra, realizzando
finalmente in che razza di situazione si trovasse.
Messo sotto da una donna in preda ad un
attacco d’isteria??? Dannatamente no!
“SI PUO’ SAPERE CHE DIAVOLO LE PRENDE???!”
si schiarì la voce, incrinando per un istante l’espressione coriacea della
paradisea.
Tutto in un istante e Clarina
era già tornata seria e categorica.
“Quelle persone non sono innocenti.” Affermò tetra, guardandolo
dritto negli occhi come aveva sempre fatto dacché l’aveva conosciuta. C’era
però qualcosa di diverso in quello sguardo: guardava lui, ma guardava
qualcos’altro.
Come spiegarlo?
Era come se con i suoi occhi stessero
assistendo a qualcosa di recondito e lontano, ma allo stesso tempo lo stessero
affrontando. In tutta la sua vita aveva visto una cosa simile solo
una volta.
“Come??!”
“Quelle persone hanno mentito.” Precisò Clarina senza cambiare
di espressione e stringendo di riflesso la cravatta del vice-ammiraglio,
sgualcendola ancora di più.
Il Pugno stava già dando aria alle corde
vocali per chiederle le dovute spiegazioni, quando dalla porta della cabina,
sudati e bianchi come cadaveri, entrarono Koby ed Hermeppo.
“SIGNORE!” esclamarono spaventati i due
non appena videro la figura ammantata dalle fiamme di Clarina.
“FUORI DI QUI!
QUESTA E’ UNA CONVERSAZIONE PRIVATA!” gli ordinò più furioso che mai di tutta
risposta, mandando in aria centinaia di piccole gocce di saliva.
I due per un istante tentennarono,
indecisi se seguire l’ordine del loro stimato superiore, ma poi, contro ogni
previsione dell’eroe dal pugno di ferro, Koby si
chinò profondamente in avanti in segno di scuse e rispetto.
“Signore!” esclamò il ragazzo tremando fin
dalle ossa “L’ammiraglio Akainu…!”
Bastò quel nome a far crollare la maschera
di decisione dal volto della Paradisea, facendole mollare immediatamente la
cravatta del vice-ammiraglio Garp.
La donna, ancora ammantata dalle sue
fiamme bianche, si girò lentamente verso i due ragazzi, scrutandoli incredula
ed in preda al terrore. Era tornata la donna terrorizzata e braccata che era
salita sulla nave ore prima.
Dal canto suo il Pugno non ci fece molto caso, una volta libero di muoversi come
meglio credeva, ma si ritrovò comunque a guardare ansioso il proprio allievo,
con una brutta sensazione che gli attanagliava la bocca dello stomaco.
“…L’ammiraglio Akainu… si sta dirigendo qui…!”
La donna in quell’istante non ce la fece
più e con uno scatto a dir poco incredibile si appiattì contro la libreria
addossata alla parete, facendo cadere un paio di volumi, ansimando in preda al panico.
“E… vuole
vederla con urgenza.”
Garp non aveva mai odiato così tanto ricevere
notizia di una visita di un proprio superiore.
Akainu non era un tipo famoso per i propri
sorrisi, ma nessuno aveva mai avuto il dispiacere di vederlo fuori di sé.
Almeno fino a quando non era salito sulla
nave del vice ammiraglio Garp.
“GARP!!”
Uscendo dalla sua cabina, e richiudendosi velocemente la porta alle spalle, il Pugno fu
certo di odiare essere chiamato per nome dal proprio superiore.
“Che succede Akainu?”
si sbrigò a rispondere scendendo le scalette che portavano al ponte, arrivando
ad affrontare la figura di poco più alta del Cane Rosso, sfoggiando la sua come sempre impeccabile espressione
burbera e seria.
La risposta alla sua domanda fu uno
sguardo letteralmente fiammeggiante.
“Lei dov’è?”
La parte più difficile venne con
quell’inaspettato sviluppo, che lo portò a mascherare la propria consapevolezza
con un’espressione credibile in un lasso di tempo minimo.
“Lei?” riuscì nella propria impresa
inarcando uno dei propri sopraccigli bianchi, palesando al meglio “E chi
sarebbe questa lei?”
Non andò bene: la mascella dell’ammiraglio
si era stretta diventando ancor di più simile ad un macigno.
Garp comprese appieno la situazione: sapeva
che era stato lui, dopotutto, doveva ammetterlo, in tutto il quartier generale
di Marineford solo lui si sarebbe azzardato a
sfondare una porta in quel modo.
Accidenti a lui e alla sua impulsività.
Oh bhe.
Poco male, ormai la frittata era fatta.
L’unico problema al momento era rappresentato
che nella sua cabina c’era la ragione di tutto quel trambusto e che se il Cane l’avesse scoperto, tantomeno
sospettato, per lui e la signora Clarina, sarebbero
stati dolori.
La Paradisea in quel momento se ne stava
rannicchiata in un angolino della stanza, affiancata dai due apprendisti del
marine. Tutti e tre erano tesi ed pronti all’evenienza di vedere entrare da
quella porta in temuto ammiraglio, l’una scattando il più in fretta possibile
verso un nascondiglio sicuro, gli altri parandosi dinanzi al nemico
distraendolo al meglio delle proprie possibilità. In fondo si erano affezionati
a quella donna un po’ troppo loggorica che gli aveva
curati con così tanta gentilezza, quindi, abbandonarla nelle mani
dell’ammiraglio Sakazuki non era tra le opzioni
previste.
Per un istante Sakazuki
parve calmarsi, ma non fu che una breve illusione rotta dallo sguardo di
avvertimento che indirizzò dritto sul proprio subalterno.
“Garp.” Lo
avvertì “Sai a cosa vai incontro?”
“Eh?” fece lui in risposta, grattandosi la
testa di lato, assumendo la sua faccia da imbambolato migliore del suo
repertorio, ma questo non aiutò a far desistere l’altro.
“Il mio è un consiglio da amico..”
“No.. davvero Akainu,
di cosa sta parlando?”
Quella sua ultima uscita, splendidamente
candida, fermò le parole dell’ammiraglio che, bloccandosi per qualche istante
con negli occhi qualcosa di molto simile all’odio, girò i tacchi, scendendo il
più in fretta possibile da quella nave.
Una sola ultima frase fu capace di rizzare
i capelli della nuca al vice ammiraglio Monkey D. Garp.
“Mi aspetto di essere ricevuto nella sua
cabina la prossima volta, vice-ammiraglio.”
Atto
14, scena 11
“Che cavolo pesavi di fare??!!” sbraitò
Ace, mentre cercava di mantenere l’equilibrio sulla superficie ormai ballonzolante
ed instabile della Moby, stando bene attento a non perdere di vista la ragazza
che in quel momento stava, suo malgrado, rimproverando.
Momo però non riusciva proprio a smettere
di sorridere, nonostante sotto di loro la furia di un altro Re dei Mari, attirato
dalla sua voce, stesse mettendo a dura prova la resistenza della imbarcazione.
“Scu-!”
Una mano abbronzata bloccò quella parola
di troppo appena in tempo, premendole la bocca con decisione.
“Momo!” la richiamò Marco fulminandola con
un’occhiataccia alla quale l’altra rispose con un paio di cenni affermativi,
seppur seguiti da un paio di guance gonfie di stizza.
Il messaggio era chiaro: provateci voi a
rimanere zitti per ore.
Un altro colpo allo scafo della nave.
Ma perché tutti i Re dei mari hanno il
vizio di affondare le navi?? – pensò Ace tornando il più velocemente possibile
in equilibrio sui propri piedi.
Proprio in quel momento una figura sinuosa
emerse dall’acqua, facendo cadere sulle loro teste una pioggia salata.
Come poterono subito intuire dalle squame,
stavolta rosate, si trattava di un lucertolone molto simile ad un serpente
marino striato di nero, l’unica cosa che lo distingueva dal suo sfortunato
predecessore era una cresta sottile che gli ornava come una criniera la testa.
“Scricciolo … non per dire…”
si fece accanto a lei Satch, gattonando sul ponte con
un sorriso non tanto convinto e qualche goccia di sudore ad ornargli le tempie
“…, ma i tuoi pretendenti marini lasciano parecchio a desiderare.”
Lo penso anch’io…-
pensò la ragazza, guardando con non poco terrore il mostro cercare affamato
qualche indizio che portasse a lei.
Di colpo tutta la prudenza che si era
buttata alle spalle, tornò ad inondarle il cervello, facendole stringere di
riflesso i volantini che erano stati la causa del suo urlo sconveniente.
Oh cavolo, quegli orrendi occhi gialli non
si erano soffermati su di lei, vero???
E riecco l’istinto di darsi alla fuga che
le formicolava sulle gambe.
Lo avrebbe fatto, oh eccome.
Furono un paio di mani ben salde ad
inchiodarla al suo posto, impedendole così di dare conferma ai sospetti di quel
rettile affamato.
“Non ti muovere.” Le intimò la voce ferma
di Marco all’orecchio.
Ci fu un momento in cui arrossì di botto,
sicuramente per la vergogna di essersi quasi comportata da vigliacca, poi annuì
vigorosamente, tremano al contempo come una foglia.
Intanto il mostro marino continuava a
guardarla, ciondolando un poco confuso e deluso: poverino, non trovare la preda
per la quale aveva attaccato la nave doveva averlo sconvolto non poco… e il peggio doveva ancora venire.
Approfittando di quell’attimo di calma
Ace, insieme ad altri della sua divisione e gli altri capitani, si alzò
riscaldando con un paio di piccoli allungamenti un braccio, mostrando a tutti
il suo solito sorrisetto sghembo.
Momo aveva imparato a temere
quell’espressione sul volto del moro e sapeva bene che quella creatura stava
per pagare le conseguenze del suo errore.
“Chi vuole un Re dei mari per cena?”
concluse il comandante della seconda flotta, infiammando di colpo l’intero
braccio.
Inutile dire che a seguirlo fu una
sinfonia di spade sguainate e pistole caricate.
Da lontano la ragazza vide Vista estrarre
elegantemente le sue lame, seguito a ruota da Satch,
poco vicino a lei. Persino il babbo, sedutosi nuovamente e comodamente sul
proprio trono, si era messo a ridacchiare compiaciuto, trangugiando qualche
sorso proibito di sake.
Evidentemente il fatto di vedere i propri
figli così sicuri di sé ed organizzati lo aveva esonerato dal doversi occupare
della situazione.
La paradisea sospirò, coprendosi gli occhi
mentre si preparava con grande pena a sentire l’ultimo ruggito dell’animale.
Atto
14, scena 12
Scrrik-scriiiiich~!
“Smettila di cercare di rigare il tavolo.”
Ordinò Arch laconico, mentre affilava serafico le
proprie lame con una pietra adatta. Accanto a lui, seduti ad un tavolo da cafè in ferro, Viola e Morgan rimanevano zitti, l’una
rimuginando arrabbiata su quello che il bambino aveva appena raccontato,
confermando così la storia di Arch, l’altro
rannicchiandosi il più possibile sulla sedia, pregando di scomparire.
Scrrik-scriiiiich~!
“Viola..” la richiamò il biondo,
cominciando a non sopportare più il rumore che le unghie fastidiosamente
affilate dell’argentata creavano, venendo grattate, in preda ad un tic nervoso,
sul tavolino.
“Non rompere Arch.” Lo zittì quest’ultima,
guardando prudentemente da un’altra parte “Sto pensando.”
Gli occhi cobalto del biondo si
spalancarono di colpo, bloccandolo nell’atto di passare ancora una volta la
pietra sul filo malridotto del proprio pugnale.
Pensare? Grande spirito, no. Pietà.
L’ultima volta che Viola si era messa a
pensare lui ed Allegra si erano ritrovati a testa in giù sopra un acquitrino
paludoso pieno di rettili giganti addormentati.
Morgan non seppe dire perché il volto del
signor Arch fosse sbiancato di netto, ma non era un
buon segno.
“Ehi, marmocchio.” Lo richiamò la voce
rude della ragazza, facendogli incontrare ancora una volta gli occhi scuri di
lei contratti un po’ per il troppo sole, un po’ per la situazione in cui si
trovavano
“Com’era?”
Il bambino sbattè
un paio di volte le palpebre.
“C-com’era
cosa?” chiese di getto, senza pensare.
“IL FRUTTO!” esplose l’altra, facendolo
quasi cadere dalla sedia dallo spavento.
“A-aveva un b-b-brutto sa-pore.” Spiegò semplicemente l’orientale,
nascondendo un po’ il viso dietro l’orlo del tavolo, con gli occhi un po’
lucidi per lo spavento.
“Non mi riferisco al sapore!” ringhiò
stavolta a denti stretti la Paradisea, sentendo in gola la sensazione di star
perdendo il controllo della propria voce.
“Ma all’aspetto! L’aspetto!” precisò
impaziente.
Morgan si corrucciò un poco, inizialmente
con fare ferito, poi assorto nel tentativo di racimolare le parole adatte a
descrivere il frutto da lui ingerito un anno prima.
“Era…” si guardò
intorno, cercando qualcosa che gli somigliasse almeno vagamente.
Lo trovò.
Senza dire una parola scese dalla sedia ed
andò verso la bancarella di frutta poco lì distante, indicando con enfasi uno
dei prodotti in esposizione.
Incuriositi da quel gesto Viola e Arch si alzarono e seguirono il bambino, mettendosi ad
osservare quella strana sfilza di oggetti tondeggianti, colorati e dall’aspetto
inaspettatamente succoso.
“Era molto simile a questo!” esclamò il
moretto indicando con un dito un gruppetto di tondini violacei uniti tra loro da
un rametto.
Arch, dietro di loro, inarcò un sopracciglio,
interessato da quello strano oggetto.
“Quella è uva?” chiese, ricordandosi della
prima, vaga, descrizione fornitagli dal bambino.
Morgan annuì vigorosamente.
“Quello che ho mangiato io era giallo, i
chicchi erano uniti in un unico frutto e…” continuò,
ripetendo quello che aveva detto al ragazzo ore prima.
“Nient’altro?” intervenneViola, in quel momento talmente seria in
volto da far paura.
Il bambino ci mise molto prima di decidersi
a parlare, sudando freddo alla vista degli occhi accigliati della ragazza
osservare fissi il frutto violaceo indicatole.
“A-aveva…”
balbettò Morgan con la gola diventata stranamente secca “… i…
i chicc-cchi … che s-sembravano a…s-s-sp-.. ”
Gli occhi di Viola e Arch
si dilatarono quasi nel medesimo istante, riconoscendo le prime due lettere di
una parola che non si sarebbe dovuta pronunciare.
“…spirale.”
Da lì in poi Morgan non seppe mai cosa
successe esattamente. Si sentì solo strattonare all’indietro per la maglietta e
un forte ruggito da parte di Viola rimbombargli nelle orecchie. Il suo corpo fu
premuto contro quello che, con una rapida occhiata all’indietro, riuscì ad
identificare come il signor Arch, poi un’altra spinta
fece rotolare, o meglio volare, per un paio di metri entrambi.
Il bambino si ritrovò accasciato per terra
e stretto al petto di Arch, pieno di graffi e polvere
sul viso.
Attorno a loro i pochi passanti del tardo
pomeriggio si erano fermati, trasalendo a quella vista spaventosa.
“Viola…” gemette
il biondo, rialzandosi a fatica insieme al bambino.
Gli occhi neri di quest’ultimo trovarono
la ragazza a pochi metri da loro, con le mani strette a pugno e la bocca storta
in una smorfia rabbiosa, ancor più terribile di quella che assumeva di solito.
“… Stai. Calma.”
“Ehi…moccioso.” Disse
l’altra, facendo finta di non averlo sentito, avvicinandosi pericolosamente a
loro con passo lento.
Morgan spalancò gli occhi terrorizzato,
quando la figura minacciosa di Viola gli si parò davanti, oscurandolo con la
sua stessa ombra.
“Sputalo.”
“eh..?”
“Viola!”
“SPUTA
QUEL FRUTTO!”
Atto
14, scena 13
Momo stava pregando incessantemente che
qualcuno la venisse a salvare.
Dacchè Betty, furiosa per aver visto
l’armadietto dei medicinali fracassarsi in buona parte del suo contenuto al
suolo sotto i colpi del Re dei mari, in quel momento finito sotto le amorevoli
cure del cuoco di bordo, l’aveva trascinata via e rinchiusa insieme a lei
nell’infermeria per farle la ramanzina del secolo, aveva speso ogni suo singolo
pensiero ad implorare che Satch, Jaws
o chi altri la venisse a prelevare.
Ahimè, nulla di tutto ciò accadde.
Dal piccolo oblò della stanza poté anche
vedere che si era fatta sera.
Accidenti, che razza di polmoni aveva
quella donna??
Di certo non forti quanto quelli di
Viola.. – si ritrovò a pensare lanciando un’occhiata al volantino che la
ritraeva. Sorrise di riflesso, incurante del fatto che Betty, sorpresa di non
essere più ascoltata dalla sua giovane allieva, aveva fermato la propria
sinfonia di strepiti.
Attraverso
le lenti scure dei propri occhiali Betty vide con sua enorme sorpresa la
piccolina sorridere incurante, continuando a stringere al petto i sue
volantini.
E nel mentre l’infermiera si chiedeva che
effetto avessero mai fatto alla sua memoria quei pezzi di carta per farla
ridere in quel modo, nella mente della paradisea passavano i pochi preziosi
ricordi che era riuscita a riacquistare…
Sinfonia
- Andante Molto Mosso
Una foresta dalle foglie lucide e talmente
grandi da oscurare la vista del cielo notturno le si stagliava attorno. Sentiva
di essere piccola, bassa e nonostante fosse ben dritta sulle proprie gambe,
avvertiva la sensazione di camminare poco famigliare.
Tra le braccia teneva cinque frutti di
colore diverso. Erano grandi, bitorzoluti e difficili da portare.
Saltò da terra con il solo ausilio delle
gambe, ma riuscì comunque ad arrivare ad uno dei rami più bassi di un albero.
Stava scalando una pianta lunga ed alta, piena di buchi e con una chioma
stranissima in cima, simile a una palma.
Rischiò di far cadere uno dei frutti, ma
riuscì ad afferrarlo appena in tempo con i denti.
In bocca sentì il sapore amarognolo del picciolo
legnoso di quella specie di cocomero rosa. Cercò di non pensarci continuando a
saltare con il frutto ancora stretto tra i denti.
Salto a destra.
Salto in alto.
Ancora destrae poi sinistra.
Era arrivata.
Davanti a lei, in corrispondenza del ramo
c’era un’altra cavità scura e sicuramente profonda.
Si avvicinò senza timore finché una
dozzina di luci di vario colore si accese nel buio di quell’antro.
Non ne fu spaventata.
“Ehi, è Allegra!” disse una voce
appartenente ad un paio di occhi rossi.
“Allegra!” fece eco un paio di occhi
rosati e più gentili rispetto agli altri.
Non poteva rispondere con quel frutto in
bilico nella propria bocca, ma, anche potendo, non ne avrebbe avuto il tempo.
“Allegra!!!” un altro paio di occhi
rossi vivi si lanciarono verso di lei, facendo fuoriuscire dal buco una figura
ammantata su testa e braccia da fiamme rubiconde. Una ragazzina di forse 7 anni
dai capelli lunghi ed appena visibili da sotto quel manto di fiamme che la
ricopriva.
Lei non fece altro che sorridere e porgere
all’altra i frutti che aveva tra le braccia, tralasciando quello che le
impediva di parlare, ma a dispetto delle sue aspettative, l’altra si arrabbiò.
“Sei impazzita?? Non c’era bisogno che lo
facessi!!!” sbraitò quella a pieni polmoni avvicinandosi a lei e
togliendole di poca grazia il frutto bitorzoluto dalla bocca.
“M-ma…” disse,
sentendo ancora un po’ di amaro in bocca “… stavate morendo di fame.” Fu la
sua giustificazione, volgendosi in direzione delle altre, che, imitando la più
grande,erano uscite dal loro
nascondiglio, guardando con fare bramoso le cibarie portate da lei che, poté
intuire da quanto era alta rispetto alle altre, era la più piccola.
“E hai sacrificato 5 anni della tua vita???!!”
esclamò quella con tanta forza da farle male alle orecchie.
“Anche tu l’hai fatto!” protestò,
stavolta sfidandola “Ne ha usati 6!!”
Capì di aver colpito ed affondato nel
vederla digrignare i denti con rabbia e lanciare il frutto che le aveva
sottratto dritto nel loro rifugio.
“Ahia! Viola!” lamentò la più
timorosa delle voci, sicuramente appartenente agli occhi rosati.
“Sta’ zitta Agiata! E vedi di non mangiartelo
tutto!”
“Cattiva!!”
Sorrise soddisfatta, finalmente avrebbero
fatto un pasto decente.
…….
Allegra.
Era il suo nome.
Strinse ancora di più quei volantini,
sentendosi scaldare il cuore.
Non avrebbe cambiato, però, quello che le
aveva dato la ciurma.
Momo le andava bene, ed ormai si era
affezionata a tutti sulla Moby.
Tra l’altro, conoscendo solo il nome,
sarebbe stato molto meglio aspettare di conoscere qualcosa di più su di sè.
Non voleva accelerare troppo i tempi.
Quella nuova famiglia le piaceva un sacco
e non l’avrebbe lasciata per così poco.
Chissà…- pensò - …magari
Viola e Archpotrebbero…
Un piccolo schiocco l’avvertì che quella
aveva avuto era una pessima idea.
Sospirò.
Oh bhe, poco
male.
Quel piccolo ricordo l’aveva aiutata
tantissimo e doveva tutto all’immagine della sua amica ormai cresciuta e anche
quella di Arch.
Adesso per esempio conosceva l’aspetto
della sua isola natia, e che, stranamente, per un certo periodo della sua vita
si era trovata da sola insieme ad altre sue coetanee, tutte femmine, in mezzo
alla foresta.
Già e Arch? In
mezzo a loro non aveva visto il biondo…
Forse non era ancora nato…-
pensò
Poi quegli strani frutti … non capiva
ancora bene cosa volesse dire viola quando l’aveva sgridata, rimproverandola di
aver sprecato 5 anni della sua vita…
“Momo-chan?”
La voce un poco preoccupata di Betty la
richiamò, scuotendola dai propri pensieri.
Si accorse di essere nuovamente attorniata
dalle proprie fiamme gialle e che il cielo si era fatto scurissimo.
“Forza. È ora di andare a mangiare.” Fu la
sola cosa che l’infermiera le disse, alzandosi e dirigendosi insieme a lei
verso la porta.
Uscendo intravide un sorriso intenerito
dipingersi sulle labbra rosse della più grande.
Atto
14, scena 15
“Secondo me lo scricciolo ha ricordato
qualcosa.” Affermò Satch, assaporando fino all’ultimo
la carne squisita del mostro marino da loro cacciato in giornata.
“Ovvio…
altrimenti non avrebbe lanciato quell’urlo.” Gli diede corda Marco facendo lo
stesso con il proprio piatto, anche se con un po’ più di decoro. Alla loro
sinistra Vista si lisciò i lunghi baffi, ondeggiando con fare assorto e
divertito il calice di vino mezzo riempito.
“La piccola lady sarà stata molto
contenta, immagino…” si interruppe per sorseggiare un
po’ del suo bicchiere “…non mi stupisce che abbia
reagito con tanto zelo.”
“Bhe, almeno
grazie a lei ci siamo procurati una cena con i fiocchi!” esclamò Satch tutto contento.
“Già…” disse il
comandante della prima flotta,annuendo: la ciurma sembrava aver preso bene la
notizia di un possibile ritorno della memoria per la loro nuova sorellina,
anzi, sembrava quasi non farci caso.
Adocchiò alla propria sinistra l’ondata di
fumo nero che partiva dalla testa di Ace, accigliato e con il mento poggiato su
una mano.
Il biondo sospirò: non poteva certo
biasimarlo per essere arrabbiato. Anche lui c’era rimasto non poco di sasso
quando Betty si era portata via Momo, impedendo loro di chiederle cosa avesse
mai ricordato, guardando le facce dei propri amici.
“Rilassati.”
La quantità di fumo raddoppiò.
“Ace…” fece accigliandosi
a sua volta “… scaldarti non servirà a far apparire Momo da quella porta.”
“Almeno mi aiuterà a passare il tempo…” bofonchiò il moro in preda all’umore più nero.
“Qualcosa di più costruttivo?”
“Aaaah!”
ringhiò, sciogliendosi finalmente da quella posizione da pensatore imbufalito,
per poi scoccargli un’occhiata fulminante.
“Ma perché Betty deve sempre rompere le
uova nel paniere?!”
“È una donna, Ace, farlo rientra nelle sue
mansioni giornaliere.”
“Momo non è così!!”
“Un giorno lo sarà.”
A quell’ultima frase il comandante in
seconda rispose con un’espressione un po’ sospettosa.
“Se stai cercando di farmi rinunciare,
campi male Marco.” Scandì per bene guardandolo di traverso.
“Tentar non nuoce.” Fece lui, guardando da
un’altra parte con la solita espressione apparentemente imbronciata, facendo le
spallucce.
“Satch-san!”
Si parlava del diavolo…
L’intera sala non fece nemmeno in tempo ad
alzare lo sguardo sulla paradisea che questa era saltata sul capitano della
quarta divisione, facendolo cadere all’indietro dalla sedia per il troppo
slancio.
Il biondo dal pizzetto si ritrovò
letteralmente disteso per terra con il suo adorabile scricciolo, luminoso e
giallo come al solito, sopra di lui, con un sorriso grandissimo sulle labbra.
Due vene di puro scontento si gonfiarono
sulle tempie dei sue pretendenti della ragazza e questo, purtroppo, non sfuggì
all’occhio attento di Satch, in quel momento più che
mai spaventosamente consapevole di star rischiando i propri capelli.
Con sua immensa gioia e gratitudine fu
proprio la ragazza a saltare via da lui, liberandolo inconsapevolmente dalla
più crudele delle sorti.
“Ehilà, scricciolo!” esclamò, rialzandosi
a sua volta, mentre Ace e Marco placavano i loro intenti omicidi nei suoi
confronti.
Momo non perse tempo e con un rapido gesto
portò i due volantini nuovi di zecca di fronte al comandante in quarta.
“Satch-san! Mi
sono ricordata con chi viaggiavo!” esclamò visibilmente eccitata la ragazza,
persino le sue fiamme, normalmente di un bel giallo sgargiante, si erano
schiarite diventando leggermente più pallide.
Un momento di silenzio gli accompagnò per
un istante, finendo poi con l’esplodere in boato di esclamazioni entusiaste da
una buona parte della ciurma.
“Ottimo scricciolo!” esclamò sorridendo Satch, chinandosi di poco verso la più piccola, che però
non sembrò risentire di quella vicinanza come al solito.
Stranamente la sua solita insicurezza
pareva essersi dissolta in un soffio.
Con la coda dell’occhio il biondo vide gli
altri due assistere preoccupati, ed un poco sulle difensive, la scena, dandogli
così occasione di concedersi una sottile vendetta per il trattamento subito.
I suoi capelli reclamavano giustizia.
Chi era lui per deluderli?
Fece un bel respiro e, in un soffio, diede
voce alla domanda più critica e malevola che potesse colpire le orecchie dei
due comandanti incendiari.
“Ti sei ricordata del bel ragazzo di cui
mi avevi parlato?”
Fu con grande soddisfazione che notò i
muscoli di entrambi irrigidirsi di colpo.
Aaah… dolce soddisfazione.
“Sì!” annuì vigorosamente Momo, incurante
di quella punizione indetta dal suo migliore amico nei confronti dei suoi ex
aguzzini. La sua mano afferrò prontamente il suddetto dispaccio di cattura,
portandolo tra le mani dell’altro che, nonostante l’avesse già visto, finse un
poco di sorpresa per evitare di deludere la sua sorellina.
Fischiò, ribadendo implicitamente quanto
fosse di bell’aspetto il ragazzo rappresentato nella foto, facendo di
conseguenza rodere di più il fegato ad Ace e Marco, i quali, avendo intuito il
giochetto mentale dell’altro, meditavano già una dolorosa rivincita.
“E allora? Di chi si tratta?” fece infine
con fare impaziente, condendo per bene la propria rivincita.
Non era solo per fare scena o, meglio,
tenere sulle spine i suoi carissimi fratellini innamorati : anche lui, da
quando lo scricciolo gli aveva parlato di quel ragazzo con la quale sembrava
capirsi in modo particolare, si era ritrovato più volte a ragionare su di chi
mai si sarebbe potuto trattare.
Gli occhi gialli e brillanti di Momo risplendettero
per un istante più che mai, quasi rivangando su qualche prezioso momento
passato che aveva avuto, certamente, la fortuna di recuperare dopo tanto tempo.
L’intera ciurma rimase a fiato sospeso,
osservando l’espressione della ragazza farsi più serena e decisa.
“Mio fratello!”
Marshall D. Teach
guardò con rinnovato interesse le immagini di quella potenziale nuova preda. Il
foglio che ritraeva Viola la Sollevapesi tra le sue
mani aveva assunto lo stesso valore di un biglietto da visita e dovette
trattenersi di parecchio per non palesare il suo sviscerale interesse per
quest’ultima, umettandosi le labbra con la lingua.
Non era stato difficile riconoscere nella
pazza scatenata ritratta nella foto un’altra di quelle deliziose pulcine: solo una Paradisea sarebbe potuta essere capace di
sollevare un credenza senza doversi portare dietro delle antiestetiche braccia
da palestrato. E il fatto che prima viaggiasse insieme alla piccoletta poco
distante era un’ulteriore conferma.
Una gran bella scoperta. Adesso aveva solo
l’imbarazzo della scelta.
Il piccolo pasticcino giallo, facilmente a
portata di mano, o la bella gatta selvatica?
Ah, che decisione difficile…
Ma il tempo non gli mancava: come gli
avevano suggerito le sagge parole del suo taccuino colmo di informazioni succulente.
Non si stancava mai di leggere quel volumetto di cui, per qualche strano scherzo
del destino, si era dimenticato l’esistenza tempo addietro.
Più andava avanti tra quelle piccole preziose
paginette più si rendeva conto quanto fosse stato avventato la prima volta,
cercando di acchiappare a mani nude quella graziosa micetta.
Le Paradisee non erano facili da
intrappolare. Non per niente le chiamavano sirene di scoglio: vivevano in
un’isola essenzialmente impervia dal punto di vista morfologico e pericolosa a
causa degli animali che la abitavano.
Non era poi così strano che questi fattori
avessero contribuito a farle diventare delle esperte in tecniche di
sopravvivenza.
Gli occhi rotondi e vitrei del pirata
sdentato puntarono per un istante su Momo, luccicando al ricordo della velocità
con la quale riusciva a saltare da un posto all’altro, aiutandosi qualvolta
anche con quelle strane ali fiammeggianti sulle braccia.
Scostò prontamente lo sguardo prima che
qualcuno potesse notarlo, addentando con voracità una delle sue consuete e
zuccherose crostate alle ciliegie.
Che tipo di Essenza poteva avere la
piccoletta?
Non sarebbe stato tanto importante se
quello zuccherino fosse stato l’unico esemplare nel raggio di kilometri, ma,
essendone apparso un altro, decisamente molto promettente, la cosa diventava
fondamentale.
Si poggiò una mano sopra il punto del
braccio dove la paradisea era riuscito a scottarlo, massaggiandosi con
attenzione la pelle ancora leggermente raggrinzita.
Le capacità di una Paradisea variavano in
base alla propria Essenza, questo non doveva scordarlo.
Le sue orecchie avvertirono la risata
argentina della ragazzina.
Strinse il boccale di rhum tra le dita.
C’era un’altra cosa che lo turbava e che
gli punzecchiava la mente, mettendogli fretta: Inari Fountain.
Quel postaccio era l’ultimo posto in cui
avrebbe voluto vedere scomparire la propria preda.
Dannata isola colma di esseri assurdi! Una
volta entrata lì dentro il suo delizioso uccel di bosco sarebbe stato
impossibile da recuperare.
Osservò assorto il liquido rossastro
ondeggiare quieto nel proprio bicchiere, stringendo gli occhi con decisione.
Doveva escogitare qualcosa e in fretta.
Atto
14, scena 16, Nuovo Mondo, Inari mountain
Un secco tintinnio della parte metallica
di una Kiseru battuta su un portacenere vibrò nella
grande stanza in penombra, rimbalzando sulle pareti in carta di riso decorata.
Sottili veli di seta e lino pendevano dal soffitto ligneo, sfiorando appena il
tatami accuratamente disposto sul pavimento.
Veli di fumo soffiati in aria si facevano
strada tra i drappi pregiati con la stessa sinuosità di tanti serpenti,
indicando la presenza di una figura nascosta e comodamente seduta oltre quel
lussuoso separé semitrasparente.
Il rumore ruvido dello scorrere della
porta principale fermò per u attimo il susseguirsi delle folate di fumo.
“Amaterasu-sama.”
Esalò con tono ossequioso una donna in kimono chinatasi non appena entrata al
cospetto della padrona.
Il volto della nuova giunta era
interamente ricoperto da delle bende, lasciando spazio libero solo agli occhi,
castani e sottili come quelli di un serpente.
“Che succede Kurage?”
La domanda del tutto formale e pronunciata
con un pizzico di noia, fu intercalata da un nuovo soffio di pipa in aria.
Gli occhi sottili della ragazza si
chiusero in segno di rispetto spostando in avanti l’oggetto che aveva avuto
ordine di presentare.
“Sir Newgate
desidera parlarle.” Enunciò poggiando con delicatezza il lumacofono
bluastro e serio.
La bocca rossa della figura esitò
nell’atto di poggiarsi nuovamente sul bocchino della pipa, colta in un istante
di stupore, per poi allargarsi in un sorriso deliziato.
“Lasciaci soli.” Ordinò solamente e così
fu fatto, tutelando la propria privacy.
Attese sinché l’ombra di Kurage non scomparve dalle sottili pareti di carta.
“A cosa devo l’onore della chiamata Oyaji?” domandò con fare civettuolo, ondeggiando
amabilmente la kiseru tra le dita smaltate di blu
elettrico.
L’espressione del lumacofono,
in apparenza imperturbata, rispose con la voce rimbombante del pirata più
temuto dei quattro mari.
“Salve Ryogan.”Disse “Spero di non averti disturbato.”
“Oooh! Lascia
perdere i convenevoli Oyaji!” esclamò ondeggiando una
mano in aria con fare enfatico “Sai bene che tu non disturbi mai! Aspetto
sempre una tua lumacofonata!” concluse cambiando
posizione sul proprio cuscino imbottito in una posizione ancor più eccentrica e
sensuale.
“Allora? Verrete a farmi visita tu e i
miei adorabili fratellini?”
punzecchiò portandosi nuovamente alle labbra la pipa, assottigliando al
contempo i begli occhi dorati.
“Volevo appunto informarti del nostro
imminente arrivo.”
La pupilla degli occhi si assottigliò
compiaciuta, diventando stranamente simile a quella di un felino.
“Ooooh! Ma che
bella notizia!” esclamò unendo le mani in un singolo applauso.
“A quando l’atteso giorno? Devo
organizzare tutto per festeggiare il vostro ritorno Oyaji!”
Il tono eccitato fece la sua scena,
portando però il lumacofono ad un breve ed inatteso
silenzio.
“In verità, sono sorti degli imprevisti Ryogan.. e temo non potremo giungere a destinazione prima
di un altro mese e mezzo.”
Attraverso l’ombra della stanza, le labbra
rosse, prima tirate in un sorriso giulivo, si erano incrinate in una curva
delusa.
“Spero non ti dispiaccia.”
“Kikihkihkihkih!”
Una risata graffiante esplose
graziosamente, zittendo per un istante la conversazione.
“Niente di grave Oyaji,
sai che le vostre visite sono sempre gradite, ritardi compresi! Rendono tutto
così eccitante!!” rassicurò la figura agitandosi con sicurezza dietro i
preziosi tendaggi.
“Felice di sentirtelo dire.”
“E come sta…” lo
interruppe nuovamente, poggiandosi comodamente da una parte, assumendo un tono
languidamente interessato “… il mio pezzo
preferito? È da tanto che non lo vedo.”
“Marco sta bene come sempre.” Rispose
prontamente il Re del Nuovo Mondo
“Sempre imbronciato?”
“Sorride più spesso di recente.”
Quella frase fece aguzzare l’attenzione di
Ryogan. Il suo pezzo migliore sorrideva più spesso?
Più di quanto ricordava?
“E come mai?” azzardò non osando aspirare
altro fumo.
“È innamorato.”
Il silenzio fu l’unica cosa che rispose
all’affermazione del Bianco.
“La cosa ti disturba?”
“Affatto Oyaji!”
esclamò forse con un po’ troppo slancio “Ma gradirei ricevere prima simili
notizie!” aggiunse con una punta di indignazione, alzandosi di scatto dal
comodo giaciglio e cominciando a farsi strada tra le sete appese.
“Capisco.”
“E chi è la fortunata?” chiese con una punta di amarezzal’aggraziata figura del padrone dell’isola,
ondeggiando con orgoglio i propri lunghi neri e lucenti capelli. Quando
l’ultimo drappo fu scostato un kimono rosso come il sangue un po’ sconvolto,
tenuto su da un solo obi blu scuro ornato di rami di
ciliegio, apparve attorno alla figura snella ed aggraziata dell’interlocutore
del Bianco.
AmaterasuRyogan
Signore dei Demoni
Taglia: attualmente 560
milioni di bery
Una mano smaltata e ben curata accolse nel
proprio palmo il piccolo lumacofono con delicatezza,
nonostante le sopracciglia lievemente corrucciate denotassero un notevole
scontento.
“Spero non si sia invaghito di qualche sciocca umana come tempo addietro.”
Disse con tono velenoso.
“Gurararah!”
ridacchiò in risposta Oyaji.
“No, penso proprio che stavolta la ragazza
sia all’altezza delle tue aspettative, Ryogan.”
Fu il turno dell’altro di rimanere
sorpreso.
“In che senso?” chiese inarcando un
sopracciglio.
“Lo scoprirai non appena arriveremo…” sorvolò tempestivamente sulla domanda “…,
sappi comunque che vorrei affidarti la ragazza per un certo periodo, affinchè tu la istruissi
a dovere.”
Gli occhi gialli e ferini di Amaterasu si allargarono sconvolti intuendo il succo della
questione: se Oyaji stava portando qualcuno da lei
per essere preparato, come aveva fatto tempo addietro con Marco, significava
una sola cosa.
Due lumicini apparvero al posto delle sue
pupille e la pipa venne abbandonata con noncuranza sul pavimento con un tonfo secco.
“UNA CREATURA RARA???!!”
Fine
seconda parte Atto Quattordicesimo
E rieccolaaa!!!!! Ferme! Piano con l’entusiasmo questo non
significa ancora che sono libera! Sono solo riuscita per amor vostro a scrivere
lentamente questo nuovo capitolo! Risponderò alle vostre recensioni (lasciate
in sospeso, sob.) il più presto possibile!
Bene bene. Le cose si fanno interessanti. Momo ricorda il suo
nome e di Viola e Arch, ma cosa centrano con lei e la
sua razza i frutti del diavolo? Ehehe.
Spero
di non essere stata troppo prevedibile e che abbiate gradito l’entrata in scena
del nuovo personaggio! Uhm… ci voglio fare su un disegno… *.*
Comunque
le cose vanno abbastanza bene domani ho un esame e ho TUTTI in famiglia mezzi
morti a causa per l’influenza (ovviamente io no, maledetti anticorpi super pompati…) aaaah che sofferenza
essere l’unica superstite.
Dunque
bando alle ciance e passiamo alle cose serie!
E il
vincitore del sondaggio tripartito per il cuoricino della nostra Momo èeee…..? (rullo di tamburi, il pubblico deglutisce)
MARCO!
“Noooo!” <- per chi non l’abbia capito questo è Ace
Mi
dispiace Ace, dai andrà bene nelle altre fic.
(Il
volto diPugno di fuoco sbianca inorridito)
“Non mi
vorrai far andare in bianco per tutto il resto della storia!”
Chissà… (espressione da stronza.)
“Pietà!”
Scherzavo!
Tranquillo, non avrei cuore di lasciarti da solo!
Bene ,
e adesso che abbiamo risolto la questione passiamo alle seguenti domande, ormai
l’impostazione della storia è fatta ora arriva il bello!
1)Mettetemi
i bastoni fra le ruote! (ovvero, mettetemi tra le scatole un evento inatteso,
che faccia casino e che ritardi, anche di poco, il riunirsi dei tre amici di
Nido Leila!)
2)Suggerimenti
liberi. (ultimamente ce ne sono parecchi, ma non fanno mai male, in fondo
questa è una sorta di Blog Novel)
E con
questo mi rimetto a studiare! Alla prossima belle bimbe! XD
La bocca di Momo era mezza socchiusa per
lo shock, mentre ad occhi spalancati osservava ancora intontita l’imponente figura
del padre adottivo.
Un silenzio irreale regnava nella sala.
Nessuno, neppure Ace e Marco, che fino ad
un momento prima avevano esultato sotto il tavolo dandosi il cinque per il
fatto di non dover fare i conti con il bellone nel volantino da ricercato,
osavano in quel momento proferire parola.
Davanti a loro Momo era come pietrificata,
comprese infine le parole del padre.
Un giramento di testa la colse, facendola
traballare pericolosamente in avanti, costringendola così a reggersi la nuca con
una mano, divenuta così stranamente pesante dal portarla quasi al crollo.
D’istinto alcuni, tra cui Jaws, si alzarono, pronti ad acchiapparla prima che
piombasse a terra, ma, fortunatamente, la piccola si resse bene sulle proprie
gambe anche senza il loro aiuto.
Quello che più preoccupava tutti, tuttavia,
andava ben oltre un normale giramento di testa.
Non avrebbero mai immaginato che sentirsi
descrivere per la prima volta il mondo dove loro vivevano, quello della
pirateria, l’avrebbe sconvolta fino a tal punto.
Era tutto cominciato da una semplice
domanda, ovvero, quella riferita agli strani numeri che sottolineavano le
immagini del fratello e dell’amica e, quando la spiegazione derivata aveva
portato ad un’altra domanda, a un’altra e un’altra ancora, le spiegazioni si
erano susseguite come tanti piccoli acquazzoni,dando vita ad un vero proprio fiume in piena di parole.
Nella mente della Paradisea, confusa e
quasi inorridita, si alternavano le parole del Bianco.
Solo intuire il terribile legame che
quelle parole avevano l’una con l’altra le faceva venire la nausea.
Come ho fatto a non pensarci…?-
pensò rinfacciandosi di essere stata troppo serena, troppo superficiale
riguardo la vita che conducevano i suoi nuovi fratelli.
Avrebbe dovuto informarsi. Chiedere
spiegazioni. Qualsiasi cosa.
Abbassò lo sguardo coprendosi metà volto
con una mano, piena di vergogna: in quel momento parte della sua precedente
esistenza, parte della sua famiglia, Arch e Viola,
stavano rischiando di essere uccisi per la loro fretta di venirla a cercare,
forse temendola chissà dove.
E invece erano loro quelli che stavano
rischiando la vita.
Perché
la Marina non perdona chi va contro le regole, aveva detto Oyaji con voce grave,
guardandola con enorme compassione, o
stai alle regole, le loro, o sei rivoluzionario o pirata.
In ogni caso per loro non hai più diritto
di vivere.
Perché quelle parole … regole … diritto di vivere…
le stavano tanto dando sui nervi??
Non si accorse di star velocemente
cambiando colore, diventando pallida di rabbia sulle fiamme.
Dalla loro postazione favorevole, i 5
comandanti poterono assistere ad un lento e pericoloso cambio d’umore da parte
della piccola.
Pian piano la mano fiammante della ragazza
era scivolata verso il basso, scoprendo un po’ parte del viso, rendendo quindi
visibile l’espressione assorta e pericolosa
che i suoi occhi avevano assunto insieme ad un colorito giallo pallido.
Satch si ritrovò a deglutire inconsciamente.
Se prima vederla sconvolta dalle parole
del babbo lo aveva quasi spinto ad andargli incontro per consolarla, in quel
momento vederla così fuori di sé per
qualcosa di a lui sconosciuto, gli stava intimando di allontanarsi il più
velocemente possibile dalla sorellina.
Cavoli. Aveva la pelle d’oca.
Per loro fu quindi un vero sollievo vedere
quella rabbia dissiparsi dal suo viso, anche se l’espressione rimase seria e
ferramente decisa delle proprie decisioni.
“Oyaji…” cominciò incrociando, sicura come non mai, quelli
del capitano gigante.
Marco ed Ace la guardarono con
ammirazione: se gliel’avessero detto mesi prima che quel frugoletto delicato e
tremante naufragato da una nave di schiavi, spaventato da qualsivoglia rumore
che oltrepassasse la soglia della normale conversazione, non ci avrebbero
creduto.
Gli occhi azzurri di Marco si fissarono
sul viso di Momo.
Era scattato qualcosa.
Lo sentiva.
Qualcosa nelle parole del babbo, nei suoi
ricordi, forse entrambi, avevano dato avvio a qualcosa di inspiegabile.
Era come se qualcosa in lei si fosse
rafforzato in sincronia con le nuove certezze acquisite, andando ad accumularsi
nella sua coscienza, permettendole così di fiorire.
Era inspiegabile. E al tempo stesso affascinante.
Marco, così come Ace, non poteva fare a
meno di guardarla con una sorta di orgoglio, capendo a grandi linee cosa quella
testolina avrebbe partorito da lì a poco.
“… se
o ben capito, tu sei una persona importante nell’Equilibrio … di cui mi
hai parlato?”
Ancora una volta i comandanti, e anche
qualche altro membro della ciurma, notarono il modo indignato con la quale Momo
si era lasciata sfuggire la pronuncia della parola “equilibrio”.
Sembrava quasi fosse stata prossima a
sputarla.
All’annuire del comandante con la barba a
mezza luna, la ragazza continuò senza perdersi troppo in giri di parole.
“Ti
prego, adotta anche mio fratello e Viola.”
Il silenzio già presente nella sala,
divenne quasi pesante.
Non ci fu la solita, fragorosa risata
gioviale del babbo e, forse, fu proprio per questo che Momo, la loro sorellina,
si fece scura in viso, abbassando il capo con tristezza e delusione.
“Oyaji…so che è improvvisa come richiesta …”
alzò lievemente lo sguardo, stavolta supplichevole “…, ma Arch non riuscirà a fare più di un passo
senza combinare casini, se con lui c’è Viola…”
spiegò stavolta con una piccola ruga a solcarle la fronte più per preoccupazione
che per altro.
Avrebbe detto qualcos’altro se la voce
bassa e grave di Newgate non si fosse fatta risentire
per prima.
“Sembri ricordarti abbastanza bene di
loro.”
Gli occhi spalancati della Paradisea si
posarono sul viso rugoso e improvvisamente sorridente del padre, constatando
incredula a quell’inaspettato cambio di atmosfera.
Come faceva a rendere così piacevole una
situazione complicata come quella?
“Parlamene.” Decretò con un sorrisone
Edward Newgate, inclinandosele di fronte,
impendendole così di spiccicare altro.
“Cosa ti ricordi?”
Un attimo di smarrimento precedette un
sorriso sereno e da lì la sua voce melodica si perse nei racconti di piccoli
momenti e dettagli confusi e prive di radici del tutto consolidate.
Attorno a lei, suo padre e i suoi fratelli
ad ascoltarla rapiti e felici.
Sinfonia
- Allegro ma non troppo
“Allegra!”
Si voltò verso la matassa di foglie
scurite dalla notte dalla quale era provenuta la voce gentile ed un poco
paurosa di Agiata. Le sue gambe stavano meglio, si sentiva più sicura di sé e
meno traballante.
Non ricordava quello che stava facendo al
momento, ma era davanti ad un albero, quindi dedusse che si stesse occupando di
raccogliere altro cibo.
Come aveva intuito dalla siepe di foglie
lisce e carnose del sottobosco era spuntata la paradisea dalla fiamma rosa,
inciampando sui propri passi proprio di fronte a lei, cadendo di faccia in
avanti.
“Aww.”
Si lamentò senza neanche trovare la forza di rialzarsi subito.
“Agiata!” esclamò lei, avvicinandosi
alla più piccola, aiutandola così a rialzarsi pian piano, pulendole fronte e
capelli da alcuni grumi di terra umida.
“Che succede? Come mai non sei con le altre?”
“Viola mi ha sgridato.” Le rispose
l’altra imbronciandosi e cominciando a tremare per trattenere le lacrime, già ben
visibili negli angoli degli occhi.
Congiunse le mani preoccupata,
ritrovandosi a pensare ce non era la prima volta che succedeva.
“Cos’è successo?”
Non fece però in tempo a chiedere altro
che la risposta le si fiondò addosso sotto forma di tanti singhiozzi ed un
pianto indignato.
“Dice che devo darmi una svegliata e di
smetterla di venirti sempre dietro!” disse di getto Agiata,
abbracciandola talmente forte da impedirle di muoversi di un solo centimetro.
Alzò gli occhi al cielo, capendo bene il
cruccio della più bassa.
Che strano però, nel suo ultimo ricordo,
adesso che ci pensava, era la più bassa del gruppo.
Dovevano essere cresciute.
Comunque Viola era famosissima per
innervosirsi anche per le cose più insignificanti. Lei c’era abituata,
riuscendo in qualche modo a cavarsela stroncando i suoi ragionamenti irosi e
quasi sempre illogici con un paio di parole azzeccate, ma Agiata, la più debole
di carattere tra loro, soffriva molto la presenza dell’argentata.
Gli occhietti palpitanti di luce rosa si
alzarono su di lei quasi accusatori.
“È vero che te ne vai?” mugugnò con
fare lamentoso la paradisea rosa, affondandole il mento nel petto.
Sorrise mettendole le mani sulle spalle
nel tentativo di confortarla. Anche Agiata aveva una particolarità che con lei
non attaccava: quando si metteva a fare quell’espressione riusciva a far
sentire in colpa chiunque, a parte lei.
Non che fosse cattiva, ma il suo essere
così indifesa a volte la portava ad utilizzare il suo aspetto come scudo contro
la malvagità altrui senza mai rendersene conto.
“Devo andare Agiata…”
le spiegò senza troppi preamboli, accogliendola in un abbraccio fatto di fiamme
gialle, sfumate dalle altre rosa.
“Sto per avere una sorellina, mamma ha
bisogno di me.”
Ah. Ecco perché Arch
non era con lei!
“Ma tornerai vero?”
“Certo!” sorrise,sollevata di sentire
sempre meno il corpo della più bassa tremare per i singhiozzi.
“Dovrò accompagnarla ed insegnarle a
sopravvivere quando verrà qui!”
….
“Un momento.” La interruppe Ace, alzando
una mano in segno di scusa, vedendosi indirizzare qualche leggera occhiataccia
da parte degli altri.
Momo lo guardò stranita, sperando di non
essersi lasciata sfuggire che si era ricordata del proprio nome, premurosamente
omesso all’inizio del racconto.
La faccia lentigginosa era un poco
dubbiosa e tesa nel formulare una domanda fatidica non tanto per lui quanto per
l’altra.
“Ma che ci facevate in mezzo alla
foresta?”
Momo ci rimase di sasso, spalancando gli
occhi stupita e colpita.
Già, che ci facevano lei e le altre sue
simili – perché era ormai evidente dalle fiamme che erano uguali a lei – sole
in una foresta così grande, lontane dai genitori?
Non se l’era chiesto. Forse perché aveva
percepito il fatto come qualcosa di naturale, eppure non riusciva proprio a
ricordarsi il motivo preciso.
Ci pensò un po’ su.
Aveva parlato di insegnare al suo futuro
fratellino, da lei creduta femmina, ad imparare a vivere. Che fosse per quello?
“Credo
fosse una sorta di corso di sopravvivenza.” Rispose, rimettendosi composta
sulla botte, posta al centro della sala affinché a tutti fosse data la
possibilità di vederla e sentirla parlare.
Gli sguardi dei capitani scattarono
interessati a quella frase.
Allora era vero che l’isola di Momo era
molto pericolosa.
Marco non faticò ad immaginarsi in che
cosa consistesse: le Paradisee erano notturne, la loro voce attirava i Re dei
Mari anche fuori dalle fasce di bonaccia. Di certo la specie di Momo aveva
preso l’abitudine di forgiare i giovani fin dalla più tenera età alla durezza
del loro mondo.
“Io
sono brava a saltare.”
Quella frase fece riprendere il discorso
quasi di punto in bianco, portando Marco ed Ace a stupirsi guardandola ad occhi
sgranati.
Momo però non sembrava così turbata e con
fare assorto continuò quella che per lei era una spiegazione.
“Sono
veloce e- ….” Le parole le morirono in gola, mentre la sua pelle, resa più
calda dalla luce gialla e soffusa delle proprie fiamme, sbiancò leggermente.
Un istante di troppo di silenzio e Marco
si era già alzato dalla sedia,scavalcano il tavolo insieme ad Ace ed
accostandosi alla ragazza, apparentemente per nulla interessata alla loro
premura tanto si era bloccata in preda ad una sgradevole sensazione.
“Momo! Che hai?”
La domanda di Ace venne ben presto
ripagata dalla voce sottile della ragazza, strozzata da un sentimento molto
simile ad una profonda paura, o meglio, un antico turbamento.
“Mi sono ricordata che cosa sa fare meglio
Viola…” pigolò, lasciando perplessi sia i due
ragazzi, che si scambiarono reciprocamente un’occhiata stranita.
Tempo di compiere quel gesto, che la
ragazza sembrò ricadere in quella specie ti trans impaurito e senza pensarci
due volte, Ace, munito del proprio dito indice, stuzzicò la guancia della
ragazza per testarne i riflessi, meritandosi però un’occhiataccia degna di nota
da parte della Fenice.
Marco lo fissò intensamente, notando con
quanta soddisfazione il moro stesse godendo di quel minuscolo contatto fisico.
Oh, eccome se si vedeva.
Il ghignetto
soddisfatto di Pugno di Fuoco valeva più di mille parole.
La mano bruna del biondo scattò d’istinto
verso la mano sottile e rosea dell’altra, ma, prima che le sue dita potessero
anche solo palpare il calore soffuso di quella carne ricoperta di tenui fiamme ,
questa decise di risvegliarsi dal proprio stato di catalessi, guardandoli con
una strana apprensione negli occhi gialli.
“Marco…Ace…” sussurrò la paradisea piena di preoccupazione.
I due la fissarono rapiti, notando con
ammirazione quanto anche in quello stato sconvolto, con il respiro leggermente
accelerato e lo sguardo spaurito, riuscisse a mantenere una certa grazia.
“Voi siete bravi a scansare oggetti,
vero?”
Quella domanda, tutta seria e decisamente
assurda, oltre a far crollare le espressioni dei due poveri comandanti, fece
esplodere in una risata isterica non solo Satch, di
colpo piegato in due sul tavolo della mensa, ma anche il babbo, riverso
all’indietro sulla grande poltrona con una mano a tenergli lo stomaco.
Da parte sua, la paradisea, trovava la
situazione tutt’altro che divertente, dato quello che si era appena ricordata.
Un avvenimento risalente a dopo la nascita
di Arch ed il suo primo contatto con le altre.
Sinfonia
– Presto
“Non
capisco perché devo farlo…” bofonchiò accanto a
lei Arch, camminando pian piano nel sottobosco della
foresta.
Lei lo guardò dall’alto, c’erano più o
meno tre anni di differenza e lui doveva avere si e no 6 anni. Era biondissimo
ed estremamente adorabile, nonostante continuasse ad avere quell’aria
imbronciata.
“Non fare quella faccia Arch,
vedrai, ti piacerà stare con loro per un anno.” Disse sperando così di
vedere l’aria corrucciata del fratellino distendersi almeno un poco.
“Sarà…” disse poco convinto il bambino assottigliando gli
occhi e chinando ancor di più la testa in avanti, nascondendosi agli occhi
della sorella “…, ma non mi convince.”
“Che inten-?”
Le sue parole furono inghiottite da quelle
urlate, o meglio, ringhiate da una voce fin troppo conosciuta.
“ALLEGRA!”
Dall’alto di un albero, rossa come sempre
e più alta di come se la ricordava, sorretta su un corpo da ragazzina slanciata
e atletica, atterrò a gambe flesse Viola che, senza perdersi in troppi
convenevoli l’afferrò per le spalle, sollevandola per un paio di centimetri da
terra.
“C-ciao
Viola.” Balbettò non sapendo come reagire.
“Un corno!” sbraitò quella dando
segno di non voler sentire ragioni.
“Sei stata via 6 anni! Sei!! Quanto tempo
ti ha portato via la tua sorellina? Eh?! Agiata non ha fatto che rompermi le
scatole ogni anno!!”
“Viola!” La interruppe, intimandole
con uno sguardo di rimprovero di metterla giù per poi accennare in direzione di
Arch, ancora sbigottito e sulle difensive, mentre le
osservava dal basso.
L’argentata dalle fiamme rosse si voltò
verso il ragazzino, corrucciandosi un poco nel vederlo squadrarla minaccioso.
Non le piaceva. Non sapeva perché, ma la sola vista di quel facciotto
delicato e di quelle ciglia bionde gli diedero sui nervi fin dal primo istante,
facendola scattare come un serpente stizzito.
“È questa tua sorella?” disse di
getto, facendo finire la faccia di Allegra schiaffata su una uno dei suoi palmi
per la disperazione.
Grandioso. Si conoscevano da nemmeno tre
secondi e già si odiavano.
“Ma che diavolo indossa?!” aggiunse
Viola notando la bambolina indossare della strana roba, ma solo per accorgersi
che anche Allegra, accanto a lei, aveva il corpo parzialmente coperto, cosa
innaturale per loro.
“Ehi, ma cosa ti sei messa addosso?”
chiese la ragazza mettendosi le mani sui fianchi.
L’altra la guardò un poco incerta su
quello che stava per spiegarle.
Sospirò, senza trovare altra soluzione se
non dire come stavano i fatti.
“Viola ti presento Archetto.” Disse
indicando con una mano il bambino, ancora fisso e minaccioso in direzione di
Viola, tutta occupata a ricambiare con altrettanta intensità le sue occhiataccie.
“É mio fratello.”
Fu sicura di vedere per un attimo il viso
di Viola sbiancare, ne fu certa. E quando la paradisea rossa si girò incredula
verso di lei, poté vederla indossare l’espressione più sconvolta che avesse
assunto mai.
“F-fratello…?!”
balbettò avvicinandosi un po’ a lei, mettendole le mani sulle spalle ancora
nude.
“È…èun… MASCHIO?!”
Lei annuì non trovando nient’altro che
potesse fare.
E se ne pentì immediatamente.
“C-com’è
successo????!!!” le urlò quasi nelle orecchie l’argentata.
“Viola!” la riprese allontanandosi
con uno strattone da lei, massaggiandosi ferita le orecchie ancora ridondanti.
Le piccole mani di Arch
la consolarono, accostandosi a lei senza mai perdere d’occhio l’altra.
“Come!!??” esplose ancora una volta non concedendo
non più di pochi istanti di tregua a lei ed a suo fratello.
D’un tratto si sentì minacciata … già , la parola giusta era minacciata.
Allontanò da sé Archetto e si girò per
affrontare Viola, cogliendola nell’atto di sollevare da terra un grosso masso,
sradicandolo da terra.
Le sue fiamme reagirono di conseguenza e,
cominciando a sfrigolare con più forza, la portarono a prepararsi ad un balzo
laterale.
“Arch!
Salta!”
Neanche a dirlo, notò che suo fratello era
saltato non appena gli aveva ordinato di farlo.
Saltò, ritrovandosi ai piedi di uno dei
grandi alberi attorno a loro.
Davanti a lei Viola bruciava come non mai,
emanando un rumore talmente minaccioso e forte da sembrare un ronzio. Aveva
scaraventato la pietra da una parte, mancando fortunatamente sia lei che Arch.
“VIOLA!” la richiamò, assicuratasi
che suo fratello fosse al sicuro, nascosto dietro alcune foglie poco distanti “Smettila!
Stai oltrepassando il tuo Limite!” l’avvertì e fu felicissima di
vederla in un istante bloccarsi e placare le proprie fiamme.
Tirò un sospiro di sollievo, ma
quell’attimo di tranquillità non durò a lungo.
…
Marco non amava dire di avere ragione
quando, effettivamente, chi non aveva preso sul serio un suo avvertimento
veniva travolto dai fatti da lui stesso preannunciati.
Eppure, vedendo il volto di Ace sbiancare
come uno dei tanti lenzuoli stesi di mattina presto sul ponte della Moby,
dovette trattenersi dall’infierire, ribadendo di avere avuto ragione nel
definire pericolosa la ragazza soprannominata La Sollevapesi.
Una paradisea in grado di sollevare e
scaraventare oggetti pesantissimi … – pensò non meno turbato del fratello,
poggiandosi una mano sotto il mento con fare pensieroso - … non sarà facile
trattare con lei quando la incontreremo.
A quei pensieri gli venne spontaneo
lanciare uno sguardo indagatore verso il babbo, tutto sorridente di fronte al
racconto, dal suo punto di vista esilarante, della figliola.
Fu proprio per l’espressione divertita del
capitano che la Fenice fu in grado di dire cosa gli frullava per la testa:
sarebbero andati a cercare i tre compagni di avventure di Momo e gli avrebbero
accolti in famiglia.
A Marco non dispiaceva affatto la cosa:
dirigersi verso i tre neo ricercati voleva dire cambiare rotta e ciò
comprendeva qualche settimana di ritardo prima nel nefasto arrivo ad Inari Fountain.
Stese le labbra in un sorriso divertito,
intercettando lo sguardo complice del padre.
Doveva aver deciso di ritardare l’approdo
all’isola di Amaterasu già prima di parlare con Momo.
Sbuffò trattenendo una risata, capendo che la sceneggiata di prima non era
stata altro che una tattica per tastare il carattere della ragazza.
Si girò verso quest’ultima, ancora tutta
rigida e sconvolta dai propri ricordi che, la Fenice ci avrebbe scommesso,
stavano ancora riaffiorando nella sua mente con velocità devastante.
Il biondo si chiese quanto ancora avrebbe
resistito prima di svenire. Dopotutto, ricordare cose dimenticate pretendeva un
grande dispendio di energia.
E se i ricordi rievocati non erano
propriamente definibili come sereni…bhe, la cosa si faceva parecchio critica.
Infatti, come previsto, la cosa non durò
ancora per molto e i suoi occhi azzurri, appena posati con più attenzione
sull’espressione allibita della Paradisea,videro quest’ultima emettere un suono simile ad un singhiozzo e
poggiarsi entrambe le mani sui lati del viso.
Doveva aver appena ricordato qualcosa di
sconvolgente.
Atto
15, scena 2, Marineford – Nave di Garp
il Pugno
“Che cooosaaaaa???!!”
era saltato in piedi Koby, guardando la signora Clarina accanto a lui, rosso in volto e totalmente shockato,
seguito dai suoi compagni di reggimento.
Seduta sullo sgabello, posto
provvisoriamente nell’alloggio comune dei marine, la paradisea, soffocate le
proprie fiamme nonostante la notte fosse già scesa da un pezzo, guardò stranita
il ragazzo, non capendo bene il motivo di tutto quello scandalizzarsi.
“Uff.” sbuffò un poco scocciata “Certo che
siete strani voi uomini. Anche mio marito la prima volta che mi ha vista ha
reagito così. Ma si può sapere perché vi scandalizzate tanto? Non è una cosa
così innaturale in fondo!” concluse la donna, accavallando le gambe coperte dal
tessuto bianco dei pantaloni della divisa prestatale.
“Invece sì!!!” sbottò imbarazzatissimo il
giovane marine, sperando che la signora Clarina la
smettesse con quella storia e gli dicesse semplicemente che l’aveva preso in
giro.
Dai, non era possibile!
Aveva digerito il fatto che quella donna
simpatica e materna fino all’incredibile non era umana, come aveva spiegato
loro il Vice ammiraglio, anzi, aveva reagito meglio lui del povero Hermeppo, svenuto di colpo alla vista della donna prendere
improvvisamente fuoco per provare la veridicità delle parole del loro
superiore.
Ma quello…quello era troppo anche per lui!
“Cosa vuol dire che sulla sua isola non vi
vestivate??” sbottò ormai prossimo a cadere vittima di un giramento di testa.
“Non ce n’era bisogno.” Disse
semplicemente la bionda, sorseggiando noncurante un poco di the dalla propria
tazza fumante “Noi Paradisee siamo tutte donne.”
“M-ma.. m-ma!” obbiettò tutto balbettate Koby
“Ha detto che ha un figlio maschio!”
Era la sua ultima carta. Non poteva avere
una spiegazione anche per quello!
Clarina lo puntò con i propri occhi cobalto,
zittendolo all’istante. Koby seppe di aver toccato un
tasto dolente dal modo in cui l’altra lo squadrò: non era più la giuliva donna
bionda e loggorica, ma qualcuno che si ritrovava a
spiegare qualcosa di difficile ad un bambino che forse non dovrebbe sapere
troppo.
Le mani belle ed affusolate di Clarina circondarono fermamente la tazza ancora piena per
metà, aggrappandosi ad essa come se fosse stata l’unico punto fermo della nave,
prima di parlare spedita e cupa.
“Noi paradisee partoriamo solo femmine di
solito. E rimaniamo incinte solo quando è il Momento.” Asserì , distogliendo per un attimo lo sguardo.
“Mio marito ha detto che anche le donne
umane hanno qualcosa di simile… solo che per noi
Paradisee è meno frequente.”
Il giovane marine ascoltò con attenzione
quelle parole, affascinato e improvvisamente non più imbarazzato. Non aveva
nemmeno la forza di parlare mentre la voce controllata della bionda continuava
il suo percorso.
“Ho avuto un figlio maschio perché ho
sposato un uomo nel Momento.” Spiegò
senza grandi giri di parole, arrossendo comunque sulle guance “Archetto sarebbe
dovuto nascere femmina se non mi fossi innamorata di quell’uomo.”
Ancora leggermente spossato da quella
spiegazione, Koby vide la donna farsi ancora più
rossa e prendersi il viso tra le mani in preda all’imbarazzo.
Da lì in poi l’incanto si ruppe e la natura
chiacchierona di Clarina tornò più prorompente che
mai.
“Ooooooh!! Che
vergogna!! Mi sono lasciata trasportare e ti ho detto delle cose un po’ troppo
personali! Devo averti messo in imbarazzo, poverino!! Ma sai, non avevo mai
visto un uomo prima di mio marito! Quando l’ho conosciuto era tutto ferito e
l’ho curato per un’intera settimana rimanendo sveglia notte e giorno! È stato
difficile farlo riprendere! Non faceva che ripetere –Devo tornare dal capitano-
o cose simili e non voleva stare mai fermo! Oh, ma ci sono riuscita sai! E già
che c’ero mi sono anche fatta dire che razza di creatura fosse! Quando ho
saputo che uomini e donne si coprono tra loro per non finire col fare
continuamente figli ero così stupita! Voi umani avete un modo incredibile di fare
i bambini! Poi quando ho visto che Archetto era maschio ho deciso di far
vestire sia lui che Allegra! Sai, per sicurezza. Poi però si è aggiunta anche
Viola e allora ho fatto dei vestiti anche per lei! E poi…”
Solo un bel po’ di frasi più avanti la
paradisea bianca si accorse che il povero Koby, non
potendo sopportare più di quello che aveva sentito, si era magistralmente
defilato dall’alloggio comune, lasciandola sola con i propri vaneggiamenti da
donna innamorata.
“MALEDUCATO!” esclamò offesa, scoccando
un’occhiata furiosa ai poveri camerati rimasti ad ascoltarla. Gonfiò le guance
e stizzita si diresse verso la cabina del comandante, decisa a fargli un
discorsetto sia sulla scarsa educazione dei suoi allievi, sia su qualcos’altro
non meno importante.
Anzi, se proprio doveva dirlo, la seconda
questione era quasi vitale per lei.
Atto
15, scena 3, Arioso mattino-sera
Sbadigliai.
Era tardi ormai. Gli orologi segnavano le
quattro del mattino e persino per me, abituata a vivere più di notte che di
giorno, era arrivato il momento di andare a dormire.
Uhm. A pensarci bene le mie ore di veglia
erano pochissime se paragonate a quelle dei miei fratelli acquisiti.
Non mi dispiaceva più di tanto, ma non
potevo continuare a far rimanere in piedi mezza ciurma solo perché mi facessero
compagnia.
Mi accoccolai ancora un po’ di più tra i
guanciali della mia poltrona preferita della biblioteca, cercando di rilassarmi
almeno un po’. Raccontare e ricordare così tante cose in una sola sera mi aveva
distrutta, ma il sonno invece che venire sembrava essersi defilato in un
angolino lontano della mia mente, quasi sommerso da quella montagna di ricordi
che mi aveva investito.
Le rivelazioni erano state parecchio
shockanti, dopotutto.
Ero una creatura diversa dai pirati di Barbabianca.
Il mio vero nome era Allegra.
Vivevo di notte.
Sapevo saltare molto velocemente e
lontano.
Avevo un fratello di nome Archetto, detto
Arch.
Avevo un’amica a dir poco suscettibile di
nome Viola, anche lei della mia stessa razza.
Venivo da un’isola da cui, per motivi che
ancora non riuscivo a ricordare, io e gli altri eravamo scappati.
Durante il viaggio ero stata catturata da
una nave di schiavi, ma avevo salvato un bambino, affidandolo ad Arch.
Mi rigirai, raggomitolai sull’altro fianco
e riaprii di poco gli occhi stanchi, sentendo improvvisamente un nodo
all’altezza dello stomaco.
Mi ero resa conto che, prima della nascita
di Arch, io e le mie simili non indossavamo alcun
tipo di indumento.
Inghiottii un groppone di saliva,
immaginando che facce avrebbero fatto Satch-san o,
peggio, Ace se l’avessero scoperto. Rabbrividii, sentendomi le guance
infiammarsi di vergogna.
Non volevo nemmeno pensarci.
Nascosi ancor di più la testa, imponendomi
di dormire e di dimenticare temporaneamente le questioni rimaste in sospeso.
Ero stata attaccata da un membro della
ciurma di cui mi ricordavo solo la risata e aveva scoperto che ero contesa da
Marco ed Ace.
Sigh… - pensai disperata - …, voglio Satch… lui almeno saprebbe dirmi come fare…
Già, peccato che i miei due cari
pretendenti fossero riusciti ad allontanarlo da me per un mese intero.
Scacciai dalla mia mente quei pensieri,
imponendomi di dormire. Ero stremata, avevo raccontato al babbo ed agli altri
alcuni aneddoti della mia infanzia senza quasi mai fermarmi se non per
ricordare qualcosa di nuovo.
Fu un miracolo ad abbassarmi lentamente le
palpebre, attirandomi dolcemente nel mondo dei sogni senza che me ne rendessi
conto.
Atto
15, scena 4
Entrare nella biblioteca della Moby era
una cosa che Marco faceva almeno due o tre volte al giorno dacché era stato
nominato comandante della prima divisione.
Quello di revisionare l’archivio delle
taglie di famiglia era un compito a dir poco gravoso, specie per i suoi occhi,
ma il truccoera aggiornare
costantemente la pila di fogli ingialliti delle innumerevoli taglie della nave.
Peccare di pigrizia in passato gli era costato una settimana intera chiuso nel
proprio studio, sommerso fino al collo delle taglie dei propri fratelli.
Era da quell’episodio che il suo sguardo
era diventato più truce che mai, conferendogli un aspetto più maturo ed
inflessibile del dovuto. I casi in cui la sua espressione accigliata aveva
portato molti novellini a temerlo erano stati molti, anzi, troppi, essendo lui
di carattere sì più responsabile e controllato, ma non meno sfrontato dei suoi
fratellini sul campo di battaglia.
Sospirò un po’ abbattuto dal ricordo di
quel malaugurato episodio della propria giovinezza, scendendo intanto la scala
a pioli assicurata ad uno dei primissimi scaffali della libreria, sorreggendo
con una mano un grosso classificatore che altro non era che uno dei tanti
contenitori delle loro taglie.
Arrivato a terra, si incamminò verso i
tavoli della biblioteca, ringraziando il cielo di dover semplicemente
sostituire un paio di taglie con alcune aggiornate.
A volte avere una famiglia affollata era
una vera e propria fregatura.
Poggiò il pesante volume sul ripiano
rugoso del tavolo in legno massiccio, illuminato dalla traballante luce di una
lanterna ad olio, e, augurandosi buon lavoro, inforcò gli occhiali da lettura.
Anche quella era una cosa derivata dalla
sua disavventura con l’archivio di famiglia: c’era voluto poco prima di
accorgersi che, onde evitare di spaventare ancor di più i nuovi compagni di
ciurma, l’unica via fosse l’utilizzo di un paio di occhiali da riposo.
La cosa, a dirla tutta, gli era stata
suggerita da Vista che, in quanto gentiluomo sia di modi che di fatto, benché
più interessato alla cavalleria che alla burocrazia, gli aveva ceduto un suo
vecchio paio, rimasto inutilizzato per anni, di lente ovale e provvisto di
catenella argentata, funzionale in caso gli fossero scivolati dal naso.
Si perse nei propri ricordi, mentre con
dovizia ricercava sul registro i nomi dei dispacci da sostituire: Satch nei primi tempi non aveva fatto altro che prenderlo
in giro, ripetendogli di continuo quanto quell’oggetto gli conferisse un’aria
da intellettuale.
La cosa non gli aveva mai dato
particolarmente fastidio, ma doveva ammetterlo, essere catalogato alla stregua
di un topo di biblioteca solo perché indossava un paio di occhiali non gli
andava molto a genio.
“Uhmm…”
Un leggero borbottio spostò la sua
attenzione lontano dalle righe inchiostrate del classificatore,
indirizzandogliela verso l’alto, o meglio, oltre la linea dei 4 tavoli che lo
separavano dalla zona dedicata alle poltrone e i divani da lettura.
Sorrise, riconoscendo nella figura raggomitolata
sui cuscini rossi del sofà Momo, apparentemente preda di un sogno piuttosto
agitato, a giudicare da come si muoveva.
Si alzò d’istinto, abbandonando il tavolo
occupato senza tanti pensieri, ritrovandosi dopo pochi passi davanti alla
ragazza, profondamente addormentata ed ignara dello sguardo della Fenice su di
sé.
Lasciò che i suoi occhi vagassero
sull’espressione lievemente contratta della Paradisea, osservandone ogni
piccolo movimento. Dovette mettersi le mani in tasca per trattenersi dallo
svegliarla: vederla così turbata non gli dava alcun conforto, anzi.
Si accovacciò accanto a lei, flettendo le
ginocchia in modo tale che i loro visi fossero alle stessa altezza.
“Archetto…”
Quel sussurro mugugnato appena nel sonno
lo colpì, facendogli indietreggiare di poco la testa. Se non ricordava male
Archetto era il nome proprio del fratello minore…
Allora perché nel sentirlo pronunciare
dalle labbra di lei aveva avuto una piccola e fastidiosa stretta allo stomaco?
“Archetto…” ripetè Momo,
trasformando la propria voce in una specie di singhiozzo.
Intanto Marco la guardava ad occhi
spalancati, mentre lei pian piano si scioglieva in un piccolo pianto
liberatorio. Guardò due lacrime solitarie scivolarle sul viso e, cadendo sulla
morbida trama del divano, scomparire in piccole macchie d’acqua.
Distolse lo sguardo da quello spettacolo
straziante. Non riusciva a guardarla in quello stato senza desiderare di fare
qualcosa e ormai, dopo quanto successo sul pennone della nave, la volontà di
fermare quell’urgenza si era dissipata come una nuvola al vento.
La sua mano si alzò quasi da sola,
ricercando tremante la pelle rosea dell’altra, tastando alla cieca l’aria secca
della stanza.
Qualcosa lo tirò per la manica della
camicia e, in meno di un istante, si ritrovò a pochi millimetri dal viso ancora
addormentato di Momo, con un braccio intrappolato dalla mano affusolata di
questa e l’altro occupato ad impuntarsi sull’imbottitura del sofà, affinché
quella distanza critica non si annullasse del tutto.
Dannazione... – si disse deglutendo,
sorpreso da quella situazione improvvisa.
Doveva allontanarsi da lei o avrebbe
finito col fare qualcosa di terribilmente sleale.
“Mi
dispiace…”
Quel nuovo sussurro lo aiutò a pensare ad
altro, distogliendolo da un paio di labbra rosate a poca distanza dalle sue.
Focalizzò tutta la propria attenzione sull’espressione di Momo e noto che, se
prima era stata angosciata e semplicemente dispiaciuta, a poco a poco si era
deformata in qualcosa di molto più simile al terrore.
“NO…”
La vide esclamare quella semplice parola
con voce strozzata, portando la mano libera al collo e chiudendola febbrilmente
sull’aria attorno ad esso.
Era come se stesse lottando contro
qualcosa intento a strangolarla.
Si dimenticò in fretta della situazione in
cui si trovavano e, rimettendosi dritto sulla schiena, le poggiò una mano sulla
guancia, prendendole delicatamente la mano con la propria.
“Momo..” sussurrò, sperando che la sua
voce in qualche modo riuscisse ad allontanare la sua mente da quell’incubo.
Dovette ripetere l’azione un paio di volte
prima che i lineamenti della paradisea si distendessero calmi, decretando la
fine di quel momento difficile.
Sospirò sollevato, togliendosi con la
mano, prima occupata a sorreggere il viso dell’altra, gli occhiali, lasciandoli
così liberi di oscillargli al collo, per poi massaggiarsi gli occhi.
Preoccuparsi per qualcuno ti metteva
addosso un’ansia indicibile.
Tornò a guardarla, osservando finalmente
come il suo respiro fosse tornato calmo e regolare.
Si ritrovò a pensare quanto fosse strano
ritrovarsi innamorato dopo così tanto tempo. Era incredibile che lui, proprio
lui che si era ripromesso di non rischiare più di vedersi respinto da una donna
solo per il fatto di essere quello che era, un pirata, si fosse attaccato così
tanto ad una ragazza, una creatura ignota al mondo e a sua volta ignara del
mondo, svelta e fugace come una scintilla, paurosa, premurosa anche se un po’
infantile.
Ogni cosa nel suo modo di fare, la sua
timidezza,il modo in cui si arrabbiava, il suo gonfiare indispettita le guance,
le sue fiamme che, lambendola come piume, rispecchiavano i suoi stati d’animo, tutto… lo portava a volerla sentire più vicina.
Così tanto che a volte si vergognava di se
stesso.
Jaws aveva colpito nel segno dicendo sia a lui
che ad Ace che Momo, prima di poter decidere, doveva ricordare.
Che senso avrebbe avuto altrimenti?
La osservò intensamente ancora per qualche
minuto prima di portarsi la mano di lei alla bocca e come, molte ore addietro,
posarvi un bacio che provocò un involontario tremito nel braccio di lei.
“Non ti lascerò scappare via…”
Atto
15, scena 5
“Allora Viola, ti decidi a parlare o devi
fare l’offesa per tutto il giorno?” disse con fare stanco Arch,
camminando con le mani in tasca accanto a Morgan, mentre dietro di loro Viola,
con una faccia talmente incazzata da sembrare un cane rabbioso, li seguiva,
mandando occhiate fulminanti alle loro spalle.
Morgan sentiva le occhiatacce
dell’argentata sulla pelle e non gli piaceva. Si sentiva più rigido del solito
e le labbra gli tremavano al solo pensiero di come la signorina si era
rivoltata contro di loro in meno di un secondo.
Se non fosse stato per il signor Arch che, vedendolo in pericolo, l’aveva protetto con il
proprio corpo, a quest’ora si sarebbe ritrovato con qualcosa di rotto,
esattamente come il biondo al proprio fianco che faticava a camminare in modo
normale, zoppicando ogni qualvolta la sua gamba destra veniva spostata in
avanti, premendo contro il terreno.
Dopo che Viola, infatti, gli aveva,
incredibile ma vero, intimato di sputare il frutto che aveva dato il via alle
proprie disgrazie, Arch aveva ingaggiato un vero e
proprio scontro con la ragazza, scambiando insieme a lei battute pronunciate in
una strana lingua.
Non aveva capito una sola parola di quello
che si erano detti, ma, dopo un paio di colpi, parate ed un calcio ben
piazzato, Viola aveva ringhiato a testa bassa ed aveva voltato loro le spalle,
senza più spiccicare parola.
Ormai erano tre ore che continuavano in
quel modo, girando la città nel più assoluto silenzio sotto le occhiate
spaventate di chi aveva avuto modo di vederli in azione.
Una cosa doveva ammettere Morgan sui suoi
salvatori e compagni di viaggio: quando mettevano mano alle armi, anche se
improprie, facevano venire la pelle d’oca.
Il signor Arch
in particolare, benché all’apparenza sembrasse il più calmo, appena impugnava i
suoi coltelli, sembrava trasformarsi in una creatura tanto letale quanto
aggraziata, dotata di movimenti semplici e puliti in grado di lacerare punti
precisi del corpo umano con assoluta freddezza.
Una volta sua madre gli aveva mostrato un
libro di animali e tra questi il bambino ne ricordava uno in particolare che
avrebbe descritto a pennello il ragazzo biondo.
Un falco. Acuto, silenzioso ed
impassibile.
Di tutt’altra pasta era invece la
signorina Viola: imprevedibile, rozza nei movimenti, ma non meno straordinaria
quando il suo corpo di torceva e si tendeva nello sforzo di sollevare e
scagliare lontano qualsiasi cosa avesse sotto tiro. A pensarci bene Viola era
ancor più temibile di Arch, perché non sapevi mai
cosa aspettarti da lei.
Una sola parola sbagliata, e sarebbe stato
come vedere una tigre ammaestrata scagliarsi contro il proprio domatore.
“Come fai a stare così calmo..?”
La domanda venne finalmente esalata, con
non poca fatica a giudicare dal tono, dalle labbra della paradisea rossa,
portando sia lui che Arch a fermarsi e voltarsi verso
la ragazza.
Viola era rigida sulle spalle, i suoi
pugni, lungo i fianchi, erano stretti e i suoi occhi erano ostinatamente
rivolti verso il basso, quasi si vergognasse di mostrarsi mentre si abbassava a
chiedere qualcosa al biondo.
“Come fai a non perdere la calma, sapendo
che..”
Per un momento Morgan fu certo che il
discorso si era spostato su di lui, ma la voce del ragazzo sovrastò quella
dell’altra, impedendole di proseguire.
“Io non sono calmo Viola.” Asserì con
convinzione il biondo, lasciando interdetto sia il bambino che la ragazza.
Che voleva dire? Non era calmo? Ma che
andava dicendo? Da quando Viola gli aveva attaccati, o meglio, aveva attaccato
lui, non si era lasciato sfuggire alcun tipo di espressione che sfociasse nel
preoccupato!
“Questa cosa dei frutti…”
continuò il ragazzo puntando per un istante i proprio occhi cobalto su Morgan
“… non mi piace. Non riesco a capirla.”
Ci fu un breve momento di pausa, in cui
Viola ne approfittò per rialzare la testa ed osservare il volto del biondo.
“Addirittura, mi spaventa.”
Quelle parole furono sufficienti per far
andare nel panico Morgan.
Era così che finiva il suo viaggio con
loro? Anche loro, come sua madre, non capendo, lo avrebbero abbandonato alla
prima occasione? Lui… era un mostro, quindi?
Gli occhi scuri del bambino pizzicarono
leggermente e fu il suo turno di tenere la testa bassa, evitando così di dare
sfoggio agli altri due delle proprie lacrime.
Almeno così sperava.
“Ehi, marmocchio.”
La voce dura di Viola lo richiamò,
spaventandolo come non mai.
Si irrigidì istintivamente, sperando di
non dover fare nuovamente i conti con la furia dell’argentata.
“Tu sai cos’hai mangiato?”
La domanda fu assolutamente inaspettata,
tanto che Morgan si dimenticò di tenere il viso rivolto verso terra. Non appena
capito il proprio errore si affrettò ad asciugarsi gli occhi con un braccio, ma
non appena tornò a cercare lo sguardo duro della ragazza, se la ritrovò
insolitamente vicina.
Talmente tanto da poterne decifrare
l’espressione.
Non era arrabbiata come al solito, né
stizzita o accigliata.
Era semplicemente triste.
“Era un frutto marcio.” Disse Viola,
picchiettandogli la fronte con l’indice “Un frutto che quelle come me e Allegra
usano per crescere e sfamarsi.”
Dire che Morgan era confuso sarebbe stato
un eufemismo: sfamarsi, con quella robaccia? E cosa voleva dire che era marcio?
Prima di mangiarlo si era assicurato che non puzzasse, anzi, a dispetto del
sapore, l’odore emanato dalla buccia era inebriante!
“Noi li chiamavamo Note, prima di fuggire dalla nostra isola.” Contuinuò
intanto Viola, osservando il viso del bambino scrutarla.
“Non credevamo che una volta marciti
provocassero un simile effetto a creature diverse da noi.” IntervenìArch, accostandosi anche lui a Morgan, rimanendo in
piedi.
“Ad Allegra e Viola, mangiare un frutto in
quelle condizioni, sarebbe costata la vita.”
Per un istante Morgan parve non capirci
più niente.
Cosa volevano dire? Cosa stavano cercando
di dirgli? Che erano dispiaciuti? Che era stato fortunato? Che cosa? Perché
lui?
Un forte brusio più lontano da loro, in
direzione della piazza centrale, riempì loro le orecchie, distraendoli dal loro
discorso.
“Correte! Dei pirati hanno attaccato briga
in piazza!!”
Fu tutto quello che riuscirono a mettere
insieme nel bel mezzo del casino creatosi.
“Andiam-” fece
per dire Arch, ma, neanche il tempo di girarsi che
già Viola era sparita, lasciando al proprio posto una misera sagoma
tratteggiata.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, non
osando guardare in direzione di dove erano sparite le persone in fermento.
Sentiva puzza di guai.
I suoi riflessi si rizzarono di colpo.
Afferrò Morgan e lo spostò giusto in tempo prima di veder passare, sulla
traiettoria da lui stesso intuita, una persona volare ed atterrare malamente a
terra.
“VIOLA!” urlò in tono di rimprovero il
biondo, poggiando a terra il povero Morgan, decisamente troppo scosso per
parlare ed unirsi al coro insieme ad Arch.
“Non usare quel tono con me, bastardo di
ultima categoria! Questa volta io non centro!!” rispose di tutto tono la voce
inconfondibile della ragazza, offesa per essere stata incolpata ingiustamente,
pochi metri più avanti a loro.
Il biondo notò che si era accostata al
ciglio della strada, di certo per evitare, come loro, di essere colpita da quel
corpo volante.
Un urlo squarciò l’aria di quella che, al
loro arrivo Arch aveva definito una tranquilla
cittadina, attirando l’attenzione dell’argentata verso la piazza.
“Ma che cavolo-..?”
Intanto Arch,
sorpreso di essersi sbagliato, si era girato verso l’uomo fino a pochi istanti
fa, volato davanti ai loro occhi.
Era un uomo sulla trentina dai muscoli
delle braccia tirati e gonfi, barbuto e con un berretto verde scuro a coprirgli
forse una testa prossima alla calvizie, a giudicare dal caldo che non
giustificava l’utilizzo di un simile indumento. Le sue mani erano sporche ed
annerite, oltre che visibilmente callose, indice che il suo era un lavoro
manuale. A parte il vestiario, malandato ed ordinario almeno quanto il padrone
stesso, non c’era nient’altro di notabile.
A parte l’incudine che giaceva proprio accanto
a lui, schiacciandogli in parte lo stomaco, dalla quale pareva essere scivolata
via dopo l’atterraggio.
Le sopracciglia bionde di arch si corrugarono.
Un’incudine?
Non negava che Viola sarebbe anche stata
in grado di sollevare una cosa del genere, tuttavia non c’erano negozi o
botteghe che spiegassero dove la sirena di scoglio rossa avesse potuto
recuperare un simile oggetto.
Chi mai…? –
pensò prima che una risata gli penetrasse con il proprio suono fastidioso le
orecchie.
Atto
15, scena 6
Nell’alloggio, ormai privo di porta, le
tende ondeggiarono pigre sotto il respiro dell’aria che soffiava dalla finestra,
ormai sbloccata dalla serratura, applicatavi per evitare fughe da chi prima
aveva occupato la stanza.
Akainu non faceva che guardare fuori dalla
finestra da ore, seduto comodamente sulla poltrona porpora della camera. Era
stranamente calmo per essere una persona alla quale era sfuggito un
prigioniero.
Eppure lui non emetteva alcun tipo di
suono, né di smorfia.
Stava semplicemente lì, impassibile ed
apparentemente privo di sentimento.
Sakazuki sapeva di avere rischiato, permettendo al
vice Ammiraglio Garp passarla liscia dopo aver liberato
Clarina, ma, pensandoci più a mente fredda, si
rendeva conto di aver esagerato mettendo su una scenata del genere, andando a
cercare la donna proprio sulla nave del suo subordinato.
Non c’era bisogno di scaldarsi per una
simile piccolezza, specie se si trattava di Clarina.
Era nella sua natura pretendere un minimo
di spazio una volta ogni tanto.
Dopotutto, la sua stessa Essenza
rappresentava il suo Essere.
Un dito picchiettò la superficie rugosa ed
azzurrognola del suo asso nella manica.
C’era un motivo per il quale non stava
battendo Marineford da cima a fondo nel tentativo di
trovarla e, attualmente, questo risiedeva tra le sue mani, sotto forma di
frutto.
Una Nota davvero molto piccola per i
comuni standard dei Frutti del Diavolo.
Assomigliava ad un arancio per forma e
consistenza della buccia, eppure, come aveva constatato lui stesso, emanava un
odore rivoltante. Stranamente la superficie del frutto era regolare e priva di
segni a spirale, denotando il buono stato della polpa.
Clarina era stata molto brava a nasconderlo nella
stanza, infilandolo in uno dei doppifondi della specchiera, ma non aveva fatto
i conti col fatto che, se fuggita lui l’avrebbe usato per attirarla nuovamente
a sé, come una falena verso la fiamma.
Ricordava benissimo la prima volta che
aveva incontrato Clarina. Oh, sì. Era stato il giorno
in cui la sua missione aveva avuto inizio…
Sonata
– Appassionata
Urla e voci disperate ricoprivano il cielo
di Nido Leila. Tra le sue mani, una di quelle creature femminee si divincolava,
pregando per la propria vita con le lacrime agli occhi.
E lui impassibile continuava quello che,
bene o male, dolore o meno, avrebbe portato avanti fino alla fine.
Perché era quello il suo compito.
Non importava quante vite si sarebbero
spente per preservare l’ordine del governo Mondiale. Tutte loro dovevano
sparire, dalla prima all’ultima.
“Stai calma. Tra poco sarà tutto finito.”
Le sue mani si tramutarono lentamente in
lava, corrodendo poco a poco la pelle nuda di quell’ennesimo ostacolo.
“Nooooooo!!!”
“La
lasci stare!!!”
Un forte colpo all’altezza del fianco lo
fece rotolare a terra, costringendolo a mollare la presa. Strinse la mascella
sentendosi perforare la parte colpita da un dolore indicibile. Si portò una
mano al fianco, costringendosi a non lasciarsi sfuggire nemmeno un rantolo.
Non un gemito. Neanche uno. Non doveva
mostrarsi debole davanti al nemico.
“Clarina!”
“Drama!
Prendi le altre e vai alla spiaggia! Fuggite via!”
“Non c’è più nessuno! Non c’è più nessuno!”
Quel breve scambio di battute lo portò ad
alzare lentamente il viso, riuscendo a superare la linea della visiera del
proprio berretto.
Nel suo campo visivo apparve una figura
completamente bianca, angelica, surreale quasi, volta verso la propria simile
di colore rossiccio, accovacciata a terra col le spalle mezze carbonizzate, in
preda forse ad un vero e proprio delirio.
Si rialzò a fatica, facendo allargare di
terrore gli occhi alla paradisea delirante.
“È un mostro!”
Fu l’unica cosa che le consentì di dire,
prima di scagliarle contro un Dai Funka, senza
tanti convenevoli.
L’urlo straziato
che emise quella creatura prima di perire sotto il pugno di lava che la
investì, lo lasciò del tutto indifferente.
Non era il primo,
né sarebbe stato l’ultimo.
Poi si girò verso
la creatura bianca.
E per un istante
la sua mente scollegò qualsiasi pensiero con il resto del corpo.
Voltato verso di
lui, con gli occhi così puri da sembrare fatti di neve, stava la più bella che
avesse mai visto. Non era nuda come le altre. Il suo corpo era stato
accuratamente fasciato da tessuti fabbricati alla bene e meglio con pezzi di
fogliame e legni.
Il suo viso,
regale e perfetto, benché distorto dalla paura, era assolutamente la cosa più giusta
che i suoi occhi avessero mai incontrato.
Più della
giustizia di cui sapeva a memoria le leggi.
Non una parola
intercalò il loro incontro. Le gambe snelle e leggere della donna erano partite
svelte, allontanandola da lui con la stessa grazia di una farfalla. Una sola
cosa la vide fare, mentre fuggiva da lui, che era partito all’inseguimento più
per premura personale che per dovere: si era fermata un attimo a raccogliere
uno strano frutto azzurrognolo dalle mani morte di una delle sue compagne ormai
spente.
E dal modo in cui
la vide tenerselo stretto al petto, doveva essere qualcosa di davvero
importante.
…
Ancora non riusciva a capire come un semplice
frutto potesse concedergli una così facile vittoria.
Più se lo rigirava tra le dita, più la
cosa gli appariva surreale.
Eppure ne era certo: Clarina
teneva a quell’oggetto e avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di non lasciarlo tra
le sue mani.
Accavallò le gambe vestite di color
bordeaux, mettendosi più comodo.
Tutto quello che doveva fare era
aspettare.
Atto 15
scena 7
Il viso di MonkeyD.Garp non era mai stato così rosso prima d’allora.
Solo due persone in passato erano riuscite a rendere la sua faccia di un colore
simile: il primo era Monkey D. Rufy
e il secondo Potuguese D. Ace.
Quasi una dote di famiglia, quindi.
Era bizzarro vedere qualcuno di estraneo
alla linea di sangue dei Monkey, riuscire in una
simile impresa.
Clarina Sassonia gonfiò le guance indispettita.
“Non posso andarmene senza!” protestò la
bionda, puntando il marine con severità.
“E INVECE LO FARÀ!” sbottò il vice
Ammiraglio alzando di più la voce. “NON LA PORTERÒ DI
NUOVO IN PASTO AI LUPI! SE LO SCORDI! LEI PARTE DOMATTINA!”
“Io non posso lasciare indietro
quel frutto!” gli ripeté ostinata, senza mai mostrare segni di cedimento.
Dietro la porta della cabina principale, l’intero
reggimento della nave origliava rapito quell’accesa discussione, scommettendo
sul vincitore,facendo tuttavia a meno della presenza di Koby
ed Hermeppo, tutti e due fuori uso, chiusi da qualche
parte sulla nave a schiarire le idee.
Se però entrambi fossero stati in grado di
assistere, non avrebbero avuto dubbi.
Avrebbero puntato tutto su Clarina.
Fine
Atto Quindicesimo
Storie
di Storyboard: Kaizoku no
Allegretto
File #000-001:
Archetto (Arch) Sassonia
Archetto,
detto Arch, è un personaggio nato da una serie di
esperimenti di storyboard, rimescolati e mescolati su
se stessi. Nasce inizialmente con il nome di Agitato, capelli neri e occhi blu,
di indole arrogante e gelosa. Questa versione, per nulla compatibile con le
linee massime della storia, viene ben presto messa da parte, dando il via a
seghe mentali che mi vedono quasi spontaneamente partorire Archetto nella sua
forma più completa.
Il
suo aspetto fisico non ha subito cambiamenti da quel momento in poi, decretando
così la sua facilee veloce creazione.
Archetto
è silenzioso, calcolatore, talmente freddo da risultare apatico a chi lo
incontra per la prima volta. Il suo essere un mezzosangue l’ha portato a
contare unicamente sulle proprie capacità.
A
parte i riflessi molto ben sviluppati e una velocità di reazione pressoché fuori
dalla norma, è molto debole fisicamente, tanto da essere facilmente messo sotto
da Viola, nemica d’infanzia.
Il
suo essere svantaggiato su Nido Leila lo portò ad ingegnarsi, specializzandosi
da solo nell’uso dei coltelli da lui stesso fabbricati.
Molto
affezionato a sua sorella maggiore ed alla madre, uniche femmine verso le quali
nutre affetto, Arch detesta in modo sviscerale suo
padre, mai conosciuto e lo ritiene responsabile della distruzione dell’isola.
Mi
credevate distrutta? Ehehe. Eh no mie care io sono
dura a morire, ho degli anticorpi di ferro.
Volevo
solo darvi una buonissima notizia che sinceramente mi sta dando una gioia
immensa: Mio padre non morirà di Cancro.
Sì, non
sto scherzando. Circa un mese fa a mio padre è stato diagnosticato un cancro ai
polmoni e, per grazia del mitico Gladeusmaximus (dicesi fattore C***) della nostra famiglia è stato
operato e decretato curabile.
Dire
che ero in crisi era poco.
Ok
lasciamo alle spalle il passato! È il futuro che conta no?
Via ai Suggerimenti Liberi!!!
I
vostri consigli sono stati utilissimi ed ormai la storia sembra andare avanti
da sola!
Arch sapeva bene che seguire Viola non era
buona idea.
Non lo era mai stato e mai lo sarebbe
stato.
Andava contro ogni logica universale
dirigersi a braccia aperte verso una palese fonte di guai.
Eppure lo aveva fatto, correndo dietro
l’argentata con Morgan al proprio fianco, imprecando contro se stesso a denti
stretti.
Come facesse a ricascarci ogni volta era
un mistero che non aveva mai avuto la forza, né la voglia, di risolvere.
Era sempre stato così, fin da quando era
bambino: più Viola stava appiccicata a lui e ad Allegra più lui si trovava
invischiato nelle situazioni più assurde e pericolose, pentendosi ogni volta,
ma ricascandoci comunque le volte dopo.
La sirena di scoglio rossa era sempre
stata attratta dai guai, ormai lo aveva capito da anni, come una calamita
attratta dalla propria gemella.
Dopotutto Arch,
nella propria freddezza mentale, sentiva di intuire che razza di malsano e
grossolano ragionamento avesse partorito quella testa calda della compagna:
avevano scoperto che gli umani mangiando le Note marcite, venivano dotati di
poteri innaturali, e subito dopo un uomo veniva scagliato da metri di distanza
con un oggetto impossibile da scaraventare per qualunque normale essere umano.
Che lei sapesse, era l’unica che riuscisse a sollevare senza problemi una
simile massa e questo, a quanto pare, non aveva fatto che attrarla ancor di più
nella piazza.
Violenza chiama Violenza.. pensò Arch con una vena di sarcasmo.
Fermarsi di colpo alla fine della strada che
sboccava sullo slargo centrale della città fu un sollievo per le gambette corte
di Morgan, di certo non molto abituato ad una così intensa attività fisica.
Arch lo guardò crollare per terra, ansimando a
fiato corto.
Si sarebbe abituato…
era solo questione di tempo prima che prendesse dimestichezza con la velocità
di Viola.
Rialzò gli occhi blu su Viola giusto in
tempo per vederla assottigliare gli occhi, puntando qualcosa in lontananza e
più precisamente, davanti a loro, perfettamente al centro della piazza.
Era un gruppo di uomini, paesani, da
quello che riuscì ad intuire il biondo, identificando il modo in cui erano
vestiti, e stavano fronteggiando un’altra schiera di persone, stranamente più
fitta e più variopinta, capeggiata da un uomo dall’aspetto eccentrico.
Arch, analizzò in meno di pochi secondi
l’aspetto dei compagni del principale attaccabrighe. Erano tutti diversi, ma
stravaganti quanto il loro capo.
Borchie, lacci, e colori psichedelici sembravano
essere il loro grido di battaglia.
Il leader di quella brigata di, poté
intuire dalle pistole e dai coltelli alla cinta di questi, tagliagole si poteva
distinguere da tutti per i capelli, rossi fiammanti almeno quanto il fuoco
rovente di Viola, e il sorriso, largo e sfrontato come quello di una iena che
in branco accerchia la preda.
Anche se lontano, Arch
poté vedere negli occhi dell’individuo risplendere una luce sinistra, tipica di
chi, colto dalla voglia insaziabile di menare le mani, freme di felicità al
pensiero di spaccare qualche ossa.
Il biondo avvertì la gola seccarsi di
colpo: era ovvio che gli unici a rimetterci sarebbero stati ipaesani.
Quei delinquenti dall’aspetto variopinto
erano meglio armati e sicuramente più abituati a dare battaglia.
A loro confronto, quel mucchio di
malcapitati non era altro che un gregge di pecore belanti in attesa che la
mannaia venisse calata.
Non gli piaceva.
Dovevano andarsene da lì, prima che Viola
facesse qualcosa di stupido.
Ad EustassKidd non era mai piaciuto essere osservato.
Non che fosse un tipo timido, anzi, essere
al centro dell’attenzione lo aveva sempre esaltato, pompandogli adrenalina
nelle vene fino al cervello e gettandolo in stato di assoluta e spietata
euforia.
Eppure, dacché riusciva a ricordare,
l’essere adocchiato e analizzato aveva sempre avuto il potere di mandarlo in
bestia.
Dubitava fortemente che le vittime di
quella particolare sfumatura del proprio carattere fossero stati in grado di
raccontarlo in giro, una volta visto impugnarli la pistola e caricare il cane
dell’arma a pochi centimetri dalla loro fronte.
Ma … chissà, i fortunati c’erano sempre…
“Andatevene via!”
Storse la bocca, disturbato dal suono di
quelle zanzarine che gli si erano parati davanti.
Tsè…, mai una volta che si potesse dare una
lezione di rispetto ad un semplice fabbro senza incappare nelle lagne dei suoi compagnucci di quartiere.
Scoccò un’altra occhiata oltre le loro
spalle, controllando che la fonte del suo prurito alle mani fosse ancora lì.
Sorrise ancor di più, sfoggiando i denti
in un ghigno animalesco.
“Ehi! Ci hai sentito?” “Ne abbiamo
abbastanza di voi pirati!” “Non vi permetteremo di passarla liscia dopo quello
che avete fatto a Iuri!!!”
Gli angoli della sua bocca si rivolsero
infastiditi verso il basso.
Parole, parole, ma alla fine tra quei
miserabili insetti non ce n’era uno con abbastanza fegato da affrontare lui, Eustass “Captain” Kidd, senza farsi forza con le spalle di seguaci
improvvisati.
Si stupì di vederne uno caricare verso di
lui con un’ascia malamente impugnata sopra la testa.
Lo schivò facilmente spostandosi di
fianco, sorridendo compiaciuto allo sbigottimento di quello, terrorizzato dal
non essere riuscito a massacrargli le carni al primo colpo.
Almeno lui aveva avuto più fegato dei suoi
amici.
Un vero peccato…
Bha. Ma in fondo a lui che gliene fregava?
“Killer.”
Nel giro di un soffio il corpo del suo
maldestro assalitore stramazzò a terra, sventrato in più parti dalle lame
rotanti del suo vice, bloccando il fiato in gola alle rimanenti pecore.
“Qualcun’altro vuole fare l’eroe?”chiese
quasi con sarcasmo la voce ridondante del pirata dal volto coperto, assumendo
un tono talmente inquietante da far rabbrividire loro il sangue nelle vene.
Kidd sghignazzò sotto i baffi, gustandosi le
espressioni terrorizzate di quel branco di idioti, mentre si allontanavano alla
rinfusa, uscendo in meno di pochi secondi dalla sua vista.
E un sassolino nella scarpa era andato…
Il Massacratore inclinò la testa verso il
proprio capitano, vedendolo rivolgere la propria attenzione dall’altra parte
della piazza.
I fori della sua maschera gli diedero la
visione di un paio di individui intenti ad osservare Kidd
con insistenza, troppa.
Sembravano due ragazze, una bionda ed una
argentata.
Da dietro la maschera aguzzò lo sguardo
sulla bionda, notando in un secondo momento il taglio mascolino dei capelli e
dei vestiti.
Correzione: un ragazzo ed una ragazza.
E, da come poté intuire notando una testa
nera ed arruffata fare capolino da dietro le gambe del biondo, c’era anche un
bambino.
Una terza occhiata gli fece collegare quei
volti ad un articolo dell’ultimo quotidiano letto.
“Sollevapesi
Viola e Arch Angelo Infido. Entrambi con una taglia
inferiore a 30 milioni di bery.” Riassunse ad alta
voce, precedendo come da copione qualsiasi domanda di Kidd
che, ghignando con il suo solito modo da iena, accolse di buon grado quelle
informazioni.
“Dei novellini quindi…”
mormorò il rosso con una nota di soddisfazione.
Sapeva bene che significato Kidd associava alla parola novellini e non era molto
lontano da quello di “carne fresca”.
Quasi gli dispiaceva per loro.
Era ufficiale. Dovevano levare le tende.
Se Arch prima
pensava che non esistessero al mondo persone più malate di Viola, in quel momento
dovette ricredersi.
Quel pazzoide aveva appena fatto
ammazzare, con tanto di sorriso sulle labbra e sotto gli occhi di Morgan, ora
così spaventato da non riuscire a smettere di tremare contro la sua gamba, un
uomo qualunque da uno dei propri sgherri e … si era girato verso di loro,
continuando a ghignare come un animale affamato.
Era.. semplicemente, una cosa da pazzi.
Si rese conto di star sudando freddo.
Dannazione – pensò, non riuscendo mai a
sciogliere i propri occhi da quelli stralunati e folli dell’altro, che nel
frattempo aveva iniziato ad avvicinarsi a loro con passo lento, - … da quando
in qua perdo la calma?!
Le mani gli prudevano insistentemente,
implorando di toccare la rassicurante impugnatura dei pugnali che teneva
nascosti sotto il gilet, e l’istinto di correre a gambe levate il più lontano
possibile da lì si stava facendo forte.
Fu con sgomento che il biondo si rese
conto di cosa gli stesse accadendo, collegando l’una con l’altra ognuna di
quelle sgradevoli sensazioni: aveva paura.
Quel maledetto assassino senza scrupoli
era riuscito a mettergli paura!! Nemmeno Viola ci era mai riuscita!
Continuò ancora un paio di istanti ad
osservare terrorizzato lo sguardo del rosso.
Non era rabbia quello che animava i suoi
gesti, come succedeva a Viola nei suoi comunissimi momenti “no”, ma puro
desiderio e divertimento nella sofferenza del prossimo.
Un ringhio basso e gutturale alla sua sinistra
gli fece ricordare della compagna.
“Bastardo …” imprecò a mezza voce
l’argentata, compiendo un temerario gesto in avanti, atto a portarla più vicina
al rosso dalle labbra truccate, sicuramente per togliersi lo sfizio di
rifilargli qualcosa di duro e pesante nello stomaco e forse anche
qualcos’altro.
I suoi riflessi lo fecero muovere
prontamente ed in meno di un secondo aveva bloccato Viola da dietro la schiena,
usando le braccia per serrargli da dietro le spalle. Evitò di soffermarsi
troppo sull’espressione stupita del pirata davanti a sé e si concentrò più che
poté sulla cugina.
Percepì da parte dell’argentata un gemito
di sorpresa, sostituito in men che non si dica da una
serie di insulti diretti contro di lui.
“Mollami immediatamente schifoso
bastardo!” gli ringhiò la ragazza dritto in un orecchio, rischiando seriamente
di fargli saltare un timpano.
Resistette solo perché sapeva che il tempo
stringeva. Non sarebbe passato molto prima che quello lì avesse pensato bene di
approfittare della situazione per fare i propri comodi.
Strinse i denti, riuscendo con un paio di
respiri a riprendere coscienza di sé e delle proprie reazioni.
Non doveva farsi prendere dal panico.
Allegra gli aspettava.
“Non ci pensare neanche Viola!” l’avvertì,
lottando contro gli strattoni dell’altra nel tentativo di liberarsi.
Schivò una testata da parte dell’argentata
e ringraziò i suoi riflessi ben sviluppati.
“Non possiamo permetterci di attaccare
briga! Lo vuoi capire sì o no??!!” rincarò la dose, sentendo la rabbia
montargli nella gola, incrinandogli la voce.
“Non me ne frega un cazzo, Arch! Lasciami o giuro che ti massacro la faccia! Giuro che
lo faccio!!”
Arch conosceva troppo bene Viola per non
crederle, e fu questo il suo sbaglio. Bastò un attimo di distrazione perché la
paradisea rossa trovasse uno spiraglio nella sua presa, approfittando di quel
suo attimo di rigidezza per scrollarselo di dosso ed assestargli una gomitata
in pieno petto.
Si piegò in due, tenendosi le mani sui
polmoni, sentendo l’aria uscirgli dalla gola ad una velocità orrenda.
L’orribile sensazione che accompagnò il
colpo infertogli non fu niente, però, paragonata a quella che la risata del
pirata dai capelli rossi gli provocò.
“Hai un compagno deboluccio, eh bellezza?”
lo sentì dire con una punta di malizia a cui però non diede importanza sul
momento.
Alzando a fatica la testa, con un occhio
chiuso per lo sforzo, Arch pregò di star facendo un
incubo piuttosto fantasioso, vedendo Viola e quel pazzoide fronteggiarsi faccia
a faccia a meno di due metri di distanza.
“V-viola…” cercò
di richiamarla ancora una volta, ma dalla bocca gli uscì solo un rantolo secco.
Quasi avesse avvertito nuovamente il suo
sguardo su di sé, quello si rivolse nuovamente verso di lui, osservandolo con
notevole interesse,
“Tranquillo, bel faccino. Cercherò di non
farle troppo male!” rise quello, spalancando la bocca in un’altra risata
sguaiata.
“Non…è…coof..
di lei…che mi preoccupo.” Ansimò, sperando forse, con
quella frase a doppio senso, di mettergli addosso qualche dubbio.
A dispetto delle sue aspettative le sue
parole non fecero che irritarlo, e di questo fu certo quando il sorriso su
quelle labbra violacee si spense di colpo e la ruga della fronte divenne più
profonda, marcandogli il volto duro con un’espressione furiosa.
L’espressione che aveva assunto si
avvicinava molto a quella di Viola e forse fu per quello che si tranquillizzò.
Viola era una testa calda e, come tale,
l’unica cosa di cui doveva aver paura erano le creature fredde e interessate
solo a stroncare i suoi ringhi con un sol colpo. Quello invece, che sulle prime
gli era parso come un pazzoide pieno di sé e terribilmente controllato, non si
avvicinava nemmeno lontanamente a quella che era stata la sua prima
impressione.
Gli venne quasi da sorridere, accorgendosi
di quanto in realtà fosse il rosso a doversi preoccupare di chi si trovasse di
fronte.
Alla fine, proprio come la paradisea
argentata, non era altro che una belva arrabbiata e smaniosa di affondare i
propri artigli sull’avversario.
Niente di cui preoccuparsi.
Non appena riacquistata la capacità di
respirare correttamente, ritornò dritto sulle proprie gambe e controllò che
Morgan fosse ancora nei paraggi.
Lo trovò dietro una cassa lasciata davanti
una delle botteghe che davano sulla piazza, certamente troppo shockato da
quanto visto per restare allo scoperto.
Tornò a fronteggiare lo sguardo del pirata
con i propri occhi color cobalto, freddo ed austero come sempre e pronto a
tirar fuori i propri pugnali al minimo accenno di pericolo.
Fare casino non era mai stata una delle
sue scelte preferite, ma ormai la frittata era fatta e lui non poteva più
tirarsi indietro.
Ancora non sapeva cosa avesse spinto Viola
a fronteggiare un simile individuo, ma pregò per la propria sanità mentale che
ci fosse una buona ragione.
Atto
16, scena 2, Aria di battaglia
“Come hai fatto?”
La domanda di Viola apparve quasi fuori
luogo, data l’atmosfera fin troppo elettrica tra lei ed il pirata.
Kidd inarcò entrambe le sopracciglia,
abbassando gli angoli delle labbra dipinte: non capiva a cosa si riferisse
quella bambolona da prim’ordine, ma non era nel suo stile mostrarsi insicuro e
finì col risponderle con un sorriso di sfida.
La ragazza, a dispetto delle sue
aspettative, parve trattenersi, stringendo i pugni così tanto da sfumarsi le
nocche di bianco.
Si vedeva lontano un miglio che era
furiosa, ma comunque tesa nello sforzo di non gettarsi a capofitto nello
scontro.
Ridacchiò col suo solito tono gutturale,
ritrovando negli occhi nocciola della ragazza una vera e propria smania di
massacrarlo.
Divertente. Davvero divertente. Cosa ci
poteva essere di così importante dal trattenerla?
“Hai qualche dubbio su chi hai di fronte,
bellezza?” la schernì allargando le braccia.
Viola fece una smorfia di stizza,
digrignando i denti e parlando di conseguenza con la lingua ben trattenuta
dietro di essi.
“Rispondi, lurido verme bipede, e forse…” si trattenne, quasi il pronunciare qualcosa di
simile le costasse non poco “… forse farò a meno di strapparti quella
protuberanza che tu definisci sicuramente naso.”
C’era un’altra cosa che seguiva EustassKidd come un’ombra, oltre
la sua incontrollabile irritabilità, ed era la sua inscindibile, catastrofica,
mania di trovare in ogni frase a lui rivolta un insulto nei confronti del suo
aspetto.
Non che lui potesse sapere che Viola,
effettivamente, aveva fatto volontariamente cenno a quella sua particolarità
somatica, ma bastò il dubbio a fargli venire i nervi a fior di pelle.
“Stai cercando il Paradiso prima del
tempo, baldracca?”
Da bellezza a baldracca.
Oh, questo, Killer lo sapeva bene, era
segno che le parole sarebbero state presto inutili. Quando Kidd
cominciava ad insultare più pesantemente l’avversario era tempo di tirare fuori
le sue lame rotanti e tenersi pronto all’azione.
“Quello può aspettare.” Gli rispose subito
l’argentata “Ma io no, sgorbio. Dimmi come hai fatto a lanciare quell’incu-cosa.
Adesso.” Sputò infine le ultime parole, prima di zittirsi completamente.
Kidd aveva capito a cosa si riferisse, ma
ormai non gli importava più. Ormai non desiderava altro che stritolarla fino a
farla spirare.
Nessuno insultava EustassCaptainKidd. Nessuno.
Nemmeno una stangona come quella.
Neanche a dirlo, fu proprio Viola ad
attaccare per prima.
Il pirata rosso non se lo aspettava, Arch se ne accorse dal modo in cui spalancò gli occhi,
schivando nel frattempo un colpo di braccio diretto al suo viso da parte
dell’argentata.
EustassKidd non gradì
il modo in cui la ragazza, dopo aver imprecato tutt’altro che velatamente in
sua direzione, lo squadrò preparandosi ad un nuovo attacco.
La mancina del pirata fece appena in tempo
a stuzzicare con la punta delle dita l’impugnatura della pistola appesa alla
cintola, prima di accorgersi di un piede nudo e all’apparenza esile piantato
nel suo ventre.
Non meno di un secondo dopo si ritrovò con
il bordo della fontana centrale piantato nella schiena, senza nemmeno sapere
come ci fosse finito.
“Cos-..?” Tossì un po’ di sangue, per
terra, più per la sorpresa che per i dolore. Il colpo ricevuto era roba da niente,
se confrontato a quello a cui era abituato.
Alzò gli occhi furente, vedendo
l’argentata, più lontana di come se la ricordava, assumere una posa altezzosa
che gli fece letteralmente andare il sangue al cervello.
Accanto
a lei il biondino di nome Arch era invece sempre
immobile, apparentemente rilassato alla vista dell’operato della compagna.
Incontrò gli occhi cobalto del ragazzo con
odio, trovandoli freddi come il ghiaccio, ripensando poi alle parole poco prima
precedenti al battibecco tra lei e l’argentata.
Il riflettere su quell’odiosa frase che
aveva più o meno dato inizio a tutto fu quasi come una secchiata d’acqua fredda.
Fu così che la sua mente riuscì a mettere
da parte l’orgoglio e macchinare qualcosa di meglio del massacro in prima
persona della bambolona.
Non era di lei che si preoccupava, eh?
Ridacchiò, incapace di contenersi. Quel
marmocchio gli ricordava in modo sorprendente Killer: calcolatore e fermamente
convinto di conoscere a fondo chi gli sta’ attorno.
Una testolina degna di essere il vice di
una furia come quella.
Ma come avrebbe reagito se qualcosa fosse
andata inavvertitamente contro i suoi calcoli?
Si rialzò a fatica, ignorando bellamente
le parole che Viola Sollevapesi continuava ad
indirizzargli, ormai concentrato unicamente sul bel visino delicato di Angelo
Infido.
Gli conosceva i tipi come lui: controllati
e sicuri di poter leggere il pensiero del nemico. A lui non interessava se
l’avversario della sua amichetta era un impulsivo massacratore quale era lui.
Kidd avrebbe scommesso la sua adorata
pelliccia che per lui era stato come puntare sul proprio mastino ad un incontro
di cani rabbiosi.
Bhe, spiacente per lui, ma non avrebbe fatto
la parte che si aspettava.
Non era tanto stupido da fare il gioco di
qualcun altro così alla leggera.
Ridacchiò sadicamente divertito, notando
la Sollevapesi raccogliere rudemente l’ascia con il
quale era stato attaccato dal cadavere in quel momento ai suoi piedi. Doveva
ammettere che la bambola aveva fegato: una qualunque ochetta si sarebbe messa a
gridacchiare all’orrore alla vista del corpo maciullato di quel vermiciattolo
che aveva osato sfidarlo.
Invece, l’unica smorfia che al momento
animava i lineamenti di Viola era la rabbia.
Con un movimento fluido del braccio,
l’argentata gli scagliò contro, senza tanti convenevoli, l’oggetto affilato .
Gli fu sufficiente alzare la mano smaltata
e, ghignando soddisfatto, aspettare il momento in cui l’ascia si sarebbe
fermata a mezz’aria proprio dinanzi a lui, per poi decretare ad alta voce:
“Repel.”
Come calcolato l’arma tornò a vorticare
furiosamente all’indietro, tornando dritto tra le braccia della Sollevapesi.
Atto
16, scena 3
Viola boccheggiò impietrita, osservando
atterrita ciò che aveva lanciato, ritorcersele contro con un inspiegabile
effetto boomerang.
Non se lo aspettava. Vedere un essere
viscido come quello, un umano, riuscire a deviare un suo lancio senza nemmeno
sporcarsi le mani, era l’ultima cosa che si sarebbe immaginata.
Il filo dell’arma arrivò a luccicarle
sinistramente accanto al viso prima che un braccio la tirasse di lato,
salvandola letteralmente sul filo del rasoio.
Cadde a terra, graffiandosi le ginocchia
nude sulla superficie ruvida della piazza.
“Che diavolo fai?” urlò di getto,
riconoscendo nella mano rosea stretta al suo polso quella di Arch.
Il biondo le rispose con un’occhiataccia
veloce, prima di tornare a controllare le azioni del pirata.
Si accigliò, incontrando il sorriso
strafottente e sadico del rosso.
“Oh, ma che eroe.” Lo derise, avanzando di
qualche passo, tornando in poco tempo a capo dei suoi.
Arch rimase zitto, i riflessi pronti a captare
il minimo movimento da parte dell’altro.
“Cosa diavolo sei?” sibilò piano il
ragazzo, talmente tanto che nessuno, a parte Viola, poté udirlo.
L’argentata sbarrò gli occhi alla vista di
una goccia di sudore percorrere la tempia a lei visibile del biondo.
Non accadeva mai che Arch
sudasse. Sudare per lui, che fosse anche una misera goccia, equivaleva ad
essere nervoso ed essere nervoso significava essere confuso.
E se Arch era
confuso significava solo una cosa: guai.
“Lo sapevo che non era una buona idea.”
Sussurrò d’un tratto il biondo,quasi rivolto a se stesso, mollando di scatto il
braccio della paradisea rossa.
Viola lo guardò spaesata, il nervosismo
che il cugino emanava lo si poteva sentire a pelle. Tremava impercettibilmente,
l’aveva sentito poco prima che la lasciasse andare. Corrugò la fronte
infastidita e preoccupata.
Per la prima volta anche lei sentiva
quella situazione in cui si era gettata rischiosa e precaria.
Le pupille del biondo si dilatarono sotto
i suoi occhi in un attimo.
“VIO-!”
Bastò un sorriso animalesco per far
scatenare l’inferno.
Un inferno fatto da un confuso sibilo di
lame rotanti e da un ruggito echeggiante dal tono basso e morbido che per un
attimo somigliò ad una parola.
A pochi millimetri dal suo volto l’ombra
di qualcosa di legnoso ed affusolato bloccava l’avanzare di un’arma bianca ricurva.
“Signorin-..Ugh.” Si lamentò
l’ombra, ma a Viola non servì altro che quel mugolio per riconoscerne il
possessore.
“Marmocchio!!”
Atto
16, scena 4, Moby Dick
Si svegliò ancora mezza intontita che
ormai erano le cinque del mattino.
In un primo momento non ci fece molto
caso, osservando ad occhi annebbiati l’orologio della biblioteca segnare
quell’ora, ma poi collegò i due fatti, realizzando che era mattina.
Si era svegliata di mattina.
“Uuuh.” Si lamentò,
portandosi una mano alla testa, avvertendola pesante e leggermente dolorante,
come se l’avessero riempita d’acqua.
Persino i polmoni le sembravano
anestetizzati.
Fece un paio di respiri profondi,
espirando debolmente l’aria dal sapore cartaceo della biblioteca, ma sentì
qualcosa premerle sul petto.
Riprovò l’azione di prima, riscontrando la
stessa identica sensazione.
Sbarrò gli occhi spaventata, accorgendosi
che non era solo una sua impressione, e scattò con la testa in avanti, cercando
di mettersi in piedi.
Rimase non poco di sasso nel vedere un
ciuffo biondo conosciuto riposarle beatamente sul petto, seguito dal volto di
una persona che lei conosceva fin troppo bene.
Marco stava dormendo come un bambino,
rilassando i muscoli della faccia tanto da far sparire il cipiglio imbronciato
che lo contraddistingueva, stringendole la mano con una delle proprie.
Sospirò sollevata.
Che spavento. Per un attimo aveva creduto…
Una risata arcigna le rimbombò in testa,
facendola rabbrividire.
No. – si impose scrollando la testa, non
doveva pensarci altrimenti la paura l’avrebbe bloccata un’altra volta come era
successo con Jaws.
Si concentrò quindi sul respiro della
Fenice, trovandovi un rapido e sicuro appiglio.
Certo, era un po’ imbarazzante trovarsi in
quella situazione, ma dopo un sonno agitato come quello che aveva avuto,
trovarsi una faccia amica accanto era meglio di una boccata di aria fresca.
Poggiò la testa sul guanciale del
divanetto, sospirando stravolta.
Aveva sognato Archetto quella notte, suo
fratello, intento a guardarla con sguardo disperato piangendo a dirotto. Nel
sogno, sentendosi in qualche modo tremendamente in colpa, aveva cercato di
abbracciarlo, di confortarlo, ma non appena ne aveva sfiorato le guance umide
con la punta delle dita, la figura elegante ed esile del fratello era stata
sostituita da un corpo dieci volte più grande, grasso e puzzolente, che l’aveva
repentinamente afferrata per il collo.
L’unico suono proveniente da quella sagoma
oscura era stato sempre lo stesso: “Zehahahah!!”
Serrò le labbra, soffocando un singhiozzo
e si coprì gli occhi con le dita affusolate delle mani.
Quanto ancora sarebbe continuata quella
storia?
Stava impazzendo.
Un movimento poco sotto il suo seno la
portò a riabbassare lo sguardo.
Un paio di occhi chiari le diedero il
buongiorno, accigliati come al solito.
“Ciao..” fu la sola cosa che Momo sentì
dire perché subito dopo andò nel pallone.
Percepì le guance infiammarsi e gli occhi annaqquarsi di vergogna: cosa doveva fare? Marco era
innamorato di lei, e lei …
Non poteva dargli false speranze!
Come doveva rispondere?!
“C-ciao.”
Si diede dell’idiota non appena si accorse
si essere stata lei a balbettare quella parola.
Singhiozzò, lasciandosi nuovamente cadere
all’indietro con il viso tra le mani, troppo imbarazzata per anche solo pensare
di controllare la reazione della Fenice a quel suo ennesimo sfoggio di
goffaggine.
Una risata morbida le solleticò l’udito.
Grandioso, aveva fatto un’altra figura da
scema.
“C-come mai stavi..?”
sussurrò, cercando di avviare il più velocemente possibile una conversazione.
“Facevi degli incubi.” Fu la rapida e
laconica risposta del biondo, a quando pareva più deciso che mai a non alzarsi
da lei.
Sussultò appena: allora Marco l’aveva
vista agitarsi nel sonno.
“Scusami.”
Cinguettò, spostando la testa di lato, sebbene le fosse ancora impossibile
avere un contatto visivo con il comandante della prima flotta.
“E per cosa?”
“Per
averti fatto dormire scomodo.” Disse la paradisea imbronciandosi,
sentendosi terribilmente colpevole “Dev’essere dura
prendersi cura di me. Non faccio che combinare guai.”
“È così che ci si comporta in una
famiglia.” La interruppe la voce bassa e calma del biondo, mentre lei
continuava a mordersi le labbra.
“E se devo essere totalmente sincero …”
continuò la Fenice, approfittando di un momento in più del suo silenzio “…
erano anni che non dormivo così bene.”
“Co-..?”
La sensazione di morbido arrivò
improvvisa, premendole la base del collo, seguita da qualcosa di pungente solleticarle
poco più sotto.
Il cuore le esplose in petto, quando un
respiro caldo sulla pelle le rilevò la natura di quelle sensazioni.
Annaspò, scoprendosi gli occhi, ritrovando
come previsto la Fenice chino su di lei con il viso affondato nell’incavo del
suo collo.
La gola le si chiuse per la confusione e,
sentendo il sangue affluire più velocemente alle guance e il battito rimbombarle
rabbioso nelle orecchie, il corpo cominciò ad essere scosso da piccoli tremiti.
“M-marco.” Balbettò,
incapace di dire altro.
Gli occhi azzurri della Fenice si
riaprirono di scatto come se avesse realizzato solo in quel momento quello che
stava facendo. Rialzò la testa, trovandosi faccia a faccia con la paradisea,
rossa e sconvolta.
Si fece un po’ più distante per lasciarla
respirare, ma nemmeno un istante dopo la presenza della ragazza si era dissolta
nel nulla, lasciandolo da solo.
Dietro uno degli scaffali della biblioteca
Allegra si teneva le mani al petto, tentando con scarsi risultati di calmare sia
il proprio battito sia la sensazione di qualcosa svolazzarle nello stomaco.
Si rannicchiò un po’ su se stessa,
serrando con forza gli occhi, umidi per l’emozione.
Doveva parlare con Betty: si sentiva male.
Atto
16, scena 5
Killer non aveva fatto in tempo a
fermarsi, vedendo apparire quella bestia fuori dal nulla, interponendosi tra
lui ed il suo obbiettivo.
Era rimasto sorpreso nel vedere una simile
creatura inserirsi così inavvertitamente nella battaglia e, percepì chiaramente,
nonostante la maschera striata, che anche Kidd lo
era, trattenendo per un istante il respiro venendo imitato dagli altri membri
della ciurma.
Davanti a lui stava un lungo e grosso
serpente dotato di piccole zampe anteriori e posteriori, provvisto di baffo
filamentosi e un accenno di corna ramificate color nero ebano, aveva incassato
in pieno il colpo destinato all’argentata.
Le fidate armi di Killer si erano
conficcate tra quelle che, a prima vista, sembravano squame scricchiolanti,
bloccando il meccanismo che le faceva ruotare, ma, sebbene il lamento dolorante
dell’essere, forse un po’ troppo acuto per essere quello di un adulto, non
erano andate in profondità, semmai il contrario: erano state trattenute dalla
sua armatura marrone e squamosa.
Il muso affilato della creatura si rivolse
verso il Massacratore, puntando i suoi occhi, tremanti di dolore e neri come il
petrolio, nei buchi della sua maschera.
Per un attimo ebbe l’impressione che
potesse vederlo.
“Signorin-Ugh.” Gli sentì dire con una voce infantile sgorgargli
dalla lunga gola.
Poi se lo vide crollare davanti.
Viola Sollevapesi,
ancora scossa dall’accaduto, si sciolse dall’immobilità in cui era piombata, gettandosi
in avanti,addossandosi al collo della
bestia.
“Marmocchio!!”
Inclinò la testa da un lato, colpito da
quell’esclamazione.
Quindi non aveva sbagliato, dando alla creatura
un’età molto giovane.
La creatura non rispose ed iniziò a
lamentarsi con piccoli suoni acuti e penosi, bloccato a terra da un forte serie
di tremiti.
Strano, pensò Killer, eppure non aveva
affondato così tanto da ferirlo gravemente.
Un’idea gli balzò in testa: e se fosse
semplicemente traumatizzato?
“Marmocchio!
Ehi marmocchio, r-riprenditi!”
Ripetè nel frattempo la Sollevapesi,
scuotendo il corpo del giovane rettile senza alcun riguardo, certamente ansiosa
di vederlo nuovamente in piedi sulle proprie zampe.
Quella ragazza era stata fortunata: ancora
qualche millesimo di secondo in più e la sua vita sarebbe stata recisa come una
corolla dallo stelo di un fiore.
“Arch!!!” scattò
da una parte l’argentata sotto ai suoi occhi, dimenticatasi totalmente della
sua presenza.
Fu con un certo sollievo che la vide
mordersi le labbra, quando si rese conto che Kidd
aveva già iniziato le danze con il suo compagno.
Ci volle comunque poco, prima che
un’occhiata di pura rabbia omicida si puntasse su di lui, e ancor meno ci volle
perché sentisse una mano stringersi sul suo collo, artigliando senza pietà la
carne della sua giugulare.
“Maledetto codardo!”
Le sue spade lo salvarono, sibilando
minacciose quel tanto che bastò per allontanare dal suo pomo d’Adamo la presa mortale
della ragazza. Si massaggiò la parte lesa con una mano, ritrovandola poi
ricoperta di un sostanzioso quantitativo di liquido purpureo.
Il suo sangue.
Aveva mirato ad ucciderlo, quindi.
“Bene.” dichiarò, riattivando il
meccanismo di rotazione delle sue lame, osservando con un po’ di ammirazione la
furia cieca che inondava l’espressione tesa della sua avversaria.
Era confortante sapere che non si sarebbe
dovuto fare scrupoli.
Non fosse stato per il fatto che doveva
scansare i proiettili che il rosso gli sta sparando addosso, Arch avrebbe ben volentieri squartato le spalle del pirata
mascherato.
La vista di Morgan, uscito dal suo
nascondiglio e trasformatosi in uno schiocco di dita, venire colpito in pieno,
l’aveva distratto, spaventandolo talmente tanto da impedirgli altre azioni se
non quella di osservare atterrito la scena del ragazzino crollare a terra
dilaniato dal terrore.
Oltre a quello non aveva visto altro.
Si era distratto e poi si era trovato con
una mano smaltata stretta intorno al collo.
“A-gh!” gemette,
risvegliandosi dal coma.
Gli occhi di EustassKidd apparvero quasi dal nulla, osservando le smorfie
del suo viso con una brama omicida da far paura.
Il volto del pirata era fisso sul suo ad
una distanza tale da dargli un repellente assaggio del suo alito.
Archetto non poté purtroppo far altro che
boccheggiare in cerca d’aria, lanciando occhiate sprezzanti al rosso, troppo
convinto di averlo in pugno per farci caso.
Finalmente l’aveva tra le mani. Kidd non aveva aspettato altro da quando quegli odiosi
occhi blu l’avevano puntato.
Allungò la lingua di lato, trattenendosi
dal leccarsi la bocca per non rischiare di portarsi via il rossetto.
Gol D.Roger solo sapeva quant’era difficile per lui non rovinare il trucco
nero alle labbra.
Lo vide dimenarsi, arricciando il naso e
tirando il collo all’indietro, tanto schifato dal suo alito da serrare i denti
per non respirare la sua stessa aria.
“Che c’è bel faccino? I tuoi gusti in
fatto di odori sono troppo raffinati?” ghignò, allungandosi ancor di più su di
lui.
Uno sputo in piena regola lo colpì sulla
guancia.
“Oh…” disse
riprendendosi dallo stupore iniziale.
La mano del rosso fece ancora più forza
sul suo collo, costringendolo a spalancare la bocca nel disperato tentativo di
compensare la mancanza di ossigeno.
Kidd osservò la scena con rapimento.
Il modo in cui il ragazzo aveva serrato le
palpebre, sfiorandosi le guance arrossate con le lunghe ciglia bionde ed
inalando quanta più aria possibile, aveva qualcosa di stranamente erotico.
Ma è davvero un maschio? – pensò,
osservando le dita delicate del biondo piantarsi languidamente nel suo braccio,
pregandolo quasi di liberarlo.
Che lui ricordasse non era mai stato
attratto fisicamente da elementi dello stesso sesso: amava le donne, eppure
c’era qualcosa nel ragazzino che lo attirava.
Forse era un travestito?
Ridacchiò maligno, studiando bramoso i
vestiti del biondo, alla ricerca del più piccolo indizio.
Chissà come sarebbe stato scoprirlo di
persona?
Una lama seghettata gli si piantò nel
braccio prima che potesse pensare ad altro.
Ricacciando indietro un urlo, tirò
indietro il braccio ferito, stringendoselo con rabbia.
Davanti a lui Arch
detto Angelo Infido tossì, sorreggendosi con una mano puntata a terra ed
impugnando con l’altra una lama corta dall’elsa grigia, rimettendosi dritto a
fatica ed allontanandosi il più possibile da lui con un balzo misurato ed
elegante.
Kidd si diede dello stupido per essersi
lasciato sfuggire la propria preda a causa di un suo attimo di disattenzione.
Ma, riflettè
ghignando, la cosa lo intrigava.
Così faccino d’angelo nascondeva delle
sorpresine sotto i vestiti, eh?
Allargò il proprio sorriso, vedendolo
estrarre da sotto la giacchetta una lama gemella a quella già sguainata.
Gli occhi freddi di Arch
si assottigliarono in sua direzione, infiammandosi di desiderio di rivalsa.
Le sue braccia si allargarono lentamente,
facendogli assumere una posa simile a quella di un falco che ad ali spiegate si
prepara a fiondarsi sulla preda.
I suoi occhi cerulei mandavano scintille,
quasi volessero trapassarlo da capo a piedi.
Ooh. La fatina si era arrabbiata, dunque. Che
paura.
“Ridi finché puoi.” Sibilò Arch poco prima di lanciarsi su di lui.
Fu facile per il rosso scansare il suo
primo attacco, essendo i movimenti del biondo ancora troppo provati dalla
prolungata mancanza di ossigeno, ma il secondo colpo lo ferì in pieno petto,
lasciandogli un solco di notevole profondità sul petto.
Teh. Ci sapeva fare con i coltelli, ridacchiò
preparandosi a rendere il proprio corpo magnetico per disarmarlo.
Non arrivò mai a farlo, perché una
bandiera bianca e azzurra, sovrastando in lontananza i tetti delle case
dell’isola, attirò la sua attenzione.
Storse la bocca con scontento.
Sempre a rompere le uova nel paniere
quelli.
Atto
16, scena 6
Hina la Gabbia nera, era certamente una bella
donna.
Ammirata per la sua bellezza, il suo
coraggio e, non di meno, il suo grado, riscuoteva parecchio successo sia tra i
suoi sottoposti che tra gli avversari, rivelandosi, a dispetto delle apparenze,
una vera e propria trappola per chi osava avvicinarsi a lei, sottovalutandola.
Il numero di delinquenti che aveva
catturato grazie alla sua avvenenza, combinata agli effetti devastanti che il
Frutto del diavolo aveva provocato al suo corpo, non si potevano contare.
Al capitano di vascello però quel suo
essere corteggiata ed adocchiata non era mai andato a genio, anzi, l’essere
rincorsa dagli uomini gli dava addosso un fastidio indicibile.
Certo, facilitava il suo lavoro, ma non le
permetteva di trovare quello che cercava: ossia un uomo degno del suo interesse.
Per questo, nonostante ormai avessero
attraccato sull’isola dove le erano stati segnalati dei disordini da parte di Arch Angelo Infido e Viola Sollevapesi,
la sua voglia di fare il suo lavoro stava lentamente scemando, rendendola più
irritabile del solito.
Fare da babysitter ai suoi uomini non era
la sua aspirazione di vita, ma riusciva comunque a conviverci, ripetendosi
quanto le vite di quei poveri ragazzi dipendessero da lei. Quello che però mai
e poi mai avrebbe potuto sopportare, sarebbe stato risolvere questioni simili,
affibbiatele senza troppi riguardi proprio perché era quello che era: una bella
donna.
Quando aveva ricevuto la lumacofonata dal quartier generale non riusciva a crederci
ed era rimasta a bocca aperta solo per chiudere la conversazione in faccia a Kaizeruhige, vice ammiraglio, degnandolo a malapena di una
risposta monosillabica.
Maschilisti. - aveva pensato, sistemandosi
nervosamente i guanti neri sulle dita, ma doveva ammettere che un po’ di
ragione avevano.
Dire che il suo aspetto non avesse
favorito alla sua carriera sarebbe stata una bugia, dopotutto.
Sospirò, incastrando gli occhiali da sole
sopra la propria fronte, dando spettacolo dei propri occhi nocciola ai suoi
sottoposti che, a quella vista paradisiaca, si fermarono per un istante con
sguardo sognante e questo bastò a provocare l’ira della marine.
“Muovetevi, razza di fannulloni! Non siamo
venuti qui a prendere il sole!!” sbraitò senza preavviso la rosa, provocando
nei propri soldati un repentino ritorno all’azione.
“Siamo qui per arrestare dei criminali!
Non battete la fiacca!” terminò il proprio rimprovero, vedendo piccoli
gruppetti dei suoi sparire tra le viuzze dell’isola con i fucili in spalla.
“Il vostro polso per la disciplina è come
sempre impareggiabile, capitano.”
Riconobbe immediatamente il tono
reverenziale di Fullbody, apparso dietro di lei ed
accompagnato come sempre dalla figura eccentrica e sorridente di Jango.
Alzò gli occhi al cielo, implorando un
poco di pazienza. Non era tanto difficile sopportare le avances di quei due, ma
quel giorno non era proprio in vena.
“Cerchiamo di sbrigarci, voglio tornare al
quartier generale senza sprecare troppo tempo.” Asserì inflessibile, stroncando
sul nascere qualsiasi loro proposta, imboccando una delle strade che portavano
verso il centro.
Atto
16, scena 7, Marineford
Koby non riusciva ancora a spiegarsi come Clarina Sassonia fosse riuscita a coinvolgere lui ed Hermeppo in quella missione suicida.
Erano stati semplicemente svegliati di
soprassalto dal loro superiore con una razione extra di pugni in testa e
buttati giù dalle loro brande ancor prima di poter anche solo pensare di
obbiettare.
Era mattina presto a Marineford,
neanche le matricole si alzavano a quell’ora!
“Volete sbrigarvi voi due?” li rimproverò Clarina, tenendosi bel stretto attorno al corpo il drappo
nero che serviva a nasconderla ad occhi indiscreti, camminando a passo spedito
nel posto dove lei diceva di aver nascosto una cosa importante.
Cosa fosse di preciso quest’oggetto, il
Vice-ammiraglio Garp non l’aveva specificato, ma Koby sapeva bene che recuperarlo non sarebbe stata una
passeggiata.
Con l’ammiraglio Akainu
in giro come un cane rabbioso, non c’era certo da stare tranquilli.
“Con questo freddo non mi sento più le ossa…” disse il compagno con tono lamentoso e leggermente
nasale, a causa del freddo pungente del mattino.
Koby avrebbe tanto voluto rispondergli che
anche le sue ossa non erano da meno, ma proprio in quel momento Clarina era entrata di soppiatto nel quartier generale.
Ovviamente non erano entrati dalla porta
principale. Sarebbe stato come mettersi in piazza e con un cartello indicare la
loro posizione al nemico.
Si limitarono a infilarsi in una delle
porte di servizio che conducevano alle cucine, grazie al cielo ancora deserte
per via dell’ora.
Non appena entrati la donna si girò verso
di loro, abbassando il cappuccio del suo improvvisato mantello, rivelando la
cascata di capelli biondi.
“Bene, adesso voi rimanete qui e mi
aspettate.”
“Cosa?!” strabuzzarono gli occhi sia lui
che Hermeppo, scandalizzati da quell’assurda
decisione.
“Abbassate la voce!”
“Sta scherzando, spero.” Disse a tono più
basso l’occhialuto, guardandosi attorno circospetto.
“Il comandante Garp
ci ha ordinato di scortarla a vista.” Le ricordò: voleva forse fargli
ammazzare? Il vice ammiraglio non gli avrebbe mai e poi mai perdonati se
avessero trasgredito a quel suo preciso ordine.
“Quello che sto per fare è molto
pericoloso e se Sakazuki scopre anche voi il signor Garp ne pagherà le conseguenze.” Si giustificò la bionda,
assottigliando gli occhi con rimprovero.
Entrambi i ragazzi abbassarono la testa
combattuti, messi di fronte a quella possibile eventualità.
Non ci sarebbero state scusanti per loro e
Garp avrebbe sicuramente fatto di tutto per
proteggerli, anche a costo di rimetterci il posto, lo conoscevano troppo bene.
“Sono riconoscente al vostro comandante,
ma questa è una cosa che devo fare da sola. L’ho giurato e lo farò.” Continuò la
donna inflessibile.
Clarina pensò di averli convinti, ma poi Koby rialzò gli occhi, incontrando i suoi.
“Anche
noi abbiamo giurato il giorno in cui siamo diventati marine e non verremo meno
ad un ordine di un nostro superiore per codardia. La scorteremo ugualmente. Che
le piaccia o no.”
Come sospettava. Sorrise intenerita da
quelle parole sincere. Erano troppo dei bravi ragazzi per arrendersi in quella
maniera.
“D’accordo.”
Fine
Atto Sedicesimo
Sono
tornata! Sembravo morta eh? E invece no!
Spiego
il mistero della mia sparizione: sto lavorando ad una originale per un prompt su EFP, la mia prima che, essendo una long (un’altraaaa XD) è abbastanza onerosa. Ma tranquille non vi
abbandonerò.
Bene bene, posto il capitolo di mattina, e partiamo con le
domande *.*
1)Come si
svilupperà il rapporto tra Kidd, Arch,
Viola e Morgan?
2)Suggerimenti
liberi
E detto
questo, donne votate e stupite! Kisskiss
Ci
vediamo al prossimo capitolo e vi lascio all’immagine di Violaaaaa!!!
XD
Storie
di Storyboard: Kaizoku no
Allegretto
Files #000-001 Viola Sassonia
Viola
è un personaggio uscito un po’ dopo quello di Allegra e Archetto, ma comunque
benriuscito. La sua creazione è stata
più lenta e travagliata rispetto agli altri personaggi.
Nata
come un miscuglio tra lei e Agiata, pur avendo lo stesso nome: una ragazza
rozza ma impacciata.
Successivamente
questa versione viene abbandonata, essendomi poco congeniale immaginarmi una
persona forte come Viola, inciampare al minimo passo come Agiata,
Viola
Sassonia è una Paradisea di fiamma rossa, coetanea di Allegra ed Archetto. Sicura
di sé, facilmente irritabile e a tratti tirannica, specie nei confronti di
Arch. Viola tende ad alzare le mani il più delle volte, sollevando e scagliando
qualsiasi cosa le si trovi a tiro. Il suo primo contatto con Archetto fu
appunto segnato dal lancio di un masso.
Su
Nido Leila il suo punto di forza era appunto la forza fisica, che le consente
di resistere ai colpi più duri e di sollevare oggetti pesantissimi con
pochissimo sforzo. A causa del suo carattere e della sua mania di lanciare
oggetti, Viola tra le Paradisee aveva pochissimi amici, fatta eccezione per sua
madre, sua zia e Allegra.
Orgogliosa
quasi fino alla nausea, nonostante il suo rancore per gli umani sia molto profondo,
Viola non ammetterà mai di provare un certo senso di protezione nei confronti
di Morgan.
Il gelo del pavimento del quartier generale,
tanto vuoto da risultare quasi inquietante agli occhi di Koby
ed Hermeppo, pizzicava i piedi nudi di Clarina con rinnovata insistenza ad ogni suo nuovo passo,
fallendo comunque nel tentativo di distoglierla dal proprio obbiettivo.
Le sopracciglia bionde della paradisea si
corrugarono verso il centro della fronte, conferendole, senza che i suoi due
accompagnatori potessero vederla, essendo dietro di lei,un aspetto ancor più deciso ed orgoglioso del
solito.
Era una donna di carattere Clarina Sassonia.
Koby ed Hermeppo
potevano affermarlo con assoluta certezza, nonostante il poco tempo trascorso
con lei.
Era una mamma, dopotutto. Le sue azioni
erano trascinate da qualcosa di più forte dell’egoismo o l’istinto di
autoconservazione.
Non era per se stessa che stava rischiando
di essere catturata di nuovo, questo era certo.
C’era una ragione più che valida che stava
muovendo i suoi passi, troppo frettolosi e decisi per non esserlo.
Koby aveva sentito menzionare dal vice
ammiraglio, seppur brevemente,un frutto, prima di essere sbattuti fuori dalla
nave al freddo del mattino.
Possibile?
Per Clarina
sembrava che lo fosse e solo i suoi pensieri, riflessi nelle cornee dei suoi
occhi cristallini, puntati sulla fine di quel lungo corridoio, potevano celarne
il motivo.
“Agiata!”
esclamò piacevolmente sorpresa, accorgendosi solo in quel momento della
paradisea rosa sgusciata alle sue spalle senza che se ne accorgesse.
Non
era abituata a ricevere visite. Da quando le altre erano venute a sapere della
nascita di Archetto le sue sorelle avevano cominciato ad andare a trovarla
sempre meno.
“Che
bella sorpresa! Come mai da queste parti? Sei venuta a trovare Allegra? Oggi è
fuori con Archetto per la pesca! Mi spiace!”
Si
fermò dal continuare, vedendo il visino di Agiata rabbuiarsi di colpo.
Si
morse la lingua.
A
volte malediceva la propria schiettezza. Grande spirito, sapeva che Agiata era
più che gelosa di Archetto, ora che Allegra non aveva più tempo per lei!
“O-oh, ma dovrebbe tornare a momenti!” si sbrigò ad
aggiungere. Oooh se avesse fatto piangere Agiata e Drama, sua madre, l’avesse scoperto sarebbero stati dolori.
“Veramente
io… non sono venuta qui per vedere Allegra.”
Quella
frase la sconvolse non poco: Agiata che non voleva vedere Allegra?! Grande
spirito, il mondo stava forse per finire?!
“Zietta…” mugugnò, storcendo un po’ il naso la piccola
paradisea con la vocina incrinata “Sento che qualcosa di brutto sta per
arrivare …”
Non
ebbe la forza di chiederle cosa, perché poteva percepire benissimo quello a cui
si riferiva Agiata: i suoi occhi denudarono l’anima della piccola senza fare il
minimo sforzo, facendola sfiorare con la propria.
Sussultò,
capendo: una grande minaccia, terribile, letale, spietata, inumana.
Gli
occhi della paradisea rosa si alzarono su di lei e la guardarono imploranti.
“…
e… io non sopravvivrò.”
Fu
come sentirsi schiacciare da un masso pesantissimo.
Avrebbe
voluto sorriderle, dirle di non essere così negativa, rassicurarla che forse la
minaccia che aveva avvertito non era così terribile, ma non poté. Agiata non
sbagliava mai su cose simili e non parlava mai a vanvera.
Per
questo lei, paradisea di più alto grado tra quelle della sua generazione,
dotata dell’essenza più importante di quell’Era, si ritrovò confusa ed incerta
sul da farsi.
Due
generazioni prima, quando né lei né Agiata erano ancora nate, due paradisee con
le loro medesime essenze si erano fronteggiate in quella maniera, intuendo
entrambe l’avvicinarsi della tragedia.
Ma
le parti erano ormai invertire: era a lei, la Verità, cui spettava la
decisione, e ad Agiata, la Vita, piccola, resistente e cocciuta, non sarebbe
restato che chinare il capo.
“No
…”
“Zietta
… io…”
“Non
ti lascerò morire così!”
No… non l’avrebbe fatto.
Agiata non meritava di sparire in quel
modo. Non POTEVA sparire in quel modo.
Fin dalla prima volta che l’aveva vista,
con quella sua testina fiammante e gli occhi nerissimi come una notte senza
stelle, aveva capito quale fosse la sua Essenza, ed aveva giurato a se stessa
che mai e poi mai l’avrebbe abbandonata.
Mai e poi mai.
Arrivare davanti a quella che era stata la
sua prigione la lasciò per un attimo sbigottita, forse per i brutti ricordi
legati a quel posto, forse per l’inquietante fatto di trovare la porta
spalancata.
Si fermò sulla soglia, guardando timorosa
l’entrata di quell’antro scarlatto.
Sentiva che qualcosa non andava. L’aria a
contatto con la sua pelle si era fatta pesante e strisciante come le spire di
un serpente.
La sua mente le diceva di non procedere,
ma qualcos’altro la spingeva fare un’altro passo: quello che l’avrebbe fatta
nuovamente ritrovare in quel posto maledetto.
La mano gentile di Koby
le si posò sulla spalla, cercando timidamente di attirare la sua attenzione
“Signora Clarina?”
chiese il ragazzo non ottenendo comunque alcuna risposta né reazione alla
propria domanda.
Per una decina di secondi la situazione
non si sbloccò.
Clarina stette lì ad osservare con astio
l’oscurità di quella camera, quasi ordinando di rivelarle cosa nascondesse di
così terribile da farla vacillare, finchè la
risposta, con una vibrazione d’aria, calda e appena percettibile, arrivò.
“STATE GIU’!!”
Le sue mani erano riuscite a scansare i
due ragazzi appena in tempo per puro miracolo e il colpo di lava, probabilmente
diretto proprio a loro, ebbe l’unico effetto di bruciarle i capelli,
annerendoli e sgretolandoli come cenere alle punte.
Fu con sollievo che la paradisea, alzando
lo sguardo cobalto verso i suoi due protettori, constatò che entrambi, a parte
il colorito cadaverico, fossero rimasti illesi dall’accaduto, cosa che non si
poteva dire per la sua chioma.
“Guarda cos’hai combinato.”
La voce fredda del peggiore dei suoi
incubi attirò nuovamente la sua attenzione sulla soglia di quella camera,
facendole assistere alla lenta e funesta apparizione di quello che, dicendole
di amarla, l’aveva costretta a stare con lui, contro la propria volontà.
Clarina era conscia di quanto la situazione
fosse, in meno di pochi istanti, precipitata, ma lasciarsi prendere dal panico
sarebbe stato come scavarsi la fossa, e non poteva.
Per quei ragazzi che l’avevano aiutata,
per Agiata, per i suoi bambini che l’aspettavano, doveva essere forte e tirare
fuori la parte peggiore di lei.
Le sue sopracciglia bionde si arcuarono
verso l’alto dando sfoggio nel contempo al sorriso più malizioso e sfrontato
che avesse mai indossato.
“Combinato?” chiese con tono ironico,
alzandosi lentamente sulle proprie gambe, senza dare il minimo segno di
vacillare.
“Che cosa avrei combinato Akainu?” concluse fronteggiando fieramente e a testa alta
il marine, incrociando le braccia sotto il seno con sicurezza.
Il viso corrucciato dell’ammiraglio non
tradì la sorpresa di vedere quella donna parlargli in quella maniera, cosa che
invece non fecero Koby ed Hermeppo,
sbalorditi così tanto da assumere un’espressione forse un po’ troppo fuori
luogo, dato il momento.
“Ti ho forse causato qualche problema
cercando di ritrovare la mia libertà?”
“Ti ho già permesso troppo lasciandosi in
vita, Clarina, e lo sai.” Fu la risposta impietosa di
Akainu che come una nuvola nera in cielo oscurò il
sorriso derisorio della donna, tramutandolo in una linea curva e stretta.
“Quelle della tua specie non ne avrebbero
neppure il diritt-..”
“Zitto.”
Koby ed Hermeppo
ingoiarono un groppone di saliva simultaneamente, non credendo a quello che
avevano appena udito. Aveva appena ordinato ad Akainu
di stare zitto??
“Non una sola parola.”
Koby tremò sentendo il tono della Signora Clarina solleticargli quasi in soffio gelido le orecchie e
combatté contro l’istinto di rannicchiarsi a terra come un bambino e tapparsi
le orecchie per non sentire un parola di più.
Era terribile. Si sentiva gelare fin delle
ossa … e non capiva il perché.
Dov’era finita la voce calda e confortante
di quella donna?
Dov’era finita la sua natura dolce,
indifesa e materna?
“Ugh..” si lamentò
stringendo i denti sotto gli occhi confusi e preoccupati di Hermeppo.
“Se ti sentisse mia figlia, saresti già
morto.” Continuò intanto la donna, ignara di quello che stava accadendo alle
proprie spalle.
“Tua figlia è morta.”
Seguì un intenso momento di silenzio.
Clarina indurì ancora di più lo sguardo a quella
insolente affermazione e, dal modo in cui le braccia di Akainu
avevano iniziato a tremare impotenti, irrigidendosi sotto uno degli effetti
della sua Essenza che meno di tutti usava, intuì di stare andando bene. Nessuno
sopportava il peso della Verità, specie quando questa gli è avversa.
“Osi contraddire me, Sakazuki?”
sussurrò, stirando le labbra in un altro seducente e sfrontato sorriso, facendo
un passo verso l’ammiraglio.
Uno solo, ma che bastò per vedere gli
occhi dell’altro venire offuscati da un velo di dubbio.
Tintinnò l’aria con una risata beffarda e
cristallina.
“Ahaha..Faccio
davvero così paura?” fu solo un attimo di luce il sorriso divertito che mostrò,
simile a quello che indossava tutti i giorni, per poi riaffondare
nel freddo invernale di poco prima.
I suoi occhi cobalto, benché le due
reclute non potessero vederlo dalla loro posizione, non erano mai stati così
duri e persino Akainu ne era rimasto turbato.
La donna che per mesi era stata sua
succube, accettando con pianti e suppliche la propria prigionia e il fatto di
essere amata da qualcuno come lui, in quel momento gli si stava lentamente
rivoltando contro, schiacciandolo con qualcosa di talmente forte da non poter
essere minimamente paragonabile all’Haki.
Era come sentirsi pungolare da centinaia
di coltelli affilati e pronti a trapassarlo da capo a piedi.
L’Ambizione non aveva quell’effetto.
In tutti i suoi anni di carriera aveva
incontrato centinaia di pirati capaci di fargli assaggiare una briciola di
quello che si provava sentendosi sopraffare dalla volontà altrui, ma non era
lontanamente somigliante a quello che stava subendo.
L’Haki ti
schiacciava tra due muri come una sardina, facendoti mancare l’aria dai
polmoni.
Clarina invece, solo parlando e guardandolo, lo
faceva bloccare per la paura, lo faceva sentire in trappola, dandogli comunque l’impressione
di poter annaspare in uno spazio astratto per una qualsiasi via di fuga.
Non vide la mano della donna allungarsi e
tendersi sinuosa in sua direzione, mostrando il palmo aperto in attesa di
essere riempito da qualcosa.
“Rendimela.”
Fu colto da un attimo di smarrimento.
“La Nota, Sakazuki.”
Le sue dita si contrassero mentre avvertì
quel piccolo frutto azzurrognolo nella sua tasca palpitare, quasi fosse un
essere vivo e pulsante.
I suoi occhi neri questa volta si
sbarrarono, lasciando che le sue emozioni traboccassero.
Cosa stava succedendo?
Irritata dall’incertezza dell’altro, Clarina mosse un altro passo in avanti.
“Rendimela Sakazuki,
adesso.”
Perso nel proprio stato di innaturale
confusione, Akainu digrignò i denti, portandosi la
mano alla tasca dove teneva custodito l’oggetto, osservando con rabbia la
bionda mentre il suo sguardo continuava a puntellarlo con tanti piccoli aghi.
Quella sensazione lo infastidiva.
Non era da lui lasciarsi intimidire,
specie da una donna che tra l’altro conosceva, o meglio credeva di conoscere,
come le proprie tasche.
Il potere che stava emanando era
certamenteuna conseguenza della sua
Essenza, ne era sicuro, aveva avuto modo di fare delle ricerche su quella razza
cui aveva avuto il compito di cancellare l’esistenza.
Ma perché mostrare una simile capacità
solo in quel momento?
Aveva aspettato il momento opportuno fino
a quel momento? Così tanto?
Si era finta indifesa solo per poi
pugnalarlo al momento propizio?
In quel momento si accorse del suo unico,
grande sbaglio: aveva imprigionato una Paradisea, costretta a stare al suo
fianco nolente per mesi, senza nemmeno premurarsi di indagare sulla natura
della sua Essenza.
Capire una cosa simile l’avrebbe messo in
una posizione di enorme vantaggio, ma ormai era troppo tardi per guardarsi
indietro.
La rabbia si sostituì alla confusione e
l’adrenalina gli pompò al cervello, sotto la spinta dei battiti non più tanto
frenetici e irregolari del suo cuore.
Gli importava davvero tanto di quel
mandarino dal colore strano?
Bene.
La sua mano si strinse minacciosa attorno
alla Nota, ancora fasciata dal tessuto rosso della sua divisa.
“Fai un altro passo e la stritolo.”
Fu con soddisfazione e senso di vittoria
che vide gli occhi della paradisea velarsi di paura, anche se per un solo
istante.
“Non oserai.” Affermò Clarina,
scrutandolo sempre con quella sua espressione inflessibile degna di una regina.
“Non oseresti mai distruggere l’unica cosa
che mi tiene ancora legata a te.” Era una certezza quella che stavano
pronunciando le labbra rosate di Clarina, una verità
indiscutibile.
Di colpo ricadde nello stato di caos
mentale inziale: come faceva a capirlo in così poco
tempo? Neanche l’avesse avuto scritto in faccia che stava bluffando!
Un momento…
-Bluffare..? - pensò vedendo finalmente i
contorni del puzzle farsi più nitidi.
“Non ci credo…”
sussurrò osservando rapito come non mai le fattezze e l’espressione di quella paradisea
che aveva rapito il suo cuore e la sua mente quasi fino all’ossessione.
Occhi e capelli chiari.
Lineamenti degni di una sovrana inflessibile, tanto crudele in quel momento, tanto pura nell’anima.
Una lingua tanto sincera da ferirlo.
Una fiamma bianca di alto grado.
Per i Cinque Astri…
Come aveva fatto a non capirlo subito?
“Tu sei..”
Atto 17, scena 2
Betty non sapeva che pesci pigliare.
“Betty...”
Era passata un’ora da quando Momo, più
sconvolta e rossa in viso che mai, era piombata nell’infermeria nel pieno della
mattinata, gettandosi a capofitto tra le sue braccia, affondando il viso nel
suo petto come alla ricerca di sicurezza.
Ora, non che le dispiacesse la piccolina
si fosse finalmente decisa ad alzarsi presto e cominciare a prendere i ritmi
del resto della nave, ma di certo non si aspettava una simile reazione a
quell’ora!
L’intero reparto infermieristico si
voltato verso di lei, osservando ad occhi spalancati la piccolina rifugiarsi
addosso a lei.
Il capo reparto, alzando gli occhi, invisibili
dietro le lenti scure, al cielo, si diede coraggio, accompagnando al meglio
delle sue possibilità la paradisea verso uno dei letti della stanza.
Era una fortuna che a quell’ora non ci
fossero ancora feriti.
E ci mancherebbe altro! – pensò la bruna
stringendo inconsciamente le labbra al solo pensiero: erano sì e no le sei del
mattino!
“Coraggio tesoro, sediamoci un po’,ok?”
sussurrò dolcemente, venendo prontamente affiancata da Penelope, accorsa
immediatamente non appena riconosciuta la figura della loro adorabile sorellina
minore.
Farla sedere fu un piccolo grande passo
che permise a tutte le infermiere di vedere il visino della ragazza.
Rimasero ammutolite.
Se prima si erano solamente fermate,
incuriosite da quella piccola ed interessante scenetta, vedere l’espressione di
Momo le lasciò esterrefatte.
Chissà.
Forse era per via degli occhi lucidi, o
per le guance imporporate.
O forse, cosa molto più probabile, era il
tipo di espressione che aveva assunto, definibile solo in un modo: sognante.
“B-betty…” balbettò di nuovo la paradisea con voce piccola piccola.
“M-mi sento un
po’ male..” concluse tenendosi stretta la camicia all’altezza del petto.
Il silenzio piombato nell’infermeria non
sembrava volersi dissipare, fatta eccezione per Betty, unica ad essersi
ripresa, stendendo le proprie labbra rosse nel solito sorriso grintoso e
seducente che la contraddistingueva.
La donna, sedendosi con tranquillità
accanto alla ragazza, le mise una mano sulla fronte, trovandola a dir poco bollente.
Le scappò quasi una risatina, intuendo la
situazione, ma si trattenne non volendo rovinare l’atmosfera che l’avrebbe
portata a scoprire com’era andata a finire...
“Uhm…” mugugnò
con falso fare pensoso, fingendo di torturarsi la punta del mento con le dita.
“Tachicardia, leggero alzamento
della temperatura corporea…” cominciò ad elencare nel
modo più professionale possibile, nonostante stesse soffrendo per non scoppiare a ridere.
Momo, tuttavia, non parve curarsi delle
sue parole, rimanendo ferma e rannicchiata sull’orlo della branda come
impaurita, e non si accorse nemmeno delle dita di Betty che avevano scostato i
capelli e il colletto della sua camicia, rivelando qualcosa di talmente
interessante da far avvicinare di botto e trattenere il fiato alle altre
infermiere.
“E un piccolo ematoma all’altezza
collo-spalla.” Terminò Betty con un sorriso da volpe, accavallando le gambe con
fare orgoglioso, osservando le sue colleghe ormai in procinto di sbavare per
l’emozione.
Fu la volta di Penelope intervenire,
sedendosi leggera e radiosa come un angelo accanto alla paradisea, che sembrava
non essere particolarmente interessata a quello che le accadeva attorno, quasi
non se ne accorgesse.
“È successo qualcosa, per caso?” domandò
innocentemente la bionda, toccando con una carezza lieve la spalla della
ragazza.
Questa, risvegliatasi un poco dal proprio
stato di coma vegetativo, si lasciò sfuggire un piccolo cenno affermativo.
Atto 17, scena 3
Essere svegliati di prima mattina da una
sinfonia di strilli femminili non era certamente la routine dei pirati di Barbabianca.
E neanche per Ace, a giudicare dal
bernoccolo che si era procurato, scivolando dalla posizione nella quale si era
appisolato sul ponte della nave.
“Urgh…” si
lamentò massaggiandosi la parte offesa, osservato dall’alto da Satch, smagliante e sorridente nonostante le vistosissime
occhiaie che il brusco risveglio gli aveva procurato.
“Buongiorno anche a te, Ace!”
Il più che vistoso bernoccolo plurimo che
gli sorse come una colonna di pietre dal ciuffo biondo, miracolosamente intatto
per grazia della brillantina a tenuta extra forte, gli procurò molto più dolore
di quanto non dette a vedere, sforzandosi di mantenere un’espressione dignitosa,
nonostante dalle labbra non poté fare a meno di bofonchiare:
“Eh
già.. buongiorno…”
Ace non amava svegliarsi di soprassalto.
Al contrario, lo detestava e, benché
volesse molto bene ai propri fratelli, finiva sempre col scaricare il suo
momentaneo ed incontenibile malumore sul primo che gli capitava a tiro.
In questo caso Satch.
“Scusa Satch.”
Chiedere perdono era comunque una cosa che
non si sarebbe mai dimenticato di fare, per fortuna.
“Niente di che…”
“Ma si può sapere che cos’è stato?! Un
mostro marino? Una flotta di cannoni?”
Il biondo ridacchiò in uno sbuffo.
“Peggio fratellino…
”
Pugno di fuoco inarcò un sopracciglio per
poi accennare ad un sorriso incredulo, tirandosi un po’ indietro la falda del
cappello.
“Non dirmelo.”
Il comandante della quarta flotta rispose
alzando la testa verso il cielo, ancora ingrigito dagli ultimi fasci della notte.
Socchiuse le palpebre, assaporando un
istante di quella beatitudine che solo i primi momenti dell’alba riusciva a
dare, soffiando sul mare un’aria fresca e carezzevole tanto sottile da sembrare
un velo di seta sulla pelle.
Un sospiro gli sfuggì dalle labbra, mentre
tornava velocemente al discorso precedente, notando i bordi frastagliati delle
nuvole in controluce assumere la forma di una cascata di capelli biondi e mossi.
Ace seguì quel rapido cambio di
espressioni con interessamento e per un attimo gli sembrò quasi di intuire
quali pensieri stessero affollando la mente dell’amico.
Anche lui, d’altra parte, la notte prima,
in completa assenza della graziosa e quasi innaturale figura calda ed
ondeggiante che di solito saltellava sul ponte, si era perso a guardare con
fare sognante l’albero della nave in attesa che il rumore delle vele, gonfiate
ritmicamente dall’azione del vento, si tramutasse in quello delle fluttuanti
fiamme della paradisea gialla.
Inutile dire che si era addormentato a
causa di un attacco narcolettico.
Satch tornò a guardarlo con il suo solito
sorriso da malandrino dl cuore tenero per poi proferire in una sola parola
quella che in pochi minuti sarebbe diventata la loro meta.
“L’infermeria.”
Atto
17, scena 4
“Vogliamo i dettagli!!!” urlarono
all’unisono le infermiere con occhi scintillanti, accalcandosi il più possibile
davanti a Momo che, spaventata a morte da quella reazione, aveva arrancato sulle
coperte del letto dell’infermeria dove si era seduta, sperando, inutilmente, di
potersi mettere al riparo dagli sguardi ossessivi delle sue compagne.
Facevano paura, oh, altroché.
Sembravano quasi un branco di Re dei Mari
affamati che si leccano i baffi di fronte ad una povera nave indifesa.
Uhm… e lei da dove aveva tirato fuori quel
paragone?
Un brivido le percorse la schiena,
intuendo di aver in passato, effettivamente assistito ad una scena simile.
“Su su!!!” La incitò una voce squillante
da dietro, facendola sobbalzare.
“Avanti avanti!” un’altra ragazza le
piombò di lato e lei finì con l’annaspare sulla testata della branda per lo
spavento.
Si guardò intorno e una lacrimuccia le apparve
nell’angolo dell’occhio: era completamente circondata.
“Biri! Ribi!” intervenne una terza voce colma di rimprovero.
Evidentemente quelle due infermiere che
l’avevano assalita si chiamavano in quel modo.
Buffo: stava sulla Moby da almeno un mese
e ancora non aveva imparato tutti i nomi delle infermiere.
Non che ne avesse avuto il tempo, in ogni
caso: tra Betty e Marco che le avevano insegnato rispettivamente l’anatomia
umana e la lingua a regola d’arte, in tempi ristrettissimi per giunta, lasciare
un angolino per altri nomi sarebbe stato a dir poco arduo.
Seppe di essere stata in qualche modo
salvata, quando i gridolini eccitati delle donne attorno a lei si tramutarono i
sbuffi e lamentele.
“Uuuh..! Lova sei la solita guastafeste!” esclamò una delle due
imbronciandosi come una bambina. Allegra riconobbe in lei quella che per prima
l’aveva bloccata durante il suo tentativo di fuga. Era una ragazza pressoché
della sua stessa altezza, capelli corti a caschetto castani chiari e un paio di
occhi azzurri come il ghiaccio grandi e palpitanti come quelli di una bambina.
“OoohRibi! Falla finita!”
Riconobbe nell’ultima voce quella di
Betty.
“Uffa!”
“Ma non facevamo nulla di male!”
A parlare questa volta era stata la
seconda delle infermiere.
“Biri!”
“Nuu!”
Alla paradisea bastò un’occhiata ad
entrambe le sue “assalitrici”, abbracciate l’una con l’altra, guancia contro
guancia, per poter dire con assoluta certezza che erano gemelle.
Avevano gli stessi occhi, la stessa
altezza e corporatura, l’unica differenza stava nei capelli differenti non solo
per lunghezza ma anche per acconciatura: Biri li
aveva lunghi e tenuti ordinati in una coda bassa, a differenza di Ribi, decisamente più sbarazzina della sorella.
Una cosa che però si notava subito era che
entrambe possedevano una nota di infantilità che le distinguevano dalle altre.
Chissà come mai non le aveva notate prima?
“Sempre dietro i pettegolezzi piccanti
voi, due.”
“Forza, chiedete scusa a Momo-chan.”
Fu con suo immenso sollievo che la folla radunatau attorno a lei si aprì, lasciando spazio così alle
due gemelle di scusarsi in grande stile, chinandosi insieme in segno di scuse.
“Scusa Momo-chan…”
dissero le due assumendo un’espressione da cucciole bastonate.
Momo si guardò attorno imbarazzata, non
sapendo come reagire, certo l’avevano fatta spaventare di non poco con quelle
loro espressioni affamate di
informazioni,…uhm… com’era quella parola?
La usava spesso Ace per riferirsi alle
bistecche di carne…era…uuh…
Ah, già!
Succulente.
….
Com’era che pensando ad Ace le era venuta
una fitta allo stomaco?
Si ricordò con una certa vergogna di
essersi dimenticata di Ace, che sicuramente si doveva essere appostato come al
solito sul ponte tutta la notte ad aspettarla.
“Momo? Che cos’hai? Momo?”
“Ah..!” sussultò accorgendosi di aver
abbassato lo sguardo sul letto, coprendosi il viso con una mano.
Accidenti a lei. Si era dimenticata di
rispondere a Ribi e Biri.
“N-non è
niente.” optò come risposta, sforzando un sorriso sulle labbra.
Ancora non capiva quello che era successo
in biblioteca e si sentiva troppo confusa per cercare di lasciar perdere.
Le guance le andarono nuovamente in fiamme
al solo sfiorare il ricordo di quanto accaduto istanti prima e, di nuovo, ebbe
la penosa sensazione di essere sotto il centro dell’attenzione.
“La smettete di guardarmi per favore?”
pigolò con una certa nota di impazienza nelle proprie parole che lasciò senza
parole le presenti.
Si buttò con la testa sul cuscino sotto di
lei, affondandovi talmente tanto il viso da far scomparire il più piccolo
spiraglio di luce dai suoi occhi.
E sì che era una creatura in grado d
vedere a giorno nell’oscurità più completa…
La paradisea riconobbe subito il tocco
delicato e leggero di Penelope sulla sua testa e, come da copione, i suoi
muscoli si rilassarono di riflesso.
C’erano delle volte in cui si chiedeva
come mai tra tutte era riuscita ad instaurare un rapporto di fiducia solo con
la bionda…, ma, a pensarci, il momento per tornare a
simili ragionamenti non era dei migliori.
Il brusio delle macchine presenti nella
stanza le diede un po’ di conforto, nonostante fosse ben conscia che, oltre la
stoffa inodore del guanciale di cui aveva preso possesso, un intera mandria di
infermiere la stavano guardando in attesa.
“Dov’è Satch?”
chiese quasi in tono di preghiera.
Non era propriamente giusto chiedere di un
amico per deviare un discorso, tuttavia, se ci si pensava attentamente, Satch si incontrava con Ace quasi ogni mattina presto sul
ponte, ergo… Ace al momento era quasi sicuramente
insieme a Satch, ri-ergo…
trovare Satch significava trovare Ace, doppio-ri-ergo… trovando il moro si sarebbe potuta scusare.
…
…
Già ma di cosa?
Un formicolio sul collo le fece stringere
di più il cuscino.
Ah…bene… perfetto:
sensi di colpa amplificati per due.
Scattò in piedi come una molla,
dirigendosi all’uscita come una scheggia.
Dove trovare Ace.
Atto
17, scena 5
Quando Arch
aveva visto il rosso distrarsi dal loro scontro non aveva avuto ripensamenti
scagliandosi come una scheggia contro il petto nudo dell’altro, puntando uno dei
suoi coltelli in avanti come il pungiglione di un’ape.
Ma poi, con sua immensa sorpresa e
delusione, quegli occhi da pazzoide si erano puntati di nuovo su di lui,
accompagnati da un sorriso bianco e beffardo.
“Appeal.”
Sentirsi strattonare dal nulla i coltelli
non fu una bella sensazione, tantomeno quando dall’orecchio gli gocciolò del
sangue, rendendogli conto quale fosse stato il destino dell’orecchino.
Lo vide luccicare a pochi centimetri dagli
stivali del rosso.
Fu
solo per mantenere le apparenze che evitò di strabuzzare gli occhi, dando pieno
sfoggio a quel tagliagole e i suoi scagnozzi del proprio sbigottimento.
Come diavolo aveva fatto?
“Sembra che tu abbia finito le munizioni,
fatina.”
Approfittò del nomignolo per guardarlo con
odio: detestava quel soprannome. Da quel che aveva capito, era un modo per
alludere la sua appena accennata mascolinità.
Indietreggiò d’istinto non appena l’altro
accennò ad un passo.
Lo strato di sudore sulle sue tempie si
fece più fitto, tramutandosi presto in piccole, bastarde gocce.
Era finito alle spalle al muro e, per
quanto si stesse scervellando, non riusciva a capire come avesse fatto a
disarmarlo con così poca difficoltà.
Che Viola ci avesse azzeccato, pensando di
trovare in quell’umano gli effetti collaterali di una Nota marcia?
Un altro passo in avanti. Un altro
indietro.
Il suono della voce ringhiosa e strozzata
di Viola gli pungolò le orecchie, ma era troppo occupato a pensare a se stesso
per rispondere all’istinto di voltarsi ed assicurarsi che fosse ancora viva.
La risata che poi esplose dalla gola tozza
del pirata, lanciata al cielo con la testa all’indietro, ebbe il potere di
fargli rizzare i capelli fino alle punte, nonostante si trattenne con tutto se
stesso dal darlo a vedere.
“Davvero angioletto, mi piaci.”
Per un attimo l’aria della piazza parve
bloccarsi. Il brusio degli sgherri del pirata si erano fermati di colpo, così
come il suono agghiacciante delle lame meccaniche del biondo mascherato che, il
Grande Spirito non volesse, potevano benissimo aver già fatto a fettine Viola.
Lo capì dall’atmosfera che era scesa
intorno a loro quanto le parole di quello schifoso dovessero risultare nuove a
chi lo conosceva bene, ma sebbene l’istinto di guardarsi intorno fosse grande,
non poté far altro che osservare pietrificato il suo avversario rilassarsi
visibilmente, sorridendo con quel suo solito modo da iena.
Le spalle di quell’uomo, ai suoi occhi ben
visibili nonostante la spessa pelliccia che le ricopriva, si sciolsero a vista
d’occhio ed il suo viso, prima aggrottato, benché sempre attraversato da quella
ferita larga e tagliente quale era il suo sorriso, aveva assunto dei lineamenti
meno marcati e contratti.
Gli venne la nausea dalla rabbia, capendo.
Per lui il loro scontro aveva assunto il
significato di un insulso inseguimento tra gatto e topo, arrivato alla sua
conclusione con il roditore bloccato in un angolino e, Arch
sapeva, che, al momento, il topo era lui.
Senza via di fuga né speranza alcuna, se
non pregare in un po’ di pietà da parte del felino.
EustassKidd continuò a
guardarlo, quasi gustandosi lo sforzo che stava facendo per non dare a vedere
il proprio nervosismo.
Poi, inaspettatamente, tornò a parlare.
“Sai, credo di poter fare a meno di
ucciderti per oggi.”
A quelle parole Arch
sentì i muscoli delle gambe afflosciarsi di colpo e poco ci volle che non
cadesse a terra come un mucchio si stracci.
Ormai il suo cervello lottava cercando di
rimanere lucido.
Lasciarlo in vita?
Se era un perfido modo di giocare con lui
prima di farlo fuori, non era affatto divertente!
Osò sfidarlo un’ultima volta con lo
sguardo, ma quello, invece di cogliere a volo la provocazione, restò sereno e
pacato dov’era, sempre con quel maledetto sorriso candido.
“Kidd.”
La voce cavernosa del pazzoide con le lame
vibrò dietro di lui pacata e calma, alle sue orecchie come la promessa di una
morte indolore.
“Se lo facessi non mi gusterei affatto il momento…” disse a mo’ di spiegazione, dirigendo da una
parte la testa, guardando in alto.
Quella fu l’unica volta in cui il biondo
si permise di voltare la testa nella direzione indicata dal pirata.
La vista di quell’oggetto, che da
settimane regnava sui suoi incubi peggiori, lo fece cadere in un breve limbo di
sconforto, sostituito ben presto da un inferno di rabbia cieca.
Sopra le case dell’isola, troneggiando sui
soffi di vento marino con eleganza quasi derisoria, stava il vessillo bianco e
blu come la pelle dei morti.
Il simbolo del Mondo.
Atto
17, scena 6
“Dannata scimmia…”
imprecò a denti stretti Ace, fulminando con gli occhi la colpevole del disastro
che teneva tra le mani.
Non aveva mai pensato che trattenersi dal
dare fuoco ad un’animale, fastidioso ed attaccabrighe, quale era Monster, fosse così faticoso
e doloroso. I motivi per i quali
stava tenendo duro erano esattamente due: Shanks e
Momo.
La ragione per la quale entrambi amassero
quella scimmia pulciosa rimaneva oscura a distanza di settimane persino a lui
che, comunque, aveva avuto modo di stringere amicizia con la ciurma del Rosso.
Ma perché poi quella scimmia doveva
prendersela sempre con lui? O meglio.. perché doveva per forza attentare al suo
cappello??!
“Kuso.”
Tra le sue mani il suo adorato copricapo
arancione aveva assunto l’apparenza sformata e piatta di un disco.
“Non te la prendere. Vedrai che ci farai l’abitudine.”
Disse Satch finendo di aggiustarsi a tempo record il
ciuffo, armato di pettine e brillantina, tenuti in tasca in caso di necessità.
Già – pensò Pugno di fuoco, guardando
sconsolato il suo amato cappello per poi passare all’amico, che intanto finiva
di aggiustare i danni provocati da Monster sulla
propria acconciatura – un cappello però non si ripara con la brillantina.
Monster gli aveva assaliti senza motivo.
Ok, non che Monster
attaccasse quelli della ciurma solo quando veniva offeso o provocato.
Sarebbe stato un miracolo poter dire il contrario…
Ora, non che volesse di fare di un caso la
regola, ma… perché subire lo stesso trattamento di Satch l’aveva fatto sentire come … messo da parte?
Sob. – pensò – La strada per l’infermeria si
sta facendo più lunga di quel che pensavo.
Davanti a loro, infatti, l’odiato scimpanzé
del rosso ballonzolava fiero delle proprie gesta, battendo mani e piedi in
successione con un ghigno animalesco ad ornargli il muso, neanche avesse steso
un ammiraglio della marina tutto da solo.
Ace si limitò a scoccargli un’occhiata minacciosa,
mostrando all’animale come il polpastrello del suo dito indice prendesse
improvvisamente fuoco sotto il suo volere, sperando, per il bene dei suoi
rapporti con il Rosso e la Paradisea, che il primate cogliesse al volo l’avvertimento.
Monster di tutta risposta sbiancò, ma, invece di
correre via con la coda pensile tra le chiappe, come aveva immaginato,iniziò ad emettere versi striduli e
grotteschi, e correre, inciampare, saltare,
ruzzolare davanti a loro come un indemoniato.
“Ma che…?”
sussurrò incredulo Satch, prima di notare, pochi
metri più avanti lungo il corridoio qualcosa di fin troppo familiare.
“Oh-o.” disse riconoscendo
la natura di quell’alone giallo e zampillante che si stava intensificando
sempre di più dietro l’angolo del loro percorso.
Guai.
“Ace. Spegni quel dito.” Asserì,
sentendosi rigido come una statua.
Il moro seguì il suggerimento d’istinto,
nonostante la voglia di provare il suo Higan sul sedere peloso di quella scimmia sfiorasse i limiti
dell’ossessione, tutto prima di vedersi apparire di fronte la figura
fiammeggiante di Momo, spuntata dal fondo del corridoio con la grazia di un angelo
ed arrivata a pochi metri da loro con un balzo quasi istantaneo.
“Scricciolo!” esclamò il biondo battendo
Ace sul tempo, guadagnandosi una breve ma intensa occhiataccia.
Quella, di certo non meno entusiasta di
rivedere il comandante della quarta flotta, aprì il viso in un sorriso radioso,
facendo di conseguenza schiarire considerevolmente le proprie fiamme.
“Satch!!” saltellò
sul posto la ragazza, trattenendosi dal balzargli addosso per abbracciarlo.
Lei e Satch
dovevano rimanere distanti per almeno un mese, come d’accordo e, anche se le sue
gambe protestavano, fremendo a quella vera e propria ingiustizia nei confronti
suoi e dell’amico, sapeva che la scelta migliore sarebbe stata attenersi ai
patti fino all’ultimo per evitare ulteriori complicazioni.
Arrossì, abbassando di poco lo sguardo,
facendo finta di guardare Monster aggrappatosi a una
sua gamba, invocando rumorosamente il suo aiuto.
“Ciao
Ace..”
Sentì
il moro scattare quasi immediatamente, tornando rumorosamente sui propri passi,
senza neanche degnarla di una risposta.
Cosa-?
Quando rialzò la testa l’unica faccia che
incontrò fu quella altrettanto incredula del comandante in quarta, fissa su di
lei con la mascella cadente.
“Sc-cricciolo?”
balbettò il biondo alzando a stento una mano per indicare, in modo molto
approssimato, il punto che aveva, in neanche mezzo secondo, fatto il danno più
grande mai provocato sulla Moby.
Allegra impallidì, capendo in pochissimo
tempo dove il dito indice dell’amico stesse puntando: il suo collo, esattamente
dove Betty aveva individuato una specie di ematoma.
Ematoma che lei, senza pensarci, non aveva
nemmeno coperto, lasciando aperti i primi bottoni del colletto della sua camicetta
a righe azzurre.
“Oh
no..” sospirò portandosi le mani al viso, comprendendo quella che da lì a
poco si sarebbe scatenato sulla nave.
“Ace!!”
Le bastò un salto per bloccare l’avanzata
rabbiosa del moro, curandosi ben poco di aver fatto volare via Monster a causa del suo movimento improvviso, ma, se avesse
potuto tornare indietro nel tempo, avrebbe volentieri fatto a meno di
affrontare direttamente il volto nero ed infuriato del comandante della seconda
flotta.
Deglutì. La saliva le si era prosciugata
in un istante, lasciandole la gola secca e ruvida.
Gli occhi neri di Ace sembravano nemmeno
vederla, quasi la trapassassero da parte a parte, muscolo per muscolo.
Si morse le labbra, trattenendosi dal
fuggire via: quello non era il solito Ace.
In quel volto contratto ed assente non c’era
traccia del ragazzo gioviale, mangione e a volte distratto che si addormentava
in piedi una volta no e cinque sì.
Si ricordò di un’espressione simile
incontrata in passato.
Era uguale in tutto e per tutto a quella
di Viola quando aveva scoperto che Archetto era un maschio.
Constatarlo non la rassicurò neanche un po’.
“Ace.
Calmati.”tentò mettendo le mani avanti per fermarlo, ottenendo da parte
dell’altro uno sguardo che sembrava tutto fuorché calmo.
“Non
è successo niente ok? È solo un livido. Nulla di più-“
Si fermò nel vedere il volto del moro
allungarsi e sciogliersi, stavolta posseduto da qualcosa che, sul momento, non
seppe se classificare migliore o peggiore della rabbia.
Assoluta incredulità.
“Livido?” ripeté con voce totalmente
piatta il moro, sondando la sua faccia con attenzione, come per cogliere il
minimo segno di incertezza o tentennamento che smascherassero in pieno la sua
bugia.
Non che Allegra avesse mentito. Credeva
fermamente in quello che aveva detto.
D’altro canto sul suo vocabolario decisamente
ristretto non esisteva la parola “succhiotto” e Betty non si era nemmeno presa
la briga di spiegarglielo.
Per questo, non consapevole della bugia,
la paradisea annuì decisa, smontando così sul nascere l’aura furiosa di Pugno
di Fuoco.
“Oh.”
“Scusami.”
Concluse la ragazza serrando gli occhi ed arrossendo sulle guance rosate “Mi sono addormentata in biblioteca e tu
sarai certamente rimasto sul ponte tutta la notte ad aspettarmi come al solito…”
Fu sollevata di risentire la risata
nervosa e sincera del vecchio Ace.
“Già, come un idiota.” Sorrise l’altro, giocherellando
coi resti del suo povero cappello per nascondere il proprio imbarazzo.
Maledizione, aveva quasi dato in
escandescenze davanti a Momo.
“Scusa…”
“Daaai! Non
preoccuparti. Sono stato io a saltare a conclusioni affrettate!” sdrammatizzò
facendo vorticare casualmente il copricapo sulla punta di un dito, accentuando
le proprie lentiggini con un sorrisone così luminoso da fare invidia al sole.
Sorrise di rimando, pensando a quanto la sua
convinzione che lo spirito di Ace urlasse calore da tutti pori si rafforzasse
giorno dopo giorno.
“Però..”
Il sorriso le si congelò.
L’atteggiamento del comandante assunse una
nota maliziosa che non la fece sentire affatto tranquilla.
“Se proprio ci tieni a scusarti…”
Un braccio più muscoloso e di poco più
scuro le si avvinghiò attorno alle spalle.
Le sue guance diventarono pallide.
“… avrei una proposta.”
La presa gentile ma decisa si rafforzò
appena, proprio quando gli occhi neri di Ace erano talmente vicini da sembrare
pozzi neri.
Realizzò di essere stata baciata da Ace
solo quando questo era già scattato nella direzione opposta, saltando ed
esultando con le braccia al cielo, lasciando come unica traccia della sua
presenza accanto a lei il cappello a disco.
Lo raccolse ancora intontita, cominciando
poco a poco a stringerlo ai bordi e serrando i denti finché il calore del suo
fuoco, ora bianco, non provocò un *POP* improvviso, facendolo tornare al suo
aspetto originale.
“ACEEE!!!”
strillò, gettandosi al suo inseguimento con il viso rosso come un pomodoro.
Atto 17, scena 7
L’urlo straziato di una paradisea non era
niente paragonato a quello di un Re dei Mari affamato, ma per Arch le differenze erano sempre state minime quando si trattava
di Viola.
Quando aveva finalmente deciso di voltarsi
in direzione della cugina, convincendosi che rimanere a fissare con odio quella
bandiera non avrebbe portato a nulla se non ad altri guai, si maledì per non
aver preparato a sufficienza il proprio stomaco.
Completamente aperta su braccia e gambe. Era
un miracolo solo rendersi conto che i tagli non erano andati a recidere vene o
punti vitali.
Quel maledetto macellaio dal volto coperto
era riuscita a colpirla.
Non in profondità, ma a colpirla sì.
A pensarci bene però, mentre se la caricava
sulla schiena, subendo impassibile le sue grida nelle orecchie, Viola non era
mai stata né veloce né brava a scansare come lui ed Allegra.
Il suo unico talento, a parte l’indole di
comando, se si poteva definire tale, era la forza fisica, superiore di almeno
dieci volte quella di un normale maschio umano.
Quel pregio però le era completamente
inutile se l’avversario era in grado di cogliere i suoi difetti e neutralizzare
la sua forza.
Così era stato.
Il macellaio di nome Killer doveva essere un
tipo non solo agile, ma anche sveglio e prudente.
Soprattutto prudente.
Passare accanto a Morgan fu la parte più
difficile: il peso di Viola sulla schiena gli gravava come non mai, nemmeno
fosse stato un masso da 1000 tonnellate, e le gambe gli tremavano a un ritmo
preoccupante che seguiva l’accentuarsi della sensazione del sangue di Viola
scivolargli lungo la schiena.
Fu un miracolo se riuscì a chinarsi in
avanti, accostando un orecchio al muso squamoso di Morgan, cogliendone con
sollievo il respiro che odorava di legno grezzo.
“Guarda guarda,… allora non sei solo parole,
fatina.”
Evitò di guardare il pirata di nome Kidd, mentre, rimessosi in piedi, tornava dai propri
pugnali, ancora abbandonati a terra assieme all’orecchino.
“E tu non sei così pazzo come credevo all’inizio.”
Affermò, calciando in aria il primo dei suoi coltelli per poi afferrarlo con la
bocca, stringendone il manico tra i denti.
Quell’affermazione lasciò il rosso confuso,
tanto che, un po’ per curiosità e un po’ per sadismo, lo incalzò con una altra
domanda.
“Ovvero?”
Recuperato il secondo pugnale allo stesso
modo del primo, si concesse di scoccargli uno sguardo pieno di significato.
EustassKidd sorrideva
come sempre.
Riuscì a liberarsi le labbra dai propri
pugnali riuscendo, con gesti rapidi e precisi, a levarseli con una mano ed
infilarli nelle fondine sotto il gilet, tornando in poco tempo a reggere la
cugina.
“Stai interrompendo il massacro mio e di
Viola per scappare da quello.” Affermò,
riferendosi alla bandiera in quel momento alle sue spalle.
“Ammetto di averti scambiato per un
idiota.”
“Quindi hai già avuto a che fare con la
Marina.”
Le parole di Killer ebbero il potere di
bloccarlo mentre tornava da Morgan.
“Una volta è stata abbastanza.” Rispose lugubre,
prima di tornare dal bambino, poco a poco tramutatosi alla propria forma
originale.
Kidd scambiò un’occhiata d’intesa con il
proprio vice, non riuscendo a capire altro da quella risposta più arida di un
deserto, almeno per i loro gusti.
Lo osservarono chinarsi sul bambino, certamente
detentore di un Frutto del Diavolo, cominciando a chiamarlo e stuzzicarlo con
un ginocchio per riportarlo alla realtà.
“Morgan. Svegliati, dobbiamo andarcene.” Disse
con voce ferma, nonostante fosse palese quanto si sentisse stanco.
Il bambino ci mise poco a cercare di
raddrizzarsi sulle gambe tremolanti, ma, tempo di focalizzare le condizioni
della persona sulle spalle del biondo, il terrore gli riempì nuovamente gli
occhi, ributtandolo a terra per lo sconforto.
“S-s-s-s-signorina…!” sussurrò
a voce tremolante con le lacrime agli occhi. “Signor Arch!
V-v-..!”
“Sbrighiamoci a tornare alla nave.” Sentenziò
il ragazzo senza troppi preamboli, rialzandosi di nuovo e cominciando a
camminare in direzione del molo, dove-...
Morgan si stupì di vedere il signor Arch bloccarsi sui propri passi, ma il suo pensiero fu
presto rivolto ad altro quando la risata grottesca di quel demone rosso esplose
dietro di loro, facendolo sobbalzare ed aggrappare ai pantaloni del biondo.
D’altro canto Arch
sembrò non aver sentito la voce del pirata, troppo occupato a darsi dello
stupido per aver realizzato solo in un secondo momento un dettaglio fondamentale.
“Che c’è fatina?” fu la domanda ironica di
Kidd, accentuata dai versi divertiti della sa ciurma,
tutta presa dal gustarsi lo spettacolo.
“Non dirmi che hai ormeggiato la tua barca
proprio al molo.” Terminò il capitano, sentendosi il petto gonfiarsi di
trionfo, vedendo le spalle di quel biondino effeminato tremare sotto i peso
della sconfitta.
Arch non rispose.
Si limitò a guardare l’ostacolo che
separava lui, Morgan e Viola da una rapida fuga.
La stessa odiata bandiera, situata esattamente
dove stava il molo principale.
Lo stesso posto dove aveva ormeggiato la Clara.
Fine
prima parte Atto Diciassettesimo
EEEeeeeee…?
*cri-criii*
Spero
vivamente che la desolazione non sia una conseguenza permanente del mio periodo
difficile.
Cmq
bentornate donne e… uomini?
Uhm… idea!
Visto
che sono tornata voglio fare una domanda personale a tutti i miei lettori e
recensori:
1)Siete
maschio o femmina?
Lo
ammetto una cavolata più grande di questa non c’era, ma se non le faccio non
sono io XD
Domande
specifiche per ora non le ho. Solo una scheda personaggio qui sotto ed un bel
disegno di Momo da parte di una lettrice! ^^ (che avresti dovuto postare nello
scorso capitolo Nd Momo)
Chiedo scuuuusaaaaa!!!
Alla
prossima kisskiss
PS l’atto
era troppo lungo e quindi l’ho diviso per il bene di chi vuole leggere al più
presto la continuazione! Ciaaoooo!!!
File
#001: AmaterasuRyogan
AmaterasuRyogan, padrone
indiscusso dell’isola del nuovo mondo, Inari Fountain,
detto Signore dei Demoni. La sua taglia è una delle più alte del Nuovo Mondo,
ma nonostante questo la Marina non mobilita più le proprie forze per catturarlo
da alcuni anni, nonostante sia risaputo che ha residenza fissa sull’isola da
lui presieduta.
AmaterasuRyogan, personaggio di
dubbia sessualità, è temuto dalla maggior parte dei pirati che abbiano avuto la
sfortuna di incontrarlo o sentir parlare di lui, fatta eccezione per i 4
imperatori, a causa della sua pessima abitudine di “collezionare ed elaborare”
uomini e creature delle specie più rare.
È
conosciuto come alleato ufficiale di Barbabianca, ma
permette a chiunque di mettere piede sulla propria isola, a patto che sia in
grado di uscirne da solo.