Kaizoku no Allegretto

di SunVenice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Preludio - Atto 1 ***
Capitolo 2: *** Atto 2 -prima parte- ***
Capitolo 3: *** Atto 2 -seconda parte- ***
Capitolo 4: *** Atto 4 ***
Capitolo 5: *** Atto 3 ***
Capitolo 6: *** Atto 5 ***
Capitolo 7: *** Atto 6 -prima parte- ***
Capitolo 8: *** Atto 6 -seconda parte- ***
Capitolo 9: *** Atto 7 ***
Capitolo 10: *** Atto 8 ***
Capitolo 11: *** Atto 9 ***
Capitolo 12: *** Atto 10 ***
Capitolo 13: *** Atto 11 ***
Capitolo 14: *** Atto 12 ***
Capitolo 15: *** Atto 13 ***
Capitolo 16: *** Special! Merry Christmas Whitebeard’s Pirates!! ***
Capitolo 17: *** Atto 14 -prima parte- ***
Capitolo 18: *** Atto 14 -seconda parte- ***
Capitolo 19: *** Atto 15 ***
Capitolo 20: *** Atto 16 ***
Capitolo 21: *** Atto 17 -prima parte- ***
Capitolo 22: *** Atto 17 -seconda parte- ***
Capitolo 23: *** Atto 18 -prima parte- ***
Capitolo 24: *** Atto 18 -seconda parte- ***
Capitolo 25: *** Atto 19 -prima parte- ***
Capitolo 26: *** Atto 19 -seconda parte- ***
Capitolo 27: *** Atto 20 -prima parte- ***
Capitolo 28: *** Atto 20 -seconda parte- ***
Capitolo 29: *** Atto 21 -prima parte- ***
Capitolo 30: *** Atto 21 -seconda parte- ***
Capitolo 31: *** Uomini e Belve ***
Capitolo 32: *** Scelta Giusta ***
Capitolo 33: *** Nomi sulla lista ***



Capitolo 1
*** Preludio - Atto 1 ***


Pongo qui i miei più sentiti saluti ai lettori ponendo due semplici ed elementari condizioni:

1: Non andatevene subito!

2: Leggete almeno questo capitolo fino alla fine!

3: Se e dico se, questo piccolo esperimento vi interessa, seguite le istruzioni a fine capitolo.. ops Atto, pardon.

Questa è una readerxPG. La protagonista della storia NON sono io, né mai lo sarò.

I mugiwara e compagnia bella non sono mia proprietà (magari! Potessi me li comprerei.) Questa fan fiction non è a scopo di lucro (per ora… chissà >:) ) Bando alle ciance e buona lettura!

 

Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 1

Preludio

Mi svegliai con la sensazione di galleggiare nel vuoto. Poi, aprendo lentamente gli occhi, intontiti e bruciati dal sole, mi accorsi che non era vuoto, ma acqua.

Un’enorme distesa di acqua azzurra come il cielo mi circondava, profonda, salata.

Acqua di mare che mi impregnava i vestiti di cui non mi ricordavo neppure l’esistenza, attaccandomeli alla pelle bruciata.

 Un oceano.

E l’unica cosa che mi impediva di sprofondarvi era una pezzo di legno scheggiato e grezzo che mi pungeva dolorosamente in mezzo alle dita delle mani.

Provai a muovere le gambe che fluttuavano inerti nell’acqua, ma solo per riscoprirle addormentate, così come le braccia stancamente poggiate su quella piccola e fragile ancora di salvezza.

Sentivo i capelli secchi solleticarmi la fronte e le tempie mi cominciarono gradualmente a pulsare, impedendomi di pensare.

Dove mi trovavo?

La mia vista era annebbiata e gli occhi mi bruciavano insopportabilmente. Sulle guance sentivo la fastidiosa sensazione di sale marino rappresosi sulla mia pelle tirata ed intorpidita.

Ruotai dolorosamente il collo da un lato, poggiando una guancia sulla superficie spinosa della trave in legno.

Fu allora che notai qualcosa all’orizzonte: una nave.

Attraverso la mia vista sfuocata appariva come una chiazza marrone allungata con una nube bianca informe che la seguiva, ma non poteva essere che una nave.

Lentamente provai a tirare la testa e dar voce ad un urlo, ma la sensazione di secco in gola, unita alle mie labbra secche che si spaccarono appena ci provai, provocò solo la fuoriuscita di un grugnito strozzato. Ritornai con la fronte sul pezzo di legno, non potevo fare altro.

Sperai che mi notassero, dal più profondo della mia anima, mentre vedevo quella macchia farsi sempre più grande ai miei occhi.

Se non mi avrebbero vista, altrimenti, io …

 

Già ma io … chi ero?

Sbarrai gli occhi, accorgendomi solo in quel momento di non ricordarmi nemmeno il mio nome.

Quel pensiero assillante mi accompagnò finché non scivolai lentamente nell’oblio dell’incoscienza.

Risuonò una voce. E l’acqua attorno a me si mosse inquieta.

 

Atto 1, scena 1

 

Sulla Moby Dick l’intero equipaggio fremeva, sporgendosi dal parapetto dell’imbarcazione, nella speranza di scorgere meglio il volto del naufrago che aveva fatto rallentare la loro possente nave. Dal proprio seggio, Edward Newgate, alias Barbabianca, torreggiava il ponte della nave, osservando divertito l’interesse quasi puerile dei propri figlioli, ridacchiando sotto i propri lungi baffi a mezzaluna.  Non era difficile interpretare le varie esclamazioni che si confondevano l’una con l’altra trai i membri dell’equipaggio.

“Ehi, spostati, non vedo-!” “Guarda che non ci vedo neppure io, scemo!” “Ma chi è? Una donna o un uomo?!” “E che ne so! Lo chiedi a me?!” “E piantatela! Lo stanno tirando sulla scialuppa!”

In mezzo alla marmaglia di curiosi, un po’ meno scalpitanti e pressati dalla presenza dei propri fratelli, gli uomini più fidati del capitano, osservavano come meglio potevano la scena, allungando chi più chi meno il collo verso il fianco della nave.

“Ehi ragazzi, che ne pensate?” chiese uno dei più giovani con i gomiti poggiati sulla ringhiera legnosa del parapetto, allargando sul viso lentigginoso un sorriso impertinente al quale solo due degli altri quattro, uno provvisto di un lungo cilindro e dei lunghi baffoni neri, e l’altro con un alquanto bizzarro ciuffo biondo, risposero.

“Chissà…” rispose vago il primo di questi lisciandosi pensoso uno dei propri baffi.

“Io dico che sarà interessante!” asserì deciso il secondo dando un’occhiata d’intesa al più robusto ed alto di tutti che ancora a braccia incrociate non accennava a sciogliere il proprio broncio burbero. Questo mosse solo gli occhi in direzione del fratello, permanendo tuttavia rigido come una roccia nella propria posizione.

“In effetti è la prima volta che raccogliamo un naufrago.” Rispose comunque il gorillone dalla faccia austera, muovendo appena la mascella nel farlo.

“E tu Marco?” azzardò il moro dal viso scoccando un’occhiata insistente all’unico che non gli aveva ancora risposto.

Alla sua domanda il biondo dalla faccia assonnata e quasi svogliata parve corrucciarsi un poco per poi mandare un sonoro sbuffo a fondersi con l’aria salina della nave.

“Speriamo solo che non ci dia problemi.” Disse, provocando le occhiate incuriosite degli altri.

A conferma delle sue preoccupazioni, i gridolini preoccupati delle infermiere del capitano, anche loro accorse a vedere il nuovo arrivato, riecheggiarono nelle loro orecchie, mentre queste ultime si guardavano piene di apprensione coprendosi le labbra per lo stupore nel vedere più o meno in che condizioni gravava il malcapitato.

“Oh no! Guardate com’è ridotta!”“Povera bambina!” “Penelope, vai a prendere il necessario per darle un primo soccorso. Speriamo che non sia troppo disidratata.” “Corro!” “Santo cielo! Guardatele la pelle!”

Tra i quattro comandanti per un attimo cadde il silenzio.

“Ma come fanno a sapere che è una donna?” chiese stupito ed incredulo al tempo stesso Ace, non avendo neppure lui capito quale fosse il sesso del nuovo arrivato, nonostante la sua fosse una buona postazione. A rispondergli però furono le spallucce dei suoi compagni.

“Intuito femminile …” azzardò Satch, sedendosi sul parapetto ed accavallando noncurante la gamba sinistra su quella destra, lasciata penzolare nel vuoto aldilà della ringhiera.

Ormai la scialuppa era stata riagganciata e tirata su quasi del tutto, tanto che la folla di pirati curiosi si era già raggruppata il più possibile dove si sarebbe fermata, impedendo così ai cinque comandanti di poter dare conferma o meno alle parole delle infermiere del babbo.

“Ma insomma, ragazzi! Datevi un po’ di contegno!” sbraitò improvvisamente Marco, zittendo immediatamente il vociare dei suoi fratelli che, punti sul vivo, si scambiarono qualche occhiata per poi mettersi a ridacchiare imbarazzati.

“Scusi comandante. Ci siamo lasciati prendere dall’entusiasmo!” ridacchiò un membro della prima flotta, seguito a ruota da un altro: “Già, ci siamo comportati come un gruppo di poppanti in cerca di caramelle.”

Seguì una risata generale che però si spense non appena il gruppo di infermiere già munite di cassetta di pronto soccorso, acqua e di una barella.

“Spostatevi spostatevi!” li incitò una di queste, mentre sistemavano velocemente a terra la lettiga.

“Forza, aiutateci a metterla sulla branda.” Ordinò la prima delle infermiere a due pirati accanto a loro che, annuendo, si afferrarono il malato.

“1, 2…3!Via!” contò la donna, coordinando così l’azione dei due.

Messo il nuovo giunto sulla barella le infermiere si premurarono subito di rialzarla e dirigersi di corsa verso l’interno della Moby, anche se dovettero sollevarla tutte e sei per riuscire ad avanzare senza problemi.

Questo non fece che coprire quindi ulteriormente la visuale ai cinque comandanti che videro soltanto le sei correre dentro la nave, mentre una di loro incitava continuamente le altre:

“Su! Su! Portiamola al coperto!”

Fu tutto quello che udirono, prima di vederle scomparire oltre l’enorme portone che portava alla sottocoperta.

Ace sbuffò deluso.

“E che diamine!”

 

 

 

Atto 1, Scena 2, Arioso della dispersa

Nella mia mente non facevano che passarmi immagini confusionarie e caotiche. Voci echeggianti e deformate da chissà cosa. Sensazioni fuggevoli che riuscivo a malapena a registrare a causa del torpore che mi bloccava su quello che intuii essere un letto.

Sotto le braccia e sul collo a volte percepivo al gradevole sensazione di fresco scontrarsi con la mia pelle e qualche volta, mi parve addirittura di udire una voce femminile dire qualcosa con tono di richiamo per poi sentire qualcosa di acquoso scivolarmi giù per le labbra.

La testa continuava a farmi male. Terribilmente. La mia mente era pervasa continuamente da incubi veloci ed intensi che mi turbavano a tal punto da farmi scoprire continuamente da delle coperte che qualcuno continuava pazientemente a rimboccarmi.

Forse durante quelle ore, o giorni, pensai addirittura di stare per morire.

Poi un giorno mi risvegliai, aprendo gli occhi lentamente, e la prima cosa che vidi fu una figura così rosa e bionda da farmi desiderare di nuovo il buio dei miei occhi chiusi. Intontita provai a dire qualcosa.

“Eh..n.” fu la sola cosa che riuscii a rantolare, temendo che la pelle secca delle mia labbra si spaccasse di nuovo. La chioma gialla si mosse, mostrandomi un volto ancora un po’ sfocato e graziosamente deformato dallo stupore.

Ara!” esclamò quella portandosi le mani al viso “Anata wa me wo sama shi desu!”

Non capii nulla di quello che disse. Rimasi un attimo a guardarla confusa, ma quello che ottenni fu di vederla dirigersi velocemente verso l’uscita della stanza affacciandovisi per poi gridare:

Minna! Hayaku! Me wo sama shi desu!

Apparvero al tre donne da quella porta, tutte vestite in rosa, e io quasi tremai, non capendo quello che stava accadendo. Le vedevo semplicemente agitarsi davanti a me per la stanza, chiedendomi un sacco di cose che non capivo.

Una di loro mi mise seduta con la schiena contro il cuscino.

Mi venne la nausea. Mi portai una mano alla bocca, percependo comunque i muscoli del braccio tendersi dolorosamente in segno di protesta. Non mi accorsi che una delle donne aveva alzato la voce, facendo cessare il putiferio attorno a me.

Poi sentii il letto abbassarsi sotto il peso di qualcuno e, rialzando gli occhi, incontrai le iridi azzurre della bionda di poco prima.

Daijobu desu ka?” mi chiese quella. Aveva un tono delicato e suadente e questo mi aiutò a rilassarmi un poco, ma lo stesso non riuscii a cogliere il significato della sua domanda.

“Non..” mi fermai subito sentendo la gola stringersi. Mi misi una mano sul collo abbassando gli occhi, imponendomi di darmi un poco di tempo pria di ricominciare a parlare. Vidi la mano smaltata e ben curata di quella donna porgermi qualcosa. Mi stupii un poco, vedendo che era un bicchiere d’acqua.

Ritornai ad osservarla e questa mi sorrise angelicamente “Nomu?” la vidi domandare inclinando la testa di lato.

Intuii che significasse qualcosa riferito al bicchiere, magari “Sete?”. Lo accettai di buon grado, svuotandone avidamente il contenuto con una foga che non credevo di avere. Avevo davvero tanta tanta sete.

“Grazie.” Riuscii a dire non appena mi fui scolata anche l’ultima goccia d’acqua, ma mi pentii quasi subito della mia risposta, vedendo l’infermiera bionda sbarrare gli occhi stupita e venendo subito imitata dalle altre che, intanto, si erano bloccare, rimanendo con oggetti a mezz’aria ed altre posizioni strambe.

Eto… nani?” domandò un poco intimorita un’altra ragazza, mora e con un bel paio di occhiali che le coprivano mezzo volto.

Le guardai stranita: non avevano capito quello che avevo detto.

“Grazie, per l’acqua.” Specificai, alzando un pochino il bicchiere, ma non ottenni un grande risultato a giudicare dalle occhiate interrogative che lanciarono l’una con l’altra.

E di colpo mi sentii abbattuta nell’animo: non solo non riuscivo a ricordarmi chi fossi o come mi chiamassi, ero anche finita in mezzo a della gente che non parlava la mia lingua.

Sentii una lacrima scendermi sul viso, trovando nella mia mente nient’altro che una distesa nera, dove una volta, forse, erano custoditi i miei ricordi. Non ricordavo niente. Assolutamente niente.

 

Atto1, Scena 3

 

Era ora di pranzo ormai sulla Moby e nell’enorme sala che accoglieva l’immensa marmaglia di pirati affamati, mettendo a loro disposizione tonnellate e tonnellate di cibo, i comandanti, riuniti accanto all’enorme mole del loro capitano, si stavano rifocillando non meno ansiosi dei loro compagni: era stata una giornata faticosa e come al solito tutti avevano dato il loro contributo alle manovre mattutine della nave.

Il comandante della seconda flotta, Portuguese D. Ace, stava sbranando contento un enorme pezzo di carne, addentandone soddisfatto un boccone grande quanto la sua bocca spalancata.

“Uhm! Ragasci, mva qvella naufhaga nomp dovebbe essersc i…” mugugnò masticando per poi inghiottire tutto di colpo “ … svegliata?”

Accanto a lui Marco e Vista lo guardarono, ridacchiando: tanto educato il loro fratellino, ma quando si trattava di cibo lasciava il galateo in cabina chiusa a doppio lucchetto.

“Bhe, aveva preso un bel colpo di sole, dopotutto.” Intervenne Satch, poggiando la bottiglia dal quale aveva tirato un grosso sorso “Magari ci metterà ancora un paio di giorni.”

“Guraguragura!” tuonò divertito Barbabianca, attirando l’attenzione dei propri figli che in risposta sollevarono solennemente boccali e bottiglie in onore dell’allegria del padre, lanciando un urlo esultante.

“Ansioso di vedere la nuova arrivata, Ace?” chiese sorridendo largamente il vecchio, sporgendosi appena dalla propria sedia per afferrare un’enorme cosciotto di chissà quale specie di animale.

Ace non si curò della frecciatina e sotto gli occhi degli altri quattro comandanti diede un altro paio di morsi alla propria bistecca.

“Piuttosto papà…” chiese con tono pacato il comandante della prima flotta “… le tue infermiere non ti hanno detto ancora nulla?”

“Gurargura. Dicono che ormai il peggio è passato, ma fin’ora non me l’hanno mai lasciata vedere.” Rispose il gigante tirando poi una lunga sorsata al suo boccale di sake, contento che non ci fossero le infermiere a dargli noia sulla quantità.

“Non la lasciano vedere a nessuno.” Precisò Marco infilzando con la forchetta un pezzo di carne dal proprio piatto.

“Eeh.” Sospirò Satch accavallando le gambe “Le donne hanno un grande senso di protezione verso gli animaletti feriti.”

Improvvisamente si sentì una delle porte che davano sulla sala spalancarsi di botto, facendo affluire fra i tavoli tre o quattro infermiere che, correndo, si avvicinarono il più possibile al tavolo del capitano.

Senchou! Senchou!” gridarono all’unisono le donne vestite in rosa, facendo scattare i sopraccigli di molti nel tavolo dei comandanti.

“Si è svegliata!” proclamò infine una di loro con sguardo preoccupato.

“Bene!” disse gioioso “Rendetela presentabile e portatela qui! Ho proprio voglia di fare quattro chiacchiere con lei!” concluse battendo un paio di volte la mano sul bracciolo della sedia.

“Temo che sia impossibile, senchou.” Si affrettò ad aggiungere dispiaciuta la donna, gelando sul nascere la risata tonante dell’uomo.

“Uhm?” fece incuriosito Ace, mentre al suo fianco Marco alzava un sopracciglio dirigendo lo sguardo stanco sulla donna “Non sarà mica muta.” Azzardò il comandante della prima flotta ricevendo in risposta un segno di dissenso da parte dell’infermiera.

“Appena si è svegliata abbiamo cominciato a parlarle, ma…” continuò l’altra, tornando a guardare la figura imponente del loro capitano “… non capisce una sola parola di quello che diciamo e sembra che parli un’altra … lingua.” Terminò affranta nel vedere la delusione e lo stupore negli occhi del suo capitano.

“Che? Un’altra lingua? Ma come? La nostra è una lingua universale!” esclamò Satch voltandosi verso la donna, quasi incredulo.

“Deve venire da un posto veramente sperduto, allora.” Intervenne laconico Jaws che fino ad allora non aveva aperto bocca.

“Però!” fece ammirato Ace, per nulla smontato da quella notizia “Chissà da che isola proviene!Magari potremmo riaccompagnarla alla sua terra natale! Sarebbe interessante scoprire un’isola ancora inesplorata, no?” aggiunse poi , lanciando un’occhiata d’intesa al padre che gli rispose con altrettanto entusiasmo.

“Guraguragura! Ben detto figliolo!” esclamò il vecchio guardando poi l’infermiera “E dov’è ora?”

La donna un poco intontita dalla piega inaspettata che aveva preso la conversazione, tentennò alla domanda per un attimo, ridandosi immediatamente un poco di contegno.

“La stiamo lavando, penso che tra pochi minuti sarà pronta.” Rispose subito, provocando il buon’umore del capitano.

“Bene! Bene! Sbrigatevi a portarla qui! Non vedo l’ora!”

Detto questo si aspettavano che tutte le infermiere si dileguassero come ordinatole dal capitano, ma, con grande sorpresa di molti, la stessa donna che aveva informato l’uomo delle condizioni della ragazza si fermò avvicinandosi al tavolo dei comandanti.

I cinque si sentirono un poco turbati dal modo in cui la donna gli analizzò da capo a piedi, accostandosi con fare pensieroso una mano al mento ed assumendo un’espressione critica.

Infine gli occhi color nocciola di quella si fermarono su Marco.

Il biondo per tutta risposta alzò un sopracciglio con fare interrogativo, senza far tuttavia scomparire con la propria occhiata la sicurezza dell’altra.

“Comandante Marco…” disse la donna indicandolo con il dito indice “Potrebbe prestarci qualche suo vestito?”

Inutile dire che la tavolata dei comandanti ci rimase di sasso.

 

Atto 1, Scena 4, Arioso della Bambola spoglia

 

Se non fosse stato per il fatto che avrei rischiato di farmi finire tutta la schiuma in bocca, mi sarei messa ad urlare per il dolore. Diamine! A contatto con il sapone la mia pelle bruciava come se sopra ci stessero  mettendo l’acido!

Per me fu un sollievo uscire da quella tinozza delle torture e quasi mi venne voglia di abbracciare l’infermiera bionda che avevo visto la prima volta che mi ero svegliata, quando la vidi porgermi un asciugamano.

“Grazie.” Sospirai inconsciamente non appena i miei piedi rientrarono a contatto con il pavimento in legno della stanza. Quella rimase un attimo a guardarmi per poi sorridere compiaciuta ed esclamare.

Aah. ‘Grazie’ wa ‘arigatou’, desu ka. Neh?”

Rimasi un attimo a guardarla attonita, stringendomi addosso il telo da bagno. Ok, avevo capito che nella frase centrava qualcosa il mio “grazie”, ma il resto della frase mi rimaneva comunque estraneo.

“Ehm …” biscicai, ma venni interrotta dal suono della porta che si spalancava. Non mi stupii nel vedere entrare un’altra infermiera rosa dotata di una folta chioma rossa chiusa in una treccia ordinata. Era quello che teneva in braccio che mi diede da pensare.

Specie quando finirono di mettermelo addosso.

Una camicia bianca seguita da un paio di pantaloni larghi. Molto larghi.

Era palese che fossero i vestiti di un uomo.

Mi girai verso di loro incerta su come far capire loro che magari avrei preferito un altro tipo di indumenti, ma le parole mi ritornarono in gola nel vedere le 4 infermiere, bionda inclusa, pararsi di fronte a me con espressione speranzosa, sostenendo insieme una “deliziosa” divisa rosa identica a quelle da loro indossate.

Ovviamente ringraziai, tenendomi stretta la camicia che avevo addosso.

Fu mentre ci dirigevamo verso una meta a me sconosciuta che mi accorsi di un piccolo particolare: se stavo indossando degli abiti maschili, allora sulla nave non c’erano solo donne.

Questa nuova scoperta però non fece che mettermi più ansia di prima. Le mie ossa tremarono, forse anche a causa dell’aria umida del corridoio che, confrontata alla mia pelle accalorata e spellata, pareva un soffio gelido.

Non sapevo chi ero e nemmeno in che posto mi trovavo. La gente attorno a me parlava una lingua a me sconosciuta e … tremai, udendo in lontananza un grande vociare di tipo maschile farsi più vicino.

Una lacrima di frustrazione mi stuzzicò l’occhio destro.

Non sapevo cosa fare.

 

Atto 1, Scena 5

 

Marco ormai cominciava a spazientirsi delle battutine allusive nei suoi confronti: non era un tipo dall’indole bellicosa, ma di certo non era uno stinco di santo. E sentiva che se Ace avesse continuato a lanciargli frecciatine, come minimo avrebbe dato fuoco al tavolo. Insomma, aveva soltanto accettato di dare alla naufraga un cambio dei suoi vestiti, mica di andarci a letto!

“Volete piantarla con questa storia?” disse a mo’ di avvertimento, poggiando una mano sulla guancia con fare scocciato, senza però soffocare, con suo grande rammarico, l’entusiasmo del fratello.

“Eddai Marco. Non è cosa da tutti i giorni avere una donna nei propri panni. È normale essere emozionati.” Ridacchiò invece quello dandogli un altro paio di pacche sulla schiena, provocando sia l’ilarità generale, sia un paio di pensieri omicidi nella mente del comandante della prima flotta.

Cosa non da poco per uno calmo come lui.

I suoi occhi socchiusi si mossero a sfidare quelli neri ed impertinenti del compagno.

“Capito, Capito.” Aggiunse frettolosamente l’altro, capendo di star percorrendo un terreno minato, per poi rivolgersi all’infermiera che era rimasta lì a controllare che il babbo non esagerasse con il sake. “E la nostra ospite quanto ci metterà? Sono curioso di vedere che aspetto ha.”

Quella, attraverso i propri grandissimi occhiali scuri, gli lanciò un’occhiataccia puntellandosi con fare severo una mano sul fianco generoso, provocando una conseguente esplosione di sangue dal naso di almeno metà ciurma che sedeva dietro di lei. Eh sì, Newgate se le sceglieva bene le infermiere.

“Gradirei che la piantaste, Comandante Ace. Quella povera piccina deve averne passate di tutti i colori, e di certo non le serve che un mucchio di uomini di mare in crisi di astinenza le renda insopportabili anche le ore dei pasti. ”

Uhm, forse il babbo avrebbe fatto meglio a scegliersele non così bene le infermiere.

“Ben ti sta.” Lo canzonò quasi disinteressato Marco, notando l’espressione colpita del moro.

“Aah.” rise poggiandosi una mano dietro la testa scoperta dal cappello, simulando imbarazzo.“Non ci so proprio fare con le donne di carattere.”

Un brusio proveniente dalla loro sinistra gli fece distrarre dalla loro coinvolgente conversazione, portandoli ad allungare il collo in direzione della porta che conduceva all’infermeria e dalla quale, camminando a ventaglio, sorridenti come sempre, le infermiere del pirata più temuto al mondo sfilavano fiere, strappando qualche fischio di apprezzamento da parte della ciurma.

Queste, non appena si fermarono dinanzi al capitano, onorarono i più intraprendenti della nave di qualche saluto e bacio volante, per poi cominciare finalmente a parlare.

“Senchou, l’abbiamo portata.” Lo informò Penelope, la bionda più ambita dell’intero equipaggio, sorridendo amabilmente.

L’interpellato sorrise, sporgendosi quanto più i fili delle flebo glielo permisero cercando con lo sguardo in mezzo alle sue donne più fidate, la figura sconosciuta della naufraga, che, con suo grande disappunto, non vide.

All’occhiata interrogativa sia del capitano che dei cinque comandanti, le infermiere dietro Penelope ridacchiarono, trattenendo a malapena le risa con le mani. La donna dai capelli biondi in risposta le zittì con una occhiata severa, per poi voltarsi e cominciare a farsi largo tra le sue colleghe.

Mo, Mo. Daijobu. Il nostro capitano non ti mangerà mica.” Disse con tono dolce e vellutato Penelope, riuscendo a stupire il grande Barbabianca.

“Si è nascosta non appena l’ha vista, senchou.” Ridacchiò a mo di spiegazione Carol, la rossa con la treccia che aveva chiesto i vestiti a Marco, indicando con il dito indice il pavimento accanto a lei.

“Aah!Eccoti qui!” aveva intanto esclamato Penelope esultante, essendo riuscita a trovare la loro paziente, attaccatasi disperatamente alle calze di Carol.

A quella vista il pirata dai grandi baffi bianchi non riuscì a trattenere una risata.

“Guraguragura!” tuonò, venendo però prontamente zittito dalla bionda infermiera, preoccupata che la piccina potesse scappare via, se avesse udito una seconda volta la risata tuonante del loro capitano.

“Senchou!” disse “La prego! È spaventata a morte!” concluse riuscendo a far tacere l’allegria del grande pirata, ritornando a rivolgersi dolcemente alla ragazza.

“Coraggio tesoro, coraggio. Devi ringraziare il capitano no? Ricordi? ‘Grazie’.”

Il risultato però non fu migliore di quelli precedenti  e con un poco di dispiacere, Penelope di rimise in piedi pensierosa, mettendo le mani sui fianchi.

“Bene ragazze.” Esclamò infine rivolgendosi alle colleghe “Facciamo così: al mio tre allontanatevi tutte insieme da Carol.”

Quella strategia riuscì a far spalancare, inorridito ed ammirato, persino la mascella di Jaws, seguito a ruota dai suoi fratelli. Pazzesco, ora si capiva perché le donne pirata erano le più temute al mondo: con un cervello così, il fisico giusto ed una buona tecnica di combattimento, le donne avrebbero potuto benissimo conquistare il mondo. In tutti i sensi.

“Allora. Ichi.” Cominciò a contare Penelope dopo aver battuto insieme un paio di volte le mani.

Nii.” Ormai tutta la sala si era zittita, in attesa del fatidico tre.

San!”

 

Atto 1, Scena 6, Arioso indeciso

 

Riaprii un occhio impaurita e quasi mi sentii morire, nel ritrovarmi scoperta. Completamente scoperta e sotto gli occhi curiosi di tutta quella gente, mentre mi aggrappavo disperatamente alle sottane di una delle infermiere. Sentii il sangue defluire velocemente dal mio viso per poi rifluirvi arrossando le guance di botto.

E per poco non mi sentii svenire, mentre alzavo gli occhi su quell’enorme gigante che torreggiava accanto a me, osservandomi sorridendo. Se, quando l’avevo visto la prima volta entrando dalla porticina del corridoio mi ero sentita prossima a darmela a gambe, in quel momento avrei anche venduto l’anima pur di poter scomparire da quella sala.

Un paio di colpetti sulla testa da parte dell’infermiera rossa mi fece tornare bruscamente alla dura realtà. Non capii quello che mi disse, ma dal tono intuii che sicuramente le sue parole non significavano “Prego tesoro, puoi restare attaccata alla mia minigonna per tutto il tempo che vuoi”. No. Decisamente non voleva dire quello.

Le lasciai timorosamente la stoffa rosa della divisa, guardandola dispiaciuta

“S-scusa.” Dissi, ma quella era già partita lontano, raggiungendo le altre, lasciandomi lì in mezzo a tutti, rannicchiata come una bambina per terra.

Inutile dire che mi venne quasi da piangere. Cosa dovevo fare? Cosa?!

Cercai disperatamente gli occhi dell’infermiera bionda e, quando li trovai sperai che mi potesse far capire come comportarmi. Quella però non fece altro che sorridermi incoraggiante, tenendosi distante proprio come il resto delle sue colleghe.

Perfetto, pensai in preda al panico ritornando ad osservare il gigantone dai baffi assurdi. Ancora non aveva parlato. Era rimasto semplicemente ad osservarmi per tutto il tempo senza spiccicare una parola.

E io a poco a poco, forse un poco incoraggiata da quel suo silenzio, mi rialzai in piedi. Non appena ebbi disteso anche l’ultima vertebra della mia schiena mi guardai nervosamente attorno, inizialmente per trovare una rapida via di fuga, poi per osservare i vari volti che non smettevano di studiarmi. Mi sentivo un animale da circo.

Che cosa volevano che facessi?

Se le mie deduzioni non erano errate il colosso di fronte a me doveva essere il capitano della nave, quindi come minimo dovevo ringraziarlo. In fondo era merito suo se non era morta in mezzo al mare.

Sentii una manica della camicia srotolarsi lungo il mio braccio, finendo per penzolarmi  fino a metà gamba, e io, rossa in viso, me la tirai su più in fretta che potei. Quasi quasi rimpiangevo il vestitino rosa.

Attorno a me udii qualche risatina, soffocata immediatamente da qualcosa che somigliava al suono di gomitate tirate dritte nello stomaco.

Presi un bel respiro, imponendomi di non pesarci.

“Ecco…” cominciai tenendo lo sguardo rivolto verso il basso.

“La ringrazio per avermi salvato la vita, signore…” sapevo che le mie parole non avrebbero avuto alcun significato per le loro orecchie, ma volevo comunque ringraziarlo a dovere. “La vita. Sa? … So che non mi capisce …, ma, ecco, quello che volevo dirle è…” cincischiai un pochino sulle ultime parole, cominciando a torturarmi inconsciamente l’orlo della camicia non mia.

“Grazie.”

“Guraguragura!!”

“Eek!” saltai all’indietro alla risata inaspettata del capitano, portandomi d’istinto le mani all’altezza del petto e stringendo spasmodicamente il cotone della maglietta, sentendo il cuore rimbombarmi frenetico nelle orecchie.

Attorno a me il silenzio si era dissolto tra le risate divertire del resto della ciurma e dal rumore di piatti scontrati l’uno con l’altro.

Sentii le braccia dell’infermiera bionda circondarmi le spalle, guidandomi ad uno dei tavoli, ma io non ci feci molto caso, preoccupata com’ero a far ritornare il battito cardiaco al giusto ritmo. All’anima. Non sarei riuscita a sopravvivere per più di un giorno in quel posto se per ogni cosa rideva in quel modo.

 

Atto 1, Scena 7

 

“Povera piccola!” ridacchiò Satch guardando la nuova arrivata venire condotta al tavolo delle infermiere. Era stato tutto il tempo ad osservare le reazioni di quello scricciolo e a quanto pareva doveva essere spaventata a morte. “Papà deve averle fatto una brutta impressione.” Concluse sospirando, scatenando qualche risata da parte di Ace e Vista.

“No, ma non mi dire! Un uomo docile come papà?” ironizzò Ace “È solo il pirata più temuto al mondo!”

Alla sua battuta fece eco la risata del tavolo dei comandanti a cui solo Marco non partecipò, apparentemente intento a terminare di mangiare il proprio piatto, e questo ovviamente, non passò inosservato agli occhi del comandante in seconda.

“Ehi, Marco. Che ti prende? La vista dello scricciolo ti ha fatto perdere l’appetito?” chiese guardando preoccupato il modo in cui il biondo stuzzicava il proprio cibo con la forchetta.

La Fenice sbuffò.

“No. Sto solo cercando di capire da che razza di posto possa essere arrivata.” Si giustificò coinciso ritornando lentamente a mangiare, mentre al suo fianco i suoi fratelli si guardarono: in effetti aveva ragione.

“E come.” Aggiunse infine, godendosi la vista degli altri comandanti mentre cercavano di mettere insieme i neuroni.

“Oh bhe. Ci sono tante possibilità: una tempesta; un attacco da qualche nave pirata;…” elencò Vista lisciandosi pensoso i baffi.

“Un Bustercall della marina.” Intervenne Jaws addentando il quarto cosciotto della giornata.

Spazientito Marco si fece indietro con la sedia, dondolandosi all’indietro con lo schienale che quasi raggiungeva il muro in legno dietro di lui, tenendosi al tavolo con un piede: non era quello che intendeva per “come”.

“E non avete pensato ad una nave di schiavi?”

Silenzio.

“Eeeh” sospirò il biondo “Ma dove la tenete la testa voi?”

 

Atto 1, Scena 8, Arioso agitato

 

Quelle infermiere cominciavano a darmi suoi nervi. Va bene, lasciamo fuori la bionda che mi sta particolarmente simpatica, ma le altre proprio no. Insomma! Avrei voluto sorseggiare il mio brodino di verdure in santa pace! Non ero così messa male da farmi imboccare come una neonata.

O sì?

Un poco scocciata accettai l’ennesima cucchiaiata da parte della rossa che si era assunta l’onere di imboccarmi. Non era tanto male il minestrone, era il mio primo pasto dopo giorni dopotutto, ma il fatto di essere trattata come una menomata mi faceva irritare un po’. E poi non faceva che rovesciarmi il contenuto del cucchiaio sulla camicia!

Intercettai la sua mano, facendole capire con gli occhi che preferivo mangiare da sola. La vidi scambiarsi un paio di parole con la bionda e poi lasciarmi in mano il mestolino. Esultai mentalmente: gloria immensa, potevo mangiare come si deve!

Dovetti ricredermi però non appena provai ad afferrare con due dita la posata, perché sentii le ferite della mia pelle bruciata e spellata aprirsi di colpo, formando come dei sottili taglietti sulla pelle viva.

“Ahia!” esclamai portandomi la ferita alla bocca e facendo inevitabilmente ricadere sulla tovaglia il cucchiaio.

Anataha mima shitaka?” mi disse la rossa ridacchiando riprendendo possesso della mia posata “Saa. Ima tabete kudasai.”  Concluse riempendolo di nuovo e facendo per ricominciare ad imboccarmi.

Mi imbronciai delusa. Ma che dovevo fare io!? Se soltanto avessi saputo interpretare mezza parola di quello che aveva detto mi sarei sentita meno inutile!

Non  mi restò che accettare di essere imboccata finché la mia zuppa non scomparve dal fondo del piatto, senza che me ne accorgessi e, non ancora sazia, cominciai tristemente a raschiare il fondo del mio piatto, tenendo il cucchiaio con l’indice ed il pollice per non farmi male. Caspita, avevo davvero fame! Vidi la bionda e la rossa sorridersi e quest’ultima alzarsi dal tavolo forse alla ricerca di altro cibo e io ne approfittai per guardarmi attorno.

La sala mensa mi si presentava immensa come mi era apparsa la prima volta che vi avevo messo piede. In ogni angolo della stanza erano stati sistemati dei tavoli: quelli centrali erano stati provvisti di sedie, in quel momento occupate da uomini affamati intenti a combattere, letteralmente, per il cibo sistemato però in grande quantità sui tavoli laterali che seguivano a ferro di cavallo l’andamento della stanza, lasciando spazio sul lato libero al grande tavolo del capitan-gigante.

Mi fermai ad osservarlo trangugiare una quantità di cibo quattro volte superiore a quella sistemata sui tavoli da buffet e venni colta da un improvviso senso di nausea. Decisamente non ero ancora pronta per mangiare qualcosa di solido.

Rimasi ancora un po’ ad osservare nei dintorni del capitano quando notai un tavolo leggermente più vicino degli altri. Vi erano sedute cinque persone, o meglio, cinque uomini completamente diversi l’uno dall’altro intenti a prendersi in giro a vicenda. Il primo che notai era un uomo enorme, non come il capitano, ma di mole assolutamente impressionante, scuro in volto ed apparentemente seccato, con addosso una strana armatura; il secondo era un uomo biondo con i capelli sistemati a ciuffo con chissà cosa ed un bizzarro nastro blu con tanto di ficco al collo. Dopo di loro, verso sinistra, stava seduto composto un uomo baffuto con un cappello a cilindro calato sulla testa che gli donava una strana aria distinta. Gli ultimi due erano due ragazzi: uno moro e l’altro biondo. Il primo aveva un’espressione simpatica in viso, forse accentuata dalle lentiggini che gli puntellavano le guance, non indossava una maglietta, e su una delle braccia chiare mi parve scorgere una sorta di tatuaggio che percorreva in lunghezza l’avambraccio. Il secondo era il suo completo opposto: biondo ed abbronzato, inclinato scompostamente sulla sedia dondolante che minacciava di farlo scivolare da un momento all’altro.

Ma non è pericoloso? Mi chiesi concentrandomi su di lui.

Era un tipo strano. Non strano nel senso cattivo, ma … di certo i suoi capelli non potevano essere ritenuti normali. Non che io avessi chiaro il concetto di normalità ben chiaro.

Per me era come vedere un mondo completamente nuovo, mai visto. In quel momento mi sarebbe potuto passare accanto anche un uccello a due teste e non mi sarei meravigliata più di tanto. Ammettiamolo, dopo aver visto un colosso enorme come il capitano, anche se mi fossi ricordata da dove venivo e com’era la mia vita prima, il mio concetto di normalità, sarebbe finito direttamente nel cesto della spazzatura.

Comunque, i capelli dell’ultimo seduto al tavolo mi ricordavano qualcosa… Erano una sorta di ciuffo posto in cima alla testa che lasciava il resto della nuca scoperto. La sua camicia era completamente aperta e lasciava scoperto il torace dove faceva bella mostra di sé uno strano tatuaggio di cui non capii la forma.

Stavo ancora esaminando quello strano simbolo quando l’infermiera rossa tornò al tavolo con un’altra ciotola di brodo fumante. Allargai un sorriso di gratitudine mentre mi poggiava davanti il piatto che però s dissolse non appena vidi che il biondo dai capelli strani aveva spostato la sua attenzione dal moro accanto a lui a … me.

Avvampai e voltai lo sguardo. In preda al panico mi chiesi se mi avesse vista studiarlo. E mi rannicchiai la testa tra le spalle, accorgendomi di aver nuovamente fatto la figura dell’idiota.

 

Atto 1, Scena 9

 

“Oh oh! La bambolina ti fa gli occhi dolci!” sfotté Vista.

Un fischio irriverente da parte di Ace gli stuzzicò fastidiosamente l’orecchio sinistro, facendolo accigliare. Quel giorno era decisamente propenso a farsi buttare fuori bordo.

Si rimise pigramente seduto composto, facendo scendere la sedia con tutte e quattro le gambe ben attaccate a terra, poi poggiò il mento su una mano, fingendo di non aver sentito nulla. Se i cani continuavano ad abbaiare, l’unica era lasciare che si sgolassero per bene senza darci troppa pena. In ogni caso continuò ad osservare la nuova giunta, vedendola rannicchiarsi nuovamente su se stessa.

“Qualcuno dovrà insegnarle a parlare la nostra lingua, non pensi papà?” chiese improvvisamente il comandante in prima.

Di colpo il tavolo si riempì di facce serie, compresa quella di Ace.

“In effetti non possiamo sbarcarla nella prima isola che ci capita senza che capisca una parola di quello che diciamo.” Constatò Pugno di Fuoco, cominciando anche lui ad osservare pensoso la naufraga.

“Stai proponendo di farla seguire da uno dei tuoi fratelli, Marco?” chiese Barbabianca dando un lungo sorso di sake.

Il biondo chiuse gli occhi con fare indifferente  senza dare risposta, segno che non voleva mettere bocca sulle decisioni del padre, almeno, non su quella.

“Ma non pensi che le infermiere bastino?” domandò Vista, meritandosi le occhiatacce di Marco e di Jaws.

“Le infermiere devono prendersi cura di papà, non possono mettersi a fare anche da insegnanti a quella ragazzina.” Lo zittì un poco acidamente il colosso, incrociando le braccia al petto.

“Uno dell’equipaggio andrà più che bene.” Aggiunse il biondo, aspettandosi qualche proposta interessante da parte dei fratelli.

“Che ne pensi di Teach?”

Ok. Quella non sembrava affatto una proposta intelligente. Gli sguardi di tutti si puntarono su Ace, fulminandolo inorriditi. Seguì una risata collettiva che vide partecipe anche il capitano.

“Teach?! Ma scherzi? Con lui come insegnante la prima parola che quello scricciolo imparerà sarà ‘crostata di ciliegie’!!” ridacchiò tenendosi la pancia Satch, battendo freneticamente una mano sul tavolo come in segno di resa.

“Già a pensarci bene non credo che Teach sia il tipo adatto per fare da baby sitter.” Ammise un poco sconsolato il moro, guardando Marco coprirsi con un braccio il volto poggiato sul tavolo nell’atto di riprendere fiato dalla lunga risata.

“Qualcuno dovrà comunque prendersi questa responsabilità.” Dichiarò Newgate “Nessuno dei vostri fratelli vi sembra adatto?”

La domanda del padre diede molto da pensare ai cinque comandanti che si misero a ragionare intensamente sul carattere e i compiti giornalieri di ogni singolo membro del proprio equipaggio.

“Nessuno.” Disse Satch dispiaciuto, seguito a ruota da Jaws e Vista, che scossero la testa negativamente.

“Nessuno.” Ribadì Marco guardando infine Ace, ancora pensieroso.

Il moro aprì la bocca per parlare e, cadde incosciente di faccia nel proprio piatto, imbrattandosi i capelli di sugo di cinghiale.

“Guraguragura!!” tuonò più divertito che mai Barbabianca assistendo ad uno dei soliti attacchi narcolettici del figlio.

“Eh, mi sa che anche lui non aveva nessuno di adatto.” Ironizzò Satch ridendo insieme agli altri.

“Vorrà dire che a insegnarle la nostra lingua sarà uno di voi, figlioli.”

I sorrisi scomparvero così com’erano venuti. Come prego?

Marco sbuffò. Avrebbe dovuto immaginarlo che sarebbe finita così.

 

Fine Atto Primo

 

Yeeeeheee!! Complimenti! Avete finito il primo atto! Bene e adesso le istruzioni: questa chicca o schifezza, va’ chiamatela come vi pare, l’ho concepita leggendo in inglese una fan fiction che faceva in modo che il lettore potesse intercalarsi nel personaggio, lasciato opportunamente privo di nome e aspetto fisico. Ho voluto provare a scriverne una, partorendo Kaizoku no Allegretto aggiungendo però un’altra cosa: essendo che io odio intercalarmi in personaggi che vanno a finire nel mondo di un anime e manga che siano, ho deciso di fare nel seguente modo.

Continuerò la fanfic seguendo esclusivamente le proposte dei lettori, come in una Blog novel, in modo tale che alla fine la storia possa risultare una cosa di tutti. (già, la storia di una possibile fic a fine di lucro era una balla. Che ci volete fare…)

Ok, spero che la spiegazione sia stata esauriente!

Visto che il primo capitolo lascia molte cose su cui pensare facciamo così: lasciate perdere l’identità della tizia (tranquille, sarete in grado di darle un nome più avanti.) e ditemi cosa vorreste che accadeste sulla Moby nell’immediato.

Non saranno prese in considerazione proposte come:

Es. “Ciao! Vorrei che la tipa intervenisse all’esecuzione di Ace” Primo: nella storia non è ancora accaduto. Cavolo, sono ancora tutti felici e contenti sulla Moby! Secondo: non sto dicendo di no ad una proposta come questa, ci arriveremo, tranquilli.

Mi raccomando proposte solo sugli accadimenti immediati della storia!!

Ok!? Bye bye! E mi raccomando, scrivete e recensite numerosi! ^^

Su richiesta di HUNTERGIADA…

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Anata wa me wo sama shi desu  > Ti sei svegliata.

Minna! Hayaku! Me wo sama shi desu!  > Ragazze! Sbrigatevi! Si è svegliata

Daijobu desu ka?  >  Tutto bene?

Nomu?  >  Bere?

Eto… nani?  >  Ehm… prego?

Senchou  >  capitano

Aah. ‘Grazie’ wa ‘arigatou’, desu ka. Neh  > Aah. ‘Grazie’ sta per ‘arigatou’. No?

Mo, Mo. Daijobu  >  Su, su. Tutto a posto.

Anataha mima shitaka?  >  Hai visto?

Saa. Ima tabete kudasai.  >  Avanti. Adesso mangia.

 

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Capitolo 2
*** Atto 2 -prima parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 2 -parte prima-

Atto2, scena1, Arioso rilassato

Dopo pranzo fui colta da un attacco di sonno.

Non nel senso che mi stesi sul tavolo, ma poco ci mancò che mi addormentassi sulla sedia. Il ragazzo biondo con il tatuaggio sul torace aveva smesso di guardarmi e questo non fece che aumentare il torpore alla mia testa, rilassandomi più del dovuto.

Avevo lo stomaco piacevolmente pieno e non era certo cosa trascurabile visto che ero quasi morta di fame e di sete in mezzo al mare. Sospirai appagata, massaggiandomi il pancino soddisfatta. Chiunque fosse il cuoco aveva la mia eterna gratitudine.

Sentii la testa ciondolarmi leggermente in avanti, ma fui subito sostenuta da un paio di mani femminili che mi scrollarono leggermente facendomi recuperare un poco di lucidità.

Voltai lo sguardo dietro di me, incontrando gli occhi azzurri dell’infermiera bionda ancora sorridente come un angelo.

Ancora non riuscivo a capire come potesse tranquillizzarmi con un semplice sorriso.

“Io …” ripresi a parlare con la bocca ancora un poco impastata dal sapore della zuppa e dal sonno, ma mi scappò un piccolo sbadiglio proprio all’inizio della frase “… credo di avere un po’ di … sonno.” Conclusi socchiudendo ancora di più gli occhi.

Alle mie orecchie stanche arrivò una risatina, sicuramente appartenente alla donna dalla treccia rossa e quasi stavo per cadere nel mondo dei sogni, quando sentii di nuovo la risata cavernosa del capitano attraversarmi prepotentemente la testa, nonostante i rumori attorno a me fossero piacevolmente ovattati.

Sobbalzai sulla sedia, spalancando gli occhi per l’improvviso rumore.

Uuuh…” mugugnai, stropicciandomi gli occhi “… ma come fa a ridere in quel modo ..?”

Mi sentivo più frastornata che mai. Rivolevo il letto sul quale mi ero ritrovata pochi minuti prima. Volevo infilarmi sotto le coperte e digerire beatamente quella sostanza liquida e tiepida che ancora mi sentivo nello stomaco. Tirai su un sospiro, richiudendo di nuovo gli occhi e quando avvertii la bionda accostarsi a me, sussurrandomi qualcosa che non riuscii a capire, mi ritrovai ad inclinare la testa verso di lei, afferrandole il lembo del suo vestito con una mano.

Nella mia mente non c’era altro che il riposo.

 

Atto 2, scena 2

Dall’altro lato della stanza Barbabianca invece faceva di tutto per non continuare a ridere, nel vedere la naufraga ciondolare assonnata sulla sedia. I suoi figli, ancora presi dalla loro discussione su chi si sarebbe dovuto prendere la responsabilità di insegnare la lingua alla ragazza, furono attirati dal suo comportamento, girandosi prima verso di lui e poi sulla nuova arrivata, sorridendo inteneriti alla vista di quello scricciolo abbracciare, come una bambina in cerca di calore materno,Penelope.

Eeeh…” sospirò intenerito Satch poggiando la guancia sulla mano “… è proprio uno scricciolo.”

“Se ti piace così tanto, allora perché non le fai tu da insegnante?”

Quella frase fece tornare di scatto l’attenzione del biondo su Jaws che con il solito broncio aspettava che uno degli altri comandanti decidessero chi, a parte lui, fosse adatto al ruolo affidato loro dal padre. Tutti adesso avevano rivolto la loro attenzione verso di lui e il comandante della quarta flotta si pentì di essersi esposto così tanto: non aveva nulla contro lo scricciolo, ma decisamente non si sentiva pronto per addossarsi la responsabilità di una cosina così minuscola e fragile.

Lanciò un’occhiata al comandante in seconda, ancora beatamente ronfante bel proprio piatto, ignaro della cosa. Che fortuna sfacciata, al suo risveglio avrebbero già scelto a chi sarebbe toccato l’onere.

Jaws ha ragione, Satch. Tra tutti noi sei il più affabile, potresti essere un ottimo insegnante.” Aggiunse nel frattempo Vista, dando manforte all’altro e Satch quasi alzò gli occhi al soffitto: erano già partiti tutti alla carica.

E adesso come faceva a dire di no?

“Ragazzi, un poco di serietà: è una ragazza, mica una patata bollente.” La voce di Marco intervenne quasi immediatamente, attirando su di sé l’attenzione degli altri che lo videro intento a punzecchiare con una forchetta la figura inerte di Ace.

“Ace, svegliati, avrai tutto il tempo per dormire dopo.” Sentenziò sempre con la sua classica espressione calma, tipica di chi ha la situazione sotto controllo.

Gli altri comandanti si guardarono stupiti: non avevano mai visto come Marco facesse per risvegliare Ace tutte le volte che veniva colto da un attacco narcolettico, ma la cosa certa era che era tutte le volte riuscito nel suo intento.

“Ace, guarda che faccio sul serio. Se non ti svegli userò le maniere forti.” Avvertì ancora una volta il biondo al moro, ma tutto quello che ottenne fu una serie di ronfi degni di una locomotiva.

Tutti videro Marco, sospirare sconsolato, smettendo di punzecchiarlo con la forchetta soltanto per impugnarla meglio.

“Tappatevi le orecchie.”

Fu tutto quello che disse prima che un urlo atroce facesse tacere tutta la sala. Vista, Satch e Jaws erano rimasti con gli occhi fuori dalle orbite, mentre Marco teneva  la forchetta ancora nei pressi della sedia di Pugno di fuoco.

“Ma sei PAZZO?!” sbraitò il moro, massaggiandosi il fondoschiena dopo essersi alzato in piedi, agitando minacciosamente una mano verso il biondo.

“Ti sei addormentato, baka.” Fu la sola giustificazione che diede il comandante in prima, poggiando nuovamente sul tavolo la posata come se nulla fosse successo, aspettando che il fratello facesse altrettanto.

Il moro alle parole dell’altro si bloccò.

Ah… davvero?”

Ripresosi dallo shock iniziale gli altri cominciarono a ridacchiare. Satch non riusciva nemmeno a parlare, tanto era piegato in due nell’atto di soffocare una risata storica.

“Come un sasso.” Affermò Vista, calandosi il cilindro sugli occhi per nascondere una lacrimuccia divertita apparire sul’angolo dell’occhio sinistro.

“… Ops?”

Sei… sei…” balbettò ormai al limite il comandante in quarta con una mano sulla fronte, ormai prossimo ad esplodere.

Ace si grattò la testa imbarazzato: quella non era certamente la sua giornata. Essere svegliato in modo così imbarazzante sotto gli occhi di tutti! Nel distogliere lo sguardo i suoi occhi caddero sul tavolo delle infermiere dove la naufraga stava già dormendo alla grossa tra le braccia di Penelope.

Di colpo distese il volto in un sorriso.

“Ehi, ma la bambolina già dorme?” chiese risedendosi, dimenticandosi improvvisamente di quello che era appena accaduto.

“Il babbo vuole che uno di noi l’aiuti con la lingua.” Gli spiegò laconico Marco, dondolandosi nuovamente sulla sedia.

Il sorriso del moro scomparve così com’era apparso, lanciando un’occhiata stupita a Marco come per aver conferma. All’espressione seria dell’altro tornò a sorridere con espressione birichina, accentuata ancor di più dalle lentiggini sulle sue guance.

“Uno dei comandanti? Però! Questa sì che è bella!”

Il suo sguardo color onice si spostò di nuovo sulla figura addormentata della fanciulla, cullata dalle amorevoli cure dell’infermiera. Intanto Satch aveva parzialmente vinto la battaglia con il proprio stomaco, che ancora sembrava non volerne sapere di smetterla di singhiozzare per il divertimento.

“Decidiamo in fretta, però.” Intervenne, questa volta sorridendo, Jaws, non avendo potuto fare a meno di assistere all’infilzata subita da Pugno di fuoco.

Marco dalla sedia sospirò: così non sarebbero andati a finire da nessuna parte. Ma era mai possibile che toccasse sempre a lui smuovere i suoi fratelli?

“Non credo che Jaws sia adatto al ruolo.” Disse, incrociandosi le braccia dietro la testa, ricevendo un’occhiata stupita dal diretto interessato ed una divertita da parte di Ace.“Con il tuo aspetto, la prima che farà non appena ti vedrà, sarà riattaccarsi alle sottane di Carol.”

Seguì una risata da parte di Vista.

“E perché non tu, allora?” chiese prontamente Satch, poggiando un braccio sul tavolo ancora stracolmo di cibo. “In fondo sei stato tu a proporre la cosa.” Diede manforte il pirata dal cilindro.

“Non ho detto di non volerlo fare.” Disse apparentemente disinteressato la Fenice dopo un attimo di silenzio “Ma devo anche prendermi cura della ciurma e potrei starle dietro soltanto mezza giornata, non di più.”

Al sorgere del dilemma tutti e cinque i comandanti si misero a pensare, venendo tuttavia interrotti prontamente da una voce femminile proveniente alla loro sinistra.

“Chiedo scusa, comandante Marco…” intervenne l’infermiera dai grandi occhiali scuri, avvicinandosi a loro con la cartellina clinica di Newgate sottobraccio. “… e se voi ed il comandante Ace vi divideste i compiti?” propose, inclinando i fianchi da un lato, facendo sbavare mezzo equipaggio.

“Compiti?” fece incuriosito Ace, un poco sorpreso dall’infermiera.

Quella sbuffò, ostentando palesemente quanto le fosse gravoso dare spiegazioni a quel branco di bambini che viaggiavano per mare credendosi i padroni del mondo, per poi ritornare a parlare marcando la voce con una vena di impazienza.

“Dite un po’, voi.” Sentenziò afferrando intanto cartelletta e penna in una sola mano poggiata al fianco, facendo mancare il fiato ai comandanti per via del suo improvviso cambio di tono “Avete mica idea di quante cose abbiamo da fare noi infermiere??!”

La domanda retorica aveva una sola risposta: tante e troppe. Questo lo capirono persino i secondini che assistevano rapiti alla scena, sbranando cosciotti di carne come se fossero stati dei validi sostituti a pacchetti colmi di pop-corn.

Nessuno dei comandati rispose, troppo intimoriti dalla combattività della donna, lasciandola quindi libera di esporre a ruota le su opinioni, avvicinandosi ad ogni parola sempre più vicino al loro tavolo minacciosa.

Non che una donna con una simile scollatura potesse definirsi altrimenti.

“Certamente anche voi comandanti avrete cose da sbrigare, ma noi abbiamo un’intera nave di piagnucoloni con un senso di autoconservazione pari a quello di una formica … E non mi interrompa!” fece verso Satch che come un bambino aveva alzato timoroso una mano, chiedendo tacitamente il permesso di obiettare a quell’ingiusta definizione. Il povero comandante ritrasse però istantaneamente il braccio con un gocciolone sulla testa per l’assurdità della situazione. La donna d’altra parte aveva tutte le ragioni del mondo per lamentarsi, visto che i loro fratelli, per godere delle amorevoli cure delle bellissime infermiere del babbo, finivano a volte per presentarsi lamentando qualsiasi cosa: dal più innocuo mal di testa ad una mano slogata, rotta, chi più e chi meno, di proposito.

“Quella povera piccola non può certo stare chiusa in infermeria tutto il santo giorno! Non le pare, comandante Marco?” calcò per bene il nome del biondo sbattendo una mano ben curata sul tavolo.

Un segno di assenso da parte di tutti.

La donna, di nome Betty da quel che ricordavano i cinque sventurati, annuì soddisfatta.

“Quindi, se il capitano non ha nulla in contrario…” disse rivolgendosi con tono decisamente più rabbonito a Newgate che, avendo assistito interessato all’intera sfuriata dell’infermiera, con un sorrisetto a malapena celato dai suoi enormi baffoni, fece segno con una mano di darle potere decisionale sulla questione.

 I cinque ovviamente ne rimasero spiazzati: ma perché il babbo a volte aveva quegli slanci di generosità nei confronti delle loro carissime infermiere?

“… il Comandante Marco si occuperà di insegnare la lingua alla piccina.” Continuò assumendo, nonostante gli occhiali le coprissero gran parte del volto, un sorrisetto compiaciuto che non presagì nulla di buono. E quando i pirati di Barbabianca avevano il sentore di guai non era mai un falso allarme. Mai.

“E il Comandante Ace si premurerà di farle vedere la nave ed aiutarla ad ambientarsi. ”

Seguì un ghigno soddisfatto sulle labbra rosate della mora che segnò la fine della conversazione, lasciando Marco ed Ace a rielaborare quanto era appena accaduto.

La Fenice sbuffò, reagendo per primo alla conclusione del discorso di Betty, poggiando un gomito sul tavolo e strofinarsi il retro della testa.

Bhe, in fondo me lo dovevo aspettare.” Decretò, accettando la cosa con filosofia.

“…”

Gli sguardi di tutti si incentrarono su Ace.

Subito dopo la faccia del moro affondò nel fitto strato di panna e caramello che componeva il dolce davanti a .

Tra le risa generali Marco si chiese se il suo fratellino fosse riuscito ad ascoltare il discorso di Betty, finché la voce di Penelope non sovrastò il fragore della sala mensa, attirando il loro sguardi sullo scricciolo, completamente abbandonato tra le braccia della bionda.

 

Atto 2, scena 3, Arioso insonne

 Quando mi risvegliai ero di nuovo in infermeria, sdraiata sul mio letto. Mi chiesi come ci fossi arrivata, cercando di ricordare quando avessi lasciato la sala mensa della nave. Osservai attentamente il soffitto in legno sopra di me per un paio di minuti prima di realizzare, un poco stupita, che dall’oblò della stanza non arrivava nemmeno un accenno di luce.

Mi alzai lentamente, aspirando a i denti stretti l’aria fredda della cabina, nel sentirmi la pelle dolere e tendersi a causa di quel movimento al quale di certo non ero più tanto abituata.

In punta di piedi cercai di sbirciare fuori dalla finestrella.

Incontrai un cielo scuro e puntellato da tante lucine.

Era notte.

Non so perché ma la cosa mi entusiasmò. Ai miei occhi si presentava uno spettacolo esaltante: dalla mia posizione riuscivo a scorgere, nonostante le ristrette proporzioni della finestrella, una quantità di stelle impressionante.

Mi staccai dall’oblò quasi senza rendermene conto, aprendo la porta della mia stanza ed uscendovi con aria furtiva. Il corridoio fuori dalla mia cabina era totalmente buio e la cosa mi diede un poco di sicurezza.

Procedendo a tentoni riuscii comunque a percorrere il corridoio senza inciampare, tastando una delle pareti fino a scontrare il piede con quello che mi parve uno scalino, seguito da un altro ed un altro ancora: una scala.

Nel buio della nave sorrisi vittoriosa: potevo raggiungere il ponte.

Salii tutti gli scalini che incontrai finché la flebile luce di uno spioncino, rotondo come gli oblò, mi segnalò la presenza di una porta che non esitai nemmeno un momento ad aprire.

Rimasi senza fiato. Dalla finestrella della mia stanza quello che si vedeva non era lontanamente paragonabile a quello che si poteva ammirare stando sul ponte. Sopra la nave il cielo era percorso in tutta la sua lunghezza  da una scia luminosa e vibrante di stelle, bianche come delle perle, che con il loro splendore rendevano il nero della notte più simile ad un blu intenso che si andava a confondere con il mare sotto di esso.

Mi accorsi di star piangendo quando una folata di vento mi congelò le guance, costringendomi a stringermi meglio i vestiti larghissimi che tenevo ancora addosso e che ,contro l’aria notturna, mi offrivano un pessimo riparo. Mi asciugai con una mano gli occhi e forse fu per quello che non sentii arrivare qualcuno dietro di me.

Ohi! Gaanatahamada oki teiru ?”

Sbarrai gli occhi per lo spavento, constatando che si trattava di una voce maschile e senza pensarci ,come se fossi stata punta da un’ape, mi fiondai nuovamente sulle scale che mi avrebbero portato in sottocoperta, quasi scontrandomi con l’uomo che mi aveva sorpresa.

Udii un tonfo dietro di me, e ,con il cuore in gola, percorsi a ritroso la distanza che mi divideva dalla mia cabina, pregando che quello lì non mi seguisse.

Nan-!Chotto matte!” gli sentii dire in lontananza. Mentre scendevo la scalinata sentivo il cuore martellarmi nelle orecchie. Non sapevo il perché mi sentissi in dovere di scappare, né da chi, ma il mio respiro tornò regolare solo quando ritornai nell’abbraccio confortante delle mie lenzuola, tra le quali faticai un po’ per addormentarmi.

 

Atto 2, scena 3

La Moby Dick si svegliò lentamente, perforando con assoluta lentezza l’aria fresca e impregnata di umidità in cui era immersa, mentre da sotto la linea dell’orizzonte il sole cominciava a fare timidamente capolino. Il cielo, ancora leggermente scuro verso ovest, donava alla struttura dell’imbarcazione un non so che di mistico, mentre sotto le vele rimaste spiegate si era formata una sottile nuvola di vapore, condensatasi come di consueto non appena l’aria fredda della notte era stata sostituita dal calore sempre più vicino del giorno.

Sulle sartie della possente nave si vedevano scendere pigramente i pirati reduci dal proprio turno notturno, borbottando tra loro, mentre nelle loro menti si faceva sempre più marcato di desiderio di toccare la propria branda.

Quella mattina, con grande disappunto dei noti e temuti figli di NewgateBarbabianca”, era bava di vento e questo provocò non poche imprecazioni da parte di coloro che si sarebbero dovuti occupare della velatura quel giorno.

Nel giro di un’oretta, nonostante le lamentele quasi bambinesche di quei lupi di mare, tutte le vele della grande imbarcazione, controfiocco e controvelaccini compresi, furono sciolte dagli imbrogli che le tenevano serrate ai pennoni, lasciate finalmente libere di esibirsi leggere al sottile soffio di vento di quella mattina.

Finalmente sorto il sole, la nave cominciò come d’incanto a brulicare di vita, man mano che tutto l’equipaggio si svegliava ed usciva sul ponte per sgranchirsi un poco le gambe e godersi i primi raggi di sole.

Aaah…” sospirò ancora un po’ intontito Ace tirando indietro le braccia stando seduto sul parapetto, accompagnato dalla presenza di Marco, dalla cui espressione non si riusciva a capire se fosse o meno ancora assonnato.

“Che fame.” Concluse poi il moro rimettendosi sulla propria testa corvina il fidato cappello arancione.

“Resisti ancora un po’, vedrai che tra un po’ si saranno svegliati tutti.” Lo rassicurò il biondo con la solita calma.

Era ormai consuetudine dell’equipaggio aspettare che tutti si alzassero per fare colazione: il babbo ci teneva a mangiare con tutta la famiglia riunita.

Sfortunatamente per Ace,il suo stomaco faceva molta fatica ad adattarsi a quella regola, brontolando puntualmente alle sei del mattino, ovvero, mezz’ora prima dello scoccare dell’ora “X”.

E ,quindi, per  somma gioia di Marco,  diventava fastidiosamente loquace, nel suo tentativo di distrarsi dalle fitte che la sua pancia subiva nell’attesa.

“Ehi, Marco, sinceramente, cosa ne pensi della nuova arrivata?”

Visto?

Il biondo dallo strambo ciuffo sbuffò lanciandogli un’occhiataccia. Quello però rispose con un grande sorriso da malandrino, presagio di una nuova serie di battutine a sfondo sessuale nei suoi confronti. E no, col cavolo. Era stato costretto a sopportare in silenzio ieri senza batter ciglio, ma se aveva intenzione di ricominciare a tartassarlo anche a quell’ora del mattino, avrebbe avuto pane per i propri denti.

“Non saprei, non sono io quello in crisi di astinenza.”rispose vago, sedendosi anche lui sul parapetto.

“Cosa?!” scattò immediatamente Ace “Io non sono in crisi di astinenza!” obbiettò poi abbassando un poco di più la voce per non farsi sentire dalla propria flotta che passava lì vicino in quel momento.

Di questo Marco fu pienamente soddisfatto, arricciando le labbra in uno dei suoi sorrisi non molto frequenti.

“No, guarda, hai ragione.” Ironizzò la Fenice, guardando da un’altra parte, come se il discorso per lui non avesse importanza. “A pensarci forse non eri tu quello che è fuggito come un matto da una pioggia di attrezzi da cucina, dopo aver fatto La proposta alla ragazza incontrata sulla scorsa isola.” Terminò combattendo contro il proprio istinto di girarsi e godersi l’espressione scioccata del fratellino.

“Come lo sai…?” lo sentì sussurrare dopo un po’. Accidenti doveva esserci rimasto davvero male.

“Passavo da quelle parti.” Fu tutto quello che si sentì in dovere di rispondere, continuando a guardare il lavoro svolto dai suoi con alcuni barili da risistemare in sottocoperta.

Un sospiro affranto dietro di sé gli fece capire di essere riuscito a smontare Ace, forse anche troppo. Sbuffò alzando gli occhi al cielo.

“Che ti aspettavi? Che ti accogliesse a braccia aperte nel proprio letto per poi vederti salpare la mattina seguente?” lo rimproverò allargando le braccia, vista la risposta più che ovvia. “E che devo fare, andare per bordelli?” fu la domanda a stento sibilata dal moro.

“Conoscendoti otterresti dei bei due di picche anche lì.” Concluse facendo accenno al nome che aveva dato alla propria ciurma prima di entrare a far parte della ciurma del babbo.

Dietro di lui Ace Pugno di Fuoco voltò lo sguardo imbronciandosi come un bambino, mentre poggiava la guancia su una mano, nascondendo in parte il proprio imbarazzo, causato dal ricordo dell’umiliazione subita settimane fa.

“C’era un motivo per il quale ero il capitano dei pirati di picche.” Affermò lugubre. Non era mai stato bravo con le donne. A piacere, piaceva, ma a quanto pare alle donne che incontrava non andavano a genio i tipi che volevano arrivare subito al “sodo”. Grugnì frustrato, osservando la porta della sottocoperta riaprirsi al passaggio delle infermiere, occupate come ogni mattina a stendere le innumerevole lenzuola fresche di bucato sul ponte della Moby. Eh, grande nave, grandi lavori.

All’improvviso però gli si illuminò lo sguardo per la sorpresa, nel vedere fare capolino da dietro una delle infermiere la figura fragile ed incerta della loro nuova ospite che, alla luce del giorno, strizzò per un attimo gli occhi per poi riaprirli e continuare a camminare dietro alle altre, nell’atto di trasportare anche lei un cesto di lenzuola.

Il moro sorrise come se gli si fosse illuminata la giornata, divertito nel vederla muoversi in quegli abiti troppo grandi per lei che minacciavano di caderle di dosso da un momento all’altro, rendendola deliziosamente impacciata anche per compiere il più semplice passo.

“Ehi! La tua pupilla si è fatta viva!”esclamò in direzione di Marco che, nel sentirlo, distolse l’attenzione dai propri uomini, constatando le parole del moro, ma solo per poi distogliere subito dopo lo sguardo e dare fiato ad una semplice raccomandazione.

“Non importunarla, avrai tutto il tempo per attaccare bottone a colazion- … ehi! Hai sentito quello che ho detto?!”

Troppo tardi. Il moro era già partito spedito in direzione della ragazza, saltando dal parapetto come un grillo, facendo opportunamente orecchie da mercante alle raccomandazioni del biondo.

Aaah...” Sbuffò Marco, maledicendo la testardaggine del fratellino, rimanendo seduto sul parapetto della nave per seguire meglio i suoi movimenti, pronto ad intervenire in caso di bisogno.

 

Atto 2, scena 4, Arioso snervato

Le mani mi facevano leggermente male, mentre tenevo su come meglio potevo quel cesto in vimini colmo di biancheria pulita. Come mi ero ritrovata ad aiutare le infermiere a fare il bucato non lo sapevo neppure io, ma di certo il compito non mi era per nulla facile.

Non solo la pelle tirata delle mani mi doleva, ma anche i vestiti da uomo che indossavano mi rendevano arduo l’atto di camminare in avanti.  Alla terza mancata caduta in avanti, mi accovacciai per terra con gli occhi umidi per la frustrazione: non sapevo cosa fosse peggio rimanere in cabina a deprimermi sulla mia situazione oppure rendermi ridicola di fronte a tutta quella gente.

Herupu?”

Il suono di una voce maschile mi fece irrigidire e girare piano piano dietro di me, avendo ancora in mente l’episodio della scorsa notte.

Mi apparve uno dei ragazzi che avevo visto ieri al tavolo vicino al capitano, quello moro con le lentiggini, intento ad osservarmi con un gran sorriso e con le mani poggiate distrattamente sui fianchi lasciati nudi dalla mancanza di una maglietta.

Lo guardai dubbiosa: non mi sentivo in vena di fidarmi di qualcuno su quella nave, a parte le infermiere, ma era comunque mio dovere rispondergli visto che, da quel poco che avevo capito, mi aveva chiesto qualcosa.

Helu…-pu?” provai a ripetere, ma solo per vederlo ridacchiare dinnanzi alla mia, certamente, pessima pronuncia.

Completamente afflitta e sconfitta, provai a rialzarmi rimettendo mano ai manici del cestino pronta a rialzarmi con uno slancio, ma subito vidi quel ragazzo pararsi davanti a me, mettendosi alla mia stessa altezza, accovacciandosi di fronte alla cesta.

Sumimasen , akachan ga, kimi o na houhou de hanasu. Hontouni .”

Mi imbronciai, come al solito non afferrando nemmeno una parola, capendo tuttavia che mi stava bloccando la strada di proposito. Ma perché invece di prendermi in giro non si decidevano ad aiutarmi?

Vedere quel moro lentigginoso osservarmi tutto sorridente ebbe un effetto devastante sul mio umore che ebbe un tracollo: ero piena di dolori, ospite su una nave di gente che non conoscevo, reduce da una disavventura di cui non mi ricordavo nulla, confusa, spaventata da quel gigante del capitano e non ricordavo nulla del mio passato. Lentamente sentii la gola stringersi e tutti i miei buoni propositi di rialzarmi e raggiungere l’infermiera bionda al più presto, scomparvero non appena un fiume di lacrime mi sgorgò dagli occhi peggio di un fiume in piena.

Feci appena in tempo a vedere il ragazzo davanti a me sbarrare gli occhi per la sorpresa, prima di rannicchiarmi in posizione fetale sul pavimento in legno del ponte, dando sfogo a tutto il mio malumore con rumorosi singhiozzi e gemiti incontrollati.

Atto 2, scena 5

“Che cavolo hai combinato?” chiese esasperato Marco avvicinandosi a lui, tutto occupato a cercare di calmare la naufraga, colta improvvisamente da quella che pareva essere una crisi isterica.

Ace si voltò con espressione disperata verso il biondo.

“E io che ne so! Volevo solo darle una mano quando all’improvviso si è messa a piangere!” si giustificò Pugno di Fuoco, ancora chino di fronte alla ragazza che tremante aveva nascosto la testa sulle ginocchia, serrandovi attorno le braccia.

Intorno a loro intanto cominciavano a raggrupparsi altri membri della ciurma, incuriositi dalla scena.

“Ehi, comandante, ma cosa le ha fatto?” “Non le avrà fatto qualcosa di male spero!” “Guardate come trema!”

A quelle voci la faccia del moro divenne un po’ rossa: sentendosi additato come causa principale del pianto disperato della loro piccola ospite. Lanciò una rapida occhiata alle infermiere poco più lontane che però cominciavano ad innervosirsi a causa di quell’improvviso trambusto. Si ritrovò a sudare freddo.

Come avrebbe spiegato a quella pazza di Betty che lui non aveva fatto nulla di male?!

Disperato e messo alle strette dai fatti, Ace fece la prima cosa che gli venne più naturale fare.

“Non stare lì impalato! Aiutami!”

Imbarcare il povero Marco sulla sua stessa barca.

 

Fine prima parte Atto Secondo

 

Io vi adorooo!! Indiscriminatamente e senza distinzioni! *_* neanche nei miei sogni più arditi mi sarei immaginata di ricevere più di una recensione al primo capitolo! Questo è tutto quello che sono riuscita a sfornare per ora dell’Atto 2, ma anche se non troverete proprio tutto quello che mi avete proposto non vi preoccupate! L’atto è solo a metà strada! Eheh!

Ed ora il tema per la continuazione della storia!

Nome e identità della dispersa

Si si! Avete capito benissimo! Potete cominciare a proporre un nuovo nome per la protagonista e un’identità (chi è, da dove viene) anche se qualcuno l’ha già fatto… >_> Si maya_90! Parlo di te! ^^

Non preoccupatevi sulla coerenza e roba varia, scrivetemi quello che vi viene in mente! A mettere insieme le mie idee con quelle vostre ci penso io! XD

Detto questo vi lascio! Amori miei! *_* No, non sono pazza. Solo esaltata. Bye bye! XDD

Su richiesta di HUNTERGIADA…

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Herupu?  >  aiuto?

Sumimasen , akachan ga, kimi o na houhou de hanasu. Hontouni.  >  Scusami, piccola,ma la tua pronuncia è davvero strana. Sul serio.

Ohi! Gaanatahamada oki teiru ?  >  Ehi! Ma sei ancora sveglia?

Nan-! Chotto Matte!  >  Cos-! Aspetta un attimo!

 

 

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Capitolo 3
*** Atto 2 -seconda parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 2 -parte seconda-

 

Atto 2, scena 6, Arioso senza nome

Ero frastornata. Tutto quello che volevo era scomparire in quel preciso istante, magari avvolgendomi in  una di quelle lenzuola di cui era colma la mia cesta e dissolvermi sotto di essa.

Le lacrime non facevano che scendermi copiose lungo le guance una dietro l’altra, dandomi a malapena il tempo di respirare tra i singhiozzi.

Dio che vergogna.

Dovevo essere davvero penosa e il solo pensiero non faceva che accentuare di più il mio pianto.

Oltre il suono dei miei stessi lamenti, sentivo attorno a me il vociare di altre persone, e tra esse due più vicine, indice che qualcuno mi si era avvicinato accanto al moro di poco prima. Francamente però non mi interessava affatto quello che si stessero dicendo, né tantomeno chi fossero. Ne avevo abbastanza. Volevo essere lasciata sola. Ero arrabbiata.

Sì, proprio quello: arrabbiata, ma più con me stessa che con loro, a causa della mia incapacità di reagire alla situazione. Non sapevo da che parte girarmi. La mia lingua era troppo diversa alla loro e anche sforzandomi non sarei riuscita a tirare fuori un ragno da un buco.

Quel pensiero non fece che farmi stringere ancor più ostinatamente le braccia attorno alle ginocchia, facendo mici affondare con più decisione la testa . Non avevo alcuna intenzione di alzare gli occhi e, oltre a mostrare a tutto l’equipaggio, radunatosi senza dubbio attorno a me, le mie lacrime, rivedere il sorrisetto del moro.

No… avrei finito col deprimermi ancor di più.

Percepii qualcuno avvicinarsi a me, sovrastandomi con la propria ombra, e dirmi qualcosa in quella strana lingua di cui non capivo una sillaba, ma non mi mossi di un millimetro, decisa a rimanere rannicchiata su me stessa anche a costo di metterci le radici su quel maledettissimo ponte.

E dire che di notte era così bello quel posto… pensai quasi senza accorgermene, prima di sentire qualcosa spingermi all’indietro premendo semplicemente al centro delle mie braccia incrociate.

Il mio equilibrio vacillò pericolosamente facendomi cadere sul ponte di schiena con un lieve tonfo, costringendomi a sciogliere il mio corpo dalla posizione nella quale mi era costretta per evitare di ritrovarmi con la colonna vertebrale dolorante per il colpo.

Mentre attutivo la caduta rivolgendo i palmi delle mani all’indietro ebbi l’occasione di vedere chi fosse il responsabile di quel gesto.

Spalancai gli occhi, ancora un po’ umidi, stupita ed a bocca leggermente spalancata.

Il simbolo tatuato sul torace fu la prima cosa che mi apparve, mettendomi addosso una strana ansia, poi venne la belle abbronzata, l’espressione mezza annoiata e poi i capelli biondi dalla forma strana.

Davanti a me c’era lo strano ragazzo che mi ero messa a guardare durante la mensa.

Il respiro mi si bloccò in gola, rischiando di soffocarmi a causa della prolungata mancanza di ossigeno, poi le guance mi si riscaldarono di botto per l’imbarazzo.

I…i..” balbettai non capendo neppure io cosa volessi dire a quello strano individuo che ora, affiancato dal moro che tutto preoccupato mi guardava in aspettativa, mi osservava con occhi socchiusi ed attenti.

Proprio come quelli di un rapace.

Un brivido mi percorse la schiena a quella similitudine venutami spontanea alla mente.

Lentamente lo vidi chinarsi davanti a me, con un braccio poggiato su un ginocchio flesso, mentre l’altro si piantava per terra, dandogli appoggio.

Io repressi l’istinto di alzarmi e scappare via verso una delle infermiere, mentre sentivo il corpo tornare a tremare.

O namae wa nani desu ka?”

Sul mio viso si stampò un’espressione allibita, mentre il mio corpo smetteva di colpo di tremare, vinto dalla sorpresa. Mi aveva appena chiesto qualcosa?

Ohnamae… ua…?” balbettai in risposta non capendo bene.

Vidi il biondo sospirare leggermente scocciato e questo mi fece corrucciare infastidita: che ci potevo fare io se parlavamo lingue diverse?  Stavo appunto per rispondergli, inutilmente, per le rime prima di vederlo alzare la testa con decisione ed indicare se stesso con un dito inchiodandomi con il proprio sguardo fisso su di me.

Watashi.” Disse semplicemente per poi spostare il proprio dito indice da lui a me.

Anata.” Disse poi.

Rimasi bloccata ad osservarlo ripetere l’azione un paio di volte, poi, finalmente capii.

Le mie labbra si distesero automaticamente in un sorriso nel capire quello che stava succedendo.

Mi stava insegnando la lingua! E io avevo capito! Avevo capito! Il cuore mi saltò in petto per l’entusiasmo mentre mi rialzavo da terra mettendomi a carponi per sporgermi verso di lui con occhi trepidanti.

Mi indicai con un dito come aveva fatto lui “Uàtashi” ripetei con la mia solita pessima pronuncia, facendogli capire che la parola indicasse me stessa “Io” per poi indicare lui con la stessa mano “Anàta” che senza dubbio stava a significare “Tu”.

Vidi le sue labbra, puntellate da una leggera barbetta, piegarsi appena con qualcosa di molto simile alla soddisfazione, prima che la voce dell’altro ragazzo, il ragazzo dai capelli neri ed il cappello arancione, intervenisse di nuovo, rivolgendosi a quello davanti a me.

Maruko wa subarashii! Anata ga shitte morau koto da~tsu ta no!  disse ridacchiando dando al biondo un paio di pacche sulla spalla alla quale quest’ultimo rispose con uno sbuffo conciato da un mugugno

Īe, anata mo suru oroka da.

Il moro ci rimase un po’ male, visto che il suo sorriso allegro evaporò come se non fosse mai esistito lasciando dietro di sé un’espressione delusa ed imbarazzata. Per un attimo mi fece addirittura tenerezza, vedendolo imbronciarsi come un bambino dispiaciuto. Quella visione mi fece quasi vergognare. Che stupida, mi ero comportata peggio di una bambina e lui forse non voleva fare altro che tirarmi su il morale.

Lentamente alzai la testa su di lui, accennando con la mano ad un timido gesto atto a richiamare la sua attenzione.

Ehm…” balbettai, vedendo tutti e due concentrare la propria attenzione su di me “Senti… mi dispiace… per come mi sono comportata.”

Vidi sul volto lentigginoso apparire un’occhiata interrogativa. Da lì capii che continuando in quel modo non sarei andata da nessuna parte. Sospirando unii le mani davanti al viso, abbassandolo in segno di umiltà, come se lo stessi pregando.

“Mi dispiace.” Ripetei con più convinzione, sperando che mi avessero capito.

Attorno a me si levò un boato di esclamazioni eccitate, facendomi ricordare di essere al centro dell’attenzione di almeno metà ciurma. Sentii il viso farsi quattro volte più caldo del normale e sentii gli occhi inumidirsi di nuovo: mi vergognavo da morire.

Una mano bronzea del biondo mi ondeggiò davanti agli occhi richiamando la mia attenzione su di lui.

Di colpo mi ritrovai di nuovo inchiodata dai suoi occhi scuri che, come se riuscissero a perforarmi da parte a parte, mi bloccarono facendo scomparire tutto quello che mi circondava, incentrando la mia attenzione su di lui che ora mi osservava come se mi stesse avvertendo di starlo ad ascoltare.

Lo vidi indicarsi di nuovo come prima

Watashi wa Maruko.” Disse semplicemente facendo cadere un momento di silenzio tra di noi.

“Mar..co?” ripetei la nuova parola. Solo pochi istanti dopo ebbi l’illuminazione. Il nome! Mi aveva detto il nome.

Antàta Marco!!” esclamai indicandolo di nuovo, non riuscendo a fare a meno di sorridere a labbra strette nel vederlo annuire leggermente. Quindi, ricapitolando uatashi= io; anàta = tu, Marco era il suo nome… e di conseguenza doveva rappresentare il verbo essere o qualcosa di simile! Ero così felice da dimenticarmi per un attimo di dargli retta.

Avevo capito! Questa era la cosa più bella mi potesse mai capitare: se prima il mio umore era a livelli bassissimi, in quel momento sfiorava il cielo!

Oh, sentivo che mi sarei messa a volare. Ne ero certa.

Anata wa…?”

Fu quella domanda a rovinare tutto. Mi sentii come se mi avessero afferrato per le gambe e rigettata sulla fredda  e dura superficie della realtà, infrangendo quell’effimera sensazione di benessere che poco prima mi aveva invasa.

Mi stava chiedendo il mio nome.

Credo che il mio repentino cambio di umore non passò inosservato, visto come le loro espressioni cambiarono, facendosi più attente e preoccupate di prima.

Io abbassai la testa, sentendo lo sconforto assalirmi di nuovo, appesantendomi le spalle di un nuovo ed invisibile peso rinnovato dalla consapevolezza che non era cambiato nulla. Assolutamente nulla. Ero di nuovo punto e a capo.

Scossi la testa più forte che potei, combattendo contro la rigidità del mio stesso collo.

“Non lo so.”

 

Atto 2, scena 7

“Cosa?! Non ha nome?!” chiese incredulo Satch pochi minuti dopo, guardando stupito la figura piccola ed indifesa della naufraga, fatta sedere su uno dei barili del ponte, mentre lui, Vista e Jaws, ascoltavano a bocche spalancate le ultime scoperte di Marco ed Ace riguardo lo scricciolo.

Il biondo guardò di sottecchi la ragazza tenere ancora bassa la testa con fare quasi dispiaciuto, mentre attorno a lei si erano riuniti i 5 comandanti di Edward Newgate, giunti poco dopo la fine del suo pianto dettato dall’ isteria. Lo stesso fece Ace, messosi più vicino degli altri, scompigliandole affettuosamente i capelli con una mano nella speranza di farla sorridere o, per lo meno, reagire a quella situazione.

“Vuoi dire che ha perso la memoria?” domandò per ottenere ulteriore conferma Jaws, scoccando un’occhiata alla ragazza che, alla vista dell’espressione poco rassicurante del comandante in terza, fece apparire una lacrimuccia nell’angolo dell’occhio sinistro, iniziando a tremare come una foglia.

Jaws, smettila di guardarla.” Gli ordinò laconico Marco, alzando gli occhi al cielo come se fosse prossimo all’esasperazione.

“Già, non vorrai mica che si rimetta a piangere.” Lo spalleggiò Pugno di fuoco, approfittando tuttavia della situazione per iniziare a coccolare la ragazza, stringendosela al petto nudo per continuare ad accarezzarle la nuca.

“E tu non farti strane idee, Ace.” Intervenne prontamente la Fenice “Resisti fino alla prossima isola per certe cose, ma lei non si tocca.” Decretò infine, incrociando il sorriso malandrino del moro.

“Eh? Di che stai parlando? Io non sto facendo nulla!” disse con tono innocente. Subito dopo la ragazza gli si divincolò dalle braccia, ritornando seduta come prima e, Marco ne era sicuro, un poco rossa in viso.

Sbuffò un poco sollevato e si voltò nuovamente verso gli altri, che intanto avevano assistito in silenzio al loro rapido scambio di battute.

“Comunque mi sembra di capire che la piccola ha perso la memoria.” Si intromise Vista avvicinandosi di poco alla diretta interessata. Questa si ritrasse di poco all’indietro, facendo scattare confusa gli occhi verso gli altri, come per chiedere loro che cosa stesse facendo il baffone.

“Sono riuscito a farle imparare watashi wa e anata wa, ma quando le ho chiesto il nome ha cominciato a rispondermi scuotendo la testa.” Spiegò meglio il biondo.

Bhe. È già qualcosa.” Disse Satch. “Anche se a perso la memoria, non credo che per papà sarà un gran problema. Prima o poi dovrà ricordarsi chi è, no?”

“E fino ad allora che si fa?” domandò un poco scontroso il più muscoloso tra loro.

“Le diamo un nome, no?”

Tutti quanti si voltarono increduli verso Ace che, con un sorriso se possibile ancor più largo e birichino del solito, stava dando dei piccoli buffetti sulla testa della ragazza, manco fosse stata un cuccioletto. Dal canto suo la naufraga però non fece durare quella situazione molto a lungo e con un piccolo verso di disappunto cacciò via la mano del pirata, saltando giù dalla botte e rannicchiarsi ai piedi di quest’ultima, lanciandogli un’occhiataccia.

Gli altri risero, mentre Ace allungava il muso per lo stupore.

“Ehi, piccola, mica ci sarai rimasta male!” disse il moro alzandosi dal barile e sporgendosi per riuscire ad incontrare il volto della ragazza ancora un poco imbronciato.

Eddai tesoro, mi dispiace.”

A quelle parole, pronunciate in maniera quasi perfetta, la ragazza alzò lo sguardo stupita.

“Eh sì, ho imparato come si dice. Contenta?” si rallegrò un poco Ace vedendo la piccola smettere di evitare il suo sguardo, ottenendo però di rivederla voltarsi dall’altra parte.

“È inutile Ace, sembra che proprio che non le piacciano i tuoi modi.” Gli disse Marco ridacchiando sotto i baffi.

Il moro sbuffò, portandosi dietro la nuca le mani.

“Uffa.”

“D’accordo ragazzi, basta con le idiozie e pensiamo a che nome darle.” Concluse il biondo, dando inizio a quella che si sarebbe potuta chiamare una lunga ricerca.

“Che diamine le avete fatto?!”

Una ricerca interrotta dalle strilla di Betty.

 

Atto 2, scena 8, Arioso spiacente

Alla fine era arrivata un’infermiera a portarmi via. Non seppi bene se dirle grazie o meno, visto che appena si accorse che i miei occhi erano un pochino gonfi, cominciò a sgridare tutti e cinque gli uomini che si erano fermati attorno a me, senza fare eccezioni.

Non sapevo perché, ma un po’ mi dispiaceva per loro. In fondo non mi avevano fatto nulla di male. Ero stata io a reagire male alle parole, incomprensibili, di quel moro e, anche se a volte mi dava fastidio come mi trattava, non mi veniva da odiarlo.

Guardai da lontano sia lui che Marco, l’unico di cui conoscevo il nome, strofinarsi la testa dove l’infermiera dai grandi occhiali gli aveva colpiti senza pietà, facendo uscire dei piccolissimi bernoccoli.

Ancora non sapevo come classificare il biondo che mi aveva insegnato un poco la lingua. All’inizio mi era apparso un poco pericoloso, con quel suo sguardo inespressivo e serio,ma…

Sorrisi nel vederlo lamentarsi insieme agli altri, dimostrando un’espressione diversa da quella che gli avevo visto indossare fino ad allora. Era davvero…

La figura formosa ed austera dell’infermiera mora dagli occhiali mi si parò di fronte.

Daijobu. Chiisana ichi?” chiese con tono premuroso, per nulla simile a quello che aveva usato con i cinque uomini.

Non sapevo cosa mi avesse detto, eppure mi parve di capire che mi stesse chiedendo come stavo.

Daiijobu era la seconda volta che la sentivo, che strana parola. Me la annotai in caso mi potesse servire in futuro.

S-sì, sì. T-tutto bene.” Risposi un poco incerta “Ehm, Anàta vuà…?” cercai di dire facendo scempio della parola in meno di un secondo. Alla vista dell’espressione sconcertata dell’altra abbassai la testa sconsolata. Non ce la potevo fare. Ero pessima.

Singhiozzai appena, incavando la testa nelle spalle, ma poi senti le belle mani dell’altra prendermi dolcemente la testa dai lati e rialzarmela, costringendomi a guardarla in viso. La vedi stendere le labbra in un sorriso comprensivo e poi dirmi con tono dolce.

Watashi wa Betty, chiisana ichi.Hajimemashite.

Realizzai che mi aveva detto il proprio nome solo dopo un attimo di smarrimento, ma quando finalmente riuscii ad assemblare le parti mi resi conto di aver non solo capito che si chiamava Betty, ma che la parola che aveva detto alla fine come l’aveva pronunciato mi appariva come un “piacere di conoscerti.”

Mi buttai letteralmente al collo della signora, più alta di me di qualche centimetro, cominciando a saltellare e a ripetere sorridendo Hajimemashite come una scema, storpiando la pronuncia in tutti i modi possibili ed immaginabili, attirando su di me l’attenzione di tutti.

Io non me ne curai, anche se sentii qualcuno mettersi a ridere: ero troppo contenta. Liberai il povero collo di Betty, ancora un poco provata dal mio assalto per reagire, quando all’improvviso, lanciando una rapida occhiata a Marco che da lontano si era messo ad osservarmi insieme agli altri, mi venne in mente un’idea.

“Betty?” richiamai l’infermiera, facendole segno di avvicinarsi di più a me per chiederle una cosa.

 

Atto 2, scena 9

Satch stava ancora sorridendo, dopo aver visto la piccola saltellare al collo di Betty, ripetendo continuamente “Piacere”. Era stata davvero una scena degna di nota, specie il sorriso che la ragazza aveva mostrato senza volere all’intera ciurma.

Sospirò. Era la prima volta che la vedeva sorridere, da quando l’aveva vista in mensa il giorno prima e doveva ammetterlo che era stata una bella visione vedere quel faccino triste accendersi come un lumino per qualche semplice parola.

“I tuoi insegnamenti cominciano a dare i loro frutti, eh, Marco?” disse Vista, rivolto al biondo che intanto si era seduto sul parapetto insieme affiancato da Ace. Davvero, quei due erano inseparabili. Una coppia eterogenea capace di devastare con un sol gesto un’intera flotta di navi combattendo fianco a fianco e subito dopo cominciare a battibeccare come due bambini ansiosi di dimostrare la propria superiorità all’altro. Ma alla fine finivano sempre per equivalersi.

Marco si limitò ad annuire alle parole del comandante in quinta senza esternare alcuna opinione in proposito, ma Satch sapeva bene che il biondo nel profondo si sentiva soddisfatto di essere riuscito a rendere felice quello scricciolo. Anche se era molto bravo a non darlo a vedere, i suoi fratelli sapevano quanto buon cuore si celasse sotto quella scorza da duro che Marco si premurava di indossare ogni giorno.

 “Già, ma penso che ci sarà parecchio lavoro da fare ancora.” Si limitò a dire il biondo dallo strano ciuffo, alzandosi con un colpo di reni e cominciando ad allontanarsi sotto gli sguardi incuriositi degli altri.

“Ehi, ma dove vai? Non dovresti continuare ad insegnare qualcosa allo scricciolo?” domandò Ace fermando l’avanzata di Marco che si voltò verso di lui con la solita aria annoiata.

“Ti ricordo che ci eravamo organizzati in modo che tu le facessi vedere la nave al mattino e io le insegnassi la lingua al pomeriggio, ricordi?”

A quelle parole sulla testa di Ace parve accendersi una lampadina.

“Ah. Vero.”

“Ti consiglio di non addormentarti mentre stai con lei, la spaventeresti.” Si premurò di aggiungere il biondo, ricominciando a camminare.

“Forza andiamo a mangiare.” Disse infine, facendo ricordare improvvisamente allo stomaco di Ace quanto il cibo gli mancasse.

Yuhuu! Si mangia!” esultò Pugno di Fuoco mettendosi subito al fianco di Marco, tutto eccitato per l’imminente banchetto.

Marco si lasciò sfuggire un sorrisetto all’infantilità del fratellino, smettendo di guardare un attimo davanti a sé per poi ritrovarsi la strada bloccata da nientemeno che la naufraga.

“Uhm?” fece Ace inclinando la testa da un lato per l’improvvisa apparizione e il biondo accanto a lui si accigliò leggermente nel vedere l’espressione leggermente corrucciata e decisa della ragazza che spasmodicamente teneva il tessuto della sua camicia fermo al petto, come per darsi coraggio.

Tutti e cinque i comandanti la videro alzare lo sguardo su Marco e cominciare a parlare con una pronuncia non del tutto esatta ma abbastanza comprensibile alle loro orecchie.

Signor Marco… G-razie mille.” Concluse inchinandosi leggermente in avanti per poi sgattaiolare via come un cerbiatto impaurito tra le braccia accoglienti di Penelope e Betty, che intanto sorridevano alle espressione inebetite dei cinque pirati più temuti al mondo.

“La piccolina voleva dirle grazie, comandante Marco!” esclamò Penelope dande qualche amorevole pacca sulla schiena della piccolina.

Fu la risata a stento trattenuta di Ace a scuotere l’attenzione degli altri quattro.

“Che hai da ridere?” chiese con il solito tono burbero Jaws vedendo le spalle del moro venire scosse da dei singhiozzi soffocati, mentre quest’ultimo si copriva il viso con una mano, cercando di mettere insieme una frase.

“Si è tenuta … la maglietta per evitare … che le vedessimo … il seno!”

Non furono tanto quelle parole a lasciare basiti gli altri quattro, ma la loro veridicità, visto che tutti quanti solo in quel momento si accorsero che le manine della ragazza avevano tenuto più tessuto del dovuto, probabilmente in vista del dovuto inchino.

Marco dopo un attimo di stupore, voltò lo sguardo sbuffando, non sapendo come definire quella sensazione che gli aveva stretto lo stomaco, non appena si era visto costretto a dar ragione al fratellino.

“Ma non pensi ad altro tu?!” chiese scocciato il biondo, cominciando ad allontanarsi da Portuguese D. Ace il più presto possibile, prima che cedesse all’istinto di dargli un bel pugno in testa.

“Ma è vero!” obbiettò l’altro correndogli dietro, senza smettere di ridere “So che avresti preferito non saperlo, fratello! La prossima volta non te lo farò notare! Giuro.. ptff.”  Si fermò prima di rischiare di scoppiare in una fragorosa risata. Quanto si divertita a prenderlo in giro.

Era talmente occupato a tenersi la pancia che non si accorse del fatto che Marco si era termato davanti a lui.

“Fammi un favore Ace.”

“Uh?”

“Alla prossima isola, cercati un bordello.”

Fine secondo parte Atto Secondo

 

Finita la seconda parte!  Sì lo so non è un granché come contenuti ed appigli per eventuali proposte, ma ho comunque delle buone notizie!! Primo, il vero nome l’ho già scelto e parte del background sono riuscita a costruirlo ora devo solo scegliere tra un paio di opzioni. Allora, riguardo al nome nuovo in maggioranza avete suggerito Momo (fiore di pesco) e ho deciso di lasciarvi questo capitolo per decidere se questo nome vi va bene oppure vi andrebbe un altro.

Ringrazio KH4, Juli, angela90, maya_90 e Mishka per aver aderito a questo mio pazzo esperimento! XD In particolare vorrei tranquillizzare maya_90 riguardo il suo suggerimento del nome della naufraga: tranquilla non l’ho dimenticato ma riutilizzato nel background dandogli una certa importanza.

A proposito del background c’è una situazione di pareggio per ben tre proposte che dovrò cercare di mettere insieme al meglio.

E adesso passiamo alla domanda … bhe … in parte c’è la questione del nome e poi ci sarebbe un’altra cosina (giocherella con gli indici):

Quale altro personaggio di One piece volete che appaia?(tipo Shanks,..si lo so lui è immancabile … oppure qualche altro come Smoker una delle Supernove ecc.)

Insomma, vediamo cosa si può fare! ^^

Avverto che dopo di questa domanda penso che nell’Atto 3 non ci sarà alcuna domanda per far sviluppare la storia fin dove mi avete aiutato con le vostre idee. Tranquille, a questo punto vi potrà sembrare che sto solo prendendo tempo perché sono in alto mare, ma se vedeste la scheda che mi sono fatta sulla nostra ignota vi ricredereste subito!

Detto questo alla prossima! Kiss kiss! Vi adoro!

Su richiesta di HUNTERGIADA…

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

O namae wa nani desu ka?  >  Qual è il tuo nome?/ Come ti chiami?

Daijobu. Chiisana ichi?  >  Tutto bene, piccina?

Watashi wa Betty, chiisana ichi.Hajimemashite.  >  Io sono Betty, piccina. Piacere di conoscerti.

 

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Capitolo 4
*** Atto 4 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 4

Atto 4, scena 1, Arioso del passato

Dove sono?”

La mia voce risuonò un paio di volte in quell’immenso spazio buio, ritornandomi distorta e  debolmente ripetuta, come se i limiti di quella strana stanza nera fossero troppo distanti. Mi guardai intorno spaesata, ma era come se non mi fossi mossa, dato che niente, a parte il nero del nulla, si mosse nei miei occhi. Mi cinsi le spalle con le mani, sentendole tremare debolmente sia per la paura sia per il freddo, e gemetti sottovoce nel tentativo di soffocare un singhiozzo disperato.

Poi un rumore. L’eco di una risata infantile mi scosse l’anima facendomi scattare la testa da dove sembrava fosse partita.

C’è qualcuno?! chiesi a voce strozzata, ottenendo in risposta un’altra risatina.

Dove sei?

La mia domanda ottenne in risposta una piccola luce, un’ombra chiara, talmente sfuocata da sembrare un miraggio, che rappresentava una figura bassa e chiaramente umana che ondeggiava una mano in alto, come a richiamare la mia attenzione.

Mossi istintivamente un passo verso quella strana apparizione, ma, anche dopo dieci passi o più, notai che quella rimaneva sempre nello stesso punto, come se non mi fossi mai mossa di un millimetro dal punto di partenza.

Chi sei?!

Chi sei?

Trattenni il respiro.

Non era la mia voce quella che era ritornata indietro.

Percepii la mia mascella cadere leggermente per lo stupore, mentre un’altra serie di risate proveniva da quell’ombra indefinita che a poco a poco cominciò ad allontanarsi, trasformandosi pian piano in un puntino luminoso.

Aspetta!!gridai cominciando, inutilmente a correre, allungando un braccio verso di lui.

E mentre quella figura si faceva sempre più piccola la sentii dire qualcosa, un richiamo, un nome offuscato dalla distanza che ci divideva e da una foschia grigia apparsa dal nulla.

Mi vennero le lacrime agli occhi, capendo che quello doveva essere il mio nome. Cercai di allungare il passo, ma lo stesso sembrava che non mi potessi muovere.

Non andare! Ti prego! Non andare via!”

Un’altra risata, musicale.

Sentii un nome solleticarmi la gola ed il retro della lingua, ma prima che potessi pronunciarlo il miraggio era già scomparso ed una forza invisibile mi cinse le spalle, tirandomi all’indietro, richiamandomi a sé, ripetendo quasi ossessivamente una parola ben definita ed udibile alle mie orecchie.

Momo!!”

 

Atto 4, scena 2

Un altro scossone mosse la grande Moby Dick, facendone tremare l’intera struttura a un ritmo regolare e sostenuto che stava ormai andando avanti da un bel po’, bloccando l’intera ciurma riunita nella mensa sul pavimento, impossibilitati da rimanere in piedi.

“Ma che diavolo succede??!!” urlò Satch mezzo inginocchiato accanto al tavolo al quale pochi istanti prima era stato tranquillamente seduto.  Un altro tonto terribile e proveniente dal passo lo fece imprecare a mezza voce, peggiorando le urla acute e terrorizzate delle infermiere, nonostante tra quelle emergessero i moniti autoritari di Betty che cercava di mantenere l’ordine tra le colleghe.

Il comandante in quarta lanciò uno sguardo al padre, accigliato almeno quanto lui con la mascella contratta in una smorfia a dir poco furiosa che capitolava da sotto gli enormi baffi.

“Papà!!” lo richiamò il biondo, aggrappandosi meglio al ripiano del tavolo con una mano, tentando si rialzarsi “Che cos’è-?!”

Un altro scossone lo fece ricadere in ginocchio.

Dannazione! Pensò, non riuscendo a capire da che parte cominciare.

“Momo!!” La voce di Penelope, giunta chiara alle sue orecchie in mezzo a tutto quel trambusto, gli fece alzare gli occhi verso il tavolo dove sia Ace che Marco si erano radunati a pace fatta per decidere il nome dello scricciolo. Non gli servì molto tempo tuttavia, prima che si accorgesse che il suddetto scricciolo era steso inerme e privo di conoscenza per terra, circondata protettivamente dai suoi due fratelli e da Penelope, che, serrando gli occhi tremanti, proteggeva la testa della piccola con le proprie mani e braccia.

Quella vista lo fece istintivamente scattare in avanti, dirigendosi verso il gruppetto colto da una strana ansia, approfittando di una pausa di quei tremendi tonfi cadenzati.

Giunse a loro scivolando proprio mentre la nave venne scossa da un altro sussulto, accovacciandosi proprio accanto alla figura abbandonata sul pavimento della ragazza.

“Che cosa le è successo?!” esclamò in direzione di Marco, più accigliato del solito mentre osservava con fare preoccupato la naufraga.

“Momo!!” ripeté intanto Penelope in direzione della ragazza, rimanendo a carponi sul pavimento con gli occhi sbarrati per l’apprensione, dandogli a capire di non aver nemmeno percepito il suo arrivo.

“Che cosa le è successo??!!” ribadì impaziente Satch, riuscendo ad ottenere solo l’attenzione del comandante in prima, le cui tempie erano percorse da un leggero strato di sudore, mentre Ace continuava a guardare la situazione critica della ragazza, accigliandosi visibilmente.

“È svenuta poco prima che la nave cominciasse a tremare!” gli rispose in breve il biondo dallo strano ciuffo guardandolo negli occhi solo per un istante per poi tornare ad osservare il volto apparentemente rilassato dello scricciolo.

Il comandante in quarta mandò un paio di bestemmie in aria ad un’ennesima scossa, valutando quanto quella situazione si stesse facendo complicata.

“Papà!!” disse l’uomo dal pizzetto nero, voltandosi nuovamente verso il capitano della nave, messosi miracolosamente in piedi con ancora tutte le flebo attaccate al proprio corpo nonostante il tremore che faceva ondeggiare pericolosamente la sala mensa.  “Cerchiamo di salire sul ponte principale e vedere cosa succede!!” disse ottenendo dal babbo un semplice segno di assenso con il volto.

“Ace!” fece poi in direzione del moro, attirandone l’attenzione “Prendi lo scricciolo! Lo portiamo sul ponte! Ha bisogno di aria aperta!”

Gli occhi neri accigliati del ragazzo vennero percorsi da un’ombra di incertezza: evidentemente non era affatto convinto della decisione dell’altro.

“Sbrigati!” sbottò prontamente Satch, scuotendolo quel tanto da fargli afferrare la ragazza e mettersela in spalla con un movimento attento e deciso ed un sibilo contrariato.

“Bene. Andiamo.” Annuì Marco, alzandosi appena per poi voltarsi  verso l’uscita della stanza, seguito sia da loro tre, Penelope compresa,che dal babbo, che gli seguiva a ruota.

 

Atto 4, scena 3, Arioso del ritorno alla realtà

Fu come se dopo che quelle mani invisibili mi ebbero attirate a loro, avessi cominciato a galleggiare placidamente nel vuoto, avvertendo a poco a poco i miei sensi acutizzarsi secondo dopo secondo, finché le mie palpebre non si schiusero al fastidioso contatto della luce del sole.

Non fu la luce del giorno però a farmi sbarrare terrorizzata gli occhi, ma uno scossone terribile che fece sobbalzare il mio corpo disteso a terra , strappandomi il lusso di chiedermi come mai fossi svenuta.

Mi girai di fianco, impuntando una mano sul pavimento in legno nel tentativo di darmi sostegno, guardandomi attorno con il cuore che mi batteva febbrilmente per il violento risveglio.

Ero sul ponte principale e la gente che insieme a me stava lì era in preda al caos più totale, urlando e correndo da una parte all’altra dell’imbarcazione sporgendosi dal parapetto cercando qualcosa.

Inghiottii un groppone di saliva.

Che cosa stava succedendo?

Momo!” fece una voce dietro di me che riconobbi subito come quella di Penelope.

Mi voltai, incontrando gli occhioni blu ed apprensivi dell’infermiera che, senza perdere tempo, mi posò le mani sulle spalle, scuotendomi leggermente.

Momo! Daijobu desu ka?!” esclamò lei lasciandomi un poco sorpresa.

Momo? Mi aveva appena chiamato Momo?

Stavo per chiederle cosa fosse quel Momo quando un’altra scossa non ci fece letteralmente cadere all’indietro, allontanandoci l’una dall’altra. Mi ritrovai a scivolare sul pavimento della nave, mentre il ponte si inclinava sotto di me, lasciandomi letteralmente senza parole.

Guardai ad occhi spalancati Penelope osservarmi terrorizzata, mentre lei si teneva ad una cima di sicurezza di uno degli alberi della nave.

Non sapevo cosa pensare: le urla, le scosse, il ponte che si inclinava sotto le mie mani che cercavano con le unghie qualche appiglio. Attorno a me il mondo si stava muovendo ad una velocità spaventosa, non lasciandomi quasi il tempo di respirare. Accanto alla mia testa sfrecciò qualcosa. Un barile, che dal rumore intuii che si andò a fracassare sul parapetto della nave, facendomi arrivare alle narici l’odore pungente della polvere da sparo.

Una fitta alla testa mi colse all’improvviso e le mani mi scattarono istintivamente alle tempie, lasciandomi così senza quel minimo di appiglio che le mie dita erano riuscite a darmi su quella superficie scivolosa in legno.

Strabuzzai gli occhi capendo il mio errore proprio mentre il mio corpo cadeva all’indietro, cominciando a precipitare nel vuoto. Il mio cervello si preparò al dolore, che sarebbe presto arrivato con lo scontro tra il legno massiccio della ringhiera del ponte e la mia schiena, ma poi…

Momo!!

…sentii qualcosa stringermi forte la vita, bloccando la mia caduta.

I miei occhi videro il mondo sottosopra con il cielo al posto del mare e viceversa, mentre ci mettevo più tempo del dovuto a capire cosa stesse accadendo.

Forzai la testa, sollevando la in modo da guardare chi avesse bloccato la mia caduta e… incontrai gli occhi scuri e neri di Ace che mi osservavano contratti da una smorfia accigliata e preoccupata.

Aveva un braccio attorno alla mia vita, tenendomi sottobraccio con facilità che di getto definii sorprendente, mentre l’altra era artigliata letteralmente al ponte.

Fu nel guardare meglio la suddetta mano che mi accorsi subito di uno sconvolgente particolare: era letteralmente attorniata da delle fiamme che zampillavano come lingue arancioni tra le dita, bruciacchiando ed annerendo la superficie in legno inclinata, senza però provocare alcun danno alla sua mano.

Ritornai ad osservarlo negli occhi allibita e senza parole.

Non capivo.

Perché nel vedere la mano di Ace farsi di fuoco avevo sentito il cuore gonfiarsi di … sollievo?

 

Atto 4, scena 4

Ace osservò gli occhi di Momo allargarsi alla vista della sua mano per un istante, prima di distogliere lo sguardo da lei, puntandolo verso l’alto, dove Marco volteggiava attorniato dalle proprie fiamme azzurre con le braccia tramutate in un paio di ali inquiete al soffio dell’aria circostante.

“Che cazzo sta succedendo??!!” sbraitò il moro, mentre il fratello, di ritorno dal suo rapido volo di perlustrazione, si aggrappava all’albero maestro della nave con una mano per poi lasciarsi scivolare verso i due, attirando così l’attenzione della ragazza che, ancora silenziosa, li osservava ammutolita.

“Un Re dei Mari!” rispose a voce alta il biondo cercando di mantenere la calma e di non guardare la ragazza che, con la confusione ben visibile nei propri occhi, rischiava di farlo distrarre.

“Che cosa?!” esclamò Ace, incredulo “Non è possibile! Siamo in mare aper-!”

Un ennesimo scossone lo interruppe, rischiando di fargli scivolare la presa attorno alla vita sottile di Momo che, colta alla sprovvista, lanciò un piccolo urlo, ritornando a ciondolare con la testa all’indietro.

“Momo!! Sta’ tranquilla! Aggrappati a me!” disse Pugno di Fuoco tentando inutilmente di attirare l’attenzione della ragazza , che cominciava a tremare visibilmente come una foglia.

Ace strinse i denti, strattonando  con uno scatto il braccio attorno all’altra che, con un sussulto ritornò a guardarli. Gli occhietti impauriti della ragazza passarono velocemente dal viso di Ace a quello di Marco, poi ancora ad Ace ed ancora a Marco, fermandosi sul volto del biondo.

Il biondo si ritrovò a deglutire a quell’espressione implorante di aiuto: era evidente che non sapesse cosa fare.

“Coraggio!” esclamò il comandante della prima flotta, dandosi una scrollata, scattando poi una mano verso la schiena di Momo, aiutandola a darsi una spinta sufficiente a permetterle di allacciare le braccia attorno al collo di Ace.

Nel vedere finalmente la piccola al sicuro tra le braccia del fratello, Marco tirò un discreto sospiro di sollievo, voltando poi accigliato gli occhi verso la parte più alta del ponte inclinato e con un salto, ritramutare i propri arti in piume infuocate dirigendosi nuovamente oltre il fianco innalzato dall’enorme serpente marino che aveva visto poco prima.

Non vide Momo spalancare la bocca alla vista delle sue ali, così come Ace, ma del resto non aveva tempo per curarsene: quel bestione sembrava seriamente intenzionato a ribaltare la Moby Dick, troppo grande anche per un mostro delle sue dimensioni, spingendola verso l’alto con la testa.

E ci stava riuscendo. Eccome se ci stava riuscendo.

Quel maledetto serpente con le squame nere come la pece aveva fatto già cadere in mare buona parte dell’equipaggio e bloccato nei corridoi interni della nave il babbo, impedendogli di intervenire.

Stava dando loro parecchie grane.

Tsk!” fece il biondo per poi scendere in picchiata verso il mostro, che fece appena in tempo a volgere un occhio giallo verso quello strano uccello azzurro, prima di sentirsi squarciare un fianco di qualcosa di rovente ed acuminato.

Un ruggito sferzò l’aria e la Moby cadde di nuovo dritta sull’acqua con un tonfo scrosciante, mentre la bocca aguzza e dentata del Re dei mari veniva spalancata con rabbia.

Quando il mostro riaprì gli occhi dorati, riacquistando un poco di calma, fece scivolare il proprio corpo più in alto, facendo emergere buona parte delle sue sinuose spire, affinché il suo muso serpentino si affacciasse sul ponte dell’imbarcazione.

Marco sorrise beffardo alla vista degli occhi accigliati e pieni di odio del serpentone nero, scrollando con fare di sfida proprio davanti al suo naso una delle sue zampe rapaci, dai cui artigli gocciolava ancora qualche stilla purpurea.

L’iride verticale del rettile marino, a quella vista inequivocabile, si assottigliò visibilmente, incentrando il proprio sguardo sulla figura del biondo.

“È stata una pessima mossa disturbare un altro Re nella propria tana.” Lo schernì Marco, godendosi quel momento mentre fletteva le ginocchia ed allargava leggermente i propri arti alati, pronto a spiccare il volo.

Dietro di sé intanto, Edward Newgate era finalmente uscito da sottocoperta con gli occhi più furenti che mai, fulminando con mille e più promesse di morte il mostro che aveva osato cercare di distruggere la propria famiglia.

Gli occhi di Marco si spostarono proprio in direzione del padre, senza mai smettere di sorridere.

La coda sottile del serpente sferzò l’aria verso di lui, nel tentativo di colpirlo in pieno e scaraventarlo lontano, accompagnata da un ruggito cento volte peggiore di quelli precedenti.

L’estremità squamosa però colpì soltanto il resistente materiale della nave, mancando di netto il bersaglio che con un balzo si era lanciato in aria, tramutandosi nuovamente in una figura rapace e luminosa quasi quanto il sole.

La mente dell’enorme serpente marino si accese nel vedere quell’uccello infuocato venire verso di lui cercando battaglia e i suoi denti digrignarono, impazienti almeno quanto il suo stomaco, deformando la sua grande bocca in qualcosa che pareva un sorriso, prima che con uno scatto in avanti spalancasse la bocca verso il comandante in prima.

Sul ponte intanto, Ace grugniva cento e più maledizioni nei confronti della Fenice, massaggiandosi il fondoschiena ora poggiato sul pavimento in legno della nave, dopo averci scontrato con malagrazia, essendosi improvvisamente ritrovato senza appoggio sotto le proprie mani infuocate.

Uuuurgh…! Marco, questa me la paghi!” mugugnò promettendo al fratello vendetta, mentre sulle sue ginocchia stava Momo, ancora intontita dal modo in cui la Moby era stata sbatacchiata e con il mento sulla spalla del ragazzo.

La ragazza strizzò gli occhi, riaprendoli appena in tempo per vedere Marco tramutarsi a mezz’aria in un volatile completamente ricoperto interamente di fiamme azzurre e cangianti come il mare che rifletteva le prime luci dell’alba.

Quella vista la sconvolse, tanto che si fermò ad osservare a bocca leggermente dischiusa quella figura, aggraziata e potente come la freccia di un arco appena scoccata, volteggiare con dignitosi battiti d’ali sullo sfondo  ceruleo del cielo, in quel momento pallido in confronto alle sue piume crepitanti.

Le lunghe piume della coda di quel maestoso uccello ondeggiavano come catene di acquamarina rilucente, rapendo la sua attenzione con estrema facilità.

Quei movimenti, ben cadenzati, leggeri, ma allo stesso tempo aggressivi, le diedero una strana impressione … una sorta di … dejà-vu.

Fu solo per un istante però, poiché uno scatto repentino da parte di quella creatura le fece accorgere di cosa stava accadendo e della presenza di quell’enorme mostro con le fauci spalancate e ben pronte contro il quale Marco stava andando letteralmente contro.

Gli occhi di Momo si allargarono a quell’orribile visione e la sua bocca si spalancò automaticamente nell’atto di lanciare un urlo che però si tradusse in qualcos’altro.

In quell’istante tutti, compreso l’imperatore Bianco e i suoi figli precipitati in acqua, udirono persino al di sopra dei ruggiti irosi della belva, il nome del primo comandante venire pronunciato come se fosse stato un trillo veloce e melodioso, simile al suono di un campanello che si sparse per metri e metri, raggiungendo addirittura le sensibili orecchie del mostruoso Re dei mari.

Ace si voltò allibito ad osservare in volto la ragazza, ritrovandola di nuovo rigida con gli occhi persi davanti a sé come pochi istanti prima che svenisse nella mensa, per poi volgere gli occhi ancora più indietro, ruotando il busto quel tanto che gli servì per incontrare il brutto muso del mostro marino che gli osservava, dimentico della presenza della Fenice davanti a sé.

Pugno di fuoco vide le enormi narici del serpentone dilatarsi rumorosamente saggiando l’aria, per poi bloccarsi e puntare gli occhi gialli dritti verso di loro con più decisione di prima.

“Cosa diavolo…?” fece in tempo a dire il moro, mettendosi in allerta e pronto a scattare, per nulla rassicurato dall’espressione del serpente, prima di vedere la testa di quest’ultimo balzare nella loro direzione con la mandibola lunga ed affilata ben aperta.

Da lontano Marco vide il fratello riuscire a spostarsi agilmente fuori dalla sua traiettoria all’ultimo secondo, trascinando sempre con sé Momo, stranamente ridotta ad una bambola di pezza senza vita.

Gli occhi della Fenice scrutarono ansiosi i movimenti del Re dei mari, vedendolo puntare solo ed esclusivamente a suo fratello ed alla naufraga.

Non riusciva a capacitarsene. Perché lo aveva improvvisamente lasciato perdere?

E che cos’era stato quello strano urlo?

I suoi occhi si incentrarono ancora una volta sul faccino della naufraga, congelato in un’espressione che lasciava trasparire stupore e terrore, ma non una piena coscienza di quello che stesse accadendo attorno a lei.

Era come se la sua mente si fosse chiusa, estraniandosi dal resto del mondo.

 

 

Atto 4, scena 5, Arioso del terrore antico presente

Sentivo il corpo bloccato, come se fossi stata chiusa all’interno di una pietra con una cavità scavata su misura per me, quando in realtà ero semplicemente aggrappata al corpo di Ace, mentre il rumore di mascelle aguzze che scattavano si faceva sempre più vicino alle mie orecchie.

Che cosa avevo fatto poco fa? Perché la mia voce era uscita di nuovo così simile ad un canto?

Non mi curavo del fatto che Ace stesse facendo letteralmente i salti mortali da una e dall’altra parte della nave per sfuggire agli attacchi famelici di quel mostro.

La mia mente era pervasa da troppe domande, troppe sensazioni, troppe emozioni che rischiavano di farmi crollare da un momento all’altro.

Mi sentivo come persa nel vuoto: la mia testa mi girava e pulsava impedendomi di carpire da quelle sensazioni, quelle avvisaglie di consapevolezza, il vero significato di quello che stava succedendo. Perché io sentivo di sapere, nell’angolo più recondito della mia mente, come unire tutte quelle cose.

Era come un filo, sottile, trasparente che avrebbe potuto unire perfettamente le perle di una lunga collana, dandole un senso, se solo fossi stata in grado di ritrovarlo.

Perché quel filo, doveva essere, per forza, la mia identità che non faceva altro che scivolarmi via dalle dita.

Il rumore quasi metallico dei denti che si serravano nuovamente accanto a me ed Ace, mi fecero correre un brivido lungo la schiena.

Quel mostro mi avrebbe uccisa. Lo sentivo. Era una certezza la mia, anche se non sapevo da dove mi venisse.

Sentii Ace imprecare accanto a me e bloccare improvvisamente la nostra corsa, mollandomi poi per terra, parandosi dinanzi a me.

Alzai gli occhi, trovando per un istante la forza di muovermi, ma solo per vedere quella mostruosità osservarci come due topi messi alle strette. Davanti a me Ace allargò un braccio, calcandosi meglio il cappello sulla testa, e subito dopo quell’arto venne ricoperto da una coltre di fiamme arancioni identiche a quelle comparse tra le sue mani pochi minuti prima.

Saa, shishi!” lo sentii dire con tono quasi divertito e il mio cuore sussultò improvvisamente nell’intuire quello che stava facendo: lo stava sfidando… stava sfidando quell’immenso mostro!

“Fermo!” urlai trovando voce, finalmente “Cosa vuoi fare?! Va’ via!! Va’-!” le mie grida disperate vennero immediatamente bloccate dalla vista di quella testa serpentina che si fiondava dritto su di noi.

I miei muscoli si irrigidirono per un istante nel notare con orrore che il ragazzo moro davanti a me, invece di spostarsi, come aveva sempre fatto fino ad allora per non lasciarsi afferrare da quelle orrende fauci affilate come rasoi, non accennò ad alcun movimento di evasione, anzi, il suo braccio venne caricato all’indietro e la mano, ormai indistinguibile tra quelle lingue infuocate, sembrò addirittura chiudersi a pugno.

Si stava preparando a dargli un colpo diretto. E lo stava facendo parandosi, irrigidendo i muscoli quasi con cocciutaggine, tra me ed il pericolo, nonostante ai miei occhi apparisse ovvio che un semplice pugno non avrebbe sortito un grande effetto, se non quello di una carezza.

Strinsi i denti con rabbia e, rialzandomi di scatto, e sentii il mio corpo volgere in una direzione a me sconosciuta, come se quella strana sensazione, insieme al pulsare alle mie tempie, nel giro di qualche istante stesse sforzando la mia mente intorpidita ad un’azione famigliare, ma al tempo stesso estranea.

Gonfiai le corde vocali senza rendermene conto e sentii distintamente la punta delle dita pizzicarmi lievemente.

Ma l’azione che stavo per compiere fu fermata sul nascere dalla sensazione di qualcosa accostatasi accanto a me, sfiorandomi lievemente la spalla con qualcosa di ruvido.

La gola mi si bloccò e istintivamente alzai gli occhi verso l’alto.

Il formicolio alle mani scomparve e così i miei polmoni si svuotarono, facendomi emettere un sospiro ammirato e sorpreso allo stesso tempo nel vedere accanto a me l’immensa figura del capitano dagli enormi e strani baffoni a mezzaluna.

Lo vidi rivolgermi un ampio sorriso sereno, facendo apparire attorno ai propri occhi tante piccole rughette. Quell’espressione di certo non era tipica di chi ha a che fare con un enorme lucertolone d’acqua salata affamato che sta assalendo la propria nave.

 Lo vidi brandire meglio l’immensa arma che teneva in mano come uno scettro acuminato, ed alzarla come se stesse per scagliare un fendente in aria.

In quell’attimo sbarrai gli occhi, sentendo intorno a me l’aria farsi improvvisamente pesante e mi sentii … vibrare. Sì, vibrare. Come una flebile fiamma che viene scossa dal suo stato di quiete da una sospiro di vento troppo forte.

E poi il colpo, simile ad un fascio di luce bianca, partì, spezzando l’aria come una ferita diretta al centro della testa di quel mostro che non aveva mai smesso di guardarmi dacché aveva posato i suoi occhi su di me.

La mia immagine riflessa fu l’ultima cosa a scolpirsi nelle sue pupille gialle.

 

Atto 4, scena 6

Sulla Red Force faceva un caldo allucinante e di questo persino Ben, infilatosi accortamente sotto il grande ombrellone del ponte principale insieme agli altri,  ne risentiva, come ben si poteva intuire dalla grande quantità di sudore che gli stava colando dal mento. Il primo comandante, con i sottili occhi socchiusi dalla calura, guardava senza grande interesse il cielo completamente sgombro da nuvole davanti a loro.

Ben grugnì, strofinandosi una spalla, libera dal solito mantello viola scuro che era solito mettersi, in quel momento abbandonato sopra una delle botti di liquore, maledicendo tutto quell’azzurro che minacciava di fargli scoppiare l’emicrania più colossale di tutti i 4 mari.

Tutto quel sole cominciava a dargli alla testa. Diamine. A volte Beckman si ritrovava ad odiare l’imprevedibilità della Rotta Maggiore. Un attimo prima sembrava che dovesse mettersi a diluviare, e l’altro subito dopo il sole lanciava piccoli aghetti roventi sulle loro teste, ridacchiando sadico.

Una via di mezzo. Chiedeva molto in quasi venti anni di onesta -questione di punti di vista- pirateria? 

Ormai Lucky e Yasopp erano crollati, dopo quasi un’ora di interminabili lamentele agonizzanti a malapena biascicate per il caldo, e di almeno questo Ben era contento, anche se accanto a lui Shanks compensava il silenzio dei due ufficiali con una serie di suoni gutturali e nasali dettati dal sonno, accasciato scompostamente con la testa  poggiata all’indietro su ben due botti di sake, spalancando la bocca tanto da farla sembrare una grotta con tanto di ugola.

Come riuscisse a ronfare con tutto quel caldo era un mistero che non smetteva mai di tormentarlo, facendogli valutare ogni volta sempre più seriemente l’idea di imbavagliare il proprio capitano e vedere come avrebbe reagito nel sentirsi costretto a chiudere la bocca nel sonno.

Uhm… ma tutto sommato non sarebbe stata una gran mossa la sua. I pugni di Shanks facevano ancora male, dopotutto, anche se mollati per puro diletto di cimentarsi in una piccola scaramuccia con il proprio vice. E decisamente Ben non era in vena di sprecare energie sotto un sole capace di ustionarti la pelle dopo neanche tre minuti di esposizione.

Come faceva ad esserne sicuro? Semplice. Il motivo per il quale tutto l’equipaggio si era radunato sotto il grande ombrellone della nave non era stato solo un disperato tentativo di sfuggire all’afa, ma anche un’ottima occasione per assistere da una buona postazione al lavoro del loro nuovo mozzo.

A proposito del povero diavolo.

Ben volse velocemente lo sguardo verso l’uomo che dopo tre o due orette piene, cercava in quel momento di reggersi al manico della scopa con la quale non aveva fatto altro che percorrere avanti ed indietro l’enorme ponte della loro nave. La lingua, rossa almeno quanto la sua pelle bruciata dal sole, penzolava disperatamente fuori dalla bocca, ansimante nella disperata ricerca di un poco d’aria.

Il suo nome era Roid Brinata, se la memoria non lo ingannava, e si trattava niente meno che dell’ex vice capitano della nave di schiavi accolto dal loro capitano, nonostante la decisione iniziale di rigettarlo in mare aperto a far compagnia al Re dei Mari di cui aveva tanto farfugliato con le lacrime agli occhi.

Ben si portò pensieroso una delle proprie sigarette alla bocca, senza accenderla, mettendosi  a studiare con fare critico l’aspetto del loro “ospite”, constatando quanto il suo aspetto facesse pensare a tutto tranne che ad un vice capitano quale era lui.

Era un uomo sulla trentina o giù di lì, come tutti loro del resto, dotato di un fisico sottile e bianco come uno spaghetto che in quel momento, fiaccato dalla calura insopportabile, lo faceva assomigliare ad un vecchietto malaticcio. Niente a che vedere con le loro braccia scolpite da duri anni di continue sfide con il mare e con assalti continui di marine pronti a far loro la festa.

Certo, i pettorali erano comunque abbastanza accennati da farsi notare, essendo in quel momento a torso nudo, ma se qualcuno dell’equipaggio avesse anche solo osato chiamarli addominali si sarebbe dovuto come minimo aspettare un gran risata da parte di tutta la ciurma.

Per il resto Roid Brinata non sembrava avere altri difetti riguardanti il proprio aspetto fisico: un volto lungo e squadrato ancora abbastanza piacente, nonostante il leggero pizzetto marrone che gli ricopriva il buona parte del mento, un paio di occhi grigi leggermente tondi e molto attenti, ed infine una zazzera mal curata ed un poco spinosa di capelli color argilla.

Il pirata sbuffò posando il mento sulla mano pensando all’unico grande difetto che rendeva Brinata un elemento non molto accetto: era un mercante di schiavi.

E da che mondo era mondo un pirata non poteva definirsi veramente tale se vedeva di buon occhio quelli della stessa risma di Roid: macellai che scuoiavano persone di ogni specie e categoria della propria libertà per poi rivenderli come pezzi di carne di prima qualità a quegli schifosi dei Nobili senza che la Marina battesse ciglio.

Ma in fondo non era un grande problema la vecchia occupazione del loro nuovo mozzo.

Tanto lo avrebbero ben presto mollato sulla prima isola avvistata, lasciandolo però completamente nudo per aggiungere un poco di beffa alla sua sorte (fin troppo fortunata per i gusti di Shanks).

Un sorrisetto sarcastico si distese sulle labbra del vice capitano, mentre si rialzava con un poco di fatica avvicinandosi ancora un po’ alla balconata dalla quale gli era possibile controllare le mosse del loro nuovo dipendente. Per un misero istante Ben imprecò contro il grande caldo che aveva sommerso la loro povera imbarcazione. Non una leggera brezza, nemmeno una bava di vento pareva spirare nell’aria.

“Ehi, mozzo!” urlò incrociando le braccia al petto, attirando su di sé lo sguardo stremato di Roid “Smettila di battere la fiacca, prima che il capitano si svegli e trovi il ponte ancora lercio per metà!” ordinò, gustandosi con non poca soddisfazione l’espressione di puro terrore dell’altro che, manco fosse stato punto da un’ape, ricominciò immediatamente a trascinare il panno, oramai quasi asciutto, lungo le assi in legno massiccio della nave.

Uno sbadiglio tutt’altro che decoroso gli giunse alle orecchie.

“Ancora vivo? Credevo sarebbe svenuto nel giro di qualche minuto.” Disse la voce ancora un poco impastata di Yasopp “Accidenti, ho perso la scommessa.” Aggiunse poi il cecchino grattandosi la testa, ricordando la scommessa fatta pochi minuti prima con Lucky su quanto l’ex schiavista ci avrebbe messo a stramazzare al suolo implorando pietà.

“È resistente.” Constatò con semplicità Ben, guardando la faccia contrariata dell’ufficiale.

“Troppo. Che ne dici se vado lì e lo metto al tappeto?” aggiunse velocemente  il rasta, prendendosi il mento tra due dita con fare pensoso, scatenando così una risatina del vicecapitano.

“Non sarebbe giusto nei confronti di Lucky: una scommessa si vince lealmente, no?”

“Giusto.” Asserì con scarso entusiasmo il biondo, tornando velocemente all’ombra del parasole con una certa fretta, sotto lo sguardo divertito di Ben.

I suoi occhi scuri poi caddero casualmente all’orizzonte, trovando tuttavia un elemento di disturbo nel panorama azzurro ed ondeggiante del mare. Aguzzando la vista, il pirata riconobbe in quella sagoma una nave, ma gli bastò identificare la forma della polena per sentirsi una stretta allo stomaco rovinargli l’umore.

Ci avevano messo poco a mandare qualcuno: avevano cambiato rotta da almeno un giorno da quando avevano ripescato Roid.

Tsk. Non poteva scegliere momento peggiore.” Mugugnò contrariato “Con questo caldo non combineremo granchè.” Disse poi drizzandosi ed dirigendosi verso il capitano, ancora perso nelle proprie fantasie oniriche.

“Ehi, Shanks! Sveglia! Il Pugno è arrivato a farci un visitina!”

A quelle parole tutta la ciurma si svegliò di soprassalto, mentre l’enorme bolla che fuoriusciva dal naso del capitano scoppiò in un istante, dando inizio ad una serie di borbottii impastati dal sonno da parte del rosso. Solo quando le parole del proprio vice assunsero una forma più chiara e comprensibile nella propria testa, Shanks strabuzzò gli occhi cercando ulteriore conferma nella faccia seria del compagno.

Garp?”

Al segno di assenso di Ben, le sue labbra, prima socchiuse con sgomento, si stesero in un ghigno soddisfatto come quello di un bambino fiero dei risvolti di una sua marachella.

Questa volta Sengoku aveva mandato qualcosa di molto meglio delle solite due flotte di pivellini.

 

Atto 4, scena 7

“Allora, come sta?” chiese Satch sporgendosi oltre lo stipite della porta dell’infermeria, incontrando lo sguardo avvilito di Penelope, tutta presa dal coccolare la testolina tremolante di Momo, avvinghiata a lei come un cucciolo di koala alla sua mamma.

Dietro di lui, Marco aspettava a braccia conserte con le spalle poggiate alla parete, affiancato da un Ace particolarmente serio e nervoso.

“Non ha detto ancora nulla.” Rispose loro la bionda infermiera sospirando sconsolata, guadando poi la piccolina stringersi istintivamente aggrapparsi con maggior forza a lei.

Il capitano della quarta flotta sbuffò, rigettando indietro la testa, lanciando un’occhiata ai due fratellini che risposero con altrettanta preoccupazione. Nessuno di loro sapeva cosa dire: era da quando il babbo aveva tranciato la testa del Re dei mari che Momo si era completamente chiusa in sé stessa.

Non parlava. Non mangiava. A malapena beveva.

Sulla Moby Dick erano tutti molto preoccupati per lo scricciolo, tanto da rendere l’enorme vascello nettamente più silenzioso. Persino le fragorose risate del babbo si erano fatte meno frequenti, da quando aveva visto la piccolina scoppiare a piangere davanti a lui tenendosi il petto con una mano.

Quello a cui l’equipaggio si era visto spettatore il giorno prima era stato uno spettacolo sconvolgente.

Marco vagò con lo sguardo sulla parte superiore del corridoio nel ricordarsi l’impressione che la piccola naufraga gli aveva dato mettendosi a singhiozzare  sul ponte della nave in quel modo. Era stato come vedere un fiore venire sbatacchiato di qua e di là da un vento crudele e freddo, senza avere alcuna possibilità di prendere di nuovo possesso del proprio destino. Poteva solo immaginare quanto si sentisse impotente in quel momento.

“Secondo te che cosa può averla fatta reagire in quel modo?”

La voce di Ace lo fece sospirare, mentre riabbassava lo sguardo.

Non disse nulla: non sapeva cosa rispondere, poteva trattarsi di tutto come di niente, magari era stato un attimo di profonda debolezza emotiva, ma, cosa molto più probabile, potevano addirittura essere stati loro a spaventarla mettendola di fronte a troppe novità, troppe informazioni da registrare.

In fondo, per quel poco che conoscevano di lei, proveniva da un’isola sconosciuta che, a giudicare dalla lingua che parlava, non aveva avuto alcun contatto con il mondo esterno. Era anche possibile che vedesse in tutti loro delle sorte di mostri.

La mascella gli si serrò automaticamente a quel pensiero. Chissà perché quella non tanto remota possibilità gli aveva fatto sobbalzare lo stomaco.

Ace inarcò un sopracciglio verso il biondo, vedendosi ignorato, cosa che gli aveva sempre dato un certo fastidio.

“Ehi, mi stai ascoltando?”

Non pensò molto però ad attendere la risposta dell’altro poiché, dall’infermeria, i tre comandanti udirono improvvisamente la voce allarmata di Penelope richiamare Momo che, nemmeno un secondo dopo, uscì dalla stanza a testa bassa, aggrappandosi stancamente al pomello della porta spalancata.

Satch, Ace e Marco stettero a guardarla a bocche spalancate: ansimava come se cercasse di accumulare quanto più ossigeno possibile e, ad ogni respiro qualcosa si ingrandiva sempre di più all’altezza della sua gola.

Una luce sottopelle. Gialla. Iridescente. Situata proprio sulla cavità del collo.

Scintillava come un piccolo cuore pulsante.

“Momo?!” esclamò allarmato Ace facendo un passo in avanti, attirando di conseguenza gli occhi della ragazza che però non lo aiutarono a far diminuire i timori sia suoi che dei suoi fratelli.

“Ma che-?” esclamò Marco, accigliandosi nel vedere le iridi della ragazza illuminate dallo stesso tipo di luce situata in mezzo alle proprie clavicole. Parevano addirittura dorate.

Tutto quello però scomparve non appena però i suoi occhi incontrarono quelli scintillanti e quasi surreali della ragazza che, come d’incanto, si spensero, tornando al loro solito colore, seguiti a ruota dal lume al suo petto.

Tutto sparito. In meno di un battito di ciglia. Come un sogno fatto ad occhi aperti, un’illusione.

Satch osservò gli stessi occhietti di pochi secondi prima, osservare spaesati tutti quanti: prima lui, poi Ace, Penelope ed infine Marco, fermandosi su di lui.

Lentamente quelle iridi cominciarono ad inumidirsi.

Signor Ace,…  Signor Marco …” sussurrò la naufraga con voce sottile ed incerta “Mi dispiace.

 

Atto 4, scena 8, Arioso dei dubbi

Ero riuscita a scuotermi un po’ dalla paura che la vista di tutto quel sangue, mi aveva provocato.

Sentire la voce di uno dei compagni di Ace e Marco mi aveva dato un po’ di sicurezza, e alla fine mi ero fatta forza ed ero uscita ancora un poco intontita dalla stanza. La mia testa aveva girato un attimo prima che vedessi accanto alla porta sia Marco che Ace, facendo sparire sia il senso di nausea si quello strano battito cardiaco sbucato da chissà dove all’altezza del mio petto.

La mia vista era tornata nuovamente nitida in un istante non appena riconobbi i capelli neri e scompigliati di Ace e quelli strani e biondi di Marco.

Poi, tornata finalmente un poco in me, mi ero scusata con loro. Non c’era una ragione particolare. Ok, forse era anche perché sapeva di essermi comportata come una bambina.

 Solo… sentivo di doverlo fare. Era stato come una necessità quella di esternare quello strano senso di colpa che mi stringeva le interiora. Avvertivo come il peso di una responsabilità di natura ignota gravarmi sulle spalle.

Osservai ancora un po’ gli occhi dei due ragazzi per poi, con sguardo basso, avvicinarmi cautamente a loro due, arrivando poi, non so come, a poggiare la testa sul petto di Ace.

Era caldo. Fu la prima cosa che notai e spontaneamente nella mia testa riapparve l’immagine delle sue dita attorniate dal fuoco. Socchiusi gli occhi, perdendomi in quella sensazione di torpore e beatitudine che d’un tratto sembrò invadermi la testa. Cos’era quello strano senso di nostalgia?

Qualcosa cominciò a scompigliarmi energeticamente i capelli, facendomi sbarrare gli occhi sorpresa, mentre alle mie orecchie arrivò la risata inconfondibile di Ace.

Maa, maa. Daijobu.” Disse lui ridacchiando sotto i baffi.

Mi staccai immediatamente da lui, imbronciandomi: non mi piaceva essere strapazzata in quel modo.

Il suo sorriso da bambino mi si parò innanzi, spingendomi a sorridere a mia volta. Quel ragazzo aveva un sorriso davvero contagioso, mi sembrava impossibile non rispondergli allo stesso modo.

Poi mi voltai verso Marco e mi ritrovai trafitta dai suoi occhi, simili a quelli di un rapace, esattamente come mi era apparso la prima volta sul ponte della nave, poco prima di insegnarmi qualche parola nella loro lingua. Non mi piaceva come mi stava guardando. Era arrabbiato? Oppure solo confuso dal mio comportamento?

Alzai istintivamente una mano nella sua direzione, pronta a dirgli qualcosa, ma quello strano formicolio, che mi aveva assalito pochi istanti prima all’altezza della gola, mi fece cambiare immediatamente idea, cogliendomi nuovamente alla sprovvista.

Desolata  riabbassai lo sguardo, posandomi una mano sulla gola, vedendo intanto ritornarmi alla mente la figura mostruosa di quel serpente marino che, ne ero abbastanza certa, avrebbe fatto parte del pranzo del capitano.

Non me la sentivo di parlargli. Non se rischiavo di far uscire ancora quello strano suono dalla mia gola.

Mordendomi le labbra, mi voltai verso l’altro signore biondo con la barbetta nera, posandogli una mano su un braccio. Volevo vedere se con gli altri succedeva la stessa cosa.

“Scusate.” Dissi ricevendo da quello, che pareva rande di almeno cinque anni più di me, un sorriso accondiscendente e sghembo.

Abbassai stancamente la testa, delusa dal non aver avvertito alcun cambiamento nella mia voce. E di colpo mi sentii contrariata. Che cos’erano quelle strane sensazioni che mi impedivano addirittura di rivolgere la parola a Marco? Non ci capivo più nulla, ma di una cosa ero certa: non ne potevo più di quella storia, dovevo capirci qualcosa.

I miei ragionamenti vennero però interrotti da un forte brontolio proveniente dal mio stomaco.

Mi corrucciai imbarazzata e rialzai il viso verso l’altro, sorridente come prima.

Anata wa…?” chiesi ottenendo immediatamente il suo nome, accompagnato da una risatina divertita.

Watashi wa Satch, misosazai.

Ignoravo cosa fosse quel “misosazai”, ma sentii Ace grugnire sommessamente a quella parola, addirittura sentii lo sguardo di Marco farsi più pungente sulla mia schiena.

Cercando di non farci caso, feci segno con un dito alla mia bocca  “Credo di aver fame.” Dissi, decidendo sul momento di decidere cosa fare dopo … pranzo? Oppure era la cena?

Solo allora mi accorsi di non sapere che ore fossero.

Accipicchia. E dire che avevo una fame…

Fine Atto Quarto.

Firulà, firulì e blablabla eccomi qua! XD

Contente? Sono riuscita a farvi una bella sorpresa? Spero di sì.

 Devo ammettere che questo capitolo non mi è piaciuto granché, almeno verso la fine. Vabbò sarà perché questa è un’introduzione alla parte dove Momo comincia a diventare un personaggio un po’ più attivo.

Comunque, a quanto pare il naufrago bastar… ehm, ce lo dovremo tenere per un po’, mi dispiace ragazze che avete votato per mandare Roid in pasto ai pesci! XD

Uhm, sto pensando alla prossima domanda, ma davvero non mi viene in mente nulla di costruttivo. Uhm… Vabbò per questa volta la domanda è:

Suggerimenti liberi

Ovvero, sbizzaritevi con qualsiasi cosa vi venga in mente (accadimenti, possibili risvolti, critiche sullo stile, consigli di vario genere insomma) Nel prossimo atto ci sarà di nuovo una domanda precisa tranquille e spero di non mettervi troppo in crisi! =)

Detto questo vi lascio libere di rispondermi belle donzelle! Ci vediamo al prossimo atto! Kisskiss! ^*^

Su richiesta di HUNTERGIADA…

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Momo! Daijobu desu ka?!  > Momo! Stai bene?!

Saa, shishi!  >  Avanti, bestione!

Maa, maa. Daijobu  >  Dai, dai. È tutto a posto.

Mizosazai  > scricciolo

 

 

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Capitolo 5
*** Atto 3 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 3

Atto 3, scena 1

Nei corridoi della Moby Dick ormai l’aria era densa di aspettativa in vista dell’imminente, e sostanziosa, colazione di cui già le narici avide dei pirati inspiravano gli aromi che ormai impregnavano l’aria della nave. Molteplici esclamazioni deliziate ed impazienti risuonavano alternate con frequenza sempre maggiore man mano che la sala mensa si avvicinava.

Fu un’esclamazione staccatasi dal coro a far sì che centinaia di sguardi incuriositi si voltassero improvvisamente all’indietro per vedere una scena che mai i figli del pirata più temuto al mondo si sarebbero aspettati. Cioè, insomma, in un certo senso se la sarebbero aspettati, ma non a quell’ora del mattino e soprattutto… non così seria.

“Andiamo Marco, smettila di scherzare non è divertente.” Si sentì dire Ace, in fondo alla fila formata dai loro fratelli, mentre affiancava con tono stranamente serio il comandante in prima, anche lui più corrucciato del solito.

Ci vollero poche battute perché la situazione fosse chiarita a tutti i presenti.

“Non sto scherzando Ace, va’ in un bordello. Stai cominciando a farmi perdere la pazienza.” Decretò il biondo facendo per aumentare il passo, ma fu fermato prontamente da una mano dell’altro che gli afferrò saldamente la spalla, bloccandolo dov’era e costringendolo a voltarsi verso di lui.

Gli occhi scuri di entrambi si sfidarono per un attimo e gli occhi di brace di Pugno di Fuoco si addolcirono un attimo, perdendo un poco di ostilità.

“Senti, so di avere esagerato un pochino, ma non credo sia il caso di…

“Scusati un’altra volta, Ace. E assicurati di seguire il mio consiglio prima, vedrai che dopo mi ringrazierai.” Lo interruppe prontamente il biondo, liberandosi dalla presa del fratello con uno strattone e facendo per avanzare in mezzo alla folla, ma venne inaspettatamente fermato un’altra volta, questa volta al braccio.

“Sai come la penso, sui bordelli.” Sussurrò minaccioso Pugno di Fuoco, assottigliando gli occhi all’ombra del proprio cappello.

La fronte di Marco si corrugò in risposta al tono minaccioso dell’altro, facendo aumentare in un instante la temperatura circostante.

Tutti quanti i presenti indietreggiarono impauriti, sentendo l’atmosfera farsi pesante al tatto. Incredibile, il potere di quei due era percepibile a pelle, sembrava che l’aria si fosse fatta improvvisamente rovente.

“Conosci le regole di papà. Niente liti gravi tra fratelli.” Lo avvertì Ace squadrandolo minaccioso “Non voglio litigare con te Marco e ti ho già detto che mi dispiace.” Marcò bene le ultime parole con un po’ di fatica, sperando di riuscire a farle entrare bene in testa al biondo.

Da lontano Satch imprecò tra i denti, vedendo la situazione degenerare lentamente. Questa volta Ace aveva detto qualche parola di troppo per Marco e sembrava proprio che le cose non si sarebbero risolte con delle semplici scuse.

Tutto perché Marco aveva messo di mezzo i bordelli. Accidenti, eppure sapeva che Ace gli odiava dal più profondo dell’anima! Come gli veniva in mente di ordinargli di andare a sfogare i suoi bassi istinti in uno di quei postacci? Ace poteva anche essere un donnaiolo incallito, ma aveva anche lui i suoi principi. E pagare una donna per qualche ora da spendere sotto le lenzuola non rientrava tra questi.

“Marco deve essersi  infastidito parecchio per reagire così.” Si sentì grugnire Jaws, mentre la temperatura del corridoio cominciava a far sudare e scottare la pelle dei loro fratelli più giovani.

“Prepariamoci a dividerli in caso di bisogno.” Sbuffò Satch, mettendo mano alla spada che portava al fianco destro, percependo tuttavia una brutta sensazione allo stomaco. Quella situazione non gli piaceva. Non gli piaceva per niente.

“Che succede?” intervenne una voce suadente ed allarmata alle loro spalle. Vista si voltò, incontrando la figura leggiadra di Penelope, accostata da quella più minuta della naufraga. Entrambe avevano un’espressione confusa e la bionda era visibilmente sudata.

Sarebbe stata una bella visione se soltanto la situazione non fosse stata così critica.

“Ace e Marco stanno per suonarsele.” Le rispose velocemente Satch accigliandosi, nell’avvertire l’aria cominciare a farsi irrespirabile.

“Cosa??!!” esclamò l’infermiera portandosi le mani al viso“Mio dio, no! Fate qualcosa! Il capitano…!”

“Sì, Penelope lo sappiamo.” Tagliò corto Jaws, indurendo la propria espressione, senza mai staccare lo sguardo dai due, attorno ai quali si era formato un enorme spazio vuoto.

Penelope…?

La voce sottile ed incerta della naufraga attirò l’attenzione dell’infermiera sulla più giovane, spingendola a staccare gli occhi cerulei da quello spettacolo preoccupante per posarli sull’espressione confusa e preoccupata della ragazza.

La donna vide quest’ultima alzare un dito indice verso i due comandanti.

Tutto bene?” domandò con pronuncia stranamente buona, riferendosi sicuramente a quello che stava avvenendo a pochi metri da loro.

Penelope si incupì un attimo, avvertendo una strana sensazione sottopelle, come se qualcosa le stesse sfuggendo, ma non sapeva cosa. E sebbene non riuscisse a togliersi di dosso quell’impressione, sforzò un sorriso nel risponderle.

“Tutto bene, tesoro. Stai indietro, mi raccomando.” Si raccomandò prendendola delicatamente per le spalle per suggerirle di rimanere indietro con lei. La temperatura ormai si era fatta a dir poco soffocante e intanto quei due non accennavano a smetterla di guardarsi in cagnesco. La bionda tremò, percependo che da lì a poco sarebbe come minimo scoppiato un disastro.

Davanti a lei, trattenuta ancora dalle belle mani curate dell’infermiera, la naufraga si era intanto accigliata, ignorata da tutti. Senza preavviso si divincolò dalla presa di Penelope, avanzando con decisione verso di due, provocando di conseguenza lo sgomento generale.

“Scricciolo!” esclamò allarmato Satch non appena si vide passare accanto la ragazza, che però non parve neppure curarsi di quel richiamo, continuando a marciare senza mai voltarsi.

Fu allora che Penelope si accorse, insieme a Satch e gli altri comandanti di un particolare a dir poco sorprendente: a differenza di loro, che erano sudati ed ansimanti a causa del calore emanato dai due, la ragazza era fresca come una rosa, e camminava in mezzo all’aria rovente senza dar segno di percepire alcun cambiamento.

 

Atto 3, scena 2, Arioso del primo mistero

Camminai fino a Marco ed il ragazzo di nome Ace, come mi era stato detto da Penelope poco prima, ancora intenti a guardarsi in cagnesco. Io proprio non capivo. Che senso aveva stare lì fermi senza dirsi niente? E poi perché gli altri attorno a restavano lì a guardarli come se dovessero esplodere da un momento all’altro?

Mi avvicinai ancora per un po’, guardandoli incuriosita, fermandomi a meno di un metro da loro che intanto si erano voltati a guardarmi allibiti. Le loro espressioni mi fecero un poco tentennare: che avevo di strano?

Vidi Ace sbarrare gli occhi incredulo e Marco sussurrare qualcosa.

Shinji rare nai…

Io guardai entrambi, cercando di capire cosa gli stesse prendendo, sentendomi un pochino sotto pressione, notando inoltre che non solo loro, ma anche tutti gli altri uomini della nave mi stavano fissando a bocca spalancata.

Ma insomma, cosa stava succedendo? Avevo fatto qualcosa di sbagliato?

Mi affrettai a concentrarmi sui due ragazzi davanti a me: meno consideravo il silenzio piombato attorno a me, più sarei stata in grado di parlare e di capire quello che stava accadendo.

Marco-san?” dissi aggiungendo quella strana parola alla fine del nome. Chissà cosa significava. “Daijobu?” ripetei sforzandomi di dare una pronuncia decente a quell’unica parola che avevo imparato.

Di colpo poi sentii attorno a me tutti quanti tirare un sospiro di sollievo.

Confusa mi voltai verso Penelope che aveva smesso di boccheggiare e mi guardava più allibita che mai con la scollatura della divisa che le grondava di sudore.

Un momento, mi dissi, accorgendomi solo in quel momento che tutti quanti attorno a me Marco ed Ace erano sconvolti alla stessa maniera.

“Ma che succede?” sussurrai ancora guardandomi attorno, non vedendo nemmeno arrivare alle mie spalle Penelope che mi spinse dolcemente in avanti, in direzione della sala mensa, sussurrandomi qualcosa di incomprensibile all’orecchio.

Non cercai di oppormi a quel gesto, ma non potei fare a meno di lanciare un’ultima occhiata interrogativa a Marco e a Ace che ancora non smettevano di seguirmi con sguardo inebetito.

 

Atto 3, scena 3, da qualche parte nella Rotta Maggiore

Sulla superficie cristallina del mare piccoli e grandi pezzi di legno intorpidivano l’acqua, diventando man mano sempre più frequenti verso un singolo punto dove, mezzo sommerso, sorgeva il cadavere di un brigantino, abbandonato alla corrente senza che alcun segno di vita si levasse da quello che rimaneva di lui.

A pochi metri da loro, il grande e regale veliero dalla polena a forma di drago, assisteva pigramente e quasi altezzosamente a quello spettacolo pietoso, mettendosi lentamente in panna accanto ai resti di quella che, forse, un tempo era stata un’imbarcazione di notevole pregio. Sull’albero maestro, sventolata da una leggera brezza, la jolly roger dalle tre cicatrici sorrideva, quasi ridendo macabramente di quel tragico spettacolo.

A bordo della Red Force, di tutt’altra opinione era l’equipaggio, accostatosi uno per uno lungo il fianco sinistro della nave, per meglio guardare quello paesaggio desolato.

“Miseriaccia …” imprecò a mezza voce Yasopp poggiando una mano sul bordo della nave, sbarrando gli occhi a quel drammatico panorama, sicuramente epilogo della tempesta dalla quale si erano ben curati dal tenersi fuori giorni prima.

Accanto a lui, accompagnato come sempre dall’acre odore di nicotina che proveniva dall’immancabile sigaretta tenuta tra le labbra, Ben guardò di sbieco le travi di legno scheggiate, osservando apparente freddezza i corpi senza vita di quei pochi che, non essendo ancora stati ancora portati via dalla corrente, galleggiavano inermi.

La Rotta maggiore non perdonava quelli che l’attraversavano a cuore troppo leggero e quella a cui stavano assistendo i pirati del temuto Imperatore Rosso ne era la prova.

“Che si fa capitano? Cerchiamo qualche superstite?” suggerì il Vice-capitano scoccando un’occhiata alla figura poco distante da lui, come al solito posta in prima fila rispetto agli altri.

Delle lingue rosso sangue ondeggiarono in aria, mentre gli occhi ben attenti del capitano sondavano critici le acque dinanzi a lui, come se stesse mettendo lentamente insieme tutti quei pezzi di legno morti.

“Due di noi prendano la scialuppa e cerchino di trovare qualcuno che respiri ancora. Poi vedremo cosa farne.” Decretò infine il rosso voltandosi subito, facendo ondeggiare maestosamente il mantello nero calato sulle sue spalle per tornare a sedersi con uno sbuffo ai piedi del grande ombrellone posto sul ponte principale, attorniato da una rigogliosa e ben tenuta foresta di palme da cocco.

La mano bruna venne passata rapidamente sulla fronte, massaggiandola leggermente per poi venire abbandonata nuovamente sulle ginocchia, non appena la figura di Ben Beckman, con una vena di preoccupazione che gli solcava il volto, si accostò a lui.

“Poi vedremo cosa farne?” lo citò alzando un sopracciglio il suo vice, incrociando al contempo le braccia al petto “Non ti facevo così selettivo nei confronti dei naufraghi, Shanks.”

“Infatti.” Rispose tranquillamente l’imperatore, cacciando indietro la testa per crogiolarsi meglio all’ombra ristoratrice dell’enorme parasole.

“Ma sai, non sai mai cosa può capitarti quando a colare a picco è una nave di schiavi.” Concluse lasciando basito l’altro.

“Lo scafo della nave è più alto del normale.” Spiegò meccanicamente il capitano, sorridendo inconsciamente nell’immaginarsi l’espressione dell’amico, certo che quel particolare gli fosse sfuggito. Essere capitano non era solo una questione di titolo. “E questo  significa che nella nave fosse presente almeno un ponte in più per favorire il trasporto di qualcosa di molto pesante ed ingombrante.”

A quel ragionamento rapido e coinciso Ben sorrise, sfilandosi dalla bocca la sigaretta ed poggiandosi di schiena al grande pilastro che formava l’ombrellone.

“E facendo due più due con il numero di cadaveri…” aggiunse poi abbassando un poco la voce con fare cupo il Rosso “… non è difficile arrivare a questa conclusione.”

Una nuvola di fumo venne soffiata pigramente fuori.

“E nel caso becchiamo uno dell’equipaggio che si fa?”

La mascella puntellata da leggera barbetta si serrò leggermente,  aprendosi poi solo per far uscire un ordine che, Ben capì subito, non ammetteva repliche.

“Dategli qualcosa da bere e da mangiare e poi lasciatelo a mollo.”

Quello non era senz’altro un argomento da portare avanti, così il vice cambiò argomento con abilità magistrale, facendosi saltare in testa la prima cosa che gli venne in mente.

“Nella scorsa isola la gente parlava del vecchio Newgate, pare abbia bazzicato da queste parti ultimamente…” soffiò calmo aspettando sapientemente la risata del capitano sferzare l’aria come una ventata di aria fresca, come da copione in casi simili.

“Il vecchio?” rise il rosso rimettendosi scompostamente dritto, come suo solito “Questa poi! Credevo si sarebbe diretto ad Est.” Constatò mentre si rialzava, puntando la mano destra sul rispettivo ginocchio.

“Vuoi fargli una visitina? I ragazzi cominciano ad essere stanchi di questa calma…” propose accennando ad un sorriso Ben, “… un poco di movimento non sarebbe male.”

La figura ammantata del rosso di fermò pensierosa, valutando attentamente quelle parole.

Uhmm … ma sì perché no. In fondo un po’ di riscaldamento con un paio di flotte della marina per sgranchirci le ossa non è una così cattiva idea.” Scherzò allargando di nuovo un sorriso sul proprio volto, risparmiato ancora dai segni del tempo.

A quella battuta Ben ridacchiò, scuotendo visibilmente le larghe spalle: sempre il solito tanghero.

“Non essere così pessimista,capitano, magari questa volta ce ne mandano 4, tanto per andare sul sicuro.

Ne seguì la risata allegra e poco convinta del capitano, che decretò la fine della loro conversazione.

 

Atto 3, scena 4, poco lontano nella Rotta Maggiore

“CHE COSA???”

Kobi ed Hermeppo si irrigidirono istantaneamente alla potente voce del loro superiore, ancora occupato a cercare di non stritolare il lumacofono dal quale gli era appena giunta una notizia che mai si sarebbe aspettato dal quartier generale di Marineford.

Dall’altro capo del mezzo di comunicazione il Grande Ammiraglio Sengoku ringhiò appena, di fronte a quel vero e proprio attentato al proprio udito, sul quale però fece attenzione a sorvolare a causa della gravità della situazione.

“Hai sentito Garp. Sembra che il Rosso e Barbabianca siano più o meno sulla stessa rotta.” Spiegò nuovamente, lisciandosi nel frattempo la treccia che gli legava il pizzetto del mento.

La possente mascella di Monkey D. Garp si serrò con ostinata rabbia, nell’immaginarsi la faccia da schiaffi di quel Rosso. Non avrebbe mai perdonato quel maledetto imperatore di aver spinto Rufy, suo nipote, sulla strada della pirateria.

La telefonata di Sengoku era giunta tanto gradita quanto inaspettata, facendolo richiamare da un suo sottoposto con urgenza nella cabina di telecomunicazioni, lasciandolo basito alla più inaspettata ed odiosa delle comunicazioni.

Le braccia del vice-ammiraglio si irrigidirono, gonfiando pericolosamente le grosse vene che le percorrevano a tratti, tirando così la stoffa dell’impeccabile divisa bianca.

“Te la senti di intercettarlo?” azzardò il superiore dopo un attimo di silenzio.

“DANNATAMENTE SÌ!!!!” fu il ruggito che gli rispose prima che la comunicazione venisse bruscamente interrotta, lasciandolo da solo con un terribile e doloroso fischio nelle orecchie.

 

Atto 3, scena 5, Moby Dick

Zehahahaha!”

La risata stridente di Marshall D. Teach si propagò nella sala mensa con una vibrazione a dir poco fastidiosa, mentre accanto a lui Ace, con un broncio offeso e preoccupato, lanciava occhiatine alternate sia al tavolo dei comandanti che a quello delle infermiere. Nel primo, seduto scomposto sulla sedia come suo solito, Marco faceva finta che non fosse successo nulla tra loro, rispondendo alle sue occhiate con indifferenza. Nel secondo Ace puntava, insieme alla Fenice, la figurina tutta preoccupata e rannicchiata su sé stessa della naufraga.

“Che strana ragazzina, zehahaha!” continuò la propria risata il pirata accanto a lui, in qualche modo divertito da quello che Ace gli aveva raccontato poco prima. Il comandante in seconda studiò per un attimo l’espressione impaurita della ragazza, tranquillizzata a stento dalle parole che Penelope cercava di sussurrarle con fare rassicurante all’orecchio, per poi afferrare con stizza il bicchiere di latte davanti a sé e berne il contenuto di getto.

Ancora non riusciva a capacitarsi come fosse stato possibile. Non poteva essere vero. L’aria che si era formata attorno lui e Marco era un concentrato di aria calda formata dai loro rispettivi fuochi. Il solo avvicinarsi di un metro avrebbe come minimo provocato senso di spossatezza, se non uno svenimento in piena regola a causa della rarefazione dell’aria.

 Ondeggiò il bicchiere ormai vuoto con sguardo perso ed accigliato.

Doveva capirci qualcosa.

“Senti Teach…” disse automaticamente senza neanche mai spostare lo sguardo dal calice vuoto, interrompendo inconsapevolmente la risata sguaiata dell’altro “… hai mai sentito parlare di persone capaci di resistere a temperature altissime?” chiese infine, sperando in cuor suo che il proprio sottoposto, provvisto di ben più esperienza di lui, potesse dargli una mano.

Mmmmh… nah. Nulla di nulla.” Rispose velocemente l’energumeno infrangendo le proprie speranze sul nascere. Sospirò, alzandosi dal tavolo per poi andarsi a risedere a quello dei comandanti. Ne avrebbe parlato con papà e poi avrebbe avuto tutto il tempo di scoprire qualcosa sulla naufraga durante la mattinata.

Intanto dietro di lui Teach non aveva smesso di ridacchiare nel mentre i suoi occhietti stralunati scrutavano il corpicino della ragazza con un non so che di avido. Nella sua mente Barbanera formulò una serie di pensieri, accentuando il proprio ghigno man mano che prendevano forma sempre più ben definita.

La risata cavernosa di Edward Newgate fece saltare leggermente sulla propria sedia la naufraga, distraendo al contempo Teach dalle proprie riflessioni.

Davanti al capitano, stava in piedi Ace, affiancato incredibilmente da Marco, tutto occupato a calcare meglio il cappello arancione sulla testa mora del fratellino. A quella vista Teach trattenne a stento una smorfia.

Tse!”

Avevano già fatto pace.

Il sorriso compiaciuto di Edward Barbabianca svettava appena da sotto i propri baffi a mezzaluna, mentre davanti a sé i suoi figli si riprendevano a vicenda come dei poppanti, dopo avergli riferito delle novità riguardanti la loro naufraga, a quanto pareva, priva di nome proprio.

“Dunque la nostra piccola ospite , oltre a non avere memoria, non risente del calore delle vostre fiamme.” Ricapitolò in breve il gigante, indirizzando il proprio sguardo sulla ragazza per un istante e subito dopo tornare sui due davanti a sé.

“E non volete proprio dirmi il motivo che vi ha spinto ad alzare le armi tra di voi, figlioli?” chiese con tono divertito mentre sia Marco che Ace si bloccavano e dirigevano lo sguardo da un’altra parte, imbarazzati.

Il biondo che si stava strofinando nervosamente il retro del collo sbuffò, tornando poi ad affrontare gli occhi del padre.

“Colpa mia, papà. Ho detto qualcosa che non avrei dovuto.” Ammise abbassando leggermente la testa in segno di scuse.

Ace si voltò stupito verso il biondo per poi scrollare la testa

“E io che dovrei dire? Mi sono comportato peggio di un adolescente nel pieno della pubertà.” Disse a mo’ di scusa il moro, evitando di incrociare lo sguardo dell’altro che però, sotto lo sguardo divertito del comandante e degli altri, tra cui Satch, non permise che Ace avesse l’ultima parola sulla questione.

“Piantala di colpevolizzarti. Sono stato io a tirare fuori quella cavolata dei bordelli.”

“Già ma sono stato io a farti perdere la pazienza!”

“E io avrei dovuto tenermela la pazienza.”

“Mi sono comportato come un -…

“Tu ti comporti sempre da bambino.”

“Ehi! Non darmi troppa ragione!”

Dal loro tavolo Satch, Jaws e Vista si scambiarono delle occhiatine complici, nel vedere la piega che aveva preso il loro discorso.

“Hanno intenzione di litigare anche su chi ha torto?” chiese il comandante in quarta, lanciando un’occhiata burbera a Satch che intanto si era appoggiato con un braccio sullo schienale della sedia, per guardare da lontano la ragazzina che ancora tentava di mangiare qualcosa a causa delle condizioni in cui gravava ancora il suo fisico, ancora parecchio debilitato dal naufragio.

“Non so.” Rispose velocemente il biondo scrutando bene la ragazza che ancora non si accorgeva di lui, troppo occupata a cercare di addentare e mandare giù senza danni un biscotto.

“Ma credo faranno bene a sbrigarsi, lo scricciolo laggiù ora più che mai ha bisogno di un nome.”

 

Atto 3, scena 6, Arioso del secondo mistero

Ondeggiai imbronciata le gambe, guardando stranita sia Marco che Ace continuare confabulare tra di loro proprio davanti a me dopo aver parlato per parecchi minuti con il capitano della nave. Eravamo ancora nell’immensa sala colma di cibo della nave e io avevo mangiato pochissimo sia a causa del dolore che mi provocava ancora un poco muovermi ed ingoiare qualcosa di solido, sia per le occhiate che mi sentivo lanciare dagli altri della nave.

Mi morsi il labbro inferiore, abbassando lo sguardo sulla sedia sulla quale ero seduta. Odiavo stare al centro dell’attenzione. Almeno questa cosa di me l’avevo capita. Perfetto, magnifico, avevo scoperto di essere una fifona in piena regola. Ma c’era qualcosa di me che fosse positiva?!

  I miei occhi scattarono nuovamente sui due ragazzi di fronte a me, ritrovandoli ancora a fissarmi nel mentre portavano avanti quella che pareva essere una conversazione su di me.

Serrai di denti, cercando di scaricare il fastidio che mi stava assalendo lo stomaco, e mi accigliai, senza preoccuparmi delle rassicurazioni che Penelope mi stava sussurrando all’orecchio né che quei due mi vedessero mentre mi immusonivo.

 Se soltanto avessi potuto lontanamente intuire a grandi linee quello che si stavano dicendo mi sarei anche potuta accontentare, ma cavoli, quella stranissima lingua sembrava complicatissima!

Altro che Anata wa e Watashi wa

Mi concentrai un altro po’ sulle espressione del biondo e del moro e  notai che quest’ultimo era stranamente serio. Non sorrideva come al solito e questo mi mise un po’ di ansia.  Lo guardai ancora un po’ negli occhi neri come la brace, ma non ottenni alcuna reazione da parte sua. Il suo volto, che il più delle volte mi era parso come quello di un bambino pieno di lentiggini, in quel momento non sorrideva più, anzi sembrava volesse addirittura cogliere con quell’attenta analisi qualcosa di me che gli era sfuggita e che ora lo lasciava preoccupato.

Ma che cosa avevo fatto?

Un gomito di Marco, diretto alle sue costole, gli fece smettere -con mia immensa gratitudine- di guardarmi in quel modo, facendolo piegare leggermente sul fianco offeso, massaggiando ed imprecando (almeno così capii dalle smorfie sul suo viso) a mezza voce.

Teishi wa kanojo no sono ni mite. Osoroshii desu.” Lo ammonì il biondo ed Ace, come se si fosse risvegliato da uno stato di catalessi, strabuzzò un attimo gli occhi per poi bofonchiare qualcosa in risposta calcandosi un poco il cappello sulla testa.

Ah… Gomenasai.

Stranita dalla situazione cercai lo sguardo di intesa di Marco, ma quello che trovai fu uno sguardo molto simile a quello di prima che però venne interrotto molto prima rispetto a quello di Ace.

Vidi il biondo girare leggermente la testa verso Penelope, affiancata da Carol per la prima volta da quando si erano messi a parlare di fronte a me.

Soredewa, watashi-tachi ga ataeru namae? Subete no aidea desu ka?

Inutile dire quanto capii di quello che aveva detto. Un indizio: al posto degli occhi mi apparvero delle girandole. Dietro di me Penelope si mise una mano sotto il proprio mento sottile con fare pensieroso, lanciando poi un’occhiatina di intesa a Carol che in risposta le annuì facendo le spallucce.

Nani Momo dō desu ka?

Alle parole dell’infermiera bionda vidi Marco inarcare un sopracciglio incerto, seguito a ruota da Ace che sbarrò gli occhi sorpreso.

Momo?” ripeté il moro, lasciandomi più confusa che mai. Cos’era “momo”?

Momo naze desu ka?”

E riecco di nuovo “momo”, pensai in preda al panico.

A quella che pareva essere stata una domanda, il sorriso angelico di Penelope si allargò ancora di più e la risposta uscì talmente veloce da farmi desiderare di potermi alzare da quella sedia ed andarmi a nascondere il più in fretta possibile da qualche parte nella nave.

Il volto di Ace si fece comicamente più lungo di due volte del normale e io mi lasciai sfuggire di getto una risatina divertita.

Ne uscì una sorta di trillo morbido e io sbarrai gli occhi guardandomi attorno per vedere se qualcuno avesse sentito come me quello strano suono uscirmi dalla gola.

Ma erano ancora troppo occupati a guardare Penelope per prestare attenzione a me.

Mi portai una mano alla gola, colta da una strana inquietudine. Sentivo il petto tremare dall’interno e la bocca del mio stomaco stringersi fastidiosamente, sentendo in me come l’avvisaglia di aver fatto qualcosa di … sbagliato. Qualcosa di non concesso e estremamente … pericoloso.

Ed ebbi paura. Una paura vibrante mi si infilzò nel cuore come un pugnale affilato con cura, oscurandomi la vista e rendendomi sorda a quello che stava accadendo attorno a me. I miei pensieri di erano zittiti improvvisamente rendendo la mia mente silenziosa, ma solo per un attimo prima che un eco, il fantasma di un rumore lontano mi sfrigolasse nella mente.

Il giungere di quella strana sensazione venne però sostituita istantaneamente da un dolore lancinante all’altezza delle tempie, cosicché prima di riuscire a catalogarlo mi piegai in due dal dolore con una mano alla tempia, quasi volessi inconsciamente fermare quella sorta di enorme spillo che lentamente sembrava star penetrando la mia carne.

Chiusi con forza le palpebre, cercando nel buio dei miei occhi con una mano tesa un appoggio, mentre sentivo il mondo mancarmi da sotto i piedi.

Lanciai un piccolo grido. Poi un’oscurità pesante e densa mi accolse come la coltre di un letto.

 

Atto 3, scena 7

Sul cielo che sgombero e sereno che aleggiava attorno alle vele della Red Force, un gabbiano, forse ben più grande del normale, stava  sorvolando tranquillamente il grande veliero, scrutando con i propri occhi scuri e tondi il gran movimento che si era creato sopra di esso, attirato dal gran chiasso che uno di quei fastidiosi esserini a due gambe stava creando con ripetuti e petulanti suoni vocali, mentre gli altri suoi simili si erano accalcati attorno a lui, tenendosene a debita distanza.

“Vi prego!!” urlò l’uomo, cercando, inutilmente, di mettersi in piedi, ricadendo ogni volta a bocconi sul ponte, provocando il silenzio grave dei presenti.

Più avanti degli altri, esattamente davanti all’unico naufrago che erano riusciti a ripescare, Shanks osservava impietoso quell’uomo allungare disperato le braccia verso di lui, implorando quel poco di pietà che, dopo aver ricevuto un minimo di acqua e di cibo avanzato, era venuta improvvisamente meno quando la sua bocca arsa aveva in avventatamente lasciato scivolare il suo grado sulla nave affondata pochi giorni prima.

“Vi scongiuro! Non lasciatemi qui! Non ributtatemi in mare!” esclamò quel poco di voce che la sua gola secca e stridente riusciva a dargli, strisciando a poco a poco verso le caviglie del capitano pirata, ma solo per venire bloccato da una lunga lama affilata piantatasi davanti a sé a mo’ di avvertimento.

“Che succede Vice-capitano?” rispose con tono gioviale il Rosso, stendendo le labbra in un sorriso che, per quanto innocente all’apparenza, nascondeva la più ferrea delle decisioni “Non è da un uomo della sua carica prostrarsi in quel modo davanti a dei pirati.”

Gli occhi scuri dell’imperatore si riaprirono incupendosi di colpo “Non vorrà mica prendere esempio da quei poveracci che aveva messo in catene, no?”

Un brivido di terrore percorse la schiena dell’ex mercante di schiavi nel momento stesso in cui quella voce, bassa e minacciosa come il ringhio di un leone che vuole scoraggiare la propria preda, gli aveva penetrato le orecchie, mandandolo ancor più nel panico.

Lui non voleva morire! No! Aveva visto come giungeva la morte stando in mezzo all’oceano sotto il sole cocente! Non poteva sopportare l’idea di impazzire per il caldo e bere per la disperazione l’acqua piena di salsedine del mare solo per poi morire tra conati di vomito e versi dettati dal delirio precedenti solo alla morte.

Rabbrividì. Non se in giro ci fosse stata ancora quella cosa.

“Vi imploro!Vi pregoviprego! Non lasciatemi in questo posto sperduto!” rincarò la dose di suppliche l’uomo, riuscendo a mettersi a ginocchioni ed a unire le mani in segno di preghiera.

“A farci naufragare è stato un Re dei Mari! Non voglio finire nella sua pancia!”

Vi fu un attimo di silenzio. Ben Beckman smise per un istante di aspirare il fumo dalla propria sigaretta, guardando stralunato l’uomo, venendo imitato dal resto della ciurma.

Il naufrago scattò la testa da ogni parte, ancora tremante per lo sforzo che aveva compiuto per dire quelle parole, incrociando le occhiate prima allibite poi incredule e successivamente divertite dei pirati che scoppiarono all’unisono in un boato di risa.

Ahah…” cercò di riprendersi Shanks, accovacciandosi davanti allo schiavista, tenendosi la pancia con una mano per via dell’improvvisa risata “Sai amico, se non fosse una cosa tecnicamente impossibile ci avrei anche potuto credere! Davvero! Sei un attore nato! Ottima interpretazione!”

“È la verità!” ribattè prontamente l’altro con lo sguardo pieno di terrore “Di solito i Re dei Mari non escono dalle fasce di bonaccia! Ma questo… questo…” balbettò non sapendo neppure lui come descrivere quell’immenso serpente zannuto che aveva visto spezzare in due la sua imbarcazione con un rapido movimento di coda.

Poi gli venne in mente una cosa.

Si ricordò che, pochi istanti prima dell’apparizione di quell’orrendo mostro gli era successo qualcosa nella sottocoperta dove stavano legati gli schiavi. Era andato come sua consuetudine a dare un’occhiatina al lavoro svolto dai suoi sottoposti, trovando, in mezzo a tutti quei pezzi di carne rumorosi e ancora abbastanza in forze per implorare pietà, una ragazza di circa vent’anni stranamente piccola e silenziosa che lo guardava con occhi supplichevoli e pieni di lacrime.

Era stato in quel momento che si era ricordato che, dal momento stesso in cui avevano preso il largo, quella piccola creaturina, che a detta del capitano avrebbe fruttato loro non pochi spiccioli, non aveva mai aperto bocca, se non per respirare appena l’aria fetida ed insalubre della sottocoperta.

E lui, ghignando per aver trovato un delizioso e semplice passatempo, si era avvicinato a lei e le aveva fatto un paio di proposte con parole oscene e carezzevoli, ma solo per ottenere una scrollata di dissenso  da parte sua.

Irritato da quella mancanza di rispetto gli aveva afferrato con forza i capelli, strattonandola così tanto da far uscire da quella gola il primo suono dopo settimane di silenzio.  Ma quello che sentì non era un gridò, ma qualcosa di molto simile ad un canto, una nota musicale prolungata e poi bloccata a metà da un’espressione terrorizzata.

Aveva fatto appena in tempo a chiederle che cosa avesse appena fatto, prima che il demone emergesse dalle acque, accompagnato da una tempesta paragonabile solo ad un uragano.

E di colpo l’ex-vice capì quello che doveva essere accaduto.

“È stata quella strega!!” sbraitò alla fine, buttandosi improvvisamente al colletto del rosso, perdendosi nei propri ragionamenti che, alle orecchie dei pirati della Red Force, parevano più i deliri di un pazzo. Gli occhi dell’uomo erano già pieni di lacrime mentre i suoi occhi, ciechi per il terrore, imploravano silenziosamente il rosso di credergli.

“È stata lei a richiamarlo! Se ne stava zitta solo perché voleva dirgli di attaccare al momento giusto!”

Quelle parole furono ascoltate con non poca sorpresa da parte di Shanks che, trovandosi assalito fisicamente da quell’individuo e non potendone più di quella messa in scena, liberò il proprio Haki, riversandolo sul malcapitato come un secchio d’acqua, ritrovandoselo in meno di un secondo accasciato a faccia a terra con ancora le mani ben strette alla sua camicia.

Guardò un poco sconsolato quella figura inerte ai propri piedi, mentre la rotonda mole di Lucky si avvicinava ballonzolando a lui, con accanto Yasopp e Ben, immancabilmente accompagnato dalla scia di fumo proveniente dalla sua bocca.

“Allora, che ne facciamo?” mugugnò Lou tra un boccone e l’altro del proprio cosciotto.

“Sei ancora certo di volerlo mollare in acqua?” si associò Yasopp incrociando le braccia al petto.

A Shanks non servi guardare in viso anche il proprio vice per capire quello che stava pensando.

Sospirò, abbassando la testa rossa verso il pavimento. Gli era capitato di dover compiere scelte difficili, ma questa proprio avrebbe voluto non volerla prendere.

Si passò nervosamente una mano tra le ciocche rossastre dei suoi capelli, per poi alzare di scatto la nuca con uno scintillio deciso negli occhi.

Fine Atto Terzo

Tataratatatadaaaan!! Buongiorno o buonasera belle signorine! Sono tornata! Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate gradito la presenza mascolina ed estremamente figa (Shanks fan club forever) del nostro beneamato rosso dalle tre cicatrici! XD

Diamo il bentornato alla nostra eowyn278 e, anche se maya_90 pare non aver fatto in tempo a leggere il capitolo e a recensirlo,vi ringrazio come sempre di esserci!

Dunque dunque… ora che stiamo lentamente scoprendo un bel po’ di cosette interessanti della nostra ignota, le cose cominceranno a prendere una piega un po’ diversa.

So di aver detto nel precedente atto che non ci sarebbe potuta essere la domanda, ma per vostra sfortuna…c’è!

Ed eccola qua!

Shanks lascerà a mollo il naufrago o se lo porterà appresso?

Occhio, questa decisione può avere dei risvolti interessanti ed avventurosi in entrambi i casi! **

Vi lascio ai vostri commenti, spero di aver fatto un buon lavoro!! Kiss kiss! Alla prossima

Su richiesta di HUNTERGIADA…

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Shinji rare nai…  > Non ci posso credere… / Incredibile

Teishi wa kanojo no sono ni mite. Osoroshii desu.  >  Smettila di guardarla in quel modo. La spaventi.

Ah… Gomenasai  > Ah… scusa.

Soredewa, watashi-tachi ga ataeru namae? Subete no aidea desu ka  > Comunque, che nome le diamo? Qualche idea?

Nani Momo dō desu ka?  > Che ne dite di Momo?

Momo naze desu ka?  > Perché proprio Momo?

 

 

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Capitolo 6
*** Atto 5 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 5

Atto 5, scena 1

Kobi ed Hermeppo avevano potuto capire molte cose del loro comandante nel corso del loro duro allenamento atto a farli diventare, usando una tipica espressione di Monkey D. Garp, dei veri uomini, ed avevano imparato di conseguenza qualsiasi cosa lo infastidisse, nei minimi dettagli. Avevano notato, spesso a loro spese, come ogni parola, gesto o comportamento fuori luogo provocasse una reazione specifica in Garp, che aumentava di intensità e gravità, procedendo per livelli.

Una parola azzardata, per esempio, corrispondeva ad un sorriso ed ad una lieve punizione corporale, che variava a seconda del soggetto. Hermeppo ne sapeva qualcosa, Kobi un po’ meno.

Un gesto sbagliato e lievemente offensivo nei confronti dei superiori o dei compagni portava ad una punizione più pesante ed ad almeno una settimana o più di digiuno, ma solo dopo aver assistito ad almeno un centinaio di vene gonfiarsi sul pugno del vice ammiraglio. Hermeppo ne sapeva decisamente qualcosa, Kobi sicuramente meno.

Un comportamento decisamente poco rispettoso e menefreghista poteva portarti alla quasi morte, dopo aver visto gli occhi del comandante oscurarsi di un’ira paragonabile solo ad un uragano di proporzioni mastodontiche e le sue spalle tremare come scosse da un forte terremoto. E qui Hermeppo avrebbe potuto scriverci un libro sulle sue esperienze, Kobi, fortunatamente, nemmeno una riga.

Tuttavia, quello a cui le due promettenti reclute stavano assistendo, accostati come di consueto al fianco del vice ammiraglio, usciva completamente dagli schemi da loro creati.

Non c’era modo di descrivere quello che stavano vedendo , anzi, forse c’era: un VULCANO prossimo all’eruzione.

Come fosse possibile che Shanks il Rosso avesse potuto ridurre in quello stato il loro comandante dopo un semplice ed innocuo scambio di battute era a dir poco incredibile, ma di certo sia Kobi che Hermeppo avrebbero preferito che non accadesse.

Tu…” sputò quasi tra i denti, che digrignavano rumorosamente, Garp, puntando uno sguardo pieno di odio verso la faccia sorridente del Rosso, ancora in piedi sul fianco della propria nave, affrontando il vecchio da una distanza che, essendo scandita della presenza del mare tra loro, poteva essere definita “di sicurezza.”

TU…!!!” rincarò la dose il vice ammiraglio ricominciando a tremare pericolosamente stringendo spasmodicamente i pugni, ormai gonfi e pulsanti.

Dalla sua nave Shanks allargò il proprio sorriso, constatando quanto il vecchio non fosse cambiato: sembrava ricordarsi bene di lui, anche se questo pensiero non avrebbe dovuto rallegrarlo più di tanto.

“Lieto di vederti ancora in forma, Garp.” Disse per nulla turbato dal comportamento dell’alto.

Un ruggito simile a quello di un leone proruppe dalla gola del marine, facendo finire Hermeppo direttamente tra le braccia di Kobi, paralizzato anche lui per il terrore.

“FERMA LA TUA BAGNAROLA DANNATO MARMOCCHIO!!!”

Tutti sulla Red Force si portarono un dito alle orecchie, stappandosele, sospirando. A volte si chiedevano se Shanks nascondesse un lato masochista, specie Ben. Sapeva quanto il vecchio Garp fosse suscettibile e la scelta di non fermare la nave e procedere comunque a vele spiegate, senza però calcare troppo sulla velocità in modo tale da permettergli di scambiare qualche parola con il vice ammiraglio, poteva essere definita in un solo modo: completamente folle.

Il Rosso ridacchiò sotto i baffi, cercando in tutti i modi di trattenersi, anche se la cosa gli pareva piuttosto difficile, assistendo in prima fila alle espressioni esilaranti i Garp, imbufalito in quel momento più che mai.

“Mi piacerebbe fermarmi a fare quattro chiacchiere, Garp, ma vedi …” disse con tono innocente grattandosi il retro della propria chioma purpurea, simulando un imbarazzo che Yasopp avrebbe potuto scommetterci anche la vita, era fasullo come un pezzo d’alluminio dipinto di giallo spacciato per oro.

“Io e i ragazzi andiamo di fretta, sai, stiamo andando a fare una visitina al Vecchio Newgate.” Spiegò, aprendo poi gli occhi e sorridendo irriverente, indicando poi con fare furbesco la propria nave con un pollice della sua unica mano “Se vuoi puoi unirti a noi per il resto del viaggio.”

“GGGGGGGGHHHHHHNNNNFFFFF!!!!!” Fu la risposta imbestialita e sbuffata fuori dal naso del marine.

Quel marmocchio se la stava cercando: non solo si stava spudoratamente prendendo gioco di lui davanti a tutti i suoi subordinati, ma lo aveva anche invitato tra le righe a far parte della sua ciurma! LUI! Un MARINE!!

“MOCCIOSO SFRONTATO!!!! FERMA QUEL DANNATISSIMO PEZZO DI LEGNO E VEDRAI COME TI INSEGNERÒ COS’È LA DISCIPLINA!!!!”

A quelle parole tutta quanta l’adulta compostezza di Shanks si dissolse come una bolla di sapone e, come d’abitudine, la sua lingua fece capolino mostrandosi in una rumorosa smorfia infantile in direzione del più anziano.

Bleeeh! La disciplina e io non siamo mai andati d’accordo, nonnino. Ti conviene arrenderti.”

Per poco Ben non si piegò in due dalle risate come già stavano facendo Lucky e Yasopp sotto l’ombrellone, al riparo dal forte caldo al quale solo il loro capitano pareva resistere, mentre accanto a loro, ad occhi stralunati, Roid Brinata guardava completamente incredulo il modo di fare infantile del suo nuovo capitano.

Ma… ma come…?” balbettò allibito senza però riuscire a dare voce alle proprie parole, attirando su di sé non poche occhiataccie da parte degli altri pirati dell’equipaggio, che avrebbero preferito non dover percepire la sua presenza.

Ehm… ” mugugnò imbarazzato ed incerto sulla propria sorte l’ex-schiavista, decidendo di non esporsi troppo per tenere cara la pelle.

 “La prego, signore si calmi!” implorò Kobi al fianco del più anziano, non volendo neppure immaginare come il signor Garp avrebbe scaricato la rabbia non potendo mettere le mani sul diretto responsabile.

Hermeppo invece, vuoi per il caldo, vuoi per la fifa, si era premurato di dileguarsi zitto zitto il più lontano possibile dal vice ammiraglio.

Un ghigno intanto si era formato sotto i baffi grigi del marine, provocando nei suoi sottoposti un brivido lungo la schiena: conoscevano quell’espressione. Significava una cosa sola.

“Ehi, Shanks. Non credi di aver esagerato?” si fece avanti il vice capitano della Red Force, sotto lo sguardo attento di Roid, che non si perdeva silenziosamente nemmeno una battuta di quella strana conversazione.

Naaah. Va tutto secondo i miei piani, tranquillo.” Fece l’imperatore senza mai smettere di sorridere.

Ben inarcò un sopracciglio, dubbioso delle sue parole.

Tu, un piano?”

Neanche quando una palla di cannone si diresse fischiando direttamente verso di lui, Shanks smise di ridacchiare, scaricando prontamente una fitta quantità di haki sufficiente a far esplodere in aria il meteorite di metallo lanciato proprio dalle possenti mani di Garp.

“Visto? Niente di cui preoccuparsi.” Rincarò la dose il bel rosso visibilmente a cuor leggero.

“Vedo.” Rispose con non molto entusiasmo Ben, togliendosi dalla bocca la sigaretta non ancora accesa “E in che cosa consisterebbe questo tuo brillante piano?”

A rispondergli bastò un ghigno furbesco da parte del suo capitano, voltatosi verso di lui proprio mentre il suo haki faceva esplodere un altro paio di bombe scagliate da poco.

“Andiamo da Newgate, mi sembra ovvio.” Disse Shanks, assottigliando poi gli occhi in un sorriso “E il nonnetto ci viene dietro.”

Poco dopo, Ben diede l’ordine a mezzo equipaggio di mettersi ai remi, pregando tutte le divinità marine a lui conosciute che Shanks non finisse per esagerare come suo solito.

 

Atto 5, scena 2, Moby Dick

Una luce di pura determinazione passò sugli occhiali scuri di Betty, per un breve istante prima che, con gesto elegante e teatrale, allungasse una mano in avanti in segno di comando, elargendo un unico e semplice ordine che mandò nel panico Momo, nonostante non capisse il preciso significato di quelle parole.

“Prendetela!!” esclamò la donna.

Momo sbarrò gli occhi, nel vedersi in pochi secondi circondare da almeno una dozzina di infermiere che scattarono immediatamente su di lei, allungando le proprie mani smaltate (che a lei parvero più simile a zampe artigliate) nel tentativo di afferrarla.

La ragazza riuscì a sgusciare miracolosamente via dalle grinfie di tutte quelle donne, indubbiamente agili come delle leonesse, facendosi disperatamente strada sotto i tavoli della mensa, ormai quasi completamente vuoti.

I pochi presenti, tra cui proprio il capitano e i suoi cinque fidati comandanti, guardarono con malcelato divertimento quella specie di corsa ad ostacoli nella quale Momo si era buttata di sua spontanea volontà.

Ace si piegò all’indietro sullo schienale, mettendosi una mano sugli occhi per via del troppo ridere, tenendosi nel frattempo la pancia, ormai dolorante, mentre al suo fianco Satch, Marco, Jaws e Vista si appoggiavano con ben poca dignità sul ripiano del tavolo, soffocando come meglio potevano il divertimento ormai palese sui loro volti.

“Oddio! Non ce la faccio- ahah- no davvero, ditemi che non è vero!” biascicò senza ritegno il comandante della seconda flotta, passandosi una mano sulla fronte, lasciata scoperta dal cappello penzolante dietro la propria schiena.

Accanto a lui Satch tentò di rispondergli, ma dovette rinunciare non appena, con la coda dell’occhio intravide lo scricciolo sfuggire nuovamente alla presa di Carol, decisa più che mai come le altre a farle indossare quella divisa da infermiera che, con passaggi ben studiati, finiva nelle mani di chi si trovava più vicina alla naufraga, dando vita ad una specie di gioco della palla avvelenata dalla quale però Momo pareva non aver alcuna intenzione di partecipare, visto come scappava non appena si ritrovava di nuovo quel vestito rosa scollato e fatto su misura per lei.

I pirati di Barbabianca sapevano bene quanto Mindy, la più brava nei rammendi e negli aggiusti da sarta tra le infermiere, avesse speso su quella divisa, oggetto che riponeva tutte le loro speranze di vedere la piccola dispersa far parte del loro reparto.

Eeek!!”

Peccato che Momo non pareva essere della stessa opinione, a giudicare da come frenava ogni volta alla vista di quell’indumento.

Accanto a loro Edward Newgate faceva di tutto per non cacciare una delle sue colossali risate, ma sembrava ormai al limite della sopportazione.

Le loro sofferenze furono fortunatamente interrotte tuttavia da quella che pareva essere, finalmente, una conclusione a quella corsa sfrenata che aveva fatto da spettacolo a buona parte di loro: la naufraga si era improvvisamente accerchiata  da tutti i lati, senza possibilità di scampo e, per quanto facesse scattare febbrilmente gli occhi sotto tutti i tavoli a lei prossimi, finiva sempre per notare un paio di stivaletti leopardati ben piantati a terra.

Dall’angolo dell’occhio sinistro della ragazza fece capolino una lacrimuccia.

Insomma!  scoppiò inaspettatamente, scuotendo le braccia con fare impaziente, parlando nella sua incomprensibile lingua, lasciando di stucco le infermiere “Non la voglio mettere quella roba! Capito?! No! No e ancora no!!

“Povero scricciolo.” Su si sentì in dovere di dire Satch, ghignando con il suo tipico modo di fare scherzoso ed ottimista, attirando su di sé un’occhiataccia molto eloquente da parte di Ace. Sembrava che di recente il moro non gradisse quel nomignolo. Eppure non era da poco che aveva cominciato ad usarlo.

Azzardò ad un sorriso nei confronti del fratellino, ricevendo però in risposta solo un ringhio sommesso.

Il comandante in quarta sospirò a quella reazione, alzando le mani e lo sguardo verso l’alto per sott’intendere con non aveva detto nulla di male, continuando tuttavia a sorridere imperterrito, mentre con la coda dell’occhio vide Vista alzarsi per soccorrere la ragazza, da bravo gentiluomo.

Il comandante dai lunghi baffi non fece però in tempo a compiere due passi, che già Momo sbalordì sia loro che il resto della ciurma, aggirando con un paio di mosse l’attacco simultaneo di due donne più grandi per poi salire il più in fretta possibile su un tavolo e scavalcarlo, uscendo così dall’accerchiamento nel quale era caduta pochi istanti prima.

All’inaspettato risvolto della situazione alcuni fischi di incoraggiamento si levarono dai tavoli, diretti alla ragazza che stava dando il meglio di sé nonostante i larghi e scomodi vestiti di Marco le impacciassero in modo considerevole i movimenti.

“Vai Momo! Seminale!! Coraggio!!” scattò in avanti Ace con un braccio, esaltato manco stesse assistendo ad una corsa di cavalli. Accanto a lui Marco lo guardò sorridendo, tornando successivamente ad osservare la corsa sfrenata della naufraga.

Erano passati pochi minuti da quando avevano accompagnato Momo nella deserta sala mensa, essendo ormai l’ora di pranzo passata da un pezzo, eppure, nonostante la situazione pareva essersi alleggerita di parecchio, non riusciva a non pensare a quella stranissima luce che aveva visto pulsare sotto la pelle della ragazza.

Poi il suo nome urlato come una nota musicale neanche ventiquattr’ore prima, l’apparizione di un Re dei mari fuori dal proprio territorio … Tutti quegli episodi fuori dall’ordinario, anche per una ciurma come la loro, sembravano collegarsi ad una sola persona: Momo.

Il biondo poggiò il mento sulla mano, strofinandoselo appena con il palmo, avvertendo appena lo strato di ruvida barbetta che lo ricopriva. Ai suoi occhi, quella ragazza, che correva a perdifiato evitando ad ogni passo di incappare in un assalto delle infermiere, non sembrava nulla di speciale. Il suo aspetto era assolutamente normale, tuttavia…

I suoi occhi azzurri si assottigliarono impercettibilmente.

C’era qualcosa che lo lasciava perplesso.

Era stato un bene che lui ed Ace si fossero premurati poco prima di informare il babbo di quello che le avevano visto fare davanti all’infermeria. Si poteva dire che quella notizia aveva risollevato il buonumore dell’imperatore, facendogli pregustare non solo una nuova avventura, ma anche un nuovo componente da aggiungere alla famiglia.

Già, perché che Edward Newgate finisse sempre per adottare qualunque individuo gli ispirasse simpatia e forza di volontà non era affatto un mistero e quella ragazzina, per quanto indifesa e debole all’apparenza non faceva eccezione.

“Ehi, Marco. Tu che fai? Non tifi per la tua pupilla?”

La voce di Ace lo riscosse, facendolo sbuffare da una parte. Era mai possibile che non riuscisse a fare il serio per più di dieci minuti?

Aaah.” Aggiunse subito dopo il moro, sorridendo malizioso, facendo scintillare i proprio occhi neri con malizia “Ho capito!”

Un braccio muscoloso dell’altro gli circondò le spalle, scrollandolo con non molta delicatezza.

“Tu speri nella vittoria delle infermiere! Eh, sporcaccione?”

La Fenice avrebbe ben volentieri sferrato una gomitata nello stomaco del fratellino in risposta, ma si ritrovò a prestare nuovamente attenzione al centro della stanza, dove Momo si stava dirigendo a grande velocità in direzione del babbo, sempre seguita dalla mandria inferocita di infermiere.

Atto 5, scena 3, Arioso dello scricciolo contro i gatti

Mi gettai a capofitto tra i piedi del capitano, aggrappandomi con disperazione ai suoi pantaloni, respirando pesantemente per la lunga corsa.

Poco importava che fino a poche ora prima non mi sarei neppure lontanamente sognata di fare una cosa del genere. Cavoli, c’era la mia dignità in ballo! Di certo sapevo poco su di me, ma di una cosa era certa:  non mi sarei mai messa negli stessi succinti panni delle infermiere!

Mai e poi mai!

Cercai di riprendere fiato, notando con mia immensa gioia che le infermiere si erano fermate, stupite del mio gesto, mentre le mie mani afferravano con più convinzione l’enorme caviglia del capitano.

Quella che mi aveva spinto a cercare rifugio proprio dall’ultima persona che mi sarei mai immaginata era stata un’idea dettata dalla disperazione, ma infinitamente sensata in fin dei conti.

Del resto quel gigantone non mi aveva mai fatto nulla di male e, essendo fino a prova contraria la persona con più autorità sulla nave, avrebbe potuto in qualche modo sbrogliarmi da quella situazione di stallo.

Alzai gli occhi, assumendo la faccia più disperata e supplichevole che riuscii a racimolare dal più profondo del cuore, incontrando così gli occhi stupiti ed ancora un poco sbigottiti dell’enorme uomo dagli strani baffi.

“Signor capitano…!” esclamai  interrompendomi a causa del fiatone che sembrava non volersi decidere ad abbandonarmi “La prego,… mi aiuti!... Non ce la faccio più … a correre!” conclusi, poggiando poi sfinita la fronte sul tessuto ruvido dei suoi pantaloni, sperando in cuor mio che fosse riuscito a comprendere almeno a grandi linee il senso delle mie parole. 

Non avevo neppure la forza di spaventarmi, nemmeno quando sentii la risata cavernosa del gigante perforarmi da parte a parte come una lancia. Sentii altre voci, più vicine, raggiungere le mie orecchie confuse, ma chiaramente divertite.

A quanto pareva il mio comportamento era stato di loro gradimento, anche se io avrei volentieri fatto a meno di assumere il ruolo di pagliaccio della nave.

Vidi con la coda dell’occhio Penelope avvicinarsi quatta quatta sorridendo angelica come suo solito e io di tutta risposta mi aggrappai ancor di più alla caviglia del capitano, aderendo completamente con il corpo ai suoi pantaloni e sorreggendomi sia con le braccia che con le gambe, gonfiando le guance per farle capire che ero arrabbiata con lei. Non mi aspettavo che anche lei si mettesse a rincorrermi per farmi mettere quel vestito osceno.

Un gocciolone apparve sulla testa bionda dell’infermiera, seguita da un’espressione ferita. Oh no, cavolo, no, la faccia da innocente pentita non riuscivo a reggerla! Serrai gli occhi per non incontrare il volto supplicante di perdono di Penelope ed evitare così il senso di colpa che minacciava di assalirmi lo stomaco da un momento all’altro.

Poi sentii qualcosa afferrarmi per la vita, tirandomi via dalla caviglia del capitano in un attimo. Sbarrai gli occhi, voltandomi sorpresa, incontrando un viso sorridente costellato di lentiggini e incorniciato da un chioma di capelli ondulati e neri come gli occhi.

Saa, Momo-chan. Watashi-tachi wa fune ni notte iku?” il sorriso di Ace mi lasciò alquanto perplessa. Non sapevo che cosa mi avesse chiesto e per un attimo mi venne il dubbio che mi stesse portando tra le braccia del nemico rosa, ma, quando mi accorsi che mi stava trasportando in braccio verso l’uscita della mensa, mi dovetti ricredere.

Mi voltai in direzione di Marco, incontrando il suo sguardo, desiderando quasi di chiedergli che cosa stesse succedendo.

Ma prima che potessi anche solo cambiare idea sulle mie intenzioni uscimmo completamente dalla mensa ed Ace mi posò nuovamente a terra, cominciando a camminare incitandomi con una mano delicatamente poggiata sul mio braccio a seguirlo.

Dove stavamo andando?

 

Atto 5, scena 4

Satch scoccò un’occhiatina divertita verso Marco, improvvisamente rabbuiatosi in volto non appena Momo era scomparsa dalla porta accompagnata da Ace. Il suo sorriso si allargò ancora di più, capendo quello che si nascondeva dietro quell’espressione appena turbata da un’ombra di delusione: il suo fratellino aveva una cotta.

 Non era difficile capirlo: era da quando lo scricciolo aveva spiccicato il suo primo ringraziamento nei suoi confronti che Marco aveva cominciato a guardarla in maniera diversa. Se all’inizio il comportamento della Fenice verso la naufraga era stato guidato da una gentilezza di circostanza, in quel momento era più che mai evidente quanto stesse velocemente diventando una gelosia di , per così dire, primo stadio, talmente leggera da passare inosservata anche dallo stesso biondo .

Il comandante in quarta sospirò: era certo che Marco non si fosse ancora accorto di tutto quello che invece lui era riuscito a cogliere nei suoi gesti più recenti, e anche se avesse tentato di farglielo notare non avrebbe ottenuto granché. Marco era certamente il più ragionevole tra i suoi fratelli, ma sapeva anche essere più cocciuto di un mulo, quando ci si metteva.

 Tanto valeva punzecchiarlo e lasciare che gli eventi si sviluppassero da soli, tuttavia… Nella mente di Satch tornò alla mente l’occhiataccia che Ace gli aveva rivolto quando aveva chiamato Momo “scricciolo” e il solo ricordo fece sfumare un po’ il sorriso che si era stampato in faccia poco prima.

“Cavoli.” Sussurrò, accorgendosi che la situazione era più complicata del previsto.

“Uhm? Hai detto qualcosa Satch?” gli chiese Vista, sedutosi nuovamente alla sua sinistra dopo essere ritornato dal suo tentativo a vuoto di salvare la piccola Momo.

Lui non reagì subito, osservando prima il vuoto davanti a sé, poi, scoccando un’occhiata fugace a Marco, ancora perso nelle proprie pene d’amore, ritornò a sorridere come nulla fosse successo.

“Niente, niente. Stavo solo pensando che presto avremo qualcosa di cui parlare, fratellini.” Concluse, lasciando di stucco sia Jaws che Vista.

 

Atto 5, scena 5

Allora…” mormorò Ace, grattandosi la testa da sotto il cappello con fare pensieroso, mentre con una mano accompagnava Momo sul ponte della nave “… da dove cominciamo?” disse infine lanciando un’occhiatina alla ragazza che, ancora confusa da quella situazione, lo guardava ad occhioni spalancati, cercando di capire cosa mai avesse intenzione di fare.

Alla vista di quel faccino, il volto di Ace si aprì istintivamente in un ghigno birichino che fece preoccupare un poco Momo, indecisa se darsela a gambe o meno.

Non le andava proprio di venire strapazzata un’altra volta da quel moro e l’idea di andarsi a rifugiare nuovamente accanto all’imponente figura del capitano era sempre più allettante man mano che il volto di Ace si… avvicinava al suo?!

Il naso di Ace arrivò a stuzzicare con la propria punta quello di Momo, rossa in viso come un pomodoro e rigida come un pezzo di legno, fermandosi lì per un attimo per poi ritrarsi di scatto, lasciando che il moro potesse godersi la vista della ragazza completamente persa nel più completo imbarazzo.

Ace guardò Momo balbettare qualcosa a mezza voce con labbra tremanti, ridacchiando poi a quella scena mentre si abbassava appena il cappello sul viso. Sembrava una fragolina tanto era arrossita.

Il comandante in seconda serrò le labbra, cercando di non scoppiare in una risatina che sarebbe potuta apparire offensiva all’altra, anche se la tentazione era molto forte. Ma, d’altra parte non era per prendere in giro Momo che si era offerto di farle compagnia per il resto della giornata: dovevano ancora fare il giro turistico a cui Betty lo aveva costretto, anche se in quel momento non ne era affatto dispiaciuto.

Avrebbe  avuto tutto il tempo del mondo per rimediare alle sue ultime gaffe con la piccola, specie quella derivata dal loro primo faccia a faccia, date le proporzioni della nave. D’altra parte però la scelta da dove cominciare il giro era ardua: avrebbe rischiato di farla annoiare se avesse cominciato a mostrarle le cose più interessanti e poi i ponti che stavano più in basso.

Ci ragionò un po’ su: la stiva era completamente fuori discussione, troppo in basso e troppo fredda (per non parlare di troppo vicina all’acqua); gli alloggi dei più bassi di grado nemmeno, quegli allupati erano messi peggio di lui in fatto di astinenza ed era già tanto che riuscissero ad annusare anche solo da lontano le infermiere del babbo; la mensa già la conosceva; l’infermeria pure, mmmh, magari…

D’improvviso un’idea gli balenò in testa, facendolo di nuovo sorridere sornione.

Trovato.

“Ok, Momo. Andiamo.” Disse dirigendosi verso un punto preciso della grande imbarcazione, spingendo in avanti il più delicatamente possibile la ragazza che ancora lo guardava dubbiosa.

 

Atto 5, scena 6

Negli immensi ed intricati corridoi della Moby Dick, studiati e costruiti appositamente per consentire il passaggio della mastodontica presenza del capitano Edward Newgate, Marshall D. Teach marciava a passo spedito, ridacchiando a mascelle serrate, facendo mostra della sua putrida ed irregolare dentatura con più convinzione del solito, facendo rabbrividire non di poco i più giovani membri dell’equipaggio che notarono quell’inquietante ed appena percettibile cambiamento.

Tutti sulla nave rispettavano Teach, non solo per l’età e per la distinta abilità con la quale si muoveva in battaglia, simile a quello di un serpente che evita gli ostacoli più piccoli per poi puntare dritto sulla preda nel modo più sicuro possibile, ma anche per il modo in cui era in grado di cambiare radicalmente umore da un secondo all’altro. Molte volte, all’insaputa del babbo, Teach Barbanera non aveva esitato a dar sfoggio della parte peggiore di sé ai membri più inesperti dell’equipaggio, finendo per mandare tra le braccia di Betty e Penelope gran parte dei suoi fratelli con un braccio spezzato a causa di una parolina di troppo.

L’uomo in fondo non si preoccupava di questi piccoli incidenti che il suo carattere a volte provocava. Non era poi tanto strano che qualcuno della ciurma si recasse piagnucolante dalle infermiere e poi nessuno di loro si era mai lamentato dopo essere usciti da quella piccola fetta di paradiso che prendeva il nome di “Reparto Ricovero”.

Si poteva anche dire che la sua era una buona azione, no?

In ogni caso, quello che faceva sorridere in modo così sguaiato Teach non aveva nulla a che vedere con uno dei suoi temibili sbalzi di umore, né tantomeno con l’equipe infermieristica del babbo, bensì con qualcosa di più succulento ed allettante.

La porta della sua piccola cabina gli si richiuse alle spalle con un cigolio appena pronunciato, mentre con ben poca eleganza si lasciava cadere sulla branda, afferrando al volo un piccolo volumetto seminascosto tra i pochi e grossi libri che occupavano disordinatamente lo scaffale a muro mal sistemato sulla parete in legno.

Era un taccuino rosso e pieno di fogli volanti che sporgevano fuori, minacciando di svolazzare allegramente per la stanza da un momento all’altro.

La mano tozza e scura del pirata spalancò con gesto secco il povero libricino proprio dove la sua mente aveva puntato con il pensiero ed i suoi occhi stralunati lampeggiarono di una strana luce mentre scorrevano su quelle parole confuse e veloci scritte di propria mano tempo addietro.

Una risata scivolò sommessa tra i denti, riempiendo la stanza con quel suono minaccioso che prometteva tutto fuorché qualcosa di buono.

Finalmente ne aveva trovata una. Non avrebbe mai creduto di incappare in una di quelle creature in modo così semplice e dire che l’isola dove risiedevano era sconosciuta persino alla Marina. Osservò con fare maniacale ancora un paio di volte gli appunti che era riuscito a su rischio e pericolo a raccogliere su quelle straordinarie creature che aveva cercato più e più volte nel corso della sua vita, ma solo per rinunciarvi dopo aver puntato sul frutto del diavolo da lui cercato.

Il suo ghigno si allargò se possibile ancor più di prima.

No. A questo punto non avrebbe avuto senso cercare un frutto del diavolo. Non con quella piccola fortuna capitata a bordo. Quasi gli scappò da ridere ancora più forte al pensiero che nessuno a parte lui era a conoscenza delle vere capacità di quella ragazzina dall’aria sperduta coccolata dalle infermiere.

Nemmeno quello stupido di Newgate era riuscito a capire la sua vera natura, nemmeno dopo gli ultimi avvenimenti. Ma lui sì.

Gli indizi fin’ora raccolti erano inequivocabili e non lasciavano alcun dubbio.

Ora non gli serviva altro che acchiapparla e procedere con il suo piano. Rilesse ancora una volta le ultime tre righe dei suoi appunti.

“ … Notturne. Vivono di notte al centro dell’isola. Piante come difesa (??). Di giorno se sveglie non escono mai allo scoperto a causa della forte luce del sole e dei predatori.  Linguaggio sconosciuto. Basato su suoni polifonici melodici. Amano la musica. La notte dà loro sollievo fisico e mentale. Sono attirate dalle stelle. …”

Alcune parti di quelle informazioni non gli erano mai state chiare, ma una cosa la capiva: doveva agire di notte.

Ridacchiò ancora una volta, leccandosi oscenamente le labbra  al pensiero dell’immenso potere che si sarebbe presto procurato. Nessuno lo avrebbe sconfitto, né deriso. Nessuno.

Nemmeno Barbabianca.

Sarebbe stato temuto dal mondo intero.

 

Atto 5, scena 7, Arioso al tramonto

Ero sollevata che Ace mi stesse solamente facendo vedere la nave, ma questo non toglieva il fatto che ero arrabbiata. Le mie guance erano gonfie già da un po’ a causa della stizza che il ricordo del suo comportamento di poco prima mi provocava.

Pazzesco. Aveva strofinato il suo naso con il mio! E io come una scema ero rimasta immobile come un pesce lesso! Mi veniva quasi da piangere. Possibile che quel ragazzo non facesse altro che farmi accumulare figuracce su figuracce?

Però, pensai sentendomi la punta del naso prudere dolcemente e io me la strofinai, sentendolo leggermente caldo. E di nuovo mi sentii intorpidita. Che cosa mi succedeva?

Mi riscossi solo dopo che il mio viso scontrò la schiena tatuata di Ace, fermatosi all’improvviso davanti a me, facendomi lanciare un grugnito di disappunto.

“Perché ti sei fermato?” dissi inutilmente, vedendolo solo voltarsi sorridendo come suo solito.

No, no. Niente sorrisetti.

 Per favore. L’ultimo sorrisino che mi aveva fatto era stato succeduto da uno scherzo di pessimo gusto in lavanderia. Al solo ripensarci mi veniva la pelle d’oca. Ma che senso aveva sventolarmi sotto il naso i calzoni sporchi di almeno mezzo equipaggio?!

 Soltanto il ricordo di tutto quel fetore mi faceva venire la nausea.

Purtroppo però la sua espressione ebete non sparì, anzi, si accentuò mentre io indietreggiavo intimorita.

Ima, sugu hairaito wa shite imasu!” Lo seniti dire per poi scattare in un istante su di me circondandomi con un braccio la vita. Arrossii violentemente mentre mi sentii tirare contro il suo petto. “Koko ni kite.

M-ma… che fai?” balbettai cercando di ribellarmi alla sua presa, ma fu tutto inutile e poco dopo mi ritrovai appesa al suo braccio, mentre lui si arrampicava sulle sartie della nave.

Mi veniva da piangere doppiamente. Pregai che Marco o Penelope venissero a salvarmi, altrimenti sarei morta d’infarto con quello scemo che faceva finta di farmi cadere ad ogni metro, ridendo di gusto alle mie esclamazioni terrorizzate.

“Giuro che se mai imparerò la tua lingua ti farò rimpiangere questi momenti!” borbottai sentendomi stranamente incline alla vendetta.

Già, imparare la lingua. Di colpo mi rabbuiai, imbronciandomi. Come avrei fatto ad imparare la lingua se non parlavo con Marco? Non potevo certo cambiare insegnante, si sarebbe offeso, ma il pensiero di lasciar uscire ancora una volta quegli strani suoni dalla gola mi mettevano una strana ansia addosso. Avevo il presentimento che non sarebbe stata una buona cosa lasciarmi sfuggire un altro i quei versi, almeno non ancora.

Mi mordicchiai il labbro inferiore, presa da una strana, stranissima urgenza che mi puntellava il petto: volevo parlare con Marco, lo volevo davvero.

Saa tsui ta zo.

Sentii Ace appoggiarmi delicatamente su qualcosa di solido. Finalmente, pensai, non ce la facevo più a penzolare con braccia e gambe sospese nel vuoto.

Sospirai sollevata come non mai per poi scoccare un’occhiataccia significativa ad Ace che, intuito quello che gli avrei tanto voluto dire, sorrise nervosamente strofinandosi il retro del collo, mentre biascicava qualcosa che sperai, per il suo bene, fossero delle parole di scusa.

De, akachan kite! Watashi wa koko o motarashi ta riyū ima watashi wa anata o shōkai shimasu.Saa.

Mi posò una mano sulla spalla spingendomi da una parte e fu in quel momento che mi accorsi di dove ci trovavamo: eravamo sulla vedetta più alta della nave. Non appena il mio cervello riuscì a realizzare la situazione, mi voltai verso di lui a bocca spalancata, cominciando seriamente a temere il peggio.

Che voleva fare? Prendermi in braccio e buttarsi insieme a me nel vuoto, giusto per farmi tirare definitivamente le cuoia. Sapevo che non ci saremmo fatti male, visto che, durante la fuga dall’enorme serpentone nero dell’altro giorno, Ace mi aveva dimostrato di avere un’agilità fuori dal comune. 

Ma questo non toglieva il fatto che avevo una paura tremenda!

Mi misi subito sulla difensiva, guardandolo sospettosa, mentre con le mani mi assicuravo all’albero maestro dietro di me, ma lui non fece altro che ridacchiare e, dopo essersi seduto tranquillamente accanto a me, mi indicò con una mano un punto imprecisato all’orizzonte.

Ancora un po’ indecisa se fidarmi o meno, lo studiai ancora per qualche istante per poi finalmente seguire la direzione indicatami.

Rimasi di sasso e di getto dalla mia bocca socchiusa proruppe un ‘esclamazione di puro stupore che fece sorridere ancora di più Ace.

Davanti a me il cielo era completamente ricoperto di rosso. Non mi ero accorta che fosse arrivata la sera e vedere il cielo così colorato e ricco di sfumature mi lasciò completamente sbalordita.

Non avevo mai visto uno spettacolo simile. Ne ero certa. In tutta la mia vita, anche se non me ne ricordavo, non mi era mai capitato di assistere ad una cosa tanto bella. Il sole brillava all’orizzonte diviso a metà dalla linea del mare e la volta celeste si era tinta di rosso, arancione rosa, giallo viola e blu, sfumandosi in colorazioni sempre più fredde man mano che si allontanava da quel cerchio luminoso.

Non mi accorsi di essermi seduta anche io accanto ad Ace, né del fatto che mi stesse osservando. In quel momento per me esisteva solamente il rumore delle onde che si abbattevano lontane contro la chiglia della nave, le voci melodiche ed echeggianti dei gabbiani in lontananza, il flebile ondeggiare dell’imbarcazione, la sensazione del vento serale che mi accarezzava dolcemente le guance, rinfrescandole appena.

Mi sembrava un miracolo poter assistere una cosa simile e avrei tanto voluto che non finisse mai.

Fu però la mano di Ace a rompere quell’incantesimo, scuotendomi leggermente la spalla per farmi svegliare dal mio stato di contemplazione.

Lo vidi osservarmi con un sorriso intenerito, prima che mi scompigliasse delicatamente i capelli, scendendo poi ad asciugarmi le guance.

Solo allora mi accorsi di essermi messa a piangere senza rendermene conto.

Mi voltai da una parte di scatto, pulendomi da sola il viso dalle ultime tracce del mio pianto. Che figuraccia. Oltretutto, là dove Ace aveva passato le dita accarezzandomi appena le guance, era rimasta una strana scia, una sensazione di calore che mi solleticava ancora il viso, facendolo arrossire appena.

“Ma perché sono sempre così scema?” sussurrai tra me e me, per poi sentirmi sollevare e trasportare accanto a basso parapetto della vedetta.

Ok, ima wareware ga iku!” disse con il solito sorrisetto malandrino ricomparso sul suo viso per poi lasciarsi cadere nel vuoto insieme a me. Feci uno sforzo a dir poco sovrumano per non urlare, mentre mi aggrappavo con forza al suo collo.

Una cosa era certa: quella era l’ultima volta che mi fidavo di Ace! L’ultima!

 

Atto 5, scena 8 

Marco non era mai stato un tipo apprensivo.

Era più che altro uno di quei ragazzi calmi che vivono e lasciano vivere, senza mai mettersi ad assillare i compagni di viaggio a meno che la situazione non fosse tanto insostenibile da richiedere un minimo di disciplina. Erano in molti sulla nave a tessere le sue lodi, sottolineando l’assoluta calma ed imparzialità che adottava in ogni situazione, senza mai fare né preferenze né scenate di alcun genere.

Non per nulla era il comandante della prima flotta. In sostanza era un tipo riflessivo, dedito più ai libri ed agli scacchi che alle scaramucce controproducenti nelle quali alcuni della sua ciurma si gettavano a capofitto come dei bambini ansiosi di portare a casa qualche livido o cicatrice come trofeo.

Eppure in quel momento, Marco, si sentiva in dovere di fare tutto fuorché riflettere. Specie dopo aver visto Ace atterrare incolume sul ponte della nave con una Momo tremante e spaventatissima tra le braccia.

Gli ci volle non poca parte del suo encomiabile autocontrollo per sopprimere l’istinto di prendere il fratellino per la calotta ed appenderlo alle sartie della nave.

Possibile che quel Portuguese non ne combinasse una giusta?!

E dire che era semplicemente venuto a controllare se il giro della nave fosse terminato! Invece che cosa si ritrovava?

Momo spaventata e tremante come un gattino a cui avevano pestato ingiustamente la coda, tenuta stretta da Ace con un bel ghigno malandrino stampato in faccia.

Il biondo sospirò esasperato, massaggiandosi gli occhi con due dita: aveva deciso di cercare di parlare con Momo prima di cena, ma, date le circostanze, l’impresa si sarebbe dimostrata più ardua del previsto.

E chi doveva ringraziare? Ace, ovviamente.

Si avvicinò a passo calmo verso i due, attirando così l’attenzione del fratellino che, appena lo vide, sbiancò letteralmente, bloccando i suoi tentativi di calmare la ragazza, ancora stretta al suo collo.

Oh…” disse, cominciando a sudare freddo “… ciao, Marco.”

Quelle parole fecero smettere istantaneamente di tremare Momo, che, al suono del nome del biondo, si era voltata ad occhi spalancati, oltre la spalla del moro.

La Fenice inarcò un sopracciglio, facendogli intendere che non se la sarebbe cavata così a buon mercato.

“Posso spiegare.” Fu la debole giustificazione di Pugno di fuoco, mentre la naufraga scivolava via da lui.

Di nuovo Marco gli lanciò un’occhiata sbieca, mentre si premurava di controllare con la coda dell’occhio le mosse di Momo, ora voltata di spalle rispetto a lui. Quella vista gli diede una brutta fitta allo stomaco che si costrinse a non ascoltare, continuando a tenere sotto torchio Ace.

“E che cosa, c’è da spiegare?” chiese ironicamente alzando gli occhi al cielo che si stava imbrunendo sopra le loro teste “Io ti ho semplicemente visto scendere dalla vedetta dell’albero maestro con il preciso intento di far spaventare Momo.”

“Ma no! No! Che dici!” scosse vigorosamente la testa Ace, agitando le mani in avanti “Io volevo solo farla divertire! Non credevo che si sarebbe spaventata così tanto da- …”

“Avvinghiarsi a te come una piovra?” terminò con tono quasi acido il biondo, sfidandolo con gli occhi a smentire.

A rispondergli bastò il sorriso imbarazzato del moro, colto in fallo. Eh, poteva farla a chiunque, ma non a Marco.

“E poi sarei io lo sporcaccione.” Aggiunse con uno sbuffo Marco, riferendosi alla battuta rivoltagli poche ore prima dal fratello. I suoi occhi azzurri si posarono sulla schiena di Momo, ancora rivolta verso di lui.

La osservò tristemente, indeciso se tentare o meno di parlarle, ma alla fine decise che tanto valeva provarci, almeno per capire che cosa mai spingesse la ragazza ad evitarlo.

Incrociò gli occhi color onice di Ace.

“Vorrei provare a parlare con Momo, ti dispiace?” chiese, ottenendo, dopo un paio di lunghissimi secondi, un segno di assenso da parte del moro.

Quando Ace fu scomparso dalla porta che conduceva alla sottocoperta, Marco si rivolse verso la ragazza, ora intenta ad osservarla confusa dalla nuova situazione creatasi.

Sospirò chiudendo gli occhi, evitando così di incrociare direttamente lo sguardo di Momo.

“Stai bene?” cominciò, avvicinandosi di un passo a lei, constatando con suo grande sollievo, che non cercò di allontanarsi in alcun modo, nonostante pareva più che decisa a non rispondergli: non era spaventata da lui dunque.

Bene, pensò sorridendo appena a quella constatazione, almeno non era lui il motivo di quell’improvviso mutismo nei suoi confronti.

Momo intanto si era ormai completamente girata verso di lui, scrutandolo in aspettativa, mentre si torturava con le mani l’orlo dell’enorme camicia che le aveva prestato.

Doveva ammettere che non le stava male, anche se era decisamente troppo larga rispetto al suo corpicino esile e non ancora ripresosi dal digiuno del suo naufragio.

In effetti mangiava davvero poco.

Un’idea lo sorprese di punto in bianco.

“Aspetta qui.” Disse indicandole il ponte con un dito per farle capire di aspettarlo e lei parve capire, vistosil segno di assenso che gli rivolse con la testa.

Dopo essersi lasciato alle spalle la porta del ponte, Marco affrettò il passo, dirigendosi verso la mensa della nave. Avrebbe usato il cibo per passare un po’ di tempo con lei, così da riuscire a capire quello che stava succedendo e magari anche scoprire qualcosa di più sulle sue strane capacità che avevano tanto esaltato il babbo, quanto preoccupato lui.

 

Fine Atto Quinto.

Eccomi qua! Mi dispiace per il leggero ritardo =3 sono stata un po’ impegnata di recente che sto cercando di dare una spintarella anche a Nanaban Hana che proprio non riesco a continuare se non a pezzi piccolissimi. Aaargh. Sto impazzendo. Dopo questo capitolo mi metterò sopra NH e cercherò di pubblicare i capitoli di entrambe le ff in alternanza. E non si può continuare così!

Oook. Finito lo sclero. Ora passiamo a KnA! Rispondo ad una domandina che mi è stata posta da una di voi. Io conosco giusto un po’ di giapponese e lo studio da autodidatta, quindi si può dire che conosco discretamente la lingua, almeno le frasi più comuni, per le altre a volte mi devo aiutare con traduttori automatici e il libro di grammatica.

Spero che abbiate gradito l’inserimento delle Note di Libretto! ^^

L’ho inserito anche alla fine dei capitoli precedenti! Sempre per servirvi (inchino).

Allora. Parlando dell’atto: che dite sono riuscita a non essere monotona? Nel prossimo capitolo ne vedremo delle belle! Infatti vi anticipo un incontro tra Momo e lo schiavista str- Roid.

E qui si incentra la prossima domanda!

Momo come reagirà alla vista di Roid? (ricorderà? Non ricorderà? Scapperà? Altro?)

E dopo questo aggiungo un’altra domandina meno importante (>_> see come no, sono sicura mi lincerete):

Marco ruscirà a parlare con la piccola o finirà con un nulla di fatto?

E qui vi lascio alle vostre recensioni costruttive!

Popolo! Votate! XD

Kiss kiss.

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Saa, Momo-chan. Watashi-tachi wa fune ni notte iku?  > Allora Momo. Andiamo a fare un giretto per la nave?

Ima, sugu hairaito wa shite imasu.  >  Ed ora il pezzo forte.

Koko ni kite.  >  Su vieni qui.

Saa tsui ta zo  >  Eccoci qua.

De, akachan kite! Watashi wa koko o motarashi ta riyū ima watashi wa anata o shōkai shimasu.Saa.  >  Eddai, piccola. Ora ti faccio vedere perchè ti ho portato qui.

Ok, ima wareware ga iku!  > Ok, adesso scendiamo!

 

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Capitolo 7
*** Atto 6 -prima parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 6 –parte prima-

Atto 6, scena 1

Nella mensa la ciurma del grande Imperatore Bianco era già immersa nelle delizie della cena, quando Ace, più mesto in viso che mai, apparve nella sala, dirigendosi a passi veloci verso il tavolo dei comandanti, tenendo le mani nelle tasche dei pantaloni. Ad attenderlo, con il suo solito sorrisino solare, c’era Satch, affiancato da Vista e da Jaws, troppo presi a parlare tra loro per accorgersi della sua apparizione.

Il moro si gettò senza troppi preamboli sulla propria sedia, una delle più vicine al babbo, sbuffando con una non trascurabile nota di stizza. E che stizza! Persino quel musone di Jaws, dovette ammetterlo quando quel rumore gli fece accorgere dell’arrivo del fratello, non sarebbe riuscito a fare di meglio.

Satch lo squadrò, intuendo pienamente quello che doveva essere accaduto e questo fece sì che il suo sorriso si sfumasse di divertimento e soddisfazione.

 Non avrebbe mai creduto che Ace e Marco ci avrebbero messo così poco ad entrare in competizione: e dire che la Fenice era scomparsa dalla mensa da nemmeno dieci minuti!

“Tutto bene, Ace?” chiese il biondo ostentando la migliore delle sue espressioni da faccia tosta.

Pugno di Fuoco gli rispose dapprima con un ennesimo sbuffo, incrociando le mani dietro la testa, calandosi meglio sul viso il cappello con lo stesso movimento, poi, con le labbra rivolte all’ingiù in una smorfia tutt’altro che felice, diede voce ai propri pensieri:

“Insomma.” Disse, attirando non solo l’attenzione di Vista e di Jaws, ma anche quella di Edward Newgate e Betty, lì vicino solo per controllare meglio le dosi di sake ingurgitate dal capitano. Il moro intercalò quella pausa con un sospiro mezzo affranto e mezzo scocciato “Non è andata benissimo con Momo…

Un sopracciglio biondo di Satch scattò all’insù, non aggiungendo né chiedendo altro in proposito, attendendo pazientemente che l’altro vuotasse il sacco da sé. Ace poteva essere orgoglioso, cocciuto e tante altre cose, ma sapeva bene di non potersi tenere troppo a lungo i propri crucci.

Bastava pazientare un po’ e si sarebbe sfogato da solo.

Un ringhio irritato esplose nella gola del comandante in seconda, mentre scattava in avanti con la schiena, stropicciandosi nervosamente i capelli già spettinati di loro. Il tutto sotto le occhiate mezze stranite, mezze divertite di Vista, Jaws e Barbabianca.

“Ma in che cosa sbaglio?” fu la fatidica ed ingrata domanda, cacciata fuori quasi in un sospiro dalle labbra del moro, fiondatosi, con la stessa grinta di un bradipo, con la forchetta nel proprio piatto di pasta.

Satch fu sul punto di dire qualcosa ma, bloccato dalle occhiatine significative di Vista, già sogghignante di fronte all’invitante prospettiva di dar sfoggio delle sue conoscenze in materia, impose alla propria natura da ficcanaso patentato di mettere bocca sulla questione in un secondo momento.

“Non credo che con la madamigella farai molta strada, continuando in questo modo.” Decretò lisciandosi seraficamente i baffi il comandante in quinta, facendo scattare su di lui gli occhi di tutti, in primis quelli stupiti di Ace.

“In che senso?Spiegati.” rispose un poco punto sul vivo da quell’affermazione. Insomma, lui cercava solo di farla divertire e farla sentire al sicuro, ma tutto quello che faceva sembrava finire inevitabilmente con un bel buco nell’acqua.

Accanto a lui Satch ridacchiò e questo gli diede una buona ragione per fulminarlo con gli occhi.

Da parte sua però il biondo non accusò il colpo del fratellino: era troppo divertente vedere Ace brancolare nel buio in quel modo, nonostante la risposta fosse talmente semplice e lampante. Persino lui era riuscito a capire dove Vista volesse andare a parare.

“Come ti appare la signorina Momo?” rispose intanto l’uomo dal cilindro, quasi facendo finta di non aver udito la domanda impaziente di Pugno d Fuoco, continuando imperterrito ad accarezzarsi i baffi.

A quelle parole il moro strabuzzò gli occhi, accigliandosi poi con fare sospettoso.

“Come mi appare?”

“Sì. Come la descriveresti a parole tue?”

Ace gli scoccò un’altra occhiatina sospettosa, alzando poi lo sguardo pensieroso verso l’alto, ragionando meglio su quello che l’altro gli aveva chiesto.

Per un attimo si figurò l’immagine di Momo, il suo corpicino esile non ancora del tutto ripreso dal digiuno del naufragio, il modo in cui allargava gli occhi quando si sforzava di capire qualcosa di nuovo, il tremore che sembrava scuoterla da capo a piedi ogni volta che veniva colta da un attacco di panico, il modo in cui si era poggiata al suo petto davanti all’infermeria…

Tutto quello gli fece salire spontanei due aggettivi.

Satch lo guardò aprire bocca con trepidazione, aspettando la fatidica risposta del moro che non tardò ad arrivare.

“Piccola e fragile.”

E a quel punto il comandante della quarta flotta non riuscì più a trattenersi dal parlare.

“Tombola!” esclamò divertito, non riuscendo però a contagiare con il proprio sorriso anche Ace che, troppo confuso dalla situazione, si limitò ad incitare il biondo a starsene zitto con un’occhiata.

Cosa che, ovviamente, Satch non fece.

“Sei troppo rude con lo scricciolo, Ace, devi trattarla con un po’ più di riguardo!” aggiunse il biondo, ricevendo appoggio da parte di Vista e Jaws, che annuirono vigorosamente alle sue affermazioni.

“Ma io non sono rude!” obbiettò con convinzione il moro lentigginoso, guadagnandosi da tutti, compresi il babbo e Betty, degli sguardi decisamente poco convinti, cosa che gli fece seriamente rivalutare le sue ultime parole.

Abbassò istintivamente con una mano il cappello davanti agli occhi.

“Ok, forse un pochino lo sono…” ammise, nascondendo il proprio imbarazzo dietro la falda arancione del proprio copricapo “…, ma il fatto rimane che non riesco a capire come trattarla! Ad ogni cosa che faccio o si mette a piangere o si arrabbia!” si giustificò immediatamente, spostando lo sguardo da una parte, provocando le risatine mezze intenerite e mezze divertite degli altri quattro.

Satch ci aveva visto giusto: anche Ace era più o meno nella stessa situazione di Marco, l’unica differenza era che lui almeno sapeva di esserci, mentre il biondo ancora no. Soppresse a stento una risatina di troppo: ci sarebbe stato da divertirsi.

Uff… voi uomini.”

Tutti quanti si girarono verso Betty, che, lasciato il compito di esaminare la cartella del capitano a Carol, si era avvicinata verso di loro, ancheggiando in modo talmente letale da scatenare una sinfonia di emorragie dal setto nasale di almeno una decina di tavoli dietro di lei. Come faceva a non accorgersene?! Quegli occhiali scuri che si ritrovava dovevano essere davvero micidiali per non farle notare una cosa così lampante! Betty come carattere non era certo la donna più socievole e trattabile del mondo - concesso -, ma se la si guardava sotto un altro punto di vista, letteralmente, diventava immediatamente la più bella cosa da guardare nell’ora dei pasti, omettendo l’eterea ed angelica presenza di Penelope al suo fianco, e questo le aveva fatto guadagnare nel giro di poche ore dal suo arrivo sulla nave il titolo di “spezza-cuori della Moby”, tante erano state le povere anime che, impavide, avevano tentato di, se non far breccia nel suo cuore duro come il ghiaccio, riuscire nella folle impresa di incastrarla sotto un intreccio di lenzuola.

I quattro comandanti osservarono la formosa figura di Betty sedersi con nonchalance sul ripiano del loro tavolo, cominciando a guardarsi distrattamente le unghie di una mano, dando loro le spalle.

“Scovate ed esplorate isole su isole seguendo qualche indicazione su una mappa ingiallita, sbaragliate eserciti di marines con il semplice gesto di una mano…” disse con tono pensieroso la donna, accavallando elegantemente le gambe. E via altri dieci tavoli. “… ma vi perdete come dei bambini quando si tratta di leggere nel cuore di una donna.” Terminò con un sospiro mezzo affranto.

Si voltò verso i quattro comandanti, constatando, con una punta di soddisfazione visibile nell’incurvatura della sua bocca, che pendevano letteralmente dalle sue labbra, specie il comandante Ace.

Rimase per un istante in silenzio, puntando i propri occhi invisibili su volto d Pugno di Fuoco, saggiando compiaciuta la tensione da lei stessa creata, alzando poi una per volta le dita della mano che poco prima stava esaminando.

“Delicatezza. Moderatezza. Inventiva.” Disse in un lampo, lasciando spiazzato il moro e prossimi ad uno scoppio di risate Satch e gli altri.

“Ovvero?” la domanda scivolò quasi da sola dalle labbra di Ace, facendo sbuffare clamorosamente Betty. Chissà se quel testone avrebbe capito meglio usando dei disegnini…

“Ovvero, Comandante Ace” scandì, calcando con impazienza le ultime due parole “…, trattatela con la stessa cura che si usa con una bambola di porcellana, non fate il cafone, non invadete i suoi spazi e soprattutto” fece una pausa enfatizzando l’ultima parte come in una supplica, alzando gli occhi, nascosti dalle lenti degli occhiali, al soffitto della mensa “… fate qualcosa di carino per lei.”

La faccia di Ace era a dir poco scombussolata.

“In sostanza, fratellino: non fare più quello che hai fatto fino ad ora ed aspetta che sia lei a venire da te. ” intervenne con tono divertito Satch, non riscuotendo però alcuna reazione negativa da parte del moro, che intanto si era messo a vagare con gli occhi neri come la brace un punto indeterminato della sala.

 Nella sua mente troneggiava l’espressione di Momo davanti al tramonto che l’aveva portata ad assistere, il colore dei suoi capelli reso più caldo dalla luce cremisi della sera, i suoi occhi spalancati e rapiti da quello spettacolo come se non avesse mai avuto l’occasione di contemplarne uno simile, le sue lacrime di pura commozione scivolare lungo le sue guance leggermente abbronzate dal sole.

Un ghigno furbesco gli stirò le labbra: ma sì, in fondo che ci perdeva ad essere un poco paziente?

Di certo non sarebbe volata via.

 

Atto 6, scena 2

Marco si stupì di trovarla ancora lì quando riuscì a tornare sul ponte, tenendo con una mano il vassoio discretamente pieno del poco che era riuscito a racimolare dalla mensa. La notte era calata più velocemente del previsto ed il cielo si era imbrunito a tal punto da far comparire in lontananza le prime stelle della sera.

Vide la ragazza, rimanere seduta per terra a gambe incrociate con lo sguardo rivolto verso l’alto, alla bramosa ricerca, forse, di altre stelle, senza neanche voltarsi in sua direzione, sicuramente non avendo percepito il suo arrivo.

Rimase ancora per qualche istante sulla soglia che collegava la coperta al ponte, osservandola meglio nel suo vagare gli occhi lungo la volta del cielo notturno.

Il biondo si aspettò di vederli tornare a brillare come poche ore addietro, ma poi distolse lo sguardo, liberando la figura di Momo dal suo sguardo.

 Non sapeva perché, ma fissarla in modo così insistente in quella situazione gli diede quasi la netta impressione di star assistendo a qualcosa di estremamente intimo, come se stesse assistendo ad un momento strettamente privato di cui lui era indesiderato spettatore.

Fu tentato di cedere all’urgenza di tornare sui propri passi, ma scosse subito la testa, chiedendosi cosa diavolo stesse andando a pensare.

Non era da lui comportarsi in quella maniera. Ma il fatto era che...

I suoi occhi azzurri ritornarono sul volto di Momo, trovandolo ancora concentrato sui piccoli lumini che uno ad uno iniziavano ad apparire sulle loro teste. Le palpebre erano leggermente abbassate in un’espressione trasognata e vagamente rilassata.

Serrò le mascelle, maledicendo la linea dei propri pensieri.

… gli dispiaceva distruggerle quel momento di tranquillità.

Si sforzò di ignorare la rigidità che avevano assunto i suoi muscoli, trascinandosi con meno facilità del solito al centro del ponte, dove Momo continuava ad osservare il cielo.

Arrivò a meno di un metro da lei senza troppi problemi, nonostante quella strana vocina dentro il suo petto continuasse ad urlargli insistentemente di lasciarle lì il vassoio e girare i tacchi.

Poi, incredibilmente, la vide sbattere un paio di volte gli occhi stupita e girarsi verso di lui, facendo incontrare i loro sguardi.

E la vocina petulante si zittì in un istante.

“Ti ho portato da mangiare.” Disse, recuperando immediatamente la propria compostezza, abbassandosi alla sua altezza flettendo un ginocchio.

Gli occhi di Momo indugiarono ancora un po’ su di lui, poi sul vassoio che aveva interposto tra loro , sciogliendosi infine in un’espressione a cui il cuore di Marco reagì mancando un battito: gli sorrise.

Non era nulla di speciale come sorriso, le labbra erano semplicemente strette tra loro e leggermente rivolte  all’insù, ma al primo comandante parve una cosa speciale come poche, così tanto che si era ritrovato a desiderare inconsciamente di risponderle allo stesso modo.

 

Atto 6, scena 3, Arioso della cena

Mi ero stupita di non aver sentito arrivare Marco.

Vedermelo apparire a pochi centimetri di distanza così all’improvviso mi aveva colto alla sprovvista, ma poi mi ero accorta che, oltre a non essersi dimenticato di me come avevo temuto pochi istanti prima, si era anche premurato di portarmi la cena.

Sorrisi di gratitudine e di sollievo, stringendo però inconsciamente le caviglie incrociate tra le mani a causa del prurito che di nuovo era esploso alla base della mia gola. Sperai che il mio sorriso non apparisse troppo tirato a causa di quella sgradevole sensazione che combatteva contro il mio forte desiderio di ringraziarlo.

Se soltanto avessi potuto dirgli “Arigatou gozaimasu” come mi avevano insegnato Betty e Penelope…

Ma sì, in fondo che male avrebbe fatto un semplice “grazie”? Di certo non sarebbe crollato il mondo.

Spinta da quel mio veloce e rassicurante ragionamento, atto soltanto ad auto-convincermi, diedi aria alla gola, guardando in viso Marco.

Il modo in cui sbarrò gli occhi, sorpreso di vedermi fare una cosa simile, mi fece però bloccare le parole a mezz’aria e io mi morsi le labbra per la rabbia.

Ma perché?! Perché sentivo di non doverlo fare? Che cosa spingeva il mio corpo a reagire in quell’assurda maniera?

Scossi la testa serrando gli occhi, mentre con un ringhio strozzato mi voltavo da un’altra parte, stropicciandomi i capelli per il nervoso. Non mi interessava che Marco fosse lì a guardarmi reagire in quella maniera: ero arcistufa! Non ne potevo più! Più cercavo di capirci qualcosa più mi sembrava impossibile dare una spiegazione logica a tutto quello che mi ritrovavo a subire!

Eppure c’era una spiegazione. Ne ero certa. In mezzo a quel profondo ed oscuro abisso che avevo in testa, avevo il sentore si nascondesse qualcosa di concreto. L’unica cosa che dovevo fare era dissipare quella maledettissima coltre che la sottraeva alla mia vista.

L’odore di qualcosa leggermente acre e lievemente salato mi stuzzicò le narici portandomi a riaprire di scatto gli occhi,  ritrovando davanti a me un piatto pieno di qualcosa che osai su due piedi definire polpa di pesce.

Sbalordita seguii la linea del braccio che mi teneva quella pietanza dinanzi, incontrando gli occhi azzurri all’apparenza assonnati di Marco.

E mi venne un colpo nel vederlo increspare le labbra in un leggerissimo sorriso.

Anata ga tabereba hoo ga ii desu.” Disse immediatamente lasciandomi stupita dal modo in cui scandì bene la frase, forse per farmi capire al meglio possibile le parole che la componevano.“Anata wa watashi yori yaseta desu.” Terminò con un tono che mi parve lievemente sarcastico.

Tra tutto quel groviglio incomprensibile di parole ero comunque riuscita a capire soltanto anata e watashi, e mi venne spontaneo solamente annuire ed allungare entrambe le mani sotto la stoviglia che mi stava porgendo, arrivando con le dita a percepire il calore emanato da quella pietanza attraverso la sottile ceramica di cui era composta.

La sua mano scivolò via come un soffio di vento e io, un poco imbarazzata da quella strana atmosfera che era improvvisamente calata su di noi, mi impegnai a portarmi alla bocca piccoli bocconi con le dita, tenendo la testa china per non incontrare il suo sguardo.

Cavoli, ma non c’era proprio nessuno sul ponte a quell’ora? A parte il rumore delle onde che si infrangevano sui fianchi della nave, l’unica cosa udibile in quel momento sembrava il suono emesso dai miei denti che masticavano la carne bianca di chissà quale animale!

Era strano però… Notai che, a differenza degli altri giorni, non mi creava alcun fastidio ingoiare. Neanche un minimo accenno di dolore. Neanche quando mandavo giù un boccone troppo consistente o mal masticato.

Lo trovai così strano che mi bloccai nell’atto di portarmi alla bocca un’altra manciata di pesce.

Osservai con fare critico i rimasugli della pietanza nel mio piatto, analizzando con sospetto ogni singolo filamento corposo che ne faceva parte, finché la voce di Marco non mi giunse alle orecchie, distraendomi.

 

Atto 6, scena 4

Dopo essersi seduto al suo fianco ed averle dato una delle pietanze da lui racimolate in mensa, era rimasto ad osservarla con il volto inclinato e sorretto da una mano, puntellando il gomito sulla gamba, studiandola in silenzio mentre masticava lentamente e con gusto ogni piccolo boccone.

Almeno finché non smise improvvisamente di mangiare senza alcun preavviso.

“Non hai più fame?” disse il comandante della prima flotta, fronteggiando nuovamente gli occhi della naufraga, in quel momento allargati da un leggero stupore, come se si fosse improvvisamente ricordata che ci fosse anche lui, seduto accanto a lei, sul ponte.

Alle sue parole Momo tentennò, certamente confusa dalle sue parole e forse anche combattuta se parlargli o meno. Non era difficile da capire. Poco prima l’aveva vista essere sul punto di azzardare una parola, ma solo per bloccarsi un istante prima di riuscirci e dissolvere quel momento di aspettativa che le sue labbra, schiuse in sua direzione, avevano creato.

Il biondo si corrucciò, sentendo l’irrefrenabile e frustante bisogno di far luce su quello strano comportamento che, era ormai certo, era legato indissolubilmente al modo in cui aveva pronunciato il suo nome soltanto un giorno prima.

Il problema però, stava nel come.

Davanti a lui Momo, avvertendo lo sguardo della Fenice mutare in un’espressione certamente meno morbida del solito, parve farsi inquieta, girando gli occhi altrove,  indirizzandoli nuovamente verso l’alto e, dopo un attimo di esitazione dettato dallo stupore, illuminando il proprio viso con un sorriso tanto entusiasta da portare Marco a fare lo stesso.

“Wow.” Fu tutto quello che la Fenice riuscì a dire osservando quello che sopra di loro si era andato silenziosamente a formarsi.

Una consistente e brillante coltre di stelle, tanto densa da lasciare a malapena spazio al blu scuro del cielo notturno, ondeggiava sulle loro teste, schiarendo con la loro luce vibrante il ponte della Moby, quasi fosse stato giorno. Nella sua vita da pirata Marco aveva avuto occasione di vedere cose bizzarre, delle quali ne aveva letto l’esistenza sui libri che componevano la biblioteca della nave, solitamente visitata solo da lui, ma mai gli era capitato di assistere in prima fila ad un esibizione della famosa Mirukīu~ei.

Ai suoi occhi era come se il cielo notturno avesse tracciato una rotta luminosa per la stessa Moby, dividendo il cielo in due parti con una sorta di fenditura centrale, impreziosita da quei piccoli brillanti paragonabili solo a qualcosa di timidamente sovrannaturale.

Come piccole e lontane fate bianche che con il loro bagliore incitavano quell’enorme imbarcazione a proseguire sicura il suo  lungo viaggio, in una notte in cui soltanto una leggera brezza ne gonfiava languidamente le innumerevoli vele.

Definire quello spettacolo incantevole sarebbe stato addirittura un insulto. Era semplicemente…

Per lui però la calma provocata da quella vista spettacolare venne bruscamente interrotta da Momo che, per chissà quale motivo, si era alzata di scatto, abbandonando il piatto sulle travi del ponte, dirigendosi decisa verso il parapetto della nave, dove si poggiò con entrambe le mani, sporgendo in avanti la testa in avanti, nell’atto di osservare meglio quella scena che era stata capace persino di mozzare il fiato a lui, uno dei più temuti uomini di Barbabianca.

Il biondo rimase lì, fissandola passivamente da lontano, mentre quella si dondolava lievemente allo stesso tempo dei suoi capelli, mossi dalle leggerissime folate di vento a quell’ora ricco di salsedine fresca mettendosi poi a sorridere inconsciamente.

Quella ragazza, che nonostante la corporatura doveva avere come minimo vent’anni, dava una sensazione di spensieratezza fuori dal comune. Era come vedere un bambino che si entusiasma per qualche fuoco d’artificio: stesso identico principio.

Le sue ciglia si aggrottarono nel notare la spallina della camicia che indossava, scivolare lungo la linea della spalla, lasciandola scoperta.

 Distolse lo sguardo, maledicendo se stesso, la sua camicia e le insinuazioni dannatamente fondate di Ace.

Quella che aveva davanti non era una ragazzina.

Poi un’ombra lo oscurò, facendogli accorgere che Momo si era riavvicinata a lui e questa volta seria in volto. Non fu però solo quello a far inquietare Marco, anche se di poco.

La ragazza lo stava guardando intensamente e senza un’ombra di un sorriso, e con gli occhi che brillavano. Erano diventati dorati.

Luminosi, palpitanti, appena oscurati dalle palpebre lievemente abbassate, illuminati come se al loro interno fremessero la soffusa e calda fiamma di una candela.

Il capitano della prima flotta fece appena in tempo a rendersene conto prima che la voce di Momo vibrasse in aria con la stessa tonalità di un lungo respiro ritmato da pause e parole così ben misurate da somigliare ad una canzone.

Gli occhi cerulei di Marco di dilatarono.

Quella, però, non era una canzone.

Vorrei tanto che tu mi capissi. Ma purtroppo, dovrò aspettare di conoscere un po’ meglio questa lingua Marco-san.” Vi fu una pausa, scandita da un sorriso imporporato sulle guance ma sincero “Non so perché parlo in questo modo, ma … a quanto sento, pare che per parlarci dovremo aspettare la notte… Quindi… Visto che siamo qui, … m’insegnerebbe qualcosa’altro a parte Anata wa e Watashi wa?

E si ritrovò ad annuire inconsciamente, stupito di quello a cui stava assistendo.

 Comprendeva perfettamente, nonostante la confusione iniziale, quello che aveva voluto dirgli. E, anche se stentava a crederci, mentre si alzava in piedi davanti a lei guardandola con occhi indagatori, una cosa la capiva: gli aveva appena rivolto la parola. A lui, solo a lui. In modo unico e spontaneo che sembrava andare oltre la sua volontà.

E il tutto sempre guardandolo con quegli occhi fiammeggianti.

 

Atto 6, scena 5, Arioso sul ponte

L’espressione di Marco dopo avermi sentito parlare in quel modo mi aveva un poco preoccupata. Lo avevo visto alzarsi e puntarmi addosso i suoi occhi rapaci per dei secondi che mi parvero interminabili, analizzandomi così intensamente il volto da farmi quasi desiderare di scappare via.

Poi però, come se il tempo si fosse improvvisamente sbloccato, lo avevo visto ricominciare ad accompagnare le parole ai gesti, indicandosi la camicia slacciata che indossava, pronunciando lentamente una frase che avevano diede inizio ad una seconda ed inaspettata lezione di lingua.

Watashi no shatsu.”

Era cominciata così.

 Ed io avevo cominciato a registrare ed a ragionare su ogni singola parola, da lui pronunciata nel bel mezzo del silenzio con tono lento  e strascicato, a volte interrompendo l’atmosfera con i miei impacciati tentativi di imitare alla perfezione la sua pronuncia, fallendo miseramente tuttavia ogni qualvolta la mia voce provava a liberarsi da quell’assurdo modo di parlare mezzo cantato.

Ancora non riuscivo a spiegarmi come mai mi fossi improvvisamente decisa a parlargli.

Era stato poco prima che, mentre mi beavo del bagliore lontano di quella distesa di stelle, la mia mente era stata scossa da uno schiocco improvviso, e i miei pensieri erano deragliati in un istante sul fatto che non riuscivo a rivolgere la parola a quello strano biondino.

 Poi avevo sentito… qualcos’altro, come una consapevolezza di sicurezza diffondersi nel mio petto, facendomi allargare gli occhi e dirigere a passi veloci verso di lui, distante di soli pochi metri, cominciando a pronunciare ogni frase in un modo che, per un istante, mi face dubitare che fossi io a parlare e non qualcun’altro.

Marco però, anche quell’iniziale attimo di mutismo, sembrava non avervi dato troppo peso e continuava ad insegnarmi parole su parole, standomi seduto accanto con la stessa identica espressione seria di sempre, mentre io, facendo di tutto per non farmi distrarre da quel formicolio all’altezza della gola, stavo distesa di pancia sul ponte, dondolando distrattamente le gambe avanti ed indietro, ripetendo a mezza voce le sue parole.

Avevo imparato molto in quei pochi intensi minuti: come si indicava una cosa estranea, cosa si aggiungeva alla fine di una frase negativa o interrogativa, come dire sì o no. Insomma, alla fine non era così difficile dopo aver capito qual’era il soggetto e quale il verbo.

Kore wa fune desu ka?” chiesi, sempre modulando in lunghi suoni le parole, oscillando il dito indice sopra la superficie legnosa del ponte principale, come aveva fatto lui poco prima. Mi stupii quando lo vidi scuotere leggermente la testa in segno di negazione.

Īa, kore wa fune no hashi desu. Kore wa dekki desu.” Mi corresse, ondeggiando una mano in modo da simulare qualcosa di piatto e allora capii: dekki = ponte della nave.

Annuii un poco titubante, premendo con poca convinzione il dito indice sul legno freddo sul quale ero sdraiata “Décchi” ripetei stravolgendo la pronuncia. Mi morsi la lingua e cercai di ripetere quella parola un altro paio di volte.

Fu allora che Marco, sbuffando appena, si alzò da terra, chinandosi accanto a me con un braccio poggiato sulla gamba flessa, mentre il ginocchio dell’altra si era impuntato per terra .

Sbarrai gli occhi quando lo vidi  allungare una mano verso e il mio viso e poggiarla delicatamente sui lati della mia mascella tastarne delicatamente la pelle con la punta delle dita, scandendo poi la stessa parola, tenendo la mano premuta sempre allo stesso modo.

Dekki” ripeté, guardandomi dritto negli occhi. Io per un attimo rimasi incantata, osservando il modo in cui le sue pupille, nonostante la scarsa luce, mantenevano sempre la stessa tonalità di azzurro limpido, lo stesso che assumeva l’acqua di mare quando la sabbia cominciava gradualmente a prenderne il posto prima di diventare spiaggia.

Dekki” dissi infine, combattendo contro la strana inquietudine che quella mano premuta sulla mia gola mi provocava. Lo guardai con occhi lievemente intimoriti e confusi, e parve accorgersene, a giudicare da come sussultò e biascicò a testa bassa uno “scusa”, mentre allontanava le sue dita ruvide dal mio collo, facendole scivolare via.

Mi sentii in colpa, ma non ebbi nemmeno il tempo di dirgli di non preoccuparsi che subito lui si era diretto verso il parapetto della nave, poggiandovi una mano e grattandosi con nervosismo la testa china per l’imbarazzo.

Stavo giusto per avvicinarmi a lui per chiedergli scusa quando vidi attraverso l’aria scura della notte le sue spalle irrigidirsi e la sua testa scattare dritta, puntando con gli occhi verso un preciso punto dell’orizzonte.

Indirizzai istintivamente lo sguardo più meno nella sua stessa direzione e sentii chiaramente il cuore cominciare a pulsarmi più forte nel notare qualcosa di diverso galleggiare sulla imperturbata distesa d’acqua.

Due ombre grandi e scure, si ergevano poco sotto la linea del cielo, oscurando di poco la vibrante e cristallina superficie del mare. La sagoma di tante forme quadrate trafitte da qualcosa di perpendicolare ad una terza forma indefinita si ripeteva una seconda volta creando uno strano effetto di specularità, nonostante le dimensioni delle due figure variassero di poco essendo chiaramente distanziate tra loro di qualche metro.

Realizzai che si trattava di due navi solo quando mi sentii afferrare per mano da Marco e tirare via da lì, portandomi  giù per la sottocoperta, e mi venne quasi da obiettare quando i miei occhi vennero duramente feriti dalla luce delle lampade che illuminavano l’interno dell’imbarcazione, costringendomi a coprirmi il viso con una mano, mentre davanti a me l’altro borbottava qualcosa con una punta di irritazione.

Hōmon suru ni hitobito Akagami wa shiranai. 

 

Atto 6, scena 6, Red Force

“Ehi Shanks.” La voce di Yasopp arrivò stranamente limpida alle orecchie intorpidite del capitano, facendogli socchiudere oziosamente un occhio, ma solo per poi richiuderlo non appena un clamoroso sbadiglio proruppe dalla sua gola, allargandogli di almeno tre volte tanto la bocca.

Mmmh?” mugugnò poi, mentre cercava di focalizzare bene il paesaggio notturno che circondava la sua nave, calata nel più completo silenzio con l’arrivo dell’oscurità. Si strofinò la guancia destra con la mano, rialzandosi faticosamente dal parapetto sul quale era crollato dopo aver fatto uso del proprio haki per ben 18 ore di fila.

Diamine, ma dove la prendeva tutta quell’energia il nonnetto?

Se il vecchio Marine non si fosse provvidenzialmente addormentato in piedi durante la sua ennesima scarica di lanci diretti alla sua nave, era certo che sarebbe stato costretto a chiudere velocemente il loro piccolo diverbio con una ritirata strategica.

Cosa che, tra l’altro, non avrebbe fatto che sia peggiorare l’umore di Garp, sia mandare a monte i propri progetti. Eh no, aveva aspettato da mesi un’occasione simile e non se la sarebbe fatta sfuggire così facilmente!

Fortunatamente, anche se il vice ammiraglio era stato interrotto da un inaspettato attacco di narcolessia, i suoi sottoposti sembravano sempre più intenzionati a non perdere di vista la Red Force ed a stare loro appiccicati come delle sardine sul ventre di una balena.

Tanto meglio per loro.

Ridacchiò tra sé e sé, mentre al suo fianco il suo fidato cecchino lo squadrava dubitando seriamente della sua salute mentale… non che avesse mai fatto il contrario, ma, dopotutto, quello di essere un completo pazzoide con un potere senza eguali tra le mani era una cosa che lo aveva spinto a diventare suo compagno di disavventure.

Soprattuto disavventure.

“Siamo arrivati, bell’addormentato.” Disse semplicemente il rasta, godendosi la vista dell’imperatore Rosso sbarrare gli occhi per la sorpresa e scoccargli un’occhiata incredula, con ancora l’unico braccio alzato nell’atto di scompigliarsi la fulva capigliatura.

“Davvero? Così tardi?” esclamò il capitano guardando il cielo completamente scuro sopra di loro “Ma è notte!” obbiettò infine, ribadendo l’ovvio a quei pochi della ciurma che, per godersi lo spettacolo fino in fondo si erano letteralmente accampati sul ponte scolandosi del buon sake fresco di botte fino a ritrovarsi più ubriachi che addormentati.

“Ma non mi dire.” Sentenziò sarcastico Ben seduto a gambe accavallate sul parapetto della nave, guardando i ponti della Moby Dick accendersi man mano che il vento li portava più vicini all’imbarcazione nemica.

“E ci siamo giocati l’effetto sorpresa.” Terminò lugubre, parlando con la sigaretta consumata tra le labbra, che ben presto venne gettata senza troppi riguardi in mare.

“Chi c’è al timone?” domandò di getto Shanks accigliandosi più serio che mai, mettendo in allarme i tre suoi ufficiali più fidati, che si irrigidirono da capo a piedi per un istante.

“Rockstar.” Rispose il vicecapitano tenendo ancora in mano la sostituta della prima stecca di tabacco, senza osare accenderla per la tensione. Rockstar era solo un novellino tra loro, e gli sarebbe dispiaciuto vederlo alle prese con uno dei rari, ma comunque temibili, momenti in cui il Rosso si arrabbiava con uno di loro. C’era solo da sperare che il capitano  non esagerasse o sia lui che Lou e Yasopp si sarebbero dovuti coalizzare per evitare inutili scenate.

Ci fu un momento di silenzio sulla nave, durante il quale il volto dell’imperatore Rosso venne oscurato da un’espressione indecifrabile. Gli occhi vennero coperti da un’ombra, accentuata dalla scarsità di luce dovuta all’ora tarda, e gli angoli della bocca rivolti all’ingiù, aumentando l’ansia dei presenti, specie quella del povero Rockstar, ora aggrappato al timone come un bambino colto con le mani nel sacco dalla mamma ed irrigiditosi proprio nella stessa incriminante posizione.

Il povero pirata da 94.000.000 di berry sulla testa tremò al pensiero di dover già rimpiangere i vecchi santini, regalati dalla sua povera mamma il giorno della grande partenza, che aveva incoscientemente buttato via alla prima occasione, ritenendoli “inutili gingilli per creduloni”.

Che male avrebbe potuto fargli qualche piccola, e forse ultima, preghiera?

Poi però accadde qualcosa. Le labbra del capitano si incurvarono lentamente ed inaspettatamente nel senso opposto a come erano prima ed una fragorosa risata esplose dalla gola del rosso, lasciando interdetta tutta la ciurma di bucanieri.

Ahahah! Ehi, Rockstar! Bel lavoro! Continua per questa rotta! Dopo io e te ci scoliamo cinque botti di sake insieme!”

Tutti quanti si guardarono con gli occhi che se non erano usciti dalle orbite poco ci mancava.

Ben e Yasopp si guardarono con altrettanta perplessità: si erano persi qualcosa loro o il loro capitano si era rivelato ancor più ottimista di quanto già non fosse?

Poco importava. L’unica cosa che sembrava certa era che Shanks era riuscito a sorprenderli per l’ennesima volta in circa vent’anni di pirateria.

“Dirigiamoci ancora per un po’ verso la Moby e poi serrate le vele quadre per metterci in panna!” decretò con voce chiara il Rosso, rivolgendosi a coloro che assistevano a quella scena da sopra i pennoni del grande veliero, ergendosi nel bel mezzo del ponte con la mano destra che gesticolava con una certa premura.

“E mi raccomando: issate su la bandiera bianca! Non sia mai che anche il vecchio Newgate decida di prenderci a cannonate per precauzione!”

 

Atto 6, scena 7, Moby Dick

“Quel mocciosetto …” borbotto Newgate con gli occhi puntati sulla nave sempre più riconoscibile che si stava avvicinando a loro, portandosi appresso come un cagnolino una nave della marina.

E non una nave qualunque, pensò allargando ancor di più il proprio sorriso non appena riconobbe l’inconfondibile polena a forma di cane, ma quella del vecchio Monkey D. Garp!

Quanto tempo era passato dall’ultima volta che l’aveva visto? Dieci anni? Ricordava bene le poche volte che le loro strade si erano incrociate e dire che il divertimento fosse stato esaltante era addirittura poco.

Che motivo poteva avere quel marmocchio dai capelli rossi per portargli un simile regalo?

I suoi grandi occhi s’impuntarono su qualcosa che lentamente stava risalendo l’albero maestro di quella barchetta, chiamata così pomposamente veliero, sventolando freneticamente come se scalpitasse di venire notata.

Una bandiera bianca. Addirittura.

“Moccioso irritante…” ribadì quasi dimenticandosi di essere in mezzo ai propri figli che, come lui, si erano riuniti sul ponte principale dopo essere stati avvertiti dal primo comandante Marco dell’arrivo di un’imbarcazione nemica all’orizzonte.

E si poteva ben immaginare lo scalpore generale quando la nave in questione si era rivelata essere quella di Shanks il Rosso.

“Ma che diavolo vuole il Rosso a quest’ora?!” “Non lo so, ma di certo nulla di buono.” “Accidenti a lui…” “Ma siete ciechi o idioti?! Non avete visto che a messo su bandiera bianca?!” “Bandiera bianca?!” “Vuole arrendersi?!” “Se, se… aspetta e spera. Il Rosso non si arrende mai.” “Al massimo viene qui a rompere le scatole.”

“Piantatela di fare i bambini.” Sbottò con tono piatto la voce di Marco, passato accanto senza neanche rivolgere loro lo sguardo con le mani infilate stancamente nelle tasche dei suoi pantaloni, attirando così su di sé le occhiate di buona parte della ciurma da lui zittita che però non perse tempo a ricominciare a bisbigliare, questa volta riferendosi proprio al primo comandante della Moby.

“Ma che ha il comandante Marco?” “Già, oggi sembra addirittura irritato.” “Chissà perché…” “Ma non l’avete la testa voi? Non vi ricordate con chi era quando ha avvisato tutti in sala da pranzo?” “Con chi?” “Sveglia! Era con Momo!” “Momo chi? Vuoi dire la naufraga?” “E chi se no…” “Aaaah! Vuoi dire che il comandante Marco…?”

L’imperatore bianco vide i volti dei propri figli allargarsi in sorrisetti sornioni e compiaciuti almeno quanto il suo in quel momento, avendo sentito tutta la conversazione.

Bene bene. Altre novità in arrivo.

“E dovè adesso?” “L’ha di nuovo affidata alle cure di Penelope, ma neanche lei sembrava molto contenta di essere separata dal comandante.” “Oh-o! Quindi gatta ci cova per davvero!” “Ma non era la gallina a covare?” “È solo un modo di dire, idiota.”

Intanto, vicino a Satch e gli altri comandanti, la Fenice stava appoggiato al parapetto della nave, guardando con dovuto astio la Red Force farsi sempre più vicina. Non gli era andata giù quell’interruzione da parte del Rosso e, il fatto che sembrasse essere capitato tra capo e collo solo per infastidire con la propria presenza il babbo, non faceva che rafforzare considerevolmente il nodo che gli stringeva fastidiosamente la bocca dello stomaco.

Sbuffò più rumorosamente del solito, voltando le spalle a quello spettacolo che rischiava di fargli venire la prima ulcera della propria vita, e dirigendo gli occhi al cielo dove le stelle continuavano tranquillamente a scintillare, facendogli ritornare alla mente quella surreale situazione vissuta pochi minuti prima in compagnia della naufraga.

Nelle orecchie parve riecheggiare la voce appena sospirata e soave di Momo, mentre ripeteva insistentemente ogni più piccola parola da lui presentata e spiegata, e sullo sfondo del cielo nero sembrarono apparire due iridi dorate.

Aggrottò la fronte.

Non era normale.

 Non era normale che una persona per parlare sentisse spontaneo pronunciare interi discorsi in quel modo dannatamente dolce e melodioso.

 Non era normale che lui, non appena scorta all’orizzonte la nave del Rosso, avesse desiderato ardentemente che il tempo si fermasse solo per dargli ancora un po’ di tempo.

Tempo per capire sia lei … che lui.

Perché, soprattutto, non era assolutamente normale che lui avesse provato il forte desiderio di avvicinarsi a quella bocca vibrante tanto da poterne avvertire sulle labbra i suoni prodotti.

Merda, era l’unico pensiero che riusciva a realizzare, mentre si copriva gli occhi con una mano, covando l’inutile speranza di riuscire ad oscurare quelle immagini che continuavano però a tormentarlo.

E mentre Ace lo guardava incuriosito, ignaro dei discorsi di Satch e gli altri sull’arrivo del Rosso, Marco si ritrovò a sperare che l’imperatore riuscisse a dimostrarsi irritante anche per lui.

Almeno avrebbe impegnato la testa in qualcos’altro.

Merda.

 

Fine prima parte Atto Sesto.

Freme tutte! Non uccidetemi! Posate arpioni, cannoni, c4 e armamenti vari!

Lo so! Ho finito l’atto troppo presto e l’ho pubblicato tardi! Non ho fatto entrare in scena Roid e ne sono davvero dispiaciuta! Ma capitemi! Y-Y Non volevo farvi un torto e non è nemmeno mancanza di ispirazione! Giuro!!!

Ok. Sono riuscita ad impietosirvi?

*cicale di sottofondo*

Direi che ho fatto di peggio. Vabbè passiamo al nocciolo della questione così magari evito di venire abbattuta da uno dei vostri cecchini prima di porre le mie motivazioni e SOPRATTUTTO (alza un dito, bloccando il cecchino in apnea) le domande fondamentali che arricchiranno la seconda parte dell’atto!

*partono applausi*

Ah, la sala si è ripopolata. Bene bene.

Partiamo con raccomandazioni e ringraziamenti.

1°: L’incontro tra Momo e Roid S.S.P.M (non dico per cosa sta, fate voi. XD) ci sarà! Eccome!

2°: Ringrazio Mishka per ribadire sempre quanto le piaccia il mio stile di scrittura! ^^

3°: Ringrazio tutte voi che avete recensito, preferito, seguito questa ff, che continuerà, dando un senso alla sua esistenza! Y-Y sob, mi commuovo sempre.

Ok basta. È una ff su One piece non su 100 vetrine o chissà che soap opera.

Passiamo alle domande con le dovute spiegazioni:

1)      Volete dare un aspetto a Momo?

Breve motivazione di quest’assurda ed autolesionistica domanda: mi è stata messa una pulce nell’orecchio da HG (sì! Tu che volevi il disegno!) su un’impellente bisogno di sapere che aspetto ha la nostra Momo, ma, come dissi nel primo capitolo/atto della fan fiction, essendo una readerxPG il personaggio rimane immacolato per lasciare che il lettore (appunto reader) possa immedesimarsi nella protagonista, ma se il vostro volere è dare un aspetto preciso a questa bambolina pucciosa, io, come vostra autrice schiava (calme eh?) asseconderò i vostri desideri.

Quindi, se la risposta alla prima domanda è sì passate direttamente alla seconda:

2)      Se sì, compilate la seguente “scheda”

Occhi: colore

Capelli: colore, lunghezza, consistenza (crespi, spinosi, ricci, lisci, ondulati), frangetta o meno

Pelle: colore/ abbronzata (di quanto)

Altri segni particolari

Come vedete sono solo le cose essenziali. Per scegliere sceglierò i “denominatori comuni” per così dire, ovvero gli elementi più citati nelle vostre descrizioni, componendo alla fine l’aspetto di Momo per mettere un po’ di tutto nella descrizione.

 Ovvio che, se deciderete di darle un aspetto in maggioranza io non mi tirerò indietro e posterò poi più avanti un disegno della nostra pucciosa naufraga! X3 Ed inoltre la seconda parte dell’atto conterrà delle descrizioni fisiche di Momo più dettagliate! Che dite?

Aspetto con ansia le vostre risposte!

Bye bye!

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Anata ga tabereba hoo ga ii desu >  Sarebbe meglio se mangiassi.

Anata wa watashi yori yaseta desu  >  Sei più magra di me.

Watashi no shatsu  >  La mia camicia.

Kore wa fune desu ka?  >  Questo è la nave?

Īa, kore wa fune no hashi desu. Kore wa dekki desu  >  No, questo è il “ponte della nave”. È il ponte.

Dekki  >  Ponte (della nave)

Hōmon suru ni hitobito Akagami wa shiranai.  >  Il Rosso non sa quando far visita alla gente

 

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Capitolo 8
*** Atto 6 -seconda parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 6 –parte seconda-

Atto 6, scena 8

Dire che Monkey D. Garp era furibondo sarebbe stato un eufemismo di prima categoria. I suoi muscoli gonfi e tesi, ora perfettamente visibili attraverso la stoffa bianca della divisa miracolosamente ancora intatta, stavano pulsando come non mai ad un ritmo che pareva seguire il suono dei suoi denti che stridevano ogni qualvolta serrava con più forza la mascella.

Tutti sulla nave del temuto e rispettato vice-ammiraglio si erano irrigiditi sul ponte, posti sull’attenti in attesa dell’imminente scoppio che avrebbe segnato l’inizio di un clamoroso sfogo da parte del loro superiore. Ed era proprio questo pensiero a far lacrimare silenziosamente gli occhi dei più giovani e tremare impercettibilmente  Kobi ed Hermeppo, costretti come al solito a stare in prima fila rispetto agli altri, essendo degli allievi del marine.

Non sarebbe stata una bella esperienza. Non lo era mai. Vero. Ma quello alla quale stavano per assistere andava ben oltre un semplice ruggito. Garp non si sarebbe calmato molto presto: quando si era svegliato dal suo attacco di narcolessia non c’erano state parole per descrivere la sua espressione nel vedere la nave del rosso ferma ed accostata accanto all’immensa imbarcazione di Barbabianca.

I pugni continuavano a tremargli violentemente al solo ricordo di quella visione assurda, offuscata dai postumi dell’inaspettata dormita.

Che doveva fare? Aveva clamorosamente fallito nel suo tentativo di intercettare quel moccioso sai capelli rossi ed adesso si trovava lì, in piedi sulla polena della sua stessa nave a guardare i risultati del proprio fallimento, con quell’orrenda bandiera nera dalle tre cicatrici che gli sorrideva beffarda, prendendosi gioco di lui.

“S-signore…” osò sussurrare Kobi con le labbra che gli tremavano per la paura “il … il R-rosso ha, m-esso b-bandiera b-bianca, s-signore. ” balbettò sotto gli sguardi impietositi dei suoi compagni e quello non meno terrorizzato di Hermeppo, grondante di sudore.

“E-e si s-sta accostando a-all-a Mo-moby-..”

LO SO …. 

Quella sorta di grugnito fuoriuscito dalla gola del vice ammiraglio ebbe il potere di congelare la spina dorsale di tutti i presenti sulla nave e Kobi si zittì immediatamente, tendendosi come una corda di violino, immediatamente imitato dal suo compagno di addestramento.

Una scintilla di pura follia brillò negli occhi di Monkey D. Garp, anticipando un ordine che, oltre a rendere sordi per una buona manciata di minuti, Kobi ed Hermeppo, avrebbe steso più della metà della ciurma, tanto sarebbe stato impregnato di Haki.

 

Atto6, scena 9, Arioso della perla

Davanti a me la porta dell’infermeria era stata appena chiusa a chiave.

Intrappolata, bloccata.

“Ma perché?!” mi lamentai dando qualche colpetto con un pugno il legno della porta, sperando che questa si riaprisse. E che altro potevo fare?

Penelope e Betty mi avevano praticamente segregata dentro la mia camera, liquidando le mie lamentele con un paio di “Mi dispiace, Momo-chan”, prima di girare senza alcuna pietà la chiave dentro la toppa della serratura.

Mi sentii una lacrimuccia fare capolino dall’angolino di uno dei miei occhi. Proprio adesso dovevano far saltare fuori una chiave? Io non volevo rimanere chiusa lì dentro!

Mi guardai nervosamente attorno, studiando con fare agitato quello che, a parte il mio letto, componeva l’arredamento della stanzetta diventata dal giorno del mio risveglio la mia abitazione fissa.

Era colma di fili, aggeggi a lucine inquietanti e, sopra una mensola posta a metà tra dei flaconi di medicine disinfettanti e garze c’erano dei … coltelli …

Non so perché, ma mi venne spontaneo distogliere lo sguardo, focalizzando al meglio delle mie possibilità le striature del legno della porta.

Non mi piaceva quella situazione. C’erano troppe cose che non capivo: il comportamento di Marco in primo luogo e in secondo quello delle infermiere.

Il biondo mi aveva tirato dentro la mensa così velocemente che avevo a malapena avuto il tempo di scorgere il cappello di Ace, prima di venire portata via da Penelope Betty e Carol. E la cosa non mi lasciava tranquilla.

Ritornai alla mente a quelle strane figure che erano apparse dirigendosi proprio verso di noi.

Mi imbronciai, assottigliando inconsciamente gli occhi.

“Fatemi uscire!” piagnucolai, alzando all’improvviso la testa, ma ancora una volta ottenni il silenzio come unica risposta.

“Sob.” Dissi facendo ciondolare sconsolata la testa verso il basso, per poi alzarmi e farmi cadere sul materasso morbido e freddo della mia brandina.

La mia mano destra incontrò qualcosa di leggermente ruvido e leggero, diverso dalla stoffa trapuntata della coperta. Lo guardai, girando la testa incuriosita e, dopo un attimo di stupore, mi venne da sorridere.

Accanto a me, abbandonato sul letto con grazia confusa stava un semplicissimo vestito di cotone con le spalline strette e la scollatura quadrata, accostata da un paio di pantaloncini che dovevano arrivare più o meno a metà coscia.

Sospirai un po’ sollevata ed un po’ dispiaciuta.

Mi avevano fatto un vestito su misura.

Lo presi con le dita, facendo scivolare via con un fruscio dalla superficie un poco più ruvida ed usata della trapunta.

Lo soppesai per un po’ e poi ne tirai leggermente i lembi, constatandone la leggerezza e la resistenza.

Accidenti, e dire che mi avevano fatto tanto penare per farmi indossare la loro divisa…

Decisi di indossarlo senza troppi pensieri e mi spogliai dei vestiti larghissimi che mi avevano fatto da vestiario fino a quel momento. L’aria fresca e tagliente della stanza mi colpì la pelle nuda facendola rabbrividire di riflesso, mentre sistemavo con cura i vestiti da uomo che avevo tenuto prima. Stavo per afferrare il vestito bianco quando la mia attenzione fu attirata dal mio stesso braccio.

La mia bocca si spalancò di poco, non credendo a quello che stavo assistendo sulla mia stessa pelle: laddove proprio ieri avevo controllato lo stato pietoso delle mie piaghe dovute alla forte insolazione, non solo la pelle si era cicatrizzata perfettamente, ma, dove rimanevano ancora pochi millimetri prima che la pelle si richiudesse del tutto … luccicavo.

O meglio. Erano gli ultimi squarci sulle mie braccia a luccicare, quasi avessi avuto delle piccole pagliuzze gialline in mezzo alle ferite.

“Ma che…?” balbettai , facendo per toccarmi con una mano quello strano fenomeno, prima di saltare letteralmente su letto della spavento, udendo un improvviso ringhio far vibrare l’interno della mia cabina. Mi attorcigliai alla bene e meglio sotto le coperte, tirandomele con le mani tremanti sopra la testa. Che cos’era stato quell’…urlo?

 

Atto 6, scena 10

Salendo sulla Moby, Shanks il Rosso aveva fatto letteralmente una strage. No, forse non proprio letteralmente, ma c’era andato molto vicino.

Sul ponte, riversi di faccia con la schiuma alla bocca, erano crollati quelli che per primi si erano parati di fronte all’imperatore che altro non aveva fatto, dacchè aveva messo piede sulla grande nave dello stimato avversario, che camminare e sorridere spensieratamente, con in viso la stessa espressione che avrebbe assunto qualsiasi altra persona che stava facendo visita ad un carissimo amico di vecchia data.

Di tutt’altra opinione però erano invece i superstiti della sua venuta che, squadrandolo in cagnesco gli auguravano come minimo di inciampare sui propri piedi pur di vedergli scomparire dalla faccia quel sorrisetto da schiaffi.

E di certo Marco non era da meno, anche se stava osservando con apparente imparzialità l’haki del rosso far crollare uno dopo l’altro i membri della sua divisione, lasciando in piedi solo quelli con più sangue freddo.

Accanto a lui Ace sorrideva divertito a quella scena ed il biondo si accigliò di conseguenza, non capendone il motivo.

“Ti diverte la cosa?” chiese, ricevendo un sorriso malandrino da parte del moro, che si abbassò di riflesso il cappello sugli occhi.

“Abbastanza.” Disse quello senza che le proprie labbra abbandonassero la piega che avevano assunto.

In una situazione differente Marco avrebbe chiesto ulteriori chiarimenti sull’insolita reazione del fratellino, ma la sua mente era occupata da ben altre preoccupazioni.

Tipo, il motivo che aveva portato Shanks il Rosso a piombare da loro nel bel mezzo della notte e chiedere un colloquio con il babbo.

Ora i due imperatori, l’uno di fronte all’altro guardandosi intensamente come due leoni, erano entrambi sul ponte principale confrontandosi silenziosamente, ma in modo palesemente intuibile da come l’aria si stava facendo tremendamente pesante, a fitti colpi di Haki.

Barbabianca sfoggiò uno dei suoi larghi sorrisi.

“Sembri stanco, mocciosetto.”

“Ahaha, bhe, diciamo che sono stato piuttosto occupato nelle ultime ore.” Ridacchiò, allargando ancor di più le proprie labbra in un sorriso che anticipò il dissolversi di quella strana cortina pesante ed irrespirabile che era diventata l’aria. Molti sul ponte di ritrovarono a sospirare sollevati, capendo che il breve confronto tra i due imperatore fosse appena finito.

L’imperatore rosso di rilassò notevolmente, arrivando non solo a spaparanzarsi comodamente sul ponte, ma anche a slacciarsi dalla cinta la sua fedele sciabola, poggiandosela di fianco, sottintendendo che sì, le sue intenzioni erano amichevoli, ma che nulla gli avrebbe impedito di difendersi, anche in quella situazione di evidente svantaggio.

“Io l’ho sempre detto che il rosso è completamente pazzo.” “Concordo.” Disse qualcuno tra l’equipaggio sottovoce, facendo ridacchiare Ace ed accigliare ancora di più Marco.

I grandi occhi di Newgate vagarono ancora per un po’ sulla figura piccola ma insidiosa del proprio rivale, senza mai abbandonare la piega che le sue labbra avevano assunto.

“Tsk. Sempre il solito arrogante.” tuonò poi all’improvviso affrontando apertamente gli occhi gioviali di Shanks “Non solo ti presenti senza preavviso, disturbando la quiete dei miei figli oltre che la mia.”

E qui tutto l’equipaggio, tra cui molti erano quelli assonnati e prossimi a cedere al dolce ed ipnotico richiamo della branda, avrebbe volentieri affiancato le parole del babbo con un bel coro di imprecazioni ed esclamazioni nei confronti del rosso,… ma no, non era il caso di rendere quel colloquio ancor più teso del necessario.

“Ma hai anche la sfrontatezza di chiedere asilo sulla mia nave, senza portare nulla in cambio e per di più dopo esserti portato appresso un equipaggio di marine!!” la voce dell’imperatore bianco sferzò l’aria come un rombo che preannuncia una tempesta e molti furono quelli che sentirono un gelido tremore percorrere la colonna vertebrale fino a rizzare le punte dei capelli.

In quel momento sarebbe bastata una parola sbagliata da parte di Shanks per scatenare il finimondo. Nel vero senso della parola.

“Che posso dire? È stato più forte di me.”

Eppure la risposta non tardò ad arrivare.

La leggerezza con la quale Shanks aveva risposto al babbo fece per poco crollare a terra Ace dalle risate. Il moro, sotto le occhiate stranite degli altri comandanti, si teneva in quel momento la pancia con una mano e con l’altra tentava di nascondersi il viso, calcando il più possibile il cappello sugli occhi.

Adorava quel rosso. L’aveva preso in simpatia dal giorno in cui era riuscito a scovarlo e a dirgli grazie per aver salvato Rufy e, in quel momento, vedendolo alle prese con il babbo, giustificandosi spensieratamente con una scusa così banale e sincera, sentiva di ammirarlo ancora di più.

Ma le cose non erano così semplici. I suoi occhi scuri si indurirono di poco mentre, dopo aver ritrovato la solita spensierata compostezza, osservava il padre ammutolire indispettito alle parole del Rosso.

Con un colpo di reni scese dal parapetto, facendosi strada a medie falcate verso il centro del ponte guadagnandosi le occhiate ben più che stranite dei suoi fratelli.

Aprì bocca per dire qualcosa, alzando in braccio in direzione del rosso, ma qualcosa lo interruppe, lasciandolo stordito in meno di un secondo.

“DIRIGETE LA NAVE VERSO LA MOBY DIIIICK!!!”

Pugno di fuoco rimase un attimo in silenzio e stordito come i suoi compagni, tenendo la mano ancora sospesa a mezz’aria, mentre sentiva sul collo la fastidiosa sensazione di venire punzecchiato da qualcosa… un presentimento.

Quella voce…

Per un attimo impallidì, ma solo per darsi subito dello stupido e ridere di sé stesso e delle sue folli idee. Non era possibile.

“Ops.” Disse Shanks, ruotando la testa in direzione del fianco della nave, dove si poteva vedere la polena dell’imbarcazione del Pugno puntare nella loro direzione. “A quanto pare il vecchio Garp si è svegliato prima del previsto.” Concluse sorridendo sbarazzino, rivolgendosi poi verso Barbabianca, meno che mai in quel momento incline a rispondere ai suoi sorrisini fanciulleschi.

Dietro di loro, intanto, Ace era diventato bianco come un lenzuolo.

Garp. Vecchio Garp, aveva detto il Rosso. Quanti Garp potevano esistere al mondo che facevano i Marine?

Un fitto strato di sudore freddo ricoprì interamente il volto del moro, mentre pregava che di vecchi Garp ne esistessero almeno un centinaio nella Rotta Maggiore e che, oh santo patrono dei pirati, quello che aveva appena urlato con la potenza di un Re dei Mari imbestialito non fosse suo nonno.

“Ohi, Ace. Che ti prende?” Lo punzecchiò con un dito Satch, non capendo cosa potesse essere successo al fratellino per ridurlo in quello stato. Ammetteva che anche lui c’era rimasto un po’ stordito di fronte a quella sorta di muggito apocalittico, ma non credeva che avrebbe avuto tanto effetto sul moro.

Il biondo, non ricevendo alcuna risposta, scoccò un’occhiata di intesa a Marco che come lui si era mobilitato per recuperare il più giovane, guadagnando però dall’altro nient’altro che una lieve alzata di spalle ed uno sbuffo.

La Fenice guardò accigliato come suo solito la nave ammiraglia avanzare verso la Moby, divorando a poco a poco la distanza che le separava. Soppresse un grugnito esasperato.

Che situazione assurda.

Poi, l’immagine di Momo, chiusa nell’infermeria ed in preda al panico più totale a causa di quel ruggito, lo colse improvvisamente, facendogli sobbalzare il petto per la preoccupazione.

Con un poco di fatica, si impose però di calmarsi, schiacciando quella sgradevole sensazione sotto un paio di respiri profondi.

Non era il momento di perdere la testa.

 

Atto 6, scena 11, Arioso dell’usignolo in fuga

Finii di sistemarmi il vestito addosso, rimanendo sotto le coperte. Le braccia mi tremavano ancora un poco a causa della paura provata poco prima e ci misi un bel po’ prima di trovare il coraggio di riemergere da sotto le lenzuola del letto.

Scivolai lentamente lungo il fianco della branda, accucciandomi accanto ad esso con il cuore pulsante in gola, e con gli occhi sbarrati e pronti a percepire il più piccolo segnale di pericolo.

A pensarci bene sembrava che fossi un esperta in materia.

Non sapevo cosa fosse stato quel suono di poco prima, ma non me la sentivo ancora di alzarmi sulle mie stesse gambe e, anche se avessi voluto, non sarei riuscita comunque ad andare da nessuna parte, rinchiusa com’ero nella stanza.

Le spalle mi vibrarono ancora un po’ mentre gattonavano incerta sul pavimento, dirigendomi vero la porta dell’infermeria.

“C’è nessuno?” squittii con la voce ridotta ad un filo sottile dalla paura.

Le mie mani si poggiarono imploranti sul legno dell’uscio e io rimasi a guardare quella crudele serratura rimanere ferma e muta, ma solo per un attimo, prima di accigliarmi e cominciare a guardarmi attorno più interessata a quello che mi stava attorno che a quello che ci sarebbe potuto essere.

Non avevo alcuna intenzione di rimanere in quel posto un minuto di più. Volevo uscire. Dovevo uscire. Sentivo chiaramente di doverlo fare, quasi nella mia testa trillasse un campanello di allarme.

Una sorta di sesto di senso.

I miei occhi caddero casualmente sulle stesse mensole che poco prima mi ero ripromessa di non guardare più.

Coltelli e altri oggetti metallici e sottili scintillavano sinistri a pochi metri da me.

E un’idea mi balzò alla testa.

Sottili. Metallici.

“Trovato!” sussurrai, alzandomi di scatto ma solo per ricadere sul pavimento a causa del tremore che ancora continuava a scuotermi le ginocchia. Mi accigliai dandomi della stupida, scoccando un’occhiata furiosa alla mensola che era diventata la mia meta.

Anche se può sembrare folle, più in là avrei ricordato il mio tentativo di raggiungere il ripiano ed afferrare almeno un coltello per forzare la serratura della porta come la prima grande sfida della mia vita.

Le mie mani infatti, non appena si chiusero attorno al freddo metallo di un coltellino, sembrarono tremare più di prima e la consapevolezza di quello che stavo afferrando sembrò portarmi sull’orlo di farmi andare in tilt il cervello. Qualcosa dentro la mia testa urlava di lasciare quel piccolo aggeggio e risultava piuttosto persuasiva, vista la forte nausea che cominciò a torcermi lo stomaco.

Tirai un lungo e liberatorio sospiro di sollievo quando, dopo svariati tentativi, la serratura della porta scattò sotto la pressione precaria della sottile lama del bisturi.

Mollai immediatamente la presa sul coltello, lasciando che cadesse tintinnando sul pavimento in legno, e mi affrettai a lasciarmelo alle spalle, affacciandomi cautamente dalla porta, controllando che non ci fosse nessuno in giro. L’idea di venire beccata da Betty subito dopo non mi allettava affatto.

A dispetto di quello che pensavo però il corridoio era deserto. Nessun tipo di rumore, fatta eccezione per il lieve scricchiolio delle travi che, oscillando alla spinta del mare sotto la grande barca, rendeva il tutto ancora più inquietante.

Mi mordicchiai il labbro inferiore.

Dov’erano finiti tutti quanti?

 

Atto 6, scena 12

Il passo pesante degli scarponi di Marshall D. Teach echeggiarono pigramente tra le mura legnose della nave, ritornando ovattate alle orecchie sporche ed appena otturate di cerume del padrone, senza però riuscire a distrarlo dai suoi loschi pensieri, mentre, man mano che sulla sua strada si faceva sempre più vicina l’infermeria, il suo sorriso irregolare e marcio si ampliava a vista d’occhio.

Nella mano destra, in netto contrasto con le unghie scure e la pelle pelosa e bruna del dorso, una corda sottile e bianca come latte, quasi nuova di zecca, oscillava languidamente verso il pavimento.

L’arrivo del Rosso era stato provvidenziale, dovette ammettere Teach. Non si sarebbe mai aspettato di vedere la nave di quel piantagrane apparire all’orizzonte in un periodo di relativa calma come quella.

E per di più di notte! Pensò allargando inconsciamente il proprio sorriso.

Un’occasione perfetta. Se fosse stato in rapporti migliori con Shanks il Rosso, l’avrebbe ringraziato dal più profondo del cuore.  Quasi gli doleva di avergli inferto quella cicatrice sull’occhio sinistro durante il loro primo ed l’ultimo scontro.

Nah. A pensarci bene non se ne pentiva affatto.

Un pollice rugoso carezzò con riverenza il materiale liscio e quasi setoso di quella corda che aveva tirato fuori poco prima da uno dei pochi cassetti della propria cabina. Già si immaginava l’espressione che quella piccola ninfetta avrebbe fatto nel vederlo entrare nella sua stanza e ritrovandosi nel giro di pochi istanti legata come un delizioso pacchetto regalo.

Oh, bhe. Almeno quella era la sua visione delle cose. Non era molto sicuro che la piccola avrebbe condiviso il suo pensiero con un corda ben stretta attorno al proprio collo ed ai propri polsi, impedita così di compiere qualsiasi mossa avventata.

Ma in fondo, che gli importava?

Il suo sorriso fu però spento in un istante nel notare, finalmente giunto a destinazione, un piccolo ed irritante inconveniente. Spalancò del tutto la porta dell’infermeria guardandovi sconcertato all’interno.

Vuota. Assolutamente vuota. Solo un bisturi abbandonato sul pavimento e i vestiti del comandante Marco, indossati dalla piccola, poggiati ordinatamente sul letto.

Ma della sua preda nessuna traccia.

Un ringhio rabbioso gli brontolò nella giugulare, mentre si precipitava nuovamente nel corridoio con gli occhi scintillanti di rabbia. Il suo sguardo stralunato saettò da una parte all’altra del corridoio, alla disperata e furiosa ricerca di un piccolissimo segnale che gli indicasse dove quella ragazzina fosse andata.

Poi dei passi. Provenienti dalla sua destra.

Leggeri. Incerti. Cauti.

E il sorriso di cui molti avevano terrore tornò trionfante a scoprire la sua dentatura irregolare.

 

Atto 6, scena 13, Arioso fuggevole

Camminavo lentamente lungo il corridoio, fortunatamente non ancora del tutto buio grazie ai pochi lumini rimasti accesi sulle pareti.

Ero riuscita a darmi un po’ di coraggio ed ad avventurarmi fuori dalla mia stanza, eppure, quella stessa sensazione di pericolo imminente non mi aveva ancora abbandonato. Anzi. Sembrava accentuarsi man mano che procedevo verso la scaletta che mi avrebbe portato sul ponte.

Tenevo le mani strette al petto, torturando nervosamente il tessuto latteo del vestito, pensando che forse sarebbe stato meglio tornare indietro.

L’immagine di quell’enorme serpentone nero e del sangue zampillato dalla sua ferita mi colpirono improvvisamente, bloccando la mia camminata.

E se a provocare quell’urlo fosse stato un altro di quei bestioni? Che cosa avrei potuto fare io?

Di nuovo il ricordo di Ace e Marco occupati a sostenermi ed a proteggermi a costo della loro stessa vita mi crollò addosso, appesantendomi le spalle proprio quando la scala del ponte si trovava a due passi da me.

Il mio sguardo vagò sulle venature del pavimento che, sotto i miei piedi nudi, ondeggiavano sinuose, ricordandomi il mare sul quale stavo inconsapevolmente navigando e dal quale ero stata tratta in salvo giorni addietro.

Salvata. Costantemente. Sempre.

La mia sembrava essere un’abitudine. E l’odiavo. Sentivo chiaramente di odiarlo.

Feci un passo indietro, ma la mia schiena si imbatté in qualcosa di strano che mi fece rimbalzare leggermente in avanti.

La sensazione di pericolo era tornata a farsi sentire, in quel momento più forte di prima e, finalmente sveglia dalle mie riflessioni, mi girai di scatto, rabbrividendo nel vedere dietro di me la forma di una persona, un uomo forse, con il volto completamente oscurato e dotata di una mole rotonda ed imponente.

Sbarrai gli occhi nel vedere, dal nulla di quel viso invisibile, comparire la sagoma di un sorriso deforme che precedette solo l’avvento di un suono che non avrei mai e poi mai dimenticato.

Zehahaha…

Rantolai d’istinto all’indietro finendo col cadere sul primo degli scalini dietro di me, riuscendo a malapena ad afferrare la ringhiera per reggermi.

Tremavo. Tremavo da capo a piedi. Avevo paura.

No, quella non era paura. Era terrore allo stato puro.

La mia gola pizzicò di nuovo in quello strano modo che avevo imparato a riconoscere.

Una grossa mano scura di alzò, spalancandosi ed avventandosi verso di me, lasciandomi a malapena il tempo di rotolare su un fianco eludendo così la presa di quel mostro senza volto che, al mio gesto istintivo, smise di ridere, imprecando per un istante a mezza voce.

Non feci molto caso a quello che disse e mi affrettai con il cuore in gola a risalire al meglio delle mie possibilità la lunga scala che mi separava dal ponte. E non era affatto facile con le ginocchia che mi tremavano neanche fossero fatte di burro.

Avanzai di soli due scalini prima di sentire una di quelle mani afferrarmi saldamente la caviglia e strattonarmi verso il basso, facendomi ruzzolare di nuovo alla sua mercé. Serrai d’istinto le palpebre e lanciai un lamento sommesso e trillante.

No…!

Qualcosa mi ghermì la gola con forza, schiacciandomi la voce in una morsa impietosa che mi fece allargare gli occhi dal dolore, portandoli sull’orlo del pianto. Sembrava volesse strangolarmi.

Boccheggiai in disperata ricerca d’aria,artigliando confusamente quell’enorme e fetida mano con le mie piccole dita, ma risultato fu solo un aumento di pressione di quel mostro sul mio collo.

Ee, ia, chibi. Nai Gorgheggi.

Non feci caso al fatto che avesse detto una parola nella mia lingua.

Soffocavo. Stavo soffocando. L’aria stava velocemente scivolando via dai polmoni, facendoli bruciare disperatamente dall’interno. La vista cominciava ad annebbiarsi, sfuocando i contorni delle cose.

Aria. Avevo bisogno di aria.

Las..lascia..

Ciondolai la testa da un lato e una lacrima mi solcò l’angolo del viso, ma quella presa ancora non si allentava.

Zehahah. Hontōni suteki na kēki.

E di colpo la mia mente fu pervasa da quel suono odioso, facendomi dimenticare della sensazione di bruciore all’altezza della gola. Lacrime di frustrazione si unirono a quelle di disperazione.

Rideva. Io stavo soffocando. E lui rideva.

La collera prese posto alla paura, rendendomi preda di un groviglio di emozioni che mi portarono ad esercitare tutta la forza rimastami sul polso del mio assalitore, artigliandovi con rabbiosa convinzione le unghie sottili.

Sentii la mia pelle formicolare sui polpastrelli e un alone luminoso oltrepassare la barriera acquosa formatasi sui miei occhi lacrimanti. Eppure i miei denti erano serrati in una smorfia adirata che, ne fui certa quando sentii quella stretta farsi nettamente più marcata, non sfuggì all’altro.

Rideva.

Era tutto quello che riuscii a pensare, mentre lo strano bagliore scaturito dalle mie dita fu subitamente sostituito da l’odore di pelle bruciata ed un urlo di dolore.

La mia gola fu liberata all’istante, lasciando finalmente che l’aria tornasse violentemente a scorrermi verso i polmoni, benvenuta come mai era stata in tutta la mia vita. Caddi sul pavimento tossicchiando e massaggiandomi il collo con una mano.

La mia vista si rischiarì, permettendomi di capire in che situazione mi trovavo.

La strana figura dinanzi a me stava rannicchiata su se stessa, tenendosi il braccio lanciando imprecazioni certamente non molto velate. L’odore di pelle abbrustolita aveva ormai riempito tutto il corridoio, ma non ebbi cuore di pensarci oltre.

Ero prontamente scattata sulle scale, più veloce che mai, arrivando a pochi centimetri dalla maniglia.

Mi venne quasi da urlare vittoriosa quando il freddo metallo del pomello entrò a contatto con la pelle delle mie dita, abbassandosi con un poetico cigolio.

Un secondo dopo ero fuori,  circondata dalla protettrice luce delle stelle.

Solo che quello che mi trovai di fronte non sfiorò minimamente le mie catastrofiche aspettative.

Scattai la testa da una parte all’altra del ponte, gremito di gente mai vista prima. Cosa strana perché bene o male gli uomini della nave si riconoscevano bene per via di tatuaggi o di altri segni contraddistitivi.

Era la mia impressione… o si erano aggiunte altre persone?

OI SHUKUTAI!!!

“Eeek!”

 

Atto 6, scena 14

NIPOTE DEGENERE!!!

Gli occhi di Monkey D. Garp, più fiammeggianti di quelli di un Re dei Mari imbestialito per essersi fatto fregare il pranzo da un branco di squaletti agguanta-carogne, erano in quel momento puntati sulla figura imbarazzata, e scomodamente al centro dell’attenzione, di Portuguese D. Ace.

Il giovane si stava massaggiando la testa, rielaborando ad una velocità mostruosa centinaia di piani per levarsi velocemente da quella situazione scomoda, ma solo per scartarli subito dopo.

Come spiegava adesso al babbo che, oltre ad essere il figlio consanguineo del suo più acerrimo rivale, era anche il nipote adottivo di nientemeno che un marine dal rispettabile grado d Vice-ammiraglio?!

“Ehilà. Ciao Nonno.” Gli venne solo da rispondere grondando sudore da tutti i pori, lasciando di stucco tutta la ciurma, persino Edward Newgate era rimasto sorpreso della risposta del figlio.

Gli unici che facevano a meno di spalancare oscenamente le mascelle, come già stavano facendo i figli dell’imperatore Bianco, erano i pirati di Shanks il Rosso, saliti sul ponte della Moby sotto esplicito consenso del capitano stesso alla domanda postagli dal Rosso.

“Che ne diresti di mettere da parte divergenze inutili e coalizzarci per proteggere le nostre navi solo per questa volta?” aveva chiesto, non proprio umilmente, l’imperatore dai capelli rossi, sorridendo sfacciato. Era stato un miracolo che Barbabianca avesse deciso, per una volta tanto, di dare corda a quel mocciosetto, ma d’altra parte, con le infermiere bloccate con loro sul ponte principale e la piccola naufraga chiusa nell’ambulatorio della nave, non poteva rischiare di provocare gravi danni all’imbarcazione, sapendo in che modo sarebbe stato diretto l’attacco.

E infatti una palla di cannone fischiò a pochi millimetri dall’orecchio di Ace, prontamente intercettata dalla mano diamantina di Jaws, che la ridusse all’istante in tante piccole briciole ferrose.

GGGNFFHH!!! COME OSI RIPRESENTARTI DAVANTI A ME COSÌ SPENSIERATAMENTE DOPO QUELLO CHE HAI COMBINATO!?

Ormai il naso di Garp il Pugno sbuffava getti di vapore alla stregua di una ciminiera, provocando in Shanks, in piedi accanto al vecchio Newgate, una risatina a malapena sommessa. Era uno spasso vedere il vecchio alle prese con il nipote ribelle.

“Bhe, nonno… se vogliamo essere precisi io non mi sarei lontanamente sognato di ripresentarmi …” puntualizzò il moro, sorridendo nervoso mentre si riaggiustava con una mano la falda del cappello, volatogli quasi via a causa dell’attacco precedente.

“… sei stato tu a venire a trovar-..”

Un’altra sfera di metallo, questa volta diretta al suo viso, schivata appena in tempo con un rapido movimento del ragazzo, chinatosi su se stesso con una mano ben salda sul proprio copricapo arancione.

Ace continuava a sorridere imperterrito, nonostante il suo istinto, benedetto istinto, gli stesse suggerendo vivamente di darsela a gambe levate come mai in vita sua.

Non era sua abitudine scappare di fronte a qualcosa, tutt’altro, ma eccezionalmente suo nonno riusciva a risvegliare quel suo desiderio di autoconservazione come nessun’altro al mondo.

“Eddai nonno. Non fare così.” Fece accondiscendente, come se quella che aveva appena schivato fosse stata solo una semplice ciabatta polverosa.

TACI! GGNNNFFH! DEVI SOLO SPERARE CHE UNA TEMPESTA SI INTERPONGA TRA ME E QUELLA BAGNAROLA SU CUI SEI IMBARCATO! PERCHÉ NON AVRAI ALTRO MODO DI SFUGGIRE ALLA TUA GIUSTA PUNIZIONE! MOCCIOSO INSOLENTE!

Ace sbuffò sconsolato, rinunciando definitivamente a far ragionare il nonno.

Marco gli si accostò proprio in quel momento, scrutandolo incuriosito proprio come Satch, Jaws e Vista, che avevano seguito il suo esempio, attendendo pazientemente come lui qualche spiegazione da parte del fratellino.

“Tuo nonno?” chiese con fare incredulo Marco e la testa di Ace ciondolò sconsolatamente in avanti.

“Già … ”

“Ma che gli hai fatto per farlo arrabbiare così tanto?” domandò Satch, accostando una mano alla fronte per aguzzare lo sguardo verso il marine. Il moro si abbassò ancor più abbattuto al pensiero del motivo per il quale il suo vecchio stava cercando di ridurre la nave del babbo ad un pezzo di groviera.

“Sono diventato un pirata.” Disse con fare ovvio, mentre con uno slancio si rimise in piedi, stavolta più serio e deciso in volto, pronto più che mai a rispondere per le rime agli attacchi a catena del vice-ammiraglio.

Una nuova scariche di palle di cannone si proiettarono verso di loro, ma stavolta Pugno di Fuoco non rimase impassibile e, con un rapido movimento del braccio, ne deviò una diretta proprio al suo petto, scagliandola talmente lontano da farle perdere forza, piombando così in mare aperto.

Un fischio di ammirazione sfuggì dalle labbra di Satch nel notare la piega che aveva preso la discussione.

“Ci va proprio giù pesante con te, neh?”

“Credimi.” Sospirò Ace sorridendo ancora un po’ abbattuto “Questo non è neanche la metà.”

“Bene. Allora direi che si può cominciare.”

Gli occhi dei quattro comandanti s puntarono all’unisono sulla maestosa immagine di Shanks il Rosso, interpostosi tra loro con la solita fierezza.

“Ehi, Shanks.” Lo salutò Ace con un cenno del cappello, per poi incrinare la voce con un vago tono di rimprovero “Ma ti pare il modo di venire a trovare la gente? Avresti potuto fare a meno di portartelo dietro.” Concluse il ragazzo riferendosi chiaramente alla presenza del nonno.

Il Rosso si limitò a ridere senza alcun cenno di imbarazzo, mettendo mano all’elsa della propria spada estraendola poi con una velocità tale da renderla quasi invisibile per un istante, troncando di netto ben quattro sfere ferrose scagliate dalle mani del nemico.

“Mi farò perdonare più tardi.” Promise brevemente il pirata, lasciando sottinteso quello che potè esprimere pienamente con una delle sue consuete espressioni giulive: Adesso pensiamo a divertirci.

Ben Beckman a volte si trovava indeciso su come descrivere il suo capitano: c’erano momenti in cui lo definiva semplicemente pazzo, seguendo l’esempio di molti, altre volte invece lo definiva solamente stupido.

Ma stupido davvero.

 

Atto 6, scena 15

“Fa uno strano effetto essere sulla nave del vecchio Newgate, non trovate?”

La voce di Yasopp, aveva miracolosamente sovrastato il rumore delle bombe di Garp, facendosi sentire dai propri compagni, radunatisi attorno a lui e gli altri ufficiali della Red Force, riuscendo comunque a mantenere una calma di per sé fantastica.

Insomma. Erano su una nave nemica e sotto attacco di uno dei più temuti Marine in circolazione.

Di certo mantenere il sangue freddo in un momento simile non era cosa da poco.

Accanto a lui Lucky strappava ed inghiottiva dai rimasugli del proprio cosciotto gli ultimi bocconi di un ottimo spuntino di mezzanotte, annuendo e sorridendo solennemente alle sue parole, apparentemente non facendo caso alle meteoriti che saettavano allegramente sopra le loro teste.

“Auguriamoci di non metterci le radici o peggio le ossa.” Borbottò Ben con i denti leggermente stretti attorno al filtro della propria sigaretta, mettendo mano alla fedele baionetta, poggiata come al solito sulla spalla.

“Sempre ottimista tu, eh?” gli fece eco il cecchino, lanciandogli un sorrisino ironico.

Poco distanti da quel breve scambio di battute, il viso bianchiccio e leggermente squadrato di Roid colava sudore da ogni poro, irrigidendosi ad ogni fischio che le palle di cannone perforanti l’aria della notte provocavano.

“Non ha tutti i torti.” Sussurrò lugubre di fronte al pragmatismo distruttivo del vice-capitano, rivolgendosi a nessuno in particolare, dato l’enorme spazio vuoto che si era formato attorno a lui non appena aveva osato cercare riparo nel punto dove i suoi “compagni di ciurma” si erano ammassati in maggiore quantità.

Roid Brinata aveva sempre avuto grandi progetti per la propria vita: diventare ricco, comprarsi un titolo nobiliare, abitare su una bella e lussureggiante isola estiva ed acquistare almeno una dozzina di schiave avvenenti.

Non era però così tanto certo di poterli realizzare in quel momento, vista la sua attuale situazione.

Era un ex mercante di schiavi in mezzo a non una, ma ben due ciurme di pirati pronti a testare sul suo scalpo i fili delle loro spade. Bhe… diciamolo tranquillamente: era praticamente passato dal ventre della vacca al letame.

Era uno di quei casi in cui l’orgoglio maschile andava a farsi un lungo giretto, lasciando spazio ad un solo e disperato pensiero.

Mammina.

Sarebbe rimasto lì ad autocompatirsi per tutto il resto dell’attacco se i suoi occhi, forse nel tentativo di trovare rifugio dalla pioggia metallica lanciata dai marines, non avessero notato qualcosa di luccicante sporgersi da dietro una delle botti di sake accostate alla porta della sottocoperta.

Non avrebbe mai immaginato di ritrovare su quell’immensa imbarcazione nemica una faccia famigliare. Tantomeno quella della piccola strega che aveva fatto naufragare la sua nave.

Roid Brinata non fece caso al fatto di essere in territorio nemico, né tantomeno allo strano bagliore che gli occhi della ragazza avevano assunto, sostituendo il loro colore naturale con una gradazione diffusa su tutta l’iride. La pupilla era diventata arancione, confondendosi con il resto dell’occhio, sfumato di un colore eguagliabile solo alla luce dorata di una fiamma.

TU!!”

E l’ex mercante di schiavi non si curò di quell’assurdo particolare, mentre sguainava con convinzione il proprio coltello estraibile dalla tasca dei pantaloni, avvicinandosi a grandi passi verso la fonte dei propri guai.

Tu, piccola puttana!”

Il suo urlo per sua fortuna si confuse con l’ennesimo scoppio di una delle palle di cannone scaraventate in aria, ma non impedì alla piccolina di accorgersi dell’imminente pericolo.

I suoi occhi gialli si allargarono dalla sorpresa, saettando velocemente sull’arma impugnata dallo sconosciuto al viso di quest’ultimo, per poi farla scattare repentinamente in piedi e scattare il più rapidamente possibile tra la folla radunata davanti a lei.

Le labbra di Brinata si storsero in una smorfia animalesca, mentre vedeva quella streghetta farsi strada tra i membri della sua nuova ciurma, spintonando con le sue piccole braccia chiunque le stava davanti.

Ma non aveva una meta precisa. Roid lo capì immediatamente, non appena vide in che modo avanzava.  

Confuso, Impaziente, Caotico.

Una preda fin troppo facile.

Con un sorriso l’uomo si infilò di nuovo il coltello nei pantaloni cominciando ad aggirare con facilità il percorso della ragazza, trovando una scorciatoia che lo portò a ritrovarsela proprio davanti, tremante e sconvolta come non mai.

“Ti ricordi di me?” la schernì rimettendo mano alla lama, vedendola indietreggiare d’istinto, ormai con tutte le vie di fuga bloccate da persone troppo prese dall’evitare l’attacco nemico.

La piccola lo osservò ancora per un istante, stringendo un attimo gli occhi, per poi spalancarli con consapevolezza.

Allora si ricordava. Oh. Eccome se si ricordava. Che senso avrebbe avuto scappare altrimenti?

“Bene.” Fece lui, avanzando di un passo, notando con piacere che la ragazza si era irrigidita per la paura “Allora MUORI!!”

 

Atto 6, scena 16, Arioso doloroso

Non sapevo chi fosse. Né che cosa volesse da me.

Ma qualcosa nel suo viso mi inondò in un istante la testa con una terribile sensazione di dolore. Una scossa elettrica che mi perforava il cranio.

Non lo vidi arrivare.

Scivolai semplicemente per terra, con le gambe troppo deboli per sostenermi un istante di più, e mi presi la testa tra le mani, guardando in preda al panico il legno davanti a me.

Uno spostamento d’aria più veloce mi colpì le braccia, facendomi sobbalzare il petto per lo spavento e urlare con tutta la frustrazione che mi trovavo in corpo, mentre mi paravo il capo con le mani.

Di colpo tutto divenne silenzioso e calmo. Non c’erano più fischi in aria, né urla, né il leggero fresco della brezza notturna. Era come se attorno a me si fosse formata una bolla di sapone, separandomi dal resto del mondo.

Quando riaprii le palpebre non rialzai lo sguardo, ma vidi le assi del mondo apparirmi in modo differente.

Non erano più marroni, ma arancioni. Era come se fosse diventato tutto più chiaro. Più di quanto lo era stato prima, quando lo strano formicolio si era trasferito improvvisamente agli occhi, schiarendo lievemente il paesaggio notturno della nave.

 Con la coda dell’occhio intercettai la posizione dei miei gomiti, ritrovandomi a fare i conti con qualcosa di inaspettato.

Fiamme gialle. Crepitanti come se si stessero cibando della mia pelle, ma dolcemente tiepide al tatto.

Innoque.

Feci appena in tempo a notare il modo in cui ricoprivano tutto il braccio partendo dalla spalla fino alle punte delle dita, prima di ricevere una nuova fitta alle tempie, talmente violenta da farmi premere di nuovo le mani, sempre infuocate, tra i capelli, stringendo i denti nello sforzo di reprimere un altro urlo.

Le mie orecchie si riempirono poi di frase sconnesse e veloci.

[Ehi! Ma tu…!][Non è sicuro avvicinarsi a quello!!] [Ti prego….! Ripensaci!][Col cavolo che ti lascio da sola!]

E i miei occhi cominciarono a vedere qualcosa di diverso dal pavimento ligneo della nave.

Qualcosa che sapeva di ricordi.

 

Fine seconda parte Atto Sesto.

Lo ammetto. Per questo capitolo ho fatto più fatica del previsto. Sia a causa degli esami che dell’afa estiva che abbatteva continuamente la mia ispirazione.

Bene bene. Ora che ci troviamo qui, capirete come si sta svolgendo la storia.

Sia chiaro. Io per Shanks ho un’adorazione assoluta. Qualunque descrizione che possa aver fatto pensare il contrario non ha niente a che vedere con il mio pensiero personale! ^^

Allora. Il risultato del sondaggio si è concluso in parità (contando voti indecisi come doppi) e quindi mi sono ritrovata a prendere codesta decisione: le descrizioni di Momo si limiteranno ai segni particolari più citati, senza entrare nel dettaglio.

Vi sta bene?

Non ho messo molto in questo Atto, ma tornerò all’attacco nel prossimo. Ehehe.

Ok… Adesso passiamo alla domanda odierna:

Momo comincerà a ricordare qualcosa, ma ricorderà il proprio nome?

E ancora…

Come reagirà la ciurma di Shanks alla vista delle capacità della piccola?  

Bene! E con questo concludiamo! Spero vi sia piaciuta la lettura e che continuerete a seguirmi.

Bye bye! XD

 

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Ee, ia, chibi. Nai Gorgheggi >  Eh, no, piccola. Niente Gorgheggi.

Hontōni suteki na kēki  >  Davvero un bel bocconcino.

OI SHUKUTAI!  >  NIPOTE DEGENERE!

 

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Capitolo 9
*** Atto 7 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 7

Atto 7, scena 1, Arioso dell’inizio

Davanti a me c'era un ragazzo. Un ragazzo biondo, alto e dalla pelle chiara che si guardava intorno tenendo una mano poggiata sulla mia spalla.

Il paesaggio intorno a me era cambiato improvvisamente, tramutando la colorazione tersa del cielo notturno sopra la grande nave in un azzurro turchese tipico delle giornate più serene.

Una grande quantità di gente andava e veniva, incrociandosi nel grande sciamare della folla che riempiva quella che sembrava una piazza.

Già. Una piazza.

La piazza di un villaggio dai tetti blu.

"Andiamo via."

Dentro di me il cuore ebbe un sussulto nel sentire la voce calma e ferma di quello sconosciuto senza nome dei miei ricordi parlare la mia stessa lingua. Eppure non potevo parlare.

Era come se davanti a me scorresse un nastro di immagini impossibile da fermare.

I miei occhi vennero inchiodati da quelli blu cobalto dell'altro e mi venne spontaneo il desiderio di chiedergli chi fosse, ma non ottenni alcuna reazione dal mio corpo.

Di quella scena ero solo una semplice spettatrice.

Mi vidi annuire con la testa e questo un po' mi rassicurò: non era uno sconosciuto e il fatto che mi fossi fidata di lui bastava per capirlo.

Si guardò ancora un paio di volte guardingo, assottigliando gli occhi con sospetto su ogni persona che ci passava troppo vicino, per poi stringere la mia mano in una presa lenta e decisa.

"Mi raccomando non dire niente e resta calma." sussurrò ancora mentre mi trascinava via, facendosi strada in mezzo alla folla.

Annuii di nuovo a vuoto, ma questa volta, nel mentre mi lasciavo guidare dalla sua mano, mi persi ad osservarlo meglio.

Era un ragazzo circa della mia stessa età, biondo chiarissimo, alto, slanciato, con un paio di occhi color blu brillante e un viso ovale dai lineamenti delicati e femminei quasi.

Aveva un aspetto vagamente elegante. Specie per via di quell'orecchino argentato sul lobo sinistro e della curva delicata del naso.

Sentii improvvisamente quella stessa mano strattonarmi ed irrigidire la propria presa tenendomi all'indietro e facendomi appiattire contro un muro.

Il biondo imprecò, lanciando una sbirciatina oltre l'angolo del muro dove ci eravamo fermati.

Dalla mia angolazione riuscivo a vedere ben poco, ma intravedevo comunque qualcosa: la linea dell’orizzonte del mare ed un paio di barchette che si scontravano pigramente tra loro sotto la spinta dell’acqua.

Eravamo vicino ad in porticciolo.

"Merda. Ma cosa diavolo sta facendo Viola?" sibilò ancora una volta l'altro, trascinandomi fino ad un piccolo vicolo con alcuni cassonetti di spazzatura a fare da uniche disgraziate decorazioni, e lì abbandonò la mia mano.

Mi guardò per un istante quasi dispiaciuto e reticente, prima di ricominciare a parlare.

"Non c'è altra scelta. Mi toccherà fare un po' di casino." sospirò e lo vidi estrarre dal retro dei propri pantaloni qualcosa che mi fece gelare il sangue nelle vene: dei coltelli.

Mi vidi scuotere la testa in segno di negazione, rimanendo sempre muta come mi era stato detto, facendo per prendergliene uno dalle mani, ma questo me lo allontanò con uno scatto ben calcolato, alzando il braccio verso l'alto, portandolo fuori dalla mia portata.

I suoi occhi cobalto erano di nuovo corrugati in una smorfia desolata.

"Mi dispiace! Davvero...calmati,..per favore! Ascolta, so bene quanto tu odi la violenza, e ti prometto che non ferirò gravemente nessuno, ma senza un minimo di scompiglio non possiamo sperare di andarcene da quest'isola sani e salvi!"

Le mie mani si bloccarono e i miei tentativi di strappare dalle sue mani quegli aggeggi infernali si placarono di colpo. Mi ero fermata a guardarlo senza dire niente, dando vita forse ad un silenzioso scambio di battute.

Lo vedevo nei suoi occhi che mi capiva e, anche se non sapevo cosa stessi esprimendo con gli occhi, capii che non aveva parlato a sproposito quando aveva affermato che gli dispiaceva dover ricorrere ai propri coltelli.

Aveva la stessa identica espressione di un cucciolo bastonato. E non gli donava affatto.

Non saprei come spiegarlo, ma … quell’espressione stonava parecchio con il suo aspetto.

Sembrava quasi non appartenere alle sue abituali espressioni tanto era tirata e mi venne spontaneo paragonarlo … sì, ad un’aquila che tenta di cambiare la propria nobile espressione d’alterigia in una un po’ più umile.

Nonostante si vedesse lontano un miglio quanto fosse sincero, gli riusciva veramente male.

“Aspettami qui e fai un sonnellino già che ci sei. Io torno subito.”

Feci sì con la testa prima di vederlo andar via.

Qualunque cosa ci fossimo ripromessi tra di noi con quel gioco di sguardi doveva aver comunque portato un consenso da parte mia.

Poi il paesaggio cambiò di botto.

Non mi trovavo più in mezzo ad un vicolo sporco e maleodorante, ma tra dei barili.

Il pavimento sotto le mie ginocchia nude era granuloso e alle mie orecchie giungeva tenue lo scrosciare del mare seguita da qualche piccolo soffio di brezza fresca.

Notte, sul porticciolo, ed ero sola.

Le mie mani scattarono in fretta sul lembo di stoffa che mi circondava viso, coprendolo tutto fatta eccezione per gli occhi, e lo aggiustarono con premura.

Mi chiesi cosa fosse successo a quel ragazzo biondo, ma in quel momento la mia vecchia me stessa sembrava essere sì preoccupata, ma di qualcosa che si trovava poco sopra le sartie di una nave appena appena visibile dalla mia postazione.

Un lume rossastro si accese su una vedetta, ondeggiando furioso mentre illuminava a stento una figura umana posta lì vicino.

Le mie spalle si alzarono lievemente mentre prendevo un profondo respiro e mi levavo in piedi camminando a passo spedito tra le tenebre che ricopriva il molo. I miei occhi non sfrigolavano, né vedevano il mondo in modo più chiaro.

Stavo letteralmente procedendo alla cieca, come se mi fossi imparata un tragitto da percorrere ad occhi chiusi.

Un altro cambio di scena.

Un forte odore acre e nauseabondo mi riempì le narici, facendomi bruciare la gola con dei fumi caldi e pesanti, tipici di un ambiente malsano.

La mia mano destra teneva ancora in mano il lembo di stoffa di cui mi ero appena liberata e i miei occhi saettavano di qua e di là per un ambiente legnoso e carico di gemiti disperati e singhiozzi malriusciti.

La vista di schiarì improvvisamente e qualche urletto e gemito di puro panico venne sospirato in una strana lingua.

Sumimasen! Onegaishimasu!Onegai!Onegai!” sussurrò disperata una donna che subito mi apparve rannicchiata in un angolino con delle catene che le tintinnavano alle caviglie.

Sussultai nel vedere nello stesso stato tutti gli innumerevoli occupanti di quel posto, ora chiaramente simile ad una stiva.

Ero dentro la stiva di una nave.

Cosa stavo cercando?

Un gemito forte mi distolse dalla contemplazione di quella donna, facendomi scattare in avanti tra il lieve scalpore generale.

Non feci molta strada perché trovai quello di cui ero alla ricerca pochi metri più avanti:  davanti a me il ragazzo biondo del mio primo flashback era seduto con la schiena poggiata alla parete, grondante di sudore, lerciume e sangue rappreso sulla pelle e sui capelli, legato sia ai polsi che alle caviglie.

Capii come dovevano essere andate a finire le cose dai lividi e dai tagli che gli ricoprivano il viso. Il suo tentativo di creare un diversivo con un po’ di confusione doveva essersi concluso male.

Molto male.

“Non dovresti essere qui.” I suoi occhi azzurri si erano alzati sui miei, guardandomi con rimprovero.

Non so come reagii a quella frase, ma parlai.  Senza cantare, pronunciando ogni parola con assoluta normalità.

“Eravamo preoccupate. Non tornavi.” Risposi con tono calmo e ovvio, ma la sua replica lo fu altrettanto e addirittura velata di sottile sarcasmo.

“Ti pare che sia in grado di allontanarmi?” un sorrisetto sarcastico gli increspò le labbra spaccate, riaprendogli di poco una ferita sul labbro inferiore. Sospirai tranquillamente ad un suo lamento scocciato e mi fermai a fissare i grossi lacci che lo tenevano bloccato.

“Dov’è Viola?” la sua voce però mi ri-attirò subito.

“Ci aspetta fuori.” Disse la mia voce mentre mi chinavo affianco a lui posando le mani sulle corde di stoppa raggrinzite , stando stranamente attenta a non far entrare a contatto le mie mani con la pelle dell’altro. “Sai come la pensa.”

Una risatina mi giunse alle orecchie, mentre vedevo le mie piccole mani affusolate stringersi  attorno gli spessi e freddi lacci di quelle costrizioni abominevoli, illuminandosi poco a poco con una luce gialla e forte.

Teh. Per lei non esistono le eccezioni eh?”

Ero troppo occupata ad osservare il materiale filamentoso delle corde sfilacciarsi poco per volta tra le mie dita, bruciacchiandosi alle estremità, per riflettere sull’identità di questa Viola.

Avevo appena bruciato una corda! Una corda! A mani nude!

“Non prendertela così, dai. Non lo fa perché è cattiva.”

E la mia vecchia io non se ne stupiva affatto!!

Ero già saltata ad un altro flashback prima di potermene meravigliare ulteriormente.

Il volto del biondo era stranamente tornato pulito e privo di ferite, ma l’atmosfera non era più silenziosa come prima. Eravamo ancora accanto al porticciolo, ma il cielo era meno terso ed apparentemente sempre più prossimo ad illuminarsi con la luce di un nuovo giorno.

Attorno a noi si era radunato uno sciame di persone armate di spade e sciabole. Capii dalle loro espressioni che non eravamo i benvenuti, nonostante fossimo sul ciglio della nave, prossimi a cadere in acqua.

Ma non eravamo più solo in due. Me ne accorsi sentendo qualcosa stringersi a me con più forza e, abbassando lo sguardo, vidi un bambino, sporco e spaventato con una testolina corvina che tremava come una foglia sul mio petto.

Guardai il ragazzo senza dire nulla e lui rispose con una smorfia di dissenso.

“Non se ne parla!” esclamò perentorio.

Arch, è quasi giorno! Non potrò fare più nulla!” obiettò la mia voce con insistenza, spingendogli addosso il bambino “Devi andare via. È l’unico modo!”

“Col cavolo che ti lascio da sola!” rincarò la dose l’altro spingendo verso di me il ragazzino, accigliandosi sempre di più.

Arch! Ragiona! Se ora vengo con te morirai!”

“No!”

“Non hai altra scelta! Porta via questo bambino!”

NO! Io non vado via senza di te! Questa è una nave di schiavisti!”

Era quasi l’alba ormai. Il sole aveva appena cominciato a fare capolino all’orizzonte e forse fu per questo che feci quello che feci.

“Mi dispiace Arch.” Dissi mortificata prima di spingere tutti e due oltre il parapetto con tutta la forza che avevo.

I suoi occhi increduli furono l’ultima cosa che vidi prima che sia lui che il bambino piombassero con un tonfo sordo in acqua.

E io guardai il cielo farsi improvvisamente più chiaro serrando le mascelle con decisione.

Mi accorsi dopo di stare tremando, sentendo risatine e parole incomprensibili farsi sempre più vicine alla mia schiena.

Tremavo. La vecchia me stessa tremava da morire.

Aveva appena fatto un’enorme sciocchezza.

 

Atto 7, scena 2

Il mondo si era letteralmente fermato.

La Moby Dick e i suoi occupanti, provvisori e non, erano in quel momento sospesi in un silenzio volto alla pura e semplice contemplazione di quello spettacolo fenomenale. Persino Monkey D. Garp, notando nel pieno della propria furia quello che stava accadendo sulla nave avversaria si era irrigidito di colpo con un braccio levato in alto nell’atto di lanciare forse la centesima bomba di metallo.

L’uno accanto all’altro, Marco, Ace e Shanks erano stati gli ultimi a voltarsi al suono di quell’urlo femminile, mettendoci più tempo degli altri ad assimilare i particolari di quella scena inattesa che si delineò davanti ai loro occhi.

La folla di prati della Moby si era divisa, dando respiro al punto preciso dove stava l’oggetto della loro attenzione.

Rannicchiato sul ponte, tenendosi rabbiosamente il polso con una mano, un uomo, non appartenete alla ciurma di Edward Newgate, come poté constatare egli stesso, bestemmiava in tutti i modi possibili ed immaginabili contro il motivo del rossore che gli aveva raggrinzito la pelle del braccio. Nonostante però la gravità di quella piaga, così ben esposta agli occhi dell’intero equipaggio, Roid Brinata non demordeva e continuava a cercare di riprendere possesso del proprio pugnale abbandonato lì davanti, ma senza poterlo trattenere per più di un secondo, tanto il manico era diventato caldo.

Non era poi tanto quella strana ed assurda scena che vedeva l’ex schiavista come protagonista a lasciare a bocca spalancata le due ciurme di pirati, quanto quello che stava a pochi metri da lui.

All’inizio a molti era parsa come una grande focolare giallo appiccato sul legno liscio del ponte, ma poi una più attenta analisi di quelle lingue infuocate, della loro forma e anche delle piccole e leggiadre ombre interne che sembravano far loro da scheletro avevano rivelato una figura umana.

E immaginare quanto dolorosamente si fosse fermato il respiro in gola a Marco e ad Ace, nel constatare che si trattava della piccola naufraga, non sarebbe stato comunque sufficiente.

“MOMO!” erano entrambi scattati all’unisono verso di lei, superando in un istante Roid ancora occupato a cercare di riprendere possesso della propria arma, avvicinandosi quindi abbastanza per focalizzare meglio i tratti della ragazza in mezzo a quella sorta di manto dorato.

Stava seduta sul ponte con gli occhi che, serrati con disperazione e con le ciglia lunghe ricoperte di piccole ed impossibili gocce salate, tremavano per lo sforzo, così come le mani, passate tra i capelli, anch’essi incandescenti, mentre la bocca si apriva, si richiudeva, boccheggiava senza però emettere alcun tipo di suono, niente che facesse intendere che stesse bruciando viva.

Il suo corpo si era visibilmente irrigidito nel tentativo di contenere qualcosa, di trattenerla, aggrappandovisi con tutto il corpo. Marco ed Ace a modo loro questo l’avevano capito, e ne erano in egual modo angosciati.

Il perché non risentisse del calore asfissiante delle loro fiamme, e anche perché i suoi occhi si illuminassero come lava incandescente erano cose che si spiegavano solo in quel momento.

Non era una semplice ragazzina spaurita.

La loro immediata preoccupazione  era rivolta tuttavia , più che alle capacità svelate della naufraga, al suo stato di salute che momento quel  in risultava tanto precario .

Le braccia di entrambi tremavano ansiose di fare qualcosa, ma nessuno dei due sembrava sapere cosa per l’esattezza.

 Avevano paura di toccarla. Il timore di farle danno svegliandola da quello stato di trance nel quale stava galleggiando era più forte di qualunque cosa. Ace smaniava per metterle le mani sulle spalle e scrollarla con forza e poter quindi rivedere quei grandi occhi spaventati trovare conforto nel riconoscere il suo viso.

Così come Marco, tutto preso dalla contemplazione di quelle strane e mistiche fiamme gialle che circondavano la minuta figura di Momo, rendendola ai loro occhi una sorta di leggiadra e struggente rappresentazione dell’angoscia e della fragilità.

Era come vedere un pulcino ferito ad una zampina: si ha il desiderio di prenderlo tra le mani ed accarezzarlo sulla testolina per farlo sentire al sicuro, ma allo stesso tempo si sa che solo restando fermi e lasciando che trovi la forza per camminare da solo anche con quel piccolo dolore si potrà vedere che sta nuovamente bene.

Momo…” esalò in un sospiro il biondo con le labbra appena socchiuse.

“Dannata! Ti strozzo a mani nude!!” il ringhio di Roid Brinata spaccò l’aria silenziosa della notte, colpendo come una bastonata alla nuca tutti i presenti, memori della presenza dell’ex schiavista solo in quell’istante, preso da una tale sete di vendetta da caricare con uno slancio a testa bassa verso la ragazzina, mirando ad oltrepassare i due comandanti della Moby passando nel mezzo dei loro corpi.

Sarebbe accaduto il peggio se entrambi, con dei riflessi che solo i capitani di una delle divisioni del Re Bianco potevano avere, non avessero bloccato ognuno a modo proprio la corsa del mozzo.

Il mento leggermente squadrato si ritrovò in un batter d’occhio scagliato all’indietro, incassando in un sol colpo un pugno da parte del moro ed un calcio da parte del biondo, ma questo, a quanto parve, non fu sufficiente a mandare a nanna l’uomo che, rialzandosi a stento sui gomiti rispose con altrettanta grinta gli sguardi furiosi dei due ragazzi, indicò con l’indice della mano ancora sana la piccola naufraga.

“Quella strega ci ucciderà tutti!” fu la rivelazione che diede una scossa di incredulità alle fronti di tutti i presenti. Non c’era un solo sopracciglio che non si fosse alzato alla sua confusionaria e decisamente troppo sintetica spiegazione.

Fu così che Roid, scattando da parte a parte la testa e non vedendo nei presenti alcuna traccia di consapevolezza, si affrettò ad aggiungere qualcos’altro, ricercando con lo sguardo la figura imponente ed autoritaria del suo nuovo capitano.

“Capitano Shanks!” gridò, calcando con il braccio alzato la direzione da lui indicata che puntava sulla ragazzina. “È lei! È lei quella strega! È stata lei! Lei ha chiamato quel bestione a far affondare la nave su cui ero imbarcato!”

Dalla loro posizione i membri della ciurma del Rosso sbiancarono non sapendo cosa fosse peggio tra dover fare i conti con uno Shanks chiamato capitano da un elemento simile o prepararsi ad una bella rissa fra ciurme dopo che quell’imbecille aveva appena dichiarato di far parte della ciurma del Rosso dopo aver attaccato così apertamente un protetto di Barbabianca.

“Dovevamo buttarlo a mare.” Mugugnò a denti serrati sul filtro della propria sigaretta Ben, più furioso che mai e pronto in qualsiasi momento a tirare il collo a quel coniglio sottoforma di essere umano di nome Roid.

Non era certo cosa aspettata che Shanks si muovesse silenziosamente e senza dar segno di turbamento verso il suddetto mozzo, facendolo tacere all’istante con solo un paio di passi.

Inutile dire quanto Brinata fosse terrorizzato nel vedere dal basso la figura dell’imperatore Rosso bloccarsi a solo un passo da lui, oscurandolo con la propria ombra.

Le sue ossa tremolavano talmente tanto da poter essere perfino udite e gli angoli dei suoi occhi pungevano sotto la spinta di lacrime di panico.

Un sorriso apparentemente innocente si distese serenamente sul viso del Rosso, mentre si abbassava con calma esasperante all’altezza dell’altro e già questo bastò per far imprecare a mezza voce una dozzina dei suoi, tra i quali spiccava Yasopp. Dannato Roger e il giorno in cui aveva imbarcato quel lunatico dai capelli rossi sulla sua nave. 

Gli occhi furbeschi e aperti come quelli di un bambino sinceramente incuriosito dalle parole di un adulto, si inchiodarono sul viso grondate di sudore dell’ex schiavista, impedendogli implicitamente sia di fare marcia indietro sulle proprie parole sia di distogliere il suo sguardo dal proprio.

La lama della spada del capitano rosso gli brillò tagliente a pochi millimetri dal viso.

Eh…Male, signor ex capitano, proprio male. La buona educazione non è il suo forte eh?”

Roid inghiottì un groppone di saliva a vuoto, nel sentirsi la gola disidratarsi di colpo.

“Fare i comodi propri sulle navi altrui.” Lo canzonò scrollando un poco la testa con falso tono accondiscendente. Lucky e Ben augurarono non molto convinti allo schiavista di avere in tasca qualche fumogeno o altro aggetto insidioso, perché solo in quel caso avrebbe potuto sperare di sottrarsi al suo triste destino.

Era in quei momenti in cui era bene tenersi lontani da Shanks almeno 10 metri di distanza. E Roid quella distanza di sicurezza l’aveva appena infranta alla stragrande, aprendo la fogna che si era scoperta essere la sua bocca.

Il rosso continuò imperterrito la propria ramanzina sotto gli occhi strabiliati dei figli del Bianco, non consapevoli della vera identità dell’uomo e, di conseguenza, del motivo che rendeva il Rosso così intrattabile nei confronti di un membro della propria ciurma.

“Non ci siamo, signor Roid. Proprio no.” Cantilenò oscillando un po’ la spada in segno di negazione, rischiando di ferire con il filo gli zigomi dell’altro “Saltare in quel modo addosso ad una ragazza…” la spada venne provvidenzialmente spostata un po’più in là, mentre il rosso lanciava un sorriso interessato in direzione della fanciulla in questione, ma Roid non fece in tempo a gioirne perché il viso sorridente del capitano si accostò minaccioso al suo.

Eeh…” sospirò il Rosso “… mi vedo costretto ad insegnarle un po’ di buone maniere.” Terminò come se fosse la cosa più ovvia e indevitabile nella loro situazione.

La pelle già pallida di Roid sbiancò di botto e il suo istinto di sopravvivenza tornò a pretendere di essere ascoltato, incitandolo a darsela a gambe levate e tentare la sorte buttandosi fuori bordo per chiedere così asilo presso la nave della marina che gli aveva attaccati.

Ma si vide costretto ricacciare quella idea in un angolo della propria mente, ricordando con terrore la velocità di cui era provvisto l’uomo che aveva davanti. Uno come lui avrebbe avuto si e no le stesse possibilità di scappare di un topolino dentro una gabbia e attorniato da una dozzina di gatti affamati.

U-un momento! Le-ei … è u-una strega, capitano! ” obbiettò debolmente l’uomo sperando solo che quel pazzoide del capitano rosso lo ascoltasse, ma dopotutto non aveva più nulla da perdere e se davvero sarebbe dovuta essere quella la sua fine… bhe… almeno sarebbe andato all’altro mondo ribadendo il vero fino alla nausea.

“Ha affondato la mia nave!!”

La sua affermazione fu subito seguita da un brusio di obiezioni rivolte verso di lui.

Momo-chan? Ma per favore! Quante botti di sake si è scolato quello pazzo?” “La nostra sorellina non farebbe del male ad una mosca!” “Già! A momenti ha paura della sua stessa ombra!”

Le critiche dei più audaci scemarono tuttavia poco dopo, nel dover ammettere nonostante tutto un fatto inconfutabile: quello che stava circondando come un manto protettivo il corpo della loro sorellina indifesa era fuoco.

E se la piccola naufraga fosse stata in grado di usarlo anche contro qualcuno … sarebbe stato giusto continuare a definirla indifesa?

Shanks, nel sentire con più attenzione le ultime parole di difesa dell’ex schiavista però non diede alcun segno di sorpresa, né d tentennamento.

Semplicemente sorrise.

Non che non l’avesse fatto dacché aveva cominciato a minacciare Brinata con la propria sciabola, ma il modo in cui sollevò gli angoli delle labbra, scoperchiando la dentatura lattea in un sorriso da malandrino, era sostanzialmente diverso da come aveva fatto fino da allora. 

E Ben capì al volo.

Quello non era l’espressione tipica di Shanks quando cercava di contenere la propria rabbia per una situazione fastidiosamente avversa, ma l’esatto contrario.

Era felice. Estremamente contento. Proprio come un bambino al quale vengono date più caramelle del previsto e si mette a gongolare mentre mantiene per sé quei dolci zuccherini.

 Uhnn

Fu  davvero per tutti una secchiata d’acqua gelida sentire la voce della ragazza ammantata di fuoco fare finalmente capolino, sciogliendolo Roid da una scomoda situazione ed Ace, Marco e tutti i pirati della Moby da una tormentata attesa.

 

Atto 7, scena 3, Arioso del caos

Riemersi da quella tempesta di ricordi come se fosse stato una densa pozza d’acqua tiepida.

Ero intontita, frastornata da quel diluvio di emozioni ed immagini che mi aveva colpito con forza nel’animo, sbatacchiandomi di qua e di là come una fogliolina al vento.

Era strano tornare in quel modo alla realtà. Il mondo mi appariva traballante, precario, ma, ripensandoci, forse ero io ad esserlo.

La notte non era ancora tornata nera e io, accumulate nuove e sconcertanti informazioni su di me, non mi stupii: quella era la mia vista. O meglio, la mia vista notturna. Ormai l’avevo capito, anche se un po’ mi lasciava stranita.

Non era più tanto ritrovarsi con delle capacità simili, spuntate da chissà dove, dopo aver analizzato per bene quello che avevo rivisto nella mia testa. Era stata la stanchezza e la mancanza di forze provocata dalle ferite e dal naufragio ad aver costretto il mio corpo a conservare quante più energie possibili.

Eppure… pensai rabbrividendo ai ricordi spaventosi che avevano succeduto la mia cattura su quella nave piena di povera gente picchiata ed incatenata.

Io ero rimasta lì.

Avevo sofferto le stesse pene di quelle persone. Niente cibo. Acqua piovana filtrata dalle travi disassate della nave per evitare la disidratazione.

E specialmente… niente luce.

Non un filino di sole. E io, in quegli orribili momenti, dove i miei occhi vedevano naturalmente attraverso le tenebre di quella stiva degli orrori, ricordavo di aver cominciato a piangere silenziosamente mordendomi le labbra per non gridare come gli altri, implorando di sapere quale fosse il giorno e la notte.

Pregando di riuscire a capirlo un’altra volta e poter finalmente urlare tutto il mio dolore ed andarmene da quel posto infernale, senza dover tener conto delle conseguenze.

Il solo pensiero di quei momenti spaventosi mi fece rabbrividire da capo a piedi e portare le mani alle labbra, mentre, con palpebre tremolanti, riaprivo ancora un po’ gli occhi tenendoli bassi e chiedendomi se quelle fiamme gialle si fossero dissipate insieme ai miei flashback.

Invece erano ancora lì. Premute contro il mio viso calme e placide come un soffio di aria tiepida. Lunghe ed affusolate al pari di tante piume sottili e leggere.

Un po’ rassicurata da quel calore impalpabile spinsi il mio viso a guardare ancora un po’ più in alto, pur non riuscendo a fermare le mie spalle al pensiero di rivedere il viso di quell’uomo di cui in quel momento conoscevo l’identità.

Non avrei avuto la forza di scappare. No. Le mie ginocchia tremavano troppo per poter anche solo pensare di sostenermi.

Invece ebbi un tuffo al cuore.

Le lacrime mi salirono meccanicamente agli occhi e cominciarono a sgorgare in tante gocce sulle mie guance. Provavo un’enorme vergogna per quello che stavo facendo, ma non riuscii a trattenermi rivedendo il viso di entrambi. Per me era come se la loro presenza lì equivalesse ad un oasi in mezzo ad un deserto. Mi sentivo debole, spaventata, con un’enorme vuoto all’altezza del cuore.

Spossata in tutti i sensi e loro erano lì, davanti a me.

Io mi limitai a fare di loro il mio appiglio, buttandomi istintivamente verso di loro a braccia aperte, riuscendo a malapena a cingere loro le gambe, incurante di avere quelle fiamme crepitanti sulle braccia.

Piansi forte. Così tanto da cercare di soffocare i miei stessi singulti nella stoffa dei pantaloni di Marco la mia voce e le mie lacrime.

Odio, tristezza, rimorso, sollievo, delusione e paura stavano spintonando l’uno contro l’altro nel mio cuore. Avevo ricordato molte cose, ma non tutte. I mio nome rimaneva ancora avvolto dalla nebbia.

E io desideravo tanto di ricadere incosciente sul ponte della nave per potermi beare di un po’ di quiete.

 

Atto 7, scena 4

Il suo era un pianto doloroso, soave, un suono che ti entrava nell’anima come una fragranza di sofferenza e che ti faceva contrarre il petto per la pena. I suoi singhiozzi consumavano a poco a poco l’aria circostante impregnandola con le loro vibrazioni,

Non ci fu una sola persona lì presente che non desiderò trovar modo di farle trasformare quella litania in una risata cristallina di pura gioia.

Nemmeno Roid Brinata, nonostante i suoi precedenti propositi di far scontare a quella ragazza tutte le proprie sfortune, riuscì a sopprimere quella sensazione di dispiacere nel vederla in quello stato.

Marco ed Ace osservarono le calde fiamme gialle che erano diventate le braccia di Momo, cingere loro le gambe, stringendo con forza disperata e supplicando per qualcosa.

Quel qualcosa arrivò da entrambi contemporaneamente.

Indifferenti alla presenza del fuoco di lei, i due comandanti si chinarono abbracciandola, spingendola a sprofondare i suoi singhiozzi sui loro petti.

La ragazza, tremolando con tutto il proprio minuto corpo, sospirò diminuendo il ritmo dei propri lamenti, allacciando le braccia attorno il corpo di entrambi e circondandoli con le sue fiamme dorate.

Era visibilmente più calma e di questo Barbabianca, sebbene molto discretamente, ne fu sollevato, così come tutti i suoi figli sul ponte, affiancati dalle stupite ed un po’ confuse infermiere.

Marco osservò nel frattempo le lingue vibranti che stavano carezzando morbidamente sia lui che Ace senza compiere alcun danno, e si chiese se il motivo di quella mancanza di effetti negativi derivanti dalla loro vicinanza fosse dovuta ad una specifica capacità di lei oppure dal fatto che lui ed il suo fratellino erano essenzialmente composti di fuoco.

Non voglio più ricordare…” sussurrò lievemente la naufraga evidentemente rivolta verso di lui. A quelle parole pronunciate in quello strano modo Pugno di fuoco alzò di poco la testa, dando sfoggio di un’occhiata interrogativa che fece il giro di tutti i presenti sul ponte, fatta eccezione per Newgate, Shanks e Marco stesso.

Persino Ben rischiò di far cadere la sigaretta a terra, colto dall’improvvisa consapevolezza di cosa provocasse il sorriso compiaciuto del proprio capitano, anche in quel momento più vistoso che mai.

Le labbra strette di Beckman, tornate a stringere saldamente il filtro della cicca, si piegarono in un sorriso discreto e divertito.

In che razza di situazione gli aveva imbarcati stavolta?

Nooooo!!”

L’urlo straziante di Roid colpì di sorpresa tutti quanti nessuno escluso, facendo incupire ancor di più il viso a Shanks, ora preso dallo scrutare l’ex vice capitano, rannicchiatosi a riccio su se stesso con la fronte sul ponte, come se su di lui stesse per calare l’ascia del boia.

“SIAMO MORTI!! MORTI!!!”

“Ehi tu, che diav-!” esclamò Ace, scocciato da quelle parole deliranti e assolutamente prive di ogni logica, alzandosi di poco da Momo, deciso più che mai a costringere quel piagnone bastardo a smetterla con i suoi deliri ed ad uscire più in fretta che poteva dalla sua vista, prima che perdesse la pazienza, ma un’occhiata eloquente del biondo accanto a lui lo fece restare dov’era.

Gli occhi azzurri di Marco puntellarono i suoi facendogli capire che non era il momento di fare colpi di testa e Pugno di Fuoco dovette riconoscerlo anche senza che l’altro glielo spiegasse: c’erano due ciurme sulla nave del babbo, ed una di queste era quella di Shanks il Rosso, poi, ad aggiungere un po’ di fastidioso pepe a quella situazione tesa, c’era anche suo nonno, in quel momento presosi una breve pausa visti gli avvenimenti straordinari della Moby.

La fronte del moro di corrugò appena, oscurando il suo viso lentigginoso con un’ombra di serietà, mentre rispondeva mutamente all’intensa occhiata di Marco.

Estrema cautela. Ecco che cosa ordinavano gli occhi cerulei del fratello.

Una sola mossa avventata e il minuscolo, precario equilibrio formatosi sulla loro nave si sarebbe sfasciato come un castello di carte. Poco importava chi fosse sulla nave di chi. Se quello che aveva tentato di mettere le mani addosso a Momo era davvero un membro della ciurma del Rosso, sarebbe stata responsabilità del capitano della Red Force provvedere, non loro.

“HA CANTATO! HA CANTATO!” continuò a lagnare l’ex schiavista, strisciando sul legno del ponte con il viso pallido come quello di un morto e i capelli disordinati appiccicati sulla fronte a causa del sudore che la percorreva.

L’imperatore Rosso, sospirando affranto, lo guardò da dietro, riponendo nel frattempo la propria sciabola.

Uno spettacolo davvero pietoso.

Che fosse per quello che non l’aveva buttato in mare?

Bha. Era comunque ora di porre fine a quella scenetta tragicomica.

“Ben.”

Gli bastò sbuffare il nome del vice capitano perché quest’ultimo avanzasse immediatamente in avanti con la baionetta in mano e con un colpo secco alla nuca mandasse a nanna il loro improbabile mozzo.

Poveretto…” sussurrò impietosito Rock Star, grattandosi la tempia con un dito. Un poco sentiva di capire quel diavolaccio di uno schiavista. Certo però,… dare di matto in quel modo per una ragazza..!

Il primo ed il secondo comandante del Bianco erano ancora mezzi scombussolati dall’ordine del rosso prima che la voce di quest’ultimo arrivasse alle loro orecchie con il consueto tono tranquillo e zelante di cui era tanto famoso.

“Vi consiglio di portare la piccolina in un posto sicuro.” Disse il Rosso rivolto verso di loro, facendo accigliare con un piccolo grugnito Marco, mentre stringeva ancora un po’ di più Momo tra le braccia.

Quell’uomo non gli era per niente simpatico, era troppo sfrontato, e il sentirsi dare ordini proprio da lui, che aveva scombinando in quel modo la serata alla Moby Dick, in un'altra situazione sarebbe stato un motivo più che sufficiente  per invitarlo cordialmente a riservare quel tono di comando per il suo di equipaggio e togliere le tende nel giro di 4 secondi.

Ma non ci fu alcuna reazione da parte del biondo, a parte un’occhiata furtiva lanciata verso il babbo ed un lieve segno di assenso in risposta all’occhiata significativa di quest’ultimo.

“Il vecchio Garp potrebbe tornare all’attacco.” Aggiunse poi Shanks voltandosi da dove prima erano state scagliate sfere metalliche, incontrando, senza dare un minimo accenno di preoccupazione, il volto di Monkey D. Garp, ancora bloccato con una palla di cannone tenuta alta a mezz’aria e la mascella lanosa spalancata per lo stupore.

 Shanks si divertì come un matto ad osservare gli occhi del vice-ammiraglio ingranditisi di almeno tre volte tanto, mentre indugiavano allibiti sulla figura tremante e luminosa di Momo.

Bene, bene. A quanto pare anche lui aveva capito di chi si trattava. Chissà come avrebbe reagito.

 

Atto 7, scena 5

Monkey D. Garp era rimasto letteralmente pietrificato. Il suo mento tremava, non osando dare nome a quello che aveva appena visto, quasi nella speranza che si trattasse solo di un enorme sbaglio, di un’allucinazione, o meglio, di un brutto sogno.

Ma non c’era nulla di surreale nella sensazione di freddo metallo ancora stretto nella sua grossa e callosa mano.

Ed era certissimo di non essere caduto vittima di un altro attacco narcolettico.

No. Quella che si era mostrata in tutto il proprio titubante fulgore sulla nave da lui puntata, e stretta con disperazione al corpo del nipote e di un altro membro della ciurma di Newgate, non poteva essere che una di quelle creature.

Serrò i denti, senza dar segno di abbassare il braccio muscoloso dalla propria posizione, e grugnì in gola tutto il proprio malcontento.

Che fare? Non avrebbe avuto cuore di mettere a repentaglio la vita di un’innocente in quel modo.

Era sempre stato un tenero di cuore nel profondo, proprio come lo era stato nel caso di Ace tempo addietro, ma quella ragazzina era un caso eclatante sul quale uno con le sue stesse convinzioni non avrebbe mai e poi mai sognato di alzare un solo dito.

Sapeva bene cosa doveva aver passato. Oh, il solo mare sapeva cosa quegli occhietti impauriti e abbagliati dovevano aver visto.

Già il fatto che una come lei fosse così lontana dalla propria isola natale era una prova delle sue disavventure.

Se la sua memoria non lo ingannava era stato incaricato Akainu di quella missione che doveva aver dato avvio alle sventure di quella bambina. Quanti mesi fa? Otto? Sì, era stato all’incirca otto mesi fa. Se lo ricordava troppo bene il modo in cui quel bastardo del suo superiore di grado era rientrato dall’incarico, decretando con tono strascicato ed auto compiacente “La missione ha avuto pieno successo”.

Come aveva fatto a sfuggire alla furia omicida di quel marine fanatico? Doveva essere nata sotto una stella baciata dalla fortuna per essere sopravvissuta ed essere scivolata via dall’occhio vigile dell’ammiraglio Cane.

Una sola domanda lo assillava: come fare in modo di non venir meno agli ordini, senza dover porre fine al di certo travagliato viaggio di quella piccolina?

Signore… ?” Koby scelse proprio quel momento per avvicinarsi al proprio insegnante, rassicurato dall’immobilità che ne aveva bloccato i bruschi movimenti, procedendo lentamente passo dopo passo con Hermeppo aggrappato alla sua schiena come la conchiglia di un paguro.

“Come siamo messi a munizioni?” domandò a bruciapelo, quasi senza rendersene conto.

Dietro di lui i suoi allievi, guardandosi l’un l’altro con labbra tremanti si scambiarono una reciproca occhiata d’incoraggiamento.

S-signore, q-quella che tiene in m-mano è la nostra u-ultima palla d-di cannone…” balbettò titubante il più giovane dei due, indicando la suddetta sfera nelle mani del marine con la mano tremolante.

Il cervello di Garp il Pugno, vuoi per l’ora tarda, vuoi per via dello shock subito pochi istanti prima, ci mise un po’ a rielaborare l’informazione ricevuta da Koby, ma ne valse la pena, poiché, appena ne ebbe valutata l’utilità, i suoi zigomi si arcuarono in sorriso soddisfatto.

I muscoli interni del suo braccio si gonfiarono, caricando all’indietro tutta la forza rimasta con un solo gesto per poi scagliarla in avanti, sferzando l’aria con un fischio che si fece sovrano dell’aria notturna assieme all’avanzare dell’ultima munizione rimasta sull’ammiraglia.

Al passaggio di quel pezzo di metallo tutti i pirati della Moby ammutolirono, vedendolo passare a pochi millimetri di distanza da loro con precisione quasi  millimetrica, rivelando in neanche mezzo istante l’ultimo l’obbiettivo del marine.

Shanks ridacchiò rifoderando la propria spada, mentre due perfette semisfere nere rotolavano dietro di lui.

La grinta certo non mancava al nonnetto. Non aveva nemmeno esitato a scegliere la sua faccia come bersaglio ultimo della sua pioggia di meteoriti. E dire che gli stava simpatico quel vecchio brontolone …!

“BWAHAHAHAHAH!” tuonò forte la risata del Pugno, facendo scattare un paio di volte il sopracciglio sudato di Ace,mentre la figura del nonno assumeva la tipica posa a pugni chiusi sui fianchi ed a petto in avanti, gonfio di boria.

“Non avrei voluto arrivare a questo mocciosetto capelli rossi, ma così come stanno ora le cose non mi lasci altra scelta!!” esclamò sfidando il capitano della Red Force con lo sguardo.

“Ti do tempo fino a domani per levare le tende da quella bagnarola su cui ti sei fatto clandestino! Se non lo farai puoi anche dire addio all’Equilibrio ed aspettarti uno scontro in piena regola!” terminò puntando un grosso dito indice in direzione del Rosso, ora tutto occupato a sorridere a metà tra lo sfacciato ed il riconoscente.

Lui, rompere l’equilibrio? Ma quando mai? Era una battuta così inverosimile che dovette sforzarsi per non scoppiare a ridere lì seduta stante.

“E tu, NIPOTE DEGENERE!”

Ace alzò gli occhi al cielo, calcandosi con disperazione malcelata il cappello sugli occhi, sperando di poter scomparire al più presto nella stiva della nave, mentre dava appunto le spalle al nonno nell’atto di recarsi alla porta della sottocoperta insieme a Marco e Momo.

“Non credere di essertela scampata! Puoi scommettere che non ti mollerò un solo istante! Continuerò a tenerti d’occhio finché non mi capiterai sotto mano e allora-..!”

Il fragore di schegge che saltavano in un sinfonico scricchiolio, provocato da un pugno ben assestato sul parapetto dell’ammiraglia, bastò ed avanzò per far crollare ad Ace ogni speranza riguardo un’ipotetica tregua tra lui ed il nonno e agli altri comandanti della Moby la voglia di chiedere ulteriori dettagli sulla relazione tra quella belva di Monkey D. Garp ed il loro avventato fratellino.

“Coraggio mezze cartucce! Tutti in branda!” decretò il vecchio marine, scendendo dalla propria postazione e lasciando di sasso i propri uomini.

M-ma signore… ” azzardò Hermeppo, mentre dietro di lui i suoi compagni si lanciavano sguardi apprensivi e confusi “… e i turni di guardia-..?”

“BASTA E AVANZO IO!”

Non servì altro per far correre di filato nelle proprie cabine l’equipaggio di marine. Ah, la gerarchia militare aveva i suoi risvolti positivi in certi casi. Specie se si era il più alto di grado.

E mentre Garp di metteva a gambe e braccia incrociate sul ponte, puntando con occhio vigile la nave pirata ormeggiata accanto alla sua, gli venne spontaneo grugnire tra sé e sé un avvertimento in direzione dell’odioso Rosso.

“Sbrigati a metterla al sicuro, marmocchio.”

 

Atto 7, scena 6

“Su Momo, su.” Supplicò la voce incitante di Penelope, mentre tentava invano di far allontanare la piccola naufraga dai due comandanti, stando attenta a non avvicinarsi troppo a quelle fiamme dall’aspetto minaccioso che la ricoprivano da capo a piedi.

Per tutta risposta le mani della ragazza non fecero che stringersi con più convinzione su entrambi, spiegazzando un poco la camicia sbottonata di Marco e premendo le dita sulla schiena nuda di Ace, con una forza tale da far desistere in pochi minuti il gruppo di infermiere, sceso con loro nella grande sala da pranzo insieme a tutti gli altri.

La bionda lanciò un’occhiata di puro sconforto verso il capitano della Moby, scuotendo la testa negativamente. Edward Newgate mandò giù un altro sorso di sake per nascondere una smorfia di preoccupazione, scoccando poi una sbirciatina di puro fastidio al Rosso seduto dinanzi a lui con tutta la propria ciurma appresso.

Ma come diavolo c’era finito quel fastidioso insetto sulla sua nave?

Le sue labbra abbandonarono l’orlo del proprio boccale con un lieve schiocco, mentre scostava la testa da un lato per meglio osservare il sorriso sfrontato ed infantile del proprio rivale.

Le enormi dita della sua mano tremarono, stritolando il manico del bicchiere che venne poi sbattuto con un botto sul pavimento della mensa, lasciando senza fiato i suoi figli.

Satch sospirò, facendo del proprio meglio per ignorare il groppone che gli era salito in gola. Male, davvero molto molto male.

L’odore lievemente acidulo e pungente delle poche gocce di sakè, che erano saltate via dal boccale, invase le narici dei presenti, che dovettero accontentarsi di umettarsi le labbra a quell’invitante fragranza, vista la tensione che gli costringeva a tenersi fermi in attesa di un risvolto decisivo da parte dei due imperatori.

Era tale l’ansia da far seccare la gola a tutta la nave.

Persino Yasopp e Lucky sembravano soffrire dell’aria pesante della sala, eccezion fatta per Ben che, trovatosi una buona sedia sulla quale accomodarsi, si era messo a ad aspirare con calma snervante dalla propria sigaretta lunghe boccate di fumo, lasciando accasciato ai propri piedi il corpo esanime di Roid, senza degnarlo del minimo sguardo.

 Eccoli che iniziano, pensò il vice capitano della Red Force, anticipando di pochi istanti l’inizio della conversazione.

“Spero tu abbia una buona ragione per tutto questo, moccioso.” Strascicò la sua voce cavernosa, mentre i suoi occhi si assottigliavano minacciosi verso l’altro, tutto sorridente e decisamente meno ostile nelle intenzioni. Bhe. Almeno in apparenza. Con Shanks il Rosso non c’era mai nulla di certo. Poco ma sicuro.

“Oh, niente di speciale.” Rispose con nonchalance l’altro, alzando con fare superficiale la mano destra “Il solito: la noia, il caldo… sai, un po’ di tutto. Mi stavo allegramente crogiolando sul ponte della mia nave chiedendomi come fare per dare un po’ di senso alla giornata e poi *ting* ho pensato: perché non fare un salutino al vecchio Newgate?”

Il suo ragionamento spiazzò letteralmente tutti quanti, facendoli finire a gambe all’aria quei pochi che avevano resistito alle sue ondate di haki di poche ore prima. Ben Beckman si sforzò di tenere a bada sia la pesante emicrania che gli aveva trapassato la testa, sia gli istinti omicidi che lo avevano assalito nell’udire le parole del proprio capitano.

Sperava vivamente che quello spostato sapesse quello che stava facendo, perché se Newgate non l’avesse ucciso ci avrebbe pensato lui. Oh, altroché.

Ace deglutì a vuoto, non sentendosela di proprio ridere sopra una simile situazione. Rispettava Shanks, ma in quel momento, vedendo il babbo prossimo a far scoppiare tra le mani il calice di sake nel tentaivo di contenere la rabbia, l’unica cosa che gli veniva da pensare era: Che cavolo sta combinando, quell’idiota?

E Marco non era certo da meno. Anzi, il suo cervello stava già rielaborando più e più modi per poter mettere personalmente le mani su quel Rosso presuntuoso e gettarlo fuori dalla Moby il più in fretta possibile.

“Il resto puoi facilmente intuirlo.” Continuò intanto Shanks, incurante delle occhiatacce della propria ciurma e dello sguardo di puro odio di Newgate diretto su di lui.

Già… Ti sei fatto seguire di proposito dal vecchio Garp e poi ti sei fatto imbarcare sulla mia nave…” la voce pericolosamente tremante dell’imperatore Bianco rimbombò tra le mura legnose della mensa, toccando nel profondo le interiora di ogni singolo individuo lì presente.

Il contatto con l’haki del Bianco dava l’impressione di essere pressati da qualcosa dall’interno con lentezza esasperante e Momo a quella sgradevole sensazione si lasciò istintivamente sfuggire dalle labbra un singulto, aggrappandosi con più forza alle spalle dei due comandanti.

Accorgersi del turbamento che stava provocando nella piccola, aiutò Barbabianca a calmarsi quel tanto che bastò a fargli alleggerire l’ondata di haki che inavvertitamente aveva lasciato traboccare fuori dal proprio corpo insieme all’ira.

“Colpevole.” Fu tutto quello che disse a propria discolpa il Rosso, alzando una mano e se ci fosse stata anche l’altra, lo avrebbe fatto anche con entrambe per esprimere il proprio desiderio di scusarsi, ma si sarebbe potuto accontentare solo di dare a vedere di essersi assunto la responsabilità dell’accaduto, anche se in modo molto bambinesco.

“E come giustifichi il comportamento del tuo uomo nei confronti  di mia figlia?”

A quella frase la sala si zittì in attesa della risposta dell’altro. Gli occhi azzurri e quelli carbone di Marco ed Ace si puntarono sul rosso, anche loro ansiosi di sentire le sue scuse e qualche spiegazione riguardo le parole deliranti dell’uomo.

Le labbra di Shanks si incurvarono impercettibilmente: alla fine erano arrivati al nocciolo della questione.

“Mozzo provvisorio, prego.” Tenne a precisare, riaprendo gli occhi dall’espressione tutta sorrisi di poco prima, poggiando il braccio sul rispettivo ginocchio.

“E per quel che riguarda la tua nuova pargoletta …” aggiunse subito dopo, voltandosi verso Momo, che proprio in quel momento stava osservando con la coda dell’occhio il pirata, tenendo il viso premuto contro il petto tatuato di Marco.

Ci fu un breve istante in cui l’occhietto dorato e incredibilmente lucido di lacrime incontrò quelli scuri e vispi del rosso, prima che quest’ultimo si voltasse nuovamente verso il suo interlocutore.

“… devo farti le mie congratulazioni, vecchio. È proprio un diamante allo stato grezzo.” Ridacchiò per un attimo “E non è facile trovarne di altre come lei per i mari. Anzi, oserei dire quasi impossibile con i tempi che corrono.”

Quelle parole lasciarono Newgate perplesso, tanto che un sopracciglio scattò all’insù, decretando ufficialmente che le parole del suo rivale erano riuscite a scalfire la corazza della sua rabbia, insinuando a lui una certa perplessità mista a curiosità.

E Shanks esultò interiormente come in bambino: che spasso! Vedere il vecchio Bianco pendere dalle sue labbra non aveva prezzo!

Finse un’occhiata stupita, come se avesse compreso solo in quel momento che il capitano della Moby non era a conoscenza della vera identità della giovine da lui stessa nominata figlia.

“Oh? Non dirmi che non lo sapevi!”

“Se non la smette di fare il santarellino … !” sussurrò a denti stretti Marco, prossimo ormai ad esplodere. Poteva darla a bere a tutti, ma non a lui. Sapeva benissimo cosa si nascondeva sotto quella faccia da innocentino e se avesse continuato quella messinscena un solo istante di più, per tutti i 4 mari, giurava, avrebbe-..!

Un tremolio un po’ più forte da parte di Momo lo fece distrarre al momento giusto, rendendolo conscio di star perdendo la solita pacatezza. Sospirò appena strofinando con più convinzione la schiena della ragazza. Non poteva permettersi colpi di testa. Non proprio lui. Doveva pensare che era per il suo bene.

Shanks poggiò una guancia sulla mano destra, facendo perno con il gomito sulla gamba, crogilandosi di soddisfazione alla vista del volto sempre più confuso di Newgate. Sarebbe stata una vera soddisfazione continuare quel giochetto un po’ più a lungo, ma conosceva bene il temperamento del nonnetto e non era dei migliori. Avrebbe fatto meglio quindi a porvi fine seduta stante, a meno che non volesse dare inizio ad una vera e propria guerra in neanche … uhm no, forse lo spazio non era nemmeno così angusto come pensava.

“Andiamo! Hai una Paradisea a bordo!”

“Una cosa?” sbottò automaticamente Ace con sguardo dubbioso, come del resto anche gli altri suoi compagni. Il moro fece incontrare i propri occhi con quelli di Marco, ma non vi trovò niente di diverso da quello che aveva letto negli sguardi di Satch, Vista e Jaws, stupiti tanto quanto lui.

Per poco Ben non esplose in un sospiro liberatorio.

Finalmente! Ci voleva tanto per dire quella maledettissima parola?! Cavoli. Non se ne poteva semplicemente uscire con un “Ehi, Newgate, la ragazza che quel cretino del mio mozzo ha cercato di accoltellare è una Paradisea. Sai cosè? No?! Se vuoi te lo racconto!Tanto non ho nulla da fare al momento!”, NO! Lui doveva fare giri e rigiri di parole assurdi!

Oh! Un altro po’ e avrebbe commesso ammutinamento!

Anche lui aveva capito a grandi linee la vera identità della piccola ed era stato un vero e proprio parto aspettare che quell’idiota patentato del suo capitano vuotasse buona parte del sacco a Newgate.

Santo patrono dei pirati, che stress.

“Moccioso.” Proruppe con calma snervante il Bianco, adocchiando duramente la figura accovacciata del Rosso che smise di ridere immediatamente, intuendo che il tempo delle risate era finito.

“Spiegati.” Fu il comando con tono di avviso che gli venne rivolto.

Si concesse un ultimo sorriso prima di riassumere la sua vecchia espressione seria. Era il momento delle spiegazioni.

“D’accordo, d’accordo.”

Fine Atto Settimo.

Alloraaaa! Rieccomi qui! Contente! È stato abbastanza difficile scrivere questo capitolo. Sob. Avere più personaggi da far interagire contemporaneamente è un lavoraccio! X( Oda sei un genio! Solo dei personaggi profondi e ben caratterizzati possono far sudare in questo modo un’autrice di fan fiction!

Ok, terminato lo sfogo. Passiamo a cose più importanti.

Immagino che vi starete chiedendo: che caspita sono le Paradisee??!! Voglio saperlo!

Calmine lettrici care! Ehehe! Io so cosa sono le Paradisee e non preoccupatevi: il prossimo atto sarà incentrato alla spiegazione della natura della nostra Momo-chan! *_*

 

La prima domanda si incentra più che altro sui flashback, e via con il grassetto!

 

I personaggi citati nei flashback di Momo (Arch e Viola) compariranno o no?

E ancora…

Quanto ci metterà Momo ad imparare decentemente la lingua?

 

Mi raccomando non mi abbandonate! E recensite più che potete che fa bene al cuore sia mio che vostro! §.§

Vi aspetto al prossimo atto! Bye bye!

 

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Sumimasen! Onegaishimasu!Onegai!Onegai! > Perdonatemi! Vi scongiuro! Vi supplico! Vi supplico!

 

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Capitolo 10
*** Atto 8 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 8

Atto 8, scena 1, Arioso di pace

Continuavo a guardare quell’uomo di sottecchi, nonostante sapessi che lui se ne era già accorto prima, studiandolo senza freni in ogni suo minimo particolare, passando dalle sue ciocche rosso incandescente al suo mantello nero più della notte. Era davvero un individuo carismatico, e lo capii da come non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Sentivo come se attorno a lui si sprigionasse un’energia magnetica, simile a quella che avevo sentito poco prima, ma dotata di un timbro diverso.

Dava l’impressione di essere pesante tanto uguale, ma stranamente meno marcato, … quasi fosse trattenuto.

Io intanto non smettevo di tremare, sentendo le mani di Marco e di Ace stringermi rassicuranti intorno alle spalle.

Mi dispiaceva dover essere un tale peso, ma davvero non riuscivo a fare altrimenti: il ricordo di quelle immagini, che mi vedevano vittima della stessa sorte degli altri stipati nella nave di schiavi, erano ancora troppo marcati perché potessi calmarmi.

Le mie mani risposero alle mani dei sue, stringendosi appena, proprio come avevano fatto con me pochi istanti prima, premendo le mie spalle con gentile e rassicurante fermezza. Sentii i loro corpi sciogliersi un poco, facendomi sospirare sollevata. Non potevo sopportare l’idea di farli preoccupare troppo.

Dovevo riprendermi.

Cominciai a cercare di fare qualche respiro profondo, nel tentativo di calmare il sordo tonfo del mio cuore che mi tamburellava nelle orecchie.

Due odori ben distinti penetrarono subito nelle mie narici, solleticandole con delle fragranze saline e spolverate di un odore buono, invadendomi il petto come un potente calmante.

Non so quanto tempo stetti lì, ma qualche istante dopo mi resi conto di aver mollato un poco la presa sulle loro spalle e di aver poggiato l’orecchio sul petto glabro di Marco e la mano sinistra su quello di Ace, ascoltandone affascinata i suoni che vi provenivano, trapassando a stento i lembi di pelle tatuata o meno, e sincronizzandosi  ad un ritmo che solo io riuscii a cogliere.

Quei due battiti musicali mi cullarono per qualche minuto, riportando alla mia mente sensazioni di antico calore e luce, di speranza, quotidianità, di libertà.      

Ningyo no monogatari o ikutsu anata shimasu ka?     

Aprii appena gli occhi – quando gli avevo chiusi?- rivolgendo nuovamente il viso verso l’uomo seduto di fronte al capitano della nave.

Lo avevo sentito parlare anche prima, eppure quella volta percepii qualcosa di diverso. Il suo tono aveva subito un radicale cambiamento, modulando la voce con un suono profondo e meno trillante di prima.

Era come se avesse – anzi – aveva appena finito di scherzare.

Tentai a poco a poco di riemergere dall’invitante torpore nel quale ero piombata.

Accidenti però se era difficile.

 

Atto 8, scena 2

 Marco ce la stava mettendo tutta. Veramente. Non c’era una sola cellula del suo corpo che non fosse tesa nello sforzo di resistere all’impulso di prendere Momo ed andarsene di filato da quella sala.

Le sue mani si mossero da sole, andando a serrarsi ancora un po’ di più su quella parte di corpicino roseo che si era ritrovato a condividere con il fratello, mal celando la loro natura possessiva.

I suoi occhi cerulei, vagarono, corrisposti da uno sguardo altrettanto turbato, verso il volto di Ace.

Il moro si era inizialmente stupito della reazione dell’altro, poi si era lentamente accigliato, capendo in quel preciso istante i pensieri del fratello.

Un sorrisino spavaldo fiorì sul viso fanciullesco di Pugno di fuoco, incitando quello più maturo dell’altro a raccogliere la sua sfida. La Fenice non si fece ovviamente pregare, inarcando le bionde ciglia verso il centro del viso, rimarcando così la sua decisione finale.

Aah… quei due.” sospirò Satch con un sorrisetto sulle labbra, notando come si fossero silenziosamente aperte le loro ostilità. Povero scricciolo, si ritrovò a pensare, stava sulla Moby da nemmeno tre giorni circa e già si ritrovava due teste di legno a contendersi il suo cuoricino.

Strinse gli occhi, dissimulando il formarsi di una piccola gocci di sudore sulla tempia con una mano tra i capelli, facendo finta di lisciarseli all’indietro.

Gli sarebbe presto toccato fare da arbitro.

E lì, mentre un semplice abbraccio si trasformava, sotto gli occhi divertiti e curiosi dei 3 comandanti, in un breve susseguirsi di strette prolungate, atte solo a sottolineare la determinazione di entrambi i contendenti, il Rosso diede apertura alle proprie spiegazioni con una semplice domanda diretta a loro padre, attirando su di sé l’attenzione di mille e più occhi.

“Quante storie conosci sulle Sirene?” aveva chiesto secco, fronteggiando lo sguardo severo e impaziente del gigante. Quest’ultimo si limitò a corrugare la fronte, cercando con ansiosa premura nella propria mente motivo del collegamento tra il popolo delle sirene e la razza citata dal rivale.

Non gli servì rispondere perché l’altro capisse di dover dirigere il discorso senza domandine a trabocchetto. In fondo era la sua ciurma quella ad aver invaso una nave altrui. Meglio andare velocemente al nocciolo della questione.

“Sai, prima che il governo stipulasse quell’inutile ed inefficace legge sull’interruzione della persecuzione degli uomini pesce e le sirene, ce ne erano parecchie.” Cominciò, godendosi per qualche istante il silenzio tombale nel quale regnava solo il suono delle sue parole “Ovviamente queste non avevano molta importanza per i compratori di schiavi. Gli schiavisti partivano, piazzavano qualche ingegnosa trappola in mare ed ecco servito una gamma di merce di ottima qualità, pronta per l’acquario … ” proseguì gesticolando vivacemente con la mano destra, nonostante la sua voce denotasse una piccola increspatura di fastidio in quello che stava raccontando. Il Rosso era famoso per essere un convinto sostenitore del “vivi e lascia vivere” e altrettanto per averlo fatto capire a suon di fendenti di lama.

 Edward Newgate osservava oramai rapito la spiegazione dell’altro, catturandone ogni singolo significato del filo logico di quel discorso, ansioso di vederne la fine.

“Eppure c’era un particolare che nelle testacce dei nobili è sempre rimasto impresso grazie a queste storie.”

Ormai era impossibile togliere gli occhi dalla figura del rosso.

Diavolo, era davvero un narratore nato. Non c’era un singolo pirata su quella nave che non pendesse dalle sue labbra.

Shanks si concesse un sorriso di vittoria. Ah, quanto amava stare al centro dell’attenzione.

“Il Canto.” Concluse, lasciando qualche istante perché tutti quanti assimilassero quello che aveva detto.

“Non è cosa tanto strana associare le Sirene a dei canti melodiosi …” concesse non appena riprese il discorso “ …, ma all’epoca non lo era neppure dare a queste canzoni la capacità mistica di ammaliare la gente, talmente tanto da … ”

Un altro momento di silenzio e la punta dell’unico dito indice fatto combaciare lentamente con la superficie piatta del pavimento.

“… far colare a picco le navi.”

Ci fu un breve momento in cui decine di brusii positivi rumoreggiarono nella stanza, scandendo quella nuova pausa del capitano rosso.

Affondare le navi? In effetti non era cosa nuova sentire una diceria simile, ma era un pettegolezzo sorpassato da tempi immemori. Tutti quanti sapevano che le Sirene cantavano solo per diletto e che non possedevano alcun potere ipnotico.

Ma, ancora, dove voleva andare a parare il Rosso parlando delle Sirene? Non doveva spiegare cosa fossero le Paradisee?

“Immagino che vi suoni un po’ strano sentirmi parlare delle Sirene, … ” aggiunse frettoloso e condiscendente il capitano della Red Force, rassicurando sia il Bianco che i pirati attorno a lui “ …, ma se pazientate un attimo vi sarà tutto più chiaro. ”

Prese un respiro profondo prima di ricominciare. Quella che stava per venire era la parte più tortuosa, ma doveva ammettere di aver fatto un ottimo lavoro con le prime spiegazioni.

“Le Sirene in realtà non hanno mai fatto affondare una nave. La loro sola colpa fu quella di essere state accomunate a loro insaputa ad un altro tipo di creature, amanti della musica tanto quanto loro.”

Gli occhi neri di Newgate fissavano bramosi di sapere quelli marroni del rosso, incitandolo silenziosamente a proseguire il proprio monologo.

“Creature soprannominate all’epoca Sirene degli scogli.”

Molti dei pirati di Barbabianca sperarono che il padre non desse di matto a quell’ennesima sospensione del discorso, ma stranamente il gigante dai baffi a mezzaluna non disse né fece nulla di avventato, lasciando libero il rosso di continuare.

Strano.

Shanks da parte sua sospirò sollevato: si era aspettato una reazione peggiore.

“E su questo argomento preferirei lasciare la parola al mio fidato vice.” Sorrise, indicando con un pollice all’indietro la figura stravaccata di Ben, ormai prossimo a buttare via un’altra cicca.

Beckman spostò rapace gli occhi sottili verso il proprio capitano, nascondendo a meraviglia la sorpresa dalla quale era stato colto sentendosi tirare in causa da quel pazzoide, con il quale si era ritrovato a condividere la stessa nave per anni.

“Avanti Ben, non fare il timido. Le infermerie di Newgate non ti assaliranno, tranquillo.” Lo prese un po’ in giro Shanks, notando la lentezza della reazione del vice, scatenando un paio di risatine tra il reparto infermieristico della Moby e anche tra l’equipaggio.

“Sì Ben, vai tranquillo” “Già, sei troppo stagionato per loro ormai!”

Le braccia di Ben fecero uno sforzo sovrumano per non afferrare quel sacco di patate di Roid e gettarlo addosso ai due suoi compagni che avevano osato parlare alludendo alla sua età. Fortunatamente ebbe abbastanza autocontrollo per dirigere le gambe verso il centro della mensa, dove il suo capitano lo attendeva ancora con un sorriso da schiaffi stampato in faccia.

Prese un sorso di fumo, soffocando così l bisogno di mollare un calcione al suo capitano. Bha, non  era il caso di prendersela così. Avrebbe avuto tutto il tempo di fargliela pagare sulla Red… con gli interessi, ovviamente.

I suoi occhi grigi passarono quasi casualmente sulla figura della ragazzina, analizzandone in pochi istanti l’aspetto, il colore delle sue fiamme, e anche la forma che esse formavano attorno al suo corpo.

Prese un’altra boccata e la rigettò fuori, non curandosi delle occhiatacce provenienti dalla ciurma avversaria.

Non c’erano dubbi.

Posò lo sguardo su un punto indefinito della stanza, aprendo bocca con gli occhi fissi su un pensiero invisibili a tutti.

“È strano a dirsi,… ma le Sirene un tempo erano solitamente rappresentate in due modi…” cominciò allontanando lentamente da sé la sigaretta con una mano, mentre l’altra veniva poggiata sul fianco.“… o come abitanti del mare dotate di una coda di pesce…” portò ancora una volta la sigaretta alle labbra, spostandola nuovamente

“… o come mostri alati, abitanti di un’isola composta da soli scogli, che si tramutavano in splendide donne quando si avvicinavano abbastanza alle imbarcazioni passanti dalle loro parti.”

“Ma non capisco…” intervenne la voce dubbiosa di Ace, su cui venne posta l’attenzione dell’intera nave. Il moro era visibilmente confuso, con le ciglia aggrottate e gli occhi stretti e seri nel tentativo di assemblare l’insieme di informazioni fornite dal rosso e dal suo vice.

“… che cosa centrano le Sirene degli scogli con le Paradisee … e con Momo?”

Di nuovo gli occhi della ciurma del Bianco furono diretti su Shanks, sorridente come una volpe che aveva scaltramente ottenuto quello che voleva.

“Perché le Paradisee sono delle Sirene degli scogli.” Disse il rosso.

Questa volta il brusio che ne derivò fu più forte di quello precedente. Le Paradisee erano delle Sirene? Quindi Momo era una Sirena? Non ci capivano più niente.

“Calmi, calmi.” Fece di nuovo Shanks, tornando per un attimo sorridente e beato, come se al posto di una ciurma di tagliagole ci fosse stata una banda di bambini ansiosi di sapere il finale della storia e cominciano a fare congetture inutili.

 “Ora vi spieghiamo. Dunque, tutte le volte che si parlava di Sirene, all’epoca si finiva sempre a parlare della loro pessima abitudine di annegare intere ciurme di sventurati che passavano accanto alla loro casa. Ma erano stranamente racconti poco dettagliati, almeno nelle storie riguardanti le Sirene per metà pesce. Quelle delle Sirene di scoglio erano invece erano più ricche di particolari, ambientate esclusivamente di notte: si iniziava con l’avvistamento di una serie di fuochi sul mare, accompagnati da una serie di canti dolci e vari, per poi continuare con l’avvistamento di un’isola non appena l’imbarcazione si avvicinava abbastanza …”

A quelle parole per Marco fu quasi automatico collegare alla parola fuochi e canti la ragazza che teneva stretta tra le braccia. Possibile che si stesse parlando proprio di Momo? Lei che così fragile e impaurita si rifugiava appena possibile tra le braccia di qualcuno?

“A volte le storie finivano così: la nave si avvicinava attirata dalla musica e si sfracellava sugli scogli. A volte però non era così semplice e prima dell’inevitabile accadeva qualcosa …”

Dannazione a  quel rosso ed alle sue pause studiate per arricchire la suspense!

“Alla nave si avvicinavano a grande velocità delle figure luminose e alate che si aggrappavano ad ogni parte della nave e cominciavano a cantare… tramutandosi in pochissimo tempo in donne dall’aspetto angelico.”

Un silenzio tombale invase l’enorme stanza della Moby. Nessuno fiatava. Quello di cui gli aveva appena messi a conoscenza il Rosso era troppo strano. Ricco di particolari sì, ma decisamente troppo ambiguo.

Cosa stava cercando di dire? Che la piccola e spaventata Momo non era altro che un mostro in grado di affondare intere navi? Ma non si era congratulato prima? E quel suo uomo che aveva attaccato la piccola era uno dei pochi sopravvissuti?

Moccioso…” la voce di Edward Newgate tornò a risuonare pericolosamente verso il Rosso, mentre l’immensa mole dell’ imperatore Bianco si sporgeva minacciosa verso quest’ultimo, avvertendolo con uno sguardo eloquente di stare attento alle proprie parole.

“Bada a quello che dici.”

Ahaha. Tranquillo. Non avevo intenzione di offendere la tua pargoletta.” Rise in risposta Shanks, evitando magistralmente un ennesimo attacco d’ira del rivale.

“E allora cosa volevi dire, spiegandoci che le Paradisee sono conosciute anche per affondare le navi?” chiese la voce di Marco con una vena di asprezza.

Di tutta risposta il Rosso guardò con un sorriso da furfante  il biondo.

“Scommetto che la piccolina non parla la nostra lingua, neh?”

La Fenice e Pugno di fuoco ci stettero letteralmente di sasso, irrigidendosi di botto. Come faceva a sapere una cosa simile?

“Per loro è naturale parlare come se stessero cantando.” Continuò imperterrito l’altro “È la loro lingua. E il fatto che non abbiano mai avuto modo di entrare in contatto diretto con il nostro mondo, spiega in parte il perché dell’avvicinarsi alle nostre navi.”

“Erano semplicemente curiose.” Intervenne Ben, rimasto sempre al suo fianco.

“Ma perché solo di notte?”

Di nuovo Ace aveva introdotto un nuovo ed utile interrogativo, facendo gonfiare il petto del Rosso di orgoglio nel vedere il proprio discorso andare avanti proprio come previsto.

Insomma…” continuò il moro, strofinandosi il retro del collo con una mano libera, mostrando un poco di imbarazzo per la propria intromissione “… hai appena detto che sono in qualche modo dotate di ali e che sanno volare… com’è possibile che di giorno non provassero ad uscire dall’isola né si manifestassero con canti o…” fece una pausa, adocchiando le innocue spire di fiamme gialle che lo stavano ancora abbracciando.

“… fuochi?”

“Perché la loro isola è un concentrato di pericoli.” Disse questa volta Ben, anticipando il proprio capitano, pronunciando queste ultime parole quasi sovrappensiero, mentre tornava stancamente al proprio posto, ritenendo di aver detto tutto il necessario e che Shanks avrebbe potuto continuare benissimo da solo.

Il Rosso osservò con la coda dell’occhio il suo amico rimettersi sulla sedia da lui precedentemente occupata, tornando subito a parlare.

“L’isola delle Paradisee non è affatto un paradiso come può sembrare ad un primo sguardo.” sentenziò l’imperatore Rosso incupendosi leggermente “A partire da pochi metri dalla costa rocciosa è composta da un solo immenso rilievo montuoso che si innalza verso l’alto per chilometri e chilometri, ricoperto da migliaia e anche più tipi di piante, rigogliose e fitte, impenetrabili per chiunque. Il tutto contornato dalla adorabile presenza di altrettante specie carnivore pronte a fare delle Paradisee il loro pranzetto.”

“Per questo sono costrette ad uscire solo di notte.” Affermò Barbianca, ricevendo un segno di assenso dall’altro.

“Senza contare il fatto che sono nel bel mezzo di una fascia di Bonaccia.”

A quella frase nemmeno Satch e Vista poterono evitare di spalancare la bocca per lo stupore.

Una fascia di Bonaccia?! Tutti quanti improvvisamente venne in mente l’apparizione inaspettata di quell’enorme Re dei Mari al di fuori del proprio territorio e di come avesse tentato di mangiare in un solo boccone la loro piccola sorellina.

Un Re dei Mari… l’aveva seguita solo per papparsela?

Shanks rise, interpretando perfettamente le loro espressioni, poggiando il viso su una mano.

“Sembra che abbiate già avuto un piccolo spiacevole incontro in proposito.”

“Più che spiacevole! Quel lucertolone ha cercato di ribaltare la Moby!” annuì vigorosamente Ace, allargando le braccia per rendere l’idea di quanto fosse immenso quel bestione che aveva cercato di divorare sia lui che Momo.

“Eh già…” ridacchiò il Rosso “I Re dei Mari sono molto bravi a captare la presenza delle Paradisee. Il loro canto si sente a miglia e miglia di distanza passando attraverso l’acqua, e il calore dei loro corpi quando sono in quello stato…  disse accennando al corpo in fiamme di Momo “… è inconfondibile.”

Marco osservò un attimo le lingue dorate di Momo, ragionandovi un po’ su. Prima di attaccare Momo, il lucertolone aveva mirato a lui.

Che fosse stato a causa della sua forma di Fenice?

“Capite ora? Se quella bambina ...” riprese Shanks  sempre riferendosi alla naufraga “… osasse aprire bocca di giorno, la vostra nave sarebbe assalita da un branco di Re dei Mari pronti a contendersela, quindi l’unico momento in cui può parlare è la notte. Esattamente quando i Re dei Mari vanno a nanna.”

“Alla fine quindi le leggende che vedono come protagoniste le Paradisee sono pressoché invenzioni dettate dalla paura.” Disse infine Edward Newgate.

“Esattamente.” Annuì vigorosamente Shanks, felice di aver dato sfoggio della propria conoscenza a quel burbero del rivale. “Alcuni dicono che le Paradisee, avvicinandosi alle navi, cercassero di avvertire i marinai del pericolo, ma senza conoscere la lingua non si può dirlo con certezza…

“E tu come fai a sapere tutte queste cose?”

La domanda del primo comandante marcò nell’aria un momento di silenzio imbarazzato, scandito poi dalla risata nervosa del Rosso, mentre si strofinava la nuca imbarazzato.

Bhe…”borbottò tornando poi ad ostentare la sua tipica espressione gioviale“… diciamo che una mia vecchia conoscenza ha avuto modo di conoscerle a fondo.”

Molti nella sala si sarebbero guardati l’un l’altro, storditi da quella vaga risposta, ma il rosso, prontamente alzatosi da terra ed afferrato un boccale su uno dei tanti tavoli ancora mezzi imbanditi, gli batté sul tempo, indossando la migliore delle sue faccetoste ed alzando con scherzoso fare reverenziale il bicchiere verso l’imperatore Bianco, anche lui preso alla sprovvista da quella mossa inaspettata.

“Ma basta parlare! Propongo un bel brindisi in onore della vostra nuova pulcina!”

Un boato scosse da poppa a prua la nave, mentre centinaia di birre venivano scontrate l’una contro l’altra e versate a grandi gocce sul pavimento della Moby. Ben alzò gli occhi al cielo sorridendo insieme agli altri della Red Force.

Non si smentiva mai, quell’ubriacone.

 

Atto 8, scena 3, “Polacca”

Sulle rocce sconquassate dal vento del golfo di Copper Sulfate, Arch osservava inflessibile il sole scomparire oltre l’orizzonte, sondando attraverso le ultime calde luci del giorno ogni minimo accenno di giallo, sperando di poterne riconoscere in qualche modo la figura dell’amica.

Restò lì anche quando del sole non rimase che una lieve linea dorata, subito sostituita da un alone violaceo sfumato di blu. Poi si lasciò cadere stancamente sulle rocce, con le mani a sostenerlo da dietro, graffiandosi tra gli spuntoni levigati dal vento e dall’acqua di quel posto.

I suoi occhi cobalto di solito freddi ed inespressivi, si strinsero, tremando di impazienza e le sue dita si afferrarono più saldamente su quegli scogli, ferendosi ancor più del dovuto.

Non tornava.

Perché non tornava?

Ancora qui a piangerti addosso?

La voce impregnata di sufficienza della sua compagna di viaggio lo aiutò a recuperare un poco della dignità perduta, facendolo voltare per rispondere con altrettanta grinta a quegli occhi color nocciola che lo fissavano con alterigia.

Dietro di lui Viola si teneva in equilibrio tra gli spuntoni di roccia, senza mostrare alcun tipo di fastidio nonostante fosse a piedi nudi, rimanendo a braccia conserte davanti il petto fasciato da un corpetto nero e con un coprispalle bianco a maniche lunghe ormai sgualcito che svolazzava al vento della sera insieme ai suoi lunghi capelli argentati ed ondulati. Il solo pareo di tessuto ruvido marrone copriva ben poco delle sue gambe, lasciando poco all’immaginazione, ma nascondendo abbastanza per non cadere nel volgare.

Sei patetico.

“Tu non sembri fare diversamente.”

Arch non si stupì di vedere una pietra ammantata di fuoco rosso puntare a grande velocità al suo viso e fu solo per questo che riuscì a scansarlo, dando prova dell’unico pregio cui Madre Natura l’aveva dotato: i riflessi.

Il volto ovale e delicato di Viola era oramai contratto in un smorfia tipica di chi, se potesse, afferrerebbe una cosa ben più pesante di quella appena lanciata e tentare il medesimo attacco.

Non paragonarmi a te, maschio di ultima categoria.” Sibilò la ragazza con tono di avvertimento.

Il biondo si rialzò, togliendosi dalle mani e dai vestiti un poco di sabbia e di grumi di sangue rimasti attaccati, rispondendo con voce atona alle frasi dell’altra, come al solito.

“È inutile che parli la nostra lingua madre. Sai che capisco anche quella.”

Lo so idiota! Ma sai che non sono ancora pratica di questa schifosissima lingua!” disse voltandosi da una parte con le spalle rigide, nascondendo così il rossore che le aveva colorato le guance.

“Ti conviene farci più pratica invece, Viola.” Disse con tono di comando, guadagnandosi un altro attentato al proprio viso, stavolta con una pietra più grande, per poi uscirsene di punto in bianco con una domanda che lasciò la ragazza un poco interdetta.

“Dov’è Morgan?” chiese il biondo facendo saettare gli occhi cobalto negli immediati dintorni, quasi aspettando di veder comparire da dietro le rocce la testolina corvina del bambino da loro tratto in salvo.

Ottenne dalla ragazza argentata uno sbuffo stizzito e un’aria di sufficienza.

Gli ho fatto capire di trovarsi una giusta sistemazione che non includesse noi.

Cos’hai fatto?!

Era raro che Arch parlasse la loro lingua, non essendoci quasi più abituato, ma lo era altrettanto che alzasse la voce in quel modo. E Viola non poté fare a meno di sentire di aver fatto qualcosa di totalmente sbagliato, vedendosi inchiodare in quel modo dagli occhi sottili del biondo.

Non si accorse nemmeno che Arch l’aveva afferrata per il coprispalle sollevandola di pochi millimetri da terra con fare minaccioso.

Ce l’ha affidato per tenerlo al sicuro! NON PER MOLLARLO COME UN PACCO INDESIDERATO!

La voce del biondo perforò i timpani dell’altra, lasciandola ancora per qualche istante in stato confusionale, finché la grinta non riprese il proprio posto, facendola reagire.

Io non voglio condividere il viaggio con quell’insulso esserino!

È così che ti prendi cura di qualcosa che ti ha affidato Allegra??!!

Quelle ultime parole, soffiate con disprezzo, ebbero il potere di far salire al petto della ragazza una sensazione di tradimento, come uno spuntone conficcato dritto al cuore, causando la fuoriuscita di altrettanto sprezzo e risentimento verso chi stava o avrebbe giudicato il suo gesto avventato.

Con un braccio allontanò di colpo la mano del biondo dai suoi abiti, liberandosi e indietreggiando di un passo per scrutarlo malamente in viso. Tutto il corpo di Viola era teso, quasi chino in avanti, pronto per scattare da una parte e parare un altro assalto dell’altro. Le sopracciglia chiare erano corrugate, ombrando gli occhi scuri più di quanto le sue ciglia lunghe ed argentate già non facessero. Le labbra, strette dalla lenta tortura dei denti che prevenivano l’uscita di una nuova serie di insulti, erano già più rosse del sangue, nonostante non avesse usato alcun tipo di rossetto per dipingersele.

Le bastava arrabbiarsi per cadere in quello stato prossimo all’esplosione della sua vera indole, e Arch lo sapeva!

Per questo si sforzò di far uscire piano ogni parola, ponderando su ogni sillaba, pur di evitare di combinare la stessa cosa accaduta nell’ultima località dove erano capitati. Odiava Arch, lo disprezzava a priori, qualsiasi cosa facesse, dicesse, o addirittura pensasse, finiva sempre per urtarle i nervi, sfidando il suo già fiacco autocontrollo.

Allegra … è sempre stata troppo buona con questi mostriciattoli…” sibilò, sfidando con gli occhi il suo indesiderato compagno di viaggio ad interromperla “Dice di rispettarli … di cercare di capirli…” disse cominciando a parlare più a se stessa che al biondo “.. , ma dimmi Arch

Arch, sentendo il suo nome venire pronunciato in quel modo dalle labbra di Viola, ebbe un fremito lungo la schiena che gli comunicò quanto fosse palesemente importante allontanarsi di qualche passo dalla ragazza.

A meno che essere abbrustolito fino all’osso non rientrasse nelle sue immediate aspirazioni.

… come si fa a capire queste creature dopo quello che ci hanno fatto?

Ecco che partiva lo sfogo e con esso una vena di ironia a condire la voce dell’altra.

Oh, vero. Tu non hai motivo di odiarli. Tu odiavi noi. Non è vero,  schifoso sangue misto … ?!

E questa volta fu il turno di Arch di sentirsi colpito. Non gli era mai piaciuto essere definito in quel modo, ma non poteva nemmeno negare di aver disprezzato la compagnia di quel popolo che aveva emarginato sia lui che la sua povera madre.

Strinse gli occhi, combattendo per non abbassarli, poiché avrebbe sancito la vittoria di Viola, rievocando quanto più velocemente il vero motivo che l’aveva spinto ad intraprendere quel viaggio insieme all’amica ed a quella snob di Viola.

Bene, tu potrai anche crogiolarti nel tua quieta esistenza piena di gratitudine nei loro confronti…

Serrò i pugni, dandosi forza: no, non era affatto vero, lui non aveva mai odiato il popolo della sua isola natia. Forse aveva odiato il modo in cui l’avevano trattato, ma tutto il suo disprezzo era rivolto verso quel mostro che avevano colpito prima sua madre, lasciandola incinta e abbandonandola poco dopo, poi il resto dell’isola, indirizzando i suoi simili verso la loro casa, trasformando il loro paradiso in un caos fatto di sangue e urla disumane.

Ragionandovi bene, lui sarebbe dovuto essere il primo a desiderare la distruzione del popolo che aveva seminato tanti mali nella sua vita, ma era riuscito comunque ad incentrare il proprio odio su un singolo individuo, non tutti.

E in fondo era questo che lo distingueva da Viola: lui sapeva porsi dei limiti, lei no.

Nel mentre di queste sue riflessioni, la ragazza era infine esplosa, fortunatamente non con la sua solita forza dirompente, in un grido rabbioso.

 Ma io non ho intenzione provare pietà per una razza che non ne ha avuta per noi!!!

Un silenzio, frazionato da un sottile soffio di vento marino, scandì una piccola e pesante pausa tra i due. Nessuno di loro pareva voler né rispondere né riprendere il discorso e questo non faceva che rendere più difficile lo sbrogliarsi da quella situazione.

Fu un piccolo mugolio conciato ed incerto a sbloccare la scena, attirando l’attenzione dei due verso il lato destro di Arch. Bastò la vista del nuovo giunto per far storcere il naso a Viola, mentre volgeva lo sguardo altrove per non guardare quel piccolo mostriciattolo di cui, a quanto pareva, non era riuscita a liberarsi.

Vicino a loro Morgan, un bambino di circa 6-7 anni dagli occhi e dai capelli neri come il carbone, li guardava timoroso, torcendo le mani attorno l’orlo di una maglietta trafugata poche ore prima dal bucato di una casa estranea, aspettando forse di trovare il coraggio per mettere insieme una frase coerente.

Di fronte alla vista di quel bambinetto dai grandi occhioni, ad Arch sarebbe anche potuto salire un sorriso alle labbra, se soltanto non avesse avuto così poca pratica con quel tipo di espressione. Quel bambino, ancora sporco a causa del loro essere senza tetto ed acqua, dai tratti delicati tipici del mare orientale, gli ricordava in un certo senso Allegra prima della loro fuga da Nido Leila, la loro isola.

Sempre insicuro. Balbettante e poco propenso a spiccicare più di due parole di fila quando attorno a lui c’erano troppe persone.

Forse quel suo esitare continuamente, che faceva andare in bestia di non poco Viola, era da attribuire alla brutta esperienza di cui era stata vittima prima che l’amica lo traesse in salvo, ma in fondo a lui non importava granché.

A lui interessava che dimostrasse di saper parlare. Non il modo in cui lo facesse.

E tu che ci fai ancora qui?

Ovviamente Viola però non era dotata della sua stessa opinione.

La reazione fu immediata e Morgan cominciò a guardarsi i piedi balbettando disperato, cercando inutilmente di comporre una frase decente.

“L-L-a v-v-vo-ost-t-t-tra a-amica?” il balbettio che ne uscì fu più comprensibile alle orecchie di Arch che a quelle di Viola, non tanto abituata alla lingua del bambino.

ARGH! Parla piano!!!” sbottò la ragazza facendo sobbalzare per lo spavento il bambino e meritandosi un’occhiataccia da parte del biondo. Oh, bhè. Arch poteva definirsi sempre accigliato, ma a forza di stare con lui Viola aveva cominciato a distinguere le varie sfumature del suo sguardo inespressivo, arrivando a coglierne gli stati d’animo, studiando nient’altro che le impercettibili contrazioni dei muscoli facciali.

“Non è ancora tornata.” Rispose il biondo, riuscendo a far calmare Morgan con il suo atteggiamento freddo e distaccato.

E-e n-non l-la a-andate a… a c-c-c-cer-c-care?” riprovò il piccolo cercando di rialzare lo sguardo, ma ancora una volta la voce aggressiva di Viola gli perforò le orecchie, facendolo andare ancora una volta nel panico.

Partiremmo anche subito, se per salvare il culo a te, e a questo imbecille, non avessimo perso la nostra barca!!!”

Arch si limitò a guardare da una parte, non volendo ammettere di avere parte della colpa: era stato lui ad aver attaccato gli schiavisti durante un colpo di testa, ma non aveva avuto scelta visto che, quei bastardi, riconosciuta la loro piccola imbarcazione, avevano quasi dato fuoco all’albero maestro con una torcia accesa sul momento. La nave si era salvata, almeno fisicamente, ma uno di quei manigoldi era riuscito a tagliare la corda con la quale l’avevano assicurata al molo ed a spingerla alla deriva.

Dire che Viola, venuta a sapere dell’accaduto era stata sul punto di dare di matto, era una minimizzazione assoluta. 

La piccola mano di Morgan ondeggiò in alto a palmo aperto, agitandosi ansiosa di farsi notare dai due ragazzi che, immediatamente, lo osservarono stupiti da quel raro slancio di sicurezza.

E-ecco…” sussurrò lentamente con il viso rosso di vergogna per il suo gesto, aveva alzato la mano d’istinto, felice di aver sentito la risposta di quella strana ragazza che urlava quasi sempre, ma nel sentirsi nel bel mezzo della loro attenzione si era sentito il coraggio venire meno ancora una volta.

Deglutì forte, facendosi coraggio e stringendo i pugni all’altezza del petto. Non doveva balbettare. Non doveva balbettare.

C-credo di averla recuperata.”

 

Atto 8, scena 4

Avevano finito col mangiare i rimasugli della sala da pranzo con la ciurma del Rosso.

Due ciurme di pirati nemiche tra loro che si ubriacavano e si offendevano scherzosamente come degli amici di vecchia data. Non poteva crederci. Marco era completamento perso nel torpore della propria incredulità, accorgendosi a stento di star ancora tenendo tra le braccia Momo.

Quest’ultima si era finalmente ripresa, alzando completamente la testa, facendo mostra del suo visino confuso ed ancora impaurito, mentre osservava il gran casino che si era formato in mensa con l’arrivo di quella ciurma di esaltati della ciurma del Rosso. A quanto pareva le risate dei bucanieri e la tensione alleggeritasi nella stanza era servita a infonderle più sicurezza.

Inutile dire che Ace, alla vista di lei, si era subito premurato di sorriderle, azzardando qualche semplice frase rassicurante.

“Tutto bene, Momo-chan?”

L’altra, ancora accesa come una torcia umana, aveva sbattuto le lunghe ciglia, guardando fissa il volto lentigginoso del moro con i propri occhi luminosi, per poi annuire sommessamente ed aprire finalmente bocca.

S-sì, Ace-san, sto bene.” Sussurrò con voce flebile, arrossendo ed abbassando di poco lo sguardo per vergogna sia della sua stessa pessima pronuncia, sia della posizione in cui si era resa conto di trovarsi. “Grazie.” Concluse poi allentando di poco la presa delle sue piccole mani sulle spalle di entrambi i ragazzi.

Intanto Ace si era voltato verso Marco, sorridendo stupito da quella piccola novità.

“Ehi, ma ha fatto passi da gigante!” esclamò contento in direzione del biondo. Quest’ultimo non rispose subito, perso ancora nelle sue riflessioni riguardanti le ultime scoperte che riguardavano da vicino Momo e le ultime disavventure della Moby.

Gli occhi cerulei della Fenice vagarono sugli arti sottili e fittamente coperti da lingue infuocate della ragazza, studiandone ogni minimo dettaglio, valutando in poco tempo ogni potenziale minaccia, seppur minima, che si sarebbe potuta celare sotto quella figura esile e minuta.

Una creatura nemica naturale dei Re dei Mari.

“Ehi! Mi ascolti?”

Avrebbe dovuto sentirsi in qualche modo turbato da quella scoperta, ma…

La linea della spalla, che salendo elegantemente fino al viso tracciava la linea delicata del collo, prese spazio nella sua mente, stregandolo con la stessa intensità di poche ore prima, quando la sensazione di indicibile attrazione verso le labbra di quella ragazza piena di interrogativi era stata rotta dall’apparizione del Rosso.

La mano aperta di Ace, sventolante a pochi centimetri dal suo viso, lo riscosse, portandolo nuovamente alla realtà ed al discorso al quale non aveva ancora risposto.

“Finalmente!” sospirò Ace un poco offeso da quella mancanza di attenzione da parte dell’altro per poi accennare ad un sorrisetto malizioso “Di un po’, che stavi guardando, eh?” chiese allusivo, facendo sbuffare un po’ contrariato Marco.

“Nulla che ti riguardi.”

Una freccia puntellò la schiena del moro, colpendolo nell’orgoglio. Eh, no. Quella era proprio una dichiarazione di guerra aperta.

“Nervosetti, eh?” rispose facendo buon viso a cattivo gioco Pugno di Fuoco, aggiustandosi con fare nervoso il cappello sulla testa abbassando poi di poco la voce, quel tanto che bastava perché gli altri non lo sentissero“A quanto pare la crisi di astinenza non è solo affar mio…

“Quindi lo ammetti.”

Stavolta la frecciatina fu più dolorosa della precedente.

Un ringhio gli salì spontaneo alla gola.

 Al diavolo, ingaggiare una battaglia verbale con Marco era persa fin dal principio. Almeno se il contendente era lui, ovviamente.

Non avrebbe mai potuto concorrere con il biondo nella capacità di destreggiarsi con le parole: lui era per definizione un tipo d’azione, una testa calda di prima categoria, pronto a buttarsi a capofitto contro un Re dei Mari affamato a fauci spalancate, piuttosto che fermarsi a pensare alle possibili conseguenze .  No, proseguire lo scontro a suon di battute che aveva appena ingaggiato con il primo comandante della Moby non avrebbe decisamente volto la situazione a suo favore.

Cos’è quello?

Entrambi i ragazzi si voltarono all’unisono verso Momo, che con una mano alzata, nonostante fosse avvolta dalle fiamme, e stranamente con una voce priva delle cadenze musicali della sua lingua, stava indicando candidamente Shanks, barcollante e nel pieno di un attacco di risate sguaiate.

Ace si coprì di colpo la bocca con entrambe le mani, cercando di fermare l’improvvisa risata salitagli in gola, ma, come Marco, dovette ben presto arrendersi e lasciarsi cadere a ginocchioni sul pavimento, battendo una mano a terra implorando tregua al proprio stomaco.

Quello! L’aveva chiamato quello!!

Di colpo tutti i propositi di vendetta che Marco aveva nei confronti del Rosso scomparvero come neve al sole.

Oooh, non c’era prezzo per una cosa simile. Far definire l’imperatore Rosso come una cosa priva di definizione propria, anche se da una persona dal vocabolario ristretto come Momo, era una cosa che non aveva precedenti!

Tutti quanti nell’enorme salone si erano fermati a guardare quei due, talmente presi a ridere a crepapelle dal non accorgersi neppure che la ragazza, inizialmente confusa dalle loro risa e poi offesa, si era allontanata da loro, fermandosi con aria decisa, e le guance leggermente gonfie di disappunto, dinanzi al capitano della Red Force.

Shanks rimase basito con, forse, il quinto boccale di sake sospeso a mezz’aria, seguito poi dal resto della sua combriccola.

“Oh..” disse il capitano, aprendo la propria espressione sorpresa in un largo sorriso colorato sulle guance di un poco di rosso dovuto al lieve torpore dell’alcol “Che cosa succede, signorina?”.

Tu sei?” rispose schiettamente la ragazza, rimanendo in piedi davanti all’uomo con una luce di sicurezza negli occhi, resa quasi tangibile dalla colorazione e dalla sensazione di calore che essi trasmettevano con il loro bagliore, paragonabile allo stesso della lava bollente.

Molti della Moby rimasero ammutoliti, tenendosi pronti ad allontanare la loro sorellina da quel lunatico dell’imperatore Rosso al minimo accenno di pericolo. Era risaputo che Shanks fosse un tipo mansueto quando trattava con gli esponenti del gentil sesso, ma nessuno, a parte la sua ciurma, l’aveva mai visto parlare ad una donna con i fumi dell’alcol ad annebbiargli il cervello.

L’uomo restò un po’ di stucco nel sentire quella creaturina parlare la sua stessa lingua, ma non si scompose più di tanto, mostrando alla ragazza una delle sue solite espressioni vivaci.

“Sono Shanks, signorina. Shanks detto il Rosso. Piacere di conoscerla.” Biscicò molto distintamente, nonostante i bicchieri già trangugiati, abbozzando addirittura un inchino con la testa.

Momo vacillò notevolmente al tono amichevole dell’uomo, ritornando ad essere improvvisamente insicura e cincischiando un poco sul da farsi, guardandosi attorno mentre si tormentava le dita sottili. Forse non si era aspettata una reazione così delicata da un uomo così trasandato o forse, molto più probabilmente,  il fatto di star intrattenendo una vera e propria conversazione con una persona di un’altra lingua l’aveva un po’ colta alla sprovvista, agitandola di conseguenza.

Il Rosso osservò con piacere la reazione della ragazza, lanciando al proprio vice un’occhiata d’intesa che venne pienamente ricambiato.

Una pargoletta davvero interessante, non c’era che dire. Shanks ne aveva sentite di storie sulle Paradisee, sulla loro bellezza unica, sul bagliore delle loro fiamme, ma vederne una così da vicino lo aveva emozionato come un bambino. Era pur sempre un pirata e, per quanto avesse già visto e vissuto sia sulla Rotta Maggiore che oltre la Red Line, nulla l’avrebbe mai annoiato se si trattava di qualcosa a lui sconosciuto. Era stato ed era rimasto un’anima d’avventuriero.

Ben lo sapeva, non c’era via di scampo una volta finito sulla nave del suo capitano.

Il Rosso intanto stava già dando aria ai polmoni, pronto a dar voce ad una serie di domande volte a dar soddisfazione alla sete di conoscenza che lo aveva colto su quella creatura mistica di cui aveva sentito solo parlare sporadiche volte, ma venne prontamente fermato dalle voci arrabbiate degli uomini del Bianco, svegliatisi dal trance in cui l’azione inattesa della ragazza gli aveva gettati.

“Ehi! Chi ti ha dato il permesso di parlare alla nostra sorellina Rosso!” “Hai già combinato abbastanza guai al babbo per oggi!” “Vedi di lasciare stare Momo!”

Un gruppetto di energumeni spalleggiò la ragazza con aria minacciosa e braccia incrociate, confondendola a tal punto da cercare meticolosamente, e con piccoli scatti della testa, un modo per tornare quatta quatta al proprio posto, dal quale si era incautamente allontanata, ma le fiamme le limitavano i movimenti e, circondata in quel modo, non se la sentì proprio di rischiare e optò per rimanere ferma e zitta al proprio posto.

Nel frattempo Shanks si era voltato in direzione del Bianco, sperando forse in un aiutino, ma quello che ne derivò dalla sua muta richiesta di aiuto fu solo un sorriso soddisfatto appena visibile da sotto i grandi baffi bianchi.

La mano di Newgate fece cenno a Marco ed Ace di avvicinarsi e i due ragazzi non si fecero pregare, poiché il loro attacco di ridarella era, grazie al cielo, finito prima del previsto.

“Sì papà?” Chiese Ace nascondendo con meno successo del biondo accanto a lui il divertimento che lo aveva quasi fatto secco poco prima.

“Sembra che vostra sorella starà tutta la notte sveglia …” disse il gigante, ricordando i piccoli dettagli derivanti dalla spiegazione del rivale “Uno di voi le dovrà fare compagnia.”

Marco stava prontamente per offrirsi volontario, ma la sua voce venne sovrastata da quella del fratellino.

“Lo faccio io.” Disse allargando le labbra in un sorriso malandrino che rivolse proprio al biondo, meritandosi quindi un’occhiataccia in piena regola “Tanto per me non è un problema fare le ore piccole.” Continuò lui affrontando sfrontato la faccia accigliata della Fenice, battuta in modo così eclatante. Ace avrebbe saltato di gioia: Marco poteva anche sapere centinaia di modi per farti inciampare nelle tue stesse parole, ma solo lui era in grado di dare scacco matto a qualcuno con un’azione avventata e tempestiva come quella appena compiuta.

La Fenice non sentì nemmeno il babbo che dava il consenso all’altro, mentre ricambiava con una silenziosa promessa di rivincita il sorriso dell’altro. Fu solo quando Ace e Momo scomparvero oltre la porta della sala, per dirigersi verso il ponte principale, che si rese conto di essere osservato dalla maggior parte delle persone nella stanza.

Si guardò attorno, sondando ogni viso presente, sia sorridente che stupito, che gli capitò di ricambiare, senza però capirci granché.

Persino il Rosso se la rideva, ghignando alla stregua del babbo.

Ma insomma, che aveva fatto??!!

Satch gli circondò il collo con un braccio da dietrò, cogliendolo un poco alla sprovvista e facendolo barcollare in avanti.

“Dura da digerire quando ti soffiano la tua bella da sotto il naso, eh?” scherzò allusivo il comandante in quarta, inclinando di poco la testa e mettendo la mano destra sul fianco.

“Cos-?”

Ah… L’amour.” Sospirò quello con un sorriso a trentadue denti chiudendo gli occhi con fare nostalgico, quasi stesse rivangando i bei tempi andati.

A Marco bastò quella frase per capire di essere incappato in una brutta, bruttissima, scomoda ed imbarazzante situazione. Ormai era chiaro a tutta la nave quello che bolliva in pentola. Era bastato un semplice gioco di sguardi tra lui ed Ace per rendere noto, con un’efficacia maggiore di un annuncio urlato con tanto di lumacofono, cosa stesse accadendo tra loro tre.

Un solo pensiero gli affiorava alla mente, mentre veniva strapazzato da Satch e punzecchiato amichevolmente da gli altri suoi fratelli.

Accidenti ad Ace…

 

Atto 8, scena 5

Teach imprecò per l’ennesima volta tra le mura della propria stanza, sentendo la carne viva del braccio tendersi ad ogni giro di garza.

I suoi occhietti spalancati seguivano meticolosamente ogni movimento del tessuto bianco che si stava avvolgendo sulla zona ferita e non appena ebbe finito osservò il proprio lavoro, valutando il risultato di ore e ore di preparativi e di ricerche volte a mantenere più pulita possibile l’ustione di secondo grado che Momo gli aveva provocato.

Non era stupido: sapeva quanto fosse importante tenere pulita una ferita ed utilizzare bende pulite per evitare complicazioni inutili quali un’infezione. Se soltanto fosse potuto andare in infermeria a farsi fasciare da Betty o Penelope avrebbe speso meno tempo.

Da sotto gli strati della sua fasciatura, mentre rigirava il braccio incredibilmente ossuto per osservarne il bendaggio, poté cogliere il sottile e doloroso movimento degli strati della propria pelle raggrinzita, obiettare brutalmente, facendogli salire inevitabilmente il sangue al cervello.

Gli venne spontaneo sfondare con un movimento brusco dell’altra mano, stretta a pugno, il comodino accanto al proprio letto.

Riprese fiato guardando fisso un punto imprecisato della camera, senza curarsi del sudore che a goccioloni gli percorreva il volto sudicio e leggermente puntellato di barbetta sul mento.

La gola arsa e stretta dalla rabbia gli impedì fortunatamente di dar voce alla propria frustrazione con un ringhio mastodontico.

Dannata mocciosa! Da dove diavolo era saltata fuori quella capacità?

Era andato tutto a puttane! Ora avrebbe dovuto aspettare un’altra occasione per metterci le mani!

Con tutta la forza di cui era capace, infierì ulteriormente sui resti del mobile distrutto, calpestandolo senza pietà. Schegge innocue e sottili gli punzecchiarono il viso, attaccandosi alla pelle sudaticcia del collo e del mento.

Fu allora che lo rivide.

Un libricino nero. Simile a quello rosso su cui aveva annotato l’essenziale sulle Paradisee, ma ben più vecchio ed imbottito da annotazioni e fogli volanti rispetto al precedente. E se ne ricordò.

Oh, davvero. Che stupido. Non si era nemmeno ricordato di quegli appunti. Il suo solito sorriso si fece stra da tra le sue gote sudaticce mentre raccoglieva con calma quasi reverenziale quel piccolo taccuino.

Si buttò pesantemente sul letto e cominciò a sfogliarlo avidamente.

Annotazioni, su storie, voci, persino disegni illustrativi che ritraeva quelle splendide creature nel pieno della loro attività notturna.

Cominciò a ridacchiare a tono basso.

Gli sarebbe bastato studiare a fondo quel suo piccolo tesoro per restituire con gli interessi il regalino che quella signorina gli aveva lasciato sul braccio.

Nah. Non era così tragico.

In fondo di notti ce ne erano parecchie.

  

Fine Atto Ottavo.

Rieccomi quaaa!! ^O^

Salve sono tornata e riemergo dal mio stato di apparente inattività!

Ooooh! *_* cosa vedono i miei occhi!? Delle new entry tra le mie adepte! *____*

Mwahahaha!

Sì, lo ammetto io voglio farvi odiare sia quel biiip di Teach che quel biiiip biiip biiiiiiiiiiiiiiip di Akainu, e non me ne pento! Sono dei bastardi! Uno è un voltafaccia di prima categoria e il secondo è un guerrafondaio fanatico!! Le categorie che più di tutte odio!!! X((

Benissimo, ora passiamo alle tanto sospirate, o almeno spero, domande:

1)      Chi di voi vuole una scena con atmosfera romantica tra Ace e Momo?

E qui, Signore e Signori (?) si riaprino i battenti per i suggerimenti liberi!

Ah-a! Speravate in domande specifiche! E invece no! ^^ Sbizzarritevi! Ditemi cosa vorreste accadesse a questo punto e io mi impegnerò! XO

Ovviamente sono ben accetti anche suggerimenti specifici, cosa volete che accada tra Ace e Momo, cosa volete che non accada, ma tranquille, non limitatevi a questa scena di cui ho fatto anticipazione! Potete anche divagare su altre cose! ^_^

Ed ora popolo… votate!

Ah! E un’ultima cosa!!!!

In questo atto vorrei segnalare la presenza di colonne sonore. Sono certa che in molte avrete notato quel “Polacca” accanto l’intestazione della scena 3.

Spiegazione:

 la Polacca (o Polonaise)per chi non se ne intende molto di musica a certi livelli (tranquilli io ho dovuto fare i salti mortali!), è un tipo di composizione musicale che fa spesso da incipit per via del suo andamento vivace e vario  ed è eseguito in molti casi su pianoforte (gli esempi più eclatanti sono le polonaise di Chopin). La polacca a cui però io mi riferisco è una composizione di Niccolò Paganini trovata per puro  gladeus maximus, su youtube, eseguito da un gruppo chiamato “Gli Interpreti Veneziani” con degli archi, per la precisione quattro violini un violoncello ed un contrabbasso. La composizione e le emozioni trasmesse mi erano piaciute così tanto da ispirarmi la scena 3 dell’atto. *___*

inserisco anche il link per il video nel caso vogliate vederlo

D. Amadio e gli Interpeti Veneziani - Paganini "Polacca"

 

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Ningyo no monogatari o ikutsu anata shimasu ka?> Quante storie conosci sulle Sirene?

                                  Ita  >  Jap

Cos’è quello? > Are wa nani?

Che cosa succede, signorina? > Nani ga okoru ka, misu?

Tu sei? > Anata wa?

Sono Shanks, signorina. Shanks detto il Rosso. Piacere di conoscerla. > Ore wa Shanks, misu. ShanksAkagamidesu. Hajimemashite.

 

 

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Capitolo 11
*** Atto 9 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 9

Atto 9, scena 1, Aria dei due fuochi

Eravamo risaliti dalla sottocoperta, ma, a causa del cuore che a mille mi batteva in petto, non mi ero nemmeno resa conto di essere stata condotta fuori dalla sala grande da Ace.

Ancora non riuscivo a crederci.

 Faceva uno strano effetto parlare e capire il significato di un’altra lingua. Quando quello strano uomo dai capelli rossi mi aveva parlato, presentandosi con naturalezza alla mia schietta , e forse un po’ rude, domanda,  mi ero sentita sopraffare dall’emozione. Era stato come se paura, eccitazione e confusione si fossero fusi insieme nello stesso momento, impedendomi di continuare quello che avevo cominciato.

Ed era stato meraviglioso.

Di colpo mi parve di vedere quegli ostacoli insormontabili, che mi avevano fatta piangere e disperare pochi giorni prima, frantumarsi come tanti castelli di sabbia smossi da un vento lento e placido.

Sentivo di potercela fare, di poter fare qualsiasi cosa.

Eravamo appena usciti sotto il cielo notturno quando una mano mi scompigliò dolcemente i capelli, facendomi sussultare sul posto ed irrigidire, ma solo per poi rilassarmi alla vista del sorriso sghembo di Ace.

Le fiamme si erano gradualmente ritirate dal mio corpo, arrivando a ricoprire, fortunatamente, soltanto braccia e capelli. Era stato un bene uscire all’aria aperta. Essere attorniata da troppe persone, e troppo legno, rimanendo in quelle condizioni, non avrebbe certo contribuito a rilassarmi.

E poi Ace, da quel che mi ricordavo, era in qualche modo immune al fuoco, no? Fu per questo che non sentii di dovermi arrabbiare per quel piccolo contatto.

Non ce ne sarebbe stato motivo, dopotutto. Gli sorrisi contenta ed un poco scherzosa, poggiando le mie mani sulla sua sulla mia testa, trattenendola e lo vidi cambiare espressione, sbigottito.

Poverino, mi ritrovai a pensare,accorgendomi solo in quel momento di non avergli mai mostrato molta simpatia in quei pochi giorni trascorsi in sua compagnia.

Certo però che lo scherzo della lavanderia…

No, meglio non pensarci.

Mi limitai a rispondere sorridendo ancora di più, crogiolandomi nel tepore che quella mano, a contatto con la mia testa, provocava. Non era la prima volta che mi capitava, ma in quel momento la percepivo come una cosa più famigliare. Quella mano grande che mi ricopriva a palmo aperto tutta la nuca non era più qualcosa da allontanare e di fastidioso.

La mano infuocata di Ace che artigliava disperatamente il legno della nave inclinata per reggere sia il mio che il suo peso mi saltò alla mente.

Chiusi gli occhi. In quel momento capii perché quella vista mi aveva provocato sollievo.

In qualche modo io, lui e anche Marco, eravamo simili, più di quanto mi aspettassi.

Mi venne da piangere, ma riuscii a soffocare il tutto in due singhiozzi sommessi. Non volevo che Ace mi vedesse in quello stato. Non potevo mica piangere per tutto!

Aprii gli occhi, ma, come previsto, i miei singulti non erano passati inosservati e il moro mi osservava preoccupato e confuso, quasi credesse di aver fatto qualcosa di sbagliato. La sua mano scivolò via dalla mia testa, sempre tenuta dalle mie più piccole ed illuminate di giallo.

Oh no. Che dovevo fare? No. Non potevo farlo sentire in colpa per una cosa tanto assurda. Dovevo fargli capire che non ero triste.

Scossi furiosamente la testa per fargli capire che si sbagliava e mi spremetti le meningi: com’era quel modo di dire che mi aveva insegnato Marco?…Cavoli! Non me lo ricordavo!

Watashi wa…” sussurrai cercando di prendere tempo, stringendo di poco la sua mano, e di colpo mi venne in mente.

…ureshii!” dissi di colpo, forse con troppo slancio.

Ace sbarrò gli occhi non sapendo che cosa dire e io abbassai la testa arrossendo di botto.

Watashi wa… ureshii...” ripetei piano, mentre mi davo mentalmente tanti colpi in testa. Le solite figure del cavolo!  Non ebbi molto tempo per insultarmi comunque, perché di nuovo una mano, non quella che tenevo tra le mie, mi si poggiò sulla testa.

Sospresa alzai gli occhi. Ace mi sorrideva rassicurante, tenendo la propria mano libera esattamente dove prima si trovava l’altra. Lo vidi sciogliere quell’espressione in uno dei suoi soliti ghigni, quelli che avevo cominciato pian piano a conoscere e, in quel momento, ad apprezzare.

Watashi mo, chibi-chan.”

Una sola cosa mi saltò all’orecchio: cosa voleva dire chibi-chan?

 

Atto 9, scena 2, Notturno

Quei capelli sembravano seta. Ace sapeva di stare esagerando con la fantasia, ma non poteva farne a meno.

Erano veramente morbidi nonostante, ricoperti dal fuoco dalle radici alle punte, sprigionassero un calore molto simile a quello delle sue fiamme. Era incredibile poterne percepire la consistenza in quella maniera. Prima di allora aveva avuto modo di poggiarle le mani sulla testa, approfittando di qualche suo slancio scherzoso per strapazzarla un po’, ma non si era mai soffermato su quel piccolo particolare.

Le punte di quei capelli, mischiati a quelle del fuoco, zampillavano furiosamente tra le sue dita, dibattendosi come nel tentativo di liberarsi, mossi dagli invisibili movimenti che la brezza marina provocava attorno alla Moby Dick in pieno movimento. Gli venne spontaneo sorridere soddisfatto, a quella vista unica. Shanks e Ben Beckman non avevano esagerato descrivendo le Paradisee come donne dall’aspetto angelico. Gli sembrava strano accumunare quella strana parola alla ragazza di fronte a lui, eppure non poteva non ammettere che la descrizione dell’imperatore rosso le calzava a pennello.

Chissà com’era fatta la sua isola?

Dai pochi particolari che il Rosso gli aveva dato, non sembrava essere il luogo più tranquillo del mondo dove vivere.

Gli occhi soffusi da un calore uguale a quello dei capelli che stava accarezzando si alzarono curiosi su di lui.

La gola divenne improvvisamente arida, sottolineandogli quanto fosse nervoso in realtà. A pensarci bene aveva compiuto la scelta di fare compagnia a Momo troppo alla leggera.

Erano settimane che non aveva a che fare con una ragazza. Settimane. Non certo pochi giorni. Come gli era saltato in mente di gettarsi a capofitto in quella situazione? Sperava ardentemente di riuscire a freddare i suoi bassi istinti, anche perché non avrebbe fatto i conti solo con Marco se avesse azzardato qualcosa.

Già i suoi compagni avevano dimostrato quanto potessero diventare protettivi e non aveva intenzione di dover fare ammenda per un piccolo momento di debolezza. Un brivido gli percorse dietro la schiena, stilando una rapida classifica dei modi peggiori con la quale il babbo avrebbe potuto punirlo.

In primo luogo con il digiuno. Eh già, quello era senz’altro uno dei modi più efficaci per fargli implorare perdono con un minimo di carne per contorno. Al secondo posto c’erano le strigliate di Betty. Oh, quelle, quelle non le batteva nessuno. Sarebbe stata peggio di un gabbiano gigante inferocito se solo avesse alzato un dito su Momo.

 A volte si chiedeva perché il babbo se le scegliesse così autoritarie, mmmh … avrebbe indagato.

Al terzo posto invece c’era poco da dire: Marco, Jaws, Vista e Satch. I suoi adorati fratelli non erano certo da meno in quanto persecutori, anche se Betty li batteva in quanto potenza vocale. Sapeva bene quanto i suoi compagni potessero diventare maneschi,… nulla di grave, ma vedersi rimproverare e pestare nello stesso tempo dai suoi fratelli non era uno dei suoi sogni nel cassetto.

Poi Jaws era fatto di diamante… eh.

Staccò malvolentieri la mano dalla testa della ragazza, calcandosi nervosamente il cappello sul viso.

No, decisamente avrebbe fatto meglio a controllarsi.

Ace-san?” gli chiese la Paradisea sbattendo un poco le palpebre, guardandolo dal basso incuriosita.

Si morse l’interno della bocca. Dannazione, ma perché era così maledettamente dolce?

Ci mise un po’ a sorridere come prima, ma alla fine ritrovò la forza di mettere da parte una frase e pronunciarla senza problemi.

“Sto bene, piccola. Sto bene.” Disse non riuscendo comunque a convincere del tutto né lei, né tantomeno se stesso.

Sospirò: doveva inventarsi qualcosa.

“Allora..!” disse rizzandosi sulla schiena con una mano poggiata su un fianco e l’altra sempre sul cappello “… io e te staremo insieme per un po,’piccola. Cosa vuoi fare?”.

Non ottenne molto comunque. Momo inclinò confusa la testa da un lato, non capendo cosa volesse dire con quel groviglio di parole a lei per la maggior parte sconosciute. Ah già, quasi dimenticava: non doveva usare troppe parole.

“Capito,capito.” Si grattò la testa, pensandoci un po’ su.

Ripeté mentalmente i consigli di Betty: delicatezza, moderatezza, inventiva; non doveva essere rude, rispettare i suoi spazi e cercare di fare qualcosa di carino per lei. Più facile a dirsi che a farsi, per uno come lui. Non sapeva da che parte iniziare.

Poi l’idea.

“Sai volare?” chiese di getto con interesse verso la ragazza che però a quella domanda improvvisa, allontanò la testa, protendendosi leggermente all’indietro.

Accidenti, aveva usato troppo slancio per chiederglielo.

Scusa…  disse mettendo le mani avanti a palmo aperto in segno di scusa. Delicatezza, delicatezza, si impose mentalmente Ace, rimuginando su come continuare il discorso e farle capire quello che intendeva dirle.

“Volare.” Disse semplicemente mimando con entrambe le braccia il gesto di scuoterle come un paio d’ali e finalmente la vide sbarrare gli occhi, dandogli prova di aver reso bene l’idea. Al moro venne quasi da sorridere compiaciuto: stava facendo grandi progressi con Momo.

Era la prima volta che non si arrabbiava con lui o si metteva a piangere spaventata. Chissà come l’avrebbe presa Marco non appena l’avrebbe scoperto.

Il suo buon’umore però venne bruscamente interrotto dalle parole ansiose e negative della ragazza, in quel momento protesasi verso di lui scuotendo lievemente la testa con un’ombra di paura ad indurirle il viso. Oh cavolo, ecco un altro danno provocato dal suo comportamento iniziale:  doveva essersi ricordata del loro piccolo lancio nel vuoto dalla vedetta della nave.

“Mannaggia a me e alle mie idee geniali.” Sospirò sconsolato Pugno di fuoco, ciondolando le braccia in avanti e imbronciandosi a testa bassa come un bambino. Avrebbe tanto voluto vederla spiccare il volo come aveva sentito dire dal Rosso poco prima, e invece si era ritrovato con un pugno di mosche. Pazienza, in fondo se l’era cercata. Momo si scusò con lui un paio di volte, avvicinandoglisi a poco a poco per guardarlo meglio in viso e scambiare con lui un’occhiata di sincero dispiacere.

Ace ricambiò con un sorriso un poco tirato.

“Non è niente piccola. Mi passerà.” Cercò di rincuorarla mettendo in ogni parola quanta più intonazione possibile.

Si ritrovò improvvisamente le mani luminose e calde di Momo sul viso e, spalancando gli occhi, la vide fissarlo intensamente negli occhi a pochi centimetri dal viso con espressione corrucciata ed indagatoria. Non capiva cosa stesse facendo, eppure, nonostante non stesse esercitando alcun tipo di forza per trattenerlo non riuscì a scostarsi. Non fu tanto per l’attrazione che provava per lei a tenerlo ancorato in quella posizione, quanto l’impressione di essere studiato.

Sì, perché quegli occhi dello stesso colore della lava incandescente, lo stavano sondando fin d’entro l’anima. Era stupido, eppure sentiva che era così.

Era talmente preso da quella strana sensazione da non accorgersi nemmeno che l’aveva liberato dalle sue mani. Cosa strana, perché solitamente la pelle delle altre persone gli appariva sempre leggermente più fredda della propria ,e questo gli consentiva di avvertirne quasi sempre la presenza ed i conseguenti spostamenti. Avevano la stessa temperatura?

Momo si scostò velocemente da lui voltandosi di spalle ed allontanandosi di pochi passi, lasciando dietro di sé una scia luminosa provocata dalle fiamme della testa e delle braccia.

Per un attimo Ace ebbe la terribile sensazione di essere riuscito ancora una volta a farla sentire a disagio, ma poi la vide allargare le braccia fiammeggianti, provocando la caduta di qualche scintilla sul legno resinato del ponte della nave e, dopo aver preso un solo respiro profondo, abbassarle di scatto.

Più che il gesto in sé, fu il fatto di vedere Momo innalzarsi di una buona decina di metri verso l’alto a farlo rimanere di stucco.

Dall’alto Momo spalancò gli occhi di terrore e stupore, irrigidendosi quel tanto che le bastò per far sì che cadesse all’indietro iniziando a precipitare verso il basso,esattamente da dove era arrivata.

“Cazzo!” imprecò il moro scattando immediatamente in avanti, ritrovandosi  dove il salto della ragazza era partito. Non perse tempo a guardarla cadere e tramutò la parte inferiore del proprio corpo in fuoco, lanciandosi verso l’alto con un salto. Le sue braccia accolsero decise il corpo esile ed abbandonato della ragazza, intercettandolo nel pieno della caduta, per poi stringerlo e accompagnarlo in una discesa decisamente più dolce, attutita dall’effetto delle sue fiamme.

Ace atterrò sul ponte flettendo le gambe, sospirando di sollievo.

“Accidenti che spavento.” Disse lanciando poi un’occhiata alla ragazza.

La trovò ad occhi aperti di nuovo fissi su di lui apparentemente non molto scossa da quello che era appena accaduto. Il ragazzo si accorse solo in quel momento di quanto si fossero avvicinati in quei pochi minuti: molto più di quanto si era ripromesso poco prima.

Ghignò malandrino, non riuscendo a trattenersi.

Dev’essere la mia serata fortunata.”

Momo, al sorriso dell’altro, scoppiò a ridere, perforando l’aria della notte con un suono argentino e musicale, venendo seguita a ruota dall’altro. Fu a malincuore che, poco dopo, Ace, quando le loro risate si furono calmate, la sciolse dalle sue braccia, lasciandola libera di allontanarsi da lui. Ancora con il sorriso sulle labbra e qualche singulto divertito a scuotergli la schiena, il pirata non poté comunque fare a meno  di pensare a Marco ed a come se la stesse passando in mezzo agli altri.

A lui era andata di lusso.

Mise le mani dietro la nuca, seguendo la sirena di scoglio che si sedette sul parapetto della nave per godersi le stelle. Continuò a pensarla in quel modo per tutta la notte mentre osservava le fiamme dell’altra protendersi verso il cielo stellato, ondeggiando alla brezza marina.

Eh, sì. Gli era andata proprio di lusso.

 

Atto 9, scena 3

Penelope sospirò intenerita vedendo il comandante Marco venire strapazzato in lontananza da tutta la ciurma. Tutto il reparto infermieristico si era messo in disparte, assistendo da lontano alle pene del primo comandante, troppo occupato a zittire il comandante Satch per rispondere alle frecciatine degli altri, nel mentre sistemavano e ripulivano gli angoli meno affollati della mensa, recuperando le tovaglie da mettere a lavare.

“Certo che il comandante Marco ha lasciato tutti molto sorpresi.” Affermò angelica la bionda verso Betty, come al solito accompagnata dall’inseparabile cartellina dei valori del comandante, prelevati durante l’ultima mezz’ora, nonostante fosse già tardi, sui quali stava annotando qualcosa di indecifrabile. La mora si voltò verso la bionda, bloccando la penna a mezz’aria, rispondendole atona ed apparentemente disinteressata.

“Già, non avrei mai pensato che si sarebbe innamorato della piccola così in fretta.” Asserì, tornando immediatamente con la testa sul proprio lavoro.

Penelope, seguita a ruota da Carol, sbarrò gli occhi:

“Tu sapevi che sarebbe successo??!” esclamò Carol a bocca spalancata  provocando nella capo reparto una risatina sommessa.

Tesoro…” cominciò l’infermiera dagli occhiali scuri, inclinando la testa all’indietro ed ondeggiando la penna accanto al viso con fare furbesco “… col tempo capirai che l’amore è tutta questione di chimica. Poco importa quanto sembrino incompatibili due persone: una volta messi l’uno davanti all’altro non c’è via di scampo. Tutto quello che si può fare è aspettare inerti l’inevitabile e sperare di non rimanerne bruciati.”

Quella piccola perla di saggezza fece spalancare ancor di più la bocca della rossa e ridacchiare la bionda che fece per tornare tranquillamente alle proprie faccende, quando si sentì colpire da un pensiero improvviso.

La loro piccola Momo non era umana, o almeno, le sue capacità non erano proprie degli esseri umani e una cosa l’aveva lasciata stranamente perplessa: come mai inizialmente era stata in grado di parlare di giorno? Rimase lì ferma con un lembo della tovaglia debolmente trattenuta dalle sue dita ben curate, ragionandoci su per poi sorridere  soddisfatta alla spiegazione che era riuscita a trovare: la disidratazione.

Il primo giorno che la ragazza era stata caricata sulla nave e messa sotto osservazione nel loro reparto, lei era stata una delle prime a visitarla constatando a che gravità versavano le condizioni della piccola. Inutile dire quanto era stato difficile stabilizzarla. La lunga esposizione ai raggi del sole aveva escoriato e bruciato la pelle in più punti, e la mancanza di liquidi avevano portato ad un livello di incoscienza prossimo al coma. Persino la lingua era secca, ma in particolar modo Penelope ricordava quanto fosse stato difficile aprirle la bocca e sollevarle la testa senza provocare ulteriori danni aggiunti a quelli che la disidratazione e la calura avevano causato alla gola.

Dovevano essere stati appunto quelli ad impedire alla voce della piccola di uscire come invece avrebbe potuto in situazioni ottimali. Così, quella che alle loro orecchie era parsa una voce normalissima, per una paradisea come Momo, abituata ad intonazioni molto più acute ed armoniche, sarebbe parsa rauca.

Ma non era solo quello a dar da pensare alla bionda: anche i rapidi, quasi impossibili, ritmi di guarigione della ragazza erano stati motivo di sorpresa tra le infermiere. Le escoriazioni cutanee e gli arrossamenti erano ormai completamente spariti e come se non bastasse la voce era tornata normale. Non che a Penelope o alle altre la cosa creasse fastidio o dispiacere, tuttavia la bionda aveva cominciato a pensare ad un possibile collegamento tra i miglioramenti della paradisea e le fiamme gialle di cui si era scoperta essere utilizzatrice.

La cosa gli veniva dallo stesso comandante Marco.

Le infermiere non assistevano quasi mai alle battaglie ma c’era stata un’occasione che l’aveva lasciata perplessa riguardo il biondo, proprio durante i momenti immediatamente successivi ad uno scontro particolarmente cruento. Come al solito c’erano stati dei feriti e tutte loro si erano mobilitate in massa per trasportare i più gravi in infermeria ed era stato in quell’occasione che Penelope aveva assistito alla miracolosa sparizione delle ferite del primo comandante per mezzo delle proprie fiamme azzurre.

Se lo ricordava come se fosse stato ieri. Ogni singolo taglietto o ferita da arma di fuoco ci era volatilizzato dopo pochissimi istanti, sparendo sotto lo sfrigolio di lingue azzurre e gialle. Ed era stato quello a far impensierire Penelope, riguardo la piccola Momo. Ogni singola ferita del comandante Marco veniva prontamente curata dall’azione delle sue fiamme blu, vero, ma l’infermiera bionda aveva notato benissimo che soltanto la parte gialla di queste ultime andava a toccare direttamente i lembi di carne offesi.

E dopo questi ragionamenti era pronta a scommetterci il suo amato cappellino da crocerossina che le fiamme di Momo erano simili, se non identiche, a quelle del biondo.

Tornò ad osservare il ragazzo in questione.

Forse Betty non aveva tutti i torti a dire che era questione di chimica.

Atto 9, scena 4

 “Allora, signor innamorato!” esclamò per l’ennesima volta Satch, circondandogli il collo con un braccio, mentre lui faceva del suo meglio per non dare peso alle risatine provenienti sia dai suoi fratelli che dai pirati del Rosso. I primi avrebbe potuto benissimo sopportarli, ma i secondi gli davano lo sgradevole effetto di tante zanzare attorno alle sue orecchie. Ancora non sapeva come sbrogliarsi da quella situazione. Non solo era in balia delle amorevoli cure di Satch, il peggio che potesse capitargli tra tutti i comandanti, ma era anche bloccato da qualsiasi tentativo di fuga dai suoi compagni, raggruppatisi a cerchio intorno a loro con la stessa espressioni di tanti bambini eccitati per uno spettacolo di marionette.

E lui non faceva che sperare ad uno spiraglio che gli permettesse di fiondarsi verso la scala che conduceva al ponte.

“Com’è ritrovarsi in balia delle pene d’amore dopo tutto questo tempo?” lo riscosse la voce del comandante in quarta , richiamando così la sua attenzione.  La Fenice lo squadrò per un attimo, provocando un silenzio pieno di aspettativa, pensandoci seriamente. In effetti era passato parecchio tempo dall’ultima volta che una donna era riuscito ad interessarlo in quella maniera, ma non era stato che un miraggio stroncato di netto dal disprezzo che aveva visto negli occhi dell’altra quando aveva accennato di essere un pirata.

Da allora non aveva avuto molte avventure, e si era messo il cuore in pace impiegando anima e corpo nel suo ruolo di comandante, proteggendo fedelmente il babbo e i suoi fratelli anche a costo di incassare al loro posto mille e più proiettili. D’altronde quale donna avrebbe mai guardato con amore un uomo di mare per definizione dedito a razzie, soprusi e battaglie all’ultimo sangue? Le infermiere erano un caso eccezionale: donne dal carattere forte per uomini forti pronti a morire il giorno successivo. Ma nessuna di queste si sarebbe mai azzardata a legare in quel senso con uno di loro.

Strano…” rispose quasi sovrappensiero alla domanda di Satch, osservando disinteressato il liquido semitrasparente che ondeggiava nel suo boccale e rompendo così l’attesa dei suoi compagni.

“Aah..!” sospirò il comandante della quarta flotta con fare comprensivo rifilandogli qualche leggera pacca sulla spalla “Ti capisco, ci sono passato anch’io. Una ferita sul cuore dopo un po’ si anestetizza.” Decretò allargando la bocca in un sorrisino e, voltandosi verso le infermiere, mise una mano accanto alla bocca ed esclamò.

“Dico bene, Carol?”

La rossa in questione si voltò verso di loro prima stupita per poi accigliarsi indignata e voltare di scatto la testa con il naso verso l’alto, allontanandosi dalla loro vista con il cesto delle tovaglie sporche tra le mani, venendo accompagnata dalle risate degli altri che avevano assistito alla figuraccia del quarto comandante. Carol era stata una delle primissime cotte di Satch, ed era noto a tutti il modo con cui era finita la loro piccola parentesi amorosa fatta di declini e contro declini da parte della rossa: per farla breve, il comandante dal pizzetto si era ritrovato con un netto segno rosso a cinque dita affusolate stampate sulla guancia.

All’inizio il biondo non l’aveva presa molto bene e si era depresso come non mai, tanto che la nave pareva essere abitata da un fantasma, ma, fortunatamente per l’atmosfera della Moby, la situazione si alleggerì e Satch tornò allegro e smagliante come un tempo, dopo poco più di una settimana. La cosa non si poteva dire anche per Carol che da allora non gli aveva più rivolto neanche mezza parola, evitandolo come la peste ogni volta che poteva.

Eeh. Decisamente non mi ha ancora dimenticato.” Ridacchiò il biondo, avvicinandosi il boccale di birra alle labbra.

“La tua faccia se la ricorderà per sempre. Questo è certo.” Intervenne Marco facendogli andare di traverso il sorso che aveva cercato di mandare giù proprio in quel momento.

Un eco ridente fece capolino nell’aria proprio in quel momento, guizzando dalle pareti lignee della nave come un campanellino melodioso, lasciando di sasso tutti quanti.

“Sembra che la pargoletta si stia divertendo con il giovane Ace.” Disse Shanks intrufolandosi tra di loro come se niente fosse e sedendosi  al fianco di Marco con un sorriso sulle labbra che fece venire voglia alla Fenice di rifilargli un bel calcio diretto.

Lo faceva apposta. Eccome se lo faceva apposta. Farlo innervosire sembrava divertirlo da matti. Come se il fargli notare una cosa simile lo potesse rendere felice! Sentiva da dentro la gelosia montare sempre di più. Non che fosse arrabbiato con il moro. Sarebbe stato stupido prendersela con lui che stava solo facendo quello che poteva per la ragazza, ma il fatto di essere preso in giro da nientemeno che Shanks il Rosso lo mandava in bestia e gli faceva desiderare di potersi alzare e risalire velocemente lo scafo della nave.

“Può darsi.” Bofonchiò affondando il viso nel proprio bicchiere.

La risata di Shanks fece da sottofondo a quel suo scarso tentativo di nascondere il proprio disappunto.

“Sembri proprio un animale in gabbia!” ridacchiò di gusto l’imperatore procurandosi un’occhiata d’intesa da Satch. Marco sbuffò interiormente: ci mancava solo che quei due diventassero alleati.

La risata cavernosa di Edward Newgate fece capolino, attirando l’attenzione dei propri figli su di sé.

“Basta così, figli miei, abbiamo anche prolungato fin troppo i festeggiamenti. Tornate alle vostre stanze.” Dichiarò imperioso, provocando un po’ di malcontento tra le file di ubriaconi che, lagnandosi come dei bambini, si diressero pian piano verso l’uscita, augurandosi buona notte gli uni con gli altri.

Marco, Satch e gli altri comandanti furono gli unici a rimanere, mentre la ciurma di Shanks il Rosso e il rispettivo capitano, continuava ad occupare la sala senza dare segno di volersene andare.

Le grandi mascelle del Bianco si irrigidirono in risposta all’occhiata sveglia e per nulla abbacchiata del rivale. Cos’altro voleva da lui.

“Sarebbe meglio…” fece Shanks, voltandosi verso Barbabianca con tono nuovamente formale   “decidere come fare con il vecchio Garpfuori…” concluse alzando il pollice indicando dietro di sé.

Tutti quanti, Marco compreso, si irrigidirono: si erano completamente dimenticati della presenza del vice ammiraglio nei pressi della loro nave. Newgate alzò un sopracciglio:

“Credi davvero che oserà attaccare la mia nave?” domandò quasi incredulo. Monkey D. Garp era conosciuto per essere uno sconsiderato, degno del proprio cognome, ma la senilità che si portava sulle spalle avevano comunque contribuito a mettere in quella zucca di marine un po’ di buonsenso. Barbabianca ne era certo, non avrebbe mai spinto i propri uomini in un’azione suicida.

Quindi, a cosa si riferiva quel marmocchio del Rosso?

Marco lanciò un’occhiata significativa al capitano, ricevendo un segno d’assenso con il capo e quindi il permesso di congedarsi insieme agli altri comandanti. Tutti e cinque si diressero fuori dalla stanza con in volto un’espressione truce: avevano gozzovigliato anche fin troppo,  adesso dovevano fare del proprio meglio ed essere pronti a qualsiasi evenienza, mantenendo i nervi tesi al massimo. Non si poteva stare mai tranquilli con una nave della Marina che ti galleggiava allegramente accanto. E l’idea di un attacco a sorpresa non allettava nessuno di loro.

Naah.” Rispose con un lieve ghignetto Shanks non appena l’ultimo gruppetto scomparì da dietro la porta, accompagnato dalle ultime infermiere cariche di panni lerci. “Il vecchio non si azzarderebbe mai a fare una cosa tanto avventata, se è quello che temono i tuoi uomini.”

Una vena pulsante comparì sulla tempia dell’imperatore Bianco. Quel marmocchio petulante aveva capito anche quello. Che il mare se lo inghiottisse!

“Piuttosto … ” continuò intanto l’altro, accovacciandosi nuovamente a terra davanti a lui “ sarebbe meglio trovare un modo che gli consenta di allontanarsi senza dover dare troppe spiegazioni a Sengoku.”

Gli occhi sottili e rugosi del Re Bianco si allargarono, per poi stringersi più di prima. Aiutare Garp ad andarsene tranquillamente, senza ripercussioni su di sé? Il gigante sondò attentamente gli occhi del rosso, trovando in essi un motivo per quella frase.

“Che cosa intendi, moccioso?”

Il sorriso di Shanks sparì così come era venuto. Non era per scherzare che aveva atteso che tutti i figli del Bianco si ritirassero, quello di cui stava per parlare era una questione delicata.

“C’è ancora una cosa da dire, riguardante le Paradisee …” disse alzando gli occhi fissi sull’altro.

Barbabianca stette in silenzio per tutto il tempo, ascoltando il discorso del Rosso dall’inizio alla fine. E quando il rivale pronunciò l’ultima frase di quel lungo monologo, trovò molto difficile sopprimere l’impulso si sbattere un pugno venoso sul pavimento.

 

Atto 9, scena 5

NIPOOOOTEEEEEEE!!!!!!!!!

Ace aveva in viso l’espressione più sconvolta del mondo, mentre davanti a lui la figura furente del nonno si sbracciava in sua direzione dalla polena della propria nave.

Ma perché?! Stava andando tutto così bene! Perché il punto dove lui e Momo si erano fermati a guardare le stelle doveva coincidere proprio con la parte che si affacciava davanti l’ammiraglia??

E lui che pensava fosse la sua serata fortunata!

Si calò il cappello sugli occhi, sperando in cuor suo che quello bastasse per far scomparire la figura del parente adottivo, attirando così un’occhiata confusa della ragazza accanto a lui. Che figure del cavolo gli capitavano. Ringraziò il fatto che Momo non conoscesse ancora bene la lingua perché altrimenti la situazione sarebbe stata più difficile da digerire di quanto già non fosse.

E NON NASCONDERE IL TUO VISO DAVANTI A ME!!!! SE PENSO A TUTTI I GUAI CHE HAI COMBINATO IN QUESTI ANNI, RIMPIANGO DI AVERTI PERMESSO DI PRENDERE IL LARGO!!! AVREI DOVUTO RIPESCARTI A NEMMENO DUE METRI DALLA COSTA!!

Già - si ritrovò a pensare Pugno di fuoco, grato al destino - fortuna che tu in quel momento eri a miglia e miglia di distanza da Foosha.

Nonostante le parole del vecchio, non mostrò di voler rialzare lo sguardo, augurandosi che il gesto lo facesse demordere.

Illuso - disse una vocina nella sua testa - Garp il Pugno non demorde mai.

E come previsto, la voce del vecchio marine tornò alla carica, trapassandogli fastidiosamente i timpani e facendo gemere di dolore Momo, anche lei ferita da quel suono dirompente che l’aveva portata a coprirsi le orecchie. Ace digrignò i denti, combattendo l’impulso di rispondergli.

Non rispondere.

NON rispondere.

LO SAI A CHE COSA HA PORTATO IL TUO GESTO SCONSIDERATO!!!?? RUFY È DIVENTATO UN PIRATA!!!! SARESTE DOVUTI ENTRARE ENTRAMBI IN MARINA COME VI AVEVO ORDINATO!!! E INVECE ORA MI RITROVO A FARE I CONTI CON VOI CHE COMBINATE GUAI DA OGNI DOVE DELLA GRANDE ROTTA!!!

A quel punto Pugno di fuoco non riuscì più a trattenersi e, scattando in piedi su parapetto della nave, rialzò lo sguardo sul nonno, puntandogli contro lo sguardo più seccato che avesse mai avuto.

“Insomma, nonno!!! Non vedi che sono nel bel mezzo di un appuntamento romantico!? So che è da tempo che non ci vediamo e non vedevi l’ora di farmi la ramanzina, ma, per favore, non potresti chiudere un occhio per questa volta??!!”

Quell’uscita improvvisa ebbe un certo effetto sul vice-ammiraglio che, sbarrando gli occhi, identificò nella figura femminile e fiammeggiante accanto al nipote, quella della creatura da lui riconosciuta poco prima sulla nave pirata di fronte. Suo nipote? Con quella creatura? Appuntamento romantico??!!

La voce dirompente del Pugno tornò immediatamente a farsi sentire, accompagnata da un paio di grosse vene pulsanti sulle nocche delle mani serrate.

 SCORDATELO!!!! CHIUNQUE SIA QUELLA RAGAZZA NON TI PERMETTERÒ MAI DI METTERE AL MONDO ALTRI PICCOLI DELINQUENTI COME TE!!

Ace ringhiò stropicciandosi i capelli per il nervoso, dando le spalle al vecchio brontolone. Ormai ci aveva rinunciato: l’atmosfera di poco prima era totalmente sparita e con suo nonno pronto a perseguitarlo per tutta la notte, non avrebbe più avuto possibilità di stare tranquillo da solo con Momo.

Dov’era un attacco narcolettico quando serviva?

E NON MOSTRARE QUELL’ORRENDO TATUAGGIO A TUO NONNO! NIPOTE SCELLERATO!

Sarebbe stata una lunga notte…

 

Atto 9, scena 6, Sinfonia Andante con Moto

Morgan cercò di non piangere mentre la barca veniva sempre più trascinata via dalla corrente  minacciando di sfuggire alle sue piccole dita paffute con strattoni sempre più violenti. Si morse le labbra per non far sfuggire altri gemiti disperati, quando le mani di Viola andarono ad infierire ancora una volta sulla sua debole stretta che ancora per poco gli avrebbe permesso di non essere abbandonato in mare a pochi metri dalla baia di Copper Sulfate.

“Smettila Viola!! Piantala con questa storia!” gli venne in aiuto la voce di Arch-san, che stava in qualche modo trattenendo la furia della ragazza dai capelli argentati, sforzandosi di bloccarla da dietro le spalle, anche se con pochissimo successo.

Il bambino riuscì infatti a vedere una gomitata arrivare dritto sul mento del biondo,che venne spinto di conseguenza dall’altro capo della loro piccolo Cutter. A Morgan venne ancor di più da piangere, constatando che la forza fisica non era tra i pregi del proprio alleato.

Ho detto di no!” sbraitò Viola tornando a perseguitarlo, che nulla stava facendo di male se non rimanere attaccato allo scafo della barchetta facendo appello più alla forza della disperazione che ad altro.

“Vi prego…” mormorò lui singhiozzando, mentre le mani della paradisea scioglievano con pochissimo sforzo la presa di una delle sue manine infantili. Aveva paura. Non voleva rimanere ancora una volta da solo in mezzo a persone a lui sconosciute pronti a rapirlo come avevano fatto quegli schiavisti che lo avevano imprigionato. La sua unica speranza, ora come allora, era attaccarsi a quei due ragazzi che in un modo o in un altro lo avevano salvato dal suo triste destino, insieme a quell’angelo dorato che lo aveva sciolto dalle catene della sua ingiusta prigionia. “… lasciatemi… venire con voi.”

La sua mano destra mollò la presa e lui per un attimo trattenne il respiro, pronto ad affondare con la testa nel nero liquido del mare notturno.

Fu uno strattone al polso però ad evitare il peggio, trascinandolo un po’ a fatica verso l’alto, finchè non riuscì a portarlo completamente a bordo. Arch aveva il viso sporco del sangue che gli colava dal naso e dal labbro spaccato, effetti collaterali del suo prendere le difese del ragazzino orientale, ed ansimava pesantemente mentre tratteneva il braccio del bambino tra le mani.

Morgan non sapeva spiegarsi come, era riuscito ad afferrarlo poco prima che piombasse in acqua, spostandosi ad una velocità quasi impossibile da una parte all’altra del piccolo veliero.

Scrollò la testa. No, doveva essere stata la sua impressione.

Che cavolo fai?!” il ringhio di Viola lo svegliò, facendogli tendere nuovamente i nervi con la consapevolezza che il pericolo non era ancora stato scampato del tutto. Era riuscito a salire sulla barca, ma la ragazza non si sarebbe certo arresa per così poco.

Con scatto fulmineo Arch gli si parò davanti, nascondendolo dietro di sé, rimanendo accucciato a terra. Morgan non potè vedergli il volto, ma era pronto a giurare di aver visto una scia sanguinea spostarsi in coincidenza di dove si sarebbe dovuto trovare il suo occhio destro. Anche per quello il bambino diede colpa alla stanchezza ed ad una sua falsa impressione.

“Va’ in sottocoperta.” Gli sussurrò in un soffio il biondo e lui non se lo fece ripetere due volte, fiondandosi con le ultime forze rimastegli nelle ginocchia oltre la porticina della cabina interna. Fece appena in tempo a richiudersela alle spalle prima di sentire il suono sordo di due corpi che cozzavano violentemente tra loro, dando inizio ad una serie di tonfi ed imprecazioni inequivocabili.

Quei due se le stavano dando di santa ragione.

Viola fu la prima ad urlare, sprigionando con la propria voce una rabbia tale da far rabbrividire il piccolo Morgan oltre la sicura ma flebile protezione del legno della porta, rannicchiatosi sugli scalini accanto ad essa.

Non proteggere quel mostriciattolo!

Uno feroce scricchiolio fece capire a Morgan che una trave del ponte doveva essersi incrinata di parecchio.

“È soltanto un bambino! ” fu la risposta nasale ma ugualmente aggressiva di Arch.

Non mi importa! Fosse anche un neonato lo butterei in pasto agli squali! È uno di loro!!

Un altro fragore di schegge che partivano da tutte le parti.

“E non distruggere la mia barca!!”

Non me ne importa un accidente della tua barca Arch!Fammi passare dannazione! Fammi passare!!!!!

“No! Non torcerai a quel bambino neanche un capello!!”

Tra le ombre di un punto remoto della stiva  Morgan tremava rannicchiato con gli occhi neri fissi sulla porta, sperando che Arch-san non finisse ammazzato da quella furia dai capelli argentati. Possibile che tutte le donne fossero così? Eppure la signorina che l’aveva liberato dalla nave di schiavi gli era sembrata così gentile…

Trattenne il respiro sentendo la maniglia tremolare pericolosamente, ma solo per essere brutalmente lasciata stare dalla presenza minacciosa che era riuscita in qualche modo ad afferrarla per un istante.

Non lo voglio su questa nave!!!” ribadì rabbiosa la voce di Viola e Morgan seppe che la sua permanenza su quella barca non sarebbe stata affatto facile come aveva sperato.

“Datti una calmata Viola!!!”

 

Atto 9, scena 7

A Marco era parso di sognare quando aveva visto, e sentito, in che situazioni versava il fratellino. Non che si aspettasse di meno, a pensarci bene. Quello che lo aveva reso soddisfatto della sua scelta di controllare di persona, insieme a Satch e gli altri, le mosse del vice-ammiraglio, era stato più che altro il constatare quanto la fortuna potesse essere girata dalla sua parte.

Proprio davanti a lui, un esasperato Ace stava facendo i conti con gli improperi continui del proprio parente, cercando con scarso successo di non dargli troppa corda, e quel che condiva il tutto con una vena di forte comicità, stava nel fatto che quella situazione era stata evidentemente generata dalla decisione del moro di accostarsi alla paradisea sul parapetto della Moby, forse per assistere meglio insieme a lei allo spettacolo notturno sopra le loro teste.

E nel mentre Pugno di fuoco abbassava la testa ad ogni muggito carico di critiche del proprio vecchio, Momo assisteva a quella buffa situazione nascondendosi proprio dietro la ringhiera della nave, spuntandovi da dietro con la testolina fiammeggiante e gli occhietti palpitanti ben visibili, rimanendo con le ginocchia rannicchiate al petto con una goccettina di sudore che fluttuava sulla sua testa.

Un  sorrisino soddisfatto gli salì alle labbra alla vista di quella piccola vittoria, e proprio in quel momento Satch si fece avanti lisciandosi il pizzetto con fare mezzo dispiaciuto e mezzo divertito.

“Ahi ahi. La solita sfortuna. Questa proprio non ci voleva. ” biascicò il comandante in quarta lanciando poi un’occhiata di sottecchi a Marco.

“Già, povero Ace.” Gli fece eco Vista, poggiandosi elegantemente accanto uno degli alberi maestri lì presenti.

“La sua dev’essere una maledizione.” Si unì al coro Jaws, con un grugnito non molto discreto, dato il suo naturale timbro vocale.

“Vado a dargli una mano.” Se ne uscì improvvisamente Marco camminando in avanti verso i due con la tranquillità di sempre, accompagnato dalle occhiate dubbiose ed interessate degli altri presenti. Sembrava che  quella situazione non facesse né caldo né freddo alla Fenice, ma Satch poteva ben intuire quanto lo avesse rincuorato non trovare lo scricciolo ed Ace in una situazione più intima del dovuto.

E STAI PUR CERTO CHE NON MUOVERÒ UN SOLO DITO QUANDO TI SPEDIRANNO AD IMPEL DOWN, RAGAZZINO INSOLENTE! SONO STATO ANCHE FIN TROPPO BUONO CON TE IN TUTTI QUESTI ANNI…!

Oioi. Vecchio, cerca di abbassare la voce, spaventi la ragazza.”

L’intervento di Marco, pronunciato quasi con fare annoiato, bloccò la situazione, attirando su di sé le attenzioni di tutti e tre nel medesimo istante. Le reazioni furono ben distinte a seconda del soggetto: Monkey D. Garp si irrigidì sbuffando nuvolette di vapore dal naso con gli occhietti ciechi dalla rabbia per l’essere stato zittito così facilmente da uno sbarbatello; Momo, dopo un piccolo momento di stupore, aveva cominciato a gesticolare verso il moro e il vice-ammiraglio,chiedendogli contemporaneamente nella propria lingua aiuto; Ace, infine, aveva alzato la testa e, riconoscendolo, l’aveva immediatamente abbassata di lato, sbuffando.

“Ti diverti?” fu la domanda ironica del moro, sentendo in quel momento il destino estremamente ostile e beffardo nei propri confronti.

Il biondo rimase un attimo in silenzio,poi si poggiò, anche lui di schiena, sul parapetto della Moby con i gomiti tirati indietro nell’atto di sorreggerlo, mentre, con la testa all’indietro, osservava un po’ le stelle sopra di loro.

“Sei sicuro di volere una risposta sincera?.” Gli rispose retoricamente, ricevendo uno sbuffo.

“No grazie. Ne faccio a meno.”

“In effetti mi sto divertendo un sacco.” Sorrise il biondo, mandando immediatamente in bestia il compagno lì accanto.

“Ti ho detto di fare a meno della sincerità!!” ringhiò il moro con i denti e gli occhi improvvisamente più aguzzi del solito.

Un occhio di Marco incontrò la figura luminescente di Momo, ancora attenta alle loro mosse, ma , evidentemente, del tutto incapace di capire cosa si stessero effettivamente dicendo, nonostante le sue lezioni gli avessero dato le nozioni base della loro lingua.

Sai…” disse la Fenice, bloccando con il suo tono pensieroso e serio Pugno di Fuoco “… non mi aspettavo che ci saremmo potuti trovare in questa situazione.” Sussurrò, tornando dritto con un sorriso amaro sulle labbra.

E lì Ace capì che la situazione non lo stava divertendo affatto, come invece gli aveva dichiarato prima. Anche a lui del resto non allettava l’entrare in competizione con il fratello per una ragazza e non lo avrebbe mai fatto se le circostanze glielo avessero concesso. I suoi occhi color brace puntarono di sottecchi la figura incuriosita di Momo, studiandola di poco.

Vale davvero la pena?- si chiese critico, ma gli bastò quella rapida occhiata alla paradisea per fargli rispondere affermativamente alla propria domanda. Sì ne valeva la pena e non era solo questione di astinenza o attrazione fisica. Sentiva davvero qualcosa di strano quando guardava Momo, una sensazione che non sarebbe riuscito a spiegare nemmeno con mille e più parole. Una sorta di magnetismo, di brivido e di ignoto. Una miscela che non gli lasciava via di scampo. Che le Paradisee riuscissero davvero ad ipnotizzare con la sola voce? Ma lei non stava cantando in quel momento.

Neanch’io.” Fu la sua replica quando riuscì a staccarle gli occhi di dosso, poi prese un respiro profondo e,alzando la testa e chiudendo al contempo gli occhi, disse “…Essere in competizione con te è una cosa da veri masochisti, ma chi me lo ha fatto fare dico io? Bha, devo essere impazzito.”

La risposta di Ace spiazzò totalmente il biondo che lo guardò prima incredulo, poi mezzo divertito.

“Quindi non rinunci?”

A rispondergli fu uno dei tipici sorrisi da malandrino del fratello, accompagnato dal suo tipico gesto di alzarsi leggermente con un dito la falda del cappello alla cowboy.

“Neanche per tutto l’oro dello One Piece.”

Marco stese ancora una volta le labbra un sorriso sbieco. Quella era una vera e propria dichiarazione di guerra.

Oioi. Non ti dare troppe arie. Ti ricordo che sarò io a dover passare più tempo insieme a lei, essendo il suo insegnante.”

“Oh, tranquillo. Le sfide non mi spaventano.” Lo rassicurò sempre sorridendo furbesco. Ormai non si poteva più tornare indietro.

“Ah, lo sai che la piccola sa volare?” affermò immediatamente dando a malapena il tempo a Marco di percepire il cambio di discorso. La Fenice inarcò le sopracciglia verso l’alto stupito da quella notizia e fu per questo che ad Ace non servì che glielo chiedesse perché non potesse rispondere a quella domanda sottintesa: glielo leggeva in faccia.

“Già, si è quasi sfracellata sul ponte. Immagino che si sia dimenticata anche quello, oltre al proprio nome.”

Ace-san? Marco-san? Cosa…?” si fece avanti Momo alzandosi lentamente in piedi e Marco poté finalmente vederne la forma delle fiamme che ne ricoprivano le braccia. Erano esattamente come le sue quando assumeva la sua forma ibrida di Fenice. Forse non proprio esattamente: le fiamme erano meno marcate e per via del colore lasciavano ben intravedere la forma degli arti, ma non c’era alcun dubbio che in qualche modo formassero una sorta di paio d’ali.

L’atmosfera fu presto rotta dalla comparsa di Satch, inaspettatamente comparso al fianco della ragazza e avvinghiatosi con un braccio alle spalle di Ace con un sorriso gioviale.

“Ehi, voi due! Non spererete di tenervi lo scricciolo tutto per voi, spero!” esclamò il comandante della quarta flotta, meritandosi un’occhiataccia da parte del moro. Inutile, ad Ace non piaceva proprio il soprannome che aveva dato a Momo, ma lui non ci diede troppo peso, facendo finta di non accorgersene e rivolgendosi immediatamente alla ragazza.

“Io sono Satch, scricciolo, piacere di conoscerti. Spero che andremo d’accordo e…” a quella pausa sia Marco che Ace corrugarono la fronte incuriositi.

“… e di riuscire a proteggerti da questi due zoticoni in calore.”

Momo non fece in tempo a rispondere adeguatamente alla buffa ed alquanto lunga presentazione dell’altro che già se lo ritrovò davanti con un paio di bernoccoli da parte degli altri due comandanti ad ornargli la testa.

Chissà se ci avrebbe mai fatto l’abitudine.

 

Fine Atto Nono. 

Ed eccomi qua! Fiuuu! Che bello postare un capitolo dopo tanto tempo!! Sono fiera di me!

No Jaws, quella di Ace non è una maledizione, ma io! *_* mhwahaha! Uhm… ma non lo starò maltrattanto troppo il povero Ace? O-o

Ok spero di non avervi deluso in alcun modo e di avervi fatto divertire con questo nuovo e, a mio parere, esilarante capitolo!! Arch e Viola sono finalmente partiti alla ricerca della loro compagna con Morgan nella stiva a tremare dalla paura e finalmente, dopo una lunga ed agognata attesa… ci saranno i primi salti temporali!!! Era ora!

Pertanto non perdiamoci in chiacchere e passiamo al momento clu di questa serie!

Domande:

1)      Su che tipo di isola sbarcherà la ciurma di Barbabianca? (estiva, invernale.. o altre cose! Ditemi cosa preferite!)

2)      Chi è il padre di Arch?

Ed ora popolo… votate! Ci vediamo al prossimo capitolo! Vi aspetto con entusiasmo! Kisskiss

TS

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Watashi wa ureshii. > Sono contenta.

Watashi mo, chibi-chan. > Anch’io, piccola.

                                  Ita  >  Jap

Sai volare? > Anata wa sono ba o shitte iru?

Volare > Tobu.

Non è niente piccola. Mi passerà > Nai mo nai, chibi-chan. Watashimasu.

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Atto 10 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 10

Atto 10, scena 1

Allora…!” esclamò con fare enfatico il Rosso, poggiando sull’elsa della spada la mano destra, mentre guardava fiero i suoi uomini pronti per entrare in azione, nonostante si trovassero sul ponte di una nave nemica.

“Pronti per lo spettacolo?!” proclamò  allargando le labbra in un sorriso entusiasta, constatando lui stesso di quanto l’impazienza del suo equipaggio fosse salita alle stelle in quelle ultime ore. Un boato affermativo carico di eccitazione sovrastò l’aria fresca della Moby, inghiottendo  in sé ogni rumore che non fosse quello delle arme che con un sibilo di lama venivano sguainate.

Il vice comandante della Red Force si crogiolò in quell’atmosfera a cui il suo capitano e i suoi compagni erano riusciti a creare in così pochi attimi di distanza dal loro colloquio con Newgate. L’adrenalina aveva iniziato immediatamente a scorrergli sotto la pelle, vibrandogli sulle spalle e sulle braccia, ora frementi più che mai in vita loro. Ben Beckman non era un tipo da rissa, più di quanto potesse esserlo Shanks, ma passare così tante settimane di completa inattività potevano essere snervanti anche per uno come lui e l’occasione che si era presentata loro era stata tanto propizia quanto allettante. Certo, in circostanze diverse avrebbe dato un pattone al capitano per essere il solito avventato e lo avrebbe costretto a ragionare a suon di pedate.

Ma no – si disse sorridendo attorno al filtro della propria sigaretta, accendendola proprio in quel momento con uno dei suoi fiammiferi –stavolta una bella baruffa ci sta.

Ovviamente i pensieri di Lucky e Yasopp non erano da meno. Persino Monster , quell’esagitato del loro scimpanzé, si aggrappava più che poteva alla testa pelata di Foras, il suo padrone, trattenendosi a stento dal saltare giù e partire alla carica.

Poveri noi, siamo messi proprio male se anche una scimmia si comporta alla nostra pari – pensò, annotandosi di non dire mai una cosa simile a Foras. I motivo erano semplicissimo: Foras, nonostante la corporatura massiccia, era estremamente sensibile quando si parlava di animali. Era conosciuto tra di loro come L’orco Dal Cuore D’oro, poiché, a dispetto dell’apparenza, era un vero e proprio bonaccione, tanto che tutti gli animali non appena lo vedevano lo adoravano, intuendo il suo animo gentile, e lui ricambiava con altrettanta premura le attenzioni che quelle palle di pelo gli riservavano, difendendoli a spada tratta ogni qualvolta era necessario.

Sigh. Si ricordava come se fosse stato ieri la prima volta che Lucky, in piena astinenza dei suoi amati cosciotti, aveva osato proporre di cucinare il primate per compensare la mancanza del prosciutto. C’erano volute ore perché quei due si calmassero e smettessero di darsele di santa ragione.

Shanks si voltò, procedendo a grandi falcate in direzione dell’ammiraglia, per poi affacciarvisi con un sorriso scanzonato a sfidare la smorfia rugosa di Garp. Il vice-ammiraglio non sapeva che intenzioni avesse quel moccioso dai capelli rossi, ma una cosa era certa: non sopportava la sua faccia!

“Ehi nonno!” salutò il rosso tutto contento, facendo finta di non avvertire il ruggire silenzioso dell’haki dell’altro, circondato dai suoi fidati uomini, scesi dalla branda avvertendo il rumore poco rassicurante di sciabole e lame sguainate.

 “Spero tu sia contento, io e il vecchio Newgate non siamo riusciti ad arrivare ad un accordo… ” mentì spudoratamente, sospirando con fare teatrale, assumendo un’improbabile aria affranta.

Eeeh… e dire che ci ero andato così vicino....”

Dalla nave ammiraglia arrivò un insieme di brusii incerti. Tutti i marine si guardavano l’un l’altro, confusi sul da farsi.

Il rosso aveva appena ammesso di aver fallito e che il loro comandante ne era direttamente responsabile. Sulle bocche di tutti si formò un’espressione vittoriosa nel collegare, nonostante le nebbie del sonno rallentassero la loro attività mentale, il tardivo intervento del vice ammiraglio al fallimento dell’imperatore.

L’unico a non gioire di quella frase era il vice-ammiraglio che, fermo come una roccia nella propria espressione arcigna, sondava mentalmente le intenzioni del Rosso. Cosa stava a significare quella sceneggiata? Era ovvio che volesse attaccar briga. I suoi uomini, già armati e pronti ad uno scontro dietro di lui lo stavano tecnicamente urlando a suon di inquietanti sibili di lame strisciate l’una contro l’altra.

Dannazione- pensò il vecchio marine, adocchiando dietro di sé Koby ed Hermeppo rigidi come delle statue e per nulla rilassati, come invece erano anche fin troppo i loro compagni- non mi aspettavo una simile svolta da parte del mocciosetto.

Non era un bene trovarsi a così pochi metri di distanza dal Rosso. Era risaputo anche tra i gradi più bassi della marina. Non c’era via di scampo alla sua imprevedibilità, nemmeno per uno come lui, Monkey D. Garp, che poteva vantare di aver conosciuto persino quel pazzoide di Gol D. Roger.

Certo, Roger era stato un ottimo anfitrione per il rosso. Degno portatore del titolo di pazzo furioso privo di ogni remora, persino il giorno della propria esecuzione. Eppure quel malpelo scalmanato continuava, a suo parere, a battere il buon vecchio re dei pirati.

Era un manigoldo con la faccia da santarellino con una logica tutta sua, completamente fuori da ogni schema, per certi aspetti paragonabile a quella di uno squilibrato. Un attimo prima te lo trovavi tutto allegro a brindare insieme a te con un bicchiere di sake sotto mano, e un attimo dopo te lo vedevi ridacchiare e sguainarti la spada contro con l’espressione di un bambino monello stampata in faccia.

I pugni tozzi e venosi di Garp si strinsero rumorosi. Una vera e propria carogna, Shanks il Rosso. Specie in quel momento, mentre gli stava silenziosamente intimando di mettere in allerta i propri uomini per mettere mano alle armi e dare il via ad una battaglia tra le loro ciurme.

Il vecchio continuò a sfidare lo sguardo dell’imperatore con il proprio. Che fare? Aveva dato a Shanks carta bianca perché mettesse al sicuro la piccola Paradisea,in quel momento ospite di Edward Newgate, non perché lo mettesse con le spalle al muro come un allocco!!

Mai fidarsi di un pirata! Mai! Com’era potuto cadere così in basso!?

“Sono molto, molto arrabbiato.” Proclamò Shanks con un ghigno bianchissimo a cui solo Garp, Koby ed Hermeppo non credettero nemmeno per un istante. Quella non era la faccia di una persona arrabbiata, ma di una persona che smania per andarsi a prendere ciò che vuole. Un bambino troppo cresciuto che non vede l’ora di fare a botte con il capo della banda avversaria.

L’assalto prese il via come se al posto di una ciurma di pirati ci fosse stato uno sciame d’api, in modo talmente veloce da lasciare a malapena il tempo ai suoi marines di mettere mano alle baionette, eppure Garp, mentre distingueva la Red Force venire allontanata a poco a poco dalla Moby, sentiva che qualcosa non tornava. Da quando al Rosso piaceva attaccare briga? Certo, amava le battaglie, ma mai se non era strettamente necessario.  Non era il tipo da scagliare la prima pietra. Ma allora perché?

Cos’era quella novità?

Lo stridore di una lama sguainata lo fece scansare poco prima che la spada di Shanks si abbattesse sul suo braccio. Anche quello non fece che aumentare i sospetti di Garp: Shanks il Rosso non era il tipo da attaccare qualcuno di disarmato, tantomeno con così poca precisione. Se solo avesse voluto, gli avrebbe anche potuto tranciare di netto l’arto dal resto del corpo.

Ad accogliere la sua occhiataccia arcigna fu l’espressione serafica del pirata.

“Non dovresti distrarti nel bel mezzo di uno scontro, nonnetto.” Lo canzonò.

Attorno a lui Garp sentiva i suoi sottoposti agitarsi e contrattaccare debolmente agli attacchi dei loro assalitori, completamente disorientati e scoordinati.

“Che diamine stai facendo, dannato pazzoide?!” ringhiò sputandogli quasi contro per la rabbia che stava provando. Voleva che mettesse a rischio la vita di centinaia di uomini. I suoi uomini. Persone di cui conosceva uno ad uno nome e cognome. Tutti quei ragazzi avevano una famiglia, dannazione, come faceva il rosso a non capire la sua posizione??!!

“Io ?” Chiese ancora una volta Shanks guardandolo come se non capisse cosa intendesse mentre si  accingeva a caricare un altro fendente malriuscito verso il marine, pur mantenendo intatta la propria espressione da finto tonto.

“ Io sto solo attaccando una nave della marina, no?” ridacchiò, abbassando lo sguardo in modo significativo, come una volpe che furbescamente si mette d’accordo con la faina mentre attorno a loro il pollaio e tutto un fremito.

“È normale per un pirata. Dico bene?” aggiunse infine scaricando verso di lui con così poca convinzione che l’albero maestro della nave si vide solo intaccare leggermente dalla spada del Rosso.

Garp strabuzzò un attimo gli occhi, indietreggiando di un altro paio di passi, non capendo bene cosa significasse quell’espressione. I suoi occhi caddero poco sopra la spalla dell’Imperatore, dove la piccola paradisea, dalla nave di Newgate, continuava a guardare a fiato sospeso lo scontro e fu allora che allargò al di sotto della propria barba lanosa un ghigno. Confermò di persona i propri sospetti vedendo quello che veramente stavano combinando gli uomini del rosso.

Da esperto veterano di scontri tra pirati e marine, riuscì a riconoscere soltanto ferite superficiali, colpi sferrati su punti non vitali e quasi sempre con la sola forza di pugni e calci.

Ora si spiegavano molte cose.

“Già,..” concordò finalmente, mettendosi in posizione di guardia “… dannatamente normale.”

Atto 10, scena 2

“Non saremo in debito con lui, vero?” grugnì poco contento Jaws, guardando quell’assurda messinscena  portare sempre più lontane le due navi nemiche. Al suo fianco Ace e Marco ridacchiarono ognuno a modo proprio: quel diavolaccio di un Rosso era riuscito a creare al babbo un sacco di guai e poi andarsene come se nulla fosse successo.

Bhe, perlomeno il suo malaugurato arrivo era servito a dar loro qualche informazione in più su Momo. La ragazza in questione stava ancora osservando tutta presa dalla scena le due navi, osservando con crescente preoccupazione la battaglia che, a quanto pareva, si sarebbe allungata di parecchio, prima di finire definitivamente.

Eeeh, temo di sì.” Sospirò Satch tastandosi con una mano i due grossi bernoccoli che gli sbucavano dalla testa, lasciando miracolosamente intatto il suo amato ciuffo. Bella roba avere dei fratelli così permalosi. Mica aveva detto così grande cattiveria! Va bene, passi per lo “zoticoni”, ma dire che erano in calore non era poi totalmente sbagliato, giusto?

“Il Rosso riesce sempre a sconvolgere la vita di chi gli sta attorno.” Ridacchiò Vista a braccia conserte godendosi gli ultimi sprazzi visibili della battaglia in lontananza.

Ace poggiò le braccia all’indietro sulla ringhiera interna del ponte, voltandosi soddisfatto verso Marco che seduto sopra di essa tirava anche lui un sospiro di sollievo. Pugno di fuoco non riusciva a crederci: era riuscito a scampare alla furia del nonno. Gloria immensa, quello squilibrato mentale di Shanks l’aveva sbrogliato dalla peggiore delle situazioni in cui poteva capitare.

“Oh bhe, direi che ci siamo divertiti.” Affermò ridacchiando di sottecchi verso il biondo accanto a lui che, a quella velata provocazione, si imbronciò poggiando stancamente il mento su una mano, voltando lo sguardo.

“Parla per te. Avessi potuto gli avrei tirato il collo.”disse per poi vedere Momo sedersi accanto a lui, accennando ad un sorriso così timido da farlo sorridere di riflesso. Di tutta risposta a quella piccola e quasi insignificante vittoria, Ace si premurò immediatamente di accostarsi a sua volta accanto alla ragazza, sorridendo sbarazzino, mentre quest’ultima si ritrovava seduta in mezzo ai due in una situazione alquanto scomoda.

Sarebbero state scintille se Satch non fosse prontamente intervenuto, pronto più che mai a rasserenare gli animi e a dare alla fanciulla un poco di quiete da quella battaglia di cuori che, senza che potesse accorgersene, stava cominciando ad infuriare attorno a lei.

“Ok, piccioncini. Tutti a nanna. Lo scricciolo ha bisogno di quiete, ha già avuto troppe emozioni forti per oggi.” Sentenziò e venendo prontamente imbeccato dal moro, per nulla turbato dalle parole del comandante in quarta.

“Attento Satch, parli proprio come Betty quando è in vena di fare la maestrina.” Disse il ragazzo dalle lentiggini, facendo bloccare sul posto tutti quanti.

“Ehm... Ace?” provò disperatamente a farlo desistere Marco.

“Fossi in te non parlerei di-..” si unì al coro Satch, facendo segno come Jaws e Vista di stare zitto con le mani, ma venne bloccato da una risata dell’altro.

Ahaha!” rise Ace battendo una mano sul legno della ringhiera, scoppiando dal ridere al solo pensiero “Davvero Satch!Ti manca solo la sua divisa da urlo, scommetto che diventeresti l’idolo della ciurma in meno di venti secondi! Anche se tu non hai il suo stesso lato B!”

“Immagino.” Disse tetra una voce femminile dietro di lui.

La reazione di tutti fu ben intuibile dalle urla che succedettero la pessima figura di Ace.  Momo si portò le mani alle labbra, incredula di fronte a quell’aspetto di Betty che non aveva mai avuto la possibilità di vedere; Vista e Jaws abbassarono la testa, non avendo la forza e la voglia di sostenere l’altro nella sua lotta contro l’infermiera; Satch si sforzò di sorridere forzatamente di fronte a quella brutta situazione, dispiaciuto per non aver potuto avvisarlo in tempo e Marco si limitò a sospirare guardando il fratellino perdere terreno ad ogni parola della donna, che incombeva sempre più su di lui come uno tsunami che minaccia di infrangersi su una povera piccola isola.

Dopo qualche istante la Fenice spostò lo sguardo dal fratello alla propria sinistra, dov’era seduta Momo. Quello che lo stupì fu il trovare il posto accanto a lui vuoto.

Il respiro gli si mozzò in gola per la sorpresa e ancor di più quando tornò a Betty ed Ace, trovando la ragazza tra di loro in tutto il suo dorato fulgore con le braccia alate spalancare nell’atto di proteggerlo dalla furia cieca dell’altra.

Betty-san, p-per favore si fermi.

Da dietro gli occhiali scuri l’infermiera  ingrandì gli occhi di tre volte tanto, seguita a ruota dai cinque comandanti. Quando era arrivata? Era comparsa davanti a lei in sì e no in un battito di ciglia! Penelope le aveva parlato delle conclusioni alle quali era arrivata su Momo e sulla sua incredibile capacità di autorigenerarsi, infatti si era recata da lei proprio per quello, presa dalla smania di vedere quelle fiamme fantastiche con i propri occhi e valutarle con la dovuta calma.

Ma una simile velocità non se la sarebbe mai aspettata!

Per favore, per favore, per favore.” Ripeté intanto Momo con delle piccole lacrime dettate dal panico agli angoli degli occhi, non sapendo dire altro in difesa del moro, e sperando che la donna non cominciasse ad urlare contro di lei come l’aveva vista fare prima.

Ace, con una mano posta sul retro del cappello, non riusciva a credere a quello che aveva appena visto. Una velocità simile non l’aveva mai vista. Era stato come se la piccola fosse comparsa dal nulla in uno schiocco di dita, senza fare il benché minimo rumore. Sorrise contento: non era poi così indifesa come avevano pensato inizialmente.

Fu ben contento di non vedersi più sgridato da Betty che, nonostante lo smarrimento iniziale, mise le mani sui fianchi sorridendo accondiscendente verso Momo per poi portarla via, malgrado qualche lieve obiezione da parte della piccola. I cinque capitani sospirarono nell’udire più attentamente il modo di parlare della ragazza: era come ascoltare una canzone dal tono flebile ed armonico. Sembrava quasi un usignolo caduto dal nido che implorava aiuto.

Ma quelle fiamme che pericolose sembravano circondarla in un abbraccio protettivo, dicevano il contrario, mettendo dentro di loro una sorta di ansia. Non era solo una questione di conquistare o meno il suo cuore, come invece era in buona parte per Ace e Marco, ma una specie di sentore di pericolo, qualcosa che non si poteva esprimere a parole se non con una stretta di spalle e la convinzione che l’unico modo di capire a che cosa si riferisse, fosse quello di andare avanti e lasciare che il destino facesse il suo corso.

D’altronde, chi poteva dire cosa sarebbe successo, con una creatura canterina come quella a movimentare le loro giornate?

 

Atto 10, scena 3

Era ormai giorno quando finalmente riuscì a mettere piede nella sottocoperta. Diavolo, quello scemo di Arch era certamente più debole rispetto a lei, ma in quanto resistenza era peggio di uno scarafaggio! Viola si sfregò una guancia, sentendo i grumi di sangue rappreso dell’unica ferita che il biondo era riuscito ad infliggerle, graffiarle la pelle in modo così fastidioso da farle ringhiare scocciata.

La sua pelle era stata sfregiata da quel maschio di ultima categoria,… e per che cosa? Per un fottutissimo marmocchio umano.

Sentì Arch grugnire dolorante dal ponticciolo della loro bagnarola e in qualche modo si sentì il morale salirle considerevolmente per un paio di istanti. In fondo si era tolta uno sfizio che si portava avanti da anni.

Bene- si disse accigliandosi, mentre le sue gambe procedettero con sicurezza  tra l’oscurità della stiva – il bastardo è sistemato, ora è il turno del vermiciattolo.

Inciampò su una corda abbandonata per terra ancor prima di attivare la propria vista notturna, rischiando di lasciarsi sfuggire un imprecazione melodica, fortunatamente bloccata da una mano sulla sua stessa gola. Rantolò per terra, maledicendo si gli assurdi oggetti di Arch “utili per la navigazione” e anche quel marmocchio su cui non vedeva l’ora di mettere le mani.

No…” fu una voce flebile che la sorprese ancora a terra. Si rialzò con una smorfia di disappunto sulle labbra: quello stupido si era accorto della sua presenza e stava andando nel panico. Non poteva chiedere di peggio.“No… mamma..!” lo sentì pigolare ancora, facendola sbuffare mentre si metteva impaziente le mani sui fianchi stretti. Grande Spirito, quanto odiava i bambini piagnoni. Meglio liberarsene- pensò schiarendo la propri vista in meno di un secondo – prima che mi saltino i nervi.

Per lei fu quasi uno shock trovarsi in una situazione totalmente diversa da quella che si era aspettata.

Morgan si era appallottolato in un angolo della sottocoperta, pressato contro la cassapanca ed un barile che si erano portati appresso da Copper Sulfate. Attraverso il rosso dei propri occhi Viola vide le sue spalle venire scosse da degli spasmi incontrollabili, le sue manine contratte nell’atto di afferrarsi il tessuto sottile della maglia al petto e gli occhi spalancati che sgorgavano lacrime da tutte le parti.

“Mamma..!” rantolò di nuovo il piccolo orientale, respirando così velocemente, neanche  avesse corso per chilometri di fila.

Che diavolo…?!- pensò Viola, accostandosi velocemente al piccolo ma solo per realizzare che, anche se sembrava sull’orlo di soffocare, quello non era altro che un brutto, bruttissimo, attacco di panico, talmente forte da rendere il piccolo Morgan quasi incosciente. La ragazza argentata avrebbe detto che stava fingendo, in una situazione diversa, ma quegli occhi neri non sembravano nemmeno vederla. Erano persi in un mondo totalmente differente dal suo.

E-ehi!” balbettò non sapendo che altro fare se non rimetterlo seduto e cercare di scrollarlo da quello stato di trance paranoico. Le spalle di Morgan non si placarono e nemmeno il suo respiro, ma le sue mani si mossero inaspettatamente verso di lei, stringendole disperatamente il materiale teso del corpetto che le fasciava il seno.

Viola rimase di stucco vedendo la testolina del bambino nascondersi nel suo petto, in cerca di un calore che forse non era il suo, ma di qualcun altro.

Mamma… t-ti prego.” Mugugnò ancora il bambino “P-prometto c-che… (snif) n-on lo farò più. Mamma… Non mandarmi via. Mamma…mamma…!”

Era disperato. Viola sapeva che non si stava riferendo a lei, ma, sebbene i suoi occhi castani fossero sbarrati ed increduli per essere stata appena abbracciata da un bambino umano, di cui fino a pochi istanti prima voleva disfarsene, non ebbe altra reazione dalle proprie mani se non quella di poggiarle su quella massa arruffata di capelli scuri, strofinandoli con quella che le sembrò una carezza.

E il peggio venne dalle sue labbra.

“Va tutto bene.” Disse arrochendo così tanto la voce da farla sembrare normale alle orecchie del bambino. I singhiozzi e i respiri affannosi di quest’ultimo rallentarono gradualmente smorzandosi appena.

Eppure un’ultima frase uscì da quelle labbra infantili e spaurite.

“Non voglio salire… su quella…n-nave.”

Viola rimase in quella posizione ad occhi spalancati, andando contro le intenzioni che l’avevano spinta fino a quel punto, pestando Arch, distruggendo quasi la Clara pur di mettere le mani su quel bambino e gettarlo a mare. E allora che cosa la stava frenando?

Non era pena quella che stava provando, vero? Vero?!

Quasi non sentì Arch scendere a fatica gli scalini della stiva, fermandosi poi sull’ultimo di essa guardandola con un occhio livido chiuso ed un braccio fermo a tenere l’altro aderente al resto del corpo, quasi potesse cadere a terra spezzato.

Vedendolo Viola poté dire di aver fatto un ottimo lavoro. Almeno la prossima volta ci avrebbe pensato due volte prima di sfidarla.

“E va bene…” grugnì abbassandosi al livello di parlare come quegli umani che aveva tanto deriso per il tono sgraziato che li distingueva dalle paradisee “… può restare, ma appena comincia a creare troppi problemi lo mollo nel primo posto che mi capita… e non ridere!!”  sbottò infine vedendo le labbra sottili del ragazzo traballare stranamente sotto l’effetto di uno stimolo estraneo persino a lui medesimo.

Alla fine Arch ci rinunciò e, alzandosi con non poca difficoltà, disse un’ultima cosa prima di scomparire dietro il materiale sicuro della porta che conduceva al ponte, assumendo il solito tono piatto.

“Saresti un’ottima mamma.”

E fu tutto quello che disse,prima di sentire una bottiglia infrangersi contro la superficie di legno.

 

Atto 10, scena 4, Arioso del mattino

Sospirai  trascinandomi dietro la cesta di biancheria pulita da stendere. Il sole stentava ancora a risalire l’orizzonte quando io e tutte le infermiere ci levammo dalle brande per compiere quelli che dovevano essere i lavori di routine. Non che rendermi utile mi dispiacesse, ma ero veramente stanca e prima di risalire dalla sottocoperta avevo fatto in tempo a guardarmi allo specchio. Ero pallida come un cecio e delle sottili macchie scure mi erano apparse sotto gli occhi. Sembravo un fantasma senza le mie fiamme.

 Avevo passato una nottata davvero impegnativa con Betty. Davvero.

Sebbene la vista del cielo notturno mi avesse rallegrato, ritrovarmi da sola insieme alla mora in infermeria, era stato davvero sfiancante. All’inizio non era stato granchè: tutto quello che aveva fatto era stato osservarmi da capo a piedi e poi cominciare a toccarmi. Toccarmi! Alle braccia!

Avevo letteralmente fatto un salto di tre metri, vedendola mettere un dito tra le fiamme che mi uscivano dal corpo. Che cavolo! Sono fiamme, no? E le fiamme bruciano! Cosa le era saltato in mente?!

Vederle però il dito perfettamente illeso era stato per me un colpo veramente forte. Non una bruciatura, nemmeno un lieve arrossamento. Era stato come se avesse infilato la mano nel nulla.

E da lì era cominciato tutto. Betty aveva cominciato a tastarmi dappertutto: sulla testa, sulle guance. Poi, non contenta, si era ferita con uno dei bisturi. Sì, si era proprio tagliata! Insomma, un taglietto da nulla, ma vederla fare una cosa simile mi aveva mandata nel panico totale.

L’avevo vista infine avvicinarsi a me e infilare la mano offesa tra i miei capelli, ritirandola subito dopo. La ferita era letteralmente scomparsa. Mi girava la testa e dovetti sedermi per evitare di cadere per terra. Non ci capivo nulla.

Mi ero fatta tante paranoie solo per scoprire che le mie fiamme non potevano fare del male a nessuno?! Anzi, potevano addirittura curare le ferite?! Ero arrossita fino la punta dei capelli. Che vergogna. 

Poggiai la cesta di vimini per terra, ricordando con stanchezza crescente cosa mi aveva fatto fare Betty dopo quella, almeno per lei, entusiasmante scoperta. Mi aveva messo davanti la cosa più brutta che avessi mai visto: un manichino umano con tutti gli organi esposti.

Mi veniva da piangere al solo pensiero. Non si era limitata solo a mostrarmelo, spiegandomi passo dopo passo il nome di ogni singolo componente di quell’obrobrio, ma lo aveva anche smontato costringendomi a rimontarlo pezzo per pezzo, ripetendo il nome proprio di ognuno di loro.

Avevo passato tutta la notte in quel modo, senza possibilità di fuga poiché l’infermiera si era premurata di serrare la porta e nascondere la chiave nel suo voluminoso decoltè.

Sospirai ancora una volta, sentendomi le palpebre pesantissime. Mi sentivo uno straccio. Insomma io non potevo stare sveglia notte e giorno!! Un po’ di pietà dico io!

Momo-chan” mi voltai verso Penelope, accostatasi a me con il solito insostituibile sorriso sulle labbra “Tabetai?” mi chiese docilmente. Non era da tanto che stavo su quella nave, ma ormai avevo capito che le parole che cominciavano per ‘tabet-’ si riferivano al mangiare e di conseguenza il mio stomaco reagì prima della mia bocca, gorgogliando come non mai e facendomi cadere nel più completo imbarazzo.

Accidenti, non avevo ancora fatto colazione.

La risata argentina di Penelope mi fece diventare ancora più rossa. Ma perché dovevo essere così imbranata?

La vidi abbassarsi sul mio cestino, afferrandolo con disinvoltura i manici di quest’ultimo per poi rialzarsi elegantemente, lanciandomi un’occhiata accondiscendente.

Dōzo meshiagare. Watashi wa koko ni tadoritsuku.

Per un attimo aprii la bocca per risponderle, ma di nuovo la sensazione di non dover dire nulla mi colse, bloccandomi le parole in gola, così mi limitai ad annuire ed ad osservarla con ammirazione, mentre si allontanava da me con la sua consueta innata grazia.

Quanto avrei voluto essere come lei. La sua figura flessuosa e slanciata gridava maturità e bellezza da qualunque parte la si guardasse. Per un attimo mi guardai tristemente il petto, trovandolo penosamente piccolo e sgraziato in confronto a quello di Penelope. Chissà se con il tempo sarebbero cresciute.

Un altro grugnito del mio stomaco mi fece capire che era tempo di pensare al cibo e, dandomi qualche schiaffetto su entrambe le guance, mi rialzai, dirigendomi frettolosamente verso la mensa.

Avevo una fame che non ci vedevo più, e poi ero impaziente di rivedere Ace e Marco. Pensai a Satch, l’uomo che mi si era presentato ieri: mi era sembrato simpatico di prima impressione.

 

Atto 10, scena 5

 Aaaah…” sbuffò Ace allungandosi sul tavolo con aria sofferente. A neanche un centimetro dal suo viso, stava un piatto fumante di salcicce, pancetta e uova, eppure i suoi occhi parevano trapassarlo completamente. Tutti quanti nella sala lo guardavano preoccupati, persino Barbabianca osservava allarmato il figlio, il cui appetito gli era stato fin dai primi giorni ben chiaro. Il gruppo delle infermiere osservava con altrettanta  ansia le condizioni del moro.

Se Portuguese D. Ace aveva perso davvero l’appetito, allora l’intera ciurma avrebbe fatto meglio a correre ai ripari per far fronte alla tempesta imminente che si sarebbe certamente abbattuta sulla Moby.

Un altro sospiro eruppe dalla bocca del moro, mentre la sua testa oscillava da una parte, completamente senza forze “Dov’è Momo?” fu la domanda che fece uscire fuori dalle orbite gli occhi di tutti quanti.

Marco sbuffò, alzando gli occhi al cielo mentre si dondolava all’indietro con la sedia.

“Sei senza speranze.” Lo provocò, ottenendo immediatamente una reazione dell’altro che, alzando di scatto la testa e guardandolo in cagnesco, gli rispose per le rime:

“Parli bene tu! Io mi sono visto soffiare una serata con Momo da Betty!”

“Forse se non avessi fatto quegli apprezzamenti sul suo lato B, te l’avrebbe lasciata.” Fu la degna scoccata della Fenice, che continuò a guardare tranquillamente il soffitto sopra di lui.

“Ma che ne sapevo io!” obiettò il moro ritornando alla propria posizione di sconforto, poggiando il mento sul tavolo. “Se avessi saputo che era dietro di me non avrei mai detto quella frase.” Mugugnò infine.

“Fatti tuoi. Ora Betty se la legherà al dito fino alla morte.” Rispose un poco più aspro del solito il ragazzo con la testa ad ananas, attirando su di sé un’occhiata incuriosita dell’altro che lentamente rialzò la testa alzando un sopracciglio.

Rimasero in quella posizione per un po’, l’uno a guardare il biondo e l’altro a far finta di non accorgersene.

“Hai finito?” sbottò improvvisamente Marco senza cambiare espressione, gli occhi socchiusi come loro solito in un’espressione quasi imbronciata.

Ace ridacchiò, intuendo finalmente cosa ci fosse sotto, non appena vide che anche il piatto dell’altro era rimasto intoccato.

“Ace.” Lo avvertì non proprio amichevolmente Marco, provocando però in lui l’effetto contrario: ovvero, quello di fargli rischiare una fragorosa risata.

“Sono contento…” disse non appena riuscì a frenare l’attacco di ridarella che gli era salito in gola “… di non essere l’unico senza speranze.”

“Beccato.” Si intromise Satch infilzando una salciccia con la forchetta. Come aveva pensato all’inizio sarebbe stato una spasso. D’altra parte però un po’ rimpiangeva quella piccola scenetta. Eeeh, cosa avrebbe dato per ritornare giovane di giusto una decina di anni.

Stava per tornare ad ascoltare quell’interessante battibecco, quando vide comparire, nemmeno l’avessero evocata, la diretta interessata, completamente libera dalle proprie fiamme mentre si faceva strada tra i tavoli gremiti di gente. Ad ogni passo che faceva riceveva un saluto da parte dei suoi fratelli e, non sapendo come rispondere, rallentava ogni qualvolta che poteva inchinandosi leggermente in avanti in segno di rispetto per poi ripartire a razzo verso di loro.

Sorrise ancora di più nel vederla un poco provata. Aveva il viso più pallido rispetto alla sera precedente.

Chissà cosa le ha fatto fare Betty… - si domandò accarezzandosi il pizzetto pensieroso, lanciando poi un’occhiata  in direzione dei due contendenti al suo fianco: non si erano ancora accorti dell’apparizione della piccola.

Ok, - pensò, chiudendo un attimo gli occhi - allora me ne occupo io.

“Ma guarda un po’!” disse con meraviglia costruita “Lo scricciolo si è fatto finalmente vivo!”

Per poco Marco non cadde dalla sedia nel sentirglielo dire, mentre Ace scattò immediatamente sull’attenti, sorridendo radioso non appena si accorse che quello di Satch non era stato uno scherzo.

“Momo!” esclamò il moro tutto contento, sentendo la fame tornare ad attanagliarli le viscere.

La ragazza si fermò proprio davanti al loro tavolo, eseguendo l’ultimo di una lunga serie di inchini, facendo sorridere Newgate per la sua dimostrazione di buona educazione. Poi un suono prolungato emerse subitamente dal suo stomaco, bloccando tutti quanti e facendola arrossire di botto.

Ahaha!” intervenne prontamente Satch alzandosi e facendo spazio alla piccola, invitandola con un gesto della mano a sedersi al suo fianco “La piccola deve essere affamata.”

Evitò di guardare Marco ed Ace, conscio di che razza di occhiatacce gli avessero indirizzato, per via delle libertà che si stava prendendo con Momo che senza farselo ripetere due volte si fiondò al proprio posto con gli occhioni luccicanti alla vista di tutto quel ben di dio.

Fece appena in tempo ad afferrare una mela proprio davanti a lei, prima che qualcosa di scuro apparisse davanti a lei, bloccandole in un istante sia la vista del resto della sala, sia il frutto. Gli occhi confusi di Momo, insieme a quelli degli altri, si mossero sulla mano pelosa che, tenendo ben ferma la mela da lei stessa scelta, le impediva di portarla verso di sé. L’attenzione si mosse poi verso l’alto dove si presentò rugosa e grottesco il viso umanoide di un essere che tutta la ciurma identificò come quello di una scimmia.

Già, una scimmia dalla coda pensile che ondeggiava freneticamente all’indietro e con uno stranissimo codino a spazzola sopra la testa.

Sulla testa di ognuno di loro apparve un punto interrogativo.

“Una scimmia?”  disse Ace incredulo. Non c’erano scimmie sulla Moby, che lui sapesse.

Quella però non attese che la situazione di sbloccasse e con un bello strattone portò via in un sol colpo il frutto conteso dalle mani della piccola, correndo immediatamente verso l’uscita della sala con la refurtiva in ben stretta tra le tozze dita, sbraitando contenta la propria vittoria con suoni acuti e prolungati.

Tutta la ciurma della Moby era rimasta a bocca spalancata per quella inattesa ed alquanto assurda scena e fu naturale per tutti guardare la reazione di Momo.

Quest’ultima non si era mossa di un millimetro, talmente shockata per il sopruso appena subito da non avere nemmeno la forza di muovere gli occhi né tantomeno cambiare espressione. Poi la videro abbassare lentamente gli occhi alle proprie mani, vuote e desolate come non mai.

Sbatté un paio di volte le palpebre , per poi fare qualcosa che fece mancare il fiato a tutti quanti. Le sue sopracciglia si incrinarono verso il centro e la mandibola le si irrigidì rabbiosamente, facendole stringere le labbra proprio mentre gli occhi scattavano verso l’alto, ansiosi di trovare la scimmia ladra.

La paradisea piantò le mani sul tavolo con talmente tanta forza da farlo sobbalzare, rialzandosi di scatto e con un balzo partire all’inseguimento della propria colazione, sotto gli occhi sbalorditi di tutti.

Marco ed Ace guardarono Momo scomparire a grandi falcate dietro la grande porta della sala, esattamente dove di era diretta la scimmia ladra.

Entrambi tentennarono un pochino prima di riprendersi da quello che avevano visto, ma, non appena riuscirono a darsi una scrollata, il ricordo della nuova espressione assunta da Momo fece partorire loro un unico ed innegabile pensiero.

Dannazione quant’era sexy quando si arrabbiava.

 

Atto 10, scena 6, Arioso del rocambolesco inseguimento

Ero arrabbiata. Furiosa come mai ero stata in vita mia. Non era tanto il fatto di volermi riprendere quella particolare mela a farmi correre come una forsennata dietro quella scimmia, ma il principio! Accidenti, ero su quella nave da 4 giorni! Quattro giorni! E in ogni singolo momento di quel breve periodo non avevo fatto altro che accumulare figuracce su figuracce.

Credevo di poter quietare almeno durante i pasti. E invece no! Adesso mi vedevo fregare la colazione da una scimmia comparsa dal nulla! No, non ci stavo. Avessi anche dovuto correre a perdifiato per tutta la nave l’avrei trovata e l’avrei costretta a ridarmi quella stupidissima mela!

Lo so, non era molto maturo pensarla in quel modo. Ma che potevo fare? Non ne potevo più di quella situazione.

Finalmente l’avvistai: stava ciondolando a testa in giù dalla ringhiera della scalinata principale. Di riflesso accelerai, portando lo spostamento d’aria a tirarmi indietro i capelli, ma quella, vedendomi, mi diede appena il tempo di compiere uno scatto, prima di sgusciarmi dalle dita, facendomi quasi stampare la faccia sul pavimento.

La guardai più accigliata che mai e questa mi rispose ballandomi davanti agli occhi, giocherellando con la mela tra le mani, e poi darsi due sonore pacche sul sedere in mia direzione.

E la rabbia montò più forte di prima. Voleva la guerra? E guerra avrebbe avuto!!

Mi rialzai immediatamente, ottenendo solo di farla scattare lungo la continuazione del corridoio. Avrei tanto voluto urlarle contro di fermarsi, oh se lo volevo, eppure mi bloccai decidendomi sul da farsi. Alzai gli occhi, determinata a finire quello che avevo cominciato.

Mi preparai mentalmente, flettendo le gambe e richiamando in me le sensazioni che mi avevano fatto scattare in quel modo tremendamente veloce la sera prima davanti ad Ace. Per me era stato strano fare una cosa simile, ma anche se non sapevo da dove mi venisse, ero sicura di poterlo rifare. Bastava che rifacessi le stesse cose della sera precedente.

Portai le braccia al resto del corpo, in modo tale da farle aderire completamente, e poi alzai gli occhi sulla figura ormai lontana dell’animale.

Strinsi i denti, caricando quanto più slancio riuscii. Non le avrei permesso di andarsene in quel modo.

Poi partii, flettendo il corpo durante il salto e voltandomi a mezz’aria. Un istante, e già mi ritrovai davanti alla scimmia, con le braccia al petto ed un piede a tamburellare sul pavimento in segno di impazienza. Quella spalancò la bocca scandalizzata, cominciando a tremare da capo a piedi alla mia vista.

Io però non mi feci intenerire: o la mia mela o niente perdono. Mossi lentamente una mano puntandone l’indice verso terra, facendole capire che doveva poggiare il frutto della nostra contesa a terra.

Quella però non solo mise la mela perfettamente dove avevo indicato io, ma si prostrò letteralmente ai miei piedi, mettendosi a faccia e braccia a terra.

Nonostante un breve momento di smarrimento,sorrisi vittoriosa, contenta della mia piccola grande impresa.

Momo!” “Chibi-chan!”

Le due voci famigliari provenienti dalla fine del corridoio mi fecero riaprire gli occhi, ritrovandomi a faccia a faccia con Ace e Marco, evidentemente accorsi in mio aiuto. Entrambi mi guardarono sbalorditi quando mostrai loro la mela, ridacchiando contenta.

 

Atto 10, scena 7, Red Force

MONSTER!!”

L’urlo infelice di Foras squarciò quasi in due la Red Force, mentre Ben ed Usopp tentavano in tutti modi di calmare il gigante pelato, chino a terra con la testa tra le mani, singhiozzando disperato come un bambino, dandogli delle amichevoli pacche sulle spalle.

Ormai erano ore che continuava in quel modo e nulla sembrava potesse tirarlo su di morale. Il combattimento con la marina si era protratto fino all’alba e solo in quel momento si erano accorti che al loro equipaggio mancava un componente: la loro mascotte, Monster.  Foras all’inizio aveva creduto si stesse solo nascondendo, ma dopo ore ed ore di ricerca si era reso conto che il suo adorabile compagno di viaggio non si stava nascondendo da lui, semplicemente non era presente sulla nave.

Shanks guardò dispiaciuto l’amico, non sapendo proprio che pesci pigliare. Avevano fatto di tutto. Si erano mobilitati in massa per ritrovare il loro fedele e casinaro compagno, ma niente. Avevano addirittura messo sotto torchio Roid, stavolta chiuso nella stiva della nave, sperando di poter ricavare qualche informazione utile, ma anche quella volta i risultati furono deludenti.

Il Rosso si sfregò il mento più pensieroso che mai, prendendo in analisi ogni possibile eventualità. Pensare che Monster fosse caduto in mare non era possibile, data la sua innata capacità di arrampicarsi e di nuotare come lo stesso Foras gli aveva insegnato. Che fosse rimasto sulla nave del vecchio Garp era un’altra opzione da scartare: non avevano visto il primate neppure in quell’occasione.

Rimaneva un’unica problematica possibilità.

Diede un paio di colpetti sulla testa calva dell’amico, facendogli alzare la testa con le lacrime che ancora gli solcavano il viso.

“Tranquillo amico mio, Monster starà benone…” ridacchiò lasciando di stucco tutta la ciurma “…, ma faremmo meglio ad andare a riprendercelo, prima che il vecchio Newgate lo faccia legare al pennone della nave.”

 

Atto 10, scena 8

“Cambiamo rotta?” ripetè Marco, non credendo alle parola appena sentite pronunciate dal babbo. Erano tornati da pochissimo dal loro breve ma memorabile inseguimento, portando come trofeo la scimmia legata come un sacco di patate. Momo aveva fatto in tempo a saziarsi come tanto desiderava prima che il capitano della Moby desse loro quella notizia.

Accanto a lui Satch, Vista e Jaws lanciavano sguardi interrogativi al padre, non volendo azzardare domande inutili che avrebbero in ogni caso ottenuto risposta: al capitano non piaceva dare ordini ai propri figli senza le dovute spiegazioni. Eppure Ace non riusciva mai a trattenersi in simili situazioni.

“Ma papà…” intervenne Pugno di Fuoco aggiustandosi il cappello con un dito “… le nostre scorte di acqua e di cibo sono sufficienti per altri 3 mesi.Perchè fare una deviazione?”

Lo sguardo che Edward Newgate volse verso la piccola paradisea fu più che sufficiente a spiegare buona parte delle sue motivazioni.

“Ho intenzione di far diventare la piccola Momo parte della ciurma…” rispose il gigante serio in volto, cosa strana per un uomo come lui, specie quando si parlava di adottare un nuovo membro nella famiglia “… e vorrei che cercasse di coltivare le sue capacità in un ambiente più consono.”

Tutti quanti annuirono, d’accordo con il pensiero del vecchio. Momo poteva essere dolce e simpatica, ma era anche indifesa ed essere figlio di Edward Barbabianca non prevedeva essere scarsi nel combattimento, visti i continui attentati alla vita del comandante ed alla nave stessa che si ripetevano periodicamente. Quello a cui si stava riferendo il babbo era un vero e proprio allenamento, atto a far sì che alla piccola fosse dato un posto nella ciurma.

“E per dove?”  fu la domanda fatidica sulla quale Marco aveva ragionato più tempo del dovuto poggiato scompostamente sullo schienale della sedia ed osservando attentamente Momo continuare a mangiare, non potendo capire i loro discorsi. Aveva una strana sensazione. Un brutto presentimento, circa la destinazione che sarebbe potuta essere la decisione del babbo.

Non che lui avesse avuto problemi per le isole da loro protette e visitate periodicamente, ma ce n’era una in particolare per la quale mai e poi mai avrebbe voluto deviare.

“Inari Fountain.”

Dalla sua postazione Momo vide il volto abbronzato di Marco impallidire notevolmente e si chiese se si stesse sentendo male a causa di qualcosa che aveva mangiato.

Fine Atto Decimo. 

E anche questo atto è finito. Ho solo un unico piccolissimo annuncio da fare, anzi due in uno: primo, se e dico se Oda-sensei mi fa lo scherzo di uccidere anche Marco, giuro GIURO che vado lì e rapisco sua madre, suo padre e chicchessia, ma non mi può uccidere anche lui! Cappio! È una caspita di fenice! Se riesce ad uccidere anche lui vuol dire che proprio ce l’ha con noi fan girl! Secondo! Perché ditemi perché ci devono illudere a noi povere scrittrici? Dico, da un SECOLO che portiamo questa convinzione assoluta che Satch sia biondo e loro cosa fanno? Eh? Cosa fanno? Lo fanno pel di carota!! Ecco cosa succede a fidarsi delle prime immagini di personaggi manga sullo schermo! Ti trasformano il biondo dei capelli in ARANCIONE! No, basta per favore trattenetemi o giuro che mi alleo con i cinesi e faccio guerra al giappone. Conquisterò Tokyo e metterò a ferro e fuoco casa Oda.

Va , basta così, sono scontenta di aver aggiornato prima del previsto, ma visto che stanno cominciando le lezioni e io devo fare ancora tre esami, direi che è meglio sveltirsi. Ehehe^^’’

Quindi, passiamo alle domande e non sperate di passarla liscia alleandovi! Voglio originalità! Datemi la giusta ispirazione attraverso le vostre idee più pazzoidi, donne!

1)      Che frutto del diavolo fareste mangiare al piccolo Morgan? (spoileronee!! XD)

2)      Che stile di combattimento vi immaginereste per Momo alias Allegra?

Popolo votate!! XD

Ci vediamo tra massimo due settimane!! Kiss kiss!! ^*^

 

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Tabetai? Dōzo meshiagare. Watashi wa koko ni tadoritsuku.. > Vuoi mangiare? Vai pure. Finisco io qui.

                                  Ita  >  Jap

Betty-san, p-per favore si fermi. > Betty-san, i-iamete kudasai.

Per favore, per favore, per favore. > Kudasai, kudasai, kudasai.

Una scimmia? > Saru?

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Atto 11 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 11

Atto 11, Preludio secondo

Il crepuscolo stava già calando sulle immense vele, pigramente ammainate, della nave dell’Imperatore Newgate, portando con sé un torpore che fiaccava sia nel corpo che nello spirito i temuti figli del Bianco.

Era passato quasi un mese da quando Momo, una strana creatura senza memoria, era salita sulla Moby, stravolgendo completamente la vita dell’intera ciurma. Tutti ormai, parlando e facendo correre la voce sull’immensa imbarcazione riguardo sua indole, ben lungi dalla definizione di coraggiosa, e del suo aspetto dall’apparenza fragile, avevano cominciato ad adorarla, forse anche per merito di un certo istinto paterno collettivo.

Non c’era stato un solo attimo di tregua per la ragazza dacché aveva cominciato la propria vita su quella immensa imbarcazione: di giorno dormiva, nonostante i suoi piccoli e deboli tentativi di ribellione per scappare dalla camera prima che l’alba fosse già diventata un ricordo dell’orizzonte, di notte invece faceva di tutto per imparare quanto più poteva sia della lingua che delle proprie capacità, andando incontro però a parecchi limiti.

In particolare, durante le sue prime lezioni di volo, che il comandante della prima flotta aveva cercato di impartirle, aveva scoperto di non essere in grado di volare. Non nel vero senso della parola,almeno. Quello che riusciva a fare era più simile ad un enorme balzo a senso unico, simile a quello che aveva usato la prima volta per acchiappare la scimmia che le aveva rubato la mela.

Oltre tutto questo,Betty aveva deciso, di propria iniziativa, di affiancare il comandante Marco, contrariato non di poco, nel turno di notte con la piccola per introdurla a modo proprio nel mondo del reparto medico della nave, costringendola, nel vero senso della parola, a studiare i meccanismi di ogni tipo di organo vitale e non, presente nel corpo umano.

Momo rimaneva sempre shockata dopo le lezioni della infermiera occhialuta, arrivando a lasciarsi abbracciare da Monster, la scimmia perduta della ciurma del Rosso, per ore, bofonchiando qualcosa al vento notturno con tono amareggiato e mezzo disperato, attirando così le attenzioni preoccupate dei cinque comandanti che, bene o male, erano quelli che passavano più tempo con lei.

Quando la scimmia non saltava loro addosso per allontanarli dalla ragazza, ovvio.

Satch era stato fino a quel momento la vittima preferita di quel primate combina guai, che, da quando una chiamata al lumacofono del babbo ne aveva sentenziato la sua appartenenza all’odiata ciurma rivale, aveva rischiato più volte di essere buttata a mare, se non fosse sempre stato per il tempestivo intervento di Momo che la prima volta, a rischio di finire in acqua, si era appesa a testa in giù per le sartie della nave con una sola caviglia a reggere il suo peso, acchiappando in extremis l’animale che da allora l’aveva eletta come sua padroncina.

E il viso graffiato di Satch ne sapeva qualcosa.

 Erano stati comunque grandi i progressi che la Paradisea aveva compiuto in quel breve lasso di tempo, impegnandosi a memorizzare perfettamente ogni frase dettale da ogni componente della ciurma, Marco ed Ace inclusi. Il livello di Momo era salito di tantissimo, certo, c’erano dei modi di dire che le rimanevano ancora oscuri, ma era comunque sufficiente a renderle possibile una conversazione in piena regola con chiunque ed ad impedire definitivamente ad Ace e Marco di dire più di mezza frase che lei non capisse.

E visto che di solito loro si punzecchiavano proprio a causa sua, era sempre più difficile parlare senza che Momo intuisse qualcosa circa il vero stato delle cose. Strano ma vero, nessuno dei due si era fatto avanti e sulla nave non si parlava d’altro. Quei due non avevano fatto altro che “accumulare punti”, se così si poteva dire, arrivando però ad una situazione di assoluta parità.

Satch sospirò, poggiando pesantemente una delle ultime botti sul ponte, come Penelope gli aveva chiesto gentilmente. Sorrise inconsciamente al ricordo del visino dolce dell’infermiera bionda.

“Eh, vecchia volpe..”si disse massaggiandosi una spalla con un sorriso sghembo in faccia “… mi sa che ti stai innamorando di nuovo.”

Innamorando di chi, Satch-san?

Il comandante della quarta flotta quasi fece un volo alto tre metri nel sentire una voce proprio alle sue spalle, voltandosi poi con una mano puntata sul cuore nel tentativo di calmarlo. Davanti a lui Momo lo guardava stranita, come se non desse molta importanza al fatto di averlo appena colto di sorpresa, spaventandolo. Un sopracciglio della ragazza era scattato all’insù, vedendo l’altro lanciare un sospiro di sollievo nel constatare che ad averlo sentito era stata solo lei e non qualcun altro.

“Scricciolo!” esclamò con mezzo tono di rimprovero il biondo “Non dovresti apparire così all’improvviso.” La ragazza sbuffò contrariata, vedendo che l’altro aveva evitato di risponderle.

Scusi,Satch-san, ma di cosa stava parlando?”sorvolò l’altra con una rapida scusa, lasciandolo perplesso e con una domanda scomoda alla quale rispondere. Satch doveva ammetterlo, la ragazza aveva fatto veramente passi da gigante. Bhe, la pronuncia era sempre articolata al canto, ma ormai i verbi ed il modo di comporre le frasi sembravano non avere più segreti per lei.  Si grattò la testa, ah, quanto avrebbe preferito che non avesse imparato così bene la loro lingua. Colpa di Marco e delle sue lezioni: ora chi lo toglieva da quella situazione?

“Mi dispiace scricciolo, te lo spiegherò più avanti.” Tentò di defilarsi, voltandosi da una parte ma solo per vedersi apparire davanti, in un lasso di tempo simile ad uno schiocco di dita, la ragazza con le mani avanti e gli occhi sbarrati, mostrandosi in un evidente stato di agitazione.

Un momento!”

Uao…- pensò, sudando una gocciolina fredda sulla tempia, sbalordito da quella capacità che aveva visto pochissime volte – ha imparato in fretta ad usare quella roba. Ammise a se stesso, concentrandosi poi su quello che la ragazza stava tentando di dirle, con qualche balbettio provocato certamente dalla confusione.  Da quando era salita sulla Moby aveva acquisito un po’ di autocontrollo e coraggio, ma il più delle volte preferiva defilarsi dalle brutte situazioni piuttosto che affrontarle di petto. Certo che era un po’ strano che il babbo avesse voluto adottare una creatura così chiaramente inadatta al combattimento, visto comunque il loro tipo di ambiente.

La ragazza sospirò abbassando sguardo e testa per darsi una calmata, mettendo insieme bene le parole prima dopo essersi rilassata. Persino le fiamme che le ricoprivano i capelli si ritirarono di poco, sottolineando il suo precedente stato  d’animo.

Il biondo alzò un sopracciglio, preoccupato da quel comportamento. Ormai aveva imparato a capire le sue emozioni anche in base all’atteggiamento del suo fuoco. C’era da dire che lui e lo scricciolo erano diventati parecchio affiatati a lungo andare, a causa delle sue continue intromissioni durante gli impacciati tentativi di corteggiamento che Ace e Marco avevano nei suoi confronti. Il prezzo da pagare erano stati un bel po’ di bernoccoli tra i suoi capelli, prontamente aggiustati da una passata di brillantina, ma si poteva dire che Momo gli aveva dato parecchia fiducia, nonostante il suo istinto a volte la facesse insospettire, intuendo che le nascondesse qualcosa.

Ace è svenuto di nuovo.” Concluse un po’ amareggiata, guardandolo con occhi mortificati da cucciolo bastonato. A Satch venne da sorridere intenerito: Momo aveva passato parecchio tempo con il capitano della seconda flotta negli ultimi tempi, ma non si era ancora abituata ai continui attacchi narcolettici del moro, andando nel pallone tutte le volte che lo vedeva piombare nel mondo dei sogni. La prima volta che si era addormentato di fronte a lei si era messa a gridare ed a piangere disperata, allarmando l’intera nave che però, vedendo la situazione creatasi, si era messa a ridere, confondendo ancora di più la ragazza, che capì di aver fatto una pessima figura solo quando Ace, risvegliatosi, le sorrise a nemmeno 5 centimetri dal viso.

Inutile dire che il moro si ritrovò con un piccolo bernoccolo in testa e che Momo si rintanò sulla ringhiera della piazzola interna alla nave, abbracciando Monster per scoraggiare chiunque dall’avvicinarsi a lei.

“Ok scricciolo.” disse capendo in pieno la tacita richiesta di aiuto della paradisea. Ultimamente Ace non faceva che addormentarsi nei posti più disparati e a volte Momo, quando non riusciva a trascinarlo da sola in una posizione o un luogo più adatto ad una dormitina, veniva da lui in cerca di un paio di braccia in più. La ragazza si chinò in avanti in segno di gratitudine, cominciando a camminare verso una direzione ben precisa.

Grazie infinite Satch-san, ma, mentre andiamo mi può dire cos’è uno scricciolo? È da quando sono salita sulla nave che non fa che chiamarmi così.

Bhe…” cincischiò ancora una volta il biondo, grattandosi il lato della testa guardandola: cambiava argomento con una facilità e naturalezza disarmante. Era chiaro che fosse diventata un po’ più sicura di sé: gli insegnamenti di Betty, uniti ai confronti continui con Mindy, la loro sarta, dovevano averle rafforzato un po’ i nervi.

 Non avrebbe mai pensato che quella creaturina all’apparenza indifesa si sarebbe messa a contrattare la forma dei propri abiti. Mindy non era affatto contenta di non poter confezionare vestiti a modo proprio, ma a quanto pareva Momo rifiutava qualsiasi cosa che implicasse termini come rosa e scollato, e alla fine la loro povera infermiera esperta in suture e rammendi, si vedeva costretta a sistemare le sue creazioni aggiungendo un colletto dove prima stava una “bellissima scollatura a v” o trasformando una gonna in un pantaloncino. Satch però doveva ammettere che dopo le dovute modifiche i vestiti di Momo diventavano più fantasiosi, mantenendo sempre quella punta di semplicità che la caratterizzava. Non che la camicetta a quadri azzurra e il paio di pantaloni neri a pinocchietto che indossava in quel momento facessero molto, ma addosso a lei davano proprio una bella impressione: il giusto equilibrio tra praticità e stile.

 “Uno scricciolo…” si diede una svegliata per cercare di non far attendere troppo la ragazza. Si grattò un altro paio di volte la testa, per poi sorridere bonario come solo lui, su tutta la nave, sapeva fare “… è un uccellino piccolo e carino che saltella continuamente.”

Satch stava quasi per piegarsi in due dal ridere vedendo l’espressione sbalordita della ragazza avvampare di imbarazzo.

Satch-san!

“Oh, andiamo scricciolo! Io lo trovo molto carino come soprannome!” rise l’altro accelerando il passo per riuscire a starle dietro.

 

Atto 11, scena 1

La scena che gli si presentò non fu delle più serie. Satch era indeciso se stramazzare al suolo, piegandosi in due dalle risate, o risparmiare a Momo l’imbarazzo e fuggire dall’altra parte della Moby per dar sfogo alla propria ilarità.

Oh, ma perché prima di diventare pirata non aveva rimediato uno di quegli aggeggi d’invenzione del governo chiamati macchina fotografica? In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per averne una sottomano. A parte la sua brillantina, eh.

Come…” disse cercando di non scoppiare a ridere, vedendo il viso della ragazza assumere una tonalità più rossa del normale “Come ha fatto a…?”

È caduto dalla vedetta.” Rispose bofonchiando Momo, vergognandosi fino alla punta delle proprie fiamme per la figura che stava facendo Ace.

Il capitano della quarta flotta però la guardò stupito, con capendo bene come il fratello fosse riuscito a finire in quella posizione assurda, cadendo solamente dalla vedetta.

E…?”

Momo se possibile continuò ad avvampare, diventando ancor più rossa.

Ho cercato di acchiapparlo…” bofonchiò la ragazza abbassando la testa man mano che parlava “… ma l’ho mancato, spingendolo addirittura verso quelle corde… ” alzò un dito tremante verso una delle corde tese che collegavano la vela di supporto all’albero maestro.

Non poteva crederci.

È rimbalzato…

Una cosa così accadeva una volta su mille.

“… e si è attorcigliato con quelle corde.” Terminò con la voce oramai ridotta ad un filo.

Sopra le loro teste Ace ancora ronfava alla grande con il cappello che, appeso alla propria giugulare grazie alla cordicella attaccata, subiva il suo stesso dondolamento provocato dalla posizione tutt’altro che naturale. Era praticamente in bilico su due corde che, attorcigliandosi un po’ attorno alle gambe un po’ ai gomiti, lo avevano bloccato a testa ingiù, lasciando in lui ben poco di quella dignità che si portava dietro ogni giorno.

E a quel punto Satch non riuscì più a trattenersi, optando a malincuore per la prima opzione.

Non c’è niente da ridere! Non posso tirarlo giù da lì da sola!” protestò stringendo poi le mani a pugno e stringendo le labbra per la stizza.

Il biondo però non ce la faceva, rimaneva bloccato a terra con una mano sulla fronte e l’altra sullo stomaco, impossibilitato dall’articolare qualsiasi tipo di frase coerente.

Dai Satch! Mi devi dare una mano!” implorò alla fine Momo, scuotendolo per le spalle.

Scricciolo… ” riuscì a dire rimettendosi faticosamente in piedi “… veramente io non sarei la persona più adatta a cui chiedere.”

Momo sbuffò incrociando le braccia e guardando dall’altra parte, offesa da quella osservazione.

L’avevo notato.”

“Andiamo scricciolo. Io sono messo peggio di te. Tu sai saltare fino a lì, io invece posso solo provare ad arrampicarmi e cercare di tagliare le corde per liberarlo, ma danneggerei la nave e poi tu dovresti prenderlo al volo.”

Il ragionamento, forse troppo lungo, lasciò Momo un tantino perplessa, ammutolendola per qualche istante, dando così il tempo a Satch di esporre meglio le proprie ragioni.

“Magari Jaws ci può dare una man-..”

NO!” esclamò con un mezzo urlo la ragazza, bloccando le parole dell’altro sul nascere, scuotendo freneticamente mani e testa in segno di negazione “Non voglio chiedere a Jaws.” Spiegò semplicemente, sperando di non dover dare ulteriori chiarimenti, ma il comandante in quarta distinse chiaramente  una lacrimuccia fare capolino da un angolo del suo occhio sinistro.

 Si ritrovò a sorridere intenerito di fronte alla realtà dei fatti.

“Hai ancora paura di Jaws?” fu la domanda retorica dell’altro che, non appena l’ebbe pronunciata, vide le fiamme della paradisea strepitare con più forza, quasi rizzarsi a causa di un brivido incontrollato.

No! N-non è vero. ” balbettò, ma un sopracciglio inarcato, accompagnato da un sorriso di chi ha ormai capito tutto, la fece ritornare sulle proprie parole “Bhe…” si corresse, tormentandosi le mani “… forse un pochino.

Rimase così a testa china per un bel po’, quasi raggomitolata tra le proprie spalle nel tentativo di nascondere il proprio disagio. Non era questione di avere paura di una persona o meno, Satch l’aveva intuito, c’era qualcosa di più sotto. Momo poteva anche aver stretto una certa amicizia con lui Ace e Marco, ma con gli altri, tranne che con il babbo, sembrava non voler proprio sciogliersi. La cosa forse poteva apparire normale detta così alla leggera, ma per il comandante della quarta flotta aveva coltivato quel dubbio giorno dopo giorno, vedendo come la ragazza rifuggiva terrorizzata qualsiasi tipo di presenza al di fuori di loro tre.

La cosa era parsa più evidente con Jaws che, anche se non lo dava a vedere, un po’ ci soffriva per essere l’unico a non riuscire ad avvicinarsi entro una distanza di dieci metri alla piccola senza metterla in allerta. Se poi tornava indietro con la mente,in effetti Momo aveva mostrato di temere la presenza del loro caro musone, ma non aveva mai cercato di defilarsi o evitarlo, almeno le prime volte. Che cosa le aveva fatto cambiare atteggiamento? Jaws non le aveva fatto nulla di male.

 No,- concluse Satch – qui c’è qualcosa di più sotto.

“Scricciolo.” La chiamò con tono piatto, dopo averci pensato un po’, camminando verso la piazzuola, per poi sedersi sopra la ringhiera ed invitarla a fare altrettanto, picchiettando sulla trave con una mano.

Momo non disse nulla, stupita da quel gesto, ma si limitò a sedersi accanto al biondo, guardandolo si sottecchi. Si sentiva come una bambina alla quale stavano per fare la predica.

“Hai ricordato qualcosa?”

Quella domanda la disarmò completamente.

 Nessuno, da quando quell’uomo dai capelli rossi aveva causato lo spiacevole incontro tra lei ed il suo ex-aguzzino, si era mai degnato di chiederle se avesse ricordato qualcosa. D’altra parte era passato parecchio tempo da quando la sua mente le aveva restituito qualche immagine riguardante i suoi ipotetici compagni di viaggio dai quali era stata divisa, rinchiusa in quell’inferno galleggiante che, aveva scoperto dopo, era una nave di schiavi.

Ci pensò intensamente, portandosi le gambe al petto: non aveva avuto modo di pensare ai suoi ricordi, né alla propria vita precedente. Il tempo era trascorso così in fetta da riempirle le giornate, impedendole di pensare ad altro se non alle poche e gravi preoccupazioni che aveva accumulato dal giorno in cui quella strana ombra gigante e ghignante aveva cercato di strangolarla.

Rabbrividì al solo pensiero. Buffo, non ricordava nulla di quello che aveva sentito dire da quel mostro nascosto nel buio, ma nella sua mente era rimasta scolpita un solo suono, indelebile ed inquietante come il sentore di una lama che strisciava lungo la pelle con la punta, vezzeggiandola pronta ad affondare in essa in qualsiasi momento.

Zehahaha

Quell’orrenda vibrazione l’aveva accompagnata continuamente, persino durante le ore in cui lei, distesa sul lettino dell’infermeria, avrebbe dovuto dormire, le aveva impedito il più delle volte di fare dei sogni che non implicassero il ricordo di quella notte. Ancora non riusciva a capacitarsi cosa fosse stata quella cosa che l’aveva attaccata, mettendo in allarme quella specie di suo sesto senso che non si era fatto più sentire.

Poteva dire di sentirsi al sicuro in mezzo ad Ace, Marco e gli altri, ma era sempre attorniata da qualcosa che le impediva di sciogliersi completamente. Si sentiva una preda. Ecco, proprio una preda. Scrutata dall’alto da un predatore spietato e pronto a ghermirla con i propri artigli.

Come poteva rilassarsi in quelle condizioni? Avrebbe anche potuto spiegare la situazione ad il capitano, ora che sapeva la lingua, ma cosa gli avrebbe detto? Che uno dei suoi musuko, come li chiamava lui, aveva cercato di ucciderla e che per questo non riusciva a fidarsi di nessuno a parte Marco, Ace e Satch?

Lei non faceva nemmeno parte della ciurma. Che diritto poteva avere per lanciare accuse a vuoto?

“Scricciolo?”

La voce di Satch la richiamò, facendola riemergere dal freddo provocato dalle sue stesse incertezze.

Si affrettò a rispondere alla sua domanda.

Poco.” Disse, stringendo un po’ di più le ginocchia “Quando quell’uomo mi ha ……

 “Aggredito?” l’aiutò nella scelta delle parole il biondo. Momo annuì, sperando che quella parentesi terminasse lì.

“Che cosa precisamente?”

Gli occhi luminosi della paradisea si abbassarono ancora di più, e le sue braccia si ricoprirono a poco a poco di nuove fiamme gialle, circondandola in un abbraccio protettivo. Satch conosceva quella reazione: Momo faceva sempre così quando si sentiva a disagio e sospettava che quel modo di reagire fosse una sorta di tentativo di difendersi da qualcosa. La stessa cosa che le impediva di legare con gli altri membri della ciurma.

Un’isola con dei tetti blu…” sussurrò tesa la ragazza,trovando facile citare l’unica cosa che le era stato concesso di ricordare.

“La tua isola?” azzardò Satch.

No…” scosse la testa Momo “… non sapevo nulla di quelle persone.

“Eri su un’isola a te estranea, quindi.”

Momo annuì.

“Eri da sola?”

No.” Rispose subito “… c’erano altre due persone con me,… forse.

“Forse?”

La seconda persona non l’ho vista.” Spiegò immediatamente Momo, notando la confusione nella voce dell’amico “Ma… credo fossero un maschio e una femmina.

“Un ragazzo e una ragazza.” La corresse il biondo, ricevendo un segno di assenso da parte dell’altra. Non era ancora abituata ad usare parole specifiche.

“Nient’altro?” fu l’ennesima domanda del comandante, che ancora si stava scervellando su cosa stesse tormentando la sua piccola amica.

Il ragazzo è stato … catturato e io e Viola, la ragazza, siamo andate a liberarlo.” Continuò l’altra, ansiosa di finire il discorso “Ma sono stata catturata al posto suo.”

“E sei finita sulla nave di schiavi.” Concluse al posto suo Satch, capendo bene il collegamento che aveva avuto il riaffiorare di quel ricordo con l’apparizione di quell’ex-schiavista. Fu il silenzio poi a regnare tra di loro, interrotto ritmicamente dal sottile russare di Ace, ancora appeso sopra le loro teste.

“E non hai avuto alcun tipo di ricordo da allora?”

Satch sapeva di stare camminando sul filo del rasoio, il silenzio di Momo glielo provò, facendo crepitare le fiamme di lei in un ritmo più inquieto del solito.

Satch.” Lo chiamò Momo, alzando leggermente la testa, affondata poco prima tra e braccia incrociate. Il comandante dal pizzetto vide i suoi occhi tremolare sotto la spinta di qualcosa che, sospettò essere delle lacrime “Ho paura.”

La ragazza si stupì di sentire qualcosa attirarla verso la propria destra, circondandole le spalle e facendole incontrare con la nuca il petto dell’altro. Satch la stava abbracciando, noncurante come non mai della presenza del fuoco giallo dei suoi capelli che zampillava a pochi centimetri dalla sua barba. Momo sbarrò gli occhi e sentì una sensazione di vergogna salirle al petto.

Ma perché..? –pensò sentendo nuovamente il pianto pungerle gli occhi – perché siete tutti così gentili con me?

“È naturale avere paura, scricciolo.” Sussurrò rassicurante, mentre sentiva le dita sottili della ragazza aggrapparsi disperatamente alla sua camicia dando finalmente sfogo al proprio dolore, portato avanti per giorni e giorni dietro sorrisi rassicuranti ed occhiate smarrite.

Se Ace e Marco mi vedessero adesso… - pensò il biondo avvertendo già la violenza di un paio di pugni scolpirgli senza pietà i due soliti bernoccoli – come minimo mi fanno secco.

“Cosa sta succedendo qui?”

Satch giurò che lassù qualcuno doveva volerlo morto sul serio. Marco lo stava scrutando con uno sguardo che, se avesse voluto, avrebbe incenerito un’isola intera. Le iridi azzurre del fratello passarono da lui, o meglio il suo braccio sopra le spalle di Momo, alla ragazza, accalcata sul suo petto ed Ace, ancora perso nel mondo dei sogni.

“Posso spiegare.” Fu tutto quello che riuscì a dire il comandante in quarta, alzando una mano fermando sul nascere qualsiasi giudizio dell’altro nei propri confronti.

 

Atto 11, scena 2

“Tutto bene, scricciolo?” gridò Satch dal basso, guardando Momo venire trattenuta a mezz’aria dal becco di Marco per il colletto della camicetta, mentre lei faceva del proprio meglio per districare Ace dalle corde della nave.

Tutto bene, Satch-san!” esclamò di rimando la ragazza, facendo del proprio meglio per non pensare all’assurdità della situazione. Dietro di lei Marco,trasformato in fenice, la sorreggeva, tenendosi ben lontano dalle funi che trattenevano il fratello sospeso, onde evitare di danneggiarle con le proprie piume roventi e causare così una violenta caduta del comandante della seconda flotta.

Momo stava facendo del proprio meglio per liberare a poco a poco Ace, pronta ad afferrarlo e portarlo delicatamente a terra come avevano pianificato lei ed il biondo dietro di lei. Satch intanto guardava il tutto dal ponte, pronto ad intervenire nel caso Ace, invece di essere accompagnato verso il basso, fosse piombato giù come una pera cotta.

Mi dispiace Marco-san. Ho quasi finito.” Disse corrucciandosi a causa di tutta la concentrazione che stava mettendo per districare l’amico senza danni.  Si stupì di sentire la voce dell’altro risuonare dietro di lei, nonostante il becco fosse ben fermo e quasi le sfuggì una delle corde dalle mani per via del sussulto che l’aveva colta per lo spavento.

“Tranquilla.” Disse la voce placida della Fenice “Sei molto leggera.”

Ma-ma-ma-ma riesci a parlare?!” esclamò dopo aver preso di nuovo possesso delle corde, cercando di guardare l’altro al di sopra della propria spalla.

“A quanto pare.” Rispose Marco sorridendo interiormente per via della vicinanza di cui poteva godere in quel momento. Attraverso le narici riusciva a percepire il sottile profumo proveniente dal retro del suo collo, leggero e rilassante.

Certo che tu ed Ace siete strani…” fu il sussurro che lo riscosse da quei pensieri poco convenienti alla situazione.

“In che senso?”

Tu sei un volatile infuocato…

“Fenice.” La corresse divertito, facendole scuotere la testa irritata per essere stata corretta ancora una volta.

… ed Ace è fatto di fuoco.

“Tu sei ricoperta da fiamme su braccia e capelli.” Fece notare l’altro, osservando nel frattempo il lavoro della ragazza: ormai erano poche le corde da disincastrare prima che si potesse passare all’ultima fase del recupero.

Lo so…” bofonchiò l paradisea, toccata sul vivo “… è che… non so … mi sembra strano.” Concluse con un lieve rossore in viso. “Oh, ho finito.” Disse poi, accorgendosi di quanto le mancasse prima di prendere il moro per le spalle. Marco non era molto contento: non aveva mai avuto la possibilità di parlare così tanto con Momo, a causa delle continue interruzioni di Satch, Betty ed Ace. I sottili occhi rapaci della Fenice ebbero un fremito: mancavano pochi giorni all’avvistamento della Red Line e la ragazza era migliorata di molto, stando in mezzo a tutti loro.

Ma non era abbastanza. Inari Fountain sarebbe stato meno clemente con lei, se ad allenarla…

Possiamo scendere, Marco-san.” Lo avvertì Momo, mentre teneva ben salda le spalle di Ace e lui cominciò a planare di conseguenza.

“Bentornati.” Gli salutò ridendo Satch con le mani sui fianchi. Marco si ritramutò nella propria forma umana e, proprio mentre Momo poggiava delicatamente il moro sulla ringhiera della piazzuola del ponte, questo sbarrò inavvertitamente gli occhi, risvegliandosi con la ragazza a pochi centimetri dal proprio viso.

Momo sbattè un paio di volte le lunghe ciglia, prima di vedere sul volto, dapprima stupito, dell’altro comparire un sorriso sghembo ed una mano premerle sulla nuca avvicinandola ancora di più a lui.

“Mi sa che sto ancora sognando.” Fu tutto quello che riuscì a dire prima che Marco, con un calcione, lo facesse rotolare via da Momo.

Tra i capelli del biondo era comparsa una vena irritata e le mani erano costrette davanti al petto, per evitare che infierissero sull’altro.

Satch si grattò il retro della testa, ridacchiando, accostandosi poi a Momo, un po’ rossa in viso per quello che era appena successo.

“Bentornato dal mondo dei sogni, Ace… disse.

“Sei un idiota.” Aggiunse Marco.

 

Atto 11, scena 3

Mi stai dicendo che piaccio a Marco ed Ace??” chiese scandalizzata la ragazza, inseguendo per il corridoio della nave Satch, più che mai desideroso di tornarsene a letto, dopo quando successo. In effetti era ora che la piccola se ne accorgesse, ma non si sarebbe mai aspettato che la parte delle spiegazioni sarebbe toccata a lui.

Bhe…” cincischiò un po’prima di vuotare definitivamente il sacco “… sì.”

Momo gli comparì davanti veloce come un lampo, sbarrandogli la strada, fulminandolo con uno sguardo accusatorio.

E da quando?!  

Bhe…

No, aspetta. Non voglio saperlo. Da quando tu lo sapevi?!” riformulò la domanda con le fiamme che ormai zampillavano nervose.

“Ehm, da un po’?” rispose il biondo sudando freddo. Qualcosa gli diceva di non voler vedere lo scricciolo arrabbiarsi seriamente. Specialmente non con lui.

E non me lo hai detto???!!!” sbottò incredula e furiosa al tempo stesso la ragazza stringendo a pugno le mani, le cui fiamme stavano a poco a poco assumendo un inquietante colore biancastro.

“Scricciolo, non prenderla così male.” Tentò di calmarla il comandante, indietreggiando di un passo con le mani in avanti. Momo si fermò un istante, serrando così tanto le labbra da farle quasi scomparire, e per un attimo Satch credette di essere riuscito a frenarla, ma si dovette ricredere quando vide un paio di lacrime rigarle le guance.

Immagino che vi siete divertiti a ridermi dietro… la schiena!” esplose la paradisea, lasciando l’altro basito, essendosi aspettato di tutto tranne un’accusa così pesante. Non fece in tempo a replicare che già l’altra era fuggita dalla parte opposta , impedendogli così di negare.

Già, ma negare cosa?

Solo in quel momento si rese conto di quanto lui, e tutti gli altri, fossero stati ingiusti nei confronti di Momo, tenendola volutamente all’oscuro dei fatti per semplice convenienza personale.

E si sentì un verme.

 

Atto 11, scena 4, Arioso della rondine sdegnata

 Ero arrabbiatissima. Non mi ero mai sentita così tradita in tutta la mia vita, ne ero certa. Correvo disperatamente tra i corridoi vuoti della nave, dirigendomi  sicura verso la stanza del capitano. Non mi importava che a quell’ora dormisse o meno. Io non ne potevo più. Dovevo chiarire le cose e se per farlo mi sarei dovuta mettere ad alzare la voce con quel gigante dall’aspetto minaccioso, poco male.

Scontrai contro qualcosa, o meglio qualcuno, ma non mi fermai e, anche se vidi con la cosa dell’occhio una bocca sdentata, oscenamente spalancata per lo stupore, continuai la mia corsa.

Ancora oggi mi chiedo cosa sarebbe successo, se mi fossi fermata.

 

Atto 11, scena 5

Marshall D. Teach si sarebbe aspettato di tutto, tranne vedere la sua gallina dalle uova d’oro scorrazzare di notte dalle sue stesse parti. Da quanto tra lei e quella streghetta c’era stata quella piccola parentesi che gli aveva procurato un’ustione sul braccio, aveva preso le dovute precauzioni, cambiando zona e bazzicando il meno possibile di notte dalle parti del ponte e della mensa, specie nell’ora di cena, quando la ragazza usciva dal letto per la “colazione”.

All’inizio aveva pensato ad un vero e prorio colpo di fortuna, ma l’intuire la sua meta congelò in lui ogni oscuro proposito. C’era solo una cosa da raggiungere, procedendo sempre dritto per quel corridoio. Digrignò gli ultimi denti rimastigli, maledicendo la sua sfortuna e il suo dannatissimo libricino che non gli stava dando niente se non cattive notizie.

Era stato settimane intere sulla prima metà di foglietti presenti nel volumetto e quello che aveva trovato era solo una misera ed incoerente frase scritta di suo pugno, certamente copiata parola per parola da una delle sue tante fonti cartacee.

“Non cedono la loro Essenza a nessuno, a meno che non lo vogliano o si vedano sopraffare da un potere più grande.”

L’Essenza sapeva bene cosa fosse, oh eccome, ma da quel che aveva capito non sarebbe stato uno scherzo costringerla a cedergliela. Gli serviva un “potere più grande” e lui già sapeva quale fosse. Era esattamente al secondo posto, almeno da quando aveva riconosciuto in quella signorina la fonte di un altro di egual misura.

Sghignazzò continuando per la propria strada. Ancora una volta avrebbe dovuto cambiare progetti, ma era un tipo paziente.

Avrebbe aspettato.

 

Atto 11, scena 6

 Il vedere la figura massiccia del capitano torreggiare in mezzo alla stanza, scrutandola silenziosamente, per un istante le fece perdere di colpo tutto il coraggio che aveva accumulato nel tragitto.

Cosa le era saltato in mente? Piombare in piena notte nella stanza del capitano, costringerlo a concederle un colloquio e poi? Fargli la predica?

Sembrava quasi una barzelletta.

“Volevi parlarmi, musume?” chiese la cavernosa voce dell’uomo.

Momo annuì, facendo un paio di passi in avanti con la testa china. Le guance presentavano su di esse la scia secca delle lacrime che aveva versato.

“Sì.”

Riuscì a dire.

Alzò lo sguardo incontrando con un po’ di apprensione nel cuore il volto solcato di rughe del capitano. Attorno a lui ed alla sua immensa sedia, tanti fili attaccati al suo petto con degli aghi rendevano la sua stazza ancora più spaventosa.

Deglutì. Non sarebbe stato facile, ma l’avrebbe fatto. Era una questione di rispetto. E lei il rispetto non l’aveva dato per poi vedersi umiliata.

Fine Atto Undicesimo

Firulì Firulà! Che fatica! -.- Accidenti che lavorone. Poi tra esami fantasma e quant’altro non sapevo più dove girarmi! Belle signorine sono tornata! ^^ Salti temporali inclusi e, spero, meno prevedibilità! In questo capitolo non ci sono tante traduzioni. Giuste due paroline. Adesso che Momo ha migliorato un po’ il proprio livello di conoscenza del giapponese posso cominciare a sveltirmi un po’.

Le domande non si sono quindi l’opzione di questo capitolo è:

1)      Suggerimenti liberi

Oh, e con questo posso rimboccarmi finalmente le maniche su Nanaban e i miei prossimi 3 esami! Arrivoooo!! Ci sentiamo presto ragazzuole! E mi scuso per il ritardo! ^_^ KISS!

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

musuko > figlio/figli

musume > figlia

 

 

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Capitolo 14
*** Atto 12 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 12

Atto 12, scena 1

“E dunque cosa volevi dirmi?” chiese interessato Barbabianca guardando dinanzi a se la sua novella musume cincischiare su quello che doveva dire, torturandosi con un certo nervosismo le dita mentre cercava di racimolare le parole giuste. Per un attimo si preoccupò seriamente di averle messo addosso troppa pressione, conscio di quanto il suo aspetto contribuisse ad agitarla, ma poi la vide irrigidirsi e con un sospiro, spalancare gli occhi brillanti in sua direzione.

Nelle mente del Bianco per un breve momento fecero eco le parole del Rosso: un diamante allo stato grezzo. E nonostante gli costasse ammetterlo a se stesso, era inevitabile dire che la definizione le calzava chiaramente a pennello.

Perché nessuno mi ha detto che piaccio ad Ace e a Marco?

La crudezza con la quale era stata pronunciata quella domanda fece strabuzzare l’Imperatore, preso alla sprovvista dall’assoluta mancanza di peli sulla lingua da parte della ragazza, poi le labbra semi nascoste degli enormi baffoni a mezzaluna si tesero in un sorriso mezzo divertito e mezzo orgoglioso.  Vedere quella piccolina tirare fuori gli artigli gli dava una soddisfazione immensa. Per uno come lui, che considerava ogni singolo componente della propria nave come un figlio di sangue, vedere quella pargoletta tirare fuori la grinta era come assistere ai suoi primi passi, essendo quella, nel mondo della pirateria, essenziale quanto lo stesso respirare.

Ma non aveva tempo per pensarci. Gli occhi abbagliati di Momo lo puntavano accigliati e per nulla contenti della sua prima reazione.

Perché?ripetè con tono spazientito, incrociando le braccia luminose al petto.

Il tono stranamente amaro con il quale aveva parlato gli fece alzare un sopracciglio e tornare ad una espressione più seria.

“C’è forse qualcosa i grave nel non averlo saputo prima?” domandò il capitano non capendo bene dove fosse il problema.

Ovvio!!” sbottò la paradisea pestando un piede un avanti per la rabbia “Ace ha cercato di.. di…!!” cincischiò sull’ultima parola indicandosi con impazienza le labbra, non conoscendo la parola esatta per indicare l’atto in sé di cui si era stata quasi vittima. Grugnì spazientita emettendo un lungo suono sofferente ed intonato, così come era il resto delle proprie parole.

Dall’alto del proprio seggio l’Imperatore  intanto si immaginava la scena, lottando contro il suo stesso sorriso per non far arrabbiare ancora di più la ragazza. Un’azione audace quella del figlio, anche se, doveva ammetterlo, troppo prematura.

“Deduco che la cosa ti ha dato fastidio.” Constatò, provocando l’imporporarsi delle guance di Momo che subito abbassò la testa.

Io..” disse quasi in un sussurro per poi scrollarsi immediatamente la testa, capendo di star quasi perdendo il filo del discorso.

Non è questo il punto!” sbottò abbassando poi lo sguardo.

Io…” mormorò stringendosi la testa nelle spalle e mordicchiandosi lievemente il labbro inferiore. Si vedeva lontano un miglio che era un fascio di nervi e questo non fece che preoccupare ulteriormente il capitano. Quest’ultimo stava appunto per dire qualcosa prima che la ragazza riprendesse improvvisamente a parlare bloccando le sue parole sul nascere.

Io vi sono grata per avermi salvato la vita…” disse con calma la paradisea con l’ombra dei capelli ad oscurarle il viso “… ,ma, quando ho saputo che Satch e voi mi avevate tenuto all’oscuro di questo…” continuò provocando sul viso del capitano il formarsi di un’espressione stupita.

…mi sono sentita come tradita.

Una goccia brillante si infranse con un ticchettio sordo sul legno del pavimento e solo in quel momento  Edward Newgate, colosso più vicino di chiunque altro a riscattare il trono di regnante indiscusso dei 4 mari, si accorse di avere di fronte un ostacolo ben peggiore di un Re dei Mari affamato.

Momo, sotto un certo aspetto la più giovane tra i suoi figli, stava piangendo di fronte a lui, affermando con disperata sincerità di essersi sentita ferita dalla sua nuova famiglia, forse più profondamente del normale.

Una mano avvolta da gialle fiamme scattò verso il gli occhi umidi per asciugarli velocemente da quelle imbarazzanti gocce salate, ma solo per dare via libera ad altre più veloci e pesanti.

“Hai perso fiducia nei tuoi kyodai?”

I singhiozzi di Momo si ruppero sorpresi nel sentire la voce pesante del capitano intervenire con tono inaspettatamente vellutato. Le ci volle un po’ per realizzare quello che le aveva appena chiesto e scrollare velocemente la testa in segno di negazione. Non voleva dire che non si fidava più di nessuno sulla Moby: era arrabbiata certo, ma non così tanto da arrivare ad un punto di non ritorno.

No… ” rispose debolmente, provocando nel vecchio capitano un mezzo sospiro di sollievo “…, ma non posso sopportare di essere stata lasciata in disparte su questa cosa.” aggiunse velocemente “…  mi riguarda troppo da vicino.”

Gli occhi di Momo tornarono ad affrontarlo esprimendo con essi una totale ed infelice convinzione su ciò che stava per dire .

“So di non fare parte dei suoi musuko, ma io vorrei davvero potermi fidare di voi.”

Quelle parole, sussurrate quasi con vergogna, ebbero il potere di far sussultare il cuore del grande imperatore Bianco, portandolo a sciogliere appena il suo viso, indurito dall’età, in una espressione dispiaciuta. La bambina ancora non aveva capito di essere ormai diventata parte dei suoi figli o forse sentiva di non esserlo totalmente. E questo lo rendeva davvero triste.

Seguito dal tintinnio delle proprie flebo, Newgate si protese in avanti, spaventando di non poco Momo che, vedendolo muoversi in quel modo, si ritrasse di poco, osservando ad occhi spalancati il capitano fermarsi poco sopra di lei, in modo tale che i loro volti fossero l’uno di fronte all’altro.

“Tu sai cos’è una famiglia?”

La domanda di Barbabianca aleggiò in aria come una nuvola di fumo, lasciando la ragazza immobile e sorpresa, finché le parole non assunsero significato preciso ed ebbe modo di muovere il viso in segno di affermazione.

“I miei musuko sono la mia famiglia. Chiunque su questa nave lo è.” Precisò vedendo la piccola osservarlo rapita “Sono loro padre e li proteggo come se fossero carne della mia carne.”

Gli occhi luminosi di Momo si allargarono, capendo solo in quel momento cosa fino in quel momento le era sfuggito sul significato di quelle parole che continuamente aveva sentito pronunciare sulla nave.

Oyaji, musuko,kyodai, kozakumusume.

Rantolò capendo improvvisamente quanto si fosse sbagliata fino ad allora. Si portò le mani alla bocca, sentendosi improvvisamente un nodo alla gola stringerle dolorosamente la voce e gli occhi pungerle.

Come aveva fatto a non capirlo subito?

Davanti a lei gli occhi stanchi e severi del capitano le apparvero improvvisamente più dolci.

“Nessuno, dal momento in cui sale sulla Moby viene lasciato fuori…” continuò Newgate, guardando due fili di lacrime solcare felici le guance della figlia, infilandosi tra le sue dita sottili, quasi volendosi nascondere vergognose alla sua vista.

“… nemmeno tu. Momo.”

Io sono…” sussurrò in preda a piccoli singhiozzi la paradisea, balbetando incerta qualcosa che forse non sapeva nemmeno lei “…, ma io… sono… io… sono nessuno.” Concluse cominciando a tremare senza freni.

“Non importa chi tu sia. Siamo tutti figli del mare.” Decretò con voce profonda il capitano, asciugandole con un enorme dito una piccola parte di quelle lacrime che, goccia dopo goccia, sembravano dargli nuove ferite nel petto, diverse da quelle che, ormai raggrinzite e scurite dal sole, gli solcavano impietose i pettorali scoperti.

Momo non riuscì più a trattenersi e, spinta dal peso che il senso di colpo le opprimeva sulle spalle, sprofondò completamente con il viso nelle mani. Come aveva potuto trattare in quel modo Satch? Solo in quel momento si rendeva conto di quanto in realtà fosse stata dura con lui, incolpandolo senza pietà.

“Perché piangi, musume?” chiese l’imperatore Bianco, guardando nuovamente dall’alto la ragazza.

Oyaji” sussurrò quest’ultima, facendo gonfiare di gioia il petto del capitano, essendo la prima volta che la ragazza lo chiamava in quel modo, come una qualsiasi dei suoi figli.

Mi sono arrabbiata con Satch…” ammise Momo, senza mai riemergere dalle proprie mani “… e gli ho detto cose orribili.

Gurarararah!”

Il modo in cui la risata del capitano tuonò nella stanza fece saltare Momo sul posto, lasciandola stupefatta di fronte la reazione del tutto inaspettata del gigante. Incredibilmente, Barbabianca si era messo a ridere di fronte a lei, come se tutto quanto si fosse risolto per il meglio, alleggerendo la tensione con una semplicità sorprendente.

Ma…?” disse non sapendo come reagire di rimando.

“Allora sarà meglio che tu vada a scusarti con tuo fratello, no?” concluse con un sorriso talmente largo da essere addirittura visibile al di sotto dei suoi grandi baffoni bianchi.

Momo non trovò altro da fare che sorridere ed annuire.

 

Atto 12, scena 2

Aaaah…” sospirò affranto il comandante della quarta flotta, mentre, curvo su una delle botti del ponte, continuava ad auto commiserarsi per quello che era successo tra lui e lo scricciolo, accompagnato dai lamenti solidali degli altri due compagni che, come lui erano veramente giù di morale.

Scricciolo…” piagnucolò, venendo subito seguito da Ace.

“Siamo sulla stessa barca, Satch.” Disse il moro, senza neppure preoccuparsi di imbeccare l’altro riguardo il nomignolo che aveva affibbiato a Momo, restando calmo ad osservare tristemente le stelle sopra di loro.

“Se non fosse stato per la tua trovata geniale” intervenne Marco sopra di loro, appollaiato sulle sartie della nave, cogliendo al balzo l’occasione per ricordare ad Ace il proprio errore “… a quest’ora non saremmo qui a piangerci addosso.” Concluse il biondo.

L’altro sospirò, calandosi con vergogna il cappello sugli occhi “Lo so. Lo so. Credi che la cosa mi piaccia?” si lamentò “Avrei preferito non farglielo sapere in questo modo.” Concluse bofonchiando mentre si tirava di nuovo su la falda del cappello, appena in tempo per vedere una stella cadente attraversare sinuosa il cielo.

Le sopracciglia di Ace si inarcarono nuovamente, formando un’espressione piena di rammarico. Non era così che avrebbe voluto far sapere a Momo quello che sentiva quando la vedeva. All’inizio era stato più qualcosa di fisico, ma poi, conoscendola giorno dopo giorno, aveva cominciato a sentire verso di lei qualcosa di più. Era come se qualcosa di lei lo attirasse. Forse era il modo in cui gonfiava le guance quando si indispettiva, forse il modo in cui arrossiva quando faceva una figuraccia … o forse il semplice fatto di essere così adorabile ed infantile al tempo stesso. Finì col sorridere, attirando inevitabilmente su di sé l’attenzione degli altri due.

“Che hai da ridere?” chiese laconico Marco, sinceramente curioso di sapere cosa rendesse il fratello così allegro in un momento del genere.

“Oh nulla.” evitò abilmente la domanda, voltandosi da una parte, non riuscendo tuttavia a trattenersi dal ridacchiare, accentuando ancor di più su di sé la curiosità dei suoi fratelli che si scambiarono un’occhiata dubbiosa e per nulla convinta.

“Fammi indovinare.” Intervenne Satch, tornando a sorridere come suo solito, sollevandosi su un gomito sulla botte dove si era accasciato “Immaginavi lo scricciolo.”

Il sorriso irriverente di Ace gli rispose.

“Beccato.” Ammise Pugno di fuoco, prima che un paio di fiammelle azzurrognole e del tutto innocue gli cadessero sul fidato cappello, facendolo balzare in piedi e cominciare a salvare come meglio poteva il suo fedele compagno di viaggio.

Marco lo squadrò al di sopra delle sartie trattenendo un sorrisino

“Fai meno il porco, scemo.” Gli disse con il suo solito tono di voce serio e strascicato.

“E chi ti dice che pensavo qualcosa si sconcio?” ribatté il moro non appena ebbe allontanato dal proprio copricapo ogni singola scintilla giallastra, voltandosi di scatto ed alzando minacciosamente un pugno verso l’altro.

“La tua crisi d’astinenza.” Gli rispose per le rime la Fenice, alzando la testa e incrociando le braccia dietro la nuca come se nulla fosse, immaginandosi la faccia rossa del fratellino.

“Come come?” intervenne come da copione Satch, di fronte a quella piccante scoperta. “Il nostro rubacuori è in crisi d’astinenza?” chiese interessato ed incredulo al tempo stesso “…, ma … quella ragazza…?” cominciò ricordandosi anche lui la bella figliola che Ace era riuscito ad adescare alla locanda della precedente isola attraccata.

“Buco nell’acqua.” Gli chiarì velocemente la situazione Marco, senza scendere in imbarazzanti particolari come padelle e oggetti volanti vari.

Ahiaiai.” Fece eco il biondo sorridendo un poco dispiaciuto per l’altro, ormai completamente perso nel più completo imbarazzo.

“Sono fatti miei!” esplose indignato alla fine il ragazzo, sentendo di dover cercare di mettere in salvo il proprio orgoglio, avvicinandosi minaccioso a Satch, incombendo su di lui con una grossa vena pulsante sulla fronte. Il comandante dal pizzetto indietreggiò di rimando, non sentendosi al sicuro in quella situazione scomoda.

Il dolce scrocchio che le nocche di Ace emisero in segno di avvertimento sarebbero stati più che sufficienti, ma il comandante in seconda preferì comunque sottolineare il punto della questione:

“Una sola parola al resto della ciurma e dì addio ai tuoi capelli, Satch.” Decretò lugubre, facendo sbiancare di netto il povero biondo, che di riflesso si andò a lisciare la sua povera chioma, tirando al contempo un angolo della bocca all’insù in un sorriso forzato.

R-ricevuto.” Riuscì solo a balbettare, mentre il moro distoglieva l’attenzione da lui per dedicarsi pienamente a Marco che però sembrò precederlo.

Oioi. Non trattare così Satch, Ace.” Intervenne prontamente quest’ultimo sorridendo sfrontato, facendo inarcare un sopracciglio all’altro, incuriosito da quell’insolito slancio di solidarietà con l’altro, fino a quel momento diretto responsabile dei loro rispettivi fallimenti con Momo, ma si sbrigò a spiegare:

“Tra tutti e tre Momo ha strapazzato solo lui.” Disse sciogliendo il volto in una espressione di compassione verso Satch ed Ace non potè fare a meno di tornare ad osservare il comandante in quarta con il volto illuminato e pieno di comprensione.

“Ahi.” Disse aggiustandosi il cappello mentre guardava il povero biondo piombare nuovamente nella più tetra delle depressioni. Non doveva essere stato facile per lui litigare con la piccola paradisea.

Sigh. OOff-!” Fece in tempo a singhiozzare prima che una serie di guaiti e risate acute gli piombassero addosso sotto forma di una palla di pelo con tanto di ciuffo a spazzola sulla testa, schiacciando la sua schiena sotto il dolce peso di un primate dispettoso.

Monster…” digrignò i denti tirando su la testa quel tanto che bastava per vedere il viso grottesco dell’animale ridergli senza ritegno in faccia e con un salto scendere dalla sua schiena, allontanandosi contenta, senza neanche dargli il tempo di contrattaccare e prendersi la dovuta rivincita.

Erano settimane che non faceva che fargli scherzi del genere. Momo o non Momo nei paraggi, lui e Monster erano diventati nemici giurati. E una tregua sembrava veramente impensabile, viste le ostilità in corso e la testardaggine di entrambi.

Marco sospirò, scivolando giù dalla sua posizione ed atterrando silenziosamente sul ponte.

“Quella scimmia sembra averti proprio preso in antipatia.” Disse Ace guardando stupito il primate risalire con velocità impressionante uno degli alberi secondari della nave, arrivandovi in cima emettendo una serie di strepiti vittoriosi.

Satch sbuffò, poggiando il mento sul palmo della mano,e sostenendosi grazie al gomito, puntellato sulla botte.

“La cosa è reciproca, ma lo scricciolo lo adora.” Disse con l’entusiasmo di un bradipo “E adesso che ha iniziato, dubito che mi lascerà avvicinare a lei per scusarmi…” concluse amareggiato.

I due stettero a guardare il compagno per un poi, per poi voltarsi in contemporanea verso la scimmia, poi di nuovo su Satch. E all’improvviso fu l’illuminazione: il biondo ed il moro allargarono gli occhi, girandosi l’uno verso l’altro, quasi chiedendosi a vicenda se anche il rispettivo rivale avesse avuto la stessa intuizione.

Si sorrisero complici, era un’idea geniale, sbucata fuori da chissà dove nella mente di entrambi nel medesimo istante.

Un vero miracolo, insomma. Alla stregua di un segno divino.

“Facciamo così…” iniziò Ace, avvicinandosi con la stessa eleganza di un gatto che si acquatta per acchiappare il topolino, lasciando poi spazio a Marco, poggiatosi con le mani sui fianchi accanto al comandante dal pizzetto.

“Noi teniamo a bada Monster per tutta la sera, in modo che tu riesca a fare pace con Momo…

“… e tu ci lasci campo libero con lei per un mese!” terminò il moro con un sorriso malandrino a trentatrè denti .

Satch li guardò prima stupito, poi dubbioso, non sapendo seriamente cosa rispondere: da una parte c’era la possibilità di chiarire le cose con lo scricciolo, scusandosi per il suo pessimo comportamento, dall’altra invece c’erano i suoi fratelli in piena competizione amorosa che chiedevano, in cambio di un piccola opportunità di rappacificarsi con la ragazza, un mese di assoluta tranquillità con lei.

Ciò significava niente interventi del genere, niente battutine,… niente di niente. Lo scricciolo avrebbe dovuto affrontare da sola per un mese le avances di quei due zoticoni in calore.

“Allora?” lo incitò sorridendo ancora Ace.

Satch sospirò. Lo scricciolo non l’avrebbe presa molto bene.

 

Atto 12, scena 3

Facile dire che si sarebbe scusata con Satch. Non c’era dubbio che il babbo riuscisse a rendere più semplici le cose più complicate.

Momo continuava a camminare adagio a adagio per i corridoi interni della nave, osservando con falso interesse i solchi dritti dei pannelli del pavimento in legno, ragionando su come affrontare Satch dopo la pessima figura compiuta. Per un attimo si bloccò in mezzo al corridoio e, presa completamente dal panico, fece retrofront, proseguendo a ritroso il tratto che aveva compiuto per allontanarsi dalla cabina del capitano.

Non poteva farlo, si vergognava troppo. Accidenti a lei ed al suo coraggio da coniglio. Ma perché aveva trattato in quel modo Satch?! C’era stato proprio bisogno? Lui in fondo l’aveva fatto per darle meno pensieri per la testa.

Si fermò all’istante, non sapendo nemmeno di quanto fosse tornata indietro.

Già: meno pensieri per la testa. Solo in quel momento, dopo aver finalmente capito il proprio ruolo all’interno della ciurma, ovvero quello della sorellina minore, capì che non doveva essere stato facile per il biondo dal pizzetto proteggerla da una preoccupazione in più, arrivando anche a farsi gonfiare da Ace e Marco.

A proposito..- pensò la ragazza, accigliandosi leggermente ed abbassando con fare pericoloso le lunghe ciglia, ombrando le proprie iridi color lava incandescente a causa dell’ora tarda - ..dovrò dire quattro paroline anche a loro.

Si fermò un attimo a pensare, tornando improvvisamente a rimuginare sul punto scottante della questione: già, ma come faceva a chiedere scusa a Satch? Si appoggiò con un sospiro su una delle pareti, scivolando poi a terra, stanca come non mai.

Non poteva presentarsi lì e con tutta tranquillità dirgli “Scusa Satch-san, mi sono comportata male, mi può perdonare?”.

Assolutamente no.

Sbuffò passandosi fluidamente una mano affusolata tra i capelli fiammeggianti, innervosita dalla sua stessa goffaggine. Qualcosa le diceva che le scuse non erano il suo forte.

Si rese conto che al colloquio con il capitano non aveva nemmeno parlato dell’incidente avvenuto settimane prima tra lei e la misteriosa figura ghignante.  Accidenti a lei!

Abbassò la testa dandosi mentalmente della stupida, oltre che fifona.

 “Tutto bene scricciolo?” disse una voce al suo fianco.

Momo allargò gli occhi esterrefatta, senza osare alzare lo sguardo, incerta se meravigliarsi più del tempismo dell’altro o del fatto di non essersi accorta che qualcuno si era avvicinato a lei. Rimase a testa china, arrossendo di botto, nel capire al volo chi gli si trovava di fronte. In fondo chi altri la chiamava con quel soprannome?

Ciao Satch-san.

“Ciao scricciolo.” Rispose sorridendo, un po’ sollevato, l’altro, essendosi aspettato come minimo che scattasse per allontanarsi da lui o che lo scacciasse via in malo modo.

“Posso sedermi?” chiese un po’ titubante, chianandosi leggermente in avanti quel tanto che gli bastò per cogliere la testa dell’altra ondeggiare in un movimento affermativo. Non appena si fu seduto, Satch si sentì come se si fosse poggiato su un letto di chiodi. Si passò una mano dietro la testa nervoso, non sapendo da che parte incominciare e vedere la piccola a testa china non l’aiutava.

Oh, andiamo. Si disse racimolando quanto più coraggio riuscì.

Senti…” cominciò, lasciando uscire la prima parola in modo talmente rauco da assomigliate di più ad un rantolo“ …mi dispiace per…

È colpa mia.

La voce della paradisea lo colse impreparato, bloccandogli all’istante tutte le parole che, dal ponte fino a lì, si era preparato mentalmente.

Non è vero che mi stavi prendendo in giro, non parlandomi di Ace e Marco….” Continuò la ragazza senza mai alzare lo sguardo, anzi, voltandolo leggermente di lato, con vergogna malcelata. “L’ho capito.” Aggiunse infine, aspettando in silenzio la risposta dell’altro.

Satch, d’altra parte non sapeva come reagire: era partito spedito con l’intenzione di chieder scusa allo scricciolo e, in quel momento, lei si stava scusando a sua volta. In che situazione si trovava?

“Quindi,…” azzardò allungandosi in avanti, sperando di scorgere il visino dell’altra “… mi perdoni?”

Il caldo crepitio delle fiamme che circondavano la figura di Momo fece da sottofondo al loro silenzio, almeno finché con lo stesso tono melodioso di sempre, forse anche un po’ più incrinato del solito, non intervenne nuovamente, facendo sorridere di gioia il comandante della quarta flotta.

Solo se tu perdoni me.

 

Atto 12, scena 4

“Devi tenerlo fermo!”

“Parli bene tu! Cazzo, dove si è mai vista una scimmia che sa usare l’Haki??”

Chiunque avesse visto Ace Pugno di Fuoco e Marco la Fenice in quel momento si sarebbe come minimo aspettato di svegliarsi di soprassalto da un sogno ai limiti dell’inverosimile, oltre che del comico. Erano passati solo venti minuti dacché Satch era partito alla ricerca di Momo, coperto dall’azione tempestiva di entrambi non appena la scimmia Monster aveva cercato di bloccare la sua fuga, e già cominciavano a rimpiangere la loro scelta.

I graffi, sebbene superficiali, che Monster era riuscito ad infliggere ad Ace, bruciavano come lava bollente, consumando ad ogni sferzata il fuoco che di norma avrebbe dovuto comporre il suo corpo, rendendolo immune al dolore fisico. C’era voluto poco per capirne il motivo: quel dannato primate sapeva usare l’Haki e si dibatteva come un forsennato, non risparmiando loro nemmeno un attimo di respiro.

I due comandanti ansimavano già, sfiancati dall’irruenza micidiale dell’animale, stringendo i denti per evitare di dargliela vinta e lasciarsela scivolare via dalle mani. Marco stava cominciando a ponderare su utilizzare le proprie ali nel vedere il loro netto svantaggio nei confronti di Monster, ma il pensiero di dover poi fare i conti con Momo, oltre che con Shanks il Rosso, lo bloccò.

Monster era pur sempre il preferito della paradisea e se gli fosse successo qualcosa di grave era certo che non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Se poi si contavano i relativi casini che sarebbero derivati, se un ufficiale membro della ciurma del Rosso fosse rimasto ferito durante la permanenza sulla Moby…

Il biondo evitò per un pelo un pugno villoso di Monster diretto al suo viso. Quel bipede dalla voce stridula ne sapeva una più del diavolo!

“Se mi rovina il capello, Shanks me ne dovrà uno nuovo.” Borbottò Ace mentre bloccava con una mano la testa all’animale, evitando così che potesse vedere dove indirizzare i propri colpi.

“Meno chiacchiere Ace.” Ribattè immediatamente, facendo del proprio meglio per tenere ferma la coda e le zampe posteriori del loro nemico comune.

Una cosa era certa: il loro mese senza intromissioni con Momo se lo stavano sudando. E alla grande.

 

Atto 12, scena 5

Dimmi che non è vero.” Implorò esasperata Momo alzando gli occhi al cielo.

Satch la guardava mortificato per averle appena riferito il patto tra lui e i due comandanti. Neanche a lui piaceva quella situazione e, se fosse stato per lui, non le avrebbe detto nulla al riguardo, pur di preservare la sua tranquillità. Tuttavia aveva già commesso l’errore di nascondere qualcosa a Momo per lo stesso motivo ed il risultato si era visto con la precedente sfuriata della ragazza nei suoi confronti.

“Scusami scricciolo,…” disse, guardando l’altra ricambiare il suo sguardo con uno leggermente comprensivo “…, ma Monster è… ehm… come dire…” cincischiò non sapendo che aggettivo esprimere per riferirsi all’animale, ma tutto quello che gli veniva in mente erano parole tutt’altro che gentili. Dirle davanti a Momo sarebbe equivalso a farla arrabbiare.

Era abituato a rischiare la vita ogni giorno, essendo un pirata, ma sinceramente il modo in cui le sue fiamme diventavano chiare quando succedeva, non lo attirava più di tanto in quella direzione.

Invadente.” Intervenne Momo, salvandolo da una situazione scomoda “Lo so.” Sospirò, facendo così cadere l’argomento “Mi dispiace che tu abbia dovuto promettere una cosa simile.”

Satch non sapeva proprio cosa dire e, nel silenzio imbarazzante che si era creato, si lisciò nervosamente all’indietro i capelli, imbarazzato almeno quanto Momo, rossa sulle guance e stranamente interessata alla parete di fianco a loro. Il modo in cui la paradisea stava evitando accuratamente il suo sguardo gli fece capire che non doveva sentirsi a proprio agio in quelle circostanze: prima scopriva che Ace a Marco stavano cercando di accaparrarsi il suo cuoricino sperduto e spaventato, e adesso veniva a sapere che avrebbe dovuto per forza affrontarli per un intero mese, senza nemmeno sperare nel suo aiuto.

Satch-san.” Lo chiamò “Non so come comportarmi.” Ammise arrossendo ancor di più. 

Il biondo la guardò intenerito, posandole una mano sulla testa infuocata e strapazzandogliela dolcemente, facendole chiudere un occhio per la sorpresa.

“Hai due pretendenti scricciolo, è naturale.”

No! Non è per quello!” lo bloccò l’altra, scostandosi in fretta la mano dell’amico dalla testa e guardandolo con occhi disperati.

Satch la guardò interrogativo, non capendo il motivo di quella reazione. Capiva il disagio di sentirsi messa in mezzo, ma così era un po’ esagerato.

A meno che…

Che succede se io sono già impegnata con un altro ragazzo?!” confermò i suoi sospetti Momo, avvicinandosi a lui piena d’ansia. Per il comandante della quarta flotta non fu difficile collegare quella domanda ai pochi ricordi riacquistati dalla paradisea, di cui era stato, fortunatamente, messo al corrente.

“Il ragazzo di cui ti sei ricordata?” chiese ulteriore conferma, alzando entrambe le sopracciglia, sperando quasi di sbagliarsi.

Momo annuì, per sua sfortuna, tornando all’attacco.

E se lui fosse il mio fidanzato? Io ho solo visto che io lui viaggiavamo assieme e che ci capivamo in modo particolare…

“Era un bel ragazzo?”

Momo ci pensò un po’ su.

Bhe… sì.

Satch cacciò all’indietro la testa, sospirando, pensando e ripensando a quello che sarebbe potuto capitare se l’ipotetico fidanzato della naufraga fosse piombato un giorno, pronto a riprendersi la propria bella. Una gran bella gatta da pelare.

“Allora non so proprio cosa dirti, scricciolo.” Ammise dispiaciuto.

 L’espressione di Momo si fece più abbattuta di prima.

“E se invece fosse stato il ragazzo dell’altra che viaggiava con voi?” suggerì, valutando anche quella come una valida opzione. Almeno era decisamente meno dolorosa della prima “C’era un’altra ragazza con voi, no?”

Momo lo guardò meravigliata, sinceramente stupita per non aver preso in considerazione quella possibilità. Il comandante dal pizzetto sorrise mezzo divertito e mezzo intenerito, nel vederla arrossire e rannicchiarsi con le ginocchia davanti al viso per nascondere l’imbarazzo.

Ma non so come affrontarli…

La paradisea sentì ancora una volta la mano di Satch percorrere con affetto i suoi capelli fiammeggianti, dandole in parte il coraggio di andare avanti con il proprio discorso.

Sono arrabbiata con loro…” disse indurendo di poco il tono di voce, ma solo per alleggerirlo nel proseguire “… ma … allo stesso tempo … mi sento responsabile … per averli fatti … litigare.

Naah. Di questo non ti devi preoccupare.”

A quelle parole Momo, alzò la testa di scatto, guardandolo confusissima e provocando di conseguenza un’ennesima risatina dell’altro.

“Tranquillizzati pure scricciolo: quei due sono peggio di due gemelli siamesi, anche se uno dei due fregasse una bistecca all’atro, tornerebbero a scherzare come se nulla fosse dopo nemmeno cinque minuti.” Disse Satch, sperando di aver finalmente dato il proprio contributo a risollevare l’animo della piccolina.

Io non sono una bistecca.” Lo stroncò di netto quest’ultima, accigliandosi.

“Ah, giusto. Colpa mia. Esempio sbagliato.” Si scusò grattandosi la testa con una gocciolina sulla tempia, ridendo nervosamente.

Satch.” Lo richiamò esasperata, alzando la testa verso il soffitto del corridoio. Per un attimo il biondo credette che gli stesse per ribadire il suo disperato bisogno di un buon consiglio, ma dovette ricredersi quando, dopo un lungo sospiro, la vide rialzarsi di scatto e, appoggiandogli le manine sulle spalle, posargli un bacio sulla fronte con un piccolo salto ben calcolato.

Rimase lì sbigottito a guardarla sorridere candidamente, non sapendo nemmeno cosa dire di fronte ad una simile dimostrazione di innocenza.

Vai pure a dormire.” Gli intimò pazientemente e Satch lesse nel suo sguardo luminoso una scintilla di comprensione per le sue appena accennate occhiaie che, poteva ben intuire, non erano passate inosservate ai suoi occhi, ben abituati alla semioscurità che i corridoi della Moby assumevano presso quell’ora.

Ma…” provò a ribattere

Me la caverò.” Venne nuovamente interrotto dalla voce cadenzata e rassicurante della paradisea, ma si vedeva lontano un miglio che lo stava facendo solo perché sapeva di non poter pretendere troppo da lui in quel momento. Dopotutto aveva sprecato ore di sonno per stare con lei.

Si sentì quasi inutile.

Scricciolo…” sussurrò dispiaciuto, incavando un poco la testa nelle spalle.

Fu il sorriso di Momo a bloccargli il resto delle parole in gola.

Non vado mica in battaglia, Satch-san.” Lo rassicurò ancora un po’ “Ne parliamo domani, ok?

Non poté trattenersi dal scompigliarle ancora un po’ i capelli, sorridendo paterno.

“Buona fortuna, scricciolo.”

Grazie infinite, Satch-san.”

Passò giusto un attimo prima che accanto al comandante in quarta si sentisse un rumore molto, forse troppo, simile a quello un eloquente e rapida sequenza di tossiti atti solo ad attirare l’attenzione.

La mascella di Satch cadde letteralmente a terra nel trovare, davanti all’angolo del corridoio dove si era fermato, il suo angelo biondo sorridere imbarazzata con una pila di tovaglie pulite tra le braccia, accompagnata da Carol ridacchiante come non mai.

“Abbiamo interrotto qualcosa, comandante Satch?”  chiese candidamente dispiaciuta Penelope, posando una mano sulla guancia, apparentemente senza notare l’attacco di ridarella che aveva colto la propria collega dalla treccia rossa.

Il biondo non sapeva cosa fosse peggio: essersi fatto vedere in una situazione compromettente da Penelope o prepararsi all’essere deriso dalla sua vecchia fiamma pettegola.

 

Atto 12, scena 6

Era stato un lumicino all’inizio, come se dalla nave fosse emersa una fiammella, diventata poi un’elegante ed impossibile apparizione. Per Ace e Marco era sempre come la prima volta quando vedevano Momo uscire dalla coperta durante le ore notturne, illuminando con la proprio luce soffusa l’aria.

Per questo erano rimasti a bocca aperta, per un attimo dimentichi del fatto di star legando Monster alla bene a meglio con una corda di sicurezza e, sicuramente, fu sempre per lo stesso motivo che per quest’ultima risultò facilissimo fuggire, calciandoli all’indietro, saettando poi giù per le scale dalla quale era appena apparsa la Paradisea.

Cazzo…” imprecò Ace rimettendosi seduto mentre si risistemava il cappello.

Momo apparve in un lampo a circa un metro di distanza da entrambi, ancora occupati a rialzarsi. Sarebbe stata la prassi per loro vederla avvicinarsi a loro in quella maniera, se solo, come riuscì a notare per  primo la Fenice, la ragazza non avesse avuto le braccia incrociare al petto e gli occhi colmi di rammarico.

“Momo..?” osò provare a chiamarla il biondo, ottenendo solo un  musicale sospiro affranto da parte ed uno scatto fulmineo che la face sparire dalla sua vista.

La paradisea riapparve rapidamente sul reticolo delle sartie accanto a loro, volta verso l’orizzonte ormai lontano.

“Come è andata con Satch…?” cominciò un poco titubante Pugno di fuoco, riassumendo in poco tempo parte della propria naturale spensieratezza.

“Avete fatto pace?” concluse per lui Marco, tenendo le braccia incrociate al petto e fissandola intensamente le spalle, in quel momento rivolte verso di loro. Alla Fenice stringeva il cuore vedere quella schiena sottile e sconsolata mostrarsi a lui, senza che lui potesse trovarvi rimedio.

.” Fu la breve risposta dell’altra, accompagnata da un lievissimo e quasi impercettibile  divampare più forte delle proprie fiamme, schiaritesi per un istante verso qualcosa di più simile al bianco.

Quella strana reazione colpì entrambi i comandanti. Non avevano mai visto il fuoco giallo della ragazza comportarsi in quel modo, ma se ne sapevano abbastanza sull’elemento del fuoco  quell’intensificarsi del colore poteva solo stare ad indicare che le fiamme erano diventate per un istante più incandescenti.

“Sei arrabbiata?” azzardò Ace, facendosi avanti, togliendo letteralmente le parole di bocca a Marco, già prossimo anche lui a prendere parola per il medesimo motivo.

Un silenzio scomodo gli avvolse per un istante.

.” Fu la breve e scioccante risposta della ragazza.

Marco ed Ace ebbero appena il tempo di trattenere il fiato, prima che Momo scomparisse e riapparisse in un attimo di fronte a loro, affrontandoli a viso aperto con gli occhi fiammeggianti di rabbia.

Sono arrabbiata.” Confermò, mentre entrambi indietreggiavano, preoccupati per la situazione. Momo non sembrava essere particolarmente forte rispetto a loro, ma vederla così grintosa gli faceva sentire a disagio. Il corpo della ragazzina era rigido e teso, quasi trattenuto dal fare qualsiasi mossa avventata, e la sua voce, di solito melodica e ben cadenzata, tremava alla fine di ogni parola.

Siete … infantili … egocentrici …” balbettò, pronunciando a fatica le parole a causa della confusione che la collera le provocava. Di scatto prese la corda che i due avevano cercato di usare per fermare Monster e la gettò a terra con rabbia. Per il biondo ed il moro parve incredibile notare che, a differenza delle altre volte, il materiale della corda si era incendiato.

Non riesco ancora a crederci …!

Momo…?!” provò ad avvertirla Marco, ma questa si fece ancora più avanti con le fiamme che, su di lei sempre più crepitanti e chiare, avevano cominciato ai suoi piedi a percorrere la fune per tutta la sua lunghezza, minacciando di invadere da un momento all’altro la superficie non meno infiammabile del ponte. 

Costringere Satch a barattare la possibilità di scusarsi per .. per…!” continuava intanto Momo,  serrando gli occhi con le guance rosse di vergogna, non avvertendo  gli avvertimenti degli altri due.

“Momo! Le fiamme!” esplose improvvisamente Ace e la ragazza sbarrò finalmente le palpebre, accorgendosi del disastro che aveva appena combinato. Lanciò un urlo, tornando immediatamente gialla su braccia e capelli.

Il fuoco sulla corda subì lo stesso destino, tornando immediatamente nella propria innocua colorazione iniziale per poi estinguersi nel nulla, lasciando dietro di sé solo l’odore di stoppa annerita .

O cavoli.  Sussurrò Momo sgomenta,con una mano a coprirle le labbra, dimenticando di parlare in modo che gli altri due la capissero. Questi osservarono la paradisea entrare nel panico più totale, cominciando a guardarsi intorno ansiosa, tremando da capo a piedi.

Gli occhi azzurri di Marco fecero appena in tempo ad incontrare quelli luminosi di lei, prima che il vuoto andasse a sostituire la sua figura, lasciando soltanto una scia brillante ed evanescente fondersi con il vento notturno.

Rimasero per un po’ così, incerti su quello che era appena accaduto. Poi entrambi sbuffarono, l’uno passandosi una mano tra i capelli biondi, stropicciandoli con esasperazione, tenendo l’altra poggiata sul fianco, l’altro portandosi all’indietro il cappello con una mano, scoprendosi la fronte.

“Ma è un’esperta nelle fughe!” esclamò meravigliato.

Marco alzò gli occhi al cielo.

“Andiamo a cercarla.” decretò segnando quella che sarebbe stata certamente una notte piena di risvolti interessanti.

 

Atto 12, scena 7

Si passò le mani sul viso, non credendo a ciò che aveva fatto. Per poco non mandava a fuoco la nave del babbo, e per cosa? Per essersi arrabbiata per un istante con Marco ed Ace.

Com’era potuto accadere? Non era mai successo che il suo fuoco bruciasse veramente qualcosa!  Era sempre rimasto sul suo corpo, ben lungi dal danneggiare qualsiasi cosa, anzi, tutto il contrario! Persino Betty non ne era rimasta ferita, intingendovi in pieno un dito!

Ma cosa mi succede…” pianse un po’, percependo solo pochi attimi dopo il venticello fresco della notte passarle tra i capelli, donandole una piacevole e fuggevole sensazione di calma. Osservò il cielo scuro sopra di lei, tenendosi le ginocchia al petto e sospirò: le stelle in cielo erano tristemente diminuite rispetto la prima volta che era uscita dalla coperta della nave. Ricordò di riflesso la notte in cui lei e Marco stettero ad osservare quella magnifica scia di astri luminosi come diamanti seguire la stessa rotta della Moby. Poi le venne in mente il tramonto che Ace l’aveva costretta a guardare, facendola piangere commossa.

Corrucciò la fronte, incavando la testa tra le spalle. Si sentiva stranamente fragile nel ricordare quei momenti, e il vento pareva riuscire ad entrarle in petto al solo scopo di metterla a disagio, affogandole il cuore in una coltre gelida e vuota.

Era da tempo che non si sentiva in quella maniera. I giorni lunghi e pieni di impegni sulla nave l’avevano presa a tal punto da non concederle un attimo da dedicare alla propria memoria smarrita.

Era riuscita ad adattarsi, a farsi degli amici, o ,meglio ancora, una famiglia, eppure il ricordo di quel ragazzo biondo con un orecchino nelle ultime 24 ore aveva cominciato a riaffiorarle alla mente con troppa intensità per i suoi gusti.

Un soffio caldo le scosse lievemente i capelli della nuca, facendola sobbalzare per la sorpresa.

Non pensava l’avrebbero trovata così presto.

Si voltò piano, trovando Marco accovacciato con le ginocchia flesse al petto e le braccia tramutate in un paio di lunghe cerulee ali di fiamma . Tremò impercettibilmente alla vista degli occhi dell’altro inchiodarla sul posto. Gli occhi della Fenice non erano particolarmente rivelanti per la forma, perennemente occultata dalle palpebre cadenti che gli conferivano un’espressione mezza annoiata,  ma per il colore, paragonabile soltanto a quello del limpido piumaggio che gli faceva da mantello in momenti come quello.

Eppure Momo, continuando ad osservare atterrita quel paio di iridi azzurre cielo, non riusciva a scacciare via l’inquietudine che le derivava dal constatare quanto gli occhi di Marco fossero impenetrabili. Indecifrabili. Profondi come un pozzo pieno d’acqua che, man mano se ne cercava di scorgere il fondo, diventava sempre più scuro.

“Sei facile da trovare.” Disse Marco, mentre, rialzandosi con gesto fluido da dove si era appollaiato, ritramutava i propri arti.

Come…?ribattè non capendo bene il senso di quell’improvvisa affermazione.

“Ti piacciono i luoghi alti.” Osservò con naturalezza il biondo, indicando con l’indice della mano destra ciò che, dall’alto del pennone della vela maestra, pareva essersi rimpicciolito di un paio di volte. Momo, che aveva seguito il gesto dell’altro, alla vista di quella drastica distanza che la divideva dalla superficie solida del ponte,  deglutì distogliendo velocemente lo sguardo.

Molto …” rispose, trovando meno doloroso tornare ad osservare il volto del comandante “… è cadere che non mi piace.

Si lasciò sfuggire un mezzo urletto, nel ritrovarsi il volto serio dell’altro a meno di quanto era stato pochi istanti prima. Le sue gambe di riflesso si prepararono a compiere un altro salto evasivo che venne, per sua sfortuna, prontamente intercettato dalle mani della fenice che la trattennero sul posto aggrappandosi alle sue spalle.

La paradisea sbarrò gli occhi: quella era la prima volta che riuscivano a fermare un suo salto.

Oi” la chiamò Marco“Perché scappi?”

“Sono ancora arrabbiata” gli rispose immediatamente la ragazza, evitando il suo sguardo come meglio poteva. Il cuore le batteva nelle orecchie e un sottile strato di sudore le si formò sulle tempie, prontamente asciutto dall’azione del vento che spirava intorno a loro. Quella vicinanza la stava facendo andare nel panico.

Nella mente della Paradisea affiorarono le più disparate possibilità: implorarlo, spingerlo via, insultarlo, chiederglielo simulando calma o mille altri modi ancora. Dal momento che sapeva come stavano le cose per lei avvicinarsi o lasciarsi avvicinare da Marco o Ace equivaleva ad esporsi ad una scelta. Sapeva cosa significava piacere a qualcuno e non voleva che uno interpretasse male i suoi atteggiamenti nei confronti dell’altro.

Avrebbe rischiato di perdere l’amicizia di uno di loro, o peggio, di entrambi.

E non voleva.

“Stai tremando?” constatò Marco puntandole con sguardo rapace le braccia, colte nel loro tremare incontrollato.

N-no.” Scrollò la testa con voce balbettante, ma quello continuò a guardarlo fisso senza accennare a mollare la presa.

Momo si sentì prossima ad urlare esasperata quando percepì la mano ruvida di Marco serrarsi attorno ad uno dei propri polsi, costringendola ad alzarlo ed avvicinandolo verso di lui.

Strinse i denti, sentendo la propria mente andare in blackout per la confusione.

Le labbra della Fenice incontrarono la sottile e liscia pelle del dorso roseo della Paradisea, accarezzandola per un breve attimo lì nei pressi delle nocche, affondando il viso tra le innocue spire delle fiamme gialle. Momo, sbarrando agli occhi stravolta, rimase a fiato sospeso, guardando poi l’altro allontanarsi lentamente, indietreggiando piano lungo la lunga trave del pennone.

Se prima gli occhi seri di marco gli erano parsi inespressivi ed enigmatici, in quel momento le stavano riferendo solo una profonda tristezza.

“La scelta spetta solo a te.”

Fu tutto quello che disse prima di calarsi già dall’albero maestro, ritramutando le braccia in ali. Posò un mano sull’altra, percependo, là dove vi era stato quel fuggevole contatto, un sottile calore farsi strada sotto la propria pelle.

 

Atto 12, scena 8, Aria in catene

Il suono lontano e ritmico delle onde era l’unica cosa che sentiva entrare dalla piccola fessura della finestra serrata della sua prigione rossa.

Rosse erano le tende si seta, lunghe fino al freddo pavimento in marmo rosso, ed ornate di filamenti violacei dalle fantasie semplici. Rosse erano anche le pareti lisce ed anonime della stanza, scure quel tanto che bastava per assomigliare all’amaranto, oh amato amaranto. Rosso ciliegio i mobili eleganti, lisci e lucidi lì presenti, talmente curvilinei da sembrare essere stati scolpiti con letali e precisi colpi su un ceppo d’albero ancora vivo.

E rosso era il letto a baldacchino sulla quale era incatenata con dure e pesanti anelli alle caviglie. Rosse le coperte di velluto, le federe, i cuscini. Persino le rose fresche di giornata, disposte sul comodino lì affianco.

Tutto quel trionfo di rosso aveva cominciato a farle male agli occhi, ma il suo carceriere aveva una passione sviscerale per quel colore e mai le avrebbe permesso di domandare un piccolo cambiamento agli accostamenti di quella stanza, specialmente se questi ultimi erano stati architettati per evitarle di pensare ad altro se non al rosso.

Lui si identificava in quel colore.

Sapere che il rosso fosse continuamente nei suoi occhi, nei suoi pensieri, lo tranquillizzava durante le sue lunghe assenze, diceva.

Clarina non sapeva mai cosa rispondergli quando le diceva quelle cose. Ne aveva paura, ma lui tutte le volte, maledettissime volte, soffocava le sue proteste in baci affamati da mesi di lontananza troppo lenti per lui e troppo veloci per lei.

Finiva sempre con l’assecondarlo. Aveva imparato a farlo. Farlo arrabbiare sarebbe stato peggio e lei aveva solo un momento per continuare le sue suppliche, aggrappandosi alle sue gambe con le lacrime a rigarle le guance, la voce rotta in una serie di domande che non trovavano mai risposta, senza rischiare di ricevere qualche livido in cambio.

Lui l’avrebbe guardata impassibile e, senza una parola, l’avrebbe abbandonata lì sul freddo pavimento della prigione in cui l’aveva relegata, con i lunghi e ondulati capelli biondi sparsi su di esso e il singolo orecchino sul lobo sinistro a pendere scosso dai suoi stessi singhiozzi.

Tutte le volte Clarina vedeva i suoi occhi cobalto arrossarsi e gonfiarsi, senza avere la possibilità di poterseli sciacquare se non ore dopo, quando le veniva portato il pranzo, per poi potersi mettere davanti all’unica cosa che non le restituiva solo quell’orrendo colore: lo specchio.

Passava ore a fissarsi, trovando sollievo nell’unica cosa che le ricordava la ragione che ancora le permetteva di resistere senza impazzire. I suoi capelli, il suo viso, i suoi occhi, tutto di sé stessa le ricordava la sola persona che il destino non le aveva ancora tolto.

Archetto” sussurrò, corrucciandosi nello sforzo che le provocava tenere basso il timbro vocale.

Lui non era morto, come Lui le aveva detto più volte. Ne era certa.

Le sue parole esprimevano sicurezza, ma non corrispondevano a verità.

I suoi bambini erano salvi.

La porta rossa della stanza cigolò e lei si affrettò a prendere la raffinata spazzola a setole  risposta lì accanto. Non le serviva guardare nello specchio per sapere chi fosse appena entrato.

Una grossa mano le si poggiò sulle spalle, strofinandole la base del collo con il pollice.

Sospirò, alzando lo sguardo con un sorriso elaborato ad ornarle i lineamenti di donna adulta.

“Bentornato, Sakazuki

 

Fine Atto Dodicesimo. 

Donneeeee!!! XD sono tornata! Credevate di avermi persa eh? E invece no! Sono sempre qui. Rallentata da una vita universitaria sfiancante, caotica e piena di avventure!!! XDD Vi prego di perdonarmi quindi il leggero ritardo e… rullo di tamburi….è arrivato il momento per la domanda che tutti aspettavate.

(fischi e applausi)

Donne votate! E non mi deludete!

1) Chi sceglierò Momo? Marco o Ace?

2) A che distanza si trovano Arch, Viola e Morgan rispetto la Moby? (avete ideuzze?)

 ATTENZIONE: LA PRIMA DOMANDA LA DIVIDERÒ IN TRE PARTI OVVERO, LE RISPOSTE NON DARANNO ESITO DEFINITIVO A QUESTA SCELTA MA LA RIPETERÒ IN ALTRI 2 CAPITOLI, IN MODO TALE CHE EVENTUALI NEW ENTRY POSSANO ESPRIMERE IL LORO PARERE!!!

Per il resto tutto normale donne! Ora vado a nanna! Ciaaoooo!! Kisskiss! ^*^

 

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Oyaji  > Babbo/papà

 

musuko /musume  > figlio/i –figlia/e  

 

kyodai  >  fratelli

 

kozaku   > famiglia

 

Note di LIBRETTO: Ita  >  Jap 

 

Perché scappi? > Naze anata wa jikkō sa rete iru-yoi?.

La scelta spetta solo a te. > Sentaku wa anata shidaidesu-yoi.

                              

 

 

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Capitolo 15
*** Atto 13 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 13

Atto 13, scena 1

Ormai era ora di mettersi in branda anche per Marco ed Ace, nonostante la voglia di lasciare in sospeso la ricerca della piccola e dolce causa della loro rivalità fosse ben poca. La ragazza era rimasta sul ponte, osservandoli silenziosamente dal pennone della nave con occhi traboccanti di sofferenza, senza nemmeno osare  rispondere alla buonanotte che il moro le aveva mandato a gran voce, con consumati e più svariati tentativi di convincerla ad uscire allo scoperto.

Marco si era ben riguardato dal riferire all’altro Ace la posizione di Momo, accompagnandolo, senza mai fiatare, di nuovo nella sottocoperta, in direzione dei loro alloggi. Fu proprio questo silenzio ad insospettire Ace che,  percependo nella sua espressione neutra una nota di consapevolezza, non poté fare altro che dare voce ai suoi presentimenti, piantandosi improvvisamente in mezzo al corridoio con le mani sui fianchi, scrutando l’altro con un sopracciglio alzato.

Non servirono parole per comunicare la domanda sottintesa, ma eloquentemente espressa, del moro.

Marco rispose al suo sguardo con un’occhiata stanca, prima di continuare per la propria strada come se nulla fosse.

“Non so dove sia.” Disse laconico, meritandosi da parte dell’altro uno sbuffo che sapeva di amaro e sarcastico.

Non passò comunque molto, prima che se lo ritrovasse affianco.

“Amico mio, sarò pure astinente,…”  disse attirando su di sé una fuggevole occhiata del biondo “…, ma non scemo.”

Quella dichiarazione fece nascere un sorrisino sulle labbra della Fenice.

“Già, a volte dimentico che qualcosa in quella zucca rimane, oltre alla cenere.” Ironizzò, aspettandosi una risposa acida dall’altro, ma ottenne soltanto un sospiro ed un Ace decisamente poco propenso ad un battibecco. Durante le ultime settimane erano state molte le occasioni che gli avevano visti schermirsi con battutine e controbattute di ogni sorta, e forse fu per quello che Marco si stupì, abbandonando la propria e saltuaria sfrontatezza per ricadere nel serio.

“Non ci perdonerà facilmente, eh?”

“Tu che dici?”

Ace scoccò una breve occhiataccia all’altro, sentendosi preso in giro.

“Dico che più va avanti questa storia, più mi sembra di non capirci nulla.” Disse con tono aspro, lasciando di stucco Marco, che si fermò, spalancando gli occhi azzurri davanti al fratello, occupato a rimuginare a testa bassa su quello che aveva appena sputato dallo stomaco, dandogli le spalle mentre si poggiava le mani sui fianchi.

“Pensi di essere il solo a pensarci? Guarda che anche io ho ragionato su quello che è successo un mese fa.” Disse a denti stretti.

A quelle parole la Fenice poté finalmente ben intuire quello a cui si riferiva il fratello, poiché i suoi pensieri erano gli stessi, da quando il padre aveva sentenziato di cambiare rotta verso Inari Fountain.

“Momo non ricorda ancora niente. O almeno non ci rende partecipi…” fece una pausa mordendosi quasi la lingua nel correggersi “…a parte Satch.”

Marco sbuffò, incrociando le braccia al petto “Non puoi incolparla per essere diventata amica di Satch…

“Non parlare come se la cosa non infastidisse pure te.” Lo imbeccò, zittendolo.

Il biondo si ritrovò a dare ragione all’altro, più di una volta aveva dovuto compiere uno sforzo più forte del dovuto per non prendere da parte Satch ed implorarlo a suon qualche calcio in testa di limitare le sue boccate d’aria fresca in compagnia della paradisea.

“Abbiamo un mese di tempo, Ace. Non cominciare a fare storie.”

Un ringhio sommesso irruppe lieve dalla gola del moro “Fosse solo per questo.”

Marco stette ad osservare attentamente l’altro, non capendo bene il senso di quell’ultima frase. Cos’altro poteva infastidire il suo educato e irruente fratellino tanto da fargli spasimare in quel modo, quasi impercettibile ad occhio che non fosse stato acuito dai sensi sovrannaturali di una Fenice, le mani e i muscoli visibilmente tesi a fior di pelle?

“A volte, durante le ultime settimane…” cominciò Pugno di fuoco con tono strascicato e forzato “… ho ripensato alle parole di Shanks, … alla vita delle paradisee, alle loro capacità … è stato semplice sentirselo spiegare allora dal Rosso, ma…

Una mano gli scattò con fare istintivo poco sopra gli addominali appoggiandosi a mo’ di artiglio dove si sarebbe dovuto trovare lo stomaco.

“Più ci penso, più sento che … “

“Manca qualcosa.” Terminò per lui la Fenice.

Ace annuì, incrociando il suo sguardo color brace con quello cristallino dell’altro. Marco rispose pienamente a quell’occhiata significativa: lui ed Ace avevano intuito la stessa cosa.

“Ti ricordi cosa successe, dopo quella sera di bevute?” domandò il moro.

“Sì, papà rimase solo con il Rosso per circa una mezzoretta.”

“Ma quello che si sono detti lui e il Rosso, non ce lo ha mai riferito.”

Nel silenzio che seguì, Marco si poggiò di schiena alla parete del corridoio a gambe accavallate e braccia incrociate.

“Anche tu pensi  abbia a che fare con Inari Fountain?” chiese il biondo, abbassando le palpebre con fare pensoso.

Un altro ringhio.

“E come faccio a pensarlo, se non so nemmeno che tipo di isola è?!”

Quelle parole lasciarono letteralmente di sasso il comandante della prima flotta.

“Come?” chiese incredulo.

“Ho chiesto a tutti della Moby, e sembrano avere le bocche cucite!!Mi snobbano non appena ne faccio parola!!” esclamò, strofinandosi nervosamente la fronte, alzandosi lievemente il cappello per passarsi una mano tra i capelli corvini.

“Insomma, cosa c’è ad Inari Fuontain?!” terminò spazientito mentre si parava proprio di fronte al biondo con sguardo che non ammetteva né repliche né ritirate strategiche di alcun tipo.

Marco era indeciso se ridere o meno: non poteva credere che, a distanza di anni, l’intera ciurma ricordasse ancora l’ordine, che aveva dato non appena finita la sua piccola disavventura sulla temibile isola dei Ciliegi Cicalini, di non fare mai più parola né del padrone dell’isola né dei suoi abitanti.

Cavolo, ed Ace, essendo entrato nella famiglia molto tempo dopo quel fatto, non aveva mai avuto modo di sentirla nominare!

Si lasciò sfuggire una risata appena accennata, giusto per non offendere troppo il fratellino.

“Colpa mia Ace, sulla Moby non si parla di Inari Fuontain a causa mia.” Disse incitandolo con un gesto della mano a accostarsi a lui.

L’altro inarcò un sopracciglio, accogliendo in pieno l’invito.

“Allora?” lo incitò spazientito, provocando un’altra risata del biondo.

“Bene cominciamo dal principio…” disse il biondo alzando la testa verso l’alto con improvviso fare assorto “…Inari Fuontain è l’inferno.”

A quelle parole, Ace quasi capitombolò a terra per la sorpresa. Che razza di inizio era quello?

“Cos-?!”

“E io mi ci sono allenato per 6 mesi, prima che tu entrassi nella ciurma.”

Ace registrò le informazioni ottenute con un certo sforzo, era tardi dopotutto, e gli ingranaggi del suo cervello avevano dato l’ultimo sprazzo di energia per esporre i propri pensieri a Marco.

“Sei mesi?!” sbottò infine, ricevendo un cenno affermativo da parte del biondo.

“Perché diavolaccio ti sei allenato per sei mesi su un’isola? Cos’è, un campo di addestramento da far invidia alla Marina?!”

“Tutt’altro…” ridacchiò amaramente alle parole del fratello.

Un campo di addestramento sarebbe stato più morbido e meno sfiancante, si ritrovò a pensare.

“È un’isola famosa per i sui impianti termali e le feste serali.” Spiegò quasi facendosi venire il voltastomaco al ricordo di come anche lui, all’epoca molto più giovane ed ingenuo, si era lasciato fuorviare da quella subdola descrizione.

“E allora qual è il problema?” chiese sinceramente confuso Ace

“Il padrone dell’isola…” spiegò in un sospiro “… è stato il mio incubo notte e giorno.”

Il volto di Ace era ormai un punto interrogativo vivente, non si sforzava neanche più a porre domande

“Ti basti sapere…” disse la Fenice, tirandosi su dall’appoggio ormai scomodo delle pareti in legno “… che una volta entrato su quell’isola, devi lottare per uscirne.”

“Ehi!” Lo richiamò Ace intercettandogli una spalla per fermarlo, parandoglisi di fronte con voce tagliente

“Non troncare il discorso a metà! Cosa centra questo con Momo?” chiese perentorio.

Marco lottò contro il groppone che gli si era formato in gola per rispondergli degnamente: non amava parlare del suo soggiorno su quella maledettissima isola primaverile-estiva, ogni volta che ci ripensava sentiva la spina dorsale tremargli come se dietro di sé avvertisse, in un angolo buio della nave, ancora occhi gialli e ghignanti studiarlo, attendendo solo il momento propizio.

Amaterasu Ryogan.” Disse infine chiudendo gli occhi “Il padrone dell’isola. È un patito delle razze del Nuovo Mondo. Conosce ogni singola specie o essere vagamente interessanti che sorvoli o abiti quelle acque.”

Non aspettò che Ace facesse un’altra domanda, ben intuendo il suo .

 “… e se le Paradisee non sono conosciute nella Grande Rotta… è molto probabile che vengano da lì.”

  

 

Atto 13, scena 2

Senti Arch…” sibilò a denti stretti Viola, guardando fisso negli occhi il compagno di viaggio, parato davanti a Morgan per proteggerlo dall’imminente attacco d’ira dell’altra “Non mi ripeterò una seconda volta: spostatevi. ORA.

Dietro il biondo il bambino orientale tremava come una foglia, impaurito dallo sguardo feroce che l’altra stava poco a poco assumendo. Pregò che il signor Arch riuscisse a calmare un’altra volta quella furia dai capelli argentati, o si sarebbero ritrovati per l’ennesima volta a dormire al freddo.

“No, se prima non ti calmi.” Ribattè monotono il ragazzo, apparentemente calmo e gelido come dimostravano i suoi occhi dal taglio sottile.

Viola strinse i pugni più forte di prima, sorda alle ammonizioni dell’altro, puntando poi con convinto intento omicida gli occhi nocciola sull’uomo seduto poco distante dal loro tavolo.

Era una locanda semplice quella in cui si trovavano, senza troppe pretese, con una clientela varia, più o meno tranquilla, pareti in pietra grezza e un solo camino a riscaldare l’ambiente che minacciava di congelarsi come l’aria di fuori. Un’isola invernale.

Mi. ha. palpato. il. culo.” Scandì pericolosamente, facendo sbiancare di netto sia Morgan, che si annotò mentalmente di non palpare mai e poi mai il sedere ad una donna, sia i pochi che, vedendoli in piedi a fronteggiarsi in quel modo, avevano ascoltato il tono infuriato della ragazza dai capelli argentati.

Arch si accigliò lievemente, vedendola accennare un passo in avanti.

“Non fare casini Viola. L’ultima volta ci abbiamo quasi rimesso le penne.”

Ma mi ha palpato il culo!!!” sbottò indignata, facendo zittire mezza locanda, non essendosi premurata di tenere basso il tono di voce.

Arch sentiva gli sguardi di tutti puntarsi su di lui. Non andava bene. Per niente. Si preannunciava un’altra notte all’insegna di denti battuti tra loro per il freddo.

“E che cosa vorresti fargli, sentiamo.” Tentò di salvare la situazione incrociando le braccia al petto, sfiorando appena con la punta delle dita i manici dei suoi pugnali nascosti sotto la giacca, in prossimità del costato.

Gli strappo una ad una le dita sudice che si ritrova e gliele faccio ingoiare.” Fu la risposta schietta e velenosa che fece trattenere il fiato all’intera sala.

Il colpevole in questione, di fronte a quella discussione di cui aveva capito, nonostante il rhum gli annebbiasse un poco il cervello, era il malaugurato protagonista, fece una cosa che, se avesse saputo chi era quella bella gnocca a cui aveva saggiato le forme, sarebbe equivalsa ad un suicidio in piena regola.

Tracannando nel frattempo ancora un po’ di liquore dalla bottiglia, si avvicinò ai tre, ignorando volutamente i gesti disperati del bambino che gli intimavano di non fare un altro passo.

Cosha c’è amico… hic…” sghignazzò, poggiandosi pesantemente con un braccio sulle spalle del biondo, che barcollò pericolosamente “… la tua bella non ha… hic… gradito il mio complimento?” Si scolò un altro sorso veloce, umettandosi quel tanto che gli serviva le labbra.

“Ha proprio un bel sedere sai? Hiiic. Sarebbe un vero e proprio reato no-..”

Arch si spostò appena in tempo per non venire anche lui colpito dal pianoforte verticale appena lanciato da Viola, premurandosi di scattare ed allontanare Morgan dal centro della sala.

“Niente camera nemmeno stanotte, vero signor Arch?” chiese sconsolato il bambino guardando la tempesta di neve che aveva cominciato a soffiare brutalmente contro i vetri della finestra appannati della locanda.

“Temo di no.” Rispose il biondo rimettendosi in piedi.

“Ehi tu! Fatina bionda!”

A quell’esclamazione diretta verso di sé il ragazzo si paralizzò, avvertendo alle proprie spalle la presenza di almeno un paio di energumeni arrabbiati per il trattamento che stava subendo il loro compagno di bevute. Sbuffò. Perché tutte le volte che Viola faceva casino ci andava di mezzo lui? Non facevano prima ad andare ad aiutarlo?

La razza di suo padre era veramente ipocrita.

Azzardò un’occhiatina frustrata all’indietro, constatando di aver avuto un’altra volta ragione, per suo enorme sfortuna.

Contò ben tre paia di braccia muscolose e una mazza. Non male. Di solito gli andava peggio.

“Cosa pensi di fare?”

“La tua amichetta sta pestando Miguel come un sacco da boxe.”

“Allora?!”

Arch rimase zitto, scoccando una significativa occhiata a Morgan che, annuendo, si affrettò ad uscire, non senza un certo rammarico, dalla locanda, addentrandosi nel freddo della notte con le braccia strette al petto.

“Ehi! Parlo con te facc-

Una mano callosa gli artigliò una spalla, costringendolo con uno strattone a voltarsi e fronteggiare quell’ennesima seccatura. Il suo occhio sinistro si aprì, scintillando solitario di una luce color amaranto che gli bruciava dolorosamente e lentamente il nervo ottico.

A quella vista i tre uomini ebbero un attimo di ripensamento indietreggiando, ma solo per un istante. Quello che brandiva la mazza si scagliò in direzione del giovane, colpendo però il vuoto.

Pizzicato d’Ape

Fu la sola cosa che riuscì a sentire venirgli sussurrato all’orecchio, prima di venire trafitto al fianco destro da qualcosa di corto ed affilato. Intravide una lama corta venire estratta con velocità dalla propria carne, scintillando sinistra di un colore rossastro, prima di cadere a terra dolorante.

“Bastardo!” gli ringhiò contro uno degli altri due, indietreggiando tuttavia confuso.

Il biondo pulì con noncuranza la lama sul gilet che indossava e sospirò estraendo anche l’altro pugnale, preparandosi all’attacco ormai imminente.

Avrebbero finito con lo scappare via anche da quell’isola, poco ma sicuro.

 

Ed infatti eccoli lì, sotto la neve e con un misero albero dalla chioma conica a ripararli, neanche tanto bene, dal vento gelido.

“La prossima volta dammi retta.”  Ruppe il silenzio Arch, stringendosi nelle spalle più che poteva. Non era come una paradisea lui, e le sue fiamme non gli fornivano protezione dalle intemperie, ma questo, ovviamente, non importava più di tanto a Viola, bella calda attorniata dalle sue fiamme rosso vivo.

Non usare quel tono con me Arch.” Lo imbeccò, raggomitolandosi con una lieve smorfia sulla neve  Ha avuto quel che si meritava.” Concluse, lanciando un’occhiata incuriosita a Morgan, perso con il viso tra le mani in chissà quali pensieri, mentre osservava con interesse alle reazioni di Arch ad ogni spiffero di vento.

“Ti rendi conto c-che siamo dei fuggiaschi per la quinta volta di fila?” provò inutilmente a controbattere senza far tremare le mascelle.

Chi se ne frega. ” rispose Viola sbuffando di nascosto. Sapeva di essere la causa dei mali dell’altro, ma non l’avrebbe mai ammesso. L’unica a poterle estorcere una confessione simile era Allegra e nessun’altro.

“Ma non lo riscaldi?”

La ragazza cadde quasi di faccia sulla neve nel sentire quelle parole provenire dalla bocca di Morgan.  Come? Cosa? Aveva sentito bene? Lei riscaldare Arch?! Cosa aveva bevuto in quella bettola?!

E come di grazia?” chiese con un tono di avvertimento ed un sopracciglio argentato inarcato.

“Con il corpo.” Fu la semplice ed innocente ribattuta del bambino.

Non ci metto nulla a romperti l’osso del collo, marmocchio.

Ed altrettanto semplice e dura fu la risposta di Viola.

S-scusa.” Borbottò incavando con vergogna la testa tra le spalle.

“Tu piuttosto…” riprese la ragazza, dimentica di come Arch stesse assumendo via via un colorito sempre più bluastro “… non hai freddo?”

“Veramente io…

Il suono sordo del corpo del biondo che cadeva sulla neve acquistò tutta la loro attenzione.

Merda.”

“Signor Arch!” scattò il bambino terrorizzato, accostandosi con apprensione al corpo accasciato del ragazzo.

“Signorina Viola non può fare un’eccezione? Morirà di freddo di questo passo.” Implorò una volta valutato dal colore violaceo delle labbra e delle dita la gravità della situazione.

Ma se tu stai benissimo.

“Ma io…!” fece per replicare prima che un mugolio sofferente da parte del biondo lo interrompesse.

Di colpo il viso infantile di Morgan si corrucciò, assumendo quello che Viola definì un’espressione matura e ferma nelle decisioni appena prese.

La ragazza guardò con stupore malcelato il bambino dai capelli neri togliersi la magliettina e riporla accanto all’albero, per poi scoccarle uno sguardo apprensivo.

S-signorina… n-non si spaventi p-p-per favore.”

Fu tutto quello che ottenne come spiegazione, prima di vedere i tratti del fanciullo ingrossarsi e scurirsi al tempo stesso, assumendo un colore tendente al castano, per poi improvvisamente spaccarsi nei pressi degli occhi e del naso, alzandosi con degli scricchiolii secchi sempre più verso il basso, sul collo, sul petto, sulle braccia. Viola vide le mani piccole di Morgan allungarsi e incurvarsi con i piedi ad assumere la stessa trasformazione, mentre dalle mascelle, improvvisamente allungatesi, spuntavano delle zanne piccole e quasi arrotondate.

La cosa peggiore fu quando dalla schiena del bambino si allungò velocemente in qualcosa di molto simile ad una coda. Una coda lunga circa quanto il corpo e affusolata alla punta.

Davanti a lei era comparso un lucertolone con delle grosse scaglie lignee e tutto preso a raggomitolarsi il più possibile ad Arch.

Grande Spirito…escalmò incredula Viola, paralizzandosi sulla neve.

Cosa…?Come…?

Gli occhi neri della lucertola si abbassarono con vergogna, emettendo dalle profondità della lunga gola un suono sofferente, prima di diventare qualcosa di più comprensibile.

“Sono così da un po’.” Ammise la voce di Morgan, balbettando“N-non volevo dirvelo p-perché avevo paura mi m-m-mandaste via… co-come la ma-mamma.”

Un cumulo di neve gli arrivò dritto in faccia e subito dopo si ritrovò Viola addosso con le mani ad allargargli le mascelle per scrutarci dentro.

Caccia fuori il marmocchio, lucertolone!” esclamò convinta la ragazza.

M-m-ma signorina! Sono io!”

 

 

Atto 13, scena 3, Marineford, il giorno dopo, ore 9,30 del mattino

Monkey D. Garp odiava dare rapporto. La considerava di per sé una pratica, oltre che controproducente, essenzialmente atta a stringergli il collo, come se quelli dei piani alti si premurassero di ricordargli, con una saltuaria  scrollatina di guinzaglio, chi tra di loro comandasse. 

L’eroe dal Pugno di ferro non avrebbe mai ammesso, ma lui detestava dover chinare sempre la testa come un cucciolotto obbediente.

 Chi non l’avrebbe fatto?

Era un essere umano anche lui dopotutto e la libertà, anche nel più sottomesso dei purosangue viziati di cui si attorniavano pomposamente i Nobili, era un richiamo che difficilmente poteva essere soppresso del tutto. Se poi alla sua indole decisamente poco accondiscendente e molto più incline a colpi di testa, distruttivi il più delle volte, si aggiungeva anche una certa esperienza nel mondo dei Protettori della Giustizia era naturale che le sue azioni dessero l’impressione di una scalpitante voglia di liberarsi da quelle catene per poter finalmente dare lui stesso una scrollatina al mondo.

A cominciare da Akainu.

Oh, lui sì che avrebbe meritato una bella lezione. Più giovane di lui di ben vent’anni e già a presiedere la carica che lui aveva, con grande disappunto di Sengoku, più volte rifiutato. In tutta la sua carriera non aveva mai visto un marine più spregiudicato e ottuso. Cieco e sordo ad ogni parola o qualsivoglia cosa che osasse mettere in dubbio la malata idea di giustizia.

Per la barba assurda di Sengoku, quello non era un ammiraglio, ma un mastino lasciato a guinzaglio sciolto!

Neanche l’avesse fatto apposta, in quel momento l’occhio li cadde proprio sulla porta rossiccia e intarsiata della stanza privata del suddetto ammiraglio Rosso, dove non mancava mai di chiudersi ermeticamente dopo ogni missione.

Senza uscirne per delle ore.

Al solo pensiero il naso del vice ammiraglio si storse indignato e sbuffando dalle narici dilatate due nuvolette di fumo.

Un alloggio personale, bah, ai suoi tempi a un marine non sarebbe servito che un po’ di paglia ed un misero tetto gocciolante sulla testa per sentirsi a casa. E lui aveva persino chiesto ed ottenuto un alloggio personale.

Ah, queste epoche … - pensò rammaricato, scuotendo la testa mentre continuava ad allontanarsi, ma le cose non andarono come previsto.

C-c’è nessuno?

Si gelò sul posto, sbarrando gli occhi rotondi.

Era stato un sussurro femminile quello che aveva udito o la vecchiaia aveva cominciato finalmente a corrodergli il cervello?

“Qualcun-o mi sente…?”

Realizzando di non esserselo immaginato, si girò di scatto, irrigidendosi istintivamente con i pugni ben chiusi, ma non trovò nulla ad attenderlo dietro di sé.

Un’enorme punto interrogativo gli si formò sulla testa. Garp inclinò la testa confuso, non capendo lui stesso in che situazione si trovasse.

Ma…” grugnì, grattandosi la testa brizzolata con una mano e quasi scattò un’altra volta sull’attenti, quando un rumore continuato di una mano sbattuta su del legno iniziasse a rimbombare nel corridoio.

“Aiuto..!” fece nuovamente la voce femminea, cominciando una litania che si protrasse finché non ne ebbe individuato l’origine.

Monkey D. Garp avrebbe immaginato di tutto, persino uno spettro.

Nella sua carriera d’altronde ne aveva viste tante di cose strane: asini che volavano, piante mangia-nuvole e molte altre ancora.

Ma scoprire che nella camera privata dell’ammiraglio Cane Rosso c’era una donna, o almeno così aveva potuto intuire dalla voce, che implorava flebilmente di essere aiutata, era l’ultima cosa che si sarebbe mai aspettato.

Ancora accompagnato da qui lamenti estranei ripetuti, il vice ammiraglio si accostò meglio all’uscio.

Ehm…

“Mi faccia uscire… !” sbottò di nuovo quella voce , incrinandosi pericolosamente verso qualcosa di simile al pianto “La prego… ! Mi faccia uscire… !”

“Ehi ehi  ehi!” disse portando avanti le mani come ad intimarle di calmarsi, non pensando al fatto che lei non potesse vederlo. “Calma! Diamine, non riesco a pensare!”

Per lui fu un sollievo sentire le suppliche continuate di quella voce cessare di botto.

Sospirò, mettendosi una mano su un fianco e l’altra sulla testa, a stuzzicargli la testa con qualche grattata.

Bene… prima di tutto… ” disse chiudendo gli occhi con fare pensoso, riaprendoli poi di scatto, dirigendoli verso la superficie liscia e pomposamente cesellata della porta.

“… con chi parlo?” domandò infine.

“Con me.”

Garp cadde quasi sul pavimento. Incredibile- pensò, mentre si manteneva a stento in equilibrio, massaggiandosi le tempie – questa è di certo la cosa più assurda che mi sia mai capitata.

Fare un interrogatorio ad una porta… bah.

“E come si chiama lei?”

Clarina… Sassonia.”  Fu la nuova risposta della voce.

Bhe, era un passo avanti. “E che ci fa in quella stanza?” ricominciò incrociando le braccia al petto, pronto a ricevere qualsiasi tipo di spiegazione assurda.

“Non lo so..!” disse la donna, ponderando stranamente su ogni singola parola, quasi facendola uscire con sforzo studiato. “Voglio uscire…!” sussurrò di nuovo con tono disperato.

“Ma lui no vuole…! Sono mesi che sono qui…!”

 A quelle parole i muscoli di Garp si contrassero, irrigidendosi più di quanto non lo fossero già, e i suoi occhi stralunarono increduli.

Lui?! Aveva sentito proprio LUI??!!

Si impose la calma. Non doveva arrivare a conclusioni affrettate. Una parola non condannava una persona e lui non poteva certo collegarla alla prima che gli veniva in mente.

Si accigliò duramente, sondando con sospetto quella porta quasi a volerla oltrepassare con lo guardo e vedere finalmente il volto di chi gli stava facendo sorgere un grande atroce dubbio.

“Di chi sta parlando?” domandò a denti stretti.

L-lui… lui ha detto… di chiamarsi S-sa..” balbettò con cautela la donna oltre l’uscio, lasciandolo su un letto di chiodi per la tensione.

 Saka-zuki.”

Una decina di vene si ingrossò sulle enormi braccia del marine, minacciando di strappare il tessuto pregiato della divisa, mentre le mandibole possenti digrignavano furiose.

Rinchiudere una persona in un alloggio di Marineford???!!!

“GNNNNNNGHHHFFFF!!!” ringhiò trattenendosi a fatica dall’urlare ai quattro venti il nome del superiore. No, era troppo.  In meno di un nanosecondo la mente di Garp prese una decisione. Al diavolo i gradi. Al diavolo il protocollo. Ed al diavolo le manie d’onnipotenza di quel pomposo e scellerato del suo superiore.

“La preg-…!”

“SI SPOSTI…” disse caricando all’indietro un braccio per poi abbatterlo impietoso contro l’ostacolo che la divideva dalla prigioniera.

In men che non si dica un polverone di schegge rosse e segatura si alzò per quel breve tratto di corridoio, oscurando la vista stessa del marine, tanto era fitta. Non si preoccupò di aver esagerato nel caricare un colpo, come suo solito e senza ripensamenti mise piede nella stanza.

Gli cadde la mascella e dovette sputacchiare un po’ per via della polvere che gli si depositò sulla lingua a causa del suo gesto. Per tutte le strambe isole della Rotta Maggiore, non aveva mai visto una cosa tanto malata.

In quella stanza non c’era un solo oggetto, angolo, suppellettile che non fosse rosso. Rosso sul soffitto, sulle pareti, sui mobili, sul pavimento. Neanche quella testa bacata di Shanks, che quell’orrendo colore se lo portava in testa, avrebbe saputo pareggiare una pazzia simile.

Era… era assurdo.

Non riuscì realizzare altro, poiché un improvviso peso gli pressò delicatamente il petto, permettendogli di prestare attenzione a qualcosa che non fosse il colore della camera.

Una cascata ondeggiante di capelli biondi era riversa sulla seta tesa della sua giacca, tremando e tirando con le proprie mani quanto più materiale riusciva a raccogliere.

Dall’alto della propria statura, Monkey D. Garp riconobbe nel corpo alto e ricoperto da un semplice lembo di coperta, attorcigliata a mo’ di tunica, una donna di non più di una trentina di anni, spaventata e certamente sull’orlo di un pianto liberatorio alla vista della fine del proprio lungo ed indimenticabile incubo.

Le poggiò le mani tozze sulle spalle nude, scostandola un po’ da sé, e quello che vide fu certamente il volto di una delle più belle e regali donne che avesse mai visto. Due gemme cobalto posate a regola d’arte su un volto ovale e perfetto, come tutto il resto, specie le labbra rosee e piene come quelle infantili di una bambina. Deglutì inconsciamente di fronte a tanta perfezione e capì immediatamente il motivo per il quale Akainu si chiudeva ad ogni rientro in quella stanza.

Di certo non per riposare.

Un paio di gocce salate stillarono fuori da quelle gemme sottili e profonde come l’acqua dell’oceano, scendendo lungo le guance.

C’era un’altra cosa che Garp non avrebbe mai e poi mai imparato ad affrontare: ossia le lacrime di una donna.

“La preg- ..!” sighiozzò questa portandosi le mani alla bocca, attutendo di poco le proprie parole.

 “Mi porti via da qui…! Mi porti dai miei figli!”

Garp decise che avrebbe fatto rapporto molto più tardi.

 

Atto 13, scena 4, una delle isole della Rotta Maggiore

“Insomma sei diventato così dopo aver mangiato un frutto.” Ricapitolò brevemente Arch, innalzando  velocemente la vela maestra del Cutter. Il tessuto sottile della piccola imbarcazione si gonfiò immediatamente sotto la frenetica spinta dei venti invernali dell’isola e ben presto all’orizzonte i tre viaggiatori poterono assistere, con loro grande sollievo, alla vista di un gremire feroce di gente radunatosi sulla riva, allontanarsi sempre di più man mano che la corrente li trascinava via.

“Uhm.” Annuì in risposta Morgan poggiando le mani sulle ginocchia, stando seduto per terra. “Aveva un sapore orribile.”aggiunse poi cacciando fuori la lingua al solo pensiero del gusto amarognolo che gli aveva percorso la gola quella volta.

Finalmente lontani. Arch poté mettersi seduto al timone, senza mai però perdere di vista il bambino, quasi si aspettasse che si ritramutasse da un momento all’altro. Inutile dire che Morgan si sentì a disagio, scrutato dagli occhi freddi e come sempre inespressivi dell’altro.

“Che tipo di frutto era?” fu la rapida e semplice domanda del biondo, sempre attento ai gesti del bambino.

Il piccolo ci pensò un po’ su.

“Giallo.” Disse infine “Era come un grappolo d’uva enorme e lungo, ma non aveva il raspo.”

“Uva?” chiese improvvisamente il ragazzo, lasciando un po’ confuso l’altro.

Arch scosse la testa, scusandosi per averlo interrotto.

“Lascia stare.” Disse, virando di 30 a gradi in modo tale da far coincidere il verso giusto del loro Log Pose con quello della rotta intrapresa dall’imbarcazione.

Da lì in poi non parlarono per tutto il viaggio.

Morgan dopo un po’ decise di schiacciare un pisolino, non avendo dormito granchè la scorsa notte, ma Arch non smise di pensare un solo istante.

Doveva la vita a quel bambino. Lo ammetteva e gli sarebbe stato eternamente grato, ma quello che aveva capito avrebbe fatto meglio a non tenerselo per sé. Viola era andata a sua volta a dormire per via delle sue abitudini di paradisea, ed era stato un bene.

Di certo non avrebbe reagito bene alla notizia e Morgan avrebbe fatto meglio a non essere nei paraggi per allora.

Sospirò.

La ricerca di Allegra e sua madre si stava complicando più del previsto.

 

Atto 13, scena 5, Moby Dick, giorno.

“Tesoro, non pensi di dover andare a dormire?” fece preoccupata Penelope, districandole delicatamente da dietro i capelli, ormai spenti, con una spazzola a setole. Erano entrambe sedute sul letto di Momo, uno dei tanti dell’infermeria che per decoro le infermiere della Moby non cedevano mai a nessuno.

La ragazza strizzò gli occhi, ben consapevole di quanto il suo viso, solcato da un paio di occhiaie più profonde del solito, angosciasse l’infermiera dai capelli biondi.

Scosse la testa, sentendo il pettine venire delicatamente posato sul comodino poco lì affianco. Come al solito non poteva parlare in pieno giorno, ma questo non impedì a Penelope di capire.

La donna sospirò, capendo bene come si dovesse sentire. In una notte aveva scoperto di essere contesa da due capitani della nave ed aveva quasi rischiato di mandare a fuoco la Moby per un momento di rabbia.

La scorsa notte aveva ascoltato le sue spiegazioni dalla prima all’ultima parola, senza fiatare, affiancata dall’immancabile ed autoritaria presenza di Betty accanto alla porta.

“Capisco.” Le disse, passandole le lunghe e smaltate dita tra i capelli, sperando in cuor suo di tranquillizzarla con quel misero gesto di solidarietà, ma ottenne solo il secco fruscio delle pagine di anatomia che venivano sfogliate.

Betty le aveva dato un ottimo passatempo, mettendo sotto il naso della paradisea uno dei suoi primi libri di medicina, ma vedere la ragazza immergersi così ostinatamente in quella lettura la rendeva inquieta.

Si alzò sconsolata dal letto, uscendo dalla stanza senza mai togliere gli occhi dalla figura ricurva della ragazza, nemmeno quando l’ultimo spiraglio che si creò nel richiudere l’uscio si fu annullato del tutto, lasciandola da sola nel corridoio.

Cominciò a dirigersi verso la mensa con la cartelletta in mano, ripensando con sguardo assente a quello che le aveva confessato Momo la scorsa notte.

Le aveva confessato di non aver ancora ricordato. Per quanto si sforzasse di capire chi fossero i visi che le giravano, offuscati e deformati da chissà cosa,  nella mente, tutto sembrava privo di significato.

Forse il capitano avrebbe dovuto dirle quello che erano riusciti a scoprire sulle sue origini, anche grazie alle confessioni del Rosso.

Già perché non dirle niente? Non sarebbe stato più semplice?

Penelope corrugò la fronte. Non era una cosa che succedeva spesso, ma qualcosa non le tornava. Il capitano non aveva mai dato segno di voler rivelare alla ragazza la sua identità, seppure in minima parte.

Allora perché?

“Buongiorno Penelope!”

Si voltò e a risponderle fu il largo e solare sorriso di Satch, in piedi dietro di lei con la solita ed impeccabile divisa bianca a doppio petto ed il ciuffo imbrillantinato pettinato all’indietro. Le venne naturale sciogliersi in uno dei propri sorrisi angelici.

“Buongiorno a lei, comandante Satch.” 

Per un attimo il comandante dal pizzetto tentennò, colpito da quell’espressione candida che l’infermiera gli aveva rivolto, ma si costrinse a riprendersi il più in fretta possibile, tornando alla propria consueta compostezza.

“Come sta il nostro scricciolo?” chiese accennando con un piccolo movimento della testa la porta dell’infermeria.

Si pentì immediatamente nel vedere il bel volto di Penelope indurirsi in un’espressione preoccupata.

“Non bene.” Sospirò con rammarico la donna, facendo per compiere un passo che venne ben presto imitato dall’altro “Non vuole nemmeno dormire.” Ammise provocando in Satch lo stesso moto di preoccupazione.

Non era normale che la ragazza non dormisse. Il suo corpo non era abituato e chissà quale stress mentale avrebbe aggiunto quello fisico. La spina dorsale gli tremolò appena nel ricordare la corda bruciacchiata dalle fiamme di Momo che Marco ed Ace gli avevano mostrato, chiedendogli se lui ne sapesse qualcosa.

Anche lui era rimasto sorpreso da quel nuovo risvolto, ma non poteva dirsi totalmente sorpreso di quello che era successo. In fondo il suo istinto, come sempre benedetto, lo aveva più volte avvertito di non far arrabbiare lo scricciolo. E in quel momento aveva capito il perché.

“Sono preoccupata, comandante Satch.”  Lo riscosse la voce sottile e tirata dell’infermiera, che si portò una mano al viso, posandola delicatamente sulla guancia “C’è qualcosa che la turba.”

Parecchie cose direi…- pensò satch, lanciando un’occhiata all’indietro, sperando che la ragazza stesse bene, o almeno, prossima a lasciarsi abbracciare da Morfeo.

Avrebbe voluto farle visita, ma in quel momento era di maggiore importanza fare un’altra cosa.

Penelope…

“Sì?” si voltò l’infermiera incontrando ancora una volta il sorrisone sereno dell’altro.

“Per caso hai visto Jaws?”

 

Atto 13, scena 6

Momo leggeva.

Leggeva con foga quei fiumi infiniti di parole senza mai vederne la fine.

Davanti a lei frasi e frasi descrivevano il corpo umano con meticolosità quasi maniacale, analizzando viscere, vene, tessuti muscolari o semplicemente epidermici con una crudezza che il suo stomaco aveva imparato in pochissimo tempo a sopportare.

Per un attimo si chiese chi avesse scritto una cosa simile, ma continuò la sua ricerca sfogliando e sfogliando ancora quell’enorme volume, ignorando la propria curiosità.

Si soffermava sulle parole che le sembravano più significative, sulle frasi, ma solo per scartarle ed andare avanti, pregando di avere più fortuna nelle pagine successive.

Niente. Niente.

Tutto quello che leggeva per lei aveva senso, come non lo aveva. La sua mente, oramai abituata alle analisi di quel tipo, cercava di evitare la sensazione di stranezza che le immagini di persone svestite della propria pelle le creava, soffocando in gola piccoli conati acidi di nervosismo.

Per tutte le stelle… perché sentiva che anche quello significava qualcosa?!

Arrivò all’ultima pagina.

L’ultima pagina.

I suoi occhi arrossati ondeggiarono sulle ultime ed insignificanti parole del libro, prima che le sue mani lo lasciassero scivolare con un tonfo sordo a terra.

Non ci trovava niente in quel volume. Niente di quel modo di pensare, di analizzare di vedere le cose, come aveva visto nelle intense e rugose pagine del libro, le apparteneva. Nulla. Assolutamente nulla.

Perché quella sensazione? Perché, nonostante la lingua, i vestiti e tutto il resto, sentiva che quel mondo non le apparteneva?

Si era gettata a capofitto su quelle pagine, spinta da un’urgenza incontrollata: capire chi era. Le era venuto naturale dopo gli avvenimenti della scorsa notte.

Capire chi era significava capire se stessa e, di conseguenza, sapere quello che voleva, poteva e doveva fare.

Chinò la testa in avanti, sperando forse di alleggerire così le proprie spalle dall’enorme peso che le dava la sensazione di pensare.

Davanti a lei soltanto il legno del pavimento. Strizzò gli occhi: doveva ricordare.

Chi era Arch?

Un ragazzo dai capelli biondi e occhi blu. Chi?

 Chi era Viola?

Una figura lontana con una fiamma rossa in mano. Chi?

Perché un’isola diversa?

Quale isola?

Perché il sospetto?

Gli occhi freddi e distaccati del ragazzo. Perché?

BASTA!

L’urlo nella sua mente fu accompagnato da un senso di pesantezza al petto, talmente forte da farle gocciolare la fronte e boccheggiare alla ricerca disperata di aria.

Pensa a qualcos’altro… – si impose, rovistando nella propria mente, ma più cercava, più le immagini di quel giorno in cui aveva fatto cadere Arch in acqua ritornavano prepotentemente in superficie – …pensa a qualcos’altro !!

Un bacio sulla mano. Una sensazione di bruciore al cuore.

NO!

Si alzò di scatto e, raccogliendo il libro che aveva lasciato cadere, si diresse a passo svelto verso la porta.

Ritrovarsi a girovagare tra i corridoi della Moby non l’aiutò più di tanto e, con la stanchezza ad intorpidirle le ossa, anche il più piccolo gesto sembrava urlarle di stare ferma.

Poi un movimento sbagliato di un piede la fece ciondolare pericolosamente in avanti, ma , stranamente, l’impatto con il pavimento non arrivò.

“Tutto bene?”

Una domanda grugnita dietro di lei, e la sensazione di una mano stretta al colletto della propria camicia, la fece voltare scoprendo l’identità del proprio occasionale salvatore.

Deglutì.

Bene. Non sarebbe potuta andare peggio. Avrebbe preferito Ace: almeno lui si sarebbe limitato a prenderla un po’ in giro dopo averle evitato, un capitombolo del genere. Certo si sarebbe un poco vergognata della goffaggine che si portava dietro, ma almeno la tensione si sarebbe alleggerita un po’.

Jaws non era mai stato un tipo loquace, da quel che ricordava.

Il comandante della terza flotta la poggiò delicatamente a terra, senza neanche darle il tempo di annuire, per poi tornare nella solita posizione a braccia conserte.

Tornata con i piedi per terra Momo ebbe l’istinto di scappare via, di corsa anche, vedendo gli occhi corrucciati dell’altro osservarla con insistenza.

Si irrigidì sul posto vedendolo chinarsi accanto a lei, allungando una mano e le cadde la mascella quando  quest’ultima riapparve nel suo campo visivo con il libro di Betty in mano.

“Ti è caduto.” Disse semplicemente porgendole il volume con la grossa mano bruna ad avvolgerne completamente la copertina.

Una lacrimuccia le affiorò automaticamente nell’angolo dell’occhio sinistro, nel constatare intimorita quanto il grosso libro che aveva trasportato apparisse piccolo nelle mani del comandante Diamante.

Eppure le sue mani andarono lo stesso ad accettare l’oggetto, forzando un sorriso a combattere contro la sua stessa paura.

I duri lineamenti di Jaws si ammorbidirono in un istante, sciogliendosi in un’espressione dispiaciuta e, forse, fu proprio nell’accorgersene che Momo si rese conto di aver esagerato.

Abbassò lo sguardo di lato, imbronciandosi.

Cosa gli aveva fatto Jaws? Assolutamente nulla.

Non era colpa sua se la sue enorme stazza le ricordava in modo spaventoso quella della figura che aveva tentato di strangolarla.

“Lo portavi indietro?”

Spalancò gli occhi, tentennando confusa.

Indietro?

Indietro dove?

Forse si riferiva a Betty.

Racimolò quanto più coraggio trovò per sostenere lo sguardo del gigante che, pur non avendo nulla a che vedere con la mole del babbo, pareva scrutarla dall’alto con un cipiglio a dir poco minaccioso.

Annuì. E, per tutte le stelle del firmamento, quanto le costò non saltare via quando Jaws si mosse sorpassandola, grugnendo un appena udibile:

Seguimi.”

 

 Atto 13, scena 7, Arioso delle conoscenze

Trattenni il fiato, spalancando la bocca alla vista di quello spettacolo maestoso.

Quella dove Jaws mi aveva portata era una stanza immensa, talmente tanto da poter, ad occhio e croce, occupare si è no quattro decimi della Moby.

Davanti a me c’era una quantità esorbitante di libri.

Libri.

Libri.

Libri.

Volumi su volumi che oscillavano in pile dall’equilibrio precario, oppure, ben riposti su scaffali ben ordinati e numerati.

Le mie narici percepirono l’odore polveroso e pungente di carta antica, intorpidendomi la mente di una sensazione simile all’euforia.

Era straordinario.

Gli occhi mi brillarono emozionati, portandomi a farmi strada di un paio di passi tra gli scaffali che componevano quella che, capii in pochi istanti, era la libreria della nave, accessibile, a giudicare dalle dimensioni, anche al capitano.

Dimenticai di essere stanca e strinsi con trepidazione il libro di anatomia di Betty.

Non che disprezzassi le letture che l’infermiera mi affibbiava, ma vedere così tanti testi di dimensione e colore diversa mi fece salire in petto una curiosità crescente.

Chissà cos’altro avrei trovato sotto quelle copertine.

Avrei iniziato da quelli più piccoli, continuando via via con quelli più complicati.

Arch.

Mi bloccai di colpo, sorpresa da quel mio stesso pensiero che aveva fatto affiorare, spontaneo sulle mie labbra, un sorriso.

Me le coprii con una mano.

Cos’era quella sensazione? Era come se … desiderassi che vedesse quel posto.

La sensazione di essere sollevata di scatto da terra mi strappò quasi un grido, che fortunatamente soffocai appena in tempo con entrambe le mani.

Mi ritrovai appoggiata su qualcosa di carnoso e liscio.

Jaws mi aveva poggiato sulla propria clavicola, facendomi sedere poco sopra le grandi e pesanti spalle della sua armatura, permettendomi in quel modo di sovrastare ben 3 ripiani colmi di volumi.

Lo guardai perplessa e lui rispose con un gran sorriso. Era il primo che gli vedevo fare, dacché ero salita sulla nave.

Sorrisi di rimando constatando quanto facesse tenerezza con quell’espressione. Sembrava proprio un’enorme orsacchiotto.

Annuii, dando il via ad un pomeriggio fatto di gesti e continue ricerche di libri interessanti.

 

Atto 13, scena 8

Marco chiuse il libro con un gesto della mano, sorridendo di fronte la scena che gli si profilò sotto gli occhi, dall’alto della sua postazione.

Era solito passare parecchio tempo in quel posto, ricercando, in completa calma e solitudine, anche grazie la sua capacità di volare che il Frutto gli conferiva, tomi dimenticati e di cui solo lui sembrava  conoscere l’esistenza. Quel giorno aveva deciso di farci una capatina, sperando che qualche copertina impolverata l’avrebbe aiutato a staccare un poco dalla routine in cui era caduto a seguito della sua rivalità con Ace.

Speranza vana, dato che non appena incontrava qualche carattere scolpito nero su bianco che contenesse una “M” di troppo, tornava sempre a strofinarsi gli occhi esasperato, cercando di cancellare inutilmente il ricordo di un paio di occhietti spaventati dalla sua stessa presenza.

Accanto a lui, testimoni della sua infruttuosa ricerca di pace interiore, stavano almeno una dozzina di volumetti di poco conto, tutti presi ed abbandonati per un altro dopo nemmeno dieci pagine.

 L’ultima spiaggia era stata rifugiarsi sullo scaffale più alto della biblioteca, dove nemmeno i libri arrivavano più.

Anche quello, purtroppo si era dimostrato un fiasco completo ed aveva ricominciato ad analizzare uno per volta il contenuto degli scritti da lui scelti.

Non si sarebbe mai lontanamente immaginato di vedere Momo e Jaws entrare nella biblioteca e cominciare a rovistare tra i libri in quel modo.

All’inizio c’era rimasto male, allargando gli occhi stupito, poi, invece, aveva cominciato ad osservarli attentamente, accorgendosi che, man mano che una quantità sempre crescente di libri si accumulava tra le braccia forzute del comandante in terza, l’atteggiamento della Paradisea si faceva più rilassato nei confronti dell’altro.

Bravo Jaws – aveva pensato, felice di poter vedere l’espressione rilassata della ragazza, prima di cogliere un piccolo particolare nel volto di quest’ultima.

Sbuffò, sentendosi immediatamente ricadere nei sensi di colpi.

Non aveva dormito, anzi, non stava  dormendo.

Poi guardò meglio e sorrise.

Non avrebbe passato molto tempo a non dormire, se le sue palpebre avevano già cominciato ad abbassarsi a quel ritmo.

Ebbe modo di palesare la sua presenza al fratello solo quando Momo crollò letteralmente sulla spalla dell’altro, stringendo al petto quello che sembrava rappresentare in copertina una sorta di isola conica e completamente composta da verde.

Si lasciò ricadere con un colpo di anche giù dall’altissimo mobile, atterrando con leggerezza per terra.

“È un bene che si sia addormentata.” Disse avvicinandosi con le mani sui fianchi.

Jaws lo scrutò per un istante di troppo, prima di voltarsi e grugnire un sommesso:

“Già.”

Marco fece scattare un sopracciglio al’insù: conosceva Jaws da anni e sapeva riconoscere quando qualcosa non andava.

“C’è qualcosa che vuoi dirmi?”

Susseguì un momento di silenzio, smorzato di netto dalla voce roca dell gigante Diamante.

Sì…” disse guardandolo nuovamente dritto negli occhi “… datele un po’ di tempo.”

Un sorrisetto tese le labbra del biondo: Jaws sapeva essere veramente protettivo nei confronti di chi si dimostrava più indifeso.

“Stiamo andando ad Inari Fountain.” Fece presente con un po’ di amaro ad invadergli la gola “Non credo avremo molto tempo per stare con lei, se papà ha deciso di farla allenare lì.”

Di nuovo silenzio.

“Non può decidere se non sa chi è.” Fu l’unico e semplice argomento che Jaws gli presentò, spiazzandolo.

Aveva ragione, doveva ammetterlo.

Si passò una mano tra i capelli a ciuffo, guardando la ragazza in questione venire poggiata con delicatezza forzata su uno dei divanetti della biblioteca.

Sapere la propria identità era certamente importante per Momo, ma lui, ripensando alle lacrime che le aveva visto versare all’affiorare dei primi ricordi, aveva iniziato a temere il momento in cui la sua mente avrebbe ritrovato la propria strada.

Si sarebbe allontanata. Lo sentiva. Sarebbe partita e non sarebbe più tornata, Inari Fountain o meno.

Questo, aggiunto alla piena coscienza che con tutta probabilità non l’avrebbe rivista per un tempo indeterminato e considerevolmente lungo, non appena approdati sull’odiata isola dei Ciliegi Cicalini,gli faceva crescere l’urgenza di accelerare i tempi, e non era un bene.

Era stato delicato la scorsa sera sul pennone della nave, più di quanto avrebbe voluto, ma sapeva di non potersi più permettere di rimanere buono.

Persino Ace, che in quel momento stava entrando dalla porta della stanza, esprimeva la sua stessa convinzione, esternandolo in ogni singolo movimento del corpo, tenendo in mano una copia del giornale mattutino.

Gli occhi color brace di Pugno di Fuoco indugiarono un attimo sulla ragazza rannicchiata lì accanto, sciogliendosi poi in un sorrisone malandrino che però non nascondeva perfettamente un certo disappunto.

“Ma come? Mi assento un attimo e già vi ritrovo a fare qualcosa di sconveniente alla mia ragaz-?” l’occhiataccia che gli rifilarono gli altri due lo zittirono all’istante.

“Ok, tregua, ma solo per oggi.” Ammorbidì la situazione aggiustandosi con fare nervoso il cappello, sbuffando contrariato.

“Qualche notizia interessante?” cambiò argomento Marco, scoccando un’occhiata eloquente al giornale arrotolato nelle mani del fratello.

Questo lo srotolò con espressione dubbiosa.

“Due nuove taglie in prima pagina.” Sintetizzò il comandante della seconda flotta tirando fuori dalle pagine del quotidiano  i due avvisi di cattura allegati, passandoli agli altri due, mentre leggeva con fare assorto l’articolo.

 

Sono stati avvistati poco lontano dalla Red Line, in prossimità dell’arcipelago Sabaody. Catalogati dannosi per la popolazione civile a causa di episodi di violenza gratuita in ben 5 isole della Grande Rotta che hanno avuto la sfortuna di ospitarli. Il sindaco dell’ultima di queste, il signor Ignatius Crowder di Mercurian Island, ha dichiarato:

<< Hanno assalito senza alcun motivo quattro dei nostri concittadini! Senza alcuna ragione! Due di loro sono finiti in ospedale pugnalati a tradimento e uno con ben 20 ossa fratturate! Hanno distrutto l’unica locanda del paese e poi se la sono data a gambe levate!>>

 

Marco fischiò ammirato di fronte la descrizione che il sindaco dell’isola aveva fornito, ben sapendo che qualcosa nella dichiarazione doveva essere stato per forza ingigantito più del dovuto.

 

I due fuggitivi…” continuò Ace “… una coppia di ragazzi, di cui ci è stato possibile rintracciare i nomi,con un bambino appresso, si sono diretti, secondo le varie testimonianze, su  una barca a vela estremamente veloce in direzione Est, probabilmente verso la Red Line. La Marina non rilascia dichiarazioni in proposito, ma sembra aver già disposto per la loro immediata cattura. In allegato le taglie dei due delinquenti (l’immagine del bambino non ci è stata pervenuta). Qualsiasi informazione alla redazione del giornale sarà più che benvenuta.

 

 “Insomma hanno fatto un bel po’ di casino.” Riassunse Jaws lanciando un’occhiata alle due taglie.

La prima immagine rappresentava un ragazzo snello e dai lineamenti talmente delicati e femminei da risultare quasi androgini. La posizione in cui era stato fotografato, di profilo con il resto del corpo teso nell’atto di voltarsi dalla parte opposta dell’obbiettivo, mentre si faceva strada con due pugnali bloccati tra due dita in mezzo ad un putiferio fatto di schegge e energumeni con le gambe all’aria, gli aveva bloccato i capelli biondi e lisci scompigliati a mezz’aria e l’occhio azzurro in un’espressione contratta da uno sforzo incoerente, vista la facilità con la quale aveva appena messo fuori uso i suoi avversari. A parte il vestiario, composto essenzialmente da una camicia bianca, un gilet sbottonato ed un paio di pantaloni, niente sembrava essere degno di nota.

Sotto l’immancabile dispaccio da ricercato “DEAD or ALIVE” faceva la sua bella figura il titolo:

ARCH

 Angelo Infido

 14.000.000

 

L’altra taglia, incredibilmente, ritraeva una ragazza. Una bellezza, avrebbe aggiunto Ace, con una lunga chioma di capelli ondulati, talmente chiari dal risultare quasi bianchi, e occhi color nocciola, in quel momento assottigliati dallo sforzo che stava facendo per sollevare sopra la propria testa nientemeno che una credenza in legno massiccio.

Una credenza!

“Tostissima la tipa.” Si sentì in dovere di dire il moro.

“Pericolosa.” Aggiunse Marco immaginandosi di doversi ritrovare alle prese on una donna in grado di un gesto simile. Fenice o meno, venire colpito da una cosa del genere faceva comunque male! In quel momento capiva la parte del “20 ossa rotte” che era apparsa nell’articolo.

Sotto tale foto, che la ritraeva con un copri spalle bianco, un corpetto, forse troppo stretto per la misura del proprio decolté, ed un pareo sgualcito, torreggiava il suo nuovo appellativo:

VIOLA

La Sollevapesi

 25.000.000

“Appropriato.” Bofonchiò Jaws con le mani conserte al petto.  

“Le taglie sono basse.” Ammise Marco guardando ancora un po’ la foto della Sollevapesi . C’era qualcosa di familiare …

“Secondo me faranno strada.” Si intromise entusiasta Ace, afferrando a tradimento dalle dita di Marco la taglia della ragazza.

“Specialmente lei.” Continuò indicandola con il dito indice “Si vede che ha grinta da vendere.”

Marco si ritrovò tra le mani il giornale, rileggendo la parte che indicava la loro rotta.

Sabaody…

Anche loro sarebbero passati da quelle parti.

“Dite che gli incroceremo?” chiese Ace ripiegando le due taglie, pronte per essere mostrate al resto della ciurma.

“Chissà.” Concluse la Fenice continuando a rimuginare sulla sottile familiarità che il volto della Sollevapesi gli aveva comunicato.

Ebbe un colpo di genio improvviso e si voltò di scatto verso Momo, ancora addormentata.

Incredibile.

“Ace! Passami le taglie!”

 

Fine Atto Tredicesimo. 

Sempre siano lodate le vacanze natalizie, il PC e tutte quelle piccole grandi cose che mi permettono di scrivere, seppur in ritardo. Donneee!!! Sono tornata! Lo so, vi faccio sempre venire degli infarti e mi dispiace! Come promesso ecco alcuni risvolti interessanti! Ihihi!

E come ancora promesso si continuano le domande che creano la nostra piccola grande opera!!

 

1)      Chi sceglierà Momo? Marco o Ace? [second round!XD]

2)      Arch e Viola arriveranno a Sabaody prima, con o dopo la ciurma del Bianco? Se sì immaginatevi cosa succederebbe!  

Popolo! Si vota!

Vado a nanna che è mezzanotte! Kisskis ragazze! Baciooooniiiii!!

 

 

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Capitolo 16
*** Special! Merry Christmas Whitebeard’s Pirates!! ***


Nota: Non uccidetemi! Questo special non è la continuazione della storia, ma una sorta di Spin-off!! Un piccolo tributo a chi attende il nuovo capitolo! Auguri a tutti! E grazie per le splendide recensioni!

 

CANZONE-TEMA DEL CAPITOLO: Angela Aki- Tegami (Carta)

 

Buona [LUNGA ]notte Bianca!

 

Etcì!

“Salute Momo!”

La piccola paradisea si sfregò il nasino arrossato con un dito, guardando di sottecchi Ace che, non appena sentito il suo flebile lamento, si era sporto in avanti oltre lo schienale della poltrona dove si era seduta a leggere un libro. Il  sorrise del comandante della seconda flotta la sovrastò, facendole immergere ancora di più il viso tra le pagine che, in quel momento, le venivano molto utili per nascondere il lieve rossore che l’imbarazzo l’aveva colta nel vedersi sorprendere così dall’altro.

“Non ti avevo mai sentito starnutire prima.” Continuò l’altro poggiandosi il viso su una mano, mentre accennava con uno sguardo alle fiamme che le ricoprivano testa e braccia.

“Non ti starai ammalando spero.”

Ma no…” lo rassicurò lei, strofinandosi ancora una volta il naso “… sarà l’umidità.” Ipotizzò, cercando di tornare alla propria lettura. Nella biblioteca però non c’erano spifferi o altre cose che potessero in qualche modo nuocere ai libri.

Strano…

Dietro di lei il moro sorrise ancora di più, per poi sbuffare teatralmente.

Eeeh, peccato.” Disse con fare amareggiato, sporgendosi poi con scatto felino più vicino a un orecchio della Paradisea.

Il sussurro che arrivò la fece tremare da capo a piedi.

“Avrei potuto riscaldarti io, sai?”

NO!

Il libro che stava leggendo Momo risultò parecchio duro per la faccia di Ace, colto completamente alla sprovvista.

Insomma Ace! Sto cercando di leggere!” lo rimproverò l’altra riprendendosi il libro e stringendoselo al petto, saltando per sicurezza di un paio di metri di distanza.

Il comandante si massaggiò la parte colpita, un poco ferito nell’orgoglio.

Non aveva fortuna con le ragazze, ma cascasse il mondo non avrebbe mollato per così poco!

“Ehi! Io mi stavo solo preoccupando per te!” protestò tornando ad appoggiarsi stancamente sullo schienale della poltrona rossa della biblioteca.

A rispondergli fu un’occhiataccia particolarmente profonda dell’altra.

Sì, certo.” Fece poco convinta.

“Come vuoi.” Rispose Ace facendo finta di nulla, impossessandosi con un balzo del posto poco prima occupato dalla ragazza.

Aaah! Grazie per avermi riscaldato il posto.” Ridacchiò accoccolandosi meglio tra il velluto del morbido sedile.

Momo avvampò di rabbia e di vergogna.

SCEMO!

L’urlo fu enfatizzato da un libricino lanciato dritto in mezzo alla fronte del comandante in questione.

 

“Cavoli che dolore.” Si lamentò il ragazzo massaggiandosi l’enorme bernoccolo che in quel momento gli ornava la testa, facendo quasi cadere a terra dalle risate gli altri tre.

Sul ponte della Moby erano fatte rimanere accese le lanterne, appese agli alberi con un paio di candele chiuse al loro interno. I pochi che ancora passeggiavano sulla nave, all’ombra delle enormi vele ammainate, si erano premuniti di sciarpe, proteggendosi dal freddo secco che aveva circondato come una nebbia limpida la ciurma dei pirati di Barbabianca.

Nell’aria si respirava aria di festa, grazie ai brusii e le risate appena udibili provenienti dalla mensa, dove chi più chi meno stava festeggiando con qualche boccale di troppo.

Tutti quanti sapevano il motivo di quel buonumore, preludio di una veglia lunga come la notte stessa.

E come dimenticarlo?

In fondo era la vigilia di Natale.

“Ridete, ridete, pure.” Bofonchiò Ace,  facendo il mezzo offeso, scrutando il ponte quasi deserto della nave, cercando una persona in particolare.

“E Marco?”

I fischiettii tutt’altro che innocenti di Satch e la risatina di Vista lo fecero saltare subito giù dalla propria postazione, per poi dirigerlo alla ricerca della Fenice e la Paradisea,  non prima però di aver detto un’ultima frase:

“Ma voi da che parte state?!”

 

Momo si guardò intorno, sporgendosi con fare guardingo dallo stipite della porta che accedeva alla biblioteca.

Assicuratasi che non ci fosse nessuno a parte lei, sospirò, partendo alla ricerca del libro che aveva lanciato ad Ace prima di scappare via, evitando così di mandarlo a fuoco in seguito al suo scatto d’ira, tenendolo in mano.

Vediamo” mormorò cominciando a rovistare attorno alla poltrona dove era avvenuto il lancio del libro.

Ci teneva a quel volumetto, aveva deciso di fare una sorpresa a tutti sulla nave, visto che era la prima volta che passavano la notte in bianco come lei.

Etcì!” starnutì improvvisamente sentendosi pizzicare il naso.

“Salute.”

Alla voce improvvisa scattò all’insù con la testa, scontrando purtroppo il duro sottofondo in legno della poltrona sotto la quale si era infilata a gattoni, sperando di trovare l’oggetto della propria ricerca.

Ahiaiai.” Sussurrò uscendo allo scoperto massaggiandosi la testa, certa che presto o tardi nel punto offeso si sarebbe gonfiato un bel bernoccolo.

Marco.” Sussurrò in tono di rimprovero non appena, aprendo un occhietto, riuscì a focalizzare la persona che, seduta comodamente sulla poltrona con un braccio sullo schienale, teneva in mano quello che stranamente somigliava al libretto che stava cercando.

Lettere di dieci vite?” lesse il titolo con un poco di stupore il biondo, vedendosi però strappare via di mano con uno scatto improvviso il volumetto da una Momo imbarazzata fino alla punta dei capelli fiammeggianti.

La ragazza non appena appropriatasi del libro, si girò di scatto tenendoselo in petto, tremando come una foglia : c’era mancato poco che scoprisse tutto.

Accidenti a lei e i suoi scatti d’ira!

“Grazie per averlo trovato.. etcì!” esplose ancora una volta in un piccolo starnuto. Ma come era possibile che adesso di punto in bianco starnutisse continuamente?!

Uno spostamento d’aria le fece capire che Marco le si era accostato da dietro. E la mano che le tirò indietro la testa, tastandole la fronte, le fece intuire di quanto si fosse avvicinato.

Oi, stai bene?” chiese incrociando i suoi occhi cristallini con quelli di lei.

Benissimo!” sbottò la paradisea sgusciando in fretta dalla presa dell’altro scomparendo così in poco tempo dalla sua vista.

Il comandante della prima flotta rimase così, in mezzo alla sala con la mano ancora sospesa a mezz’aria. Aveva proprio ragione Ace, quella ragazza era un’esperta nelle fughe.

La mente gli tornò al libricino che le aveva suo malgrado restituito.

Lettere di dieci vite…

Anche lui una volta aveva avuto occasione di leggerlo e doveva dire che era un po’ strana come scelta.

Sorrise, partendo alla ricerca di qualcosa per ravvivare un po’ la sera e che, se ricordava bene, Betty aveva sistemato proprio da quelle parti.

 

 

Su un’isola poco lontana…

ETCÌÌÌÌ!!!!

“La delicatezza non è mai stata il tuo forte, Viola.” Sussurrò Arch, evitando accuratamente lo sguardo furente che gli lanciò l’altra, nascondendo il viso nell’atto di sorseggiare il caffè che si era fatto portare.

Sta’ zitto, vermiciattolo a due zampe…” ringhiò con voce nasale la ragazza, coprendosi il naso con una mano.

“Merda, ma perché non riesco a smettere?!”

Avevano avuto fortuna quella volta: erano riusciti ad entrare in una locanda senza essere assaliti da cacciatori di taglie, Morgan aveva già chiesto al padrone di prenotare due camere a loro carico e non c’erano ancora stati episodi di molestie nei confronti di Viola. Un gran bel passo avanti davvero. Per una volta Arch si sentì positivo in proposito.

Forse avrebbero dormito al caldo quella notte.

Però era strano…

Si guardò attorno, chiedendosi come mai dacché erano entrati nessuno era sembrato dare peso alla loro presenza. La gente attorno a loro si ubriacava, strepitava, scherzava, com’era da prassi, insomma, eppure c’era qualcosa di diverso.

L’atmosfera non era la stessa…

Proprio in quel momento arrivò trotterellando Morgan, tenendo tra le mani un volantino di pergamenta ricamato con disegni di inchiostro rosso e verde ai bordi

“Signor Arch! Signorina Viola!” urlò felice il bambino orientale, poggiando il pezzo di carta sul tavolo con entusiasmo.

“Oggi è la Vigilia di Natale!” annunciò con un sorrisone il bambino, aspettandosi chissà che cosa dagli altri due.

La Vigi-che?” disse Viola, ancora presa dallo strofinarsi il naso

“Che cosa sarebbe?” chiese un po’ più educatamente il biondo, non riuscendo comunque ad evitare che un’espressione di pura delusione si delineasse sul viso del bambino.

“Ma come? N-non sapete c-cos’è il Natale?” balbettò in preda alla confusione Morgan, ricevendo però dei cenni di dissenso dagli altri due.

Oh…” fece un po’ dispiaciuto per loro. Il Natale era la cosa più bella che avesse mai avuto la possibilità di provare, quando ancora la sua mamma non l’aveva mandato via, e sapere che i suoi due amici non l’avevano vissuta neppure una volta quella stupenda esperienza un po’ lo rendeva triste.

“È una festa!” Esclamò alla fine, allargando il viso in un altro sorriso, pronto a dare le dovute spiegazioni.

“Cade solo una volta all’anno! Si sta svegli fino a tardi e la gente si scambia dei regali che si possono aprire solo la mattina seguente!”

Arch e Viola rimasero un attimo in silenzio, guardandosi poi attorno.

Ah…” disse il biondo capendo solo in quel momento il motivo di tutta quella baldoria. “Adesso capisco.”

“Si canta e si balla anche..?” chiese in un istante Viola, sporgendosi con fare stranamente interessato verso Morgan.

Bhe.. sì.”

A quella risposta Viola ridacchiò maligna, lanciando un’occhiatina di sottecchi al biondo accanto a lei, ancora occupato ad osservare la baraonda della locanda.

“Allora non è una festa per Arch. Lui è pessimo nel canto.” Disse accentuando in maniera quasi sconveniente la terza parola.

Morgan fu tentato di dire a Viola che i maschi non cantavano molto spesso a Natale, o almeno era quello che gli aveva detto sua madre, prima di vedere accostarsi al tavolo una ragazza più meno della loro stessa età, con dei bei boccoli color rame nascosti sotto un berretto rosso e bianco ed un vestitino talmente succinto e corto da sembrare un corpetto.

Il bambino a quella vista abbassò lo sguardo, vergognandosi da morire.

“Ehi bel viaggiatore…” sussurrò con fare seducente quella, chinandosi quel tanto che serviva per mettere il proprio seno giusto sotto il naso di Arch, facendo storcere di non poco il naso di Viola.

Non credeva affatto fosse una casualità quel gesto.

Bleah!

“Ti va di farmi compagnia?” chiese ancora un po’ provocante la nuova arrivata, aspettandosi una risposta affermativa.

“Spiacente.” Le rispose il biondo, stranamente senza alcun segno visibile di imbarazzo o di emozione alcuna “…, ma non ho alcun interesse nella tua compagnia.”

A quella risposta la fanciulla si drizzò, soffiando come una vipera, girando i tacchi a spillo ed allontanandosi dal loro tavolo.

Dopo un attimo di silenzio, la risata malevola di Viola tornò a farsi sentire.

Capisci perché non hai mai avuto successo con le ragazze, Arch?

Il biondo sembrò non fare caso a quella battutina, tornando a sorseggiare il proprio caffè.

“Non capisco a cosa tu ti riferisca.”

L’argentata grugnì, scalciando un’occhiata verso l’alto per poi girarsi da una parte.

Notò lontano dal loro tavolo un ragazzo abbastanza carino lanciarle un occhiolino significativo.

Lei rispose cacciando fuori la lingua con disgusto, smontandolo in un secondo.

Morgan non sapeva con che tipo di individui fosse capitato, ma una cosa era certa: sarebbe stato un Natale difficile da dimenticare.

Sulla Red Force…

“BALDORIA!!” echeggiò in alto nel cielo imbrunito il consueto urlo di battaglia del capitano dalle tre cicatrici, mentre centinaia di mani sue amiche alzavano simultaneamente al suo altrettanti boccali traboccanti di ogni tipo di liquore.

Non ce n’era uno che non ridesse sulla nave dalla polena a forma di drago, assefatto dell’inebriante effetto dell’alchol.

Bhe… forse uno sì.

Monsteeer…!!” gracchiò la testa pelata di Foras, soffocando i propri singhiozzi con una consistente sorsata di ruhm.

Attorno a lui gli altri guardavano la scena preoccupati: era raro che il loro domatore di bestie esagerasse con gli alcolici, ma d’altronde era una cosa comprensibile.

Lui e Monster erano sempre stati inseparabili e per quel pezzo di burro, capace di spaccare in due delle ossa umane come un fruscello, doveva essere stato proprio un duro colpo vedersi allontanare l’amico primate di miglia e miglia di distanza.

Vero che lo stavano andando a recuperare, ma il pensiero facevo comunque male.

“Coraggio Foras! Non ti abbattere!” intervenne in mezzo al ponte la figura barcollante, ma sempre giuliva del capitano Rosso, assestando sue sonore pacche sulla schiena al povero domatore che, alzando leggermente gli occhi lacrimanti, tirò di un paio di volte su col naso.

“Siamo a Natale! Un po’ di buon’umore su!” lo incitò ancora una volta l’altro con un sorriso da birbante ubriaco come una spugna imbevuta nel sakè.

“A Monster!” tirò su il primo calice che trovò, lasciando di stucco tutta la ciurma. Ben tirò su una boccata dalla sua sigaretta, nascondendo un sorrisetto: quel balengo … riusciva sempre ad uscirsene con le cose più imprevedibili.

Un’ondata di calici alzati tornò ad ondeggiare sulle teste di tutti, seguiti da altrettanti auguri diretti al compagno peloso:

“Che si sia trovato una scimmietta sulla nave del Bianco”

“E che se la stia spassando quel birbante!”

“Che stia facendo fuori tutte le scorte del vecchio Newgate!”

“E che stia facendo dannare mezza ciurma!”

Il rosso rise di gusto, notando con la coda dell’occhio un sorriso riaffiorare sull’enorme bocca dell’amico.

Eeeh, lo conoscevano proprio bene il loro Monster.

“A Monster!” ribadì la voce di Foras “E che passi uno splendido Natale!”

A MONSTER!!”

 

Sulla Moby Dick…

“Ho detto di nooooooo!!!” si impuntò l’infermiera rossa aggrappandosi come una disperata allo stipite dell’infermeria, lottando con tutte le proprie forze contro le due avversarie che in quel momento la tiravano all’indietro, decise come non mai a coinvolgerla nei loro piani. 

Ti prego Carol! Tipregoripregotiprego!” ripeté Momo per la quarta di volta di seguito, bloccandole a terra una gamba, impedendole così di avanzare.

A farle da manforte c’era Penelope, angelica e fresca come sempre anche se tutta occupata a trattenere per le spalle la collega.

“Andiamo, in fondo cosa ti costa?” chiese con leggerezza la bionda, facendo scattare stizzita la testa dell’altra in sua direzione

“Mi costa il lavoro Penelope!”

Ma hai detto di averlo già fatto in passato!” protestò dal basso la Paradisea, ricevendo lo stesso sguardo acido che Penelope aveva subito.

“È stato tanto tempo fa! E poi come pretendi che lo faccia in un momento come questo??!! Sono occupatissima!Il turno di oggi è mio! Devo rimettere a posto l’infermeria! Riordinare gli esami del capitano! Fare l’inventario! Mi dici dove lo trovo il tempo di --?!”

“Ti sostituisco io.”

La rossa guardò Penelope con occhi stralunati, sbattendo le palpebre un paio di volte, aspettandosi da un momento all’altro di vederla scomparire come una bolla di sapone.

C-come..?”

“Sono abituata a fare questo genere di cose e poi Betty non si arrabbierà per così poco.” Continuò serena come sempre la bionda, lasciandole finalmente le spalle.

M-ma..”

“Su su.” Le incitò l’altra sfilando dalle dita della collega la cartella clinica che teneva in mano ed entrando finalmente nella sala “Andate o non farete in tempo.”

Fu tutto quello che ottennero le due prima di vedere la porta in legno dello studio chiudersi di fronte ai propri occhi.

Momo e Carol si guardarono, incerte sul da farsi.

Poi la rossa si accigliò sfilando con uno strattone la gamba dalla presa dell’altra, facendola finire inevitabilmente a faccia a terra.

Ahi.” Si lamentò Momo, alzando la testa appena in tempo per vedere l’infermiera dirigersi a falcate decise lungo il corridoio, costringendola a rialzarsi e seguirla con un balzo.

“Io suono e basta, capito?” fu la raccomandazione che le fece Carol prima  di aprire una delle tante porte della nave, rivelandole una delle tante stanze che non aveva ancora avuto modo di conoscere.

Sulle labbra di Momo si delineò un sorriso, mentre al petto si stringeva ancora una volta il libro che aveva preso dalla biblioteca.

Sì, sarebbe stato indimenticabile.

 

“Che stai facendo?”

Marco alzò lo sguardo incontrando il viso lentigginoso del fratello, intento ad osservarlo dall’alto di uno scaffale.

Preso con le mani nel sacco – si disse un poco indispettito il biondo, cercando di nascondere alla bene e meglio quello che aveva appena preso dalla cassa posta in un angolo della libreria, tenendolo nella mano destra.

Sfortunatamente però Ace fu più veloce, inclinando la testa quel tanto che bastava per capire da solo di cosa si trattasse

“Quello è vischio?” chiese alzando un sopracciglio, facendo quasi imprecare ad alta voce la Fenice che, a quel punto si era già arreso all’evidenza: il suo piano era appena andato a farsi benedire da Gol D. Roger in persona.

“Esatto.” Si limitò a dire estraendo da dietro la schiena il ramoscello  appiccicoso e dalle bacche bianche, mostrandolo al moro.

“E che ci dovevi fare? Avvelenare qualcuno?” chiese Ace, facendo volutamente la parte del tonto.

Di rimando l’espressione già abbastanza seria di Marco si accigliò ancora di più, scoccandogli un’occhiataccia capace di gelare il sangue a chiunque, tranne a lui.

Era pur sempre fatto di fuoco..

“In effetti ci sarebbe qualcuno…” sussurrò con fare pericoloso ed allusivo. Stavolta il moro deglutì e cominciò a sudare freddo: non stava mica dicendo sul serio vero? Vero?!

“Scemo.” Sbottò improvvisamente il biondo ridacchiando vittorioso, voltandosi da una parte ed allontanandosi come se nulla fosse, lasciandolo lì come un fesso.

“Ma che-?! Ehi!” protestò vedendolo perdersi oltre la soglia della biblioteca.

“Al diavolo.” Bofonchiò poi aggiustandosi il cappello.

L’occhio li cadde automaticamente sulla cassa piena di Vischio lasciata aperta dallo stesso reparto infermieristico.

Sorrise  malandrino, agguantandone uno e fiondandosi fuori dalla stanza.

Non si sarebbe fatto superare in quel modo.

 

“Ancora una volta?” chiese Carol, stranamente seria per come aveva reagito inizialmente alla proposta della paradisea.

.” Annuì Momo, prendendo fiato, ma non fece in tempo a fare altro poiché l’aria le si bloccò in gola facendole uscire l’ennesimo starnuto della serata.

“Ma ti stai ammalando?” chiese incredula la rossa, inarcando entrambe le sopracciglia per lo stupore.

Sniff. No no. Sto bene.” La rassicurò lei, ma subito la mano dell’altra se si poggiò sulla fronte misurandole la temperature.

“Senti febbre? Dolori muscolari? Mal di testa?” Elencò con velocità sorprendente l’altra, lasciandola quasi senza parole. Quasi si aspettò che comparisse dal nulla un termometro.

N-no!” rispose balbettante “… mi prude solo il naso! Tutto qui!

Un lumino di consapevolezza passò negli occhi dell’infermiera.

Tuttavia le spiegazioni furono interrotte sul nascere da un rumore proveniente dall’esterno della loro stanza, che si trasformò nel fischio scricchiolante della porta, aperta da nientemeno che Ace Pugno di Fuoco.

“Ah, eccovi qui.” Disse piacevolmente sorpreso, avvicinandosi a loro “Penelope mi aveva detto che bazzicavate da queste parti, ma non pensavo di trovarvi qui dentro.” Disse guardandosi attorno per un attimo.

Momo per un attimo sentì il cuore mancarle di un battito. Oh cielo. E adesso che gli raccontava?!

“Allora? Che state combinando?” chiese con il solito sorriso sghembo di cui andava tanto fiero.

E-e-e-ecco, i-io, cioè, n-noi…” balbettò agitatissima, gesticolando inconsciamente con le mani in avanti.

“Momo mi ha chiesto di aiutarla a capire che cosa le provocava allergia.”

Entrambi si voltarono simultaneamente verso Carol.

“Allergia?” fece Ace, non capendo.

Etcì!” su la risposta automatica che la ragazza diede di getto.

“Allergia, sì.” Confermò la rossa incrociando le braccia al petto con fare solenne.

“Nella sala Musica?”

“Differenziare. Comandante Ace. Differenziare.” Disse solo Carol, dirigendosi verso l’uscita, seguita da Momo, piuttosto sollevata da come si era risolta la situazione.

La ragazza però non fece in tempo ad oltrepassare la soglia che un braccio infuocato apparve dal nulla, bloccandole la strada.

“Un momento!” disse sorridendo furbesco quello, indicando di colpo qualcosa verso l’alto.

Momo si stupì nel vedere appesa sopra la porta  un ramoscello con delle strane bacche bianche, a suo parere tutt’altro che invitanti.

“Cos’è quello?”

“Ma come?” chiese incredulo il moro “Non sai cos’è il vischio?”

Ace saltò quasi di gioia nel vedere il visino di Momo accennare ad un diniego.

“È una tradizione di Natale.” Spiegò il furbetto, avvicinandosi di qualche centimetro al viso dell’altra, che finì per inclinare all’indietro la testa, cominciando a temere il peggio.

“Chi passa sotto il vischio si deve baciare.”

“Eh?”

Per un secondo le sembrò di riuscire a contare tutte le lentiggini sul viso di Ace.

Poi un forte pizzico le invase il naso.

Etcì! Ahia-!” cacciò in avanti la testa scontrando inevitabilmente la fronte del comandante in seconda.

Cazz-!!” sbottò il moro prendendosi la fronte tra le mani. Non era possibile! Aveva centrato perfettamente il punto dove l’aveva colpito con il libro!

Vedendolo rannicchiarsi per terra per il fronte dolore, dopo essersi a sua volta ripresa dalla fitta che la collisione le aveva provocato, Momo si paralizzò, temendo il peggio.

Scusa Ace! Mi dispiace! Ti ho fatto male?” chiese chinandosi accanto a lui, che, accennando un sorriso sghembo, fece del suo meglio per rassicurarla.

“Sto bene. Sto bene. Ho avuto momenti peggiori.”

Scusa.” Si rannicchiò nelle proprie spalle mortificata la piccola.

Ace stava giusto per dirle qualcos’altro di rassicurante, ma si ritrovò con le mani di lei ai lati del proprio viso e un sensazione di dolce bruciore sulla fronte.

Non riuscì a scuotersi neanche quando la ragazza fu partita a razzo dalla porta, lasciandogli detto un “Bacio dato! E stai attento a non farti male un’altra volta!”.

L’unica cosa che poteva sentire era che quel bruciore sulla fronte era rimasto, consumando a poco a poco il dolore di prima, e lui non poté fare a meno di pensare che si sarebbe dovuto far male più spesso, se significava essere curato in quel modo da Momo tutte le volte.

 

 

Nei loro viaggi la ciurma di Edward Newgate ne avevano viste di cose che riuscissero a farli intenerire, ma… cascasse la polena della Moby, nulla gli avrebbe convinti che la piccola Momo non rientrasse tra quelle.

“Guardate come si sbraccia!” disse Satch, ridacchiando alla vista dello scricciolo che, dal centro del ponte, saltellava e gesticolava con le mani per attirare l’attenzione di tutti.

Ehi ascoltate! Devo dirvi una cosa! Dai smettetela di ridere! È una cosa importante! Ehi! Smettila di bere un secondo!!” esclamava di continuo la piccola, riuscendo comunque, rivolgendosi ovunque, ad attirare l’attenzione dei propri fratelli.

Non appena ebbe conquistato l’interesse generale poté finalmente permettersi di riprendere fiato, mettendosi a piedi per terra.

Io e Carol..”

E qui ci fu una piccola e lontana parentesi da parte della rossa:

“Avevi detto che non mi includevi, piccola bugiarda!”

Momo le scoccò da lontano una linguaccia, provocando una piccola ondata di risate.

Dicevo… io e Carol, abbiamo organizzato una sorpresa nella Sala Musica. Potreste… insomma, venite tutti perché altrimenti salta tutto!” concluse scattando in un istante in direzione della sottocoperta, coprendosi il volto con le mani per evitare che tutti notassero il rossore diffuso sul suo viso.

“Andiamo.” Disse all’improvviso Marco, atterrando dall’alto dell’albero maestro con le mani sui fianchi , incitando gli altri a seguire il suo esempio con un sorriso scanzonato.

 

Sono calma sono calma sono calmaaa…

“Smettila! Mi dai il nervoso!” le ordinò Carol mettendosi comoda sul seggiolino e lisciandosi il vestito rigorosamente rosso che aveva tenuto tempo addietro per l’occasione.

Momo le rispose con un’occhiata degna un cucciolo bastonato.

Ma io..

A quel punto la rossa sbottò, sbattendo le mani provocando un suono assolutamente sgraziato e disarmonico.

A volte quella donna le ricordava qualcuno…

“Insomma, io non ti capisco! Canti sera alla mattina! Che ti prende?!”

P-panico da palcoscenico?” balbettò l’altra attorcigliandosi nervosamente l’orlo dell’abitino azzurro che le era stato confezionato a tempo di record. Lei non l’avrebbe mai notato che, a sua insaputa, in un angolo del vestito era stata cucita un’etichetta con una faccina stilizzata in pieno atto di fare il segno della vittoria con accanto due semplici e significative parole: Mindy Rulez!

Carol sbuffò, tornando suo malgrado al proprio posto.

Non l’avrebbe mai capita quella ragazza.

“Ok, si comincia.”

 

 

La Sala Musica della Moby non era mai stata affollata come in quel momento.

Era stata studiata e progettata in modo tale che potesse contenere tutta la ciurma in una volta, e questo aveva portato il carpentiere a farle occupare un intero ponte della nave. Chiunque entrato sarebbe rimasto sbalordito dalla delicatezza dell’arredamento e delle colonne in legno scuro che circoscrivevano l’enorme palco che stava al delimitare della stanza.

Nulla era stato lasciato al caso in quella sala, ogni singolo drappo, colore o luce era stato scelto e posto in modo tale da migliorare il più possibile la resa dell’acustica e della visione del palcoscenico.

La marina certamente se la sognava una cosa simile e se si fosse aggiunto che era stata anche aggiunta, incavata nel pavimento, la postazione per l’orchestra, si sarebbero come minimo mangiati le mani.

“Ehi, ho saputo.” Disse Ace arrivando dietro gli altri cinque comandanti “Un gran bel pubblico, neh?” aggiunse guardandosi attorno. A occhio e croce non ne mancava uno della ciurma, persino il babbo si era presentato, sovrastando l’enorme sala dall’alto della propria statura.

Era venuti tutti quanti per la sorpresa di Momo.

Marco però non faceva che continuare ad osservare con fare avido il palco, aspettando da un momneto all’altro l’inizio dello spettacolo.

Gli venne quasi da sorridere capendo solo in quel momento il perché del libro “Lettere di dieci vite”.

Sarebbe stato indimenticabile.

Le luci alle pareti laterali fino ad allora accese, si abbassarono di colpo e il sipario color ebano si allargò.

Marco ci scommise dieci delle proprie piume che dietro tutta quell’efficienza c’era l’intero reparto infermieristico.

La sala piombò nel silenzio all’apparire di Momo proprio al centro del palco, a mani congiunte in grembo con lo sguardo un poco spaurito ed un vestitino azzurro senza maniche lungo fino alle ginocchia.

La paradisea, rimase un po’ in quella posizione, sospirando poi per darsi coraggio e poi procedere come dovuto.

Grazie a tutti per essere venuti.” Iniziò, provocando una serie di esclamazioni di sostegno che la fecero sorridere confortata.

Oggi è un giorno speciale per tutti voi…” continuò facendo ammutolire di nuovo tutti “E anche se questo genere di tradizioni non mi è … come dire … proprio familiare…

Qualcuno ridacchiò, facendola arrossire un poco.

Mi sono resa conto che per voi questo è un giorno importante, quindi… bhe… volevo rendere significativa la mia partecipazione, essendo comunque l’ultima arrivata.

Le sue fiamme ormai erano diventate talmente limpide da accentuarle ancora di più il rossore del proprio viso, mandando in visibilio praticamente mezza ciurma che iniziò a fischiare di ammirazione.

Inutile dire che tra questi ci fosse anche Ace.

Questo… bhe… questo è il mio regalo di Natale, spero che vi piaccia!” concluse, girandosi con le mani al viso e correndo verso Carol che, seduta al pianoforte, le diede qualche pacchetta sulle spalla, dicendole di calmarsi.

Non appena tutto si fu risolto, la paradisea tornò in avanti, e prendendo un respiro profondo, diede il via a Carol.

Un suono leggero e morbido di corde vibranti invase l’aria, lasciando spazio dopo un paio di battute alla voce calda della paradisea.

 


 

Haikei kono tegami yondeiru anata wa                                            Dear you, who's reading this letter
Doko de nani wo shiteiru no darou                                                        I wonder where are you and what are you 

                                                                                                                              doing now                                                                                                                      

Juugo no boku ni wa dare ni mo hanasenai                                      For me who's 15 years old
Nayami no tane ga aru no desu                                                             There are seeds of worries I can't

                                                                                                                             tell anyone

Mirai no jibun ni atete kaku tegami nara                                            If it's a letter addressed to my future self,
Kitto sunao ni uchiake rareru darou                                                      Surely I can confide truly to myself”

 

A Marco non servirono che quelle poche strofe per capire da dove avesse tratto quelle parole: era l’ultima lettera del “Lettere di dieci vite”. Come molti prima e dopo di lui, la Fenice abbassò le palpebre, lasciandosi trasportare dall’inizio fino alla fine da quelle parole cariche di sentimento e significato.


Ima makesou de nakisou de                                                                   Now, it seems that I'm about to be defeated   

Kieteshimaisou na boku wa                                                                      and cry
Dare no kotoba wo                                                                                      For someone who's seemingly about to 

                                                                                                                             disappear
Shinji arukeba ii no?                                                                                     Whose words should I believe in?
 Hitotsu shika nai kono mune ga nando mo barabara                  This one-and-only heart has been broken so

ni warete                                                                                                          many times
 Kurushii naka de ima wo ikiteiru                                                            In the midst of this pain,
Ima wo ikiteiru                                                                                               I live the present.

 

Morgan guardò con sconforto il cielo bianco di nuvole sopra la propria testa, indispettito dal fatto che ancora non accennasse a scendere nemmeno un fiocco di neve. Tra le manine bianche, rosse alle punte a causa del poco freddo che riusciva a provare, teneva un piccolo pezzo di vischio.

Ehi marmocchio.

La voce di Viola lo fece saltare sull’attenti in un secondo, certo che si sarebbe bene o male ritrovato con qualche rimprovero a rincorrergli la schiena.

Che cosa ci fai qui?

Morgan tornò ad osservare il cielo pensieroso, sollevato da quel placido procedere della situazione, indice che non avrebbe dovuto piangere alcuna scusa.

“Aspetto che nevichi.” Disse semplicemente.

E sarebbe?

Non si stupì più di tanto a quella domanda: dopo un mese di convivenza aveva capito quanto poco conoscessero, Arch e Viola, delle cose più comuni.

“È ghiaccio morbido che scende dal cielo.”

Un sopracciglio argenteo della paradisea rossa scattò all’insù.

E ti danni tanto per del ghiaccio?” chiese sarcastica “Bha, voi maschi umani..

“Ma a me piace…” si lamentò l’orientale, abbassando nuovamente lo sguardo sul ramoscello che stringeva tra le mani.

Un paio di dita affusolate gli sfilarono elegantemente dalle mani la pianticella, lasciandolo senza parole.

Da’ qua.

Fu tutto quello che udì prima di sentirsi premere qualcosa di morbido sulla fronte.

Due minuti a mezzanotte.

Buon natale, marmocchio.


Haikei arigatou juugo no anata ni                                                       Dear you, thank you

Tsutaetai koto ga aru no desu                                                                 I have something to tell the 15-year-old you
Jibun to wa nani de doko e mukau beki ka                                         If you continue asking what and where you

               should be going
 Toitsu dzukereeba mietekuru                                                                  You'll be able to see the answer

Areta seishun no umi wa kibishii keredo                                              The rough seas of youth may be tough
 Asu no kishibe e to yume no fune yo susume                                   But row your boat of dreams on
                                                                                                                             Towards the shores of tomorrow
Ima makenai de nakanai de                                                                     Now, please don't be defeated and please

Kieteshimaisou na toki wa                                                                        don't shed a tear
Jibun no koe wo shinjiaru keba ii no?                                                   During these times when you're seemingly 

               about to disappear
Otona no boku mo kizutsuite                                                                   Just believe in your own voice
 Nemurenai yoru wa aru kedo                                                                 For me as an adult, there are sleepless 

               nights when I'm hurt
 Nigakute amai ima ikiteiru                                                                       But I'm living the bittersweet present”

“Ehi Shanks…” fece Ben, senza dare molto peso al fatto che il proprio capitano stesse ormai più di là che di qua con il cervello, pieno com’era dalla testa ai piedi di almeno tre differenti tipi di alcolici.

“Uhm?” chiese ciondolando un po’ la testa, stravaccato ai piedi del grande ombrellone del ponte principale.

“Ti guardi mai indietro, pensando che magari avresti potuto fare di più?”

Un mugugno mezzo divertito gli rispose.

“Ogni volta che mi ci fai pensare, Ben.” Tirò su gli angoli della bocca il rosso

“Ogni volta che mi ci fai pensare …”


Jinsei no subete ni imi ga aru kara                                                       There's meaning to everything in life
Osorezu ni anata no yume wo sodatete                                              So build your dreams without fear

 

La la la, la la la, la la la
                    Keep on believing

La la la, la la la, la la la

            Keep on believing, keep on believing, keep on believing


Makesou de nakisou de                                                                              Seems like I'm about to be defeated and cry
 Kieteshimaisou na boku wa                                                                     For someone who's seemingly about to

                                                                                                                             disappear

Dare no kotoba wo shinji arukeba ii no?                                             Whose words should I believe in?
Aa Makenai de nakanai de                                                                       Please don't be defeated and please don't 

                                                                                                                             shed a tear
Kieteshimaisou na toki wa                                                                        During these times when you're seemingly 

                                                                                                                             about to disappear
Jibun no koe wo shinjiarukeba ii no                                                       Just believe in your own voice
Itsu no jidai mo kanashimi mo                                                                No matter era we're in
 Sakete wa torenai keredo                                                                         There's no running away from sorrow
 Egao wo misete ima wo ikite yukou                                                     So show your smile, and go on living the 

                                                                                                                             present
Ima wo ikite yukou                                                                                       Go on living the present

Haikei kono tegami yondeiru anata ga                                                Dear you,

 Shiawase na koto wo negaimasu...                                                     Who's reading this letter
                                                                                                                             I wish you happiness….

 

Le dita leggere di Carol carezzarono le ultime due note, facendole risuonare per ultime nella sala con un eco morbido non appena la voce di Momo si fu spenta.

Gli applausi esplosero nello stesso tempo, facendo arrossire come non mai Momo, che sprofondò il viso tra le mani, desiderando ardentemente di sparire il più in fretta possibile da lì.

E l’avrebbe anche fatto, se soltanto le mani dell’infermiera rossa non l’avessero costretta a rimanere ed affrontare l’ondata di ringraziamenti e complimenti che i figli di Barbabianca le stavano indirizzando.

“Fantastica!” esclamò Ace fischiando per poi continuare a battere le mani.

“Sei grande scricciolo!” fece eco Satch

Accanto a loro Marco continuò ad applaudire sorridendo e sinceramente ammirato.

Pazzesco, aveva trasformato una poesia in una canzone in piena regola aggiungendo soltanto un accompagnamento musicale.  Vederla arrossire quasi sull’orlo del pianto gli fece ripensare al ramoscello di vischio che ancora si teneva in tasca.

E mentre la osservava scendere dalle scalette del palco, pensò che era decisamente arrivato il momento di usarlo.

 

“Che roba! Mi si è accapponata la pelle!” esclamò tutta eccitata Carol, camminando dietro di lei, spingendola per le spalle.

Già.” Pigolò ancora scossa la piccola, non credendo lei stessa a quello che aveva appena fatto. Cantare davanti a tutti quanti in quel modo. Cielo… ma che le era saltato in mente?

“Ehi! Guarda che sei stata bravissima!” cercò di rassicurarla Carol e forse avrebbe aggiunto anche qualcos’altro se non si fosse ritrovata il comandante Marco dinanzi.

“Buonasera Carol.” Disse il biondo, facendola sentire stranamente a disagio.

“Betty ti sta cercando.”

Bastò quello perché l’infermiera sparisse alla velocità della luce, lasciando Momo intontita dall’improvvisa mancanza della presenza della rossa dietro le proprie spalle.

In quel momento però c’era qualcos’altro che la preoccupava.

“Sei stata molto brava, lì sul palco.” La precedette la Fenice, cogliendola come al solito alla sprovvista.

Gr-grazie.”

Prima che potesse anche solo pensare a qualcos’altro un’ombra verdastra entrò nel suo campo visivo, facendole alzare lo sguardo sulla mano di Marco, che teneva in sospeso sulle loro teste qualcosa di lei ormai conosciuto.

“Vischio.” Disse per lei il biondo, incontrando i suoi occhi gialli e fiammeggianti con i propri azzurri.

La mascella di Momo cadde leggermente nel vedere quel paio di vetri color cielo calare su di lei.

Marco-san … io..

Fuori dall’oblò cominciò a nevicare, man mano che la distanza tra i loro volti si annullava.

Il naso le pizzicò più forte che mai, facendole abbassare di scatto il viso, rendendo inevitabile lo scontro della sua fronte con il petto tatuato dell’altro.

Etcì!”

Il biondo ci rimase un po’ male all’inizio per poi scoppiare in una risata divertita, piegandosi in due sulla testa dell’altra, scompigliandole con una mano i capelli fiammeggianti.

Un momento di silenzio vibrò in aria, prima del grande boato che si propagò per tutta la Grande Rotta in meno di un istante.

Zero minuti a mezzanotte.

                                                                               BUON NATALE!!    

 

“Mi sa che sei allergica al vischio.”

Mi sa anche a me.

 

 

 

 

 

 

Buon natale e Felice anno nuovo a tutti!!!!



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Capitolo 17
*** Atto 14 -prima parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 14 –parte prima-

Atto 14, scena 1

“Qui starà bene.” Affermò Garp, conducendo Clarina dentro l’alloggio della propria nave, chiudendo furtivamente dietro di sé l’uscio, premurandosi di controllare che nessuno dei suoi uomini avesse adocchiato con troppa insistenza la figura aggraziata della sua ospite, nonostante ben coperta dalla sua enorme giacca bianca che aveva ceduto durante il tragitto dal quartier generale all’imbarcazione.

Il tessuto pregiato della divisa strisciò sul pavimento, emettendo un suono di protesta contro le travi laccate per essere appena retrocessa ad una sorta di mantello a strascico.

Clarina azzardò un paio di passi nella sala, spalancando gli occhi cobalto con fare interessatissimo, mentre osservava rapita i vari elementi che componevano l’alloggio.

Confrontato alla sua precedente gabbia di velluto era fresca e rilassante, nonostante la sua natura un po’ caotica. Sulla scrivania in mogano per esempio, si ergessero disordinatissime torri di fogli e pratiche sicuramente ancora da leggere.

La donna si fermò per un istante stupita, sbattendo le lunghe ciglia un paio di volte: era una ragnatela quella che aveva appena visto brillare alla luce della finestra posta dietro la sedia dello scrittorio?

Si sentì un poco in imbarazzo, vedendosi sorpassare su un fianco dal vice-ammiraglio, guardandolo poi sedersi dietro quel caos, ma non mostrò alcun tipo di incertezza quando i suoi occhi sottili e regali, ricambiarono lo sguardo perforante dell’eroe dal Pugno di Ferro.

Garp non sapeva che dire in quel frangente e, vuoi per l’assoluta stranezza della situazione in cui era piombato, vuoi per l’atmosfera bizzarra che lo scambio di occhiate tra lui e miss Clarina aveva creato, si ritrovò a grattarsi i capelli brizzolati con una mano, guardando da una parte con una tremenda sensazione di disagio sulla testa.

Che si era aspettato, dopotutto? Che non appena chiusa in un’altra stanza da quattro mura gli avrebbe raccontato tutto?

Sbuffò, guadagnandosi un’altra sbattuta di palpebre: mossa sbagliata.

“Com’é…e-ehm…” tossì, cercando di recuperare un tono dignitoso “Come’è finita nella stanza dell’Ammiraglio Sakazuki?”

Al suono del nome dell’aguzzino, Clarina sbarrò gli occhi, facendoli improvvisamente scattare da parte a parte, quasi si aspettasse di vederselo apparire da un momento all’altro. Quella vista fece intenerire di molto il marine, amareggiato di vedere l’espressione regale della donna ridotta ad una di puro terrore.

Cosa le aveva fatto quel bastardo del suo seperiore per ridurla in quello stato?

“Ehi!” intervenne alzando le grosse mani in segno di scusa “Si calmi! Si rilassi! Non le verrà fatto alcun male! Garantisco!” esclamò notando un notevole miglioramento, avendo riacquistato l’attenzione della donna.

Garp grugnì, massaggiandosi le tempie con due delle sue enormi dita: non gli era facilee comportarsi con delicatezza, la sua natura burbera e rude andava in netto contrasto con momenti del genere. D’altronde non gli era mai capitato di trattare con donne spaventate e, come aveva potuto ben intuire dal modo in cui non aveva compreso il senso della sua precedente domanda, di lingua diversa.

Il pensiero prese forma concreta con qualche secondo di ritardo, facendogli aprire gli occhi di scatto.

Un momento.

“Lingua diversa??!!”sbraitò con due palle da bowling al posto degli occhi, facendo spaventare di conseguenza Clarina, presa alla sprovvista dal tono improvvisamente più alto del normale dell’anziano.

La consapevolezza di chi si trovasse di fronte non fece che accrescere il malumore del vice ammiraglio.

“Dannazione..” borbottò, tornando a guardare la donna, stavolta con più decisione.

Avrebbe iniziato con le domande più semplici.

“Si chiama Clarina Sassonia?”

Una domanda sciocca e inutile visto che era stata lei stessa ad affermarlo, ma doveva instaurare un dialogo, prima di arrivare alle domande più complesse.

Dopo un attimo di indecisione, il volto magro dell’altra gli rispose con un lieve cenno di assenso.

“Viene da Nido Leila, isola del Nuovo Mondo?” continuò facendosi più teso, sporgendosi inconsciamente sulla scrivania.

Un nuovo segno affermativo.

“Cerco i miei figli.”

La voce elegante ed impercettibilmente trattenuta fece la sua improvvisa entrata in scena, scioccando il marine più di quanto già non fosse. Sbuffò, annuendo con fare comprensivo e avrebbe fatto un’altra domanda se quella non l’avesse interrotto.

“Un maschio e una femmina.” Tornò un poco titubante il suono, impregnato di qualcosa, quasi il fantasma di un suono melodico. Non ne ebbe pensiero in quel momento, Monkey D. Garp, in fondo sapeva bene con chi stava conversando.

“La prego… mi aiuti… Archetto e Allegra… sigh.. anche mia nipote…

L’unica cosa di cui si sarebbe dovuto premurare sarebbero state le lacrime della donna, sgorgate con la prepotenza improvvisa di un fiume in piena, e della punizione da infliggere ai suoi allievi, ruzzolati in quell’istante dalla porta della sua cabina dopo aver fallito miseramente nel loro proposito di origliare senza essere scoperti.

Koby ed Hermeppo sapevano che accostandosi alla porta del loro superiore avrebbero rischiato ben più della loro effimera carica sulla nave, ma vedere il volto del vice-ammiraglio oscurarsi come nascosta da una maschera nera, atta a celargli gli occhi brillanti e ricchi di spirito quasi assassino, faceva sempre pentire delle scelte compiute. 

Clarina, vedendo quei due poveri ragazzi svenire sotto l’effetto di due sonori pugni del suo salvatore, si chiese se anche sua figlia si fosse ritrovata in balia di gente così strana e simile per temperamento a Viola.

 

Atto 14, scena 2

“Incredibile.” Sussurrò forzatamente Ace,  studiando ancora una volta attraverso la trama rugosa e polverosa del volantino, i lineamenti della Sollevapesi.

Pazzesco. Se Marco non gliel’avesse fatto notare…

Spostò nuovamente lo sguardo sulla Paradisea, placidamente assopita tra i guanciali vellutati del divano della biblioteca dove Jaws, con una delicatezza insospettabile, l’aveva posata poco prima.

Dopo una veloce analisi della sirena di scoglio, tornò alla foto della neo-ricercata, stupendosi ulteriormente: come aveva fatto ad accorgersi della similarità tra le due?

Si grattò la testa, sperando, nel controllare nuovamente, di trovare qualcosa che contraddicesse l’ipotesi di Marco, ma dovette ben presto desistere: la somiglianza tra le due ragazze era innegabile, benché non toccasse più di tanto l’aspetto.

Viola la Sollevapesi era di gran lunga più formosa ed alta, dotata di una bellezza più simile a quella di una pantera flessuosa e vigorosa, al contrario di Momo, avvolta da un alone di modestia ed eleganza paragonabile a quella di un cigno,tuttavia, come aveva ben detto Marco, era il volto quello che le accomunava.

Più Ace scrutava con fare attento i lineamenti distorti e rabbiosi di Viola, più si rendeva conto che la Fenice ci aveva ancora una volta azzeccato.

Per la barba di loro padre!

La Sollevapesi era identica a Momo quando si infuriava!

Non nel vero senso della parola, ma, avendo avuto la sfortuna di vedere la Paradisea in quel pericoloso frangente, nessuno di loro poté negare che quel modo di esprimere la rabbia, stringere le mascelle e arricciare verso il basso gli angoli della bocca, come a trattenere a stento un’ondata di collera, le rendeva quasi gemelle. Se poi si contavano i capelli argentati della Sollevapesi e li si confrontavano con le fiamme notturne della sirena di scoglio, bianche e pregne di pura ira, tutto sembrava assumere forma più concreta.

Quelle due erano imparentate, poco ma sicuro. Non c’era altra spiegazione.

Gli occhi neri di Ace si rialzarono, finalmente convinti,scontrandosi con gli sguardi degli altri due.

“Che facciamo?” la domanda fatidica scivolò dalle labbra del comandante della seconda flotta, affidando al fratello e amico la pesante responsabilità di come gestire la loro scoperta.

La Fenice si massaggiò con due dita i lati degli occhi, sentendosi decisamente troppo sotto pressione per dare sfoggio del consueto sangue freddo.

Le possibilità erano molte: svegliare Momo, sperando che tra le nebbie del sonno riuscisse a dare loro una spiegazione a quell’immagine sconcertante, o parlarne direttamente al Babbo, preparandosi ad spiegazione che difficilmente sarebbe arrivata, visto l’orgoglio e la testardaggine che loro padre si portava dietro.

Il vecchio Barbabianca non si sarebbe mai permesso di farsi estorcere dai propri figli un’informazione trattenuta e di certo loro, i maggiori tra la ciurma, non si sarebbero mai azzardati ad accelerare i tempi del padre.

Una cosa, infatti, era risaputa sulla Moby: Edward Newgate non nascondeva mai qualcosa ai propri figli senza una buona ragione, e in nessuna occasione avrebbe loro omesso informazioni importanti più del tempo necessario. Sulla Moby la fiducia era vitale e rompere quel tacito accordo di rispetto reciproco era cosa che nessuna delle due parti si sarebbe sognata di fare, neanche con la garanzia di un sospetto così effimero.

Sarebbe stato il padre a dar loro le dovute spiegazioni, a tempo debito.

A conti fatti l’unica opzione disponibile era un’altra, ma, prima di esporla, Marco abbassò la mano degli occhi, ritrovandosi davanti la seconda taglia allegata dal quotidiano: Arch Angelo Infido. Decisamente un ragazzo di bell’aspetto, talmente delicato da dare l’impressione di un ermafrodito.

Il suo stomaco di contrasse per un istante, ritornando al ricordo delle parole lette da Ace: Viola e quel ragazzo viaggiavano assieme.

Con un bambino.

Una strana inquietudine lo colse, seccandogli la gola in un istante, e trovò molto difficile non apparire nervoso quando finalmente, degnò Diamante e Pugno di Fuoco di una risposta:

 “Andiamo da Satch.”

 

Atto 14, scena 3

Arch non sapeva se aveva fatto bene ad avvertire Viola di quello che aveva capito sul conto di Morgan e se doveva essere totalmente sincero se ne stava pentendo, man mano che gli occhi castani scuri dell’argentata assumevano una colorazione sempre più incline al rosso.

Si portò i capelli all’indietro con una mano, sbuffando: quanto avrebbe voluto che sua sorella fosse stata lì. Allegra era l’unica in grado di far calmare Viola.

Lui, nonostante potesse vantare di una freddezza e prontezza mentale invidiabile, non c’era mai riuscito, andando sempre ed inevitabilmente a cozzare con l’ostinazione dell’altra, che le faceva fare beatamente orecchie da mercante di fronte ad ogni suo ragionamento.

Ripetilo.”

Arch riaprì gli occhi cobalto di scatto, fulminandola con lo sguardo.

“Te l’ho già ripetuto due volte, Viola.” Sottolineò, scocciato di doversi continuamente ripetere.

E IO VOGLIO SENTIRLO UNA TERZA VOLTA!” esplose la ragazza alzandosi di scatto dal bordo della barca, i capelli rivolti verso il cielo notturno come un turbinio di lingue rosse.

Il biondo si morse la lingua, ricordandosi di non fare mai più una cosa simile.

“Morgan si è trasformato in quel modo dopo aver mangiato un frutto..”

UN FRUTTO???!!!

La voce soprana di Viola era cento volte peggio del solito e, cosa che metteva a dura prova la propria pazienza, aveva osato fare una cosa che lo mandava letteralmente in bestia: l’aveva interrotto.

Le mani della paradisea rossa lo afferrarono per il colletto, avvicinandolo di più al volto contratto di impazienza dell’altra.

I suoi occhi non promettevano nulla di buono.

Mi stai prendendo in giro, Arch?” sussurrò pericolosamente Viola, sfidandolo ad ammettere di essersi inventato tutto si sana pianta.

Per tutta risposta lui strinse gli occhi, indurendo i lineamenti del proprio viso.

“Non ho così tanta immaginazione, Viola.”

Venne gettato di malagrazia all’indietro.

Lo spero per te.” Gli disse l’altra, sedendosi nuovamente dove era stata prima “Perché non è divertente.

“Credi che a me diverta invece?!”

Arch avrebbe tanto voluto continuare quella che sarebbe voluta essere l’inizio di una ramanzina, ma vedere la faccia di Viola lo bloccò: era sconvolta. Certo non era da biasimare. Dopotutto lei e Morgan avevano cominciato da poco ad avvicinarsi, molto più di quanto la ragazza avrebbe mai ammesso, e ritrovarsi con un così grande dubbio tra le mani era peggio di un martello sbattuto sul loro fragile rapporto.

Se i loro sospetti fossero stati fondati Viola non sarebbe mai più stata in grado di guardare il marmocchio come prima.

“Controlliamo prima.” Ruppe il silenzio il biondo, mentre si metteva al timone.

“Non è detto che il frutto di cui ha parlato Morgan fosse uno di quelli.”

Una risata nervosa fece capolino dalla gola di Viola

E cos’altro potrebbe essere?

Quella fu l’ultima battuta sarcastica che le sentì dire per tutta la notte. Lui non seppe cosa risponderle.

Maledizione.

 

Atto 14, scena 4

Satch ebbe l’istinto di scappare, nel trovarsi alla porta Marco ed Ace con delle facce degne di far concorrenza a quella di Jaws, e quasi temette che i due avessero scoperto che aveva detto al burbero comandante della terza flotta di vegliare sullo scricciolo per conto suo, prima che un paio di volantini nuovi di zecca gli sventolassero davanti al naso.

Non ci volle molto prima che le spiegazioni arrivassero con la stessa potenza di un’onda anomala.

“Non mi dite..” disse con il solito sorriso sulle labbra riguardando la foto della Sollevapesi, riconoscendo lui stesso che la somiglianza era molta, non eccessiva, ma decisamente significativa, nonostante le due ragazze in questione fossero due esemplari chiaramente eterogenei tra di loro.

In particolare le gambe della ragazza ritratta nel volantino erano decisamente degne di nota. Senza offesa per lo scricciolo, ma se un uomo avesse dovuto scegliersi la compagna guardando solo le gambe… bhe, Viola Sollevapesi sarebbe stata sulla lista di molti.

“Momo ti ha detto qualcosa?” lo interruppe Marco, stando seduto davanti a lui con sguardo assorto.

Il comandante della quarta flotta non rispose subito, passando a guardare il secondo dispaccio di cattura: Arch Angelo infido.

Una cosa che il comandante dal pizzetto non avrebbe mai e poi mai capito era da dove quelli della marina pescassero quei soprannomi idioti. Già chiamare ‘angelo’ un uomo era sinonimo di un grado di perversione notevole, se poi si metteva in conto che il ragazzo di turno dimostrava a stento la propria virilità, la cosa si sarebbe potuta classificare come un vero e proprio attentato all’autostima di quest’ultimo!

Satch però, osservando attentamente i lineamenti effeminati del ragazzo, dovette ammettere che non avevano avuto tutti i torti a dargli quell’appellativo. Nel complesso era un gran bel ragazzo, certo, dall’aspetto un po’ troppo delicato, ma pur sempre di notevole bellezza.

Sorrise involontariamente: in quel momento gli fu chiaro perché lo scricciolo fosse tanto preoccupato sul rapporto tra lei e il suo compagno di viaggio.

Per lui non c’erano dubbi: quei due neo-ricercati erano i compagni di viaggio della piccola paradisea.

“Sì.” Rispose apertamente il biondo dal ciuffo brillantinato, facendo scattare all’insù i sopraccigli dei due rivali.

“E spero per voi che questo bel ragazzo non sia il fidanzato dello scricciolo, perchè…” fece una pausa che gli permise di gustarsi le facce inorridite dei suoi fratellini “… a quanto pare avete trovato la sua vera famiglia, cari i miei zoticon-

I suoi capelli pettinati ai limiti dell’impeccabile scansarono appena in tempo due fasci fiammeggianti di colore diverso.

Ehiehiehiehieheeeehiii!!” protestò lisciandosi premuroso il ciuffo, mentre si rialzava da terra “Calmi! Dovreste farvi una camomilla prima di venire a parlare con me! Ci rimetterei meno anni di vita! Che diamine! Sì che non sono più giovane, ma gli ultimi anni dell’età doro me li voglio godere!”

“Risparmia il fiato.” Lo interruppe Ace squadrandolo dall’alto, scrocchiandosi le nocche “Che cosa ti ha detto Momo?”

Satch, evitando egregiamente l’ira del fratello più giovane, fece appena in tempo a spiegare che a lui lo scricciolo aveva confidato di essersi separata dai suoi compagni di viaggio, un ragazzo ed una ragazza, su un’isola dai tetti blu e di ricordare solo l’aspetto del maschio.

Nel mentre di tutto questo, invisibile agli occhi degli altri due, Marco abbassò lo sguardo sulla taglia appartenente al ragazzo, Arch,  e si sentì stringere alla bocca dello stomaco, colto nuovamente da un’improvvisa sensazione di inquietudine. Le sue dita si accartocciarono lievemente sulla pergamena, provocando nella stanza un lieve ma significativo scricchiolare di carta.

Avrebbero fatto bene a rendere nota quella scoperta a Momo?

Fu tentato per un attimo di nascondere quell’insidioso pezzo di carta e dimenticarsene per sempre, ma poi, scrollando la testa, si impose un poco di buonsenso.

Uscì dalla stanza accompagnato da Ace, sperando solamente di fare la cosa giusta.

 

Atto 14, scena 5

Siete stati veramente maleducati.

Koby si sentì sprofondare la terra sotto i piedi mentre la voce melodica e materna della signora Clarina rimproverava lui ed Hermeppo per la loro entrata in scena completamente fuori luogo, fasciando loro comunque la testa con dei giri di benda.

Era stato incredibile il cambiamento che la donna aveva assunto nel giro di poche ore, arrivando finalmente a parlare con scioltezza con il calare della notte, stringendo in poco tempo amicizia con i due poveri ragazzi che avevano sofferto l’ira del maestro sulle proprie teste.

“Mi scusi ancora.” Sussurrò Koby, profondamente amareggiato per il proprio comportamento, non venendo comunque imitato a parole dal biondo, troppo orgoglioso per chiedere perdono così apertamente come il rivale.

Oh!” disse la donna, facendo un gesto veloce, come per cacciare via quella scusa non richiesta con uno schiaffo “Non fa niente, dopotutto siete giovani. È normale essere curiosi.” Concluse rialzandosi poi da terra con addosso un paio di pantaloni bianchi ed una camicia del medesimo colore, presi in prestito dal più magro dell’equipaggio.

E ad essere sinceri le persone che preferisco sono quelle curiose!” disse lanciando loro un occhiolino che li mandò letteralmente in visibilio.

I due apprendisti la guardarono con ammirazione mentre si allontanava, camminando con eleganza innata sul ponte, quasi per lei fosse stata una cosa normalissima e sperimentata diverse volte.

Koby stette ad osservarla con un po’ di nostalgia nel cuore: c’era comunque qualcosa di infinitamente triste dietro quella figura che si allontanava da loro a poco a poco, indossando un radioso sorriso sulle labbra.

“Ehi ehi!” attirò poi la sua attenzione Hermeppo, facendogli segno di tendergli l’orecchio e al contempo di abbassare la voce. Lui fece quanto richiesto ritrovandosi la voce del compagno rivale a chiedergli, con voce sommessa ed un poco maliziosa:

“Secondo te quanti anni ha?”

Non ebbe neanche il tempo di arrossire di fronte a quell’allusione che dietro di loro comparve la voce della diretta interessata.

Ho cinquant’anni!” esclamò sorridendo Clarina, china lievemente in avanti con le mani sulle ginocchia.

I due ruzzolarono sul pavimento per la sorpresa per poi, realizzando le parole della donna, spalancare la bocca per l’incredulità.

Cin-cin-cin…!!” balbettò l’occhialuto indicandola tremante con un dito, ma fu Hermeppo, con la sua delicatezza pari a quella di un elefante in una cristalleria, a completare la frase, enfatizzando il tutto con un dito puntato direttamente sulla donna, sorpresa per la reazione eccessiva. Aveva detto la verità in fondo.

“CINQUANTA???!!”

La bionda sbuffò un poco offesa e disorientata, mettendosi le mani sui fianchi con fare autoritario.

Bhe sì. Che c’è? Solo perché una donna decide di rimanere giovane non vuol dire che sia una bugiarda!” esclamò grintosa più che mai. L’aria fresca le stava facendo parecchio bene, grazie al cielo.

E io non ho paura di dirlo: ho cinquant’anni e sono la madre di due splendidi bambini! ” concluse gonfiando il petto con fierezza. Non avrebbe permesso a nessuno di negare quello che era: la sua natura glielo avrebbe impedito in tutte le maniere anche portandola all’autodistruzione.

Era fatta così. Che poteva farci?

“Ma..Ma lei è giovanissima!!” esclamò Koby affiancando l’amico tremando per lo shock.

Certo! Ho promesso a mio marito che sarei rimasta tale e quale fino al suo ritorno e non voglio deluderlo!” disse con semplicità, sbattendo le palpebre non capendo bene perché mai dovessero fare tante storie.

Che strani gli umani.

Un ruggito proveniente dalla cabina del vice ammiraglio le fece comprendere che era tempo di spiegare tutta la situazione al suo salvatore.

Niente di più facile: avrebbe solo dovuto dire la verità.

 

Atto 14, scena 6

Shanks riguardava attentamente quella taglia, sentendo il proprio sorriso fiorire ad ogni secondo che passava.

Che roba…

Quella canaglia somigliava sputato a sua madre.

Una risata minacciò di esplodergli dal petto quando Ben gli si avvicinò con la solita espressione di chi, con un poco di circospezione, ti sta per chiedere:

“Che diavolo hai da ridere, balengo? Sappi che se è un’altra delle tue trovate geniali ti appendo all’albero maestro per le caviglie.” Disse il vice confermando come sempre i suoi sospetti.

Il rosso si tirò all’indietro ridacchiando sommessamente, lisciandosi indietro un paio di ciocche rubiconde, nascondendo di con un movimento fluido il volantino, dietro la schiena.

Sulla nave regnava la solita baraonda pomeridiana, il sole era diventato meno soffocante da quando avevano superato un’isola primaverile, e la ciurma sulla Red Force chiacchierava beata come non mai, godendosi le ventate di aria fresca che il mare regalava loro.

Il capitano però sapeva bene che la situazione di relativa calma non sarebbe durata, viste le ultime esaltanti notizie che il giornale si era premurato di fornirgli.

“Ehi Yasopp!Lou!Foras!” gli chiamò con un sorrisone, vedendoli avvicinarsi incuriositi, a loro si unì anche Rock Star, deciso a prendersi una pausa dalla lagnosa presenza di Roid, ancora imbarcato con loro a causa dei ritmi che il viaggio aveva assunto per via del salvataggio di Monster.

Shanks non andò per le lunghe e con uno scatto, mostrò loro il foglio tenuto nascosto, sventolandoglielo allegramente sotto il naso.

“Dite un po’… chi vi ricorda?” chiese malandrino nel vedere una ad una le facce dei suoi uomini, escluso Rockstar,  spalancarsi prima per lo stupore, poi per l’euforia.

“Ma.. ma..!” balbettò Foras con una lacrimuccia ad un occhio.

“Ma di che parlate?” intervenne Beckman afferrando il foglio dalla mano del capitano, riuscendo finalmente a vederlo. Tutte quelle storie per una nuova ta-...

Deglutì, lasciando cadere clamorosamente una sigaretta sul ponte.

Per la barba di Roger.

Shanks si godette la vista del suo migliore amico sbiancare di netto, curvandosi sulla foto con foga maniacale, sicuramente nel tentativo di trovare qualche differenza che smentisse la sua prima impressione.

Non ebbe successo, a giudicare dal modo in cui si poggiò all’albero maestro, coprendosi la fronte con una mano.

Accidenti. Accidenti. Accidenti.- pensò,cominciando a grondare sudore freddo sotto gli sguardi divertiti dei suoi nakama.

Era talmente sconvolto da non vedere nemmeno la mano di Shanks abbattersi sulle sue spalle, assestandogli una sonora pacca che rischiò di farlo ruzzolare per terra.

“Su con la vita, Ben! Dovresti essere contento! Non capita spesso di scoprire di essere papà con una taglia!” il rosso si fermò, ignorando completamente le occhiatacce del vice per scrutare meglio l’ammontare della ricompensa “Anche se non molto alta…

Schifò per un soffio un pugno da parte di Ben, slanciando la testa all’indietro.

In suo soccorso arrivarono giusto in tempo Yasopp e Lou, fregando la pergamena dalle mani dell’amico, guadagnandosi così la sua completa attenzione.

“Ammettiamolo Ben, non ti somiglia neanche un po’.” Disse Yasopp con fare critico.

“Già, ha preso tutto da Clarina.” Diede il suo contributo Lucky, addentando un pezzo di prosciutto.

Booooofh! Che bella cosa… sigh…essere papà!” singhiozzò il loro addestratore, nascondendo il viso dietro un braccio.

Ben però non dimostrava di essere molto contento.

Guardando la taglia gli venne in mente il viso sorridente di Clarina, lei al suo fianco tra le rigogliose piante di Nido Leila, la sua schiettezza, la sua indomabile curiosità nei confronti del mondo oltre gli scogli insidiosi della sua isola, la prima volta che l’aveva vista, livido e grondante di sangue dopo la lunga scalata che l’aveva condotto al villaggio delle Paradisee, il modo in cui l’aveva curato chiedendo in cambio solo di imparare la sua lingua.

Rise di riflesso, ricordandosi il modo in cui l’aveva descritta, una volta imparate abbastanza parole:

“Sgraziata come un gabbiano gigante sulla terraferma, ma decisamente interessante.”

Forse era proprio per quello che si era innamorato di lei.

Ma scoprire di averla abbandonata con un bambino in grembo.

Si sentì male.

Era andato via, certo che si sarebbero incontrati, e per lui venire a sapere che il governo mondiale aveva inviato lo stesso Akainu da quelle parti era stato come un pugno allo stomaco. Tornato in fretta e furia, vide la pericolosa, ma tanto amata, isola, dove anni prima era naufragato, completamente data alle fiamme e per lui fu un colpo troppo duro da sopportare non trovare alcun superstite.

Fu Shanks a decidere di lasciare per un po’ il Nuovo Mondo, condividendo il dolore dell’amico: aveva conosciuto anche lui Clarina e, dalle poche parole che erano riusciti a scambiarsi, aveva capito che amava veramente Ben e che l’avrebbe aspettato anche fino alla morte. 

Ben si era ormai arreso all’evidenza che le probabilità che la sua amata fosse sopravvissuta erano  rasenti a zero, ma non avrebbe mai e poi mai immaginato che sarebbe rimasta incinta e che durante la sua assenza avrebbe dato alla luce un bambino. All’epoca la sua Clarina gli aveva confessato candidamente di avere già una bambina piccola, di cui aveva solo sentito parlare per via del periodo che ogni Paradisea, compiuto un anno, era costretta a trascorrere lontano dal nido famigliare, ma non avrebbe mai pensato che…

Si passò una mano sulla fronte: come aveva fatto quel ragazzo, il suo, a sopravvivere?

E, domanda essenziale, dove aveva imparato a maneggiare dei coltelli??!!

Una sonora pacca sulla schiena lo fece traballare in avanti e fu solo per miracolo che non cadde faccia a terra.

Scattò con la testa per vedere il colpevole e non si stupì più di tanto nel ritrovarsi di fronte il sorriso a trentatré denti di Shanks.

“Speriamo solo che il ragazzo non abbia preso il tuo caratteraccio! Sai che rottura per la povera ragazza che lo accompagna?!”

“Ragazza?” inarcò un sopracciglio.

“Già!” intervenne il loro cecchino leggendo l’articolo, mentre con una mano libera sventolava la taglia di Viola

“Viola La Sollevapesi, 25 milioni di beri.”

Ci fu un fischio di apprezzamento da parte di Rock Star “Ah, e sembra che con loro ci sia un bambino. ”

Era raro che Ben Beckman rischiasse di strozzarsi con la sua stessa saliva, ma lo fece, finendo per tossire in preda al panico.

Come biasimarlo? Aveva appena scoperto di essere papà, ma non era pronto per pensare a sé stesso come nonno.

Naaah, magari era la sorella. – pensò – Oh, Roger Santissimo, fai che sia la sorella.

Arch, eh?” rimuginò il rosso sul nome del ragazzo nella foto e ridacchiò, intuendo il nome completo.

Accidenti, Clarina era proprio negata per i nomi.

 

Atto 14, scena 7

Archetto e Viola.” Spiegò Clarina indicando i due volantini che il signor Garp le aveva messo davanti agli occhi. C’era voluto un po’ prima che si calmasse, superando l’euforia che il sapere che suo figlio stava bene le aveva dato, ma alla fine aveva ceduto alle occhiatacce del marine e, mettendo da parte la propria felicità, aveva cominciato a spiegare meglio. D’altra parte il suo salvatore sembrava conoscere la sua specie, quindi non si cincischiò in preamboli inutili e arrivò velocemente al succo della questione.

Rispettivamente hanno fiamma amaranto e fiamma rossa. Archetto non è una paradisea per intero e questo gli ha dato parecchi problemi prima che…” si fermò un attimo “…, ecco… lo sa.

“E la ragazza?” tagliò corto Garp con le braccia incrociate, guardando la foto di Viola, tutta presa a scagliare una credenza sul povero malcapitato “È sua figlia?”

No no!” esclamò scossa la donna, agitando con convinzione le mani in avanti “Viola è mia nipote! Mia sorella non è mai riuscita a farla calmare, sa.. i giovani, sempre pieni di energie. Viola non è mai riuscita a stringere grandi amicizie a causa di questa sua mania di lanciare oggetti.” Indicò la foto della paradisea, per poi sospirare

Gli unici con cui abbia un rapporto stretto sono Archetto e Allegra. Grande spirito, quella ragazza è così sola, se soltanto la smettesse di fare la sostenuta avrebbe uno stuolo di corteggiatori e di ragazze pronte a fare la fila per conoscerla.” Pronunciò tutto d’un fiato, lasciando un poco interdetto Garp, non abituato ad una simile parlantina. Di solito chi interrogava era restio a parlare, ma quella donna diceva tutto quello che le passava per la mente!

Tutto! Diamine, in tutta la sua carriera non ne aveva mai incontrata una così!

Si ricompose dando qualche colpo di tosse, cercando di riprendere le redini della conversazione. Aveva una pulce nell’orecchio e avrebbe fatto meglio a togliersela, prima che la lingua veloce di Clarina prendesse il sopravvento.

“E sua figlia Allegra? La potrebbe descrivere?”

Certamente!” esclamò entusiasta quella, partendo a raffica con una descrizione che capì solo a metà.

… ha degli occhioni bellissimi, oh, l’avesse vista da neonata: l’ho adorata fin dal primo istante! Uff, se solo si fosse decisa a maturare un po’ di più, liberandosi un po’ della propria Essenza! Le ho sempre detto di togliersene un po’ di dosso per diventare un po’ più alta, ma lei dice che non se la sente… e poi..!

GGGGNNNNFFHHH!!!

Ops!!” sussultò mettendosi una mano sulla bocca, capendo dal colorito violaceo che aveva assunto il vice-ammiraglio che come suo solito aveva parlato troppo.

Perdoni! Ho la pessima abitudine di parlare a sproposito quando si tratta dei miei figli!” si scusò cercando di darsi un po’ di contegno.

CHE TIPO DI FIAMME HA?!” chiese scuro in volto l’altro, sporgendosi pericolosamente sulla scrivania.

Iiiih!” squittì ClarinaGialle! La mia bambina ha le fiamme gialle!

Garp si lasciò andare sulla poltrona, contento di aver finalmente ricevuto una risposta decente e trovando così l’ultimo tassello del puzzle. I suoi sospetti si erano rivelati fondati: la ragazza che Newgate aveva accolto era una di quelle creature e per la precisione figlia della donna dinanzi ai suoi occhi. Non si somigliavano granchè: madre e figlia sembravano essere due sconosciute, ma, d’altronde, una delle poche cose che sapeva riguardo le paradisee era che il fatto di non essere propriamente umane le scioglieva da vicoli di parentela quali l’aspetto. Era contento poi di essere riuscito a strappare il colore delle fiamme da Clarina: un’altra particolarità di quelle creature era che il loro manto infuocato era da considerarsi come un piumaggio, inconfondibile e ripetibile solo per un numero limitato di volte. Era raro che due paradisee avessero le fiamme gialle. Era un colore troppo alto per appartenere a più di due paradisee della stessa generazione.

La voce un poco impaziente di Clarina attirò nuovamente la sua attenzione.

Ehm…,  adesso posso sapere perché ci sono dei numeri sotto le foto di mia nipote e del mio bambino?

 

 

Atto 14, scena 8, Aria piena di torpore

Ero immersa in un torpore così avvolgente ed invitante che non me la sentii di aprire subito gli occhi, quando una voce ovattata mi richiamò da lontano, trascinando fuori da quella coltre vellutata e nebbiosa la mia mente appesantita dal sonno.

Mi rigirai su un fianco, riparandomi la testa con un braccio, quasi a volermi riparare dall’imminente risveglio, ma il mio gesto non fece granché.

I suoni divennero più chiari, la luce più intensa e la mente più lucida.

Mugugnai contrariata, strofinandomi gli occhi con una mano e tirandomi su con l’altro braccio. Quant’era comodo quel divano!

Neh, akachan. Saa! Me o samase!

Ci misi un po’ a rimettere insieme le parole, esattamente il tempo per focalizzare il viso come sempre sorridente e lentigginoso di Ace su di me.

Oh… bhe… anche per quello mi ci volle un po’, infatti la prima cosa che feci, non appena capii chi effettivamente mi trovassi davanti, fu scattare seduta e rannicchiarmi da una parte. Vidi la sua espressione felice congelarsi appena, deluso dalla mia reazione e mi pentii immediatamente, sentendomi orribile.

Avrei voluto dire qualcosa in mia discolpa, ma mi morsi la lingua, accorgendomi, nel guardare l’orologio a muro della biblioteca, che effettivamente era troppo presto per tornare a far sentire la mia voce.

Unii in segno di scusa le mani dinanzi al viso, simulando un inchino da seduta non molto ben riuscito.

Mi sentii un po’ meglio, vedendolo tornare a sorridere come prima.

“Tranquilla piccola!” disse ridendo, poggiando una mano sul ginocchio.

“Avremmo qualcosa da farti vedere.”

Congelai. La voce calma e pacata che aveva appena parlato dietro di me non poteva che essere di una persona.

Mi voltai.

Marco ricambiò il mio sguardo con una delle sue occhiate profonde ed indecifrabili. Sentii un tremito percorrermi la schiena, facendomela inarcare leggermente, e, neanche fossi stata punta da un ape, saltai in piedi, scendendo con un balzo dal divanetto sotto le occhiate stranite di Jaws, Marco ed Ace.

Ma che cosa avevo fatto di male per ritrovarmi in una situazione così scomoda?

Cercando di non fare caso all’impellente bisogno di scappare ed all’inconfondibile calore che mi stava divampando sulle guance, mi raddrizzai, irrigidendomi di colpo per evitare di agitarmi più del dovuto.

Presi un respiro profondo.

Calma. Calma.

Passato il momento critico lanciai un’occhiata interrogativa a Jaws, che però, riassunta la sua tipica faccia da burbero, mi indicò di nuovo Marco, come a spiegarmi che era a lui che dovevo rivolgermi.

Così feci, battendomi con  l’istinto di schiarirmi la gola stretta tanto fastidiosamente da sembrare essersi annodata da sola.

Fortuna che non dovevo parlare.

Davanti a me gli occhi cristallini di Marco fecero cenno ad Ace che mi comparve nuovamente davanti, stavolta un po’ meno sorridente e con in mano un paio di fogli.

Notai subito quanto si stesse sforzando di tirare all’insù gli angoli della bocca.

“Ehm.. So che dopo quanto è successo non sarebbe il momento più adatto, ma…” cincischiò per un po’,  allungandomi infine quei pezzi di carta con un’aria un poco apprensiva.

“Pensiamo che questi potrebbero servirti.”

Accettai quanto consegnatomi, senza però fare a meno di assumere un’espressione confusa.

Che intendeva dire?

“Per la tua memoria.”

Non era un po’ strano che tutto d’un tratto sentire la voce di Marco facesse scattare in me un senso di allerta?

Anche se ripensandoci…

Scacciai velocemente la sensazione di formicolio sul dorso della mano strofinandomelo distrattamente, mentre mi mandavo mentalmente degli insulti.

Dovevo concentrarmi su quello che mi avevano detto, diamine, non divagare su cose che non centravano nulla!

Non persi altro tempo e girai i volantini che mi avevano dato, posandovi gli occhi quasi con rabbia.

Un singulto mi saltò al petto.

 

Atto 14, scena 9

I tre comandanti si erano aspettati di tutto, dopo aver mostrato alla paradisea le immagini dei suoi vecchi compagni di viaggio. Ace si era addirittura preparato mentalmente ad uno scoppio di lacrime, com’era accaduto la volta prima che la ragazza aveva rammentato qualcosa.

Eppure non accadde nulla.

Nulla.

Assolutamente nulla.

Quello che riuscirono a percepire dalla ragazza fu semplicemente il leggero schiudersi della bocca, causato dalla mascella lasciata inaspettatamente libera di ciondolare verso il basso.

Il modo in cui Momo si era bloccata aveva lasciato a fiato sospeso tutti e tre, incatenando i loro sguardi sulla sua espressione: alla vista delle due foto, la ragazza aveva semplicemente sbarrato gli occhi e socchiuso la bocca, dando segno di uno stato d’animo che le era proibito esprimere a parole.

Poi la situazione si sciolse di colpo.

La videro muoversi per alzare lo sguardo atterrito e pienamente consapevole su di loro e fu quasi uno shock: non era lo sguardo di una persona sull’orlo delle lacrime, ma c’era qualcosa che per un istante fece loro  avvertire l’errore compiuto.

Così, quando la paradisea si voltò, scomparendo in meno di un secondo dalla biblioteca, per loro fu peggio di un fulmine a ciel sereno.

Inaspettato e sconvolgente

Non capirono bene quello che era accaduto esattamente, finchè una voce fin troppo conosciuta, e proveniente dal ponte principale, riempì l’aria con il un suono argentino che li mandò letteralmente nel panico, facendoli sbiancare come dei lenzuoli insieme al resto della ciurma, che aveva avuto la sfortuna di vederla al momento del folle gesto.

 

YATTAAAAA!!!!!

 

Fine prima parte Atto Quattordicesimo

 

Mi vergogno di me stessa… Ritardo e nemmeno i degno di un Atto completo. Sigh. Sono pessima lo so. Non preoccupatevi, ne sono consapevole. Il motivo di questa mia pubblicazione (a mio parere anticipata). Sta nel fatto che è in arrivo un altro periodo duro (quando mai l’università non è dura?) e quindi, avendo già scritto abbastanza (non sono arrivata a 15 pagine, ma 10 sì) ho voluto evitarvi l’agonia di attendre probabilmente un altro mese.

Lo giuro! Il prossimo capitolo sarà più denso e con più risvolti in tempo reale. Non la mollo non la mollo nonlamollo nonlamollononlamolloooo!! <- mantra dell’autrice determinata.

Perfetto e oa passiamo alle cose serie(inforca gli occhiali e legge un foglio):

Il precedente sondaggio si è chiuso con la vittoria schiacciante di Marco… (si volta verso una figura rannicchiata in un angolino a disegnare cerchietti nella polvere) mi spiace Ace.

Sigh.”

Non ti preoccupare, c’è ancora speranza nell’ultimo sondaggio (dice facendogli pat pat sulla schiena)

Tornando a noi. I vostri voti sono sempre fonte di ispirazione per me e vi ringrazio tantissimo (inchino).

Passiamo adesso aaaal… (caccia via occhiali e foglio, riassumendo l’aspetto da fanatica)

MATCH FINALE!!!

Domande:

1)      Chi sceglierà Momo? Ace o Marco?

2)      Clarina cosa farà scoprendo che i suoi figli sono ricercati?

Ci vediamo belle bimbe!! XDD

Kisskiss

TS

 

Note di LIBRETTO: Jap  >  Ita

Neh, akachan. Saa! Me o samase! > Ehi, piccola. Su! Svegliati!

YATTA!! > SÌÌÌÌÌÌÌÌÌÌ!!!! /EVVIVA!

 

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Capitolo 18
*** Atto 14 -seconda parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 14 –parte seconda-

Atto 14, scena 10

“Aspetti un momento…” balbettò Clarina, mettendo le mani avanti come per fermare la valanga di parole di cui il vice-ammiraglio Garp la stava tempestando. Come richiesto il vecchio si bloccò, incrociando le braccia al grosso petto, con il solito cipiglio severo, attendendo che la donna rimettesse insieme le idee.

Dal canto suo l’altra non ci mise molto e, non appena collegate alcune delle parole fondamentali con il giusto significato, rialzò si scatto la testa, allargando gli occhi con espressione scioccata.

“Fuorilegge??” ripetè incredula la bionda, ricevendo come risposta un cenno di assenso da parte dell’altro.

Non passò molto tempo, prima che una furia cieca invadesse gli occhi della paradisea, inondandogli di un bianco che non prometteva nulla di buono.

Garp fece in tempo a ricordarsi che le Paradisee mostravano le loro vere potenzialità con l’avvento delle ore notturne,prima di ritrovarsi seduto sulla scrivania a subire in silenzio il tono di voce fastidiosamente alto della propria ospite.

Clarina aveva piantato di getto le mani sulla sua scrivania, fissandolo con ferocia trattenuta. Le sue braccia, così come i suoi capelli si infiammarono di bianco, dando così prova della sua vera natura.

Una Paradisea fiamma bianca pura.

Da non credere – pensò il vice ammiraglio indeciso se guardarla con ammirazione o sospetto , escogitando al contempo un piano per limitare i danni alla propria nave in caso la situazione fosse volta al peggio.

“Mi sta forse dicendo che mio figlio…” scandì la donna sporgendosi minacciosamente verso di lui, flettendo le dita quel tanto che bastava per segnare con le unghie ben curate il legno pregiato dello scrittoio.

Il marine decise di non interromperla, nonostante chiunque si fosse permesso un comportamento simile nei suoi confronti sarebbe finito dritto in mare.

Ma – si ripetè cercando di tenere a freno il suo brutto carattere e la quantità di sangue ed adrenalina che gli stava pompando nelle vene – una donna è sempre una donna.

“..E una paradisea arrabbiata è molto pericolosa.” Gli aveva detto una volta una certa persona.

“… è accusato di aver ferito volontariamente delle persone innocenti??!!”   

Garp grugnì in risposta, capendo di dover dare delle spiegazioni in merito, cosa che lui detestava fare.

“Attualmente suo figlio è indagato per danni a civili che hanno giurato di non aver fatto nulla per..- ”

“Sciocchezze!!!” esplose ancora una volta la donna con tanta prepotenza da far quasi perdere completamente la pazienza al vice ammiraglio, ormai occupato a digrignare i denti e stringersi i lembi della divisa per trattenersi.

Poi, inaspettatamente, ci fu un momento di quiete e il crepitare ostile delle fiamme bianche si attenuò a poco a poco, divenendo in pochissimo tempo un placido scoppiettio.

Garp spalancò gli occhi, stupito da quell’improvviso cambiamento, ma, purtroppo, sapeva che non era ancora finita.

A dare prova dei suoi sospetti  fu la mano bollente e veloce della donna che, con uno scatto, lo afferrò e lo tirò per la cravatta verso di , facendogli incontrare il viso gelidamente calmo dell’altra.

Per un istante il marine si stupì di quanta regalità risiedesse in quel viso, illuminato da una luce bianca e quasi innaturale, ma si impose di tornare con i piedi per terra, realizzando finalmente in che razza di situazione si trovasse.

Messo sotto da una donna in preda ad un attacco d’isteria??? Dannatamente no!

“SI PUO’ SAPERE CHE DIAVOLO LE PRENDE???!” si schiarì la voce, incrinando per un istante l’espressione coriacea della paradisea.

Tutto in un istante e Clarina era già tornata seria e categorica.

“Quelle persone non sono innocenti.” Affermò tetra, guardandolo dritto negli occhi come aveva sempre fatto dacché l’aveva conosciuta. C’era però qualcosa di diverso in quello sguardo: guardava lui, ma guardava qualcos’altro.

Come spiegarlo?

Era come se con i suoi occhi stessero assistendo a qualcosa di recondito e lontano, ma allo stesso tempo lo stessero affrontando. In tutta la sua vita aveva visto una cosa simile solo una volta.

“Come??!”

“Quelle persone hanno mentito.” Precisò Clarina senza cambiare di espressione e stringendo di riflesso la cravatta del vice-ammiraglio, sgualcendola ancora di più.

Il Pugno stava già dando aria alle corde vocali per chiederle le dovute spiegazioni, quando dalla porta della cabina, sudati e bianchi come cadaveri, entrarono Koby ed Hermeppo.

“SIGNORE!” esclamarono spaventati i due non appena videro la figura ammantata dalle fiamme di Clarina.

“FUORI DI QUI! QUESTA E’ UNA CONVERSAZIONE PRIVATA!” gli ordinò più furioso che mai di tutta risposta, mandando in aria centinaia di piccole gocce di saliva.

I due per un istante tentennarono, indecisi se seguire l’ordine del loro stimato superiore, ma poi, contro ogni previsione dell’eroe dal pugno di ferro, Koby si chinò profondamente in avanti in segno di scuse e rispetto.

“Signore!” esclamò il ragazzo tremando fin dalle ossa “L’ammiraglio Akainu…!”

Bastò quel nome a far crollare la maschera di decisione dal volto della Paradisea, facendole mollare immediatamente la cravatta del vice-ammiraglio Garp.

La donna, ancora ammantata dalle sue fiamme bianche, si girò lentamente verso i due ragazzi, scrutandoli incredula ed in preda al terrore. Era tornata la donna terrorizzata e braccata che era salita sulla nave ore prima.

Dal canto suo il Pugno non ci fece molto caso, una volta libero di muoversi come meglio credeva, ma si ritrovò comunque a guardare ansioso il proprio allievo, con una brutta sensazione che gli attanagliava la bocca dello stomaco.

…L’ammiraglio Akainu… si sta dirigendo qui…!”

La donna in quell’istante non ce la fece più e con uno scatto a dir poco incredibile si appiattì contro la libreria addossata alla parete, facendo cadere un paio di volumi, ansimando in preda al panico.

E… vuole vederla con urgenza.”

Garp non aveva mai odiato così tanto ricevere notizia di una visita di un proprio superiore.

 

Akainu non era un tipo famoso per i propri sorrisi, ma nessuno aveva mai avuto il dispiacere di vederlo fuori di sé.

Almeno fino a quando non era salito sulla nave del vice ammiraglio Garp.

“GARP!!”

Uscendo dalla sua cabina, e richiudendosi  velocemente la porta alle spalle, il Pugno fu certo di odiare essere chiamato per nome dal proprio superiore.

“Che succede Akainu?” si sbrigò a rispondere scendendo le scalette che portavano al ponte, arrivando ad affrontare la figura di poco più alta del Cane Rosso, sfoggiando la sua come sempre impeccabile espressione burbera e seria.

La risposta alla sua domanda fu uno sguardo letteralmente fiammeggiante.

“Lei dov’è?”

La parte più difficile venne con quell’inaspettato sviluppo, che lo portò a mascherare la propria consapevolezza con un’espressione credibile in un lasso di tempo minimo.

“Lei?” riuscì nella propria impresa inarcando uno dei propri sopraccigli bianchi, palesando al meglio “E chi sarebbe questa lei?”

Non andò bene: la mascella dell’ammiraglio si era stretta diventando ancor di più simile ad un macigno.

Garp comprese appieno la situazione: sapeva che era stato lui, dopotutto, doveva ammetterlo, in tutto il quartier generale di Marineford solo lui si sarebbe azzardato a sfondare una porta in quel modo.

Accidenti a lui e alla sua impulsività.

Oh bhe.

Poco male, ormai la frittata era fatta.

L’unico problema al momento era rappresentato che nella sua cabina c’era la ragione di tutto quel trambusto e che se il Cane l’avesse scoperto, tantomeno sospettato, per lui e la signora Clarina, sarebbero stati dolori.

La Paradisea in quel momento se ne stava rannicchiata in un angolino della stanza, affiancata dai due apprendisti del marine. Tutti e tre erano tesi ed pronti all’evenienza di vedere entrare da quella porta in temuto ammiraglio, l’una scattando il più in fretta possibile verso un nascondiglio sicuro, gli altri parandosi dinanzi al nemico distraendolo al meglio delle proprie possibilità. In fondo si erano affezionati a quella donna un po’ troppo loggorica che gli aveva curati con così tanta gentilezza, quindi, abbandonarla nelle mani dell’ammiraglio Sakazuki non era tra le opzioni previste. 

Per un istante Sakazuki parve calmarsi, ma non fu che una breve illusione rotta dallo sguardo di avvertimento che indirizzò dritto sul proprio subalterno.

Garp.” Lo avvertì “Sai a cosa vai incontro?”

“Eh?” fece lui in risposta, grattandosi la testa di lato, assumendo la sua faccia da imbambolato migliore del suo repertorio, ma questo non aiutò a far desistere l’altro.

“Il mio è un consiglio da amico..”

“No.. davvero Akainu, di cosa sta parlando?”

Quella sua ultima uscita, splendidamente candida, fermò le parole dell’ammiraglio che, bloccandosi per qualche istante con negli occhi qualcosa di molto simile all’odio, girò i tacchi, scendendo il più in fretta possibile da quella nave.

Una sola ultima frase fu capace di rizzare i capelli della nuca al vice ammiraglio Monkey D. Garp.

“Mi aspetto di essere ricevuto nella sua cabina la prossima volta, vice-ammiraglio.”

 

Atto 14, scena 11

“Che cavolo pesavi di fare??!!” sbraitò Ace, mentre cercava di mantenere l’equilibrio sulla superficie ormai ballonzolante ed instabile della Moby, stando bene attento a non perdere di vista la ragazza che in quel momento stava, suo malgrado, rimproverando.

Momo però non riusciva proprio a smettere di sorridere, nonostante sotto di loro la furia di un altro Re dei Mari, attirato dalla sua voce, stesse mettendo a dura prova la resistenza della imbarcazione.

Scu-!”

Una mano abbronzata bloccò quella parola di troppo appena in tempo, premendole la bocca con decisione.

“Momo!” la richiamò Marco fulminandola con un’occhiataccia alla quale l’altra rispose con un paio di cenni affermativi, seppur seguiti da un paio di guance gonfie di stizza.

Il messaggio era chiaro: provateci voi a rimanere zitti per ore.

Un altro colpo allo scafo della nave.

Ma perché tutti i Re dei mari hanno il vizio di affondare le navi?? – pensò Ace tornando il più velocemente possibile in equilibrio sui propri piedi.

Proprio in quel momento una figura sinuosa emerse dall’acqua, facendo cadere sulle loro teste una pioggia salata.

Come poterono subito intuire dalle squame, stavolta rosate, si trattava di un lucertolone molto simile ad un serpente marino striato di nero, l’unica cosa che lo distingueva dal suo sfortunato predecessore era una cresta sottile che gli ornava come una criniera la testa.

“Scricciolo … non per dire…” si fece accanto a lei Satch, gattonando sul ponte con un sorriso non tanto convinto e qualche goccia di sudore ad ornargli le tempie “…, ma i tuoi pretendenti marini lasciano parecchio a desiderare.”

Lo penso anch’io…- pensò la ragazza, guardando con non poco terrore il mostro cercare affamato qualche indizio che portasse a lei.

Di colpo tutta la prudenza che si era buttata alle spalle, tornò ad inondarle il cervello, facendole stringere di riflesso i volantini che erano stati la causa del suo urlo sconveniente.

Oh cavolo, quegli orrendi occhi gialli non si erano soffermati su di lei, vero???

E riecco l’istinto di darsi alla fuga che le formicolava sulle gambe.

Lo avrebbe fatto, oh eccome.

Furono un paio di mani ben salde ad inchiodarla al suo posto, impedendole così di dare conferma ai sospetti di quel rettile affamato.

“Non ti muovere.” Le intimò la voce ferma di Marco all’orecchio.

Ci fu un momento in cui arrossì di botto, sicuramente per la vergogna di essersi quasi comportata da vigliacca, poi annuì vigorosamente, tremano al contempo come una foglia.

Intanto il mostro marino continuava a guardarla, ciondolando un poco confuso e deluso: poverino, non trovare la preda per la quale aveva attaccato la nave doveva averlo sconvolto non poco… e il peggio doveva ancora venire.

Approfittando di quell’attimo di calma Ace, insieme ad altri della sua divisione e gli altri capitani, si alzò riscaldando con un paio di piccoli allungamenti un braccio, mostrando a tutti il suo solito sorrisetto sghembo.

Momo aveva imparato a temere quell’espressione sul volto del moro e sapeva bene che quella creatura stava per pagare le conseguenze del suo errore.

“Chi vuole un Re dei mari per cena?” concluse il comandante della seconda flotta, infiammando di colpo l’intero braccio.

Inutile dire che a seguirlo fu una sinfonia di spade sguainate e pistole caricate.

Da lontano la ragazza vide Vista estrarre elegantemente le sue lame, seguito a ruota da Satch, poco vicino a lei. Persino il babbo, sedutosi nuovamente e comodamente sul proprio trono, si era messo a ridacchiare compiaciuto, trangugiando qualche sorso proibito di sake.

Evidentemente il fatto di vedere i propri figli così sicuri di sé ed organizzati lo aveva esonerato dal doversi occupare della situazione.

La paradisea sospirò, coprendosi gli occhi mentre si preparava con grande pena a sentire l’ultimo ruggito dell’animale.

 

Atto 14, scena 12

Scrrik-scriiiiich~!

“Smettila di cercare di rigare il tavolo.” Ordinò Arch laconico, mentre affilava serafico le proprie lame con una pietra adatta. Accanto a lui, seduti ad un tavolo da cafè in ferro, Viola e Morgan rimanevano zitti, l’una rimuginando arrabbiata su quello che il bambino aveva appena raccontato, confermando così la storia di Arch, l’altro rannicchiandosi il più possibile sulla sedia, pregando di scomparire.

 Scrrik-scriiiiich~!

“Viola..” la richiamò il biondo, cominciando a non sopportare più il rumore che le unghie fastidiosamente affilate dell’argentata creavano, venendo grattate, in preda ad un tic nervoso, sul tavolino.

“Non rompere Arch.” Lo zittì quest’ultima, guardando prudentemente da un’altra parte “Sto pensando.”

Gli occhi cobalto del biondo si spalancarono di colpo, bloccandolo nell’atto di passare ancora una volta la pietra sul filo malridotto del proprio pugnale.

Pensare? Grande spirito, no. Pietà.

L’ultima volta che Viola si era messa a pensare lui ed Allegra si erano ritrovati a testa in giù sopra un acquitrino paludoso pieno di rettili giganti addormentati.

Morgan non seppe dire perché il volto del signor Arch fosse sbiancato di netto, ma non era un buon segno.

“Ehi, marmocchio.” Lo richiamò la voce rude della ragazza, facendogli incontrare ancora una volta gli occhi scuri di lei contratti un po’ per il troppo sole, un po’ per la situazione in cui si trovavano

“Com’era?”

Il bambino sbattè un paio di volte le palpebre.

C-com’era cosa?” chiese di getto, senza pensare.

“IL FRUTTO!” esplose l’altra, facendolo quasi cadere dalla sedia dallo spavento.

A-aveva un b-b-brutto sa-pore.” Spiegò semplicemente l’orientale, nascondendo un po’ il viso dietro l’orlo del tavolo, con gli occhi un po’ lucidi per lo spavento.

“Non mi riferisco al sapore!” ringhiò stavolta a denti stretti la Paradisea, sentendo in gola la sensazione di star perdendo il controllo della propria voce.

“Ma all’aspetto! L’aspetto!” precisò impaziente.

Morgan si corrucciò un poco, inizialmente con fare ferito, poi assorto nel tentativo di racimolare le parole adatte a descrivere il frutto da lui ingerito un anno prima.

Era…” si guardò intorno, cercando qualcosa che gli somigliasse almeno vagamente.

Lo trovò.

Senza dire una parola scese dalla sedia ed andò verso la bancarella di frutta poco lì distante, indicando con enfasi uno dei prodotti in esposizione.

Incuriositi da quel gesto Viola e Arch si alzarono e seguirono il bambino, mettendosi ad osservare quella strana sfilza di oggetti tondeggianti, colorati e dall’aspetto inaspettatamente succoso.

“Era molto simile a questo!” esclamò il moretto indicando con un dito un gruppetto di tondini violacei uniti tra loro da un rametto.

Arch, dietro di loro, inarcò un sopracciglio, interessato da quello strano oggetto.

“Quella è uva?” chiese, ricordandosi della prima, vaga, descrizione fornitagli dal bambino.

Morgan annuì vigorosamente.

“Quello che ho mangiato io era giallo, i chicchi erano uniti in un unico frutto e…” continuò, ripetendo quello che aveva detto al ragazzo ore prima.

“Nient’altro?” intervenne  Viola, in quel momento talmente seria in volto da far paura.

Il bambino ci mise molto prima di decidersi a parlare, sudando freddo alla vista degli occhi accigliati della ragazza osservare fissi il frutto violaceo indicatole.

A-aveva…” balbettò Morgan con la gola diventata stranamente secca “… i… i chicc-cchi … che s-sembravano a… s-s-sp-.. ”

Gli occhi di Viola e Arch si dilatarono quasi nel medesimo istante, riconoscendo le prime due lettere di una parola che non si sarebbe dovuta pronunciare.

…spirale.”

Da lì in poi Morgan non seppe mai cosa successe esattamente. Si sentì solo strattonare all’indietro per la maglietta e un forte ruggito da parte di Viola rimbombargli nelle orecchie. Il suo corpo fu premuto contro quello che, con una rapida occhiata all’indietro, riuscì ad identificare come il signor Arch, poi un’altra spinta fece rotolare, o meglio volare, per un paio di metri entrambi.

Il bambino si ritrovò accasciato per terra e stretto al petto di Arch, pieno di graffi e polvere sul viso.

Attorno a loro i pochi passanti del tardo pomeriggio si erano fermati, trasalendo a quella vista spaventosa.

Viola…” gemette il biondo, rialzandosi a fatica insieme al bambino.

Gli occhi neri di quest’ultimo trovarono la ragazza a pochi metri da loro, con le mani strette a pugno e la bocca storta in una smorfia rabbiosa, ancor più terribile di quella che assumeva di solito.

“… Stai. Calma.”

Ehi…moccioso.” Disse l’altra, facendo finta di non averlo sentito, avvicinandosi pericolosamente a loro con passo lento.

Morgan spalancò gli occhi terrorizzato, quando la figura minacciosa di Viola gli si parò davanti, oscurandolo con la sua stessa ombra.

“Sputalo.”

“eh..?”

“Viola!”

SPUTA QUEL FRUTTO!

 

 

Atto 14, scena 13

Momo stava pregando incessantemente che qualcuno la venisse a salvare.

Dacchè Betty, furiosa per aver visto l’armadietto dei medicinali fracassarsi in buona parte del suo contenuto al suolo sotto i colpi del Re dei mari, in quel momento finito sotto le amorevoli cure del cuoco di bordo, l’aveva trascinata via e rinchiusa insieme a lei nell’infermeria per farle la ramanzina del secolo, aveva speso ogni suo singolo pensiero ad implorare che Satch, Jaws o chi altri la venisse a prelevare.

Ahimè, nulla di tutto ciò accadde.

Dal piccolo oblò della stanza poté anche vedere che si era fatta sera.

Accidenti, che razza di polmoni aveva quella donna??

Di certo non forti quanto quelli di Viola.. – si ritrovò a pensare lanciando un’occhiata al volantino che la ritraeva. Sorrise di riflesso, incurante del fatto che Betty, sorpresa di non essere più ascoltata dalla sua giovane allieva, aveva fermato la propria sinfonia di strepiti.

 Attraverso le lenti scure dei propri occhiali Betty vide con sua enorme sorpresa la piccolina sorridere incurante, continuando a stringere al petto i sue volantini.

E nel mentre l’infermiera si chiedeva che effetto avessero mai fatto alla sua memoria quei pezzi di carta per farla ridere in quel modo, nella mente della paradisea passavano i pochi preziosi ricordi che era riuscita a riacquistare…

 

Sinfonia - Andante Molto Mosso

Una foresta dalle foglie lucide e talmente grandi da oscurare la vista del cielo notturno le si stagliava attorno. Sentiva di essere piccola, bassa e nonostante fosse ben dritta sulle proprie gambe, avvertiva la sensazione di camminare poco famigliare.

Tra le braccia teneva cinque frutti di colore diverso. Erano grandi, bitorzoluti e difficili da portare.

Saltò da terra con il solo ausilio delle gambe, ma riuscì comunque ad arrivare ad uno dei rami più bassi di un albero. Stava scalando una pianta lunga ed alta, piena di buchi e con una chioma stranissima in cima, simile a una palma.

Rischiò di far cadere uno dei frutti, ma riuscì ad afferrarlo appena in tempo con i denti.

In bocca sentì il sapore amarognolo del picciolo legnoso di quella specie di cocomero rosa. Cercò di non pensarci continuando a saltare con il frutto ancora stretto tra i denti.

Salto a destra.

Salto in alto.

Ancora destra  e poi sinistra.

Era arrivata.

Davanti a lei, in corrispondenza del ramo c’era un’altra cavità scura e sicuramente profonda.

Si avvicinò senza timore finché una dozzina di luci di vario colore si accese nel buio di quell’antro.

Non ne fu spaventata.  

Ehi, è Allegra!” disse una voce appartenente ad un paio di occhi rossi.

Allegra!” fece eco un paio di occhi rosati e più gentili rispetto agli altri.

Non poteva rispondere con quel frutto in bilico nella propria bocca, ma, anche potendo, non ne avrebbe avuto il tempo.

Allegra!!!” un altro paio di occhi rossi vivi si lanciarono verso di lei, facendo fuoriuscire dal buco una figura ammantata su testa e braccia da fiamme rubiconde. Una ragazzina di forse 7 anni dai capelli lunghi ed appena visibili da sotto quel manto di fiamme che la ricopriva.

Lei non fece altro che sorridere e porgere all’altra i frutti che aveva tra le braccia, tralasciando quello che le impediva di parlare, ma a dispetto delle sue aspettative, l’altra si arrabbiò.

Sei impazzita?? Non c’era bisogno che lo facessi!!!” sbraitò quella a pieni polmoni avvicinandosi a lei e togliendole di poca grazia il frutto bitorzoluto dalla bocca.

M-ma…” disse, sentendo ancora un po’ di amaro in bocca “… stavate morendo di fame.” Fu la sua giustificazione, volgendosi in direzione delle altre, che, imitando la più grande,  erano uscite dal loro nascondiglio, guardando con fare bramoso le cibarie portate da lei che, poté intuire da quanto era alta rispetto alle altre, era la più piccola.

E hai sacrificato 5 anni della tua vita???!!” esclamò quella con tanta forza da farle male alle orecchie.

Anche tu l’hai fatto!” protestò, stavolta sfidandola “Ne ha usati 6!!

Capì di aver colpito ed affondato nel vederla digrignare i denti con rabbia e lanciare il frutto che le aveva sottratto dritto nel loro rifugio.

Ahia! Viola!” lamentò la più timorosa delle voci, sicuramente appartenente agli occhi rosati.

Sta’ zitta Agiata! E vedi di non mangiartelo tutto!

Cattiva!!

Sorrise soddisfatta, finalmente avrebbero fatto un pasto decente.

 

…….

 

Allegra.

Era il suo nome.

Strinse ancora di più quei volantini, sentendosi scaldare il cuore.

Non avrebbe cambiato, però, quello che le aveva dato la ciurma.

Momo le andava bene, ed ormai si era affezionata a tutti sulla Moby.

Tra l’altro, conoscendo solo il nome, sarebbe stato molto meglio aspettare di conoscere qualcosa di più su di .

Non voleva accelerare troppo i tempi.

Quella nuova famiglia le piaceva un sacco e non l’avrebbe lasciata per così poco.

Chissà…- pensò - …magari Viola e Arch potrebbero…

Un piccolo schiocco l’avvertì che quella aveva avuto era una pessima idea.

Sospirò.

Oh bhe, poco male. 

Quel piccolo ricordo l’aveva aiutata tantissimo e doveva tutto all’immagine della sua amica ormai cresciuta e anche quella di Arch.

Adesso per esempio conosceva l’aspetto della sua isola natia, e che, stranamente, per un certo periodo della sua vita si era trovata da sola insieme ad altre sue coetanee, tutte femmine, in mezzo alla foresta.

Già e Arch? In mezzo a loro non aveva visto il biondo…

Forse non era ancora nato…- pensò

Poi quegli strani frutti … non capiva ancora bene cosa volesse dire viola quando l’aveva sgridata, rimproverandola di aver sprecato 5 anni della sua vita…

Momo-chan?”

La voce un poco preoccupata di Betty la richiamò, scuotendola dai propri pensieri.

Si accorse di essere nuovamente attorniata dalle proprie fiamme gialle e che il cielo si era fatto scurissimo.

“Forza. È ora di andare a mangiare.” Fu la sola cosa che l’infermiera le disse, alzandosi e dirigendosi insieme a lei verso la porta.

Uscendo intravide un sorriso intenerito dipingersi sulle labbra rosse della più grande.

 

 

Atto 14, scena 15

“Secondo me lo scricciolo ha ricordato qualcosa.” Affermò Satch, assaporando fino all’ultimo la carne squisita del mostro marino da loro cacciato in giornata.

Ovvio… altrimenti non avrebbe lanciato quell’urlo.” Gli diede corda Marco facendo lo stesso con il proprio piatto, anche se con un po’ più di decoro. Alla loro sinistra Vista si lisciò i lunghi baffi, ondeggiando con fare assorto e divertito il calice di vino mezzo riempito.

“La piccola lady sarà stata molto contenta, immagino…” si interruppe per sorseggiare un po’ del suo bicchiere “…non mi stupisce che abbia reagito con tanto zelo.”

Bhe, almeno grazie a lei ci siamo procurati una cena con i fiocchi!” esclamò Satch tutto contento.

Già…” disse il comandante della prima flotta,annuendo: la ciurma sembrava aver preso bene la notizia di un possibile ritorno della memoria per la loro nuova sorellina, anzi, sembrava quasi non farci caso.

Adocchiò alla propria sinistra l’ondata di fumo nero che partiva dalla testa di Ace, accigliato e con il mento poggiato su una mano.

Il biondo sospirò: non poteva certo biasimarlo per essere arrabbiato. Anche lui c’era rimasto non poco di sasso quando Betty si era portata via Momo, impedendo loro di chiederle cosa avesse mai ricordato, guardando le facce dei propri amici.

“Rilassati.”

La quantità di fumo raddoppiò.

Ace…” fece accigliandosi a sua volta “… scaldarti non servirà a far apparire Momo da quella porta.”

“Almeno mi aiuterà a passare il tempo…” bofonchiò il moro in preda all’umore più nero.

“Qualcosa di più costruttivo?”

Aaaah!” ringhiò, sciogliendosi finalmente da quella posizione da pensatore imbufalito, per poi scoccargli un’occhiata fulminante.

“Ma perché Betty deve sempre rompere le uova nel paniere?!”

“È una donna, Ace, farlo rientra nelle sue mansioni giornaliere.”

“Momo non è così!!”

“Un giorno lo sarà.”

A quell’ultima frase il comandante in seconda rispose con un’espressione un po’ sospettosa.

“Se stai cercando di farmi rinunciare, campi male Marco.” Scandì per bene guardandolo di traverso.

“Tentar non nuoce.” Fece lui, guardando da un’altra parte con la solita espressione apparentemente imbronciata, facendo le spallucce.

Satch-san!

Si parlava del diavolo…

L’intera sala non fece nemmeno in tempo ad alzare lo sguardo sulla paradisea che questa era saltata sul capitano della quarta divisione, facendolo cadere all’indietro dalla sedia per il troppo slancio.

Il biondo dal pizzetto si ritrovò letteralmente disteso per terra con il suo adorabile scricciolo, luminoso e giallo come al solito, sopra di lui, con un sorriso grandissimo sulle labbra.

Due vene di puro scontento si gonfiarono sulle tempie dei sue pretendenti della ragazza e questo, purtroppo, non sfuggì all’occhio attento di Satch, in quel momento più che mai spaventosamente consapevole di star rischiando i propri capelli.

Con sua immensa gioia e gratitudine fu proprio la ragazza a saltare via da lui, liberandolo inconsapevolmente dalla più crudele delle sorti.

“Ehilà, scricciolo!” esclamò, rialzandosi a sua volta, mentre Ace e Marco placavano i loro intenti omicidi nei suoi confronti.

Momo non perse tempo e con un rapido gesto portò i due volantini nuovi di zecca di fronte al comandante in quarta.

Satch-san! Mi sono ricordata con chi viaggiavo!” esclamò visibilmente eccitata la ragazza, persino le sue fiamme, normalmente di un bel giallo sgargiante, si erano schiarite diventando leggermente più pallide.

Un momento di silenzio gli accompagnò per un istante, finendo poi con l’esplodere in boato di esclamazioni entusiaste da una buona parte della ciurma.

“Ottimo scricciolo!” esclamò sorridendo Satch, chinandosi di poco verso la più piccola, che però non sembrò risentire di quella vicinanza come al solito.

Stranamente la sua solita insicurezza pareva essersi dissolta in un soffio.

Con la coda dell’occhio il biondo vide gli altri due assistere preoccupati, ed un poco sulle difensive, la scena, dandogli così occasione di concedersi una sottile vendetta per il trattamento subito.

I suoi capelli reclamavano giustizia.

Chi era lui per deluderli?

Fece un bel respiro e, in un soffio, diede voce alla domanda più critica e malevola che potesse colpire le orecchie dei due comandanti incendiari.

“Ti sei ricordata del bel ragazzo di cui mi avevi parlato?”

Fu con grande soddisfazione che notò i muscoli di entrambi irrigidirsi di colpo.

Aaah… dolce soddisfazione.

“Sì!” annuì vigorosamente Momo, incurante di quella punizione indetta dal suo migliore amico nei confronti dei suoi ex aguzzini. La sua mano afferrò prontamente il suddetto dispaccio di cattura, portandolo tra le mani dell’altro che, nonostante l’avesse già visto, finse un poco di sorpresa per evitare di deludere la sua sorellina.

Fischiò, ribadendo implicitamente quanto fosse di bell’aspetto il ragazzo rappresentato nella foto, facendo di conseguenza rodere di più il fegato ad Ace e Marco, i quali, avendo intuito il giochetto mentale dell’altro, meditavano già una dolorosa rivincita.

“E allora? Di chi si tratta?” fece infine con fare impaziente, condendo per bene la propria rivincita.

Non era solo per fare scena o, meglio, tenere sulle spine i suoi carissimi fratellini innamorati : anche lui, da quando lo scricciolo gli aveva parlato di quel ragazzo con la quale sembrava capirsi in modo particolare, si era ritrovato più volte a ragionare su di chi mai si sarebbe potuto trattare.

Gli occhi gialli e brillanti di Momo risplendettero per un istante più che mai, quasi rivangando su qualche prezioso momento passato che aveva avuto, certamente, la fortuna di recuperare dopo tanto tempo.

L’intera ciurma rimase a fiato sospeso, osservando l’espressione della ragazza farsi più serena e decisa.

“Mio fratello!”

 

Marshall D. Teach guardò con rinnovato interesse le immagini di quella potenziale nuova preda. Il foglio che ritraeva Viola la Sollevapesi tra le sue mani aveva assunto lo stesso valore di un biglietto da visita e dovette trattenersi di parecchio per non palesare il suo sviscerale interesse per quest’ultima, umettandosi le labbra con la lingua.

Non era stato difficile riconoscere nella pazza scatenata ritratta nella foto un’altra di quelle deliziose pulcine: solo una Paradisea sarebbe potuta essere capace di sollevare un credenza senza doversi portare dietro delle antiestetiche braccia da palestrato. E il fatto che prima viaggiasse insieme alla piccoletta poco distante era un’ulteriore conferma.

Una gran bella scoperta. Adesso aveva solo l’imbarazzo della scelta.

Il piccolo pasticcino giallo, facilmente a portata di mano, o la bella gatta selvatica?

Ah, che decisione difficile…

Ma il tempo non gli mancava: come gli avevano suggerito le sagge parole del suo taccuino colmo di informazioni succulente. Non si stancava mai di leggere quel volumetto di cui, per qualche strano scherzo del destino, si era dimenticato l’esistenza tempo addietro.

Più andava avanti tra quelle piccole preziose paginette più si rendeva conto quanto fosse stato avventato la prima volta, cercando di acchiappare a mani nude quella graziosa micetta.

Le Paradisee non erano facili da intrappolare. Non per niente le chiamavano sirene di scoglio: vivevano in un’isola essenzialmente impervia dal punto di vista morfologico e pericolosa a causa degli animali che la abitavano.

Non era poi così strano che questi fattori avessero contribuito a farle diventare delle esperte in tecniche di sopravvivenza.

Gli occhi rotondi e vitrei del pirata sdentato puntarono per un istante su Momo, luccicando al ricordo della velocità con la quale riusciva a saltare da un posto all’altro, aiutandosi qualvolta anche con quelle strane ali fiammeggianti sulle braccia.

Scostò prontamente lo sguardo prima che qualcuno potesse notarlo, addentando con voracità una delle sue consuete e zuccherose crostate alle ciliegie.

Che tipo di Essenza poteva avere la piccoletta?

Non sarebbe stato tanto importante se quello zuccherino fosse stato l’unico esemplare nel raggio di kilometri, ma, essendone apparso un altro, decisamente molto promettente, la cosa diventava fondamentale.

Si poggiò una mano sopra il punto del braccio dove la paradisea era riuscito a scottarlo, massaggiandosi con attenzione la pelle ancora leggermente raggrinzita.

Le capacità di una Paradisea variavano in base alla propria Essenza, questo non doveva scordarlo.

Le sue orecchie avvertirono la risata argentina della ragazzina.

Strinse il boccale di rhum tra le dita.

C’era un’altra cosa che lo turbava e che gli punzecchiava la mente, mettendogli fretta: Inari Fountain.

Quel postaccio era l’ultimo posto in cui avrebbe voluto vedere scomparire la propria preda.

Dannata isola colma di esseri assurdi! Una volta entrata lì dentro il suo delizioso uccel di bosco sarebbe stato impossibile da recuperare.

Osservò assorto il liquido rossastro ondeggiare quieto nel proprio bicchiere, stringendo gli occhi con decisione.

Doveva escogitare qualcosa e in fretta.

     

 

Atto 14, scena 16, Nuovo Mondo, Inari mountain

Un secco tintinnio della parte metallica di una Kiseru battuta su un portacenere vibrò nella grande stanza in penombra, rimbalzando sulle pareti in carta di riso decorata. Sottili veli di seta e lino pendevano dal soffitto ligneo, sfiorando appena il tatami accuratamente disposto sul pavimento.

Veli di fumo soffiati in aria si facevano strada tra i drappi pregiati con la stessa sinuosità di tanti serpenti, indicando la presenza di una figura nascosta e comodamente seduta oltre quel lussuoso separé semitrasparente.

Il rumore ruvido dello scorrere della porta principale fermò per u attimo il susseguirsi delle folate di fumo.

Amaterasu-sama.” Esalò con tono ossequioso una donna in kimono chinatasi non appena entrata al cospetto della padrona.

Il volto della nuova giunta era interamente ricoperto da delle bende, lasciando spazio libero solo agli occhi, castani e sottili come quelli di un serpente.

“Che succede Kurage?”

La domanda del tutto formale e pronunciata con un pizzico di noia, fu intercalata da un nuovo soffio di pipa in aria.

Gli occhi sottili della ragazza si chiusero in segno di rispetto spostando in avanti l’oggetto che aveva avuto ordine di presentare.

“Sir Newgate desidera parlarle.” Enunciò poggiando con delicatezza il lumacofono bluastro e serio.

La bocca rossa della figura esitò nell’atto di poggiarsi nuovamente sul bocchino della pipa, colta in un istante di stupore, per poi allargarsi in un sorriso deliziato.

“Lasciaci soli.” Ordinò solamente e così fu fatto, tutelando la propria privacy.

Attese sinché l’ombra di Kurage non scomparve dalle sottili pareti di carta.

“A cosa devo l’onore della chiamata Oyaji?” domandò con fare civettuolo, ondeggiando amabilmente la kiseru tra le dita smaltate di blu elettrico.

L’espressione del lumacofono, in apparenza imperturbata, rispose con la voce rimbombante del pirata più temuto dei quattro mari.

“Salve Ryogan.”  Disse “Spero di non averti disturbato.”

Oooh! Lascia perdere i convenevoli Oyaji!” esclamò ondeggiando una mano in aria con fare enfatico “Sai bene che tu non disturbi mai! Aspetto sempre una tua lumacofonata!” concluse cambiando posizione sul proprio cuscino imbottito in una posizione ancor più eccentrica e sensuale.

“Allora? Verrete a farmi visita tu e i miei adorabili fratellini?” punzecchiò portandosi nuovamente alle labbra la pipa, assottigliando al contempo i begli occhi dorati.

“Volevo appunto informarti del nostro imminente arrivo.”

La pupilla degli occhi si assottigliò compiaciuta, diventando stranamente simile a quella di un felino.

Ooooh! Ma che bella notizia!” esclamò unendo le mani in un singolo applauso.

“A quando l’atteso giorno? Devo organizzare tutto per festeggiare il vostro ritorno Oyaji!”

Il tono eccitato fece la sua scena, portando però il lumacofono ad un breve ed inatteso silenzio.

“In verità, sono sorti degli imprevisti Ryogan.. e temo non potremo giungere a destinazione prima di un altro mese e mezzo.”

Attraverso l’ombra della stanza, le labbra rosse, prima tirate in un sorriso giulivo, si erano incrinate in una curva delusa.

“Spero non ti dispiaccia.”

Kikihkihkihkih!

Una risata graffiante esplose graziosamente, zittendo per un istante la conversazione.

“Niente di grave Oyaji, sai che le vostre visite sono sempre gradite, ritardi compresi! Rendono tutto così eccitante!!” rassicurò la figura agitandosi con sicurezza dietro i preziosi tendaggi.

“Felice di sentirtelo dire.”

“E come sta…” lo interruppe nuovamente, poggiandosi comodamente da una parte, assumendo un tono languidamente interessato “… il mio pezzo preferito? È da tanto che non lo vedo.”

“Marco sta bene come sempre.” Rispose prontamente il Re del Nuovo Mondo

“Sempre imbronciato?”

“Sorride più spesso di recente.”

Quella frase fece aguzzare l’attenzione di Ryogan. Il suo pezzo migliore sorrideva più spesso? Più di quanto ricordava?

“E come mai?” azzardò non osando aspirare altro fumo.

“È innamorato.”

Il silenzio fu l’unica cosa che rispose all’affermazione del Bianco.

“La cosa ti disturba?”

“Affatto Oyaji!” esclamò forse con un po’ troppo slancio “Ma gradirei ricevere prima simili notizie!” aggiunse con una punta di indignazione, alzandosi di scatto dal comodo giaciglio e cominciando a farsi strada tra le sete appese.

“Capisco.”

“E chi è la fortunata?” chiese con una punta di amarezza  l’aggraziata figura del padrone dell’isola, ondeggiando con orgoglio i propri lunghi neri e lucenti capelli. Quando l’ultimo drappo fu scostato un kimono rosso come il sangue un po’ sconvolto, tenuto su da un solo obi blu scuro ornato di rami di ciliegio, apparve attorno alla figura snella ed aggraziata dell’interlocutore del Bianco.

Amaterasu Ryogan

Signore dei Demoni

Taglia: attualmente 560 milioni di bery

 

Una mano smaltata e ben curata accolse nel proprio palmo il piccolo lumacofono con delicatezza, nonostante le sopracciglia lievemente corrucciate denotassero un notevole scontento.

“Spero non si sia invaghito di qualche sciocca umana come tempo addietro.” Disse con tono velenoso.

Gurararah!” ridacchiò in risposta Oyaji.

“No, penso proprio che stavolta la ragazza sia all’altezza delle tue aspettative, Ryogan.”

Fu il turno dell’altro di rimanere sorpreso.

“In che senso?” chiese inarcando un sopracciglio.

“Lo scoprirai non appena arriveremo…” sorvolò tempestivamente sulla domanda “…, sappi comunque che vorrei affidarti la ragazza per un certo periodo, affinchè tu la istruissi a dovere.”

Gli occhi gialli e ferini di Amaterasu si allargarono sconvolti intuendo il succo della questione: se Oyaji stava portando qualcuno da lei per essere preparato, come aveva fatto tempo addietro con Marco, significava una sola cosa.

Due lumicini apparvero al posto delle sue pupille e la pipa venne abbandonata con noncuranza sul pavimento con un tonfo secco.

“UNA CREATURA RARA???!!”

 

Fine seconda parte Atto Quattordicesimo

 

E rieccolaaa!!!!! Ferme! Piano con l’entusiasmo questo non significa ancora che sono libera! Sono solo riuscita per amor vostro a scrivere lentamente questo nuovo capitolo! Risponderò alle vostre recensioni (lasciate in sospeso, sob.) il più presto possibile!

 

Bene bene. Le cose si fanno interessanti. Momo ricorda il suo nome e di Viola e Arch, ma cosa centrano con lei e la sua razza i frutti del diavolo? Ehehe.

 

Spero di non essere stata troppo prevedibile e che abbiate gradito l’entrata in scena del nuovo personaggio! Uhm… ci voglio fare su un disegno… *.*

 

Comunque le cose vanno abbastanza bene domani ho un esame e ho TUTTI in famiglia mezzi morti a causa per l’influenza (ovviamente io no, maledetti anticorpi super pompati…) aaaah che sofferenza essere l’unica superstite.

 

Dunque bando alle ciance e passiamo alle cose serie!

E il vincitore del sondaggio tripartito per il cuoricino della nostra Momo èeee…..? (rullo di tamburi, il pubblico deglutisce)

MARCO!

Noooo!” <- per chi non l’abbia capito questo è Ace

Mi dispiace Ace, dai andrà bene nelle altre fic.

(Il volto di  Pugno di fuoco sbianca inorridito)

“Non mi vorrai far andare in bianco per tutto il resto della storia!”

Chissà… (espressione da stronza.)

“Pietà!”

Scherzavo! Tranquillo, non avrei cuore di lasciarti da solo!

 

Bene , e adesso che abbiamo risolto la questione passiamo alle seguenti domande, ormai l’impostazione della storia è fatta ora arriva il bello!

1)      Mettetemi i bastoni fra le ruote! (ovvero, mettetemi tra le scatole un evento inatteso, che faccia casino e che ritardi, anche di poco, il riunirsi dei tre amici di Nido Leila!)

2)      Suggerimenti liberi. (ultimamente ce ne sono parecchi, ma non fanno mai male, in fondo questa è una sorta di Blog Novel)

E con questo mi rimetto a studiare! Alla prossima belle bimbe! XD

 

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Capitolo 19
*** Atto 15 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 15

Atto 15, scena 1

La bocca di Momo era mezza socchiusa per lo shock, mentre ad occhi spalancati osservava ancora intontita l’imponente figura del padre adottivo.

Un silenzio irreale regnava nella sala.

Nessuno, neppure Ace e Marco, che fino ad un momento prima avevano esultato sotto il tavolo dandosi il cinque per il fatto di non dover fare i conti con il bellone nel volantino da ricercato, osavano in quel momento proferire parola.

Davanti a loro Momo era come pietrificata, comprese infine le parole del padre.

Un giramento di testa la colse, facendola traballare pericolosamente in avanti, costringendola così a reggersi la nuca con una mano, divenuta così stranamente pesante dal portarla quasi al crollo.

D’istinto alcuni, tra cui Jaws, si alzarono, pronti ad acchiapparla prima che piombasse a terra, ma, fortunatamente, la piccola si resse bene sulle proprie gambe anche senza il loro aiuto.

Quello che più preoccupava tutti, tuttavia, andava ben oltre un normale giramento di testa.

Non avrebbero mai immaginato che sentirsi descrivere per la prima volta il mondo dove loro vivevano, quello della pirateria, l’avrebbe sconvolta fino a tal punto.

Era tutto cominciato da una semplice domanda, ovvero, quella riferita agli strani numeri che sottolineavano le immagini del fratello e dell’amica e, quando la spiegazione derivata aveva portato ad un’altra domanda, a un’altra e un’altra ancora, le spiegazioni si erano susseguite come tanti piccoli acquazzoni,  dando vita ad un vero proprio fiume in piena di parole.

Nella mente della Paradisea, confusa e quasi inorridita, si alternavano le parole del Bianco.

Marina… Pirati… Giustizia … fuorilegge … taglia … ricompensa … bery …soldi … esecuzione … omicidio legittimo….

Solo intuire il terribile legame che quelle parole avevano l’una con l’altra le faceva venire la nausea.

Come ho fatto a non pensarci…?- pensò rinfacciandosi di essere stata troppo serena, troppo superficiale riguardo la vita che conducevano i suoi nuovi fratelli.

Avrebbe dovuto informarsi. Chiedere spiegazioni. Qualsiasi cosa.

Abbassò lo sguardo coprendosi metà volto con una mano, piena di vergogna: in quel momento parte della sua precedente esistenza, parte della sua famiglia, Arch e Viola, stavano rischiando di essere uccisi per la loro fretta di venirla a cercare, forse temendola chissà dove.

E invece erano loro quelli che stavano rischiando la vita.

Perché la Marina non perdona chi va contro le regole, aveva detto Oyaji con voce grave, guardandola con enorme compassione, o stai alle regole, le loro, o sei rivoluzionario o pirata.

In ogni caso per loro non hai più diritto di vivere.

Perché quelle parole … regolediritto di vivere le stavano tanto dando sui nervi??

Non si accorse di star velocemente cambiando colore, diventando pallida di rabbia sulle fiamme.

Dalla loro postazione favorevole, i 5 comandanti poterono assistere ad un lento e pericoloso cambio d’umore da parte della piccola.

Pian piano la mano fiammante della ragazza era scivolata verso il basso, scoprendo un po’ parte del viso, rendendo quindi visibile l’espressione assorta e pericolosa che i suoi occhi avevano assunto insieme ad un colorito giallo pallido.

Satch si ritrovò a deglutire inconsciamente.

Se prima vederla sconvolta dalle parole del babbo lo aveva quasi spinto ad andargli incontro per consolarla, in quel momento vederla così fuori di sé per qualcosa di a lui sconosciuto, gli stava intimando di allontanarsi il più velocemente possibile dalla sorellina.

Cavoli. Aveva la pelle d’oca.

Per loro fu quindi un vero sollievo vedere quella rabbia dissiparsi dal suo viso, anche se l’espressione rimase seria e ferramente decisa delle proprie decisioni.

Oyaji” cominciò incrociando, sicura come non mai, quelli del capitano gigante.

Marco ed Ace la guardarono con ammirazione: se gliel’avessero detto mesi prima che quel frugoletto delicato e tremante naufragato da una nave di schiavi, spaventato da qualsivoglia rumore che oltrepassasse la soglia della normale conversazione, non ci avrebbero creduto.

Gli occhi azzurri di Marco si fissarono sul viso di Momo.

Era scattato qualcosa.

Lo sentiva.

Qualcosa nelle parole del babbo, nei suoi ricordi, forse entrambi, avevano dato avvio a qualcosa di inspiegabile.

Era come se qualcosa in lei si fosse rafforzato in sincronia con le nuove certezze acquisite, andando ad accumularsi nella sua coscienza, permettendole così di fiorire.

Era inspiegabile. E al tempo stesso affascinante.

Marco, così come Ace, non poteva fare a meno di guardarla con una sorta di orgoglio, capendo a grandi linee cosa quella testolina avrebbe partorito da lì a poco.

“… se o ben capito, tu sei una persona importante nell’Equilibrio … di cui mi hai parlato?”

Ancora una volta i comandanti, e anche qualche altro membro della ciurma, notarono il modo indignato con la quale Momo si era lasciata sfuggire la pronuncia della parola “equilibrio”.

Sembrava quasi fosse stata prossima a sputarla.

All’annuire del comandante con la barba a mezza luna, la ragazza continuò senza perdersi troppo in giri di parole.

Ti prego, adotta anche mio fratello e Viola.”

Il silenzio già presente nella sala, divenne quasi pesante.

Non ci fu la solita, fragorosa risata gioviale del babbo e, forse, fu proprio per questo che Momo, la loro sorellina, si fece scura in viso, abbassando il capo con tristezza e delusione.

Oyaji…  so che è improvvisa come richiesta …” alzò lievemente lo sguardo, stavolta supplichevole “…, ma Arch non riuscirà a fare più di un passo senza combinare casini, se con lui c’è Viola…” spiegò stavolta con una piccola ruga a solcarle la fronte più per preoccupazione che per altro.

Avrebbe detto qualcos’altro se la voce bassa e grave di Newgate non si fosse fatta risentire per prima.

“Sembri ricordarti abbastanza bene di loro.”

Gli occhi spalancati della Paradisea si posarono sul viso rugoso e improvvisamente sorridente del padre, constatando incredula a quell’inaspettato cambio di atmosfera.

Come faceva a rendere così piacevole una situazione complicata come quella?

“Parlamene.” Decretò con un sorrisone Edward Newgate, inclinandosele di fronte, impendendole così di spiccicare altro.

“Cosa ti ricordi?”

Un attimo di smarrimento precedette un sorriso sereno e da lì la sua voce melodica si perse nei racconti di piccoli momenti e dettagli confusi e prive di radici del tutto consolidate.

Attorno a lei, suo padre e i suoi fratelli ad ascoltarla rapiti e felici.

 

Sinfonia - Allegro ma non troppo

Allegra!

Si voltò verso la matassa di foglie scurite dalla notte dalla quale era provenuta la voce gentile ed un poco paurosa di Agiata. Le sue gambe stavano meglio, si sentiva più sicura di sé e meno traballante.

Non ricordava quello che stava facendo al momento, ma era davanti ad un albero, quindi dedusse che si stesse occupando di raccogliere altro cibo.

Come aveva intuito dalla siepe di foglie lisce e carnose del sottobosco era spuntata la paradisea dalla fiamma rosa, inciampando sui propri passi proprio di fronte a lei, cadendo di faccia in avanti.

Aww.” Si lamentò senza neanche trovare la forza di rialzarsi subito.

Agiata!” esclamò lei, avvicinandosi alla più piccola, aiutandola così a rialzarsi pian piano, pulendole fronte e capelli da alcuni grumi di terra umida.

Che succede? Come mai non sei con le altre?

Viola mi ha sgridato.” Le rispose l’altra imbronciandosi e cominciando a tremare per trattenere le lacrime, già ben visibili negli angoli degli occhi.

Congiunse le mani preoccupata, ritrovandosi a pensare ce non era la prima volta che succedeva.

Cos’è successo?

Non fece però in tempo a chiedere altro che la risposta le si fiondò addosso sotto forma di tanti singhiozzi ed un pianto indignato.

Dice che devo darmi una svegliata e di smetterla di venirti sempre dietro!” disse di getto Agiata, abbracciandola talmente forte da impedirle di muoversi di un solo centimetro.

Alzò gli occhi al cielo, capendo bene il cruccio della più bassa.

Che strano però, nel suo ultimo ricordo, adesso che ci pensava, era la più bassa del gruppo.

Dovevano essere cresciute.

Comunque Viola era famosissima per innervosirsi anche per le cose più insignificanti. Lei c’era abituata, riuscendo in qualche modo a cavarsela stroncando i suoi ragionamenti irosi e quasi sempre illogici con un paio di parole azzeccate, ma Agiata, la più debole di carattere tra loro, soffriva molto la presenza dell’argentata.

Gli occhietti palpitanti di luce rosa si alzarono su di lei quasi accusatori.

È vero che te ne vai?” mugugnò con fare lamentoso la paradisea rosa, affondandole il mento nel petto.

Sorrise mettendole le mani sulle spalle nel tentativo di confortarla. Anche Agiata aveva una particolarità che con lei non attaccava: quando si metteva a fare quell’espressione riusciva a far sentire in colpa chiunque, a parte lei.

Non che fosse cattiva, ma il suo essere così indifesa a volte la portava ad utilizzare il suo aspetto come scudo contro la malvagità altrui senza mai rendersene conto.

Devo andare Agiata…” le spiegò senza troppi preamboli, accogliendola in un abbraccio fatto di fiamme gialle, sfumate dalle altre rosa.

Sto per avere una sorellina, mamma ha bisogno di me.

Ah. Ecco perché Arch non era con lei!

Ma tornerai vero?

Certo!” sorrise,sollevata di sentire sempre meno il corpo della più bassa tremare per i singhiozzi.

Dovrò accompagnarla ed insegnarle a sopravvivere quando verrà qui!

 

 

….

 

“Un momento.” La interruppe Ace, alzando una mano in segno di scusa, vedendosi indirizzare qualche leggera occhiataccia da parte degli altri.

Momo lo guardò stranita, sperando di non essersi lasciata sfuggire che si era ricordata del proprio nome, premurosamente omesso all’inizio del racconto.

La faccia lentigginosa era un poco dubbiosa e tesa nel formulare una domanda fatidica non tanto per lui quanto per l’altra.

“Ma che ci facevate in mezzo alla foresta?”

Momo ci rimase di sasso, spalancando gli occhi stupita e colpita.

Già, che ci facevano lei e le altre sue simili – perché era ormai evidente dalle fiamme che erano uguali a lei – sole in una foresta così grande, lontane dai genitori?

Non se l’era chiesto. Forse perché aveva percepito il fatto come qualcosa di naturale, eppure non riusciva proprio a ricordarsi il motivo preciso.

Ci pensò un po’ su.

Aveva parlato di insegnare al suo futuro fratellino, da lei creduta femmina, ad imparare a vivere. Che fosse per quello?

Credo fosse una sorta di corso di sopravvivenza.” Rispose, rimettendosi composta sulla botte, posta al centro della sala affinché a tutti fosse data la possibilità di vederla e sentirla parlare.

Gli sguardi dei capitani scattarono interessati a quella frase.

Allora era vero che l’isola di Momo era molto pericolosa.

Marco non faticò ad immaginarsi in che cosa consistesse: le Paradisee erano notturne, la loro voce attirava i Re dei Mari anche fuori dalle fasce di bonaccia. Di certo la specie di Momo aveva preso l’abitudine di forgiare i giovani fin dalla più tenera età alla durezza del loro mondo.

Io sono brava a saltare.

Quella frase fece riprendere il discorso quasi di punto in bianco, portando Marco ed Ace a stupirsi guardandola ad occhi sgranati.

Momo però non sembrava così turbata e con fare assorto continuò quella che per lei era una spiegazione.

Sono veloce e- ….” Le parole le morirono in gola, mentre la sua pelle, resa più calda dalla luce gialla e soffusa delle proprie fiamme, sbiancò leggermente.

Un istante di troppo di silenzio e Marco si era già alzato dalla sedia,scavalcano il tavolo insieme ad Ace ed accostandosi alla ragazza, apparentemente per nulla interessata alla loro premura tanto si era bloccata in preda ad una sgradevole sensazione.

“Momo! Che hai?”

La domanda di Ace venne ben presto ripagata dalla voce sottile della ragazza, strozzata da un sentimento molto simile ad una profonda paura, o meglio, un antico turbamento.

“Mi sono ricordata che cosa sa fare meglio Viola…” pigolò, lasciando perplessi sia i due ragazzi, che si scambiarono reciprocamente un’occhiata stranita.

Tempo di compiere quel gesto, che la ragazza sembrò ricadere in quella specie ti trans impaurito e senza pensarci due volte, Ace, munito del proprio dito indice, stuzzicò la guancia della ragazza per testarne i riflessi, meritandosi però un’occhiataccia degna di nota da parte della Fenice.

Marco lo fissò intensamente, notando con quanta soddisfazione il moro stesse godendo di quel minuscolo contatto fisico.

Oh, eccome se si vedeva.

Il ghignetto soddisfatto di Pugno di Fuoco valeva più di mille parole.

La mano bruna del biondo scattò d’istinto verso la mano sottile e rosea dell’altra, ma, prima che le sue dita potessero anche solo palpare il calore soffuso di quella carne ricoperta di tenui fiamme , questa decise di risvegliarsi dal proprio stato di catalessi, guardandoli con una strana apprensione negli occhi gialli.

Marco… Ace…” sussurrò la paradisea piena di preoccupazione.

I due la fissarono rapiti, notando con ammirazione quanto anche in quello stato sconvolto, con il respiro leggermente accelerato e lo sguardo spaurito, riuscisse a mantenere una certa grazia.

“Voi siete bravi a scansare oggetti, vero?”

Quella domanda, tutta seria e decisamente assurda, oltre a far crollare le espressioni dei due poveri comandanti, fece esplodere in una risata isterica non solo Satch, di colpo piegato in due sul tavolo della mensa, ma anche il babbo, riverso all’indietro sulla grande poltrona con una mano a tenergli lo stomaco.

Da parte sua, la paradisea, trovava la situazione tutt’altro che divertente, dato quello che si era appena ricordata.

Un avvenimento risalente a dopo la nascita di Arch ed il suo primo contatto con le altre.

 

Sinfonia – Presto

 

Non capisco perché devo farlo…” bofonchiò accanto a lei Arch, camminando pian piano nel sottobosco della foresta.

Lei lo guardò dall’alto, c’erano più o meno tre anni di differenza e lui doveva avere si e no 6 anni. Era biondissimo ed estremamente adorabile, nonostante continuasse ad avere quell’aria imbronciata.

Non fare quella faccia Arch, vedrai, ti piacerà stare con loro per un anno.” Disse sperando così di vedere l’aria corrucciata del fratellino distendersi almeno un poco.

Sarà…” disse poco convinto il bambino assottigliando gli occhi e chinando ancor di più la testa in avanti, nascondendosi agli occhi della sorella “…, ma non mi convince.

Che inten-?

Le sue parole furono inghiottite da quelle urlate, o meglio, ringhiate da una voce fin troppo conosciuta.

ALLEGRA!

Dall’alto di un albero, rossa come sempre e più alta di come se la ricordava, sorretta su un corpo da ragazzina slanciata e atletica, atterrò a gambe flesse Viola che, senza perdersi in troppi convenevoli l’afferrò per le spalle, sollevandola per un paio di centimetri da terra.

C-ciao Viola.” Balbettò non sapendo come reagire.

Un corno!” sbraitò quella dando segno di non voler sentire ragioni.

Sei stata via 6 anni! Sei!! Quanto tempo ti ha portato via la tua sorellina? Eh?! Agiata non ha fatto che rompermi le scatole ogni anno!!

Viola!” La interruppe, intimandole con uno sguardo di rimprovero di metterla giù per poi accennare in direzione di Arch, ancora sbigottito e sulle difensive, mentre le osservava dal basso.

L’argentata dalle fiamme rosse si voltò verso il ragazzino, corrucciandosi un poco nel vederlo squadrarla minaccioso. Non le piaceva. Non sapeva perché, ma la sola vista di quel facciotto delicato e di quelle ciglia bionde gli diedero sui nervi fin dal primo istante, facendola scattare come un serpente stizzito.

È questa tua sorella?” disse di getto, facendo finire la faccia di Allegra schiaffata su una uno dei suoi palmi per la disperazione.

Grandioso. Si conoscevano da nemmeno tre secondi e già si odiavano.

Ma che diavolo indossa?!” aggiunse Viola notando la bambolina indossare della strana roba, ma solo per accorgersi che anche Allegra, accanto a lei, aveva il corpo parzialmente coperto, cosa innaturale per loro.

Ehi, ma cosa ti sei messa addosso?” chiese la ragazza mettendosi le mani sui fianchi.

L’altra la guardò un poco incerta su quello che stava per spiegarle.

Sospirò, senza trovare altra soluzione se non dire come stavano i fatti.

Viola ti presento Archetto.” Disse indicando con una mano il bambino, ancora fisso e minaccioso in direzione di Viola, tutta occupata a ricambiare con altrettanta intensità le sue occhiataccie.

É mio fratello.

Fu sicura di vedere per un attimo il viso di Viola sbiancare, ne fu certa. E quando la paradisea rossa si girò incredula verso di lei, poté vederla indossare l’espressione più sconvolta che avesse assunto mai.

F-fratello…?!” balbettò avvicinandosi un po’ a lei, mettendole le mani sulle spalle ancora nude.

È…è un… MASCHIO?!

Lei annuì non trovando nient’altro che potesse fare.

E se ne pentì immediatamente.

C-com’è successo????!!!” le urlò quasi nelle orecchie l’argentata.

Viola!” la riprese allontanandosi con uno strattone da lei, massaggiandosi ferita le orecchie ancora ridondanti.

Le piccole mani di Arch la consolarono, accostandosi a lei senza mai perdere d’occhio l’altra.

Come!!??” esplose ancora una volta non concedendo non più di pochi istanti di tregua a lei ed a suo fratello.

D’un tratto si sentì minacciata … già , la parola giusta era minacciata.

Allontanò da sé Archetto e si girò per affrontare Viola, cogliendola nell’atto di sollevare da terra un grosso masso, sradicandolo da terra.

Le sue fiamme reagirono di conseguenza e, cominciando a sfrigolare con più forza, la portarono a prepararsi ad un balzo laterale.

Arch! Salta!

Neanche a dirlo, notò che suo fratello era saltato non appena gli aveva ordinato di farlo.

Saltò, ritrovandosi ai piedi di uno dei grandi alberi attorno a loro.

Davanti a lei Viola bruciava come non mai, emanando un rumore talmente minaccioso e forte da sembrare un ronzio. Aveva scaraventato la pietra da una parte, mancando fortunatamente sia lei che Arch.

VIOLA!” la richiamò, assicuratasi che suo fratello fosse al sicuro, nascosto dietro alcune foglie poco distanti “Smettila! Stai oltrepassando il tuo Limite!” l’avvertì e fu felicissima di vederla in un istante bloccarsi e placare le proprie fiamme.

Tirò un sospiro di sollievo, ma quell’attimo di tranquillità non durò a lungo.

 

 

Marco non amava dire di avere ragione quando, effettivamente, chi non aveva preso sul serio un suo avvertimento veniva travolto dai fatti da lui stesso preannunciati.

Eppure, vedendo il volto di Ace sbiancare come uno dei tanti lenzuoli stesi di mattina presto sul ponte della Moby, dovette trattenersi dall’infierire, ribadendo di avere avuto ragione nel definire pericolosa la ragazza soprannominata La Sollevapesi.

Una paradisea in grado di sollevare e scaraventare oggetti pesantissimi … – pensò non meno turbato del fratello, poggiandosi una mano sotto il mento con fare pensieroso - … non sarà facile trattare con lei quando la incontreremo.

A quei pensieri gli venne spontaneo lanciare uno sguardo indagatore verso il babbo, tutto sorridente di fronte al racconto, dal suo punto di vista esilarante, della figliola.

Fu proprio per l’espressione divertita del capitano che la Fenice fu in grado di dire cosa gli frullava per la testa: sarebbero andati a cercare i tre compagni di avventure di Momo e gli avrebbero accolti in famiglia.

A Marco non dispiaceva affatto la cosa: dirigersi verso i tre neo ricercati voleva dire cambiare rotta e ciò comprendeva qualche settimana di ritardo prima nel nefasto arrivo ad Inari Fountain.

Stese le labbra in un sorriso divertito, intercettando lo sguardo complice del padre.

Doveva aver deciso di ritardare l’approdo all’isola di Amaterasu già prima di parlare con Momo. Sbuffò trattenendo una risata, capendo che la sceneggiata di prima non era stata altro che una tattica per tastare il carattere della ragazza.

Si girò verso quest’ultima, ancora tutta rigida e sconvolta dai propri ricordi che, la Fenice ci avrebbe scommesso, stavano ancora riaffiorando nella sua mente con velocità devastante.

Il biondo si chiese quanto ancora avrebbe resistito prima di svenire. Dopotutto, ricordare cose dimenticate pretendeva un grande dispendio di energia.

E se i ricordi rievocati non erano propriamente definibili come sereni… bhe, la cosa si faceva parecchio critica.

Infatti, come previsto, la cosa non durò ancora per molto e i suoi occhi azzurri, appena posati con più attenzione sull’espressione allibita della Paradisea,  videro quest’ultima emettere un suono simile ad un singhiozzo e poggiarsi entrambe le mani sui lati del viso.

Doveva aver appena ricordato qualcosa di sconvolgente.

 

Atto 15, scena 2, Marineford – Nave di Garp il Pugno

 

“Che cooosaaaaa???!!” era saltato in piedi Koby, guardando la signora Clarina accanto a lui, rosso in volto e totalmente shockato, seguito dai suoi compagni di reggimento.

Seduta sullo sgabello, posto provvisoriamente nell’alloggio comune dei marine, la paradisea, soffocate le proprie fiamme nonostante la notte fosse già scesa da un pezzo, guardò stranita il ragazzo, non capendo bene il motivo di tutto quello scandalizzarsi.

“Uff.” sbuffò un poco scocciata “Certo che siete strani voi uomini. Anche mio marito la prima volta che mi ha vista ha reagito così. Ma si può sapere perché vi scandalizzate tanto? Non è una cosa così innaturale in fondo!” concluse la donna, accavallando le gambe coperte dal tessuto bianco dei pantaloni della divisa prestatale.

“Invece sì!!!” sbottò imbarazzatissimo il giovane marine, sperando che la signora Clarina la smettesse con quella storia e gli dicesse semplicemente che l’aveva preso in giro.

Dai, non era possibile!

Aveva digerito il fatto che quella donna simpatica e materna fino all’incredibile non era umana, come aveva spiegato loro il Vice ammiraglio, anzi, aveva reagito meglio lui del povero Hermeppo, svenuto di colpo alla vista della donna prendere improvvisamente fuoco per provare la veridicità delle parole del loro superiore.

Ma quello… quello era troppo anche per lui!

“Cosa vuol dire che sulla sua isola non vi vestivate??” sbottò ormai prossimo a cadere vittima di un giramento di testa.

“Non ce n’era bisogno.” Disse semplicemente la bionda, sorseggiando noncurante un poco di the dalla propria tazza fumante “Noi Paradisee siamo tutte donne.”

M-ma.. m-ma!” obbiettò tutto balbettate Koby “Ha detto che ha un figlio maschio!”

Era la sua ultima carta. Non poteva avere una spiegazione anche per quello!

Clarina lo puntò con i propri occhi cobalto, zittendolo all’istante. Koby seppe di aver toccato un tasto dolente dal modo in cui l’altra lo squadrò: non era più la giuliva donna bionda e loggorica, ma qualcuno che si ritrovava a spiegare qualcosa di difficile ad un bambino che forse non dovrebbe sapere troppo.

Le mani belle ed affusolate di Clarina circondarono fermamente la tazza ancora piena per metà, aggrappandosi ad essa come se fosse stata l’unico punto fermo della nave, prima di parlare spedita e cupa.

“Noi paradisee partoriamo solo femmine di solito. E rimaniamo incinte solo quando è il Momento.” Asserì , distogliendo per un attimo lo sguardo.

“Mio marito ha detto che anche le donne umane hanno qualcosa di simile… solo che per noi Paradisee è meno frequente.”

Il giovane marine ascoltò con attenzione quelle parole, affascinato e improvvisamente non più imbarazzato. Non aveva nemmeno la forza di parlare mentre la voce controllata della bionda continuava il suo percorso.

“Ho avuto un figlio maschio perché ho sposato un uomo nel Momento.” Spiegò senza grandi giri di parole, arrossendo comunque sulle guance “Archetto sarebbe dovuto nascere femmina se non mi fossi innamorata di quell’uomo.”

Ancora leggermente spossato da quella spiegazione, Koby vide la donna farsi ancora più rossa e prendersi il viso tra le mani in preda all’imbarazzo.

Da lì in poi l’incanto si ruppe e la natura chiacchierona di Clarina tornò più prorompente che mai.

Ooooooh!! Che vergogna!! Mi sono lasciata trasportare e ti ho detto delle cose un po’ troppo personali! Devo averti messo in imbarazzo, poverino!! Ma sai, non avevo mai visto un uomo prima di mio marito! Quando l’ho conosciuto era tutto ferito e l’ho curato per un’intera settimana rimanendo sveglia notte e giorno! È stato difficile farlo riprendere! Non faceva che ripetere –Devo tornare dal capitano- o cose simili e non voleva stare mai fermo! Oh, ma ci sono riuscita sai! E già che c’ero mi sono anche fatta dire che razza di creatura fosse! Quando ho saputo che uomini e donne si coprono tra loro per non finire col fare continuamente figli ero così stupita! Voi umani avete un modo incredibile di fare i bambini! Poi quando ho visto che Archetto era maschio ho deciso di far vestire sia lui che Allegra! Sai, per sicurezza. Poi però si è aggiunta anche Viola e allora ho fatto dei vestiti anche per lei! E poi…

Solo un bel po’ di frasi più avanti la paradisea bianca si accorse che il povero Koby, non potendo sopportare più di quello che aveva sentito, si era magistralmente defilato dall’alloggio comune, lasciandola sola con i propri vaneggiamenti da donna innamorata.

“MALEDUCATO!” esclamò offesa, scoccando un’occhiata furiosa ai poveri camerati rimasti ad ascoltarla. Gonfiò le guance e stizzita si diresse verso la cabina del comandante, decisa a fargli un discorsetto sia sulla scarsa educazione dei suoi allievi, sia su qualcos’altro non meno importante.

Anzi, se proprio doveva dirlo, la seconda questione era quasi vitale per lei.

 

Atto 15, scena 3, Arioso mattino-sera

 

Sbadigliai.

Era tardi ormai. Gli orologi segnavano le quattro del mattino e persino per me, abituata a vivere più di notte che di giorno, era arrivato il momento di andare a dormire.

Uhm. A pensarci bene le mie ore di veglia erano pochissime se paragonate a quelle dei miei fratelli acquisiti.

Non mi dispiaceva più di tanto, ma non potevo continuare a far rimanere in piedi mezza ciurma solo perché mi facessero compagnia.

Mi accoccolai ancora un po’ di più tra i guanciali della mia poltrona preferita della biblioteca, cercando di rilassarmi almeno un po’. Raccontare e ricordare così tante cose in una sola sera mi aveva distrutta, ma il sonno invece che venire sembrava essersi defilato in un angolino lontano della mia mente, quasi sommerso da quella montagna di ricordi che mi aveva investito.

Le rivelazioni erano state parecchio shockanti, dopotutto.

Ero una creatura diversa dai pirati di Barbabianca.

Il mio vero nome era Allegra.

Vivevo di notte.

Sapevo saltare molto velocemente e lontano.

Avevo un fratello di nome Archetto, detto Arch.

Avevo un’amica a dir poco suscettibile di nome Viola, anche lei della mia stessa razza.

Venivo da un’isola da cui, per motivi che ancora non riuscivo a ricordare, io e gli altri eravamo scappati.

Durante il viaggio ero stata catturata da una nave di schiavi, ma avevo salvato un bambino, affidandolo ad Arch.

Mi rigirai, raggomitolai sull’altro fianco e riaprii di poco gli occhi stanchi, sentendo improvvisamente un nodo all’altezza dello stomaco.

Mi ero resa conto che, prima della nascita di Arch, io e le mie simili non indossavamo alcun tipo di indumento. 

Inghiottii un groppone di saliva, immaginando che facce avrebbero fatto Satch-san o, peggio, Ace se l’avessero scoperto. Rabbrividii, sentendomi le guance infiammarsi di vergogna.

Non volevo nemmeno pensarci.

Nascosi ancor di più la testa, imponendomi di dormire e di dimenticare temporaneamente le questioni rimaste in sospeso.

Ero stata attaccata da un membro della ciurma di cui mi ricordavo solo la risata e aveva scoperto che ero contesa da Marco ed Ace.

Sigh… - pensai disperata - …, voglio Satch… lui almeno saprebbe dirmi come fare…

Già, peccato che i miei due cari pretendenti fossero riusciti ad allontanarlo da me per un mese intero.

Scacciai dalla mia mente quei pensieri, imponendomi di dormire. Ero stremata, avevo raccontato al babbo ed agli altri alcuni aneddoti della mia infanzia senza quasi mai fermarmi se non per ricordare qualcosa di nuovo.

Fu un miracolo ad abbassarmi lentamente le palpebre, attirandomi dolcemente nel mondo dei sogni senza che me ne rendessi conto.

 

Atto 15, scena 4

Entrare nella biblioteca della Moby era una cosa che Marco faceva almeno due o tre volte al giorno dacché era stato nominato comandante della prima divisione.

Quello di revisionare l’archivio delle taglie di famiglia era un compito a dir poco gravoso, specie per i suoi occhi, ma il trucco  era aggiornare costantemente la pila di fogli ingialliti delle innumerevoli taglie della nave. Peccare di pigrizia in passato gli era costato una settimana intera chiuso nel proprio studio, sommerso fino al collo delle taglie dei propri fratelli.

Era da quell’episodio che il suo sguardo era diventato più truce che mai, conferendogli un aspetto più maturo ed inflessibile del dovuto. I casi in cui la sua espressione accigliata aveva portato molti novellini a temerlo erano stati molti, anzi, troppi, essendo lui di carattere sì più responsabile e controllato, ma non meno sfrontato dei suoi fratellini sul campo di battaglia.

Sospirò un po’ abbattuto dal ricordo di quel malaugurato episodio della propria giovinezza, scendendo intanto la scala a pioli assicurata ad uno dei primissimi scaffali della libreria, sorreggendo con una mano un grosso classificatore che altro non era che uno dei tanti contenitori delle loro taglie.

Arrivato a terra, si incamminò verso i tavoli della biblioteca, ringraziando il cielo di dover semplicemente sostituire un paio di taglie con alcune aggiornate.

A volte avere una famiglia affollata era una vera e propria fregatura.

Poggiò il pesante volume sul ripiano rugoso del tavolo in legno massiccio, illuminato dalla traballante luce di una lanterna ad olio, e, augurandosi buon lavoro, inforcò gli occhiali da lettura.

Anche quella era una cosa derivata dalla sua disavventura con l’archivio di famiglia: c’era voluto poco prima di accorgersi che, onde evitare di spaventare ancor di più i nuovi compagni di ciurma, l’unica via fosse l’utilizzo di un paio di occhiali da riposo.

La cosa, a dirla tutta, gli era stata suggerita da Vista che, in quanto gentiluomo sia di modi che di fatto, benché più interessato alla cavalleria che alla burocrazia, gli aveva ceduto un suo vecchio paio, rimasto inutilizzato per anni, di lente ovale e provvisto di catenella argentata, funzionale in caso gli fossero scivolati dal naso.

Si perse nei propri ricordi, mentre con dovizia ricercava sul registro i nomi dei dispacci da sostituire: Satch nei primi tempi non aveva fatto altro che prenderlo in giro, ripetendogli di continuo quanto quell’oggetto gli conferisse un’aria da intellettuale.

La cosa non gli aveva mai dato particolarmente fastidio, ma doveva ammetterlo, essere catalogato alla stregua di un topo di biblioteca solo perché indossava un paio di occhiali non gli andava molto a genio.

Uhmm…

Un leggero borbottio spostò la sua attenzione lontano dalle righe inchiostrate del classificatore, indirizzandogliela verso l’alto, o meglio, oltre la linea dei 4 tavoli che lo separavano dalla zona dedicata alle poltrone e i divani da lettura.

Sorrise, riconoscendo nella figura raggomitolata sui cuscini rossi del sofà Momo, apparentemente preda di un sogno piuttosto agitato, a giudicare da come si muoveva.

Si alzò d’istinto, abbandonando il tavolo occupato senza tanti pensieri, ritrovandosi dopo pochi passi davanti alla ragazza, profondamente addormentata ed ignara dello sguardo della Fenice su di sé.

Lasciò che i suoi occhi vagassero sull’espressione lievemente contratta della Paradisea, osservandone ogni piccolo movimento. Dovette mettersi le mani in tasca per trattenersi dallo svegliarla: vederla così turbata non gli dava alcun conforto, anzi.

Si accovacciò accanto a lei, flettendo le ginocchia in modo tale che i loro visi fossero alle stessa altezza.

Archetto…

Quel sussurro mugugnato appena nel sonno lo colpì, facendogli indietreggiare di poco la testa. Se non ricordava male Archetto era il nome proprio del fratello minore…

Allora perché nel sentirlo pronunciare dalle labbra di lei aveva avuto una piccola e fastidiosa stretta allo stomaco?

Archetto…ripetè Momo, trasformando la propria voce in una specie di singhiozzo.

Intanto Marco la guardava ad occhi spalancati, mentre lei pian piano si scioglieva in un piccolo pianto liberatorio. Guardò due lacrime solitarie scivolarle sul viso e, cadendo sulla morbida trama del divano, scomparire in piccole macchie d’acqua.

Distolse lo sguardo da quello spettacolo straziante. Non riusciva a guardarla in quello stato senza desiderare di fare qualcosa e ormai, dopo quanto successo sul pennone della nave, la volontà di fermare quell’urgenza si era dissipata come una nuvola al vento.

La sua mano si alzò quasi da sola, ricercando tremante la pelle rosea dell’altra, tastando alla cieca l’aria secca della stanza.

Qualcosa lo tirò per la manica della camicia e, in meno di un istante, si ritrovò a pochi millimetri dal viso ancora addormentato di Momo, con un braccio intrappolato dalla mano affusolata di questa e l’altro occupato ad impuntarsi sull’imbottitura del sofà, affinché quella distanza critica non si annullasse del tutto.

Dannazione... – si disse deglutendo, sorpreso da quella situazione improvvisa.

Doveva allontanarsi da lei o avrebbe finito col fare qualcosa di terribilmente sleale.

Mi dispiace…

Quel nuovo sussurro lo aiutò a pensare ad altro, distogliendolo da un paio di labbra rosate a poca distanza dalle sue. Focalizzò tutta la propria attenzione sull’espressione di Momo e noto che, se prima era stata angosciata e semplicemente dispiaciuta, a poco a poco si era deformata in qualcosa di molto più simile al terrore.

NO…

La vide esclamare quella semplice parola con voce strozzata, portando la mano libera al collo e chiudendola febbrilmente sull’aria attorno ad esso.

Era come se stesse lottando contro qualcosa intento a strangolarla.

Si dimenticò in fretta della situazione in cui si trovavano e, rimettendosi dritto sulla schiena, le poggiò una mano sulla guancia, prendendole delicatamente la mano con la propria.

“Momo..” sussurrò, sperando che la sua voce in qualche modo riuscisse ad allontanare la sua mente da quell’incubo.

Dovette ripetere l’azione un paio di volte prima che i lineamenti della paradisea si distendessero calmi, decretando la fine di quel momento difficile.

Sospirò sollevato, togliendosi con la mano, prima occupata a sorreggere il viso dell’altra, gli occhiali, lasciandoli così liberi di oscillargli al collo, per poi massaggiarsi gli occhi.

Preoccuparsi per qualcuno ti metteva addosso un’ansia indicibile.

Tornò a guardarla, osservando finalmente come il suo respiro fosse tornato calmo e regolare.

Si ritrovò a pensare quanto fosse strano ritrovarsi innamorato dopo così tanto tempo. Era incredibile che lui, proprio lui che si era ripromesso di non rischiare più di vedersi respinto da una donna solo per il fatto di essere quello che era, un pirata, si fosse attaccato così tanto ad una ragazza, una creatura ignota al mondo e a sua volta ignara del mondo, svelta e fugace come una scintilla, paurosa, premurosa anche se un po’ infantile.

Ogni cosa nel suo modo di fare, la sua timidezza,il modo in cui si arrabbiava, il suo gonfiare indispettita le guance, le sue fiamme che, lambendola come piume, rispecchiavano i suoi stati d’animo, tutto… lo portava a volerla sentire più vicina.

Così tanto che a volte si vergognava di se stesso.

Jaws aveva colpito nel segno dicendo sia a lui che ad Ace che Momo, prima di poter decidere, doveva ricordare.

Che senso avrebbe avuto altrimenti?

La osservò intensamente ancora per qualche minuto prima di portarsi la mano di lei alla bocca e come, molte ore addietro, posarvi un bacio che provocò un involontario tremito nel braccio di lei.

“Non ti lascerò scappare via…

 

 

Atto 15, scena 5

 

“Allora Viola, ti decidi a parlare o devi fare l’offesa per tutto il giorno?” disse con fare stanco Arch, camminando con le mani in tasca accanto a Morgan, mentre dietro di loro Viola, con una faccia talmente incazzata da sembrare un cane rabbioso, li seguiva, mandando occhiate fulminanti alle loro spalle.

Morgan sentiva le occhiatacce dell’argentata sulla pelle e non gli piaceva. Si sentiva più rigido del solito e le labbra gli tremavano al solo pensiero di come la signorina si era rivoltata contro di loro in meno di un secondo.

Se non fosse stato per il signor Arch che, vedendolo in pericolo, l’aveva protetto con il proprio corpo, a quest’ora si sarebbe ritrovato con qualcosa di rotto, esattamente come il biondo al proprio fianco che faticava a camminare in modo normale, zoppicando ogni qualvolta la sua gamba destra veniva spostata in avanti, premendo contro il terreno.

Dopo che Viola, infatti, gli aveva, incredibile ma vero, intimato di sputare il frutto che aveva dato il via alle proprie disgrazie, Arch aveva ingaggiato un vero e proprio scontro con la ragazza, scambiando insieme a lei battute pronunciate in una strana lingua.

Non aveva capito una sola parola di quello che si erano detti, ma, dopo un paio di colpi, parate ed un calcio ben piazzato, Viola aveva ringhiato a testa bassa ed aveva voltato loro le spalle, senza più spiccicare parola.

Ormai erano tre ore che continuavano in quel modo, girando la città nel più assoluto silenzio sotto le occhiate spaventate di chi aveva avuto modo di vederli in azione.

Una cosa doveva ammettere Morgan sui suoi salvatori e compagni di viaggio: quando mettevano mano alle armi, anche se improprie, facevano venire la pelle d’oca.

Il signor Arch in particolare, benché all’apparenza sembrasse il più calmo, appena impugnava i suoi coltelli, sembrava trasformarsi in una creatura tanto letale quanto aggraziata, dotata di movimenti semplici e puliti in grado di lacerare punti precisi del corpo umano con assoluta freddezza.

Una volta sua madre gli aveva mostrato un libro di animali e tra questi il bambino ne ricordava uno in particolare che avrebbe descritto a pennello il ragazzo biondo.

Un falco. Acuto, silenzioso ed impassibile.

Di tutt’altra pasta era invece la signorina Viola: imprevedibile, rozza nei movimenti, ma non meno straordinaria quando il suo corpo di torceva e si tendeva nello sforzo di sollevare e scagliare lontano qualsiasi cosa avesse sotto tiro. A pensarci bene Viola era ancor più temibile di Arch, perché non sapevi mai cosa aspettarti da lei.

Una sola parola sbagliata, e sarebbe stato come vedere una tigre ammaestrata scagliarsi contro il proprio domatore.

“Come fai a stare così calmo..?”

La domanda venne finalmente esalata, con non poca fatica a giudicare dal tono, dalle labbra della paradisea rossa, portando sia lui che Arch a fermarsi e voltarsi verso la ragazza.

Viola era rigida sulle spalle, i suoi pugni, lungo i fianchi, erano stretti e i suoi occhi erano ostinatamente rivolti verso il basso, quasi si vergognasse di mostrarsi mentre si abbassava a chiedere qualcosa al biondo.

“Come fai a non perdere la calma, sapendo che..”

Per un momento Morgan fu certo che il discorso si era spostato su di lui, ma la voce del ragazzo sovrastò quella dell’altra, impedendole di proseguire.

“Io non sono calmo Viola.” Asserì con convinzione il biondo, lasciando interdetto sia il bambino che la ragazza.

Che voleva dire? Non era calmo? Ma che andava dicendo? Da quando Viola gli aveva attaccati, o meglio, aveva attaccato lui, non si era lasciato sfuggire alcun tipo di espressione che sfociasse nel preoccupato!

“Questa cosa dei frutti…” continuò il ragazzo puntando per un istante i proprio occhi cobalto su Morgan “… non mi piace. Non riesco a capirla.”

Ci fu un breve momento di pausa, in cui Viola ne approfittò per rialzare la testa ed osservare il volto del biondo.

“Addirittura, mi spaventa.”

Quelle parole furono sufficienti per far andare nel panico Morgan.

Era così che finiva il suo viaggio con loro? Anche loro, come sua madre, non capendo, lo avrebbero abbandonato alla prima occasione? Lui… era un mostro, quindi?

Gli occhi scuri del bambino pizzicarono leggermente e fu il suo turno di tenere la testa bassa, evitando così di dare sfoggio agli altri due delle proprie lacrime.

Almeno così sperava.

“Ehi, marmocchio.”

La voce dura di Viola lo richiamò, spaventandolo come non mai.

Si irrigidì istintivamente, sperando di non dover fare nuovamente i conti con la furia dell’argentata.

“Tu sai cos’hai mangiato?”

La domanda fu assolutamente inaspettata, tanto che Morgan si dimenticò di tenere il viso rivolto verso terra. Non appena capito il proprio errore si affrettò ad asciugarsi gli occhi con un braccio, ma non appena tornò a cercare lo sguardo duro della ragazza, se la ritrovò insolitamente vicina.

Talmente tanto da poterne decifrare l’espressione.

Non era arrabbiata come al solito, né stizzita o accigliata.

Era semplicemente triste.

“Era un frutto marcio.” Disse Viola, picchiettandogli la fronte con l’indice “Un frutto che quelle come me e Allegra usano per crescere e sfamarsi.”

Dire che Morgan era confuso sarebbe stato un eufemismo: sfamarsi, con quella robaccia? E cosa voleva dire che era marcio? Prima di mangiarlo si era assicurato che non puzzasse, anzi, a dispetto del sapore, l’odore emanato dalla buccia era inebriante!

“Noi li chiamavamo Note, prima di fuggire dalla nostra isola.” Contuinuò intanto Viola, osservando il viso del bambino scrutarla.

“Non credevamo che una volta marciti provocassero un simile effetto a creature diverse da noi.” Intervenì Arch, accostandosi anche lui a Morgan, rimanendo in piedi.

“Ad Allegra e Viola, mangiare un frutto in quelle condizioni, sarebbe costata la vita.”

Per un istante Morgan parve non capirci più niente.

Cosa volevano dire? Cosa stavano cercando di dirgli? Che erano dispiaciuti? Che era stato fortunato? Che cosa? Perché lui?

Un forte brusio più lontano da loro, in direzione della piazza centrale, riempì loro le orecchie, distraendoli dal loro discorso.

“Correte! Dei pirati hanno attaccato briga in piazza!!”

Fu tutto quello che riuscirono a mettere insieme nel bel mezzo del casino creatosi.

Andiam-” fece per dire Arch, ma, neanche il tempo di girarsi che già Viola era sparita, lasciando al proprio posto una misera sagoma tratteggiata.

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, non osando guardare in direzione di dove erano sparite le persone in fermento.

Sentiva puzza di guai.

I suoi riflessi si rizzarono di colpo. Afferrò Morgan e lo spostò giusto in tempo prima di veder passare, sulla traiettoria da lui stesso intuita, una persona volare ed atterrare malamente a terra.

“VIOLA!” urlò in tono di rimprovero il biondo, poggiando a terra il povero Morgan, decisamente troppo scosso per parlare ed unirsi al coro insieme ad Arch.

“Non usare quel tono con me, bastardo di ultima categoria! Questa volta io non centro!!” rispose di tutto tono la voce inconfondibile della ragazza, offesa per essere stata incolpata ingiustamente, pochi metri più avanti a loro.

Il biondo notò che si era accostata al ciglio della strada, di certo per evitare, come loro, di essere colpita da quel corpo volante.

Un urlo squarciò l’aria di quella che, al loro arrivo Arch aveva definito una tranquilla cittadina, attirando l’attenzione dell’argentata verso la piazza.

“Ma che cavolo-..?”

Intanto Arch, sorpreso di essersi sbagliato, si era girato verso l’uomo fino a pochi istanti fa, volato davanti ai loro occhi.

Era un uomo sulla trentina dai muscoli delle braccia tirati e gonfi, barbuto e con un berretto verde scuro a coprirgli forse una testa prossima alla calvizie, a giudicare dal caldo che non giustificava l’utilizzo di un simile indumento. Le sue mani erano sporche ed annerite, oltre che visibilmente callose, indice che il suo era un lavoro manuale. A parte il vestiario, malandato ed ordinario almeno quanto il padrone stesso, non c’era nient’altro di notabile.

A parte l’incudine che giaceva proprio accanto a lui, schiacciandogli in parte lo stomaco, dalla quale pareva essere scivolata via dopo l’atterraggio.

Le sopracciglia bionde di arch si corrugarono.

Un’incudine?

Non negava che Viola sarebbe anche stata in grado di sollevare una cosa del genere, tuttavia non c’erano negozi o botteghe che spiegassero dove la sirena di scoglio rossa avesse potuto recuperare un simile oggetto.

Chi mai…? – pensò prima che una risata gli penetrasse con il proprio suono fastidioso le orecchie.  

 

 

Atto 15, scena 6

 

Nell’alloggio, ormai privo di porta, le tende ondeggiarono pigre sotto il respiro dell’aria che soffiava dalla finestra, ormai sbloccata dalla serratura, applicatavi per evitare fughe da chi prima aveva occupato la stanza.

Akainu non faceva che guardare fuori dalla finestra da ore, seduto comodamente sulla poltrona porpora della camera. Era stranamente calmo per essere una persona alla quale era sfuggito un prigioniero.

Eppure lui non emetteva alcun tipo di suono, né di smorfia.

Stava semplicemente lì, impassibile ed apparentemente privo di sentimento.

Sakazuki sapeva di avere rischiato, permettendo al vice Ammiraglio Garp passarla liscia dopo aver liberato Clarina, ma, pensandoci più a mente fredda, si rendeva conto di aver esagerato mettendo su una scenata del genere, andando a cercare la donna proprio sulla nave del suo subordinato.

Non c’era bisogno di scaldarsi per una simile piccolezza, specie se si trattava di Clarina.

Era nella sua natura pretendere un minimo di spazio una volta ogni tanto.

Dopotutto, la sua stessa Essenza rappresentava il suo Essere.

Un dito picchiettò la superficie rugosa ed azzurrognola del suo asso nella manica.

C’era un motivo per il quale non stava battendo Marineford da cima a fondo nel tentativo di trovarla e, attualmente, questo risiedeva tra le sue mani, sotto forma di frutto.

Una Nota davvero molto piccola per i comuni standard dei Frutti del Diavolo.

Assomigliava ad un arancio per forma e consistenza della buccia, eppure, come aveva constatato lui stesso, emanava un odore rivoltante. Stranamente la superficie del frutto era regolare e priva di segni a spirale, denotando il buono stato della polpa.

Clarina era stata molto brava a nasconderlo nella stanza, infilandolo in uno dei doppifondi della specchiera, ma non aveva fatto i conti col fatto che, se fuggita lui l’avrebbe usato per attirarla nuovamente a sé, come una falena verso la fiamma.

Ricordava benissimo la prima volta che aveva incontrato Clarina. Oh, sì. Era stato il giorno in cui la sua missione aveva avuto inizio…

 

Sonata – Appassionata

 

Urla e voci disperate ricoprivano il cielo di Nido Leila. Tra le sue mani, una di quelle creature femminee si divincolava, pregando per la propria vita con le lacrime agli occhi.

E lui impassibile continuava quello che, bene o male, dolore o meno, avrebbe portato avanti fino alla fine.

Perché era quello il suo compito.

Non importava quante vite si sarebbero spente per preservare l’ordine del governo Mondiale. Tutte loro dovevano sparire, dalla prima all’ultima.

“Stai calma. Tra poco sarà tutto finito.”

Le sue mani si tramutarono lentamente in lava, corrodendo poco a poco la pelle nuda di quell’ennesimo ostacolo.

Nooooooo!!!

La lasci stare!!!

Un forte colpo all’altezza del fianco lo fece rotolare a terra, costringendolo a mollare la presa. Strinse la mascella sentendosi perforare la parte colpita da un dolore indicibile. Si portò una mano al fianco, costringendosi a non lasciarsi sfuggire nemmeno un rantolo.

Non un gemito. Neanche uno. Non doveva mostrarsi debole davanti al nemico.

Clarina!

Drama! Prendi le altre e vai alla spiaggia! Fuggite via!

Non c’è più nessuno! Non c’è più nessuno!

Quel breve scambio di battute lo portò ad alzare lentamente il viso, riuscendo a superare la linea della visiera del proprio berretto.

Nel suo campo visivo apparve una figura completamente bianca, angelica, surreale quasi, volta verso la propria simile di colore rossiccio, accovacciata a terra col le spalle mezze carbonizzate, in preda forse ad un vero e proprio delirio.

Si rialzò a fatica, facendo allargare di terrore gli occhi alla paradisea delirante.

È un mostro!

Fu l’unica cosa che le consentì di dire, prima di scagliarle contro un Dai Funka, senza tanti convenevoli.

L’urlo straziato che emise quella creatura prima di perire sotto il pugno di lava che la investì, lo lasciò del tutto indifferente.

Non era il primo, né sarebbe stato l’ultimo.

Poi si girò verso la creatura bianca.

E per un istante la sua mente scollegò qualsiasi pensiero con il resto del corpo.

Voltato verso di lui, con gli occhi così puri da sembrare fatti di neve, stava la più bella che avesse mai visto. Non era nuda come le altre. Il suo corpo era stato accuratamente fasciato da tessuti fabbricati alla bene e meglio con pezzi di fogliame e legni.

Il suo viso, regale e perfetto, benché distorto dalla paura, era assolutamente la cosa più giusta che i suoi occhi avessero mai incontrato.

Più della giustizia di cui sapeva a memoria le leggi.

Non una parola intercalò il loro incontro. Le gambe snelle e leggere della donna erano partite svelte, allontanandola da lui con la stessa grazia di una farfalla. Una sola cosa la vide fare, mentre fuggiva da lui, che era partito all’inseguimento più per premura personale che per dovere: si era fermata un attimo a raccogliere uno strano frutto azzurrognolo dalle mani morte di una delle sue compagne ormai spente.

E dal modo in cui la vide tenerselo stretto al petto, doveva essere qualcosa di davvero importante. 

 

  

Ancora non riusciva a capire come un semplice frutto potesse concedergli una così facile vittoria.

Più se lo rigirava tra le dita, più la cosa gli appariva surreale.

Eppure ne era certo: Clarina teneva a quell’oggetto e avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di non lasciarlo tra le sue mani.

Accavallò le gambe vestite di color bordeaux, mettendosi più comodo.

Tutto quello che doveva fare era aspettare.

 

 

Atto 15 scena 7

 

Il viso di Monkey D.Garp non era mai stato così rosso prima d’allora. Solo due persone in passato erano riuscite a rendere la sua faccia di un colore simile: il primo era Monkey D. Rufy e il secondo Potuguese D. Ace.

Quasi una dote di famiglia, quindi.

Era bizzarro vedere qualcuno di estraneo alla linea di sangue dei Monkey, riuscire in una simile impresa.

Clarina Sassonia gonfiò le guance indispettita.

“Non posso andarmene senza!” protestò la bionda, puntando il marine con severità.

“E INVECE LO FARÀ!” sbottò il vice Ammiraglio alzando di più la voce. “NON LA PORTERÒ DI NUOVO IN PASTO AI LUPI! SE LO SCORDI! LEI PARTE DOMATTINA!”

“Io non posso lasciare indietro quel frutto!” gli ripeté ostinata, senza mai mostrare segni di cedimento.

Dietro la porta della cabina principale, l’intero reggimento della nave origliava rapito quell’accesa discussione, scommettendo sul vincitore,facendo tuttavia a meno della presenza di Koby ed Hermeppo, tutti e due fuori uso, chiusi da qualche parte sulla nave a schiarire le idee.

Se però entrambi fossero stati in grado di assistere, non avrebbero avuto dubbi.

Avrebbero puntato tutto su Clarina.

 

Fine Atto Quindicesimo

 

Storie di Storyboard: Kaizoku no Allegretto

 

File #000-001: Archetto (Arch) Sassonia

Archetto, detto Arch, è un personaggio nato da una serie di esperimenti di storyboard, rimescolati e mescolati su se stessi. Nasce inizialmente con il nome di Agitato, capelli neri e occhi blu, di indole arrogante e gelosa. Questa versione, per nulla compatibile con le linee massime della storia, viene ben presto messa da parte, dando il via a seghe mentali che mi vedono quasi spontaneamente partorire Archetto nella sua forma più completa.

Il suo aspetto fisico non ha subito cambiamenti da quel momento in poi, decretando così la sua facile  e veloce creazione.

 

Archetto è silenzioso, calcolatore, talmente freddo da risultare apatico a chi lo incontra per la prima volta. Il suo essere un mezzosangue l’ha portato a contare unicamente sulle proprie capacità.

A parte i riflessi molto ben sviluppati e una velocità di reazione pressoché fuori dalla norma, è molto debole fisicamente, tanto da essere facilmente messo sotto da Viola, nemica d’infanzia.

Il suo essere svantaggiato su Nido Leila lo portò ad ingegnarsi, specializzandosi da solo nell’uso dei coltelli da lui stesso fabbricati.

Molto affezionato a sua sorella maggiore ed alla madre, uniche femmine verso le quali nutre affetto, Arch detesta in modo sviscerale suo padre, mai conosciuto e lo ritiene responsabile della distruzione dell’isola.  

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Hola!

(Era oraaaa!!! Nd Lettrici)

Lo so. Sono in ritardo.

(Ma va’?)

Mi credevate distrutta? Ehehe. Eh no mie care io sono dura a morire, ho degli anticorpi di ferro.

Volevo solo darvi una buonissima notizia che sinceramente mi sta dando una gioia immensa: Mio padre non morirà di Cancro.

Sì, non sto scherzando. Circa un mese fa a mio padre è stato diagnosticato un cancro ai polmoni e, per grazia del mitico Gladeus maximus (dicesi fattore C***) della nostra famiglia è stato operato e decretato curabile.

Dire che ero in crisi era poco.

Ok lasciamo alle spalle il passato! È il futuro che conta no?

Via ai Suggerimenti Liberi!!!

I vostri consigli sono stati utilissimi ed ormai la storia sembra andare avanti da sola!

Ci vediamo al prossimo atto!

KISSKISS!!!

 

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Capitolo 20
*** Atto 16 ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 16

Atto 16, scena 1

Arch sapeva bene che seguire Viola non era buona idea.

Non lo era mai stato e mai lo sarebbe stato.

Andava contro ogni logica universale dirigersi a braccia aperte verso una palese fonte di guai.

Eppure lo aveva fatto, correndo dietro l’argentata con Morgan al proprio fianco, imprecando contro se stesso a denti stretti.

Come facesse a ricascarci ogni volta era un mistero che non aveva mai avuto la forza, né la voglia, di risolvere.

Era sempre stato così, fin da quando era bambino: più Viola stava appiccicata a lui e ad Allegra più lui si trovava invischiato nelle situazioni più assurde e pericolose, pentendosi ogni volta, ma ricascandoci comunque le volte dopo.

La sirena di scoglio rossa era sempre stata attratta dai guai, ormai lo aveva capito da anni, come una calamita attratta dalla propria gemella.

Dopotutto Arch, nella propria freddezza mentale, sentiva di intuire che razza di malsano e grossolano ragionamento avesse partorito quella testa calda della compagna: avevano scoperto che gli umani mangiando le Note marcite, venivano dotati di poteri innaturali, e subito dopo un uomo veniva scagliato da metri di distanza con un oggetto impossibile da scaraventare per qualunque normale essere umano. Che lei sapesse, era l’unica che riuscisse a sollevare senza problemi una simile massa e questo, a quanto pare, non aveva fatto che attrarla ancor di più nella piazza.

Violenza chiama Violenza.. pensò Arch con una vena di sarcasmo.

Fermarsi di colpo alla fine della strada che sboccava sullo slargo centrale della città fu un sollievo per le gambette corte di Morgan, di certo non molto abituato ad una così intensa attività fisica.

Arch lo guardò crollare per terra, ansimando a fiato corto.

Si sarebbe abituato… era solo questione di tempo prima che prendesse dimestichezza con la velocità di Viola.

Rialzò gli occhi blu su Viola giusto in tempo per vederla assottigliare gli occhi, puntando qualcosa in lontananza e più precisamente, davanti a loro, perfettamente al centro della piazza.

Era un gruppo di uomini, paesani, da quello che riuscì ad intuire il biondo, identificando il modo in cui erano vestiti, e stavano fronteggiando un’altra schiera di persone, stranamente più fitta e più variopinta, capeggiata da un uomo dall’aspetto eccentrico.

Arch, analizzò in meno di pochi secondi l’aspetto dei compagni del principale attaccabrighe. Erano tutti diversi, ma stravaganti quanto il loro capo.

Borchie, lacci, e colori psichedelici sembravano essere il loro grido di battaglia.

Il leader di quella brigata di, poté intuire dalle pistole e dai coltelli alla cinta di questi, tagliagole si poteva distinguere da tutti per i capelli, rossi fiammanti almeno quanto il fuoco rovente di Viola, e il sorriso, largo e sfrontato come quello di una iena che in branco accerchia la preda.

Anche se lontano, Arch poté vedere negli occhi dell’individuo risplendere una luce sinistra, tipica di chi, colto dalla voglia insaziabile di menare le mani, freme di felicità al pensiero di spaccare qualche ossa.

Il biondo avvertì la gola seccarsi di colpo: era ovvio che gli unici a rimetterci sarebbero stati i  paesani.

Quei delinquenti dall’aspetto variopinto erano meglio armati e sicuramente più abituati a dare battaglia.

A loro confronto, quel mucchio di malcapitati non era altro che un gregge di pecore belanti in attesa che la mannaia venisse calata.

Non gli piaceva.

Dovevano andarsene da lì, prima che Viola facesse qualcosa di stupido.

 

Ad Eustass Kidd non era mai piaciuto essere osservato.

Non che fosse un tipo timido, anzi, essere al centro dell’attenzione lo aveva sempre esaltato, pompandogli adrenalina nelle vene fino al cervello e gettandolo in stato di assoluta e spietata euforia.

Eppure, dacché riusciva a ricordare, l’essere adocchiato e analizzato aveva sempre avuto il potere di mandarlo in bestia.

Dubitava fortemente che le vittime di quella particolare sfumatura del proprio carattere fossero stati in grado di raccontarlo in giro, una volta visto impugnarli la pistola e caricare il cane dell’arma a pochi centimetri dalla loro fronte.

Ma … chissà, i fortunati c’erano sempre…

“Andatevene via!”

Storse la bocca, disturbato dal suono di quelle zanzarine che gli si erano parati davanti.

Tsè…, mai una volta che si potesse dare una lezione di rispetto ad un semplice fabbro senza incappare nelle lagne dei suoi compagnucci di quartiere.

Scoccò un’altra occhiata oltre le loro spalle, controllando che la fonte del suo prurito alle mani fosse ancora lì.

Sorrise ancor di più, sfoggiando i denti in un ghigno animalesco.

“Ehi! Ci hai sentito?” “Ne abbiamo abbastanza di voi pirati!” “Non vi permetteremo di passarla liscia dopo quello che avete fatto a Iuri!!!”

Gli angoli della sua bocca si rivolsero infastiditi verso il basso.

Parole, parole, ma alla fine tra quei miserabili insetti non ce n’era uno con abbastanza fegato da affrontare lui, EustassCaptainKidd, senza farsi forza con le spalle di seguaci improvvisati.

Si stupì di vederne uno caricare verso di lui con un’ascia malamente impugnata sopra la testa.

Lo schivò facilmente spostandosi di fianco, sorridendo compiaciuto allo sbigottimento di quello, terrorizzato dal non essere riuscito a massacrargli le carni al primo colpo.

Almeno lui aveva avuto più fegato dei suoi amici.

Un vero peccato…

Bha. Ma in fondo a lui che gliene fregava?

“Killer.”

Nel giro di un soffio il corpo del suo maldestro assalitore stramazzò a terra, sventrato in più parti dalle lame rotanti del suo vice, bloccando il fiato in gola alle rimanenti pecore.

“Qualcun’altro vuole fare l’eroe?”chiese quasi con sarcasmo la voce ridondante del pirata dal volto coperto, assumendo un tono talmente inquietante da far rabbrividire loro il sangue nelle vene.

Kidd sghignazzò sotto i baffi, gustandosi le espressioni terrorizzate di quel branco di idioti, mentre si allontanavano alla rinfusa, uscendo in meno di pochi secondi dalla sua vista.

E un sassolino nella scarpa era andato…

Il Massacratore inclinò la testa verso il proprio capitano, vedendolo rivolgere la propria attenzione dall’altra parte della piazza.

I fori della sua maschera gli diedero la visione di un paio di individui intenti ad osservare Kidd con insistenza, troppa.

Sembravano due ragazze, una bionda ed una argentata.

Da dietro la maschera aguzzò lo sguardo sulla bionda, notando in un secondo momento il taglio mascolino dei capelli e dei vestiti.

Correzione: un ragazzo ed una ragazza.

E, da come poté intuire notando una testa nera ed arruffata fare capolino da dietro le gambe del biondo, c’era anche un bambino.

Una terza occhiata gli fece collegare quei volti ad un articolo dell’ultimo quotidiano letto.

Sollevapesi Viola e Arch Angelo Infido. Entrambi con una taglia inferiore a 30 milioni di bery.” Riassunse ad alta voce, precedendo come da copione qualsiasi domanda di Kidd che, ghignando con il suo solito modo da iena, accolse di buon grado quelle informazioni.

“Dei novellini quindi…” mormorò il rosso con una nota di soddisfazione.

Sapeva bene che significato Kidd associava alla parola novellini e non era molto lontano da quello di “carne fresca”.

Quasi gli dispiaceva per loro.

 

Era ufficiale. Dovevano levare le tende.

Se Arch prima pensava che non esistessero al mondo persone più malate di Viola, in quel momento dovette ricredersi.

Quel pazzoide aveva appena fatto ammazzare, con tanto di sorriso sulle labbra e sotto gli occhi di Morgan, ora così spaventato da non riuscire a smettere di tremare contro la sua gamba, un uomo qualunque da uno dei propri sgherri e … si era girato verso di loro, continuando a ghignare come un animale affamato.

Era.. semplicemente, una cosa da pazzi.

Si rese conto di star sudando freddo.

Dannazione – pensò, non riuscendo mai a sciogliere i propri occhi da quelli stralunati e folli dell’altro, che nel frattempo aveva iniziato ad avvicinarsi a loro con passo lento, - … da quando in qua perdo la calma?!

Le mani gli prudevano insistentemente, implorando di toccare la rassicurante impugnatura dei pugnali che teneva nascosti sotto il gilet, e l’istinto di correre a gambe levate il più lontano possibile da lì si stava facendo forte.

Fu con sgomento che il biondo si rese conto di cosa gli stesse accadendo, collegando l’una con l’altra ognuna di quelle sgradevoli sensazioni: aveva paura.

Quel maledetto assassino senza scrupoli era riuscito a mettergli paura!! Nemmeno Viola ci era mai riuscita!

Continuò ancora un paio di istanti ad osservare terrorizzato lo sguardo del rosso.

Non era rabbia quello che animava i suoi gesti, come succedeva a Viola nei suoi comunissimi momenti “no”, ma puro desiderio e divertimento nella sofferenza del prossimo.

Un ringhio basso e gutturale alla sua sinistra gli fece ricordare della compagna.

“Bastardo …” imprecò a mezza voce l’argentata, compiendo un temerario gesto in avanti, atto a portarla più vicina al rosso dalle labbra truccate, sicuramente per togliersi lo sfizio di rifilargli qualcosa di duro e pesante nello stomaco e forse anche qualcos’altro.

I suoi riflessi lo fecero muovere prontamente ed in meno di un secondo aveva bloccato Viola da dietro la schiena, usando le braccia per serrargli da dietro le spalle. Evitò di soffermarsi troppo sull’espressione stupita del pirata davanti a sé e si concentrò più che poté sulla cugina.

Percepì da parte dell’argentata un gemito di sorpresa, sostituito in men che non si dica da una serie di insulti diretti contro di lui.

“Mollami immediatamente schifoso bastardo!” gli ringhiò la ragazza dritto in un orecchio, rischiando seriamente di fargli saltare un timpano.

Resistette solo perché sapeva che il tempo stringeva. Non sarebbe passato molto prima che quello lì avesse pensato bene di approfittare della situazione per fare i propri comodi.

Strinse i denti, riuscendo con un paio di respiri a riprendere coscienza di sé e delle proprie reazioni.

Non doveva farsi prendere dal panico. Allegra gli aspettava.

“Non ci pensare neanche Viola!” l’avvertì, lottando contro gli strattoni dell’altra nel tentativo di liberarsi.

Schivò una testata da parte dell’argentata e ringraziò i suoi riflessi ben sviluppati.

“Non possiamo permetterci di attaccare briga! Lo vuoi capire sì o no??!!” rincarò la dose, sentendo la rabbia montargli nella gola, incrinandogli la voce.

“Non me ne frega un cazzo, Arch! Lasciami o giuro che ti massacro la faccia! Giuro che lo faccio!!”

Arch conosceva troppo bene Viola per non crederle, e fu questo il suo sbaglio. Bastò un attimo di distrazione perché la paradisea rossa trovasse uno spiraglio nella sua presa, approfittando di quel suo attimo di rigidezza per scrollarselo di dosso ed assestargli una gomitata in pieno petto.

Si piegò in due, tenendosi le mani sui polmoni, sentendo l’aria uscirgli dalla gola ad una velocità orrenda.

L’orribile sensazione che accompagnò il colpo infertogli non fu niente, però, paragonata a quella che la risata del pirata dai capelli rossi gli provocò.

“Hai un compagno deboluccio, eh bellezza?” lo sentì dire con una punta di malizia a cui però non diede importanza sul momento.

Alzando a fatica la testa, con un occhio chiuso per lo sforzo, Arch pregò di star facendo un incubo piuttosto fantasioso, vedendo Viola e quel pazzoide fronteggiarsi faccia a faccia a meno di due metri di distanza.

V-viola…” cercò di richiamarla ancora una volta, ma dalla bocca gli uscì solo un rantolo secco.

Quasi avesse avvertito nuovamente il suo sguardo su di sé, quello si rivolse nuovamente verso di lui, osservandolo con notevole interesse,

“Tranquillo, bel faccino. Cercherò di non farle troppo male!” rise quello, spalancando la bocca in un’altra risata sguaiata.

Non… è… coof.. di lei…che mi preoccupo.” Ansimò, sperando forse, con quella frase a doppio senso, di mettergli addosso qualche dubbio.

A dispetto delle sue aspettative le sue parole non fecero che irritarlo, e di questo fu certo quando il sorriso su quelle labbra violacee si spense di colpo e la ruga della fronte divenne più profonda, marcandogli il volto duro con un’espressione furiosa.

L’espressione che aveva assunto si avvicinava molto a quella di Viola e forse fu per quello che si tranquillizzò.

Viola era una testa calda e, come tale, l’unica cosa di cui doveva aver paura erano le creature fredde e interessate solo a stroncare i suoi ringhi con un sol colpo. Quello invece, che sulle prime gli era parso come un pazzoide pieno di sé e terribilmente controllato, non si avvicinava nemmeno lontanamente a quella che era stata la sua prima impressione.

Gli venne quasi da sorridere, accorgendosi di quanto in realtà fosse il rosso a doversi preoccupare di chi si trovasse di fronte.

Alla fine, proprio come la paradisea argentata, non era altro che una belva arrabbiata e smaniosa di affondare i propri artigli sull’avversario.

Niente di cui preoccuparsi.

Non appena riacquistata la capacità di respirare correttamente, ritornò dritto sulle proprie gambe e controllò che Morgan fosse ancora nei paraggi.

Lo trovò dietro una cassa lasciata davanti una delle botteghe che davano sulla piazza, certamente troppo shockato da quanto visto per restare allo scoperto.

Tornò a fronteggiare lo sguardo del pirata con i propri occhi color cobalto, freddo ed austero come sempre e pronto a tirar fuori i propri pugnali al minimo accenno di pericolo.

Fare casino non era mai stata una delle sue scelte preferite, ma ormai la frittata era fatta e lui non poteva più tirarsi indietro.

Ancora non sapeva cosa avesse spinto Viola a fronteggiare un simile individuo, ma pregò per la propria sanità mentale che ci fosse una buona ragione.

 

Atto 16, scena 2, Aria di battaglia

 

“Come hai fatto?”

La domanda di Viola apparve quasi fuori luogo, data l’atmosfera fin troppo elettrica tra lei ed il pirata.

Kidd inarcò entrambe le sopracciglia, abbassando gli angoli delle labbra dipinte: non capiva a cosa si riferisse quella bambolona da prim’ordine, ma non era nel suo stile mostrarsi insicuro e finì col risponderle con un sorriso di sfida.

La ragazza, a dispetto delle sue aspettative, parve trattenersi, stringendo i pugni così tanto da sfumarsi le nocche di bianco.

Si vedeva lontano un miglio che era furiosa, ma comunque tesa nello sforzo di non gettarsi a capofitto nello scontro.

Ridacchiò col suo solito tono gutturale, ritrovando negli occhi nocciola della ragazza una vera e propria smania di massacrarlo.

Divertente. Davvero divertente. Cosa ci poteva essere di così importante dal trattenerla?

“Hai qualche dubbio su chi hai di fronte, bellezza?” la schernì allargando le braccia.

Viola fece una smorfia di stizza, digrignando i denti e parlando di conseguenza con la lingua ben trattenuta dietro di essi.

“Rispondi, lurido verme bipede, e forse…” si trattenne, quasi il pronunciare qualcosa di simile le costasse non poco “… forse farò a meno di strapparti quella protuberanza che tu definisci sicuramente naso.”

C’era un’altra cosa che seguiva Eustass Kidd come un’ombra, oltre la sua incontrollabile irritabilità, ed era la sua inscindibile, catastrofica, mania di trovare in ogni frase a lui rivolta un insulto nei confronti del suo aspetto.

Non che lui potesse sapere che Viola, effettivamente, aveva fatto volontariamente cenno a quella sua particolarità somatica, ma bastò il dubbio a fargli venire i nervi a fior di pelle.

“Stai cercando il Paradiso prima del tempo, baldracca?”

Da bellezza a baldracca.

Oh, questo, Killer lo sapeva bene, era segno che le parole sarebbero state presto inutili. Quando Kidd cominciava ad insultare più pesantemente l’avversario era tempo di tirare fuori le sue lame rotanti e tenersi pronto all’azione.

“Quello può aspettare.” Gli rispose subito l’argentata “Ma io no, sgorbio. Dimmi come hai fatto a lanciare quell’incu-cosa. Adesso.” Sputò infine le ultime parole, prima di zittirsi completamente.

Kidd aveva capito a cosa si riferisse, ma ormai non gli importava più. Ormai non desiderava altro che stritolarla fino a farla spirare.

Nessuno insultava Eustass Captain Kidd. Nessuno. Nemmeno una stangona come quella.

Neanche a dirlo, fu proprio Viola ad attaccare per prima.

Il pirata rosso non se lo aspettava, Arch se ne accorse dal modo in cui spalancò gli occhi, schivando nel frattempo un colpo di braccio diretto al suo viso da parte dell’argentata.

Eustass Kidd non gradì il modo in cui la ragazza, dopo aver imprecato tutt’altro che velatamente in sua direzione, lo squadrò preparandosi ad un nuovo attacco.

La mancina del pirata fece appena in tempo a stuzzicare con la punta delle dita l’impugnatura della pistola appesa alla cintola, prima di accorgersi di un piede nudo e all’apparenza esile piantato nel suo ventre.

Non meno di un secondo dopo si ritrovò con il bordo della fontana centrale piantato nella schiena, senza nemmeno sapere come ci fosse finito.

“Cos-..?” Tossì un po’ di sangue, per terra, più per la sorpresa che per i dolore. Il colpo ricevuto era roba da niente, se confrontato a quello a cui era abituato.

Alzò gli occhi furente, vedendo l’argentata, più lontana di come se la ricordava, assumere una posa altezzosa che gli fece letteralmente andare il sangue al cervello.

 Accanto a lei il biondino di nome Arch era invece sempre immobile, apparentemente rilassato alla vista dell’operato della compagna.

Incontrò gli occhi cobalto del ragazzo con odio, trovandoli freddi come il ghiaccio, ripensando poi alle parole poco prima precedenti al battibecco tra lei e l’argentata.

Il riflettere su quell’odiosa frase che aveva più o meno dato inizio a tutto fu quasi come una secchiata d’acqua fredda.

Fu così che la sua mente riuscì a mettere da parte l’orgoglio e macchinare qualcosa di meglio del massacro in prima persona della bambolona.

Non era di lei che si preoccupava, eh?

Ridacchiò, incapace di contenersi. Quel marmocchio gli ricordava in modo sorprendente Killer: calcolatore e fermamente convinto di conoscere a fondo chi gli sta’ attorno.

Una testolina degna di essere il vice di una furia come quella.

Ma come avrebbe reagito se qualcosa fosse andata inavvertitamente contro i suoi calcoli?

Si rialzò a fatica, ignorando bellamente le parole che Viola Sollevapesi continuava ad indirizzargli, ormai concentrato unicamente sul bel visino delicato di Angelo Infido.

Gli conosceva i tipi come lui: controllati e sicuri di poter leggere il pensiero del nemico. A lui non interessava se l’avversario della sua amichetta era un impulsivo massacratore quale era lui.

Kidd avrebbe scommesso la sua adorata pelliccia che per lui era stato come puntare sul proprio mastino ad un incontro di cani rabbiosi.

Bhe, spiacente per lui, ma non avrebbe fatto la parte che si aspettava.

Non era tanto stupido da fare il gioco di qualcun altro così alla leggera.

Ridacchiò sadicamente divertito, notando la Sollevapesi raccogliere rudemente l’ascia con il quale era stato attaccato dal cadavere in quel momento ai suoi piedi. Doveva ammettere che la bambola aveva fegato: una qualunque ochetta si sarebbe messa a gridacchiare all’orrore alla vista del corpo maciullato di quel vermiciattolo che aveva osato sfidarlo.

Invece, l’unica smorfia che al momento animava i lineamenti di Viola era la rabbia.

Con un movimento fluido del braccio, l’argentata gli scagliò contro, senza tanti convenevoli, l’oggetto affilato .

Gli fu sufficiente alzare la mano smaltata e, ghignando soddisfatto, aspettare il momento in cui l’ascia si sarebbe fermata a mezz’aria proprio dinanzi a lui, per poi decretare ad alta voce:

Repel.”

Come calcolato l’arma tornò a vorticare furiosamente all’indietro, tornando dritto tra le braccia della Sollevapesi.

 

Atto 16, scena 3

 

Viola boccheggiò impietrita, osservando atterrita ciò che aveva lanciato, ritorcersele contro con un inspiegabile effetto boomerang.

Non se lo aspettava. Vedere un essere viscido come quello, un umano, riuscire a deviare un suo lancio senza nemmeno sporcarsi le mani, era l’ultima cosa che si sarebbe immaginata.

Il filo dell’arma arrivò a luccicarle sinistramente accanto al viso prima che un braccio la tirasse di lato, salvandola letteralmente sul filo del rasoio.

Cadde a terra, graffiandosi le ginocchia nude sulla superficie ruvida della piazza.

“Che diavolo fai?” urlò di getto, riconoscendo nella mano rosea stretta al suo polso quella di Arch.

Il biondo le rispose con un’occhiataccia veloce, prima di tornare a controllare le azioni del pirata.

Si accigliò, incontrando il sorriso strafottente e sadico del rosso.

“Oh, ma che eroe.” Lo derise, avanzando di qualche passo, tornando in poco tempo a capo dei suoi.

Arch rimase zitto, i riflessi pronti a captare il minimo movimento da parte dell’altro.

“Cosa diavolo sei?” sibilò piano il ragazzo, talmente tanto che nessuno, a parte Viola, poté udirlo.

L’argentata sbarrò gli occhi alla vista di una goccia di sudore percorrere la tempia a lei visibile del biondo.

Non accadeva mai che Arch sudasse. Sudare per lui, che fosse anche una misera goccia, equivaleva ad essere nervoso ed essere nervoso significava essere confuso.

E se Arch era confuso significava solo una cosa: guai.

“Lo sapevo che non era una buona idea.” Sussurrò d’un tratto il biondo,quasi rivolto a se stesso, mollando di scatto il braccio della paradisea rossa.

Viola lo guardò spaesata, il nervosismo che il cugino emanava lo si poteva sentire a pelle. Tremava impercettibilmente, l’aveva sentito poco prima che la lasciasse andare. Corrugò la fronte infastidita e preoccupata.

Per la prima volta anche lei sentiva quella situazione in cui si era gettata rischiosa e precaria.

Le pupille del biondo si dilatarono sotto i suoi occhi in un attimo.

“VIO-!”

Bastò un sorriso animalesco per far scatenare l’inferno.

Un inferno fatto da un confuso sibilo di lame rotanti e da un ruggito echeggiante dal tono basso e morbido che per un attimo somigliò ad una parola.

A pochi millimetri dal suo volto l’ombra di qualcosa di legnoso ed affusolato bloccava l’avanzare di un’arma bianca ricurva.

Signorin-..Ugh.” Si lamentò l’ombra, ma a Viola non servì altro che quel mugolio per riconoscerne il possessore.

“Marmocchio!!”

 

Atto 16, scena 4, Moby Dick

Si svegliò ancora mezza intontita che ormai erano le cinque del mattino.

In un primo momento non ci fece molto caso, osservando ad occhi annebbiati l’orologio della biblioteca segnare quell’ora, ma poi collegò i due fatti, realizzando che era mattina.

Si era svegliata di mattina.

Uuuh.” Si lamentò, portandosi una mano alla testa, avvertendola pesante e leggermente dolorante, come se l’avessero riempita d’acqua.

Persino i polmoni le sembravano anestetizzati.

Fece un paio di respiri profondi, espirando debolmente l’aria dal sapore cartaceo della biblioteca, ma sentì qualcosa premerle sul petto.

Riprovò l’azione di prima, riscontrando la stessa identica sensazione.

Sbarrò gli occhi spaventata, accorgendosi che non era solo una sua impressione, e scattò con la testa in avanti, cercando di mettersi in piedi.

Rimase non poco di sasso nel vedere un ciuffo biondo conosciuto riposarle beatamente sul petto, seguito dal volto di una persona che lei conosceva fin troppo bene.

Marco stava dormendo come un bambino, rilassando i muscoli della faccia tanto da far sparire il cipiglio imbronciato che lo contraddistingueva, stringendole la mano con una delle proprie.

Sospirò sollevata.

Che spavento. Per un attimo aveva creduto…

Una risata arcigna le rimbombò in testa, facendola rabbrividire.

No. – si impose scrollando la testa, non doveva pensarci altrimenti la paura l’avrebbe bloccata un’altra volta come era successo con Jaws.

Si concentrò quindi sul respiro della Fenice, trovandovi un rapido e sicuro appiglio.

Certo, era un po’ imbarazzante trovarsi in quella situazione, ma dopo un sonno agitato come quello che aveva avuto, trovarsi una faccia amica accanto era meglio di una boccata di aria fresca.

Poggiò la testa sul guanciale del divanetto, sospirando stravolta.

Aveva sognato Archetto quella notte, suo fratello, intento a guardarla con sguardo disperato piangendo a dirotto. Nel sogno, sentendosi in qualche modo tremendamente in colpa, aveva cercato di abbracciarlo, di confortarlo, ma non appena ne aveva sfiorato le guance umide con la punta delle dita, la figura elegante ed esile del fratello era stata sostituita da un corpo dieci volte più grande, grasso e puzzolente, che l’aveva repentinamente afferrata per il collo.

L’unico suono proveniente da quella sagoma oscura era stato sempre lo stesso: “Zehahahah!!”

Serrò le labbra, soffocando un singhiozzo e si coprì gli occhi con le dita affusolate delle mani.

Quanto ancora sarebbe continuata quella storia?

Stava impazzendo.

Un movimento poco sotto il suo seno la portò a riabbassare lo sguardo.

Un paio di occhi chiari le diedero il buongiorno, accigliati come al solito.

“Ciao..” fu la sola cosa che Momo sentì dire perché subito dopo andò nel pallone.

Percepì le guance infiammarsi e gli occhi annaqquarsi di vergogna: cosa doveva fare? Marco era innamorato di lei, e lei …

Non poteva dargli false speranze!

Come doveva rispondere?!

C-ciao.

Si diede dell’idiota non appena si accorse si essere stata lei a balbettare quella parola.

Singhiozzò, lasciandosi nuovamente cadere all’indietro con il viso tra le mani, troppo imbarazzata per anche solo pensare di controllare la reazione della Fenice a quel suo ennesimo sfoggio di goffaggine.

Una risata morbida le solleticò l’udito.

Grandioso, aveva fatto un’altra figura da scema.

C-come mai stavi..?” sussurrò, cercando di avviare il più velocemente possibile una conversazione.

“Facevi degli incubi.” Fu la rapida e laconica risposta del biondo, a quando pareva più deciso che mai a non alzarsi da lei.

Sussultò appena: allora Marco l’aveva vista agitarsi nel sonno.

Scusami.” Cinguettò, spostando la testa di lato, sebbene le fosse ancora impossibile avere un contatto visivo con il comandante della prima flotta.

“E per cosa?”

Per averti fatto dormire scomodo.” Disse la paradisea imbronciandosi, sentendosi terribilmente colpevole “Dev’essere dura prendersi cura di me. Non faccio che combinare guai.

“È così che ci si comporta in una famiglia.” La interruppe la voce bassa e calma del biondo, mentre lei continuava a mordersi le labbra.

“E se devo essere totalmente sincero …” continuò la Fenice, approfittando di un momento in più del suo silenzio “… erano anni che non dormivo così bene.”

Co-..?

La sensazione di morbido arrivò improvvisa, premendole la base del collo, seguita da qualcosa di pungente solleticarle poco più sotto.

Il cuore le esplose in petto, quando un respiro caldo sulla pelle le rilevò la natura di quelle sensazioni.

Annaspò, scoprendosi gli occhi, ritrovando come previsto la Fenice chino su di lei con il viso affondato nell’incavo del suo collo.

La gola le si chiuse per la confusione e, sentendo il sangue affluire più velocemente alle guance e il battito rimbombarle rabbioso nelle orecchie, il corpo cominciò ad essere scosso da piccoli tremiti.

M-marco.” Balbettò, incapace di dire altro.

Gli occhi azzurri della Fenice si riaprirono di scatto come se avesse realizzato solo in quel momento quello che stava facendo. Rialzò la testa, trovandosi faccia a faccia con la paradisea, rossa e sconvolta.

Si fece un po’ più distante per lasciarla respirare, ma nemmeno un istante dopo la presenza della ragazza si era dissolta nel nulla, lasciandolo da solo.

Dietro uno degli scaffali della biblioteca Allegra si teneva le mani al petto, tentando con scarsi risultati di calmare sia il proprio battito sia la sensazione di qualcosa svolazzarle nello stomaco.

Si rannicchiò un po’ su se stessa, serrando con forza gli occhi, umidi per l’emozione.

Doveva parlare con Betty: si sentiva male.

 

 

Atto 16, scena 5

 

Killer non aveva fatto in tempo a fermarsi, vedendo apparire quella bestia fuori dal nulla, interponendosi tra lui ed il suo obbiettivo.

Era rimasto sorpreso nel vedere una simile creatura inserirsi così inavvertitamente nella battaglia e, percepì chiaramente, nonostante la maschera striata, che anche Kidd lo era, trattenendo per un istante il respiro venendo imitato dagli altri membri della ciurma.

Davanti a lui stava un lungo e grosso serpente dotato di piccole zampe anteriori e posteriori, provvisto di baffo filamentosi e un accenno di corna ramificate color nero ebano, aveva incassato in pieno il colpo destinato all’argentata.

Le fidate armi di Killer si erano conficcate tra quelle che, a prima vista, sembravano squame scricchiolanti, bloccando il meccanismo che le faceva ruotare, ma, sebbene il lamento dolorante dell’essere, forse un po’ troppo acuto per essere quello di un adulto, non erano andate in profondità, semmai il contrario: erano state trattenute dalla sua armatura marrone e squamosa.

Il muso affilato della creatura si rivolse verso il Massacratore, puntando i suoi occhi, tremanti di dolore e neri come il petrolio, nei buchi della sua maschera.

Per un attimo ebbe l’impressione che potesse vederlo.

Signorin- Ugh.” Gli sentì dire con una voce infantile sgorgargli dalla lunga gola.

Poi se lo vide crollare davanti.

Viola Sollevapesi, ancora scossa dall’accaduto, si sciolse dall’immobilità in cui era piombata, gettandosi in avanti,  addossandosi al collo della bestia.

“Marmocchio!!”

Inclinò la testa da un lato, colpito da quell’esclamazione.

Quindi non aveva sbagliato, dando alla creatura un’età molto giovane.

La creatura non rispose ed iniziò a lamentarsi con piccoli suoni acuti e penosi, bloccato a terra da un forte serie di tremiti.

Strano, pensò Killer, eppure non aveva affondato così tanto da ferirlo gravemente.

Un’idea gli balzò in testa: e se fosse semplicemente traumatizzato?

 “Marmocchio! Ehi marmocchio, r-riprenditi!”

Ripetè nel frattempo la Sollevapesi, scuotendo il corpo del giovane rettile senza alcun riguardo, certamente ansiosa di vederlo nuovamente in piedi sulle proprie zampe.

Quella ragazza era stata fortunata: ancora qualche millesimo di secondo in più e la sua vita sarebbe stata recisa come una corolla dallo stelo di un fiore.

Arch!!!” scattò da una parte l’argentata sotto ai suoi occhi, dimenticatasi totalmente della sua presenza.

Fu con un certo sollievo che la vide mordersi le labbra, quando si rese conto che Kidd aveva già iniziato le danze con il suo compagno.

Ci volle comunque poco, prima che un’occhiata di pura rabbia omicida si puntasse su di lui, e ancor meno ci volle perché sentisse una mano stringersi sul suo collo, artigliando senza pietà la carne della sua giugulare.

“Maledetto codardo!”

Le sue spade lo salvarono, sibilando minacciose quel tanto che bastò per allontanare dal suo pomo d’Adamo la presa mortale della ragazza. Si massaggiò la parte lesa con una mano, ritrovandola poi ricoperta di un sostanzioso quantitativo di liquido purpureo.

Il suo sangue.

Aveva mirato ad ucciderlo, quindi.

“Bene.” dichiarò, riattivando il meccanismo di rotazione delle sue lame, osservando con un po’ di ammirazione la furia cieca che inondava l’espressione tesa della sua avversaria.

Era confortante sapere che non si sarebbe dovuto fare scrupoli.

 

 

Non fosse stato per il fatto che doveva scansare i proiettili che il rosso gli sta sparando addosso, Arch avrebbe ben volentieri squartato le spalle del pirata mascherato.

La vista di Morgan, uscito dal suo nascondiglio e trasformatosi in uno schiocco di dita, venire colpito in pieno, l’aveva distratto, spaventandolo talmente tanto da impedirgli altre azioni se non quella di osservare atterrito la scena del ragazzino crollare a terra dilaniato dal terrore.

Oltre a quello non aveva visto altro.

Si era distratto e poi si era trovato con una mano smaltata stretta intorno al collo.

A-gh!” gemette, risvegliandosi dal coma.

Gli occhi di Eustass Kidd apparvero quasi dal nulla, osservando le smorfie del suo viso con una brama omicida da far paura.

Il volto del pirata era fisso sul suo ad una distanza tale da dargli un repellente assaggio del suo alito.

Archetto non poté purtroppo far altro che boccheggiare in cerca d’aria, lanciando occhiate sprezzanti al rosso, troppo convinto di averlo in pugno per farci caso.

Finalmente l’aveva tra le mani. Kidd non aveva aspettato altro da quando quegli odiosi occhi blu l’avevano puntato.

Allungò la lingua di lato, trattenendosi dal leccarsi la bocca per non rischiare di portarsi via il rossetto.

Gol D.  Roger solo sapeva quant’era difficile per lui non rovinare il trucco nero alle labbra.

Lo vide dimenarsi, arricciando il naso e tirando il collo all’indietro, tanto schifato dal suo alito da serrare i denti per non respirare la sua stessa aria.

“Che c’è bel faccino? I tuoi gusti in fatto di odori sono troppo raffinati?” ghignò, allungandosi ancor di più su di lui.

Uno sputo in piena regola lo colpì sulla guancia.

Oh…” disse riprendendosi dallo stupore iniziale.

La mano del rosso fece ancora più forza sul suo collo, costringendolo a spalancare la bocca nel disperato tentativo di compensare la mancanza di ossigeno.

Kidd osservò la scena con rapimento.

Il modo in cui il ragazzo aveva serrato le palpebre, sfiorandosi le guance arrossate con le lunghe ciglia bionde ed inalando quanta più aria possibile, aveva qualcosa di stranamente erotico.

Ma è davvero un maschio? – pensò, osservando le dita delicate del biondo piantarsi languidamente nel suo braccio, pregandolo quasi di liberarlo.

Che lui ricordasse non era mai stato attratto fisicamente da elementi dello stesso sesso: amava le donne, eppure c’era qualcosa nel ragazzino che lo attirava.

Forse era un travestito?

Ridacchiò maligno, studiando bramoso i vestiti del biondo, alla ricerca del più piccolo indizio.

Chissà come sarebbe stato scoprirlo di persona?

Una lama seghettata gli si piantò nel braccio prima che potesse pensare ad altro.

Ricacciando indietro un urlo, tirò indietro il braccio ferito, stringendoselo con rabbia.

Davanti a lui Arch detto Angelo Infido tossì, sorreggendosi con una mano puntata a terra ed impugnando con l’altra una lama corta dall’elsa grigia, rimettendosi dritto a fatica ed allontanandosi il più possibile da lui con un balzo misurato ed elegante.

Kidd si diede dello stupido per essersi lasciato sfuggire la propria preda a causa di un suo attimo di disattenzione.

Ma, riflettè ghignando, la cosa lo intrigava.

Così faccino d’angelo nascondeva delle sorpresine sotto i vestiti, eh?

Allargò il proprio sorriso, vedendolo estrarre da sotto la giacchetta una lama gemella a quella già sguainata.

Gli occhi freddi di Arch si assottigliarono in sua direzione, infiammandosi di desiderio di rivalsa.

Le sue braccia si allargarono lentamente, facendogli assumere una posa simile a quella di un falco che ad ali spiegate si prepara a fiondarsi sulla preda.

I suoi occhi cerulei mandavano scintille, quasi volessero trapassarlo da capo a piedi.

Ooh. La fatina si era arrabbiata, dunque. Che paura.

“Ridi finché puoi.” Sibilò Arch poco prima di lanciarsi su di lui.

Fu facile per il rosso scansare il suo primo attacco, essendo i movimenti del biondo ancora troppo provati dalla prolungata mancanza di ossigeno, ma il secondo colpo lo ferì in pieno petto, lasciandogli un solco di notevole profondità sul petto.

Teh. Ci sapeva fare con i coltelli, ridacchiò preparandosi a rendere il proprio corpo magnetico per disarmarlo.

Non arrivò mai a farlo, perché una bandiera bianca e azzurra, sovrastando in lontananza i tetti delle case dell’isola, attirò la sua attenzione.

Storse la bocca con scontento.

Sempre a rompere le uova nel paniere quelli.

 

Atto 16, scena 6

 

Hina la Gabbia nera, era certamente una bella donna.

Ammirata per la sua bellezza, il suo coraggio e, non di meno, il suo grado, riscuoteva parecchio successo sia tra i suoi sottoposti che tra gli avversari, rivelandosi, a dispetto delle apparenze, una vera e propria trappola per chi osava avvicinarsi a lei, sottovalutandola.

Il numero di delinquenti che aveva catturato grazie alla sua avvenenza, combinata agli effetti devastanti che il Frutto del diavolo aveva provocato al suo corpo, non si potevano contare.

Al capitano di vascello però quel suo essere corteggiata ed adocchiata non era mai andato a genio, anzi, l’essere rincorsa dagli uomini gli dava addosso un fastidio indicibile.

Certo, facilitava il suo lavoro, ma non le permetteva di trovare quello che cercava: ossia un uomo degno del suo interesse.

Per questo, nonostante ormai avessero attraccato sull’isola dove le erano stati segnalati dei disordini da parte di Arch Angelo Infido e Viola Sollevapesi, la sua voglia di fare il suo lavoro stava lentamente scemando, rendendola più irritabile del solito.

Fare da babysitter ai suoi uomini non era la sua aspirazione di vita, ma riusciva comunque a conviverci, ripetendosi quanto le vite di quei poveri ragazzi dipendessero da lei. Quello che però mai e poi mai avrebbe potuto sopportare, sarebbe stato risolvere questioni simili, affibbiatele senza troppi riguardi proprio perché era quello che era: una bella donna.

Quando aveva ricevuto la lumacofonata dal quartier generale non riusciva a crederci ed era rimasta a bocca aperta solo per chiudere la conversazione in faccia a Kaizeruhige, vice ammiraglio, degnandolo a malapena di una risposta monosillabica.

Maschilisti. - aveva pensato, sistemandosi nervosamente i guanti neri sulle dita, ma doveva ammettere che un po’ di ragione avevano.

Dire che il suo aspetto non avesse favorito alla sua carriera sarebbe stata una bugia, dopotutto.

Sospirò, incastrando gli occhiali da sole sopra la propria fronte, dando spettacolo dei propri occhi nocciola ai suoi sottoposti che, a quella vista paradisiaca, si fermarono per un istante con sguardo sognante e questo bastò a provocare l’ira della marine.

“Muovetevi, razza di fannulloni! Non siamo venuti qui a prendere il sole!!” sbraitò senza preavviso la rosa, provocando nei propri soldati un repentino ritorno all’azione.

“Siamo qui per arrestare dei criminali! Non battete la fiacca!” terminò il proprio rimprovero, vedendo piccoli gruppetti dei suoi sparire tra le viuzze dell’isola con i fucili in spalla.

“Il vostro polso per la disciplina è come sempre impareggiabile, capitano.”

Riconobbe immediatamente il tono reverenziale di Fullbody, apparso dietro di lei ed accompagnato come sempre dalla figura eccentrica e sorridente di Jango.

Alzò gli occhi al cielo, implorando un poco di pazienza. Non era tanto difficile sopportare le avances di quei due, ma quel giorno non era proprio in vena.

“Cerchiamo di sbrigarci, voglio tornare al quartier generale senza sprecare troppo tempo.” Asserì inflessibile, stroncando sul nascere qualsiasi loro proposta, imboccando una delle strade che portavano verso il centro.

 

Atto 16, scena 7, Marineford

Koby non riusciva ancora a spiegarsi come Clarina Sassonia fosse riuscita a coinvolgere lui ed Hermeppo in quella missione suicida.

Erano stati semplicemente svegliati di soprassalto dal loro superiore con una razione extra di pugni in testa e buttati giù dalle loro brande ancor prima di poter anche solo pensare di obbiettare.

Era mattina presto a Marineford, neanche le matricole si alzavano a quell’ora!

“Volete sbrigarvi voi due?” li rimproverò Clarina, tenendosi bel stretto attorno al corpo il drappo nero che serviva a nasconderla ad occhi indiscreti, camminando a passo spedito nel posto dove lei diceva di aver nascosto una cosa importante.

Cosa fosse di preciso quest’oggetto, il Vice-ammiraglio Garp non l’aveva specificato, ma Koby sapeva bene che recuperarlo non sarebbe stata una passeggiata.

Con l’ammiraglio Akainu in giro come un cane rabbioso, non c’era certo da stare tranquilli.

“Con questo freddo non mi sento più le ossa…” disse il compagno con tono lamentoso e leggermente nasale, a causa del freddo pungente del mattino.

Koby avrebbe tanto voluto rispondergli che anche le sue ossa non erano da meno, ma proprio in quel momento Clarina era entrata di soppiatto nel quartier generale.

Ovviamente non erano entrati dalla porta principale. Sarebbe stato come mettersi in piazza e con un cartello indicare la loro posizione al nemico.

Si limitarono a infilarsi in una delle porte di servizio che conducevano alle cucine, grazie al cielo ancora deserte per via dell’ora.

Non appena entrati la donna si girò verso di loro, abbassando il cappuccio del suo improvvisato mantello, rivelando la cascata di capelli biondi.

“Bene, adesso voi rimanete qui e mi aspettate.”

“Cosa?!” strabuzzarono gli occhi sia lui che Hermeppo, scandalizzati da quell’assurda decisione.

“Abbassate la voce!”

“Sta scherzando, spero.” Disse a tono più basso l’occhialuto, guardandosi attorno circospetto.

“Il comandante Garp ci ha ordinato di scortarla a vista.” Le ricordò: voleva forse fargli ammazzare? Il vice ammiraglio non gli avrebbe mai e poi mai perdonati se avessero trasgredito a quel suo preciso ordine.

“Quello che sto per fare è molto pericoloso e se Sakazuki scopre anche voi il signor Garp ne pagherà le conseguenze.” Si giustificò la bionda, assottigliando gli occhi con rimprovero.

Entrambi i ragazzi abbassarono la testa combattuti, messi di fronte a quella possibile eventualità.

Non ci sarebbero state scusanti per loro e Garp avrebbe sicuramente fatto di tutto per proteggerli, anche a costo di rimetterci il posto, lo conoscevano troppo bene.

“Sono riconoscente al vostro comandante, ma questa è una cosa che devo fare da sola. L’ho giurato e lo farò.” Continuò la donna inflessibile.

Clarina pensò di averli convinti, ma poi Koby rialzò gli occhi, incontrando i suoi.

 “Anche noi abbiamo giurato il giorno in cui siamo diventati marine e non verremo meno ad un ordine di un nostro superiore per codardia. La scorteremo ugualmente. Che le piaccia o no.”

Come sospettava. Sorrise intenerita da quelle parole sincere. Erano troppo dei bravi ragazzi per arrendersi in quella maniera.

“D’accordo.”

 

Fine Atto Sedicesimo

 

Sono tornata! Sembravo morta eh? E invece no!

Spiego il mistero della mia sparizione: sto lavorando ad una originale per un prompt su EFP, la mia prima che, essendo una long (un’altraaaa XD) è abbastanza onerosa. Ma tranquille non vi abbandonerò.

Bene bene, posto il capitolo di mattina, e partiamo con le domande *.*

1)      Come si svilupperà il rapporto tra Kidd, Arch, Viola e Morgan?

2)      Suggerimenti liberi

E detto questo, donne votate e stupite! Kisskiss

Ci vediamo al prossimo capitolo e vi lascio all’immagine di Violaaaaa!!! XD

 

 

Storie di Storyboard: Kaizoku no Allegretto

 

Files #000-001 Viola Sassonia

Viola è un personaggio uscito un po’ dopo quello di Allegra e Archetto, ma comunque ben  riuscito. La sua creazione è stata più lenta e travagliata rispetto agli altri personaggi.

Nata come un miscuglio tra lei e Agiata, pur avendo lo stesso nome: una ragazza rozza ma impacciata.

Successivamente questa versione viene abbandonata, essendomi poco congeniale immaginarmi una persona forte come Viola, inciampare al minimo passo come Agiata,

 

Viola Sassonia è una Paradisea di fiamma rossa, coetanea di Allegra ed Archetto. Sicura di sé, facilmente irritabile e a tratti tirannica, specie nei confronti di Arch. Viola tende ad alzare le mani il più delle volte, sollevando e scagliando qualsiasi cosa le si trovi a tiro. Il suo primo contatto con Archetto fu appunto segnato dal lancio di un masso.

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Su Nido Leila il suo punto di forza era appunto la forza fisica, che le consente di resistere ai colpi più duri e di sollevare oggetti pesantissimi con pochissimo sforzo. A causa del suo carattere e della sua mania di lanciare oggetti, Viola tra le Paradisee aveva pochissimi amici, fatta eccezione per sua madre, sua zia e Allegra.

Orgogliosa quasi fino alla nausea, nonostante il suo rancore per gli umani sia molto profondo, Viola non ammetterà mai di provare un certo senso di protezione nei confronti di Morgan.

 

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Capitolo 21
*** Atto 17 -prima parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 17 –parte prima-

Atto 17, scena 1

Il gelo del pavimento del quartier generale, tanto vuoto da risultare quasi inquietante agli occhi di Koby ed Hermeppo, pizzicava i piedi nudi di Clarina con rinnovata insistenza ad ogni suo nuovo passo, fallendo comunque nel tentativo di distoglierla dal proprio obbiettivo.

Le sopracciglia bionde della paradisea si corrugarono verso il centro della fronte, conferendole, senza che i suoi due accompagnatori potessero vederla, essendo dietro di lei,  un aspetto ancor più deciso ed orgoglioso del solito.

Era una donna di carattere Clarina Sassonia.

Koby ed Hermeppo potevano affermarlo con assoluta certezza, nonostante il poco tempo trascorso con lei.

Era una mamma, dopotutto. Le sue azioni erano trascinate da qualcosa di più forte dell’egoismo o l’istinto di autoconservazione.

Non era per se stessa che stava rischiando di essere catturata di nuovo, questo era certo.

C’era una ragione più che valida che stava muovendo i suoi passi, troppo frettolosi e decisi per non esserlo.

Koby aveva sentito menzionare dal vice ammiraglio, seppur brevemente,un frutto, prima di essere sbattuti fuori dalla nave al freddo del mattino.

Possibile?

Per Clarina sembrava che lo fosse e solo i suoi pensieri, riflessi nelle cornee dei suoi occhi cristallini, puntati sulla fine di quel lungo corridoio, potevano celarne il motivo.

 

“Agiata!” esclamò piacevolmente sorpresa, accorgendosi solo in quel momento della paradisea rosa sgusciata alle sue spalle senza che se ne accorgesse.

Non era abituata a ricevere visite. Da quando le altre erano venute a sapere della nascita di Archetto le sue sorelle avevano cominciato ad andare a trovarla sempre meno.

“Che bella sorpresa! Come mai da queste parti? Sei venuta a trovare Allegra? Oggi è fuori con Archetto per la pesca! Mi spiace!”

Si fermò dal continuare, vedendo il visino di Agiata rabbuiarsi di colpo.

Si morse la lingua.

A volte malediceva la propria schiettezza. Grande spirito, sapeva che Agiata era più che gelosa di Archetto, ora che Allegra non aveva più tempo per lei!

O-oh, ma dovrebbe tornare a momenti!” si sbrigò ad aggiungere. Oooh se avesse fatto piangere Agiata e Drama, sua madre, l’avesse scoperto sarebbero stati dolori.

“Veramente io… non sono venuta qui per vedere Allegra.”

Quella frase la sconvolse non poco: Agiata che non voleva vedere Allegra?! Grande spirito, il mondo stava forse per finire?!

Zietta…” mugugnò, storcendo un po’ il naso la piccola paradisea con la vocina incrinata “Sento che qualcosa di brutto sta per arrivare …”

Non ebbe la forza di chiederle cosa, perché poteva percepire benissimo quello a cui si riferiva Agiata: i suoi occhi denudarono l’anima della piccola senza fare il minimo sforzo, facendola sfiorare con la propria.

Sussultò, capendo: una grande minaccia, terribile, letale, spietata, inumana.

Gli occhi della paradisea rosa si alzarono su di lei e la guardarono imploranti.

“… e… io non sopravvivrò.”

Fu come sentirsi schiacciare da un masso pesantissimo.

Avrebbe voluto sorriderle, dirle di non essere così negativa, rassicurarla che forse la minaccia che aveva avvertito non era così terribile, ma non poté. Agiata non sbagliava mai su cose simili e non parlava mai a vanvera.

Per questo lei, paradisea di più alto grado tra quelle della sua generazione, dotata dell’essenza più importante di quell’Era, si ritrovò confusa ed incerta sul da farsi.

Due generazioni prima, quando né lei né Agiata erano ancora nate, due paradisee con le loro medesime essenze si erano fronteggiate in quella maniera, intuendo entrambe l’avvicinarsi della tragedia.

Ma le parti erano ormai invertire: era a lei, la Verità, cui spettava la decisione, e ad Agiata, la Vita, piccola, resistente e cocciuta, non sarebbe restato che chinare il capo.

“No …”

“Zietta … io…

“Non ti lascerò morire così!”

 

No… non l’avrebbe fatto.

Agiata non meritava di sparire in quel modo. Non POTEVA sparire in quel modo.

Fin dalla prima volta che l’aveva vista, con quella sua testina fiammante e gli occhi nerissimi come una notte senza stelle, aveva capito quale fosse la sua Essenza, ed aveva giurato a se stessa che mai e poi mai l’avrebbe abbandonata.

Mai e poi mai.

Arrivare davanti a quella che era stata la sua prigione la lasciò per un attimo sbigottita, forse per i brutti ricordi legati a quel posto, forse per l’inquietante fatto di trovare la porta spalancata.

Si fermò sulla soglia, guardando timorosa l’entrata di quell’antro scarlatto.

Sentiva che qualcosa non andava. L’aria a contatto con la sua pelle si era fatta pesante e strisciante come le spire di un serpente.

La sua mente le diceva di non procedere, ma qualcos’altro la spingeva fare un’altro passo: quello che l’avrebbe fatta nuovamente ritrovare in quel posto maledetto.

La mano gentile di Koby le si posò sulla spalla, cercando timidamente di attirare la sua attenzione

“Signora Clarina?” chiese il ragazzo non ottenendo comunque alcuna risposta né reazione alla propria domanda.

Per una decina di secondi la situazione non si sbloccò.

Clarina stette lì ad osservare con astio l’oscurità di quella camera, quasi ordinando di rivelarle cosa nascondesse di così terribile da farla vacillare, finchè la risposta, con una vibrazione d’aria, calda e appena percettibile, arrivò.

“STATE GIU’!!”

Le sue mani erano riuscite a scansare i due ragazzi appena in tempo per puro miracolo e il colpo di lava, probabilmente diretto proprio a loro, ebbe l’unico effetto di bruciarle i capelli, annerendoli e sgretolandoli come cenere alle punte.

Fu con sollievo che la paradisea, alzando lo sguardo cobalto verso i suoi due protettori, constatò che entrambi, a parte il colorito cadaverico, fossero rimasti illesi dall’accaduto, cosa che non si poteva dire per la sua chioma.

“Guarda cos’hai combinato.”

La voce fredda del peggiore dei suoi incubi attirò nuovamente la sua attenzione sulla soglia di quella camera, facendole assistere alla lenta e funesta apparizione di quello che, dicendole di amarla, l’aveva costretta a stare con lui, contro la propria volontà.

Clarina era conscia di quanto la situazione fosse, in meno di pochi istanti, precipitata, ma lasciarsi prendere dal panico sarebbe stato come scavarsi la fossa, e non poteva.

Per quei ragazzi che l’avevano aiutata, per Agiata, per i suoi bambini che l’aspettavano, doveva essere forte e tirare fuori la parte peggiore di lei.

Le sue sopracciglia bionde si arcuarono verso l’alto dando sfoggio nel contempo al sorriso più malizioso e sfrontato che avesse mai indossato.

“Combinato?” chiese con tono ironico, alzandosi lentamente sulle proprie gambe, senza dare il minimo segno di vacillare.

“Che cosa avrei combinato Akainu?” concluse fronteggiando fieramente e a testa alta il marine, incrociando le braccia sotto il seno con sicurezza.

Il viso corrucciato dell’ammiraglio non tradì la sorpresa di vedere quella donna parlargli in quella maniera, cosa che invece non fecero Koby ed Hermeppo, sbalorditi così tanto da assumere un’espressione forse un po’ troppo fuori luogo, dato il momento.

“Ti ho forse causato qualche problema cercando di ritrovare la mia libertà?”

“Ti ho già permesso troppo lasciandosi in vita, Clarina, e lo sai.” Fu la risposta impietosa di Akainu che come una nuvola nera in cielo oscurò il sorriso derisorio della donna, tramutandolo in una linea curva e stretta.

“Quelle della tua specie non ne avrebbero neppure il diritt-..”

“Zitto.”

Koby ed Hermeppo ingoiarono un groppone di saliva simultaneamente, non credendo a quello che avevano appena udito. Aveva appena ordinato ad Akainu di stare zitto??

“Non una sola parola.”

Koby tremò sentendo il tono della Signora Clarina solleticargli quasi in soffio gelido le orecchie e combatté contro l’istinto di rannicchiarsi a terra come un bambino e tapparsi le orecchie per non sentire un parola di più.

Era terribile. Si sentiva gelare fin delle ossa … e non capiva il perché.

Dov’era finita la voce calda e confortante di quella donna?

Dov’era finita la sua natura dolce, indifesa e materna?

Ugh..” si lamentò stringendo i denti sotto gli occhi confusi e preoccupati di Hermeppo.

“Se ti sentisse mia figlia, saresti già morto.” Continuò intanto la donna, ignara di quello che stava accadendo alle proprie spalle.

“Tua figlia è morta.”

Seguì un intenso momento di silenzio.

Clarina indurì ancora di più lo sguardo a quella insolente affermazione e, dal modo in cui le braccia di Akainu avevano iniziato a tremare impotenti, irrigidendosi sotto uno degli effetti della sua Essenza che meno di tutti usava, intuì di stare andando bene. Nessuno sopportava il peso della Verità, specie quando questa gli è avversa.  

“Osi contraddire me, Sakazuki?” sussurrò, stirando le labbra in un altro seducente e sfrontato sorriso, facendo un passo verso l’ammiraglio.

Uno solo, ma che bastò per vedere gli occhi dell’altro venire offuscati da un velo di dubbio.

Tintinnò l’aria con una risata beffarda e cristallina.

Ahaha..Faccio davvero così paura?” fu solo un attimo di luce il sorriso divertito che mostrò, simile a quello che indossava tutti i giorni, per poi riaffondare nel freddo invernale di poco prima.

I suoi occhi cobalto, benché le due reclute non potessero vederlo dalla loro posizione, non erano mai stati così duri e persino Akainu ne era rimasto turbato.

La donna che per mesi era stata sua succube, accettando con pianti e suppliche la propria prigionia e il fatto di essere amata da qualcuno come lui, in quel momento gli si stava lentamente rivoltando contro, schiacciandolo con qualcosa di talmente forte da non poter essere minimamente paragonabile all’Haki.

Era come sentirsi pungolare da centinaia di coltelli affilati e pronti a trapassarlo da capo a piedi.

L’Ambizione non aveva quell’effetto.

In tutti i suoi anni di carriera aveva incontrato centinaia di pirati capaci di fargli assaggiare una briciola di quello che si provava sentendosi sopraffare dalla volontà altrui, ma non era lontanamente somigliante a quello che stava subendo.

L’Haki ti schiacciava tra due muri come una sardina, facendoti mancare l’aria dai polmoni.

Clarina invece, solo parlando e guardandolo, lo faceva bloccare per la paura, lo faceva sentire in trappola, dandogli comunque l’impressione di poter annaspare in uno spazio astratto per una qualsiasi via di fuga.

Non vide la mano della donna allungarsi e tendersi sinuosa in sua direzione, mostrando il palmo aperto in attesa di essere riempito da qualcosa.

“Rendimela.”

Fu colto da un attimo di smarrimento.

“La Nota, Sakazuki.”

Le sue dita si contrassero mentre avvertì quel piccolo frutto azzurrognolo nella sua tasca palpitare, quasi fosse un essere vivo e pulsante.

I suoi occhi neri questa volta si sbarrarono, lasciando che le sue emozioni traboccassero.

Cosa stava succedendo?

Irritata dall’incertezza dell’altro, Clarina mosse un altro passo in avanti.

“Rendimela Sakazuki, adesso.”

Perso nel proprio stato di innaturale confusione, Akainu digrignò i denti, portandosi la mano alla tasca dove teneva custodito l’oggetto, osservando con rabbia la bionda mentre il suo sguardo continuava a puntellarlo con tanti piccoli aghi.

Quella sensazione lo infastidiva.

Non era da lui lasciarsi intimidire, specie da una donna che tra l’altro conosceva, o meglio credeva di conoscere, come le proprie tasche.

Il potere che stava emanando era certamente  una conseguenza della sua Essenza, ne era sicuro, aveva avuto modo di fare delle ricerche su quella razza cui aveva avuto il compito di cancellare l’esistenza.

Ma perché mostrare una simile capacità solo in quel momento?

Aveva aspettato il momento opportuno fino a quel momento? Così tanto?

Si era finta indifesa solo per poi pugnalarlo al momento propizio?

In quel momento si accorse del suo unico, grande sbaglio: aveva imprigionato una Paradisea, costretta a stare al suo fianco nolente per mesi, senza nemmeno premurarsi di indagare sulla natura della sua Essenza.

Capire una cosa simile l’avrebbe messo in una posizione di enorme vantaggio, ma ormai era troppo tardi per guardarsi indietro.

La rabbia si sostituì alla confusione e l’adrenalina gli pompò al cervello, sotto la spinta dei battiti non più tanto frenetici e irregolari del suo cuore.

Gli importava davvero tanto di quel mandarino dal colore strano?

Bene.

La sua mano si strinse minacciosa attorno alla Nota, ancora fasciata dal tessuto rosso della sua divisa.

“Fai un altro passo e la stritolo.”

Fu con soddisfazione e senso di vittoria che vide gli occhi della paradisea velarsi di paura, anche se per un solo istante.

“Non oserai.” Affermò Clarina, scrutandolo sempre con quella sua espressione inflessibile degna di una regina.

“Non oseresti mai distruggere l’unica cosa che mi tiene ancora legata a te.” Era una certezza quella che stavano pronunciando le labbra rosate di Clarina, una verità indiscutibile.

Di colpo ricadde nello stato di caos mentale inziale: come faceva a capirlo in così poco tempo? Neanche l’avesse avuto scritto in faccia che stava bluffando!

Un momento…

-Bluffare..? - pensò vedendo finalmente i contorni del puzzle farsi più nitidi.

“Non ci credo…” sussurrò osservando rapito come non mai le fattezze e l’espressione di quella paradisea che aveva rapito il suo cuore e la sua mente quasi fino all’ossessione.

Occhi e capelli chiari.

Lineamenti degni di una sovrana inflessibile, tanto crudele in quel momento, tanto pura nell’anima.

Una lingua tanto sincera da ferirlo.

Una fiamma bianca di alto grado.

Per i Cinque Astri…

Come aveva fatto a non capirlo subito?

“Tu sei..”

 

 

Atto 17, scena 2

Betty non sapeva che pesci pigliare.

Betty...”

Era passata un’ora da quando Momo, più sconvolta e rossa in viso che mai, era piombata nell’infermeria nel pieno della mattinata, gettandosi a capofitto tra le sue braccia, affondando il viso nel suo petto come alla ricerca di sicurezza.

Ora, non che le dispiacesse la piccolina si fosse finalmente decisa ad alzarsi presto e cominciare a prendere i ritmi del resto della nave, ma di certo non si aspettava una simile reazione a quell’ora!

L’intero reparto infermieristico si voltato verso di lei, osservando ad occhi spalancati la piccolina rifugiarsi addosso a lei.

Il capo reparto, alzando gli occhi, invisibili dietro le lenti scure, al cielo, si diede coraggio, accompagnando al meglio delle sue possibilità la paradisea verso uno dei letti della stanza.

Era una fortuna che a quell’ora non ci fossero ancora feriti.

E ci mancherebbe altro! – pensò la bruna stringendo inconsciamente le labbra al solo pensiero: erano sì e no le sei del mattino!

“Coraggio tesoro, sediamoci un po’,ok?” sussurrò dolcemente, venendo prontamente affiancata da Penelope, accorsa immediatamente non appena riconosciuta la figura della loro adorabile sorellina minore.

Farla sedere fu un piccolo grande passo che permise a tutte le infermiere di vedere il visino della ragazza.

Rimasero ammutolite.

Se prima si erano solamente fermate, incuriosite da quella piccola ed interessante scenetta, vedere l’espressione di Momo le lasciò esterrefatte.

Chissà.

Forse era per via degli occhi lucidi, o per le guance imporporate.

O forse, cosa molto più probabile, era il tipo di espressione che aveva assunto, definibile solo in un modo: sognante.

B-betty…” balbettò di nuovo la paradisea con voce piccola piccola.

M-mi sento un po’ male..” concluse tenendosi stretta la camicia all’altezza del petto.

Il silenzio piombato nell’infermeria non sembrava volersi dissipare, fatta eccezione per Betty, unica ad essersi ripresa, stendendo le proprie labbra rosse nel solito sorriso grintoso e seducente che la contraddistingueva.

La donna, sedendosi con tranquillità accanto alla ragazza, le mise una mano sulla fronte, trovandola a dir poco bollente.

Le scappò quasi una risatina, intuendo la situazione, ma si trattenne non volendo rovinare l’atmosfera che l’avrebbe portata a scoprire com’era andata a finire...

Uhm…” mugugnò con falso fare pensoso, fingendo di torturarsi la punta del mento con le dita.

“Tachicardia, leggero alzamento della temperatura corporea…” cominciò ad elencare nel modo più professionale possibile, nonostante stesse soffrendo per non scoppiare a ridere.

Momo, tuttavia, non parve curarsi delle sue parole, rimanendo ferma e rannicchiata sull’orlo della branda come impaurita, e non si accorse nemmeno delle dita di Betty che avevano scostato i capelli e il colletto della sua camicia, rivelando qualcosa di talmente interessante da far avvicinare di botto e trattenere il fiato alle altre infermiere.

“E un piccolo ematoma all’altezza collo-spalla.” Terminò Betty con un sorriso da volpe, accavallando le gambe con fare orgoglioso, osservando le sue colleghe ormai in procinto di sbavare per l’emozione.

Fu la volta di Penelope intervenire, sedendosi leggera e radiosa come un angelo accanto alla paradisea, che sembrava non essere particolarmente interessata a quello che le accadeva attorno, quasi non se ne accorgesse.

“È successo qualcosa, per caso?” domandò innocentemente la bionda, toccando con una carezza lieve la spalla della ragazza.

Questa, risvegliatasi un poco dal proprio stato di coma vegetativo, si lasciò sfuggire un piccolo cenno affermativo.

 

Atto 17, scena 3

Essere svegliati di prima mattina da una sinfonia di strilli femminili non era certamente la routine dei pirati di Barbabianca.

E neanche per Ace, a giudicare dal bernoccolo che si era procurato, scivolando dalla posizione nella quale si era appisolato sul ponte della nave.

Urgh…” si lamentò massaggiandosi la parte offesa, osservato dall’alto da Satch, smagliante e sorridente nonostante le vistosissime occhiaie che il brusco risveglio gli aveva procurato.

“Buongiorno anche a te, Ace!”

Il più che vistoso bernoccolo plurimo che gli sorse come una colonna di pietre dal ciuffo biondo, miracolosamente intatto per grazia della brillantina a tenuta extra forte, gli procurò molto più dolore di quanto non dette a vedere, sforzandosi di mantenere un’espressione dignitosa, nonostante dalle labbra non poté fare a meno di bofonchiare:

Eh già.. buongiorno…

Ace non amava svegliarsi di soprassalto.

Al contrario, lo detestava e, benché volesse molto bene ai propri fratelli, finiva sempre col scaricare il suo momentaneo ed incontenibile malumore sul primo che gli capitava a tiro.

In questo caso Satch.

“Scusa Satch.”

Chiedere perdono era comunque una cosa che non si sarebbe mai dimenticato di fare, per fortuna.

“Niente di che…

“Ma si può sapere che cos’è stato?! Un mostro marino? Una flotta di cannoni?”

Il biondo ridacchiò in uno sbuffo.

“Peggio fratellino…

Pugno di fuoco inarcò un sopracciglio per poi accennare ad un sorriso incredulo, tirandosi un po’ indietro la falda del cappello.

“Non dirmelo.”

Il comandante della quarta flotta rispose alzando la testa verso il cielo, ancora ingrigito dagli ultimi fasci della notte.

Socchiuse le palpebre, assaporando un istante di quella beatitudine che solo i primi momenti dell’alba riusciva a dare, soffiando sul mare un’aria fresca e carezzevole tanto sottile da sembrare un velo di seta sulla pelle.

Un sospiro gli sfuggì dalle labbra, mentre tornava velocemente al discorso precedente, notando i bordi frastagliati delle nuvole in controluce assumere la forma di una cascata di capelli biondi e mossi.

Ace seguì quel rapido cambio di espressioni con interessamento e per un attimo gli sembrò quasi di intuire quali pensieri stessero affollando la mente dell’amico.

Anche lui, d’altra parte, la notte prima, in completa assenza della graziosa e quasi innaturale figura calda ed ondeggiante che di solito saltellava sul ponte, si era perso a guardare con fare sognante l’albero della nave in attesa che il rumore delle vele, gonfiate ritmicamente dall’azione del vento, si tramutasse in quello delle fluttuanti fiamme della paradisea gialla.

Inutile dire che si era addormentato a causa di un attacco narcolettico.

Satch tornò a guardarlo con il suo solito sorriso da malandrino dl cuore tenero per poi proferire in una sola parola quella che in pochi minuti sarebbe diventata la loro meta. 

“L’infermeria.”

 

Atto 17, scena 4

 

“Vogliamo i dettagli!!!” urlarono all’unisono le infermiere con occhi scintillanti, accalcandosi il più possibile davanti a Momo che, spaventata a morte da quella reazione, aveva arrancato sulle coperte del letto dell’infermeria dove si era seduta, sperando, inutilmente, di potersi mettere al riparo dagli sguardi ossessivi delle sue compagne.

Facevano paura, oh, altroché.

Sembravano quasi un branco di Re dei Mari affamati che si leccano i baffi di fronte ad una povera nave indifesa.

Uhm… e lei da dove aveva tirato fuori quel paragone?

Un brivido le percorse la schiena, intuendo di aver in passato, effettivamente assistito ad una scena simile.

“Su su!!!” La incitò una voce squillante da dietro, facendola sobbalzare.

“Avanti avanti!” un’altra ragazza le piombò di lato e lei finì con l’annaspare sulla testata della branda per lo spavento.

Si guardò intorno e una lacrimuccia le apparve nell’angolo dell’occhio: era completamente circondata.

Biri! Ribi!” intervenne una terza voce colma di rimprovero.

Evidentemente quelle due infermiere che l’avevano assalita si chiamavano in quel modo.

Buffo: stava sulla Moby da almeno un mese e ancora non aveva imparato tutti i nomi delle infermiere.

Non che ne avesse avuto il tempo, in ogni caso: tra Betty e Marco che le avevano insegnato rispettivamente l’anatomia umana e la lingua a regola d’arte, in tempi ristrettissimi per giunta, lasciare un angolino per altri nomi sarebbe stato a dir poco arduo.

Seppe di essere stata in qualche modo salvata, quando i gridolini eccitati delle donne attorno a lei si tramutarono i sbuffi e lamentele.

Uuuh..! Lova sei la solita guastafeste!” esclamò una delle due imbronciandosi come una bambina. Allegra riconobbe in lei quella che per prima l’aveva bloccata durante il suo tentativo di fuga. Era una ragazza pressoché della sua stessa altezza, capelli corti a caschetto castani chiari e un paio di occhi azzurri come il ghiaccio grandi e palpitanti come quelli di una bambina.

Oooh Ribi! Falla finita!”

Riconobbe nell’ultima voce quella di Betty.

“Uffa!”

“Ma non facevamo nulla di male!”

A parlare questa volta era stata la seconda delle infermiere.

Biri!”

Nuu!”

Alla paradisea bastò un’occhiata ad entrambe le sue “assalitrici”, abbracciate l’una con l’altra, guancia contro guancia, per poter dire con assoluta certezza che erano gemelle.

Avevano gli stessi occhi, la stessa altezza e corporatura, l’unica differenza stava nei capelli differenti non solo per lunghezza ma anche per acconciatura: Biri li aveva lunghi e tenuti ordinati in una coda bassa, a differenza di Ribi, decisamente più sbarazzina della sorella.

Una cosa che però si notava subito era che entrambe possedevano una nota di infantilità che le distinguevano dalle altre.

Chissà come mai non le aveva notate prima?

“Sempre dietro i pettegolezzi piccanti voi, due.”

“Forza, chiedete scusa a Momo-chan.”  

Fu con suo immenso sollievo che la folla radunatau attorno a lei si aprì, lasciando spazio così alle due gemelle di scusarsi in grande stile, chinandosi insieme in segno di scuse.

“Scusa Momo-chan…” dissero le due assumendo un’espressione da cucciole bastonate.

Momo si guardò attorno imbarazzata, non sapendo come reagire, certo l’avevano fatta spaventare di non poco con quelle loro espressioni affamate di informazioni,…uhm… com’era quella parola?

La usava spesso Ace per riferirsi alle bistecche di carne… era… uuh…

Ah, già!

Succulente.

….

Com’era che pensando ad Ace le era venuta una fitta allo stomaco?

Si ricordò con una certa vergogna di essersi dimenticata di Ace, che sicuramente si doveva essere appostato come al solito sul ponte tutta la notte ad aspettarla.

“Momo? Che cos’hai? Momo?”

“Ah..!” sussultò accorgendosi di aver abbassato lo sguardo sul letto, coprendosi il viso con una mano.

Accidenti a lei. Si era dimenticata di rispondere a Ribi e Biri.

N-non è niente.” optò come risposta, sforzando un sorriso sulle labbra.

Ancora non capiva quello che era successo in biblioteca e si sentiva troppo confusa per cercare di lasciar perdere.

Le guance le andarono nuovamente in fiamme al solo sfiorare il ricordo di quanto accaduto istanti prima e, di nuovo, ebbe la penosa sensazione di essere sotto il centro dell’attenzione.

“La smettete di guardarmi per favore?” pigolò con una certa nota di impazienza nelle proprie parole che lasciò senza parole le presenti.

Si buttò con la testa sul cuscino sotto di lei, affondandovi talmente tanto il viso da far scomparire il più piccolo spiraglio di luce dai suoi occhi.

E sì che era una creatura in grado d vedere a giorno nell’oscurità più completa…

La paradisea riconobbe subito il tocco delicato e leggero di Penelope sulla sua testa e, come da copione, i suoi muscoli si rilassarono di riflesso.

C’erano delle volte in cui si chiedeva come mai tra tutte era riuscita ad instaurare un rapporto di fiducia solo con la bionda…, ma, a pensarci, il momento per tornare a simili ragionamenti non era dei migliori.

Il brusio delle macchine presenti nella stanza le diede un po’ di conforto, nonostante fosse ben conscia che, oltre la stoffa inodore del guanciale di cui aveva preso possesso, un intera mandria di infermiere la stavano guardando in attesa.

“Dov’è Satch?” chiese quasi in tono di preghiera.

Non era propriamente giusto chiedere di un amico per deviare un discorso, tuttavia, se ci si pensava attentamente, Satch si incontrava con Ace quasi ogni mattina presto sul ponte, ergo… Ace al momento era quasi sicuramente insieme a Satch, ri-ergo… trovare Satch significava trovare Ace, doppio-ri-ergo… trovando il moro si sarebbe potuta scusare.

Già ma di cosa?

Un formicolio sul collo le fece stringere di più il cuscino.

Ah… bene… perfetto: sensi di colpa amplificati per due.

Scattò in piedi come una molla, dirigendosi all’uscita come una scheggia.

Dove trovare Ace.

 

Atto 17, scena 5

 

Quando Arch aveva visto il rosso distrarsi dal loro scontro non aveva avuto ripensamenti scagliandosi come una scheggia contro il petto nudo dell’altro, puntando uno dei suoi coltelli in avanti come il pungiglione di un’ape.

Ma poi, con sua immensa sorpresa e delusione, quegli occhi da pazzoide si erano puntati di nuovo su di lui, accompagnati da un sorriso bianco e beffardo.

Appeal.”

Sentirsi strattonare dal nulla i coltelli non fu una bella sensazione, tantomeno quando dall’orecchio gli gocciolò del sangue, rendendogli conto quale fosse stato il destino dell’orecchino.

Lo vide luccicare a pochi centimetri dagli stivali del rosso.

 Fu solo per mantenere le apparenze che evitò di strabuzzare gli occhi, dando pieno sfoggio a quel tagliagole e i suoi scagnozzi del proprio sbigottimento.

Come diavolo aveva fatto?

“Sembra che tu abbia finito le munizioni, fatina.”

Approfittò del nomignolo per guardarlo con odio: detestava quel soprannome. Da quel che aveva capito, era un modo per alludere la sua appena accennata mascolinità.

Indietreggiò d’istinto non appena l’altro accennò ad un passo.

Lo strato di sudore sulle sue tempie si fece più fitto, tramutandosi presto in piccole, bastarde gocce.

Era finito alle spalle al muro e, per quanto si stesse scervellando, non riusciva a capire come avesse fatto a disarmarlo con così poca difficoltà.

Che Viola ci avesse azzeccato, pensando di trovare in quell’umano gli effetti collaterali di una Nota marcia?

Un altro passo in avanti. Un altro indietro.

Il suono della voce ringhiosa e strozzata di Viola gli pungolò le orecchie, ma era troppo occupato a pensare a se stesso per rispondere all’istinto di voltarsi ed assicurarsi che fosse ancora viva.

La risata che poi esplose dalla gola tozza del pirata, lanciata al cielo con la testa all’indietro, ebbe il potere di fargli rizzare i capelli fino alle punte, nonostante si trattenne con tutto se stesso dal darlo a vedere.

“Davvero angioletto, mi piaci.”

Per un attimo l’aria della piazza parve bloccarsi. Il brusio degli sgherri del pirata si erano fermati di colpo, così come il suono agghiacciante delle lame meccaniche del biondo mascherato che, il Grande Spirito non volesse, potevano benissimo aver già fatto a fettine Viola.

Lo capì dall’atmosfera che era scesa intorno a loro quanto le parole di quello schifoso dovessero risultare nuove a chi lo conosceva bene, ma sebbene l’istinto di guardarsi intorno fosse grande, non poté far altro che osservare pietrificato il suo avversario rilassarsi visibilmente, sorridendo con quel suo solito modo da iena.

Le spalle di quell’uomo, ai suoi occhi ben visibili nonostante la spessa pelliccia che le ricopriva, si sciolsero a vista d’occhio ed il suo viso, prima aggrottato, benché sempre attraversato da quella ferita larga e tagliente quale era il suo sorriso, aveva assunto dei lineamenti meno marcati e contratti.

Gli venne la nausea dalla rabbia, capendo.

Per lui il loro scontro aveva assunto il significato di un insulso inseguimento tra gatto e topo, arrivato alla sua conclusione con il roditore bloccato in un angolino e, Arch sapeva, che, al momento, il topo era lui.

Senza via di fuga né speranza alcuna, se non pregare in un po’ di pietà da parte del felino.

Eustass Kidd continuò a guardarlo, quasi gustandosi lo sforzo che stava facendo per non dare a vedere il proprio nervosismo.

Poi, inaspettatamente, tornò a parlare.

“Sai, credo di poter fare a meno di ucciderti per oggi.”

A quelle parole Arch sentì i muscoli delle gambe afflosciarsi di colpo e poco ci volle che non cadesse a terra come un mucchio si stracci.

Ormai il suo cervello lottava cercando di rimanere lucido.

Lasciarlo in vita?

Se era un perfido modo di giocare con lui prima di farlo fuori, non era affatto divertente!

Osò sfidarlo un’ultima volta con lo sguardo, ma quello, invece di cogliere a volo la provocazione, restò sereno e pacato dov’era, sempre con quel maledetto sorriso candido.

Kidd.”

La voce cavernosa del pazzoide con le lame vibrò dietro di lui pacata e calma, alle sue orecchie come la promessa di una morte indolore.

“Se lo facessi non mi gusterei affatto il momento…” disse a mo’ di spiegazione, dirigendo da una parte la testa, guardando in alto.

Quella fu l’unica volta in cui il biondo si permise di voltare la testa nella direzione indicata dal pirata.

La vista di quell’oggetto, che da settimane regnava sui suoi incubi peggiori, lo fece cadere in un breve limbo di sconforto, sostituito ben presto da un inferno di rabbia cieca.

Sopra le case dell’isola, troneggiando sui soffi di vento marino con eleganza quasi derisoria, stava il vessillo bianco e blu come la pelle dei morti.

Il simbolo del Mondo.

 

Atto 17, scena 6

 

“Dannata scimmia…” imprecò a denti stretti Ace, fulminando con gli occhi la colpevole del disastro che teneva tra le mani.

Non aveva mai pensato che trattenersi dal dare fuoco ad un’animale, fastidioso ed attaccabrighe, quale era Monster, fosse così faticoso e doloroso. I motivi per i quali stava tenendo duro erano esattamente due: Shanks e Momo.

La ragione per la quale entrambi amassero quella scimmia pulciosa rimaneva oscura a distanza di settimane persino a lui che, comunque, aveva avuto modo di stringere amicizia con la ciurma del Rosso. 

Ma perché poi quella scimmia doveva prendersela sempre con lui? O meglio.. perché doveva per forza attentare al suo cappello??!

Kuso.”

Tra le sue mani il suo adorato copricapo arancione aveva assunto l’apparenza sformata e piatta di un disco.

“Non te la prendere. Vedrai che ci farai l’abitudine.” Disse Satch finendo di aggiustarsi a tempo record il ciuffo, armato di pettine e brillantina, tenuti in tasca in caso di necessità.

Già – pensò Pugno di fuoco, guardando sconsolato il suo amato cappello per poi passare all’amico, che intanto finiva di aggiustare i danni provocati da Monster sulla propria acconciatura – un cappello però non si ripara con la brillantina.

Monster gli aveva assaliti senza motivo.

Ok, non che Monster attaccasse quelli della ciurma solo quando veniva offeso o provocato.

Sarebbe stato un miracolo poter dire il contrario…

Ora, non che volesse di fare di un caso la regola, ma… perché subire lo stesso trattamento di Satch l’aveva fatto sentire come … messo da parte?

Sob. – pensò – La strada per l’infermeria si sta facendo più lunga di quel che pensavo.

Davanti a loro, infatti, l’odiato scimpanzé del rosso ballonzolava fiero delle proprie gesta, battendo mani e piedi in successione con un ghigno animalesco ad ornargli il muso, neanche avesse steso un ammiraglio della marina tutto da solo.

Ace si limitò a scoccargli un’occhiata minacciosa, mostrando all’animale come il polpastrello del suo dito indice prendesse improvvisamente fuoco sotto il suo volere, sperando, per il bene dei suoi rapporti con il Rosso e la Paradisea, che il primate cogliesse al volo l’avvertimento.  

Monster di tutta risposta sbiancò, ma, invece di correre via con la coda pensile tra le chiappe, come aveva immaginato,  iniziò ad emettere versi striduli e grotteschi, e correre, inciampare, saltare, ruzzolare davanti a loro come un indemoniato.

“Ma che…?” sussurrò incredulo Satch, prima di notare, pochi metri più avanti lungo il corridoio qualcosa di fin troppo familiare.

Oh-o.” disse riconoscendo la natura di quell’alone giallo e zampillante che si stava intensificando sempre di più dietro l’angolo del loro percorso.

Guai.

“Ace. Spegni quel dito.” Asserì, sentendosi rigido come una statua.

Il moro seguì il suggerimento d’istinto, nonostante la voglia di provare il suo Higan sul sedere peloso di quella scimmia sfiorasse i limiti dell’ossessione, tutto prima di vedersi apparire di fronte la figura fiammeggiante di Momo, spuntata dal fondo del corridoio con la grazia di un angelo ed arrivata a pochi metri da loro con un balzo quasi istantaneo.

“Scricciolo!” esclamò il biondo battendo Ace sul tempo, guadagnandosi una breve ma intensa occhiataccia.

Quella, di certo non meno entusiasta di rivedere il comandante della quarta flotta, aprì il viso in un sorriso radioso, facendo di conseguenza schiarire considerevolmente le proprie fiamme.

Satch!!” saltellò sul posto la ragazza, trattenendosi dal balzargli addosso per abbracciarlo.

Lei e Satch dovevano rimanere distanti per almeno un mese, come d’accordo e, anche se le sue gambe protestavano, fremendo a quella vera e propria ingiustizia nei confronti suoi e dell’amico, sapeva che la scelta migliore sarebbe stata attenersi ai patti fino all’ultimo per evitare ulteriori complicazioni.

Arrossì, abbassando di poco lo sguardo, facendo finta di guardare Monster aggrappatosi a una sua gamba, invocando rumorosamente il suo aiuto.

Ciao Ace..

 Sentì il moro scattare quasi immediatamente, tornando rumorosamente sui propri passi, senza neanche degnarla di una risposta.

Cosa-?

Quando rialzò la testa l’unica faccia che incontrò fu quella altrettanto incredula del comandante in quarta, fissa su di lei con la mascella cadente.

Sc-cricciolo?” balbettò il biondo alzando a stento una mano per indicare, in modo molto approssimato, il punto che aveva, in neanche mezzo secondo, fatto il danno più grande mai provocato sulla Moby.

Allegra impallidì, capendo in pochissimo tempo dove il dito indice dell’amico stesse puntando: il suo collo, esattamente dove Betty aveva individuato una specie di ematoma.

Ematoma che lei, senza pensarci, non aveva nemmeno coperto, lasciando aperti i primi bottoni del colletto della sua camicetta a righe azzurre.

Oh no..” sospirò portandosi le mani al viso, comprendendo quella che da lì a poco si sarebbe scatenato sulla nave.

Ace!!

Le bastò un salto per bloccare l’avanzata rabbiosa del moro, curandosi ben poco di aver fatto volare via Monster a causa del suo movimento improvviso, ma, se avesse potuto tornare indietro nel tempo, avrebbe volentieri fatto a meno di affrontare direttamente il volto nero ed infuriato del comandante della seconda flotta.

Deglutì. La saliva le si era prosciugata in un istante, lasciandole la gola secca e ruvida.

Gli occhi neri di Ace sembravano nemmeno vederla, quasi la trapassassero da parte a parte, muscolo per muscolo.

Si morse le labbra, trattenendosi dal fuggire via: quello non era il solito Ace.

In quel volto contratto ed assente non c’era traccia del ragazzo gioviale, mangione e a volte distratto che si addormentava in piedi una volta no e cinque sì.

Si ricordò di un’espressione simile incontrata in passato.

Era uguale in tutto e per tutto a quella di Viola quando aveva scoperto che Archetto era un maschio.

Constatarlo non la rassicurò neanche un po’.

Ace. Calmati.”tentò mettendo le mani avanti per fermarlo, ottenendo da parte dell’altro uno sguardo che sembrava tutto fuorché calmo.

Non è successo niente ok? È solo un livido. Nulla di più-

Si fermò nel vedere il volto del moro allungarsi e sciogliersi, stavolta posseduto da qualcosa che, sul momento, non seppe se classificare migliore o peggiore della rabbia.

Assoluta incredulità.

“Livido?” ripeté con voce totalmente piatta il moro, sondando la sua faccia con attenzione, come per cogliere il minimo segno di incertezza o tentennamento che smascherassero in pieno la sua bugia.

Non che Allegra avesse mentito. Credeva fermamente in quello che aveva detto.

D’altro canto sul suo vocabolario decisamente ristretto non esisteva la parola “succhiotto” e Betty non si era nemmeno presa la briga di spiegarglielo.

Per questo, non consapevole della bugia, la paradisea annuì decisa, smontando così sul nascere l’aura furiosa di Pugno di Fuoco.

“Oh.”

Scusami.” Concluse la ragazza serrando gli occhi ed arrossendo sulle guance rosate “Mi sono addormentata in biblioteca e tu sarai certamente rimasto sul ponte tutta la notte ad aspettarmi come al solito…

Fu sollevata di risentire la risata nervosa e sincera del vecchio Ace.

“Già, come un idiota.” Sorrise l’altro, giocherellando coi resti del suo povero cappello per nascondere il proprio imbarazzo.

Maledizione, aveva quasi dato in escandescenze davanti a Momo.

Scusa…

Daaai! Non preoccuparti. Sono stato io a saltare a conclusioni affrettate!” sdrammatizzò facendo vorticare casualmente il copricapo sulla punta di un dito, accentuando le proprie lentiggini con un sorrisone così luminoso da fare invidia al sole.

Sorrise di rimando, pensando a quanto la sua convinzione che lo spirito di Ace urlasse calore da tutti pori si rafforzasse giorno dopo giorno.

“Però..”

Il sorriso le si congelò.

L’atteggiamento del comandante assunse una nota maliziosa che non la fece sentire affatto tranquilla.

“Se proprio ci tieni a scusarti…

Un braccio più muscoloso e di poco più scuro le si avvinghiò attorno alle spalle.

Le sue guance diventarono pallide.

“… avrei una proposta.”

La presa gentile ma decisa si rafforzò appena, proprio quando gli occhi neri di Ace erano talmente vicini da sembrare pozzi neri.

Realizzò di essere stata baciata da Ace solo quando questo era già scattato nella direzione opposta, saltando ed esultando con le braccia al cielo, lasciando come unica traccia della sua presenza accanto a lei il cappello a disco.

Lo raccolse ancora intontita, cominciando poco a poco a stringerlo ai bordi e serrando i denti finché il calore del suo fuoco, ora bianco, non provocò un *POP* improvviso, facendolo tornare al suo aspetto originale.

ACEEE!!!” strillò, gettandosi al suo inseguimento con il viso rosso come un pomodoro.

 

 Atto 17, scena 7

 

L’urlo straziato di una paradisea non era niente paragonato a quello di un Re dei Mari affamato, ma per Arch le differenze erano sempre state minime quando si trattava di Viola.

Quando aveva finalmente deciso di voltarsi in direzione della cugina, convincendosi che rimanere a fissare con odio quella bandiera non avrebbe portato a nulla se non ad altri guai, si maledì per non aver preparato a sufficienza il proprio stomaco.

Completamente aperta su braccia e gambe. Era un miracolo solo rendersi conto che i tagli non erano andati a recidere vene o punti vitali.

Quel maledetto macellaio dal volto coperto era riuscita a colpirla.

Non in profondità, ma a colpirla sì.

A pensarci bene però, mentre se la caricava sulla schiena, subendo impassibile le sue grida nelle orecchie, Viola non era mai stata né veloce né brava a scansare come lui ed Allegra.

Il suo unico talento, a parte l’indole di comando, se si poteva definire tale, era la forza fisica, superiore di almeno dieci volte quella di un normale maschio umano.

Quel pregio però le era completamente inutile se l’avversario era in grado di cogliere i suoi difetti e neutralizzare la sua forza.

Così era stato.

Il macellaio di nome Killer doveva essere un tipo non solo agile, ma anche sveglio e prudente.

Soprattutto prudente.

Passare accanto a Morgan fu la parte più difficile: il peso di Viola sulla schiena gli gravava come non mai, nemmeno fosse stato un masso da 1000 tonnellate, e le gambe gli tremavano a un ritmo preoccupante che seguiva l’accentuarsi della sensazione del sangue di Viola scivolargli lungo la schiena.

Fu un miracolo se riuscì a chinarsi in avanti, accostando un orecchio al muso squamoso di Morgan, cogliendone con sollievo il respiro che odorava di legno grezzo.

“Guarda guarda,… allora non sei solo parole, fatina.”

Evitò di guardare il pirata di nome Kidd, mentre, rimessosi in piedi, tornava dai propri pugnali, ancora abbandonati a terra assieme all’orecchino.

“E tu non sei così pazzo come credevo all’inizio.” Affermò, calciando in aria il primo dei suoi coltelli per poi afferrarlo con la bocca, stringendone il manico tra i denti.

Quell’affermazione lasciò il rosso confuso, tanto che, un po’ per curiosità e un po’ per sadismo, lo incalzò con una altra domanda.

“Ovvero?”

Recuperato il secondo pugnale allo stesso modo del primo, si concesse di scoccargli uno sguardo pieno di significato.

Eustass Kidd sorrideva come sempre.

Riuscì a liberarsi le labbra dai propri pugnali riuscendo, con gesti rapidi e precisi, a levarseli con una mano ed infilarli nelle fondine sotto il gilet, tornando in poco tempo a reggere la cugina.

“Stai interrompendo il massacro mio e di Viola per scappare da quello.” Affermò, riferendosi alla bandiera in quel momento alle sue spalle.

“Ammetto di averti scambiato per un idiota.”

“Quindi hai già avuto a che fare con la Marina.”

Le parole di Killer ebbero il potere di bloccarlo mentre tornava da Morgan.

“Una volta è stata abbastanza.” Rispose lugubre, prima di tornare dal bambino, poco a poco tramutatosi alla propria forma originale.

Kidd scambiò un’occhiata d’intesa con il proprio vice, non riuscendo a capire altro da quella risposta più arida di un deserto, almeno per i loro gusti.

Lo osservarono chinarsi sul bambino, certamente detentore di un Frutto del Diavolo, cominciando a chiamarlo e stuzzicarlo con un ginocchio per riportarlo alla realtà.

“Morgan. Svegliati, dobbiamo andarcene.” Disse con voce ferma, nonostante fosse palese quanto si sentisse stanco.

Il bambino ci mise poco a cercare di raddrizzarsi sulle gambe tremolanti, ma, tempo di focalizzare le condizioni della persona sulle spalle del biondo, il terrore gli riempì nuovamente gli occhi, ributtandolo a terra per lo sconforto.

“S-s-s-s-signorina…!” sussurrò a voce tremolante con le lacrime agli occhi. “Signor Arch! V-v-..!”

“Sbrighiamoci a tornare alla nave.” Sentenziò il ragazzo senza troppi preamboli, rialzandosi di nuovo e cominciando a camminare in direzione del molo, dove-...

Morgan si stupì di vedere il signor Arch bloccarsi sui propri passi, ma il suo pensiero fu presto rivolto ad altro quando la risata grottesca di quel demone rosso esplose dietro di loro, facendolo sobbalzare ed aggrappare ai pantaloni del biondo.

D’altro canto Arch sembrò non aver sentito la voce del pirata, troppo occupato a darsi dello stupido per aver realizzato solo in un secondo momento un dettaglio fondamentale.

“Che c’è fatina?” fu la domanda ironica di Kidd, accentuata dai versi divertiti della sa ciurma, tutta presa dal gustarsi lo spettacolo.

“Non dirmi che hai ormeggiato la tua barca proprio al molo.” Terminò il capitano, sentendosi il petto gonfiarsi di trionfo, vedendo le spalle di quel biondino effeminato tremare sotto i peso della sconfitta.

Arch non rispose.

Si limitò a guardare l’ostacolo che separava lui, Morgan e Viola da una rapida fuga.

La stessa odiata bandiera, situata esattamente dove stava il molo principale.

Lo stesso posto dove aveva ormeggiato la Clara.

 

 

Fine prima parte Atto Diciassettesimo

 

EEEeeeeee…?

*cri-criii*

Spero vivamente che la desolazione non sia una conseguenza permanente del mio periodo difficile.

Cmq bentornate donne e… uomini?

Uhm… idea!

Visto che sono tornata voglio fare una domanda personale a tutti i miei lettori e recensori:

1)      Siete maschio o femmina?

Lo ammetto una cavolata più grande di questa non c’era, ma se non le faccio non sono io XD

Domande specifiche per ora non le ho. Solo una scheda personaggio qui sotto ed un bel disegno di Momo da parte di una lettrice! ^^ (che avresti dovuto postare nello scorso capitolo Nd Momo)

Chiedo scuuuusaaaaa!!!

Alla prossima kisskiss

PS l’atto era troppo lungo e quindi l’ho diviso per il bene di chi vuole leggere al più presto la continuazione! Ciaaoooo!!!

 

 

 

 

File #001: Amaterasu Ryogan

Amaterasu Ryogan, padrone indiscusso dell’isola del nuovo mondo, Inari Fountain, detto Signore dei Demoni. La sua taglia è una delle più alte del Nuovo Mondo, ma nonostante questo la Marina non mobilita più le proprie forze per catturarlo da alcuni anni, nonostante sia risaputo che ha residenza fissa sull’isola da lui presieduta.

Amaterasu Ryogan, personaggio di dubbia sessualità, è temuto dalla maggior parte dei pirati che abbiano avuto la sfortuna di incontrarlo o sentir parlare di lui, fatta eccezione per i 4 imperatori, a causa della sua pessima abitudine di “collezionare ed elaborare” uomini e creature delle specie più rare.

È conosciuto come alleato ufficiale di Barbabianca, ma permette a chiunque di mettere piede sulla propria isola, a patto che sia in grado di uscirne da solo.

 

 Lo so lo so, i capelli dovrebbero essere neri….

 

 

E DA PARTE DI NOEMIIIII!!!!

MOMO! ^^

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È CARINISSIMA! L'HO MESSA COSì SOLO PERCHè NON POTEVO METTERLA PER INTERO NELLA PAGINA ALTRIMENTI NON SISAREBBE CARICATA MAI PIù! X3

 

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Capitolo 22
*** Atto 17 -seconda parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 17 –parte seconda-

Atto 17, scena 8

Gli occhi scuri di Kidd si voltarono per un ultimo intenso istante sulle figure girate e penosamente immobili dei tre novellini.

Dopo aver convenuto che le risate erano state abbastanza per la giornata, aveva dato ordine alla sua ciurma di levare tende e culi alla volta del nascondiglio della nave, ma, appena dato aria alla bocca, aveva come sentito qualcosa pungolargli la schiena, costringendolo suo malgrado a lanciare quell’ultima occhiata piena di pensieri e domande.

Non era un gruppetto che si vedeva viaggiare tutti i giorni per la Grand Line quello, almeno non così piccolo ed agguerrito.

Sconclusionato. Disorganizzato. Spaesato. Ed agguerrito.

Sembravano delle toppe prese a caso e ricucite alla bene e meglio per essere spacciate per tessuto.

Ciò che però gli aveva dato veramente da pensare, ripensò lasciando scorrere gli occhi sulla schiena tremolante e piegata rigidamente sulle spalle di Arch, era stata la ragazza.

Un bocconcino prelibato come pochi, Kidd doveva ammetterlo.

Forte e rozza come un uomo ma sinuosa ed appariscente come il più pericoloso dei fiori velenosi della Grand Line.

Tuttavia…

Si accigliò impercettibilmente.

Le era parsa tremendamente confusa, così come il suo compagno.

Il mocciosetto era un’altra questione. Aveva riconosciuto nei suoi lineamenti contratti dallo spavento quelli del mare orientale, quindi c’era poco da dire.

Per Arch e Viola, invece, aveva percepito appena un senso di inadeguatezza di fronte alle sue capacità, ma allo stesso tempo un lieve consapevolezza di quello che era.

Bha. Che ragionamenti astrusi. Forse doveva aumentare la dose di rhum giornaliero.

Quella donna, Viola, però, aveva certamente ottenuto parte del suo rispetto, come anche il suo amichetto di nome Arch, del resto.

Era risoluta, sfacciata e sconsiderata e, nonostante gli insulti e le occhiate sfrontate ricevute da lei, quella stangona era riuscito a mandargli il sangue al cervello come poche donne pirata sulla piazza.

Il carattere era quello giusto e il fisico non era da meno.

Certo, aveva adocchiato con una certa curiosità i lineamenti femminei di Arch, ma una cosa era una figura acerba ed androgina di un ragazzino, un’altra era il prorompente ed armonioso fisico di una donna.

E soprattutto…

Si concentrò un po’ più in giù.

Che gambe.

Si riscosse in fretta alla voce del suo vice.

Kidd…” rimbombò la voce del Massacratore “Sei distratto.”

Fece le spallucce.

“Torniamo alla nave, prima che quei bastardi ci siano addosso.”

“ASPETTA!!!”

La voce della Sollevapesi aveva sovrastato la piazza come il boato di un colpo di cannone, bloccando tutta la ciurma.

Quando Kidd si voltò, incredulo, ritrovò la propria espressione scolpita sui volti dei due ragazzi che l’accompagnavano, uno girato di lato con la testa torta al limite del possibile, con gli occhi cobalto tanto sbarrati da sembrare tondi, l’altro con le manine sulla bocca tremante, forse più per la vista di troppe ferite tutte insieme che per il grido.

Viola…” disse Angelo Infido a denti stretti, recuperando un poco di contegno perduto, per poi sussurrarle qualcosa a loro incomprensibile.

Di tutta risposta l’argentata scatto con la testa, con una movenza straordinariamente simile a quella di un cobra che ondeggia e carica in avanti in segno di avvertimento, costringendo le sue labbra ad un bisbiglio rabbioso nelle orecchie del biondo.

Killer giurò di vedere il volto del ragazzo rabbuiarsi un pochino, chinando ad ogni parola della compagna un po’ di più la testa, sconfitto.

Sospirando lo vide avvicinarsi a loro, con grande disappunto del bambino, il quale si era inchiodato dov’era per la paura.

Abbastanza vicini da poter vedere il groviglio argentato della Sollevapesi incrostato di sangue, i pirati di Kidd ascoltarono rapiti i grugniti della ragazza diventare pezzi di frase rantolati nel petto e vomitate di getto con pause pesanti che sembravano pressarle il petto come un masso.

“Voglio sapere…uuugh Come… l’incudine..UGH.”

Kidd era abituato alla vista del sangue. Non era una cosa nuova per lui portare a un soffio dal trapasso completi sconosciuti, ma non si era mai fermato ad osservare una persona agonizzare e soprattutto respirare dopo aver avuto un frontale con le lame del suo vice.

Che Killer stesse perdendo colpi o che si fosse ammorbidito era fuori questione.

Conosceva il Massacratore da anni e non si era mai lasciato ammansire né da lacrime né tantomeno da un paio di bei seni.

Quando si trattava di uccidere Killer uccideva. Punto e basta.

Che non ci riuscisse poi… era un altro paio di maniche.

Sotto il peso della ragazza Arch sembrava letteralmente soffrire mentre ascoltava nelle orecchie i gemiti della compagna e sopportava in silenzio le sue unghie nella spalla, piantate senza pietà nella carne come artigli.

“Viola..” cercò di richiamarla.

“Zitto Arch…coof..!”

“Perdi troppo sangue. Fai. Parlare. Me.”

“NO..”

Il loro rapido battibecco fu bloccato, incredibilmente, dalla vocina tremolante di Morgan, avvicinatosi con molta cautela alle gambe di Arch, guardando con gli occhi neri e pieni di apprensione la ragazza.

Signorina…” deglutì il bambino facendo finta di non avvertire gli sguardi di tutti su di sé, cosa che non gli riuscì neanche un po’.

“S-s-s-s-s-s-si r-r-r-r-rif-ferisce a q-quando..?”

Un ringhio particolarmente basso e minaccioso dissolse in un istante tutte le incertezze del piccolino, facendolo irrigidire.

“Quandoquell’incudinecièarrivataaddossodallapiazzaequandolaspadacheavevatelanciatoètornata?” 

Le parole erano state lasciate fluire a velocità strabiliante, tanto che Kidd quasi spalancò la bocca sconvolto.

Avrebbe ordinato al mocciosetto di ripetere, se i suoi occhi scuri non l’avessero trafitto, implorandolo con sguardo da cucciolo di non intervenire.

Non aveva nemmeno notato che Viola, con un lieve cenno della testa, aveva risposto affermativamente a Morgan, permettendogli di continuare per lei il discorso.

S-signore. A-vete mangiato un frutto, c-come me?”

 

Archetto era sbalordito.

Morgan aveva intuito completamente da solo che tra lui e il pirata sanguinario ci potesse essere una connessione.

Quasi non ci credeva.

Lo vide ciondolare incerto quando il sorriso animalesco di Kidd si scoprì appena, scoprendo un accenno della bianca dentatura in un’espressione vagamente soddisfatta.

Sarebbe bastata quella come risposta, ma lo stesso aspettò a fiato sospeso che le parole sottolineassero il significato del ghigno.

Forse fu proprio per quello che Arch si accorse con qualche istante di ritardo del sibilo tagliente che per poco gli colpì una coscia.

Si stupì di sentire ancora propri i movimenti delle gambe, riuscendo, nella percezione del pericolo, a scansarsi ed intercettare con lo sguardo l’oggetto che l’aveva minacciato.

Nella furia del suo movimento evasivo la sua mente elaborò l’immagine di un anello, un cerchio tagliente, una lama ricurva su se stessa, collegata da un filo luminoso tanto sottile da sembrare quello di una ragnatela.

Non ci voleva un genio a capire che dall’altro capo di quel filo c’era l’aggressore.

La sua mano roteò agilmente uno dei suoi pugnali, estraendolo da sotto i gilet e recise quella fibra sottile con un movimento secco del braccio.

Il tintinnio di quell’oggetto all’apparenza innocuo lo riportò a guardare la ciurma di pirati, stavolta non più sorridenti, ma più prossimi a lasciar cadere le mascelle a terra.

Arch sapeva di risultare velocissimo agli altri quando i suoi riflessi entravano in gioco, per questo non si sentì minimamente a disagio sotto quegli sguardi.

Un’imprecazione lontana gli rese nota in maniera approssimata la posizione del nemico: attorno a loro non c’era anima viva e l’oggetto scagliatogli contro era senza dubbio un’arma a distanza. Doveva trovarsi almeno a 200 metri rispetto alla piazza, quindi, c’era poco tempo per le chiacchiere.

Strinse con più forza le ginocchia nude e spaccate di Viola, provocando, suo malgrado, un lamento rabbioso da parte sua.

Si voltò, incontrando il volto duro del pirata.

Sapeva che quella decisione, presa di getto, gli avrebbe portati nella peggiore delle ipotesi alla fossa, ma non c’era altra via d’uscita. La Clara era ostaggio di quei mostri e, se non era stata già distrutta per precauzione, riprenderne possesso sarebbe stato impossibile.

“Uh?” fece il rosso vedendoselo più vicino, tanto da poterne avvertire il respiro accanto all’orecchio.

Quello che gli sussurrò quel biondo gli pompò in una sola volta più sangue del solito.

Sbalordito sondò la sua espressione, pronto a scagliarglisi addosso semmai quella appena udita fosse stata una colossale stronzata.

Quegli occhi sottili e blu come un fondale marino continuavano a scrutarlo in attesa di una risposta, perfettamente immobili e calmi.

Le sue labbra dipinte si stirarono, quasi sparendo, assorbite dalla linea della bocca.

La fatina sapeva il fatto suo.

 

Atto 17, scena 9

 

Oooh!” lamentò Jango osservando, attraverso le lenti violacee, il filo semitrasparente afflosciarsi a terra come un serpente decapitato.

Dannazioneee!”

Tse’! Ben ti sta quattrocchi.” Sghignazzò nemmeno tanto di nascosto Fullbody, lisciandosi in previsione di uno scontro le nocche chiodate.

Attraverso gli occhiali a cuore l’Ipnotizzatore mandò scintille di rabbia verso il rivale. Benchè fossero entrambe delle reclute, proprio non riuscivano a starsi simpatici a vicenda.

E il motivo era solo uno…

Piantatela…” ordinò il loro amato superiore espirando con un soffio veloce ed irritato una nuvola di nicotina, trattenendo il filtro della sigaretta tra i denti bianchi, e loro, si misero immediatamente sull’attenti, ansiosi di compiacere il comandante Hina.

Questa non si preoccupò minimamente della condotta di quei due e, con lo sguardo corrucciato per la piega che il loro attacco stava lentamente prendendo, afferrò il lumacofono bianco e blu.

“Squadra 16 a rapporto.” Scandì sinteticamente, svegliando di colpo l’espressione annoiata della lumaca da comunicazione che assunse in poco tempo la voce del subalterno incaricato di osservare la reazione dei pirati dai tetti.

“Squadra 16 in ascolto s-signora. L’a-attacco d’avanscoperta della recluta è…

“Lo so benissimo, soldato.” Precisò impaziente la donna, stringendo con più forza le labbra sulla cicca.

“Voglio i fatti. Ora.” Concluse, ben sapendo di aver fatto andare quasi in panico il marine con il proprio tono di voce.

A-angelo Infido, ha scansato il colpo senza nemmeno vederlo e…

“E.?” picchiettò con insistenza sul lumacofono.

“E si sta allontanando insieme ad Eustass Kidd!”

Quasi le venne da grugnire di rabbia: che ci faceva quel pirata sull’isola??

Dannazione. Non aveva uomini a sufficienza per affrontare lui e quella banda di tagliagole! Che ci facevano quei due delinquenti di poco conto in compagnia di un simile individuo di spicco tra le nuove leve della pirateria?!

“Viola Sollevapesi?” si affrettò a chiedere, sentendo dentro montare un bisogno crescente di trovare una spiegazione a tutto quello.

“È ferita e sembra che non riesca a muoversi. Il suo compagno la tiene in spalla.” Rispose senza più indugi il soldato.

“E il bambino?” fece ancora, avvicinandosi con più foga al muso viscido della lumaca. Aveva ricevuto delle notizie riguardo ad un bambino insieme a quei due criminali ed era stato solo per quello che aveva optato per un approccio più delicato e strategico. In un attacco diretto il bambino, semmai fosse stato presente, avrebbe potuto essere ferito.

I suoi superiori erano stati chiari sull’arrestare tutti coloro che fossero stati trovati in compagnia di Angelo Infido e Sollevapesi, ma, anche a costo di essere incolpata di mollezza per il fatto di essere una donna, avrebbe assicurato al piccolo qualcosa di meno drastico di una cella ad Impel Down.

Non sopportava i criminali, ma nemmeno quei fanatici pronti a mandare all’inferno anche un innocente per dettagli insignificanti.

“Sembrerebbe un’orientale signora.”

Aveva visto giusto, quindi.

Dannati vigliacchi. Farsi scudo di un bambino era imperdonabile.

“Le sue condizioni?”

“Non è ferito e sembra preoccupato per la ragazza, signora. Non sembra che lo stiano costringendo.”

Quelle parole, vagamente insinuanti, le fecero salire la rabbia alla gola e soffrì nel ricacciare giù la voce.

“Le apparenze possono ingannare, soldato.”  

E lì chiuse la conversazione.

Si concesse un momento per respirare profondamente, passandosi una mano guantata tra le lunghe ciocche rosate.

Che doveva fare? Quella domanda le rimbombava nella testa.

Il loro equipaggiamento non era sufficiente a resistere alla ciurma di EustassCaptainKidd, ma non poteva lasciare che quei due se la svignassero in quel modo, portandosi dietro il bambino come se nulla fosse.

L’unica cosa che le sembrava sensata era ritirarsi ed aspettare che si separassero dal pirata.

Inconsciamente si ritrovò a scrocchiarsi le nocche.

Lei, purtroppo, non era mai stato tipo da urlare ritirata così facilmente.

Con un movimento rapido della mano, passò il lumacofono a Fullbody, iniziando a dirigersi verso la piazza a grandi passi.

“Riferisci a tutte le unità di radunarsi alla nave e di tenersi pronti a salpare.”

C-comandante?” esclamò incredulo Jango.

“Io vado a caccia di pirati.”

Sorrise con la sigaretta ormai ridotta in cenere.

“Non mi va di lasciarli strisciare via così.”

 

Atto 17, scena 10, Marineford

 

“Io sarei cosa, Sakazuki?” lo sfidò Clarina, seria come mai era stata in vita sua, osservando l’Ammiraglio davanti a sé come si dovrebbe guardare ad uno scarafaggio, solo che, a confronto, uno di quegli insettini avrebbe anche avuto più dignità dell’uomo che le stava di fronte.

Non aveva più bisogno di trattenersi ormai. L’aveva letta negli occhi di Sakazuki la consapevolezza di quello che era e se avesse anche solo per un istante cincischiato non sarebbe più potuta tornare indietro.

Allungò ancora una volta la mano, stavolta a nemmeno un metro dal volto dell’uomo.

“La Nota.” Sibilò quasi, lanciando la propria essenza nei timpani del marine.

Questo scattò all’indietro non appena la donna ebbe aperto bocca, portandosi di scatto le mani alle orecchie, come se quelle due semplici parole vi fossero penetrate all’interno come tanti piccoli aghi sottili.

Qualcosa di intangibile e denso ricoprì per un istante il corpo della paradisea, facendole fluttuare i capelli bruciacchiati in aria, prima di esplodere in tante fiamme bianche come la neve, avvolte come un mantello di piume attorno al petto, braccia e testa.

Adesso!!

Qualsiasi cosa stesse pensando Akainu, non ci fu modo di conoscerlo.

Quell’ultimo urlo, quella parola ultima scandita con calma, fermezza e chiarezza da quella bocca che aveva baciato per mesi, si scagliò in aria, sferzandolo come una frusta, anzi, mille, causandogli un dolore tanto acuto da rendergli impossibile anche emettere il più piccolo singulto.

Koby ed Hermeppo non seppero cosa pensare quando, dopo aver visto l’Ammiraglio Akainu, ritenuto da tutti imbattibile, irrigidirsi come una pietra, tendersi e poi crollare a terra di schiena, videro dalle sue orecchie scivolare qualcosa di terribilmente simile a sangue.

Una risata appena sussurrata rischiarì l’aria, portando via un po’ di tensione.

Clarina Sassonia si era spenta così come si era accesa, mostrando finalmente gli effetti di quegli stranissimi attimi.

Il volto tirato in un sorriso stanco e sollevato, gli occhi tristi e la fronte grondante di sudore.

Sembrava letteralmente sconvolta, tralasciando il fatto che della sua bellissima chioma bionda si sarebbero salvati sì e no pochi centimetri.

O-ops.” Balbettò sforzando di regalare loro un sorriso “Temo di essere un tantino arrugginita.”

Vederla rischiare di crollare a terra fece scattare loro le gambe, portandoli immediatamente accanto a lei, sorreggendola per le braccia.

Clarina!!” esclamò Koby, cercando gli occhi cobalto della donna. Inorridì notando delle profonde occhiate, assenti pochi istanti prima, solcarle gli zigomi.

“Sto bene.” Rantolò quella, alzando le mani come per rassicurarli, ma si vedeva lontano un miglio che era esausta e che sarebbe svenuta in poco tempo.

“Cercate la Nota.”

Hermeppo imprecò a denti stretti. Possibile che quella donna aveva in mente una cosa sola?

Dovevano andarsene e in fretta! Se qualcuno gli avesse visti in quella situazione sarebbero stati guai seri!

Senza perdere tempo il biondi si gettò addosso all’ammiraglio, sotto gli occhi strabuzzanti del compagno, iniziando a frugare.

H-hermeppo-san?” balbettò incredulo l’occhialuto.

“Zitto! Mi distrai!” gli urlò l’altro con il naso che gli colava a fiotti tanto era nervoso, tastando nervosamente ogni parte di quei lussuosi vestiti bianchi con reverenziale fretta, tremando al solo pensiero che il Cane Rosso potesse risvegliarsi di soprassalto e bloccarlo in flagrante.

Bastò poco, comunque, e il piccolo mandarino azzurro venne portato alla luce.

“È questa??!!” domandò al limite il biondo, mostrandola alla donna con impazienza.

La paradisea ci mise un po’ a realizzare il tutto.

Le sue labbra si tesero in un sorriso radioso e le lacrime le solcarono brevemente le guance.

“Sì..!”

Perse conoscenza sentendo il proprio corpo venire sollevato.

 

Atto 17, scena 11

 

Camminando alla volta della Hell Glory, Eustass Kidd non staccò mai gli occhi da Arch Angelo Infido, ammirando con un certo sadismo corpose gocce di sudore solcargli il collo da cigno mentre correva quasi allo stesso ritmo di Killer, come sempre al suo fianco mentre capeggiava la ciurma nella loro frettolosa parata di ritorno che gli avrebbe condotti alla nave.

Poco più indietro, silenzioso come pochi marmocchi, il bambino-lucertola seguiva arrancando il biondo, lanciando occhiate febbrili a Viola Sollevapesi, mollemente abbandonata sulle spalle del compagno, ormai più morta che viva.

I suoi occhi però si erano fissati sul volto del biondo nonostante fossero impegnati in una fuga in piena regola.

Il ricordo di quello che gli aveva sussurrato all’orecchio ancora gli solleticava il collo, mettendolo impedendogli di smettere di pensarci per più di pochi secondi senza ritornare a squadrarlo.

-Veniamo dal Nuovo Mondo.-

Sentirselo dire era stato l’equivalente di mille e più piccole scosse elettriche lungo la schiena.

Santo Roger, chi mai ci avrebbe pensato? Dei ragazzini  sperduti provenienti dal Nuovo Mondo che chiedevano aiuto a lui! Proprio lui!

Se ne avesse avuto il tempo, si sarebbe messo a ridere a crepapelle.

Prima trovava due novellini succulenti per alleviare la noia di quel monotono sputo di terra galleggiante, poi riusciva a trascinarseli sulla nave, guadagnando non solo due deliziosi espedienti per serate particolarmente noiose, ma anche due possibili guide funzionali alla conquista del mondo oltre la grande Linea Rossa!

Era tanto incredibile che per un attimo le sue labbra si smollarono, scivolando all’ingiù.

Troppo semplice. Chi gli diceva che l’angioletto non avesse semplicemente inventato una rapida balla, solo per assicurarsi un piccolo vantaggio verso la Marina, ormai incollata alle loro chiappe come cozze su uno scoglio?

Per un istante Kidd sentì l’irrefrenabile impulso di ringhiare contro se stesso e sferrare un cazzotto volante a quel piccolo diavolo, ma non lo fece, imponendosi la calma come se fosse stato olio di ricino viscoso e puzzolente.

Non era tempo per i suoi mirabolanti e teatrali colpi di testa. Avrebbe avuto tempo sulla nave per approfondire la questione e agire di conseguenza.

Se però il biondino si fosse rivelato un bugiardo, avrebbe fatto meglio a nascondere qualcosa di meglio di un paio di coltellini arrugginiti sotto la maglietta.

Per un istante ritrovò le iridi del ragazzino rispondergli direttamente, quasi, intuendo il suo sguardo, avesse finalmente deciso di affrontarlo, stanco di sentirsi pungolato continuamente.

Gli lanciò uno dei suoi soliti sorrisi e si girò, continuando a correre.

“Fermi!”

E il respiro gli si mozzò in gola.

Tutta la ciurma, come un'unica entità, si bloccò di colpo dietro di lui, imitandolo.

Non furono necessari scambi di parole inutili, conosceva già l’identità di quella strega, che con certo autocompiacimento si era parata di fronte a loro, mani guantate sui fianchi e giacca bianca posato a regola d’arte sulle spalle.

Hina Gabbia Nera.

“Felice di rivedermi, Kidd?”

Il capitano magnete sorrise largamente per dissimulare il proprio scontento. Come dimenticarla! Quel dannatissimo Capitano di Vascello era stata una delle sue peggiori spine nel fianco all’inizio della sua carriera! Sarebbe stato un insulto dimenticarsene!

“Ma tu guarda chi si vede…” esclamò ironico, manifestando nella postura tutta la propria disinvoltura e indifferenza nei confronti della marine. La cosa, a giudicare dalle sopracciglia inarcate della donna, parve non essere gradita, assumendo lo stesso effetto della benzina gettata sul fuoco.

“Non credevo di avere spasimanti anche tra i berretti bianchi. E mi hai seguito fin qui? Che carina.”

Killer l’avrebbe ammazzato se il luogo e le circostanze fossero state diverse. Non aveva mai potuto soffrire quel suo viziaccio di stuzzicare chiunque gli stesse di fronte, specie quando la priorità era rivolta al raggiungimento della nave.

Si aspettava l’occhiata fredda e tagliente della donna.

“Risparmia il fiato, Kidd.” Gli intimò quella “Sono venuta per Angelo infido e la Sollevapesi.”

Inarcò un sopracciglio, sorpreso da quella piccola ed inaspettata svolta. La Gabbia Nera che seguiva due pesci piccoli? Che diavolo aveva combinato per meritarsi un incarico del genere?

Oooh. Hai fatto la bambina cattiva quindi.” Sghignazzò allusivo, sperando di potersi gustare l’espressione furente della marine, ma la donna rimase stoicamente fissa su di lui.

“Consegnameli e mi limiterò a spedirti ad Impel Down con tutte le ossa a posto.”

Quell’ultima frase gli distrusse il sorriso che si era stampato in faccia.

Tsè! Non c’era divertimento con quella donna! Poteva essere bella come un fiore quanto voleva, ma rimaneva sempre la solita frigida.

Pensare che le prime volte Hina non faceva che stargli alle costole come un pesce pulitore sul ventre dello squalo, gli fece salire alla mente un dubbio.

Girò il collo quel tanto che bastò per lanciare un’occhiatina all’indietro.

Arch era impietrito. Continuava a guardare la donna davanti a sé, trattenendo testardamente Viola sulle spalle.

Perché Hina avrebbe dovuto occuparsi di quei due? Erano davvero due viaggiatori di ritorno dal Nuovo Mondo o solo un paio di piantagrane di cui il Governo Mondiale voleva sbarazzarsi senza troppi pensieri?

Hina non era un tipo da prendere alla leggera, ma, a dispetto del suo valore di combattente, era proprio come quegli idioti che la seguivano sbavandole dietro: ubbidiente ed abituata a fare poche domande.

E se fosse stato proprio per quello che avevano mandato Hina?

Sarebbe stata perfetta per un incarico di apparente poco conto.

Bah. Pensava troppo.

“Non credo di volerteli dare.”

Come gli fosse uscita una frase del genere non lo seppe neanche lui, ma l’effetto che ebbe e sulla marine e sui membri della sua ciurma non gli dispiacque affatto.

“Anzi..” continuò, deliziandosi del silenzio sceso attorno a lui, avvolgendolo completamente come una rara pelliccia “… non mi va proprio.”

Le labbra dipinte della donna si storsero in un sorriso.

“Peggio per te…

Lo scatto che le braccia di Hina compirono in avanti, unendosi come nell’atto di afferrare una fune, fu velocissimo, così come l’urlo terrorizzato di Arch.

“NO!”

AWASE BAORI!

Due lunghe strisce di metallo si allagarono come fruste, seguendo il movimento che la donna aveva compiuto, aprendole di scatto, facendo crescere come rami aste verticali rivolte verso il terreno.

Kidd guardò un po’ scocciato un’enorme gabbia chiudersi in cerchio attorno a loro.

Caspita, si era evoluta la signorina…

L’ultima volta quel trucchetto non l’aveva usato…

“Che cosa pensi di fare?” sogghignò, guardandola dinanzi a sé mentre, a braccia spalancate, chiudeva quella fila di metallo con il suo corpo esile.

“Catturerò chiunque proverà a passarmi sopra.” Gli rispose quella, sorridendo certa della propria vittoria.

“Oh davvero?” la schernì malizioso.

Un altro movimento degli arti e la gabbia, graffiando la strada con un frastuono assordante, cominciò a richiudersi a libro.

Repel  

 Nell’aria si levarono urli e imprecazioni diretti verso di lui, mentre i tentacoli di metallo venivano rigettati all’indietro dall’onda d’urto provocata dall’improvviso cambio di stato del suo intero corpo.

Ridacchiò sentendosi dare del “fottuto idiota” da un paio dei suoi, ritrovatisi a causa della sua trovata geniale a fare i conti con le loro stesse armi respinte lontano dal suo potere con così tanta potenza da trascinarli all’indietro per un bel po’ di metri.

Sghignazzò verso i suoi in una muta richiesta di scusa, dopo essersi goduto brevemente la vista di Hina stesa a terra ed impossibilitata dal muoversi a causa del peso della sua stessa mossa.

Ebbe il tempo di verificare quante delle sue borchie fossero andate perdute, bestemmiando di conseguenza verso i Cinque Astri e le loro fottute facce, prima che una serie di urli agghiaccianti riempisse la strada.

Riconobbe immediatamente la voce e seppe subito dove rivolgere il proprio sguardo.

Arch Angelo Infido e Morgan stavano accanto a Viola, riversa a terra sporca di polvere e sangue sulle gambe e con la gola spalancata in una serie di ringhi doloranti che di umano perdevano ad ogni grido.

Tutti i suoi, persino Killer, si fermarono agghiacciati a guardarla: i capelli che disordinati le nascondevano il viso, le braccia e le gambe arricciate e spaccate su più punti, la schiena scossa da tremiti continui.

Dalle sue gambe, allungandosi come una scia sulla trama rugosa della strada, partivano dei segni di sangue, sicuramente provocati dal suo cadere ed essere trascinata per terra, sicuramente ancora sulle spalle di Arch.

Il biondo doveva aver perso l’equilibrio, preso alla sprovvista dalla forza che doveva aver animato i suoi coltelli, portandolo a sbilanciarsi all’indietro.

“Viola!”

Nonostante i richiami del biondo, le urla continuarono, facendosi anzi più alte.

In casi come quello Kidd avrebbe fatto presto a risolvere la situazione. Un colpo di pistola e dritti verso la nave. Finiti i problemi.

Eppure non riuscì a muoversi di un millimetro. Limitandosi a guardare la scena a mascella lenta.

C’era qualcosa di innaturale in quella reazione. Era inverosimile, alla stregua del sovrannaturale. Era abituato a vedere gente massacrata rannicchiarsi e urlare, implorare e imprecare, prima di raggiungere la pace del trapasso.

Ma quello, quello aveva qualcosa di diverso.

Viola urlava. Urlava come se la sua vita dipendesse da quello e la sua voce, invece di affievolirsi per la mancanza di energia, provocata dalla perdita di sangue, aumentava di istante in istante, diventando presto impossibile da ascoltare. Era incredibile.

Presto tutti quanti, lui compreso, si coprirono le orecchie, chiedendosi quando avrebbe avuto fine quello strazio.

“Viola!!!”

Arch continuò a chiamarla, arrivando a metterla seduta, passandole una mano sotto un braccio e l’altra sotto la schiena, premendole infine la testa sul suo petto. Era terrorizzato, si vedeva lontano un miglio. Il modo in cui teneva occhi e denti stretti era inequivocabile.

Cosa gli faceva così paura?

Quel gesto però, invece di soffocare le urla della ragazza, non fecero che agitarla ancor di più, mettendolo alle prese con le unghie di lei, presa dalla furia cieca di allontanarlo anche a costo di squartargli il viso a suon di graffi.

“Viola!!! Stai calma!!!! Non metterti ad urlare!!!!”

Quelle parole dal suono disperato portarono Kidd ad un unico pensiero:

Non urlare? E che cosa stava facendo secondo lui? Canticchiando?

Non gridare!!

Eustass non riuscì a preoccuparsi dell’ultima incomprensibile frase del biondo.

Fu troppo impegnato a coprirsi le entrambe orecchie, piegandosi in due per il dolore quando un trillo acuto fendé l’aria, spaccando tutte le finestre circostanti in tanti piccoli pezzi di vetro.

Sbigottito e con un dolore lancinante a pizzicargli i timpani, il pirata rosso riaprì gli occhi.

Il collo di Viola era inarcato all’indietro e la bocca, protesa verso il cielo ed ansimante per lo sforzo compiuto, era ancora aperta nell’atto di gridare proprio sotto lo sguardo impotente di Arch, in quel momento bianco come un cencio.

La tranquillità del momento era stranamente pesante e nessuno osò dire una parola.

Kidd non poteva crederci. Era quello un normale urlo della Sollevapesi?

Per Roger … Che diavolo era successo?

Scappate…

Ci fu un istante i cui nemmeno Morgan, proprio vicino al biondo e con la testa intontita da quello strillo disumano, riuscì a capire cosa avesse effettivamente detto il signor Arch.

“Scappate!!” ripeté a gran voce Angelo Infido, lanciando a Kidd uno sguardo colmo di terrore.

“Che stai dicendo, fatina?”  chiese uno dei suoi, ridacchiando nervoso, venendo prontamente avvertito da un coltello volante.

Con uno scatto incredibile Eustass se lo vide arrivare davanti a grandi passi. Lo afferrò per la pelliccia, abbassandolo alla sua altezza quel tanto che permise ai loro occhi di fronteggiarsi.

“Tra pochi minuti arriverà un Re dei Mari affamato!” lo fronteggiò con gli occhi furenti attraversati da piccole gocce di  sudore.

Kidd si scrollò quella mano, guardandolo accigliato.

Che voleva fare? Mandare nel panico i suoi uomini?

“Datti una calmat-..”

“NO!!”

Le mani del ragazzo si aggrapparono nuovamente ai suoi vestiti, ma stavolta cercandovi disperatamente un appiglio, arrancando e con dita tremanti come implorandolo di starlo ad ascoltare.

Kidd se ne accorse sentendo il corpo più piccolo del novellino farsi più vicino al suo. Tremava come una foglia.

“Tu non capisci…” balbettò sottovoce, mentre la testa si abbassava, scivolando con la fronte sul suo petto, pregandolo di ascoltarlo, di dargli retta.

“Quando Viola grida in quel modo… attira i Re dei Mari!”

Eustass non sapeva se dargli retta o meno, ma il piano originale non cambiava di una virgola.

Corsa. Nave. Fuga.

 

Atto 17, scena 12

 

Sul ponte della Moby era una cosa normale vedere tutta la ciurma riunirsi. A volte per assistere alle solite avvincenti gare di combattimento che vedevano come premio in palio i rimasugli pregiati di un bottino d’arrembaggio particolarmente fortunato, a volte per le normalissime mansioni mattutine, come spiegare ed ammainare le vele a seconda del vento, pulire il ponte, sistemare le cime di sicurezza.

Insomma, i motivi per trovarsi lì non mancavano.

Ma, cascasse il mondo, non c’era mai stato motivo più esilarante di trovarsi lì, ad assistere allo sfogo di un’infuriata Momo nei confronti di un Ace, imboscatosi sul pennone più alto della nave, che se la rideva come un matto.

Torna qui!!!” urlò la Paradisea con il solito tono di voce trillante, facendo zampillare con più ferocia le fiamme biancastre che le ornavano le mani strette a pugno.

Eddai piccola, lo sai che ti voglio bene. Non trattarmi così!”

Il tentativo del moro di rabbonirla non fu affatto convincente.

Chissà, forse perché mentre simulava un tono dispiaciuto continuava a ridersela sotto i baffi.

Un corno!!!” esplose per l’ennesima volta la Paradisea, cominciando a calciare la base dell’albero sperando di farlo capitombolare giù, senza però grandi risultati.

Dopo aver ridacchiato un po’ Pugno di Fuoco simulò un adorabile broncio, assumendo un’espressione degna di un cucciolo bastonato.

“Ma perché ti arrabbi tanto?”

Non attaccò. Anzi, non fece che aumentare il gorgoglio furioso delle fiamme della ragazza.   

Mi hai baciata!!!” protestò quella diventando più rossa in viso che mai.

A pochi metri di distanza, in mezzo agli altri della ciurma, Satch e Jaws impietrirono, sbarrando gli occhi.

“Oh. Cavolo.” Scandì completamente shockato il povero comandante della quarta divisione.

“Ma era un bacetto innocente!”

Ace. Scendi. Non farmi arrabbiare.

“Sei già arrabbiata!”

Tu non mi hai mai vista davvero arrabbiata!!

Il dibattito continuò ininterrotto, provocando le risate generali di quasi tutta ciurma.

Quasi tutta perché Satch, Vista e Jaws stavano letteralmente implorando mentalmente che la piccolina si ricordasse di smettere di parlare, altrimenti si sarebbero ritrovati un ennesimo lucertolone marino in cerca della prima colazione.

“Che succede?”

Vedersi arrivare Marco non contribuì a migliorare l’umore dei tre comandanti.

Satch sbuffò con gli occhi al cielo, pregando… pregando… ed afferrando il pettine, passandoselo nervosamente sul ciuffo, mentre cercava di nascondere il proprio nervosismo agli occhi penetranti della Fenice.

Marco osservò senza parole il biondo fischiettare colpevole guardando da una parte, fallendo miseramente nel suo tentativo di apparire innocente per via del bagno di sudore in cui cadde in pochi secondi.

Stessa cosa, anche se meno palese con Jaws e Vista.

La Fenice sospirò, ascoltando con un orecchio gli urletti esasperati di Momo farsi più alti.

Ok… – si disse – … qui serve un approccio diretto.

Satch. Dimmi cosa succede o chiamo Monster e te lo metto in testa.”

Il colorito roseo di Satch sbiancò di netto.

Centro.

Lo fulminò con lo sguardo, incrociando le braccia al petto con impazienza.

“Allora.”

Il pomo d’Adamo del comandante in quarta sobbalzò, mentre un groppo di saliva veniva dolorosamente inghiottito.

“Ok. Ok. Te lo dico. Ma non ti arrabbiare, d’accordo?”

“D’accordo.”

“Ace ha baciato la piccolina.”

Come un proiettile il pirata dalle fiamme blu si innalzò sopra il ponte. Ace vide solo l’ombra bluastra di un paio d’ali fiammeggianti e la suola di un sandalo prima di essere colpito senza troppe premure e fatto cadere dal pennone.

Fortuna che gli atterraggi erano la sua specialità, altrimenti sai che botta cadere in piedi sul ponte?

Ringraziò il mare per avergli concesso di incrociare il proprio cammino con il frutto Mera Mera, massaggiandosi al contempo la schiena dolorante per il colpo subito da quel calcio volante.

Da lontano fu sicurissimo di sentire la voce strozzata di Satch protestare:

“Avevi detto che non ti arrabbiavi!”

“Infatti non lo sono!” Rispose dall’alto una voce, spiccicata a quella di Marco.

“Figuriamoci se lo era…” bofonchiò alzando gli occhi e ritrovando proprio dov’era stata la sua postazione il fratello, che lo guardava con un sorriso sfrontato stampato sulle labbra.

Se vuoi ci sono io…

Alzò lo sguardo, sbarrando le palpebre. Dall’alto, a braccia incrociale al petto e ammantata da una coltre di fiamme bianche, Momo lo squadrava tremendamente seria, picchiettando al contempo un piede sul legno del ponte.

“Ehilà!” Sorrise birichino, ben consapevole che così facendo avrebbe peggiorato la situazione, ma non poteva resistere alla tentazione di farla arrabbiare.

Adorava farla imbronciare: si infiammava di colpo e lo guardava con un’espressione degna di una principessa indignata. Gli mandava il cervello in brodo di giuggiole sapere di non essergli indifferente, sia in un modo che in un altro.

Mi hai baciata…ripetè ancora una volta la bocca della paradisea a metà tra l’incredulo e l’esasperato.

Sììì?” ridacchiò per nulla preoccupato, poggiando la testa sulla guancia, mentre in piedi davanti a lui le fiamme bianche ruggivano con più forza.

Ace!” sbottò la ragazza, diventando, se possibile, ancor più rossa “Si può sapere che perché ti diverti così tanto a farmi sentire una stupida??!

A quelle parole Pugno di Fuoco non se la sentì di mantenere il sorriso di prima, lasciandolo scivolare via dal suo viso come acqua. Il discorso stava prendendo una brutta piega.

“Piccola, ascolta, io no-…

E anche Marco!” esclamò interrompendolo, lanciando di scatto un rapido e significativo sguardo verso l’alto, dove la Fenice osservava ora più serio che mai la situazione.

Siete due bambini! Prima salta fuori che vi piaccio! Poi costringete Satch a girare al largo! E come se non fosse sufficiente continuate a starmi incollati come… come.. ” cincischiò un po’ rovistando nelle prime immagini che le saltarono in mente “..come un Serpe-Lione sul gozzo della preda!

Scoppiò in un piccolo pianto isterico, vedendosi quell’immagine prendere il significato di un macabro ricordo della sua isola, ma continuò comunque la sua invettiva.

Lo so che mi volete bene ragazzi, anche se non mi conoscete bene. E vi capisco, ma per favore. Vi prego…” lanciò un rapido sguardo all’orizzonte, capendo di aver esaurito il tempo necessario.

…smettetela con questa stupida gara. Non sono costretta a scegliere subito uno di voi due.”

Il sole spuntò proprio in quel momento, decretando la parola fine al discorso della ragazza che, sotto gli occhi allibiti di tutta la ciurma, corse in sottocoperta senza voltarsi, le fiamme stranamente ancora accese e regredite al loro colore naturale.

“Scricciolo!” urlò Satch, scattando all’inseguimento della ragazza.

Fece in tempo a lanciare un’occhiata a Marco ed Ace, ambedue abbattuti e a testa china, prima di inoltrarsi nella sottocoperta della Moby.

Nemmeno pochi metri e si ritrovò nientemeno che Teach proprio in mezzo al corridoio.

L’avrebbe oltrepassato se avesse potuto, ma, oltre ad occupare con la propria mole l’intero passaggio, stranamente non si spostò di un centimetro.

“Ehi Teach! Hai visto passare di qui lo scricciolo?” chiese di getto il biondo, fermando la propria corsa a pochi centimetri dalla pancia pelosa del compagno.

Si trattenne dal tapparsi il naso con due dita. Cavoli, doveva ricordarsi di consigliargli un bagno dopo aver trovato lo scricciolo.

Marshall allargò le labbra, coprendosi la dentatura irregolare con il suo solito modo di fare cordiale.

“È andata verso l’infermeria.” disse quello alzando una mano e tendendone un calloso ed annerito dito indice dalla parte opposta alla propria, oltre la spalla del comandante della quarta flotta.

“Pareva molto di fretta, che stramaledetti è successo sul ponte?” chiese, riponendo le mani sui fianchi flaccidi.

“Lunga storia Teach. Ora è meglio che vada da lei.”

E con quell’ultima frase, il biondo partì nella direzione indicatagli, sperando di non aver perso troppo tempo.

“Ci si vede dopo per una bevuta!” gracchiò insistente l’omone, sventolando un braccio ossuto in aria in segno di saluto.

“Contaci!”

Marshall D. Teach attese pazientemente che la figura più piccola e veloce di Satch scomparisse dietro l’angolo e, stirando con molta più convinzione le labbra screpolate, contemplò per un lungo ed intenso istante la parte del corridoio dietro di lui.

Faticò a non sfregarsi le mani per l’emozione, sentendole spasimare d’eccitazione.

I suoi occhi si puntarono su un punto indefinito davanti a sé, espirando aria fetida del proprio alito attraverso le mascelle serrate.

Il primo passo fece formicolare la pelle intorpidita e ancora un po’ indolenzita del braccio, non ancora del tutto guarito dall’ustione provocatagli dalla sirenetta di fuoco.

Dio. Quanto aveva aspettato quel momento.

L’inizio del suo piano, perfezionato e revisionato più e più volte.

Quasi stentava a crederci.

Aveva passato notti e notti intere a riguardare e rigirare vecchi fogli polverosi tra le mani, partorendo sì e no cinque o più piani differenti ogni volta, ma alla fine aveva capito cosa fare. Inizialmente, doveva ammetterlo, la notizia dell’esistenza di un’altra paradisea quale Viola Sollevapesi, l’aveva fatto esitare, e per un istante, vuoi l’impazienza, vuoi l’insopportabile tentazione che gli si offriva ogni qualvolta quella graziosa ninfetta gli saltellava davanti, aveva messo da parte i dubbi e la prudenza.

Ma poi aveva nuovamente cambiato idea. Non doveva essere frettoloso, specie navigando in pieno oceano circondato da una ciurma numerosa ed agguerrita come quella di Newgate.

Zehahaha…” rise alitando appena la sua solita risata, ricacciandola comunque all’indietro poco dopo.

Non doveva più ridere in quel modo, specie di fronte alla signorinella o sarebbe andato tutto a puttane.

I suoi passi possenti accelerarono appena, trasportandolo di attimo in attimo sempre più vicino alla sua preda.

Non le avrebbe fatto del male, non subito. Avrebbe proceduto per gradi, guadagnando la sua fiducia nel più cauto dei modi, sperando che fosse abbastanza ingenua da dargli subito la confidenza a lui necessaria per studiarla ed infine intrappolarla, trascinandola via, lontano dalla Moby e da Barbabianca.

Le due labbra già si pregustavano il momento in cui le sue mani si sarebbero potute serrare attorno al delizioso collo da cigno della signorina, costringendola a fare ben più che boccheggiare in cerca d’aria.

“Possedere una Paradisea, o asservirla al proprio volere, equivale a dominare  Cielo, Mare e Terra al tempo stesso.”

Oh, l’avrebbe asservita eccome, quella casta ninfetta.

In ogni senso. Giusto per non lasciare intentata alcuna interpretazione della frase che lo aveva convinto a non farsela scappare.

La porta della biblioteca gli si parò davanti come una promessa di gloria e potere inimmaginabile.

Le dita gli tremarono per l’emozione, tastando appena con i polpastrelli la superficie liscia e lucida della maniglia. Sarebbe stato facile. Non c’era niente di cui dovesse preoccuparsi..

Ridacchiò debolmente con gli occhietti stralunati fissi sul pomello stretto in mano.

Marshall D. Teach sentì il sangue pompargli con più forza allo stesso ritmo dei cardini arrugginiti che protestarono sotto la sua lieve spinta.

Eccola.

 

Atto 17, scena 13, Arioso pallido

 

Ciondolai tristemente le gambe dall’alto di uno degli scaffali e feci finta di sporgermi meglio sui fogli del grande classificatore che avevo ritrovato abbandonato su uno dei tavoli, curvandomi leggermente in avanti.

Mi sentivo tremendamente in colpa per come li avevo trattati, ma avevano raggiunto il limite. Si erano concessi troppe libertà con me ed era arrivato il momento che se ne rendessero conto.

Girai svogliata un paio di pagine, ritrovandovi sempre una foto e la taglia corrispondente sottostante.

Tutti volantini da ricercato.

Chissà se…

Cominciai a passare a settaccio il contenitore, sfogliandone talmente tante volte le pagine polverose da ricoprirmi le dita di una sottile polverina.

Trovai entrambi.

Sorridevano.

In quelle foto -  il Grande Spirito solo sapeva come avevano fatto ad immortalarli – Ace sfoggiava uno sei suoi migliori sorrisi da furfante, ammantato da fiamme arancioni, gialle e rosse fitte come una pelliccia, e guardando di lato. Il fotografo era riuscito ad inquadrarlo in primo piano.

Marco invece sembrava essersi accorto di essere stato inquadrato. Era girato di profilo, piccole lingue di fuoco azzurre gli percorrevano una ferita lungo la guancia, richiudendola, le braccia erano tramutate in splendide ali fiammanti color acquamarina, ma, a differenza di Ace, i suoi occhi erano puntati su quello che al momento doveva essere stato il fotografo, accennando ad un sorrisetto sfrontato, quasi schernendolo per essersi fatto beccare.

Mi trattenni dal ridere. Erano semplicemente fantastici quei due.

Persino in momenti come quelli si dimostravano dannatamente sfrontati nel dimostrare quanto fossero liberi.

Un brivido mi salì lungo la schiena, arrivando all’altezza del cuore.

Liberi. Che bella parola. Associarla a qualcuno come Ace e Marco poi, mi parve qualcosa di assolutamente favoloso. Era come se avessi trovato… non so… qualcosa di simile a me.

Forse era per quello che mi ero arrabbiata con loro.

D’altronde io ero quello che er-..

Mi bloccai. Quello che ero? Cosa voleva dire?

Mi passai le mani affusolate tra i capelli, ancora percorsi dalle mie fiamme. Erano stranamente impallidite.

Il cigolio della porta mi distrasse di colpo e dimenticai in fretta quello a cui stavo pensando.

Mi stupii di vedere entrare una persona che non avevo mai visto prima.

Era grossissimo, con una pancia talmente tonda da farlo sembrare una mela dotata di quattro stecchini come braccia e gambe. Non c’era niente di rilevante oltre altri piccoli particolari: capelli neri arruffati tenuti schiacciati sulla nuca da una bandana, tracce di balba ispida sul mento, un naso sporgente e dritto, e due occhi tondi che mi puntarono fin da subito.

La gola mi pizzicò dall’interno, ma ricacciai immediatamente quella sensazione ingoiando un po’ di saliva.

Lo vidi sorridere, sfoggiando con forse troppo orgoglio una dentatura che di sano aveva poco e nulla.

“Ciao Momo-chan.”

Era la prima volta che sentivo fastidio nell’essere chiamata Momo-chan.    

  

Fine Atto parte seconda Diciassettesimo

 

Evvvaaaaaiiiiii! Finalmente sono tornata ai miei soliti ritmi!

Speriamo che duri, almeno finché non comincio tirocinio!

Che dite. Sono stata all’altezza? Di recente le scene di KnA si fanno sempre più pesanti. Forse perché richiedono un livello di particolari e descrizioni di notevole realismo.

Sapete, a me non piace ‘cartoonizzare’ troppo le fan fiction, perché se poi vado a rileggerle mi viene voglia di buttarle nel cestino e cliccare “SVUOTA”.

Sì, lo so, sono drastica, ma che ci posso fare? XD

Comincia il piano di Teach e già vi vedo con armi, pistole e forconi pronte all’uso. Bene bene. Vi voglio cattive e sanguinarie, care le mie donne!

Ora posso dirlo di aver raggruppato attorno a me una schiera di adepte meravigliose! Sniff! Che commozione! Ace… fazzoletto (Prenditelo da sola, arpia!NdAce) Ma… uffa. Marco? ( Prima vogliamo che Momo non sia più arrabbiata con noi.NdMarco)

Ma che pretese! Insomma! Ragazzi. Una povera scrittrice non può rendere la vita dei personaggi troppo rose e fiori! Capitemi!!

(NO!NdMarco&Ace)

Che roba…

Ok, donzelle, largo alle domande:

1)      Vedete Kidd più Etero, Bi o Homo?

NON UCCIDETEMIIIII! XD

Ma ho sempre sognato chiedere opinioni dei lettori sulle impressioni dei personaggi non miei! XD

Ovviamente le risposte influiranno sull’andamento della storia.

Votate donne!

Al prossimo capitolo!

Kisskiss

TS

 

 File # 001: Roc D. Morgan

Bambino di circa 6-7 anni, nativo del mare Orientale. Di lui si sa solo che ha mangiato un frutto del diavolo di Tipo Zoo Zoo apparentemente di tipo rettile e che la madre, spaventata, lo ha venduto ad una nave di schiavi.

Morgan non sa nulla delle proprie capacità e non usa nemmeno quelle che conosce a meno che non sia strettamente necessario.

Balbuziente, quindi estremamente nervoso e pauroso, comincia ad acquistare un po’ di fiducia in se stesso viaggiando con Viola e Arch che, a modo loro, lo proteggono e lo spronano a tirar fuori la grinta per sopravvivere in un mondo dove al più debole non è concesso cincischiare. 

 

 

 

 

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Capitolo 23
*** Atto 18 -prima parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 18 -prima parte-

Atto 18, scena 1

Il senso di umiliazione artigliò ferocemente il petto di Hina, mentre guardava il rettile marino fare strage di innocenti dal proprio vascello. Aveva fallito sotto ogni aspetto. Non era riuscita a mettere in salvo il bambino che viaggiava con Angelo infido e la Sollevapesi. Era stata costretta addirittura a lasciarsi soccorrere da Jango e Fullbody, gli unici dell’equipaggio rimasti indietro.

E come se non fosse stato sufficiente, aveva lasciato scappare via Eustass Kidd, nuova leva della pirateria, con la stessa facilità con cui si apre la gabbia ad un canarino tenuto prigioniero.

Con le mani guantate strette attorno al bordo della nave, Hina Gabbia nera strinse con forza, sentendo le falangi scricchiolare pericolosamente.

Si sforzò di non pensare agli echi di pianti ed urla appena notabili in mezzo a quel terribile frastuono.

Pensò di andare a riposarsi, ma un groppo gli strinse la bocca dello stomaco, minacciando di far risalire tutto ciò che aveva ingoiato a pranzo.

Dormire non se ne paralava e fare rapporto … sarebbe stato un vero e proprio tormento.

 

Atto 18, scena 2

Non un lembo dell’isola era stato risparmiato da quella furia marina.

Kidd, dal ponte della Hell Glory, guardava le spire carnose e viscide di quel bestione muoversi impietose contro le vie e le case che aveva visitato pochi istanti prima.

Correndo alla volta della nave, accuratamente nascosta in una piccola baia ricca di una boscaglia fitta, non si era dato troppi pensieri per le parole spaventate di Angelo infido, ma, quando un rombo aveva scosso l’acqua del mare, facendo ondeggiare pericolosamente la passerella posta al fianco della nave, aveva sbarrato gli occhi, non credendo alle proprie orecchie.

Quella ragazza aveva davvero richiamato un Re dei Mari.

Dietro di lui Killer attendeva ordini o, forse, assisteva semplicemente allo spettacolo di distruzione che si presentava dinanzi loro.

I pugni di EustassCaptainKidd si contrassero, diventando bianchi sulle nocche.

Non se ne capacitava, era assolutamente…

Sorrise.

… Esaltante.

Passi veloci e frenetici si avvicinarono dietro di lui, accostandosi a dove più o meno doveva trovarsi Killer.

Kidd!”

Ridacchiò riconoscendo la voce della fatina. Si voltò, ritenendosi sazio dello spettacolo cui aveva appena assistito e per un attimo, vedendo lo stato in cui il biondo si presentava, dovette controllarsi per non lasciar piombare a terra la mascella.

Arch lo guardava accigliato e sudato, i vestiti sgualciti e sconvolti, le lunghe ciglia bionde, leggermente appesantite dalla stanchezza e dall’impellente bisogno di rinfrancare ossa e membra con il dovuto riposo, oscuravano i brillanti occhi color oceano, le labbra ansimanti a volte si serravano, spezzando il respiro, imponendogli di non lasciarsi sopraffare dalla stanchezza, che, Kidd ne era sicuro, stava pian piano avanzando su tutto il suo corpo.

L’immagine di Arch Angelo Infido in quel momento era attorniata da un’aura inebriante.

Al diavolo tutto, pensò, quando mai si era fatto dei problemi?! Non era certamente la prima volta che un maschio attirava la sua attenzione e non sarebbe stata certamente l’ultima!

Fu solo un piccolo, misero istante che i suoi muscoli di prepararono ad avvicinarsi all’altro con l’intenzione di assalirlo, prima che la voce di quest’ultimo, ferma e decisa, diversa da come era stata mentre si era aggrappato disperato a lui minuti prima, non lo bloccò, sfumando in un istante i suoi malsani propositi.

“Mi serve qualcosa per curare le ferite di Viola!” esalò.

Bastò quello per far ritornare alla realtà il pirata.

Vero.

Sollevapesi rischiava di morire dissanguata se non si fosse intervenuto sulle sue ferite.

Era strano comunque notare quanto il biondo si stesse dando pena per la ragazza.

Forse non sono semplicemente compagni di viaggio – pensò malevolo con un sorriso sulle labbra nere.

Un altro ruggito, seguito da un tonfo scrosciante d’acqua, fendé l’aria.

Arch abbassò di riflesso lo sguardo, indugiando a terra per un istante prima di tornare ad affrontarlo occhi negli occhi.

Kidd, notando quello strano comportamento, lasciò cadere il proprio ghigno per un attimo, realizzandone la causa scatenante.

Da non credere!

Non era stata solo una reazione dovuta al pericolo imminente quella che Arch aveva avuto sull’isola!

Aveva paura dei Re dei mari!

Era proprio un novellino.

Le sopracciglia del biondo si arricciarono, denotando quanto il suo silenzio lo stesse mandando in bestia e questo gli impedì di pensare oltre a quella sua ultima, esilarante a detta sua, scoperta.

Tuttavia, non avrebbe certamente permesso a quel moccioso di maneggiare gli strumenti del loro medico di bordo come se nulla fosse.

Sollevò le spalle, incrociando le braccia al petto con fare beffardo.

“Calma fatina, abbiamo anche un medico a bordo.” Disse, già ansioso di scambiare quattro paroline con il suo ospite mentre la stangona subiva le cure di Quiin.

“Curerò io Viola! Datemi solo ciò che mi occorre!”

Rimase attonito da quella risposta improvvisa. Persino Killer, accanto al ragazzo, aveva appena mosso la testa in sua direzione quasi per chiedergli, attraverso i buchi oscuri della sua maschera: Ma è serio?

Gli occhi neri di Kidd, indugiarono un attimo sul volto del vice, prima di soffermarsi sul volto deciso del biondo, poi sulle sue mani.

Tremavano impercettibilmente.

Forse per la stanchezza, forse per lo sforzo che stava facendo per rimanere sveglio, ma, comunque tremavano.

Il sorriso tornò a spalancargli le labbra.

Interessante… Voleva prendersi cura dell’argentata anche a costo di torturarsi in quel modo. Un suono animalesco, simile ad una piccola risata, gli proruppe dalla gola.

Oh, quanto si sarebbe divertito a scoprire cosa si celava nel contorto rapporto di quella coppietta proveniente dal Nuovo Mondo. Perché ora poteva dirlo con certezza: quei due non potevano essere nati nella Grand Line.

La richiesta dell’angioletto non era comunque un grand’affare. Non gli sembrava un tipo da mettere a rischio la salute della propria compagna per puro egoismo. Se si era offerto voleva dire che ne era capace. E chi era lui per dirgli di no?

Con movimento felino, quasi predatore, portò un piede in avanti, la suola del suo stivale scalpicciò sinistro sul legno scricchiolante della Hell Glory, oltrepassando poi con pochi e semplici passi il biondo.

Arch non si spostò di un millimetro, attendendo che il rosso l’oltrepassasse, prima di riprendere a respirare.

Kidd.” La voce cavernosa del Massacratore, scandì l’uscita di scena del capitano con una muta domanda.

Il rosso, apparentemente diretto alla propria sulla parte centrale del ponte dove il resto della sua ciurma attendeva ordini, alzò semplicemente una mano, ondeggiando il braccio fasciato di pelliccia con noncuranza.

“Dai alla fatina quello che gli serve. Per il resto se la vede lui.”

 

Atto 18, scena 3

Ci furono momenti in cui Viola pensò di stare per rinvenire.

La sua vista andava e veniva tra le nebbie della stanchezza e del dolore, ma, ogni volta che pensava di cominciare a scorgere qualcosa di più nitido e più lontano del proprio respiro, qualcosa la respingeva all’indietro, rigettandola di nuovo nell’incoscienza.

Inizialmente aveva sentito gli arti farsi più freschi, bagnati, in un modo quasi gradevole, poi sempre più freddi ed intorpiditi.

A volte si era sentita cullata, quasi stesse galleggiando in aria, dondolata come una fragile foglia al vento estivo, a volte aveva avvertito piccoli aghi freddi penetrarle braccia e gambe a ondate regolari.

Poi le carni, poco alla volta si erano strette.

Punto per punto, lentamente.

Riunendosi, chiudendosi.

Quando tutto finì ebbe l’ennesima impressione di svegliarsi, ma, come da copione, il tutto le apparve sfocato come non mai.

Ombre scure, confuse, incerte e poi … giallo.

Strizzò gli occhi.

Chissà perché quel colore la urtava.

Sentì del liquido scivolarle sulle labbra.

Ne saggiò la consistenza con la punta della lingua. Acqua.

“… Bevi …”

Non si curò granché di riconoscere chi le aveva parlato. La voce le era apparso come un suono troppo lontano e, anche se una mezza idea le sfiorò la mente, scacciò  quel pensiero all’indietro immediatamente.

Acqua. Grande Spirito: acqua. Non se lo sarebbe fatto ripetere un’altra volta.

Le pareti arse della sua gola si contrassero di gioia, accogliendo a grandi sorsate quanto più liquido poterono.

Un sollievo indicibile le scese giù, fino al petto, sanando quella sensazione raschiante che sentiva, nonostante la semi-incoscienza, soffocarla da ore.

Cosa aveva fatto per sentirsi così?

Ah.. sì.

Socchiuse le palpebre, non avvertendo più gocce fresche solleticarle le labbra.

Il ricordo confuso di una caduta, ferite riaperte, strappate, grattate. Aveva gridato e in pieno giorno per giunta.

Rantolò, colta da un attimo di terrore.

Cos’era successo?

Si mosse di lato, ancora cieca dalla stanchezza, tastando alla cieca con le mani, fremendo per sapere.

Le dita affondarono in qualcosa di rugoso e soffice. Un tessuto … un letto?

Un tocco pesante e delicato le si poggiò sulla testa.

“… Dormi …”

Cominciava a capire di chi fosse quella voce, ma il solo pensarci rischiava di farle salire alla gola un altro ringhio … e non poteva rischiare.

Un movimento accanto a lei fece cigolare la branda sotto il proprio peso e un suono gutturale lievemente sommesso le vibrò accanto alla spalla. Un calore dolcissimo le si propagò attorno, facendole da coperta.

Sospirò, dimenticando tutto e tutti, concedendosi di spegnere il cervello.

Una sola cosa fu sicura di udire prima di piombare in un sonno senza sogni:

“… Ben fatto Morgan …”

 

Atto 18, scena 4

Uscito dalla cabina riservata a Viola, Archetto si poggiò sfinito sul muro di legno accanto alla porta, sospirando e passandosi stancamente una mano tra i capelli biondi, tentando inutilmente di ravvivarli.

Occhiaie bluastre e profonde gli ornavano gli occhi, già gonfi di loro per la stanchezza. Prese un respiro profondo, assaporando l’aria densa e leggermente fredda della sera.

Era finita. Dopo ore estenuanti passate a ripulire e disinfettare ferite, che sembravano scavate sino ai muscoli,  ricucirne minuziosamente i bordi slabbrati e infine bendare braccia e gambe, alla fine c’era riuscito.

Scivolò per terra, scorrendo la schiena sulle travi verticali del muro, sentendo di non potersi permettere uno sforzo di più, ed emise un sospiro deliziato percependo i muscoli e i tendini distendersi.

Finalmente..” sussurrò con una mano sul viso. Quasi non ci credeva. Viola l’avrebbe sicuramente ammazzato non appena avrebbe recuperato abbastanza forze per collegare lui alle sue ferite disinfettate e curate a regola d’arte, ma se si fosse riposato a dovere, forse avrebbe avuto abbastanza chance e forza per scansare i suoi soliti oggetti volanti senza troppi danni.

Un rumore inaspettato e gli occhi gli si sbarrarono, nuovamente all’erta.

Si mosse appena di lato, pronto a scattare da un momento all’altro, sentendo una presenza improvvisa arrivargli da sinistra.

La testa coperta ed inquietante di Killer il Massacratore si inclinò da una parte, facendo trasparire una certa curiosità per quell’atteggiamento guardingo, e lo fece ancor di più notando che, nonostante il biondo l’avesse riconosciuto, il suo sguardo si fece più sospetto.

Il vice della Hell Glory non capiva il perché di quel comportamento: se avessero voluto ammazzarli, di certo non si sarebbero presi la briga di trascinarseli sulla nave.

Kidd non era il tipo.

Ci teneva a tenere la nave pulita.

“Tutto a posto?”

Non era una delle sue domande tipiche. Killer era più abituato a far parlare le lame al posto suo, ma il capitano gli aveva detto, tra un boccale e l’altro di rhum, di andare a vedere a che punto era l’opera di ricucitura , e i modi che conosceva per chiedere informazioni erano pochi, specialmente a causa della sua  abitudine a dire lo stretto necessario. Quindi non gli era rimasta altra scelta.

Per un istante poterono udire solo il suono del mare e delle travi mosse dalle onde.

“Sta bene. Morgan le tiene compagnia.” Disse infine Angelo Infido continuando a guardarlo con sospetto.

Invisibile ad occhi altrui Killer si concesse di sorridere divertito.

Ora capiva cosa Kidd ci trovasse in quel mocciosetto: aveva l’atteggiamento semplice ed snervante di una verginella altezzosa ed impaurita al tempo stesso.

Non che Killer ci desse molto peso, ma, conoscendo i gusti del suo capitano, il biondino non avrebbe avuto vita facile sulla nave. Specie con quel visino. Per non parlare della ragazza in quel momento convalescente, Kidd aveva fatto più di un pensierino su di lei, ma come biasimarlo? Era una donna. E, si sa, una femmina su una nave pirata, nondimeno dotata di un fisico da urlo, aveva sempre la precedenza su tutto. 

“C’è dell’altro?”

Sì, in realtà c’era dell’altro. Non era stato solo per chiedere informazioni sulla stangona che il capitano l’aveva spedito lì. Aveva anche specificato con molta precisione di gradire la presenza della fatina a cena per fare quattro chiacchiere.

Al solo pensiero il Massacratore sentiva quasi voglia si sbuffare al cielo, ma l’eco della sua maschera avrebbe reso il suo gesto fin troppo udibile e poi la sua visione della volta celeste si riduceva a due o quattro buchi messi in croce, quindi non c’era granché da fare.

Sapeva che chiedere una cosa simile ad un ragazzo con dei crateri al posto delle palpebre inferiori ed ottenerne una risposta positiva, sarebbe stato più che difficile.

Purtroppo Kidd aveva anche specificato che non accettava un no.

 Kidd ti vuole a cena, subito.”

Lui e la delicatezza erano estranei dalla nascita, tra le altre cose.

“No.”

Esattamente ciò che si aspettava dal biondino. Una negazione ferma e coincisa. Praticamente inattaccabile.

La rigidezza iniziale del ragazzo si dissolse così come era venuta, sciogliendogli le spalle e muscoli del collo, mentre lasciava che il collo gli ciondolasse leggermente in avanti.

“Digli che mi hai trovato addormentato e che non sei riuscito a svegliarmi.” si stropicciò il viso con una mano in un gesto vagamente infantile, dettato senz’altro dalla spossatezza.

“Tanto crollerò comunque tra pochi minuti.”

Kidd non la prenderà bene.”

Devo dormire.”

Ah. Quella non era tanto inattaccabile come risposta.

“Conosco Kidd. Ti verrà a svegliare lui.”

Il silenzio gli fece capire di averlo messo alle strette.

“Questione di pochi minuti.”

Arch Angelo Infido si abbandonò un sospiro frustrato, prima di alzarsi con equilibrio precario sulle proprie gambe, passandosi rudemente entrambe le mani sul viso, ed azzardare ad un paio di passi in avanti.

Killer lo guardò lanciargli un’occhiataccia snervata e cominciare a camminare, incitandolo così a seguirlo.

Se prima il biondo l’odiava solo per aver quasi ucciso Viola, in quel momento, il Massacratore ne era certo, si stava trattenendo dal lanciargli addosso uno dei propri coltellini. 

Per quanto innocuo all’apparenza, si era appena fatto un nuovo nemico.

 

Atto 18, scena 4

Che Kidd fosse bisessuale era una cosa saputa e stra-risaputa tra i membri del suo equipaggio.

Non era stato un gran problema accettare quel lato, per molti definibile come inquietante, del loro capitano: Kidd aveva dei gusti in merito a certe cose e di per sé non dava mai ai suoi ragazzi quel genere di attenzioni, fatta eccezione per Killer quando il rosso non riusciva proprio a trattenersi.

A parte quei momenti, molti dell’equipaggio avevano qualche piccolo sospetto riguardo il rapporto che, giorni addietro, si era instaurato tra lui e il capitano di un’altra ciurma.

Trafalgar Law.

Ma quella era un’altra storia.

Vedendo Angelo Infido infilarsi nella baraonda della festa che si stava consumando nella sala grande, molti simularono qualche colpo di tosse per coprire le risate. Quella che la fatina bionda stava indossando, mettendo da parte le occhiaie scavate a cucchiaio, era la faccia più cupa e scazzata che avessero mai visto e questo preannunciava un gran bel spettacolino.

Il capitano si accorse della presenza del biondo e del suo vice solo quando scorse con la coda dell’occhio la maschera striata di quest’ultimo.

“Ce ne hai messo di tempo Killer.” Ridacchiò, prendendo una bottiglia di rhum e lanciarla al massacratore, facendola volontariamente passare a pochi centimetri dal visino di Angelo Infido.

Arch non si mosse di un millimetro, continuando a guardarlo con occhi furiosi e stanchi, ignorando completamente il pirata mascherato che aveva afferrato con altrettanta calma ciò che gli era stato passato.

“Stava crollando su in coperta.” Spiegò semplicemente il vice andandosi a sedere senza troppi pensieri.

“Oh?” fece il rosso, guardando il ragazzo rimanere in piedi, continuando a guardarlo fisso “Davvero?”

Alla faccia tosta del pirata, gli occhi cobalto di Arch si fecero più sottili.

Che bastardo.

Come se non l’avesse notato ore prima che era stato sul punto di piombare a terra per la stanchezza!

Si morse con discrezione la guancia interna, costringendosi a ricacciare indietro l’idillio di insulti che gli erano saliti in bocca. Li avrebbe volentieri vomitati in faccia a quella iena bipede, se non si fosse trovato in una situazione di netto svantaggio.

Davanti al capitano di una nave ed immerso fino al collo dai suoi sgherri pronti a farlo a fette.

Proprio una bella situazione. Stava seriamente rivalutando tutte le circostanze difficili in cui Viola l’aveva trascinato in precedenza.

In mare aperto. Ospiti di un assassino e i suoi cari amici.

Avrebbe riso con l’amaro in bocca se fosse stato il momento: questa le batteva proprio tutte.

“A che stai pensando, fatina?”

Sentire la voce di Kidd riportarlo con i piedi per terra non giovò al suo umore.

“Sinceramente?” ribatté con voce più atona possibile, combattendo con la sensazione di avere la lingua impastata.

Il ghigno del rosso però valeva come sempre più di mille parole.

Sospirò.

“A Viola e alla sua pessima abitudine di farmi quasi ammazzare.”

Un coro di risate, non più trattenute, si alzò dai tavoli.

“Aah.. Screzi di coppia?” rantolò una risata il pirata, trangugiando un sorsone direttamente dal collo della bottiglia.

“La cosa non deve interessarti.”

Le risate si spensero come se qualcuno avesse appena schiacciato un interruttore. La voce di Arch Angelo infido aveva assunto un tono lievemente minaccioso e la cosa non piacque a nessuno. Qualcuno osò addirittura alzarsi dalla propria sedia, intenzionato in tutto e per tutto ad insegnare al ragazzino le buone maniere.

Fu, incredibilmente, la mano di Kidd a placare le acque, intimando ai suoi di rimettersi a sedere e di non preoccuparsi inutilmente.

Eustass tornò a guardare il suo reticente ospite con il solito ghigno animalesco sulle labbra, sporgendosi sul tavolo lercio e appiccicoso di grasso e spezie delle pietanze consumate alla rinfusa poco prima, e poggiando con sicurezza un braccio su di esso. Si gustò l’espressione imperturbata del biondo, pur sapendo che dietro di essa si nascondeva un timore senza eguali.

Non era difficile capirlo: gli bastò far scivolare lo sguardo verso il basso per trovare le gambe dell’altro tremolare impercettibilmente.

Fatina…

“Arch.” Lo corresse.

“Ti devo ricordare in che posizione ti trovi?” Lo ignorò bellamente il capitano, ansioso di imporsi su di lui.

“Ne sono già consapevole. Grazie.”

Un’altra risposta tagliente.

Pazzesco, pensò senza poter fare a meno di sorridere, quella fatina era incredibile.

In un certo senso gli ricordava quel bastardo di Law.

“Non mi sembravi così intrepido quando mi hai implorato di fuggire dall’isola.” Lo stuzzicò, alludendo con una punta di malizia al modo in cui gli si era incollato al petto, tremando come una foglia.

Tutti si misero a ridacchiare, intuendo appieno l’allusione del capitano.

“Mi hai fatto chiamare solo per insultarmi o per chiedermi qualcosa di importante?”

Quella domanda lo lasciò un attimo incerto sulla risposta da dare. Certamente non l’aveva chiamato solo per divertirsi ancora un po’ prima di mettersi in branda, ma arrivare così velocemente alla questione lo irritò leggermente. Avrebbe preferito concedersi qualche attimo di più a perseguitare il biondino.

A quanto pareva però, la stanchezza doveva aver portato il ragazzino al proprio limite. Tempo pochi minuti e sarebbe stato anche capace di voltargli le spalle e tornare sul ponte senza neanche una parola, in barba alla sua carica di capitano.

“Subito al sodo, eh?” ridacchiò, saggiando ancora un po’ il liquore dalla bottiglia, trovandone però un misero goccio che nemmeno gli bagnò la lingua.

Fece una smorfia. Accidenti, quelle bottiglie avevano il fondo troppo alto.

“Niente di speciale…” continuò, buttando malamente il contenitore di vetro, facendolo rotolare rumorosamente.

Inchiodò Arch con gli occhi, aspettando di vedere una piccola scintilla di consapevolezza in quello sguardo stanco prima di continuare.

“Solo riguardo quella storia…

Quale storia?”

Cominciava a non sopportare il modo in cui lo interrompeva.

“Quella che venite dal Nuovo Mondo.”

Nella sala tutti rimasero fermi, inebetiti, alcuni con i calici traboccanti mezzi alzati, altri con le bocche spalancate nell’atto di accogliere un boccone troppo grande di cibo. Kidd non si stupì di quella reazione di massa, ridendone sotto i baffi.

D’altronde nessuno dei suoi poteva esserne al corrente: Angelo infido l’aveva sussurrato solo a lui.

Persino Killer gli lanciò uno sguardo interrogativo.

Santo Roger, che spasso.

Angelo Infido non sembrava essere della stessa opinione. Non era rimasto particolarmente scosso da quella domanda, ma nemmeno pareva essersi rilassato.

Doveva essere un argomento delicato per il biondino.

“Perché non ne parliamo un po’?” ghignò indicando una delle sedie a lui affiancate.

Per un attimo Arch parve pensare all’eventualità di sedersi. Soffrì al pensiero di poter rilassare le gambe.

Eppure, anche se il cervello gli implorava pietà, facendo direttore all’orchestra di fitte che erano ormai i suoi muscoli, non cedette.

Scrollò la testa.

“Resto in piedi. E comunque..” lasciò la frase a metà, sentendo le palpebre non poterne più delle luci di quella stanza. Si strofinò gli occhi con una mano, la testa gli ciondolò un poco all’indietro e seppe di aver quasi raggiunto il limite. Trovò confortante la penombra che le proprie dita gli offrirono, anche se per pochi istanti, quando sentì qualcosa afferrarlo per il retro del colletto e lanciarlo in avanti.

Si aspettò di cadere a carponi per terra, invece si sentì tenere in piedi da una presa ferrea stretta attorno al suo avambraccio.

Rantolò di dolore quando il suo sedere colpì una sedia e quasi bestemmiò accorgendosi, riaprendo gli occhi, non solo di essere stato fatto sedere proprio dove Kidd gli aveva indicato, ma anche di essere stato passato come una palla da gioco.

Scoccò un’occhiataccia al capitano, in quel momento distante da lui nemmeno una spanna e, liberando con uno strattone il braccio, biascicò la parola più offensiva che conosceva.

Bastardo..”

Kidd gli rispose strabuzzando gli occhi. Non che avesse capito. L’aveva insultato usando la lingua di Nido Leia, ma avrebbe dovuto sospettare come avrebbe reagito, sentendolo parlare in quel modo.

“Che hai detto?”

Fu l’occasione che aspettava. Non aveva la minima intenzione di parlare della loro provenienza, né dei loro motivi. Perché era lì, lo sapeva, che sarebbero andati a parare.

Si chinò su sé stesso, concentrandosi sul pavimento ai propri piedi. Come previsto cominciò a dondolare in avanti, avvertendo il mondo intorno a lui dissolversi a tratti.

Cercò di darsi una scrollata. Non poteva addormentarsi lì! Non accanto a quell’essere!

“Sentirai molto spesso questa parola…domani.” Biascicò, arrivando a poggiare il gomito sulla tavola e ormai non aveva più le forze per fare altro che tenere gli occhi appesantiti fissi dinanzi a sé.

Sbuffò vinto dalla spossatezza.

Viola… mi ammazzerà.”

Si aspettò il dolore del legno contro la sua fronte, mentre i suoi occhi si chiusero del tutto, facendolo cadere definitivamente in avanti, ma non arrivò nulla.

Semplicemente la sua mente si spense nella più agognata delle incoscienze.

 

Atto 18, scena 5, Moby Dick

 

Momo osservò il grassone farsi strada nella biblioteca tranquillamente, quasi senza guardarla.

Non le andava di scendere. Inchiodò le braccia sul ripiano più alto dello scaffale con convinzione, assecondando la brutta sensazione che avvertiva.

Avere attorno quell’individuo aveva innescato nella sua testa lo stesso campanello di allarme che aveva sentito poco prima di essere assalita nei corridoi della Moby.

Una piccola goccia di sudore le scivolò lungo la tempia, fermandosi sul profilo del mento.

No. Decisamente scendere non rientrava tra le sue opzioni.

Decise che l’avrebbe semplicemente ignorato. Nulla di più. Si sarebbe sdraiata a pancia in giù ed avrebbe dedicato ogni briciola del proprio interesse al classificatore pieno di taglie.

Si trattenne dal saltare via quando quegli occhietti stralunati si posarono di nuovo, e quasi casualmente, su di lei, ma non poté fare a meno di rotolare ed aggrapparsi con le mani dal lato opposto del mobile, nascondendosi così agli occhi dell’altro.

Ansimò silenziosamente con il cuore che le batteva nelle orecchie, terrorizzata dal silenzio che si era diffuso in tutta la stanza.

Nemmeno un eco, solo un sottile scricchiolio dei mobili e un fastidioso ronzio nelle sue orecchie.

Una lacrimuccia le fece capolino da un occhio.

Perché doveva esserci silenzio? Non poteva saltare fuori Monster e schiamazzare un po’ per la biblioteca? A lei non piaceva il silenzio!

Azzardò un’occhiatina sotto di sé, dove il pavimento sembrava distare chilometri anziché pochi metri. Soffocò un urletto terrorizzato e le mani iniziarono a sudarle tra le dita.

Calma Allegra … calma. - pensò in preda al panico - …non puoi cadere, sei aggrappata saldamente al mobile. Non puoi cadere. Non puoi, non puoi.

Cadde.

Mi detestoooooooooo!!!!! – sarebbe stato il suo urlo se non avesse stretto le labbra, memore degli episodi precedenti.

Serrò gli occhi sperando che il dolore fosse minimo, ma, a dispetto di quel che si aspettava, non giunse mai.

Aprì esitante un occhio e quasi svenne, sentendo non solo le narici venire invase da un odore nauseabondo, ma essere trattenuta da un paio di mani grosse e secche.

A condire il tutto c’era la faccia fin troppo vicina dell’estraneo di poco prima, sorridente come non mai.

Si bloccò.

Il panzone la stava tenendo in braccio.

Neeeh, Momo-chan. Dovresti fare più attenzione.” Fece quello con tono talmente mieloso da farle venire il voltastomaco.

Un lieve fruscio sotto di sé la fece congelare: qualcosa aveva tastato le sue gambe, anzi, le aveva palpate.

Le si spalancarono gli occhi, allibiti.

La stava molestando?!

Tempo di vedere un fulgore bianco sostituirsi a quello giallo e l’estraneo si ritrovò scaraventato a terra, con l’impronta di un potente calcio stampato in faccia.  

Ehiehiehi! Calma caramellina! Non stavo facendo niente! Volevo solo metterti giù!” si giustificò quello tutto zuccheroso, massaggiandosi la guancia, mentre lei, saltata di nuovo in alto su uno scaffale, tremava guardandolo indignata.

L’aveva palpata!

Argh! In tutta la sua vita non aveva mai trovato così nauseante il contatto umano!

Decise di rispondergli per le rime come meglio poteva: afferrò il primo oggetto dimenticato sulla cima del mobile e glielo scagliò contro.

Ovviamente questo non fece molta strada, e nemmeno si avvicinò alla figura tondeggiante del viscido. Rimbalzò con suono sordo e si fermò a pochi metri da lui.

Appena rivedo Viola mi faccio insegnare come si fa. – decise di punto in bianco, constatando quanto fosse grama nei lanci lunghi.

Rimessosi in piedi il grassone alzò le mani, mettendole davanti in segno conciliatorio, azzardando poi qualche passo verso il suo scaffale.

“Ok ok. Forse abbiamo iniziato con il piede sbagliato.”

La paradisea mise le braccia incrociate al petto, inarcando un sopracciglio ed imbronciandosi, continuando a guardarlo dall’alto verso il basso.

Mai stata più d’accordo.

“Scendi giù così ne parliamo con calma, d’accordo?”

Un’altra cianfrusaglia volò verso di lui, mancandolo.

 Teach ridacchiò, non potendo fare altro. Entrare nelle grazie della ninfetta si stava dimostrando più difficile di quanto immaginasse. Pazienza, si disse, sarebbe dovuto arrivare subito al sodo.

Con tutta la maestria di cui fu capace, fece sparire in un’espressione affranta lo slargo che era il suo miglior falso sorriso amichevole, iniziando a grattarsi il retro della nuca con finto nervosismo.

Sai…” disse, sbirciando con la coda dell’occhio la reazione dell’altra per un istante, prima di tornare alla propria recita

“So che non dovrei parlartene... il capitano mi farebbe la pelle se lo scoprisse...” mentì spudoratamente, simulando un’occhiatina nervosa verso la ragazza, prima di soffiare la brutta copia di un sospiro combattuto.

Momo dal canto suo corrugò la fronte ed inclinò la testa di lato, non capendo dove stesse andando a parare il discorso.

Il capitano? Voleva dire Oyaji? Che lei sapesse il Babbo non faceva la pelle ai suoi figli.

Cosa stava dicendo quel grassone?

Gli occhi tondi e stralunati di quello tornarono su di lei, le sopracciglia torte in un’espressione di innaturale turbamento.

Perché le sembrava di aver già visto una cosa simile?

Era... come dire? Quell’espressione... non gli donava affatto.

“C’è una cosa che dovresti sapere riguardo quello che la ciurma sa riguardo ... quello che sei.” dichiarò, zittendosi di colpo e puntandole addosso lo sguardo con insistenza, aspettando la sua decisione.

La Paradisea a quelle parole rimase allibita, addirittura lasciò cadere di poco il mento.

Quello ... che era?

Aveva pensato la stessa identica cosa pochi istanti prima che entrasse, rimanendo turbata dal suo stesso pensiero come in quel momento.

Che voleva dire? Che non era umana come Ace e Marco? Eppure anche loro erano strani. Anche loro avevano delle fiamme.

Si morse le labbra, facendo vagare lo sguardo altrove, sentendosi invadere dall’incertezza.

Ammetteva di essersi più volte sentita inadeguata da quando aveva riacquistato la memoria: la sua voce, la sua lingua, la sua incapacità di parlare e restare sveglia di giorno, i suoi salti, ma questo non significava necessariamente che lei fosse diversa!

Eppure c’era qualcosa che non quadrava. In cuor suo sentiva che quell’uomo aveva ragione. Troppe volte, specie durante le lezioni notturne di Marco, aveva avvertito un tremendo senso di inadeguatezza, come se, nel cercare di imparare la lingua, stesse solamente cercando di infilarsi in un posto a lei precluso, come un coniglio che tenta di infilarsi nella tana di una volpe.

Non era umana quindi? Allora cos’era? Un leggero mal di testa le scavò le tempie, piccole immagini ed echi di frasi sconnesse le passarono veloci come fulmini davanti agli occhi e nelle orecchie.

Strinse le spalle incavandovi la testa come un pulcino spaventato e iniziò a scattare inconsciamente la testa da una parte all’altra, indecisa se scappare via, come l’istinto le stava suggerendo da un pezzo, oppure chiedere di più, scendendo dal proprio rifugio e dandola vinta a quello strano individuo.

Tornò a guardare l’uomo di fronte a lei, trovandolo ancora lì, fermo e paziente.

Sembrava uno di quei rettili che una volta, sulla sua isola, di questo si ricordava bene, l’avevano puntata dal basso del loro acquitrino verdastro, aspettando che cadesse dall’albero su cui si era rifugiata, per fare di lei il loro spuntino di mezzanotte.

Il pensiero, unito al ricordo, non la rassicurò affatto.

Si passò una mano sulla fronte e la trovò lievemente umida.

No, decise, riconoscendo in quella sensazione, unito ad un lieve formicolio che le solleticò la gola, l’ennesimo campanello d’allarme.

Non le piaceva quell’uomo. Il suo sorriso le dava i brividi. Il suo odore era nauseante. E i suoi modi urlavano pericolo da ogni poro.

Strinse le mani sulle spalle, affondandovi appena le unghie. Le dita le tremavano leggermente.

No e poi no.

E se avesse ragione?

Sussultò appena, sorpresa da quella voce che come una farfalla si era insinuata nei suoi pensieri.

Se sapesse davvero qualcosa riguardo la tua vera natura?

Scosse la testa, serrando gli occhi più che poté.

E se Marco ed Ace lo sapessero? Se tutta la ciurma lo sapesse già da un pezzo?

No! rispose all’ennesima insinuazione di quella voce. Marco ed Ace non sapevano niente e nemmeno il Babbo! Glielo avrebbero detto altrimenti! Le avrebbero rivelato di non essere come loro! In fondo le avevano anche mostrato i volantini di Arch e Viola! Perché avrebbero dovuto nasconderle qualcosa?

Già perché?

NO! La ciurma non sapeva niente! Non poteva sapere niente!

Eppure lui lo sa. Concluse la vocina, riferendosi all’uomo che le stava innanzi.

Lui sa che non sei umana, non può averti letto nel pensiero.

Realizzare quell’ultimo dettaglio non fece che distruggerla, facendole cedere le ginocchia. Cadde pesantemente sulla cima del mobile con un tonfo sordo che fece svolazzare in aria qualche ciuffo di polvere e si lasciò assalire dallo sconforto.

Quindi era vero, non era umana.

E come se non bastasse, tutta la ciurma lo sapeva e glielo stava nascondendo.

Ma perché?

Quale motivo poteva esserci?

Che cosa mai poteva essere lei per spingere tutti al silenzio?

E se volessero proteggermi? - pensò la ragazza sentendo un poco di sangue ri-affluire nelle proprie guance.

Rifiutava di credere che ci potesse essere un secondo fine nelle azioni della sua nuova famiglia. Loro non le avrebbero mai fatto del male!

Si rialzò in piedi, i pugni stretti, il tremore ed ogni traccia di insicurezza scomparsi nel giro di un battito di ciglia.

Sì doveva essere così!

Fulminò con lo sguardo l’uomo sotto di lei, abbassando le palpebre quel tanto che bastava per fargli capire che non voleva sentire altro da lui, poi scattò dirigendosi con un solo, veloce balzo verso la porta.

 

Teach si impose di contare qualche secondo in più da quando la ninfetta era sparita, prima si buttarsi su un divanetto e raschiare la propria gola con piccoli cenni di una risata liberatoria.

Era andato tutto come previsto. Assolutamente perfetto.

Vedere la piccola confusa e combattuta da poche e semplici parole avevano messo a dura prova la sua capacità di trattenersi dal ridere. Diamine, che soddisfazione.

Si concentrò sul soffitto della biblioteca, immaginandosi a occhi spalancati il lento procedere del suo piano così come l’aveva architettato e alla sua inevitabile conclusione.

Si leccò oscenamente le labbra, immaginandosi l’espressione spaventata e perduta della Paradisea gialla una volta resasi conto di essersi lasciata scivolare tra le sue grinfie spontaneamente.

Aveva lanciato il seme del dubbio e ora non gli restava altro che attendere, assecondando tutto quello che ne sarebbe venuto per spingerlo nella direzione da lui voluta.

Oh, lui non aspettava altro.

Sarebbe stato un piccolo passo verso il completo dominio dei Mari.

L’Essenza di una Sirena di Scoglio, quale non lo sapeva, di certo sarebbe stato un biglietto da visita  indiscutibile per quegli allocchi della Marina.

Semmai avesse trovato il Frutto che stava cercando da tempo le cose si sarebbero sveltite, nel caso contrario non gli sarebbe bastato altro che attendere pazientemente che il bocconcino si lasciasse intrappolare con le sue stesse mani.

Il risultato sarebbe stato comunque lo stesso.

Stirò le labbra in un sorriso e rischiò di farsi trascinare dall’euforia per l’ennesima volta.

Era un piano perfetto.

 

Atto 18, scena 6, pressi Marineford

 

Svegliandosi Clarina poté avvertire chiaramente un movimento ondeggiante cullarla, muovendo tutto il mondo attorno a lei. Gli occhi le scattarono come delle molle, aprendosi e scandendo i dintorni alla ricerca di una sola cosa.

La trovò esattamente accanto, palpitante ed azzurra come se la ricordava.

“Ciao Agiata...” sussurrò, avvertendo il petto aprirsi come se un peso le fosse stato improvvisamente tolto.

Il frutto che tanto aveva cercato stava in quel momento sul comodino, in un’immobilità tanto rilassante da farle quasi venire le lacrime agli occhi.

Aveva recuperato la Nota di Agiata e, cosa non meno importante, era fuggita da Sakazuki e quella maledetta stanza rossa.

Si rese conto di essere in un letto solo in un secondo momento, quando, dopo aver smesso di osservare adorante il motivo della propria gioia, si decise di mettersi seduta, notando finalmente il groviglio di coperte formatosi attorno al proprio corpo.

Scoprì così di avere il sonno agitato, non riuscendo a districarsi dalla morsa in cui si era intrappolata durante la sua lunga dormita, o almeno pensava che lo fosse stata perché, accidenti, rifiutava di credere di averci messo meno di 8 ore a intrappolarsi in quel modo.

Uff, queste diavolerie umane...” sospirò sentendo il sudore ammassarsi sulla pelle, gravando ulteriormente sul suo corpo intorpidito dal sonno. 

Che necessità c’era di con cose simili? Le paradisee non avevano bisogno di coprirsi durante le ore di sonno, il calore delle loro fiamme unite a quello della temperatura ambientale era più che sufficiente.

Ah.. - realizzò un attimo dopo Clarina, ripensandoci - ... è anche vero che noi dormiamo di giorno.

Tornò alla propria battaglia, divincolandosi ancora un po’ per poi finire nuovamente per affondare il viso nel cuscino, sfinita.

Ok, l’approccio diretto non funzionava, quindi...

Aiutoooooooo!!!!”

Rimase in ascolto per un paio di secondi prima di sentire dei passi veloci procedere verso di lei e la porta della stanza venire spalancata.

Riconobbe la voce di Koby, quando questo emise un ‘Hii’ spaventato nel vederla avvolta come in un bozzolo.

Clarina-san!” esclamò il ragazzo fiondandosi su di lei, iniziando a liberarla  più veloce che poteva.

Koby...” lo chiamò piena di gratitudine, riemergendo poco alla volta da quella trappola inanimata.

“Ma come ha fatto a finire così?” chiese più sull’incredulo che sul curioso il ragazzo, ricevendo in ogni caso da parte della donna una risatina imbarazzata.

Il ragazzo emise un sospiro sollevato, sedendosi sul bordo del letto che, Clarina lo notò solo in quel momento, era inchiodato sia al soffitto che a terra da quattro lunghe assi e chiodi che la fissavano saldamente alla parete.

Uno scossone più forte fece ondeggiare la stanza e questo le fece capire che la nave di Garp si trovava in mare aperto in balia e delle correnti e diretti chissà dove.

Erano salpati.

Avrebbe sorriso per quell’ennesima buona notizia se non avesse fatto cadere lo sguardo sul ragazzo accanto a lei, ripiegatosi su se stesso con la testa tra le mani.

Koby?” si avvicinò preoccupata, posandogli una mano sulla schiena che venne accolta con un verso grato.

“Il vice-ammiraglio è furioso.” dichiarò tetro l’occhialuto con la stessa semplicità di un bambino.

“Oh.” riuscì solo a dire la donna, capendo cosa comportasse una cosa simile per la giovane recluta.

L’uomo non doveva aver preso bene il fatto che i suoi allievi avessero avuto uno scontro diretto con l’Ammiraglio Rosso e di certo non doveva aver gradito il fatto che quest’ultimo avesse addirittura attentato alla loro vita.

“Dice che siamo stati degli incoscienti e che se Akainu ci accusasse di tradimento o cospirazione rischieremmo come minimo l’esecuzione pubblica.” tremò infine, abbandonandosi alla mano delicata e confortante della donna dietro di sé che, con lo sguardo perso e l’animo perseguitato dai sensi di colpa, continuò a massaggiarlo, sperando in cuor suo quel piccolo gesto servisse ad alleviare un po’ della sua sofferenza.

Hermeppo si rifiuta di uscire dalla sua cabina.”

Quell’ultima sentenza lasciò nel cuore della paradisea bianca una nuova piccola ferita, sentendo la voce  sottile del ragazzo incrinarsi lievemente.

Ricercò gli occhi di Koby, sporgendosi quel tanto che bastò per  scorgere un sottile luccichio all’altezza degli occhi.

Un sorriso materno le si dipinse sulle labbra e una sua mano percorse delicatamente le ciocche rosate della giovane recluta, spingendolo ad alzare sorpreso gli occhi tondi su di lei.

“Tranquillo Koby, Akainu non oserà mai raccontare a qualcuno di oggi.” lo rassicurò.

Koby osservò stupito Clarina scendere dal letto, le guance ancora rigate da quel poco di lacrime che si era concesso, seguendone i movimenti finché non si fermò dinanzi a lui, le mani giunte dietro la schiena ed un’espressione birichina e tranquilla stampata in faccia.

Il giovane marine vide una mano della donna sgusciare fuori dal nulla, prima di sentire il naso venire schiacciato scherzosamente all’indietro, facendolo strabuzzare inaspettatamente.

Le poche lacrime che era riuscito a trattenere scivolarono via a causa del gesto.

“Va’ da lui e rassicuralo” ordinò con voce calma prima vi voltarsi e cominciare a saltellare verso la porta

“Io vado a parlare con Garp! Ah-!” cantilenò per poi bloccarsi un istante ed ammiccargli da sopra la spalla “E non ti vergognare!”

Koby rimase un po’ lì, allibito e spossato da quell’inaspettato e rapido susseguirsi di eventi, ma, soprattuto, ciò che l’aveva sfinito del tutto era stata l’ultima frase.

Vergognarsi? Vergognarsi di cosa?

Si asciugò con fare assente le guance, ritrovandole più bagnate di quanto desiderasse.

Forse di piangere - pensò, eppure sapeva di sbagliarsi: il bagliore di pura consapevolezza e certezza che aveva illuminato gli occhi blu di Clarina non poteva essersi certamente riferito a quello.

Scosse la testa, chiedendosi se mai sarebbe riuscito a capire quella donna. Sembrava che le parole fossero la sua unica arma, ma aveva l’impressione che, in qualsiasi situazione, sarebbe stata in grado di sconfiggere qualunque cosa, mostro o marine di alto grado che fosse. Quando l’aveva vista e sentita mentre aveva fronteggiato Akainu le sue parole avevano assunto quasi forma nelle sue orecchie, percorrendogli a ritroso le orecchie, fino a colpirgli appena, seppur dolorosamente, ogni singolo punto del cervello.

Rabbrividì al solo ricordo.

Si alzò di scatto, deciso come non mai a seguire il consiglio di Clarina e andare da Hermeppo per rassicurarlo, pur di mettere da parte il ricordo di quella rapida tortura che aveva condiviso con l’Ammiraglio Rosso, quando un rumore lo sorprese, facendolo letteralmente saltare per lo spavento.

Si tastò il petto, quasi temesse che il cuore gli fosse saltato via, sondando al contempo l’intera stanza, alla ricerca della causa del suo shock.

Cos’era stato ... quello? Non riusciva nemmeno a definirlo tanto era stato veloce.

Ricercò ancora una volta una qualsiasi fonte di rumore, ma non trovò nulla: in quella stanza c’erano solo mobili, una lampada ad olio spenta e la Nota che Clarina aveva tanto cercato.

Sbuffò, grattandosi la nuca con imbarazzo, imbronciandosi mentre si dava mentalmente del fifone.

Che diamine. Doveva essere rimasto parecchio scosso se si immaginava anche i rumori.

Si girò, rilassandosi certo di essersi sbagliato, ed uscì dalla stanza, chiudendo la porta dietro di sé.

Oh, andiamo... - si rassicurò ulteriormente, camminando spedito verso la cabina di Hermeppo - ... come ho fatto a spaventarmi per un gorgoglio? Certi rumori sulla nave sono all’ordine del giorno...

 

Dall’interno della stanza un nuovo e più intenso brontolio, simile ad un lamento, si diffuse nell’aria, giungendo proprio dall’ultimo posto in cui ci si sarebbe aspettati.

La Nota azzurrognola a forma di mandarino vibrò come in pena, seguendo ed intensificandosi con l’irregolare dondolio dello scafo, sotto la spinta delle onde.

 

 

Fine Atto Diciottesimo parte prima

 

Sia lodeee!

Atto 18 postato! Con la decisione sulle inclinazioni del nostro a-ma-tis-si-mo Kidd!

BI!

(Law punta con un sorrisetto Kidd accanto a . “Contento Eustass-ya?” Kidd guarda da un’altra parte “Tsè, e a quella che importa se io sono contento o no?!” Il dottore inarca un sopracciglio, non capendo “Da quando sei così accondiscendente verso le autrici? Non ti facevo così malleabile.” Il rosso digrigna i denti, puntando con odio il viso paffuto e sorridente dell’autrice in questione “Non quando minacciano di bruciare la mia intera collezione di CD dei KISS...”)

E così siamo arrivate fin qui care! Che ne pensate?

Fatemi sapere eeeee ... domanda!

1) Che vi aspettate che accada ad Archetto Viola e Arch?

Donne, fatemi da muse ispiratrici!

Ci vediamo al prossimo atto!

Ciaaaauuuu!!

Ah! PS: la collezione di CD dei KISS non è veramente in pericolo (anche perché altrimenti mi odierei), in realtà li ho solo sequestrati per doppiarmeli! XDD

 

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KISS KISS

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Capitolo 24
*** Atto 18 -seconda parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata 

Atto 18 -seconda parte-

Atto 18, scena 7, Moby Dick

 

Nel fuggire dalla biblioteca Allegra non riuscì a staccarsi di dosso la sensazione di essere inseguita.

Continuava a correre, scattando in continuazione ogni qualvolta il labirinto intricato dei corridoi della nave la mettevano di fronte a un bivio, ma, per quanti metri avesse già percorso in pochi minuti, il sentore di pericolo, unito all’impressione continua di avere ancora quegli occhi stralunati puntati addosso, ancora no si dissipava.

Accelerava, saltava, si fermava, ripartiva, ma niente.

Era come avere su di sé un’ombra.

Incespicò nei suoi stessi piedi, rischiando di sbattere la faccia a terra e fu in quel momento, mettendosi a carponi, che si accorse di avere le gambe martoriate da continui tremiti e crampi.

Era stanchissima.

Aveva passato così tanto tempo a scappare dalla presenza di quel tipo che si era addirittura dimenticata di ascoltare il proprio corpo, sfruttando le proprie gambe come mai aveva fatto in vita sua.

Si mise in ginocchio, soffocando un lamento acuto tra i denti, con una mano premuta su uno dei polpacci.

Sperò che le gambe giovassero del contatto diretto con le sue fiamme, che il dolore sparisse o che, ancora, quelle piccole lucine sottopelle le lenissero la sofferenza dai muscoli proprio come avevano fatto con la sua gola o con le sue braccia settimane prima, quando ancora il suo corpo presentava le piaghe dell’insolazione che l’avevano portata vicinissima alla morte.

Niente accadde, nessun sollievo, niente di niente e questo la disorientò ulteriormente.

Il panico le si infilzò nel cuore quando, durante un secondo tentativo di imporre le proprietà guaritrici delle sue fiamme a quella specifica parte del corpo, queste cominciarono a prosciugarsi, sparendo come risucchiate all’interno delle sue stesse braccia.

Terrorizzata, si concentrò più che poté su quelle lingue di fuoco giallo. Contrasse le dita delle mani, stringendole sopra lo strato liscio del pavimento, si irrigidì, ma sulle prime non vi fu alcun miglioramento.

No. no. NO! - ripetè ossessionata, arricciandosi sul pavimento, concentrandosi su nient’altro che non fosse la sensazione del calore protettivo del suo fuoco che le stava lentamente andando a mancare.

Aveva paura. Per quanto fosse grande la distanza che la divideva dalla biblioteca e dalla sgradevole presenza di quell’individuo, il solo pensiero di perdere le proprie fiamme, che più di una volta l’avevano salvata, le faceva montare dentro una disperazione indescrivibile.

Rimanere spoglia, indifesa. NO! Non potevano abbandonarla in quel modo. Non adesso!     

A quel pensiero le lingue ardenti, come mosse dal suo risoluto e disperato richiamo, tornarono a zampillare come se su di loro fosse stata gettata della paglia.

Se ne accorse con non poco sollievo, ma non abbastanza per farla sentire al sicuro.

Di nuovo il dolore dei muscoli le invase la mente e di nuovo le fiamme parvero ritirarsi.

Sembrava quasi uno strumento di difesa, ma la paradisea era troppo spaventata per farci caso, mentre di nuovo le richiamava, riuscendoci.

Scattò la testa da una parte all’altra del corridoio e la rabbia si fuse con la disperazione.

Perché nessuno era venuto a cercarla? Perché, proprio mentre aveva più bisogno dei suoi fratelli, questi scomparivano?!

Un pensiero malevolo le si insinuò nelle orecchie, confuso, sconnesso, incomprensibile, ma abbastanza basso e sibilante da farla inorridire di se stessa.

Non poteva pensare male di loro! Come poteva permettere al suo cuore di dubitare della sua nuova famiglia? Loro l’avevano salvata, curata, accudita senza sapere assolutamente nulla di lei!

Un’altro sussurro malevolo cercò di farle ritrattare l’ultimo punto della frase.

Si prese il viso tra le mani e lo scosse con violenza.

Possibile che le avessero mentito? Che le avessero nascosto tutto? E, se sì, a quale scopo?

Di colpo ebbe l’istinto di urlare e chiamare qualcuno. Chiunque.

Oyaji.

Marco.

Ace.

Vista.

Jaws.

Satch.

Satch...- ripensò scoprendosi il viso imperlato di lacrime. Nella sua mente prese forma il sorriso dell’amico, il suo modo di fare paterno, contornato da un’atmosfera di infantile, tipica di chi ha vissuto appieno la gioventù, senza mai averla abbandonata veramente. Il suo amico Satch, quello che l’aveva rincorsa per chiederle scusa nei corridoi della nave, lo stesso a cui lei a sua volta aveva implorato perdono per una reazione eccessiva.

Lo stesso che, pur di avere la possibilità di andarla a cercare, aveva promesso a Marco ed Ace di non starle troppo appiccicato.

Nuovi rivoli di lacrime le solcarono le guance. Come aveva fatto a dubitare? Come poteva dubitare di tutti... di Ace, che si dava tanta pena per cercare di farla sorridere, di Marco, che aveva speso notti insonni pur di insegnarle la lingua per farla sentire meno inadeguata in mezzo a loro, di Satch...?

D’improvviso, unito all’autocommiserazione e alla vergogna, arrivò qualcos’altro. Una cosa che gli fece affondare ancor di più il viso tra le mani con un urlo strozzato in un mugugno.

Ombre veloci, immagini confuse, quasi sgranate, luminose. Variopinte come le chiome infuocate delle sue amiche. Verdi come le grandi foglie della sua isola. Rosse come il sangue. Blu come la notte. Pesanti ed insopportabili come il fumo nei suoi occhi. Acri come l’odore di terra e carne bruciata.

La voce di suo fratello in lontananza che le diceva di non guardare. Lo sguardo intontito di Viola. La cima della loro isola che andava lentamente in fumo...

La sua mamma, le sue zie... Agiata.

Tutte. Tutte. Sparite.

E per cosa?

Un demone nero e rosso.

Si dimenò, ribellandosi a quell’ultima immagine, certa che se l’avesse collegata a tutte le altre sarebbe impazzita.

Le sue labbra si mossero da sole, tremolanti, incerte e un nodo le soffocò la gola.  

“Satch.....!” chiamò piangendo, abbassando la voce così tanto che le parve un grugnito appena sussurrato.

Nessun suono acuto le pervase la gola, niente che le facesse dubitare di quello che stava facendo, nulla che la portasse a prevedere un imminente attacco da parte di un qualche mostro marino. 

“Satch.....! Satch.....!” continuò, pigolando come un pulcino per un tempo che le sembrò un’eternità.

Gli occhi erano talmente liquidi da offuscarle la vista e le braccia sotto di lei tremavano violentemente, minacciandola di non sorreggerla un solo minuto di più.

“Scricciolo!”

Non lo vide arrivare, ma anche se i suoi occhi non le concessero di vederlo chiaramente in viso, le bastò riconoscerne la sagoma sfocata per sentirsi finalmente al sicuro.

Il demone volò via, andandosene però con la silenziosa promessa di ritornare.

Non appena il comandante della quarta flotta si abbassò, lei allungò le braccia, avvicinandoselo quanto più poté, affondando il viso sul nel suo collo.

Singhiozzò più silenziosamente che riuscì, mentre questi, inizialmente scosso dalle azioni della più piccola, la avvolse in un abbraccio rassicurante, una mano sulla sua nuca, l’altra sulla schiena, sussurrandole poi parole di conforto incomprensibili alle orecchie della paradisea.   

 

Tornare in infermeria una seconda volta fu molto più difficile e più caotico rispetto alla prima. Non appena mise piede all’interno del reparto, tutte le infermiere si gettarono  come un’unica entità su di lui, circondandolo con una rapidità tale da sbigottirlo.

Satch fece fatica ad ascoltare e rispondere a tutte le domande che gli vennero poste dalle infermiere, troppo occupato a trattenere la piccola a sé per evitare che gli scivolasse via o, peggio, ricominciasse a piangere.

Fu un miracolo arrivare ad uno dei letti. Dopo un breve ma intenso interrogatorio di Biri e Ribi, interrotto prontamente da un paio di cartellate ben assestate da parte di Betty sulle loro giovani teste, il comandante poté infine sperare di poter mettere giù la paradisea.

Sperare, perché, al suo gesto di lasciarla andare, la presa della ragazza infuocata sulle sue spalle si rafforzò, impedendogli di abbandonarla.

Fu lì che Satch iniziò ad avere davvero paura.

Trovare il suo piccolo scricciolo in evidente stato confusionale tra i corridoi della Moby l’aveva già scosso di non poco, ma aggiungere alla confusione disperata della sua piccola sorellina il terrore di essere abbandonata gli insinuò dentro un timore che, nonostante tutto, si ritrovò a ricacciare all’indietro.

Era successo qualcosa. Non aveva ragione di credere il contrario. Momo non aveva mai reagito in quella maniera se non di fronte ad un Re dei Mari squartato vivo di fronte ai suoi occhi.

Per alcuni la cosa poteva non significare niente, ma per lui era diverso e qualcosa per un attimo gli ronzò in testa, bloccandolo. 

Scosse la testa ed abbassò lo sguardo, decidendo con assoluta serietà che avrebbe fatto una visita al babbo una volta tranquillizzata la piccola che, tra le sue braccia, continuava a sussurrare frasi incoerenti, soffocandole in parte sulla sua spalla e in parte tra singhiozzi.

“Tranquilla scricciolo, tranquilla.” rispondeva lui, continuando a strofinarle la schiena con una mano, sperando di confortarla in qualche modo.

Il suo gesto però parve totalmente inutile e questo non lo aiutò a ricacciare all’indietro la preoccupazione.

Fu allora che, tra un singulto e l’altro la voce di Momo lo sorprese con una frase ricca di significato:

“La mia... sigh... casa...”

“Chiamate Jaws.” fu l’immediato ordine che Satch fece scivolare dalle labbra, puntando le infermiere con uno sguardo che, Betty, Lova e Penelope sapevano bene, che non si vedeva spesso al di fuori delle battaglie.

Mindy partì come un razzo, nemmeno avesse visto passarle davanti una lucertola che, tutti lo sapevano, la terrorizzavano.

Non era preparato per una svolta simile. Che lo scricciolo potesse prima o poi ricordarsi di essere una paradisea era scontato, ma così all’improvviso...

Era stata la sua indole di comandante a farlo entrare in quella modalità, che spesso e volentieri i suoi chiamavano scherzosamente “Lato Serio”, che l’aveva condotto ad un unico e semplice comando permettendogli di recarsi velocemente dal babbo e rendere conto sia a lui che il resto della ciurma di quanto successo.

Fu con lo strazio nel cuore che il biondo, non appena avvistato Jaws, si sciolse dalla presa della piccola, ma, anche se le mani della piccola paradisea si illuminarono di bianco, provocandogli delle lievi ustioni sulle spalle, atte a farlo desistere dal suo proposito di allontanarsi, non potè far altro che cedere il proprio posto al comandante Diamante.

Camminando a ritroso il percorso che conduceva al ponte, Satch trovò l’intreccio di corridoi maledettamente lungo, nonostante lo stesse divorando a grandi e veloci falcate, ma i suoi sforzi furono premiati quando la luce mattutina del cielo gli ferì gli occhi e tutti i suoi fratelli gli comparvero attorno.

A poco a poco ogni componente della ciurma posò lo sguardo incuriosito su di lui, che di certo non doveva essere un bello spettacolo con la sua solitamente impeccabile camicia bruciata ai lati e il volto lievemente sudato.

Anche Marco ed Ace si unirono agli altri, aspettando da lui qualcosa che non tardò ad arrivare.

Una semplice frase. Tre parole. Usate spesso negli ultimi tempi per descrivere momenti come quello, ma che, pronunciate dopo una tale solenne pausa, assunse il più grande dei significati.

“Si è ricordata.”

 

Atto 18, scena 8

 

Nonostante all’inizio Garp fosse stato più che dubbioso delle parole di Clarina, alla fine, dopo estenuanti minuti passati a fissare l’espressione sicura e sorridente della donna, picchiettando regolarmente un dito sulla sua scrivania con fare combattuto, mentre con l’altra mano sosteneva la propria testa affinché non piombasse sul tavolo, aveva clamorosamente ceduto, interrompendo il contatto visivo instauratosi, come una gara, tra lui e la paradisea.

Aveva dato il meglio di sé per chiederle spiegazioni o per far vacillare le sue convinzioni con occhiate degne di un marine della propria carica, ma nulla era cambiato sul volto perfettamente ovale dell’altra.

Si passò con fare nervoso una mano sul mento barbuto, facendo finta di non aver sentito la risatina della bionda dinanzi a lui.

Evidentemente la sua confusione la divertiva.

Dannazione, ma perché capitavano sempre a lui persone di quel genere?

Prima Roger e adesso una Paradisea mamma con la fissa per la frutta e per i suoi figli!

Azzardò ancora una volta uno sguardo fisso sulla donna, ma l’espressione certa, smagliante e quasi sfrontata di quella creatura femminile era ancora là, immutata.

Riabbassò la testa, grugnendo rumorosamente con le mani tra i capelli ormai completamente grigi per via dell’età.

Era una persecuzione!

“Non crede sarebbe meglio smetterla di cercare un modo per dirmi che ho torto?” canticchiò quasi la donna, sporgendosi sopra la scrivania con le mani dietro la schiena.

Ritornò ad affrontare quelle gemme cobalto che, come sempre, lo accolsero con le iridi luccicanti e pronte all’ennesima battaglia.

Ah, no! - pensò il vice-ammiraglio, alzandosi con un suono rumoroso dalla sedia -Non sia mai che mi faccia mettere sotto da una donna. Dannatamente no! Non ho affrontato anni di addestramento per soccombere come uno sbarbatello alle prime armi!

“Perché? Non ne ha forse?” ringhiò con la fronte ormai ridotta ad un unica, profonda ragnatela di rughe.

Clarina sciolse il proprio sorriso, assumendo un’espressione lievemente contrariata, ma , proprio quando il Pugno stava già cantando alla vittoria, questa si alzò, tornando dritta ed emise un lungo e lievemente scocciato ... sospiro.

Mancò poco che la mascella tozza del marine si staccasse dal cranio per piombare con suono sordo sulla scrivania.

Conosceva quell’atteggiamento.

Come non farlo! Ogni uomo con sulle spalle un’età degna di questo nome sapeva riconoscerlo!

Era esattamente uguale a quello di qualsiasi mamma che costellava l’intero globo, la stesso che ogni donna assumeva di fronte ad un bambino troppo semplice ed immaturo per capire un concetto troppo grande e complicato.

Clarina Sassonia lo aveva appena...

Scosse la testa.

No. Rifiutava di crederci.

Strinse i pugni pulsanti, facendo appello a ogni briciolo di autocontrollo nel suo corpo e, nonostante in termini di quantità questo fosse paragonabile ad un gruzzolo di erba morta, per non cadere tanto in basso da non colpire in testa una donna, come aveva fatto tempo addietro con i suoi nipoti, riuscì a mantenersi per lo meno immobile.

Fermo. Come inchiodato alla sedia.

Il fatto di essersi trattenuto gli diede il tempo di ragionare su pochi ma essenziali aspetti della sua ospite.

Donna.

Mamma.

Paradisea.

Le prime due riguardavano una categoria a lui abbastanza sconosciuta, ma comunque sufficientemente affrontata in passato, con esperienze traumatiche a ben ricordare.

L’ultima invece riguardava qualcosa di più significativo.

Clarina era una Paradisea. Una fiamma alta. Bianca. La sua età attuale poteva benissimo differire di decenni da quella esteriore, addirittura eguagliare la sua. 

Le nocche finalmente si rilassarono, lasciando che il sangue affluisse liberamente.

“La sua reputazione.”

Quel rapido soffio gli era passato nelle orecchie come un freccia e quasi si stupì di vedere l’espressione della donna persa nel vuoto, quasi non stessero più scrutando la libreria addossata al muro della stanza, ma un punto lontano e concreto che andava oltre la polvere sugli scaffali.

“Akainu morirebbe di vergogna se i Cinque Astri scoprissero che non ha sterminato tutte noi Paradisee, dire che lei ha salvato me significherebbe mettere in ballo la mia identità...”

Gli occhi cobalto si posarono su di lui, leggeri come dei petali sull’acqua, e il marine quasi trattenne il fiato, notando un piccolo riflesso bianco luccicare al centro della pupilla.

La donna davanti a lui sorrise, quasi compiaciuta dal suo stupore che gli aveva fatto penzolare di poco la mascella.

“... e di conseguenza compromettersi in maniera irreparabile.”

Le pareti della stanza parvero scricchiolare con più convinzione, spinte da qualche onda più decisa delle altre infrantesi sulla chiglia.

Garp non osò dire niente per un po’.

Aveva capito dove gli sembrava di aver già visto l’espressione decisa ed assorta di quella donna, o meglio, se ne era ricordato. Oh, se si era ricordato. Uno sguardo simile non si scorda facilmente, ma forse era stato proprio a causa dell’individuo associato a quel particolare atteggiamento che aveva faticato a mettere insieme i pezzi.

Congiunse le mani sotto il mento, cercando di non lasciar trapelare nulla dei propri pensieri, e si abbandonò ad un unica ed ultima domanda sull’argomento:

“Sta dicendo che, anche volendo, gli sarebbe impossibile accusare in qualunque modo i miei allievi?”

“Esatto.”  

Si lasciò scappare un sospiro di sollievo da sotto i baffi.

Stavolta aveva davvero temuto il peggio per i suoi ragazzi.

Si decise ad alzare lo sguardo sulla bionda, oscurando il proprio viso con un’espressione ugualmente grave a quella precedente, nonostante la questione Akainu fosse ormai risolta. 

“Mi tolga una curiosità Clarina.”

“Uh?” sbattè innocentemente le palpebre la donna, non capendo che motivo ci potesse essere per continuare con quell’atmosfera pesante.

“Ha mai sentito parlare di un certo Gol D. Roger?”

La paradisea bianca si lasciò quasi scappare una risata.

Aah... ecco il motivo.

“Da mio marito.”

“L’ha mai incontrato?”

“Non direttamente, che io sappia.” sorrise enigmatica, lasciando che l’occhiataccia insoddisfatta di Garp le scivolasse addosso come acqua.

Un ringhio appena trattenuto in gola le fece capire quanto la sua risposta lo avesse irritato. Oh, bhe... poco male, in fondo non era poi così importante vista la domanda che sarebbe certamente arrivata dopo.

“Clarina...” 

Il suo nome le apparve pronunciato a mo’ di avvertimento, ma non si lasciò condizionare e, gongolando mentalmente come una bambina, incrociò le braccia al petto, mantenendo il proprio sorriso raggiante come non mai, attendendo pazientemente.

“Sììì?”

“Qual’è la vostra Essenza?”

Tombola.

Sciolse le braccia lasciandole penzolare ai propri fianchi, mentre le sue labbra assunsero una piega quasi nostalgica.

Non era mai successo che un essere umano le chiedesse una cosa simile in modo tanto diretto, ma sapeva bene che, prima o poi, sarebbe successo e il momento era infine giunto. 

Non era preoccupata, nè tantomeno combattuta: Garp era una bravissima persona, un uomo di parola, coraggioso e premuroso verso chiunque fosse stato sotto la propria responsabilità. Non c’era paragone per un uomo come lui, a parte il capitano di suo marito, quel rosso che le aveva giurato di riportarglielo sano e salvo dalla polena draconica della sua nave.

Prese un respiro profondo e si preparò, evocando su un piccolo punto della propria mano alcune delle sue fiamme candide, facendole zampillare sul dorso davanti agli occhi attenti del marine.

Le osservò anche lei, rivivendo con una lieve malinconia i momenti indimenticabili che avevano preceduto la presa consapevolezza di quale, effettivamente, fosse la fonte di energia che le percorreva anima e corpo fin dalla nascita.

“La Verità.”

La mascella di Garp cadde, per la prima volta dacchè si erano incontrati, sul tavolo, accompagnando con un tonfo l’espressione sbarellata del marine: gli occhi fuori dalle orbite ed il naso mezzo colante fece dubitare Clarina di aver fatto bene ad essere stata così diretta.

....

Oh. Bhe. Era la sua natura dopotutto.

 

Atto 18, scena 9, Moby Dick

 

“Va’ meglio?” chiese un po’ rudemente Jaws, passandole una tazza d’infuso che Carol le aveva imposto di bere poco alla volta. Da quando aveva riacquisito un po’ di lucidità mentale le infermiere le erano ronzate attorno come tante api operaie, costringendola a non muoversi da letto per nessuna ragione, almeno finché non avessero completato tutte le sue analisi.

L’arrivo di Jaws era stato tutto fuorchè previsto.

Allegra lo capì subito poiché, non appena la figura mastodontica del comandante apparve sulla soglia, Betty gli si parò davanti con le mani sui fianchi e con gli occhiali che, se avessero potuto, avrebbero mandato scintille.

Non c’era stato uno scambio di battute. Del resto con una persona come Jaws, le parole sarebbero servite a poco, ma, per una cosa o per l’altra, il capo reparto finì con l’abbassare il capo e scansarsi.

“E sia. Fatele compagnia. Ma azzardatevi a farla innervosire e vi stampo i miei tacchi sul fondoschiena, comandante.”

Così era finita e Jaws si era sistemato su uno sgabellino accanto a lei, puntandole gli occhi addosso quasi si aspettasse una qualche reazione.

Non fu molto contenta di essere osservata così ostinatamente, tanto che la macchinetta che simulava la frequenza del suo battito cardiaco suonò un paio di volte di troppo, provocando un’occhiataccia generale delle infermiere nei confronti del comandante diamante, ma fu solo un rapido istante e, comunque, fu grata all’altro di poter finalmente godere di un po’ di compagnia.

Certo, c’erano le infermiere, ma tra loro e Jaws c’era la differenza di stazza che la faceva sentire protetta a tutto tondo, quasi si aspettasse da un momento all’altro di essere attaccata fisicamente.

Scrollò le spalle, portando un’altra volta la tazza alle labbra e prendendone un grosso sorso.

Andava tutto bene.

Non doveva pensarci.

L’importante era non pensarci.

Abbassò le palpebre e tirò un respiro profondo, tornando infine a guardare Jaws, i cui lineamenti duri erano stati raddolciti da quella che, ad un’occhiata più attenta, poteva essere definita come una nota di preoccupazione.

Scusa Jaws... - pensò, sperando che con uno sguardo potesse trasmettere al comandante un minimo del rammarico che provava nei suoi confronti, costretto a rimanere accanto a lei pur sapendo di non poter ricevere alcuna risposta a parole.

Le sopracciglia di Jaws si distesero, quasi avesse intuito quello che voleva dirgli e... un sorriso fece capolino per un istante sulle sue labbra.

Tutte quante, persino lei, che era seduta a pochi centimetri dall’omone, si bloccarono di colpo.

Jaws aveva appena sorriso... sorriso!

“Kyaaa!!” partì un’urlo spaventato dalla gola di Ribibi, che saltò addosso la sorella quasi le fosse passato accanto un topo. Dal canto suo Biribi rimase immobile, esterrefatta tanto quanto le sue colleghe e quindi troppo scossa per esprimere il proprio sgomento.

Quante volte avevano visto il comandante Diamante sorridere?!

Certo, c’erano i rari momenti in cui, tra un boccale e l’altro di rhum il mastodontico comandante abbandonava la propria espressione da burbero per sciogliersi in qualche risata conciata e glutturale, ma mai così!

“Betty..?” osò chiedere Penelope accostandosi alla capo reparto con una mano a coprirle la bocca, quasi avesse paura che, sentendola, tutte le altre sarebbero andate nel panico.

“Avverto il capitano di una tempesta imminente?”

Allegra da lontano non capì nulla di ciò che l’infermiera bionda aveva sussurrato all’altra, ma, da come il volto angelico della donna si era ombrato ed appesantito, doveva aver detto una cosa tremendamente  seria.

Le fu comunque possibile sentire la risposta di Betty, ancora immobile con gli occhiali scuri a coprirle buona parte del viso.

“Fallo con discrezione.”

Un’attimo dopo Penelope era sparita e Betty aveva ordinato alle altre di tornare al lavoro.

Non appena tutto tornò alla normalità l’infermiera dagli occhiali si girò, osservando assorta Momo e Jaws godere l’uno della presenza dell’altra come se fossero stati fratello e sorella.

Dietro le sue lenti scure le sopracciglia le si aggrottarono.

Come faceva Momo a farsi amare in quel modo da chiunque? 

Non c’era nessuno sulla Moby, Ace e Marco in particolare, che non adorasse quella piccola e all’apparenza indifesa creatura.

Mettendo da parte il caso limite dell’ex-schiavista Roid Brinata, per tutta la ciurma accettare e proteggere la paradisea era stato naturale come bere un bicchiere d’acqua.

Sembrava quasi che la sola presenza della ragazza avesse riempito un vuoto fino ad allora incolmabile e che nulla sarebbe stato come prima se le fosse successo qualcosa.

Stava giusto per andare verso Momo e Jaws, quando dalla porta dell’infermeria fece capolino un ciuffo a tutte loro ben noto.

Marco sondò l’interno della stanza quel tanto che gli bastò per individuare prima la Paradisea, troppo occupata a sorseggiare la propria tisana per accorgersi della sua apparizione, poi Betty, accanto ad uno dei loro tanti complicati macchinari posto a qualche metro dall’entrata.

Un gesto della mano da parte del biondo le fece capire che il comandante voleva parlarle e lei, passando accanto alle due gemelle pettegole, già perse nelle loro fantasie romantiche riguardo all’improvvisa apparizione della Fenice in infermeria, uscì dalla stanza con quanta più discrezione poté.

Non appena fu dinanzi al comandante questi non perse tempo a cincischiare:

“Come sta?”

“è ancora un po’ scossa.” rispose prontamente la mora, tornando ad osservare la ragazza, ancora persa nei propri pensieri con occhi vacui e la tazza tra le mani, stranamente ancora percorse dalle proprie fiamme.

“Ha detto qualcosa?”

“è giorno, comandante.” sbuffò Betty mettendo le mani sui fianchi.

Marco semplicemente guardò da un’altra parte, esprimendo il proprio imbarazzo per quella domanda fuori luogo grattandosi la testa con una mano.

“Certo...” rispose.

“Sembra aver subito un grosso shock, qualcosa deve averle scatenato il recupero di qualche ricordo traumatico, ma finché non cala il sole...”

“Capito.” la interruppe, annuendo, e, se proprio doveva essere sincera, la cosa la irritò di non poco, ma, pensandoci bene, ed osservando il modo in cui gli occhi azzurri del comandante si erano fermati sognanti sulla ragazza, non era poi così grave.

Sorridendo appena, la capo reparto si allontanò dal ragazzo e non si stupì, quando constatò che questi non se ne accorse neanche.

Eh. Che bella cosa l’amore...

Oh ... no Betty cara! - pensò scrollando le spalle come colta da un brivido di freddo - Niente pensieri mielosi! Più lavoro. Meno smancerie.

E così fu, almeno finchè il suono elettronico degli impulsi cardiaci di Momo non si fece più veloce, costringendola a voltarsi meccanicamente verso di lei e notare che, non sapeva come o quando, gli occhi della Paradisea si erano incontrati con quelli della Fenice.

Di nuovo la stanza cadde nell’immobilità assoluta, quasi in attesa che il biondo annullasse le distanze tra lui e l’altra, dando luogo ad una scena struggente e bellissima.

Fu con un poco di delusione che, dopo momenti interminabili, la Fenice si mosse sì, ma solo per togliersi dalla soglia e scomparire dietro di essa, andandosene.

“Awww.” fu il lamento generale di tutte, per nulla preoccupate della presenza di Jaws, unico uomo della sala.

Betty ed il comandante Diamante furono gli unici a notare un lampo di puro dolore attraversare gli occhi di Momo, prima che questa afferrasse la coperta e se la tirasse fin sopra la testa, forse sperando di poter celare in quel modo il turbinio turbato delle proprie fiamme e il rossore delle proprie guance.

La manona di Jaws si allungò proprio sopra la testa della ragazza, accarezzandogliela da sopra le coperte, al tatto lievemente calde e per nulla danneggiate dalle lingue infuocate sotto di esse.

“Non era arrabbiato.” disse con il solito tono diretto ed un poco rude.

Allegra restò ferma per un istante, annuendo poi lievemente e rannicchiandosi un po’ di più.

Si maledì per la piacevole fitta al cuore che provò e ringraziò le coperte per il solo fatto di esistere. 

 

Atto 18, scena 10

Due linee verticali ad ornargli le guance brune, congiungendosi con il pizzetto che gli marcava il mento, e una bandana rossa a celargli totalmente la fronte e buona parte dei capelli, Doma guardava la nave dei sogni, la nave avversaria, solcargli davanti con qualche nodo di vantaggio.

I suoi occhi, fissi come di consueto, non mollavano quella meravigliosa preda nemmeno per un istante, scrutandola con la stessa feroce reverenza di un leone perso nella concentrazione immediatamente precedente al grande scatto.

Sulla nave la sua ciurma si era fermata insieme a lui, nel più sacro ed inviolabile dei silenzi, come era loro consuetudine prima di ogni battaglia.

La nave di Barbabianca, la Grande Balena, solcava decisa ed immensa davanti a loro, ghermita fin nelle sue più profonde viscere dai più feroci e capaci bucanieri che si potessero trovare al mondo.

Doma sfiorò con le dita l’elsa di una delle proprie spade, spinto dal solito ed inconsapevole istinto meccanico, e al suo gesto Josephine prese a raschiare la gola con i suoi coliti versi striduli, interrompendo quel sacro silenzio irrompendo a gran voce nelle sue orecchie.

Il Cavaliere Boemo placò i versi eccitati della sua fedele scimpanzé con una mano, accarezzandole delicatamente la testa, mentre continuava ad osservare con ossessione quella nave.

Il suo più grande ostacolo. La sua più grande vittoria. Ciò che ancora lo divideva dal Nuovo Mondo era quell’immensa imbarcazione con la polena a forma di balena.

Doma non era molto diverso da altri pirati che, come lui, solcavano le insidiose acque della Grande Rotta alla ricerca del mitico tesoro di Gol D. Roger, ma, se c’era una cosa che lo distingueva dagli altri, era la sua determinazione.

Non c’era mai stato bucaniere o corsaro più cocciuto di Doma il Cavaliere Boemo e di questo la sua ciurma ne era ben consapevole.

Doma non accettava mai una sconfitta, né una ritirata, tantomeno la sottomissione nei confronti di un’altra nave pirata. Era un uomo libero e coltivava questa convinzione di sè nel modo più rigoroso possibile: se veniva sconfitto ritornava alla carica più deciso di prima, se doveva ritirarsi lo faceva solo quando ormai nave ed ossa erano a pezzi, e se un’altro pirata gli ordinava di mettersi al suo servizio, reagiva dando le proprie ragioni con un deciso fendente all’altezza del cuore.

Orgoglioso, Cocciuto e Determinato.

Questo era Doma.

Un corsaro che avrebbe dato la vita piuttosto che piegarsi.

Un pirata pronto ad affrontare lo stesso insormontabile ostacolo centinaia di volte, piuttosto che arrendersi.

Un uomo che aveva votato la propria esistenza ad un unico grande obbiettivo: il Nuovo Mondo.

“Attacchiamo!!”

 

L’umore di Satch non era un granchè, visti gli accadimenti delle ultime ore, e meno che mai l’avvistare una nave avversaria gli avrebbe fatto piacere, se non che, adocchiandone quasi casualmente la bandiera nera, ne avesse identificato il proprietario.

“Ehi Ace, guarda un po’ chi c’è.” fece, soffocando una risatina parecchio fuori luogo se si contava l’arsenale della nave in avvicinamento, ben visibile dalle bocche di cannone che spuntavano dai fianchi, ma c’era da tenere conto che loro erano a bordo su una nave grande almeno il triplo di quella avvistata e che la banda di spostati che la stava trascinando verso di loro era fin troppo nota.

Specialmente ad Ace.

Alle parole dell’amico Pugno di fuoco si era girato, lanciando un’occhiata incuriosita oltre la propria spalla, seguendo poi con lo sguardo la direzione indicata dal dito di Satch, rivolto esattamente oltre il parapetto della nave e puntato sulla sagoma di una nave in avvicinamento.

La Jolly Roger lo colpì, inconfondibile.

Alzò gli occhi al cielo e cacciò uno sbuffo sofferente.

“Di nuovo? E che cavolo!” disse, provocando un’ondata di risate tra la ciurma, anche se lui non era affatto contento di quella visita da parte di Doma e la sua banda.

Era già amareggiato per quello che era successo a Momo e per essere stato costretto da Marco, dopo una veloce e sfortunata sfida a Jankenpou, a rimanere sul ponte insieme a Satch, piuttosto che recarsi come un dannato in infermeria.

Non era affatto in vena di uno scontro, tantomeno con quella testa dura del Boemo.

La notizia dell’arrivo del pirata nemico si sparse con la velocità di un fulmine e in pochi minuti tutta la ciurma si sporse sul fianco della Moby, gratificando i nuovi giunti con qualche risata e sporadici saluti amichevoli.

Doma il Cavaliere Boemo era ormai una faccia conosciuta tra la ciurma di Barbabianca, una presenza talmente frequente che era arrivata ad essere addirittura benvoluta.

Il pirata dalla fascia arrivava, combatteva con Ace e poi tornava sui suoi passi con una nave in meno, ma con più decisione si ripresentava il mese successivo, pronto a ripetere il copione.

Erano mesi che la cosa continuava e tutti quanti cominciavano a chiedersi seriamente cosa aspettasse Doma a posare le armi ed unirsi al Babbo il quale, assistendo anche lui dall’alto alle gesta ripetitive di quel giovinastro cocciuto, non aspettava altro che un suo cenno per poterlo prendere ufficialmente sotto la sua ala protettrice.

L’unico ad avere seri dubbi riguardo Doma era proprio Ace che, stando in piedi sul parapetto aveva, già iniziato a far suonare le nocche. Il pirata che gli stava davanti non avrebbe mai accettato così facilmente di entrare nella famiglia di chi l’aveva ripetutamente sconfitto. 

Era ostinato e coriaceo come pochi pirati sulla piazza.

Persino lui, che all’inizio aveva rifiutato categoricamente l’idea di diventare membro della Moby, arrivando addirittura a cercare di eliminare il babbo nel sonno, era stato come Doma e quindi capiva abbastanza bene cosa ne pensasse a proposito di una possibile alleanza con il Bianco.

Tuttavia, ne era certo, quell’insistenza non era nemmeno lontanamente paragonabile alla sua.

Vabbè, certo, lui si era ritrovato giorno e notte sulla stessa nave del Bianco per ben 3 settimane consecutive, ed aveva messo mano a 100 e più tipi di armi bianche, via via sempre più grandi ogni volta che falliva, ma non era mai arrivato a...!

Uno scoppio lontano e il fischio delle palle di cannone che fendevano l’aria ammutolirono tutti.

Tutti giù!!

L’ordine di Satch ebbe effetto immediato e una scarica di proiettili tondeggianti investì la nave poco sopra le loro teste, sorvolando miracolosamente sia alberi che ponte.

Ace fece scoppiare con il proprio fuoco la seconda ondata di palle di cannone, per nulla contento mentre guardava quegli aggeggi venire ricaricati con velocità militare.

Ne era certo: lui non aveva mai cercato di uccidere il babbo a cannonate.

Strinse i denti e scattò rabbiosamente dove il suo Striker era ben fissato al fianco della nave.

Stavolta non se la sarebbe cavata con un paio di ustioni di secondo grado.

Bombardare la Moby da lontano era la scelta più vigliacca che Doma potesse fare. Sconfiggere il babbo affondando la Moby?! Tsè! Solo i pirati di bassa lega e la marina potevano anche solo sperare fosse sufficiente un’azione tanto codarda per tirare giù dal suo trono Edward Newgate!

Vediamo di inculcare in quella testaccia un po’ di orgoglio pirata! -pensò mentre si gettava insieme allo Striker fuori bordo.

“Ace non fare colpi di testa!!!”  gli giunse alle orecchie la voce di Satch, ma lui fece volutamente orecchie da mercante.

La turbina che azionava il motore dello Striker sibilò, quando, ancora a mezz’aria, le suole delle sue scarpe toccarono il vano resinato della piccola imbarcazione, esplodendo in una serie di lingue roventi che gli circondarono le caviglie.

Una nuova ondata di sfere metalliche caricò su di lui.

Rise malandrino e, con un colpo di anche, la fece oscillare da una parte, evitando per un pelo di ritrovarsi con lo stomaco perforato da parte a parte.

Il contatto secco dello scafo con la superficie dell’acqua non fu tanto traumatico, vista la sua accortezza nel molleggiare le ginocchia al momento dell’impatto, rannicchiandosi, ma il buonumore dovuto al pensiero di una battaglia imminente ed alla sensazione del vento salino sul viso fu sostituito dal quasi immediato frastuono di legno che si spezzava.

Rialzandosi, Ace si maledì per essere stato tanto idiota da non accorgersi della traiettoria di quella palla di cannone. 

Ora la Moby presentava una ferita circolare e scheggiata poco sopra la linea dell’acqua.

Non era così bassa da permettere l’entrata d’acqua, ma...

Sbarrò gli occhi.

Da quelle parti stava l’infermeria.

La confusione fu la prima cosa che provò.

La sensazione di impotenza, il non sapere da che parte girarsi, la forte tentazione di ritornare sui propri passi e fiondarsi di nuovo sulla nave. 

Poi fu la volta della rabbia.

Si voltò verso la nave di Doma con i denti che digrignavano e ai suoi piedi le fiamme divamparono più forti , come alimentate dalla sua stessa ira.

“Ace!!!” urlò Satch guardando lo Striker sfrecciare via verso la nave di Doma.

Si schiaffò una mano sul viso, prevedendo grossi guai.

Dietro di lui la figura mastodontica di Oyaji torreggiava guardando serenamente tutto quello che accadeva e lui non riuscì a trattenersi dal sospirare sconvolto:

“Ma perchè certe giornate sembrano non avere mai fine?” 

 

 

Dopo un’interminabile slalom tra la pioggia di cannonate che la ciurma di Doma gli lanciò addosso, Ace sferrò il suo primo attacco con freddezza sorprendente, nonostante le circostanze.

Non appena fu abbastanza vicino e le bocche dei cannoni furono di pochi metri sopra di lui, aprì di scatto il palmo della mano destra e vi formò una densa palla di fiamme luminosa.

Da questa ne apparvero altre sette, incolonnate l’una sopra l’altra come se a tenerle unite fosse il filo di una collana, che lanciò letteralmente verso la nave con un gesto orizzontale del braccio.

Ognuna delle sfere fiammeggianti colpì in pieno la serie di cannoni che sporgevano dalla nave, facendoli esplodere in un turbinio di schegge metalliche e legnose al tempo stesso.

Pugno di fuoco attese, con sguardo fisso e quasi gelido l’accorrere sul posto di Doma, prima di sussurrare il nome della tecnica da lui utilizzata.

Lo vide arrivare attorniato dal fumo dell’incendio che il suo colpo aveva scatenato, lo sguardo fisso su di lui, dall’alto della sua nave, l’espressione indecifrabile e la sua solita scimmia attaccata alle sue spalle con la sua coda attorcigliata al braccio.

Shinka: Jikko.” sussurrò, compiacendosi segretamente della smorfia appena accennata di rabbia che si formò sul volto del pirata.

“Salute a voi. Ace Pugno di Fuoco.” lo onorò Doma, senza però riuscire a trattenere un cenno di acidità nella propria voce.

“Risparmiati i convenevoli Doma.” lo interruppe bruscamente non essendo dell’umore adatto per sostenere una simile sceneggiata “So cosa sei venuto a fare e francamente sono stufo di vederti ripiombare nei momenti meno adatti.”

Il silenzio fu l’unica cosa che ottenne dall’altro.

Ace strinse i pugni, non riuscendo a sopportare la calma che quell’imbecille si era stampato sulla faccia.

“Ammetto che non mi sei mai dispiaciuto, Doma. Sei sempre stato un degno avversario, un pirata che, nonostante l’insistenza, si è sempre dimostrato un uomo di onore.”

Prese fiato, cercando di mantenere la voce ferma, anche se gli risultava difficile vista la rabbia che gli vorticava dentro.

“Ma oggi mi hai veramente deluso, Doma.” concluse, non trovando necessario fornire ulteriori spiegazioni. Aveva commesso un grosso errore e il capirlo da solo era l’unico modo che aveva per riscattarsi.

Vide il suo avversario estrarre lentamente de due spade sottili dalla propria fodera, sguainandole completamente davanti a lui. 

“Questa sarà l’ultima volta che mi batterò con te.”

E fu così che cominciò.

 

Atto 18, scena 11, Hell Glory

 

Sognare non era mai stata una gran fonte di gioia per Arch, almeno da quando aveva visto Nido Leia ricoprirsi di cadaveri davanti ai suoi occhi. L’unica cosa che quel tragico evento della sua vita era riuscito a regalargli era stata solo un’inesorabile susseguirsi di incubi indicibili che il più delle volte ritraevano sua madre ed Allegra mentre perivano dinanzi ai suoi occhi.

La cosa più insopportabile era che, ogni volta, alla fine del sogno, l’unico a sopravvivere era sempre e solo lui: vivo e colpevole.

Il svegliarsi di botto, colando sudore freddo da tutti i pori era una cosa a cui si era lentamente abituato, non essendo osservato da nessuno in particolare in quei momenti, se non dall’oscurità della solita stanza d’albergo singola che lo proteggeva dalle occhiate accusatorie di Viola.

Sentire la pelle tirata, sporca di polvere e di umidità, aveva cominciato ad essere una sensazione sempre più conosciuta ed esplorata.

Ciononostante, mentre si rannicchiava di più sul morbido calore che sentiva avvolgersi attorno alle sue spalle, sentiva chiaramente che c’era qualcosa di diverso in quel nuovo risveglio. Si sentiva stranamente leggero, il corpo insensibile a qualsiasi cosa che non fosse il proprio respiro e la mente sgombra da qualunque pensiero che non appartenesse alla sfera del vuoto.

La consapevolezza di essere sdraiato di schiena su qualcosa di morbido gli sfiorò il petto con un soffio gelido, facendolo rotolare di fianco con un mugolio di protesta, offrendo a quello spiffero d’aria niente più che la spalla.

Era come riaffiorare poco a poco da un mare tiepido e vaporoso come una nuvola di cotone: più sentiva di stare per svegliarsi, più il suo corpo veniva incitato a proteggersi, prolungando il più possibile quel dolce torpore.

Strano, comunque, che la sua pelle non avesse ancora protestato in alcuna maniera.

Dov’era la sensazione di umido e lercio su tutto il corpo?

Mosse appena le dita di una mano, sospirando alla piacevole sensazione di pulito e ruvido sotto i polpastrelli. 

Era su un letto.

Azzardò a spostare una gamba e non sentì alcun tipo di dolore attraversargli nè muscoli nè nervi. Assolutamente perfetto, contando il fatto che...

Sbarrò gli occhi.

Realizzare di essersi addormentato la sera prima al tavolo di una mandria di tagliagole ed il loro capo gli iniettò in corpo una scossa fredda di puro terrore, facendogli svegliare tutti i sensi in una sola volta.

Si rizzò di colpo, mettendosi seduto, guardandosi febbrilmente attorno, quasi aspettandosi che qualcosa lo attaccasse da un momento all’altro o di ritrovare collo, polsi e caviglie fissate ad una parete con delle catene.

Non trovare niente di tutto ciò lo stordì per un istante. 

Attorno a lui solo una normalissima stanza, o meglio un’anonima cabina con i mobili coperti di un sottile strato di polvere e chiaramente rimasta inutilizzata da tempi immemori.

Archetto si alzò, poggiando i piedi nudi sul pavimento polveroso e scoprendo che, sotto le coperte miracolosamente pulite della branda, indossava solo i pantaloni.

Ci volle poco per ritrovare il resto dei suoi vestiti su una sedia poco distante dal letto, ma la domanda sorse spontanea:

Chi mi ha spogliato? - rabbrividì alla prospettiva che a trasportarlo lì e a privarlo dei suoi abiti fosse stato proprio quella iena dai capelli rossi.

Davvero, cosa diamine gli era saltato in mente?

Piombare come un sasso alla mercé di quell’assassino ...

Si passò nervosamente una mano prima sugli occhi, poi sui capelli, scompigliandoseli nervoso.

“Dannazione.” mormorò mezzo inviperito con se stesso, afferrando al volo la camicia e cominciando a rivestirsi.

Fu proprio in quel momento, mentre era ancora intento ad allacciarsi i bottoni rimanenti che la porta della stanza, alle sue spalle, si spalancò di botto, spinta da qualcosa di molto simile ad un calcio ben assestato e rumoroso.

Eustass Kidd gli apparve sulla soglia, glorioso come non mai. I capelli fiammanti ed appuntiti che svettavano verso il cielo, sfidando la forza di gravità, un sorriso di pura soddisfazione stampatosi in faccia non appena lo aveva visto in piedi e ...

Il biondo ebbe paura di identificare l’oggetto che il rosso teneva in una mano, ma, a dispetto delle sue più catastrofiche previsioni, si trattava solo di un boccale di rhum mezzo vuoto.

E il sole non si era ancora alzato del tutto...

Ma che ore erano??

Il rosso allargò le braccia, onorandolo con uno strano saluto reverenziale che nulla aveva di rispettoso se non la forma.

“Ben svegliato, principessino...” lo derise apertamente.

Soffocò l’urgenza di lanciargli addosso uno dei suoi coltelli, ben sapendo che comunque, essendo stato privato dei propri vestiti, quel bastardo doveva anche essersi premurato di allontanarlo dai suoi fedeli arnesi.

“Quanto tempo ho dormito?” domandò, continuando a guardarlo con circospezione, concedendosi nel frattempo di raccogliere il proprio gilet, che notò chiaramente alleggerito dal peso delle armi nascoste al suo interno.

“Due giorni.” sentenziò il pirata,sorseggiando poi un’altro paio di sorsi dal bicchiere, quasi la cosa non avesse gran peso per lui.

Per Arch invece fu un vero e proprio colpo allo stomaco.

“Due giorni?!” ripeté, mettendosi di riflesso una mano sulla pancia, sentendola risvegliarsi di colpo, gorgogliando e stringendogli le viscere in dolorosa e rumorosa protesta.

“Uhg..!” si lamentò, piegandosi in avanti, avvertendo il peso del digiuno colpirlo come un macigno.

La risata gracchiante di Kidd accompagnò la voce brontolante del suo stomaco.

Rialzando gli occhi il biondo vide il pirata osservarlo rapace, inclinando la testa da una parte quasi si stesse godendo la vista di una bestia rara.

E la cosa non lo rese affatto tranquillo.

“Che hai da ridere?” soffiò in mezzo ai denti, abituandosi poco a poco a quella sgradevole sensazione di interiora che si contorcevano su loro stesse.

Un’altra risata gli disturbò le orecchie, ma nessuna risposta la seguì. Semplicemente quel rosso continuò ad osservarlo, godendosi appieno quella piccola vittoria.

Poi lo vide avanzare di un passo, poggiando -  o meglio gettando - il boccale su uno dei ripiani polverosi della stanza, inducendolo ad indietreggiare di riflesso.

Sentì un filo di sudore inumidirgli appena le tempie e capì che la situazione gli stava sfuggendo di mano. Non gli piaceva affatto come lo stava guardando, nè il modo in cui si stava facendo più vicino a lui. Era come se si stesse divertendo a braccarlo.

Toccò una parete della camera con le spalle e lì non poté più rimanere zitto.

Non sapeva cosa avesse in mente quel pazzo, ma non era di certo ansioso di scoprirlo. 

“Dov’è Viola?” 

A neanche un metro di distanza da lui Kidd si bloccò, facendo sparire per un attimo quel suo odioso e largo sorriso da iena. Arch esultò mentalmente, ringraziando di aver guadagnato un piccolo lasso di tempo per rimettere insieme i pezzi ed elaborare velocemente un piano.

Dal poco che era riuscito ad osservare della camera non c’erano altre vie di uscita a parte la porta e il pirata lo ostacolava ergendosi davanti a lui come un’immensa statua, stroncando sul nascere qualsiasi suo proposito di fuga. 

L’unica era affrontarlo, ma non aveva con sè i suoi coltelli.

Strinse i pugni.

Avrebbe dovuto agire d’astuzia dunque, come aveva sempre fatto.

Perfetto.

La mano smaltata di Eustass Kidd si inchiodò con suono sordo accanto al suo viso, cogliendolo di sorpresa. Il sorriso era tornato sul suo volto spigoloso, deformandolo nuovamente nella solita espressione vittoriosa.Di certo Arch non poteva dirsi contento di avere l’alito tutt’altro che salubre del pirata a meno di un dieci centimetri di distanza, ma almeno avere una via di fuga in meno gli aveva in un certo senso chiarito quali fossero le mosse a sua disposizione.

“Preoccupato per la tua adorata, fatina?” sussurrò insinuante il rosso.

Arch.” lo corresse per l’ennesima volta a vuoto, visto che il capitano parve non dargli nemmeno ascolto.

Un punto in meno per lui.

“Sai non ti do tutti i torti...” continuò intanto quello, senza però, per sua somma gratitudine, avvicinarsi più di tanto “Tutta quella mercanzia lasciata incustodita...”

A quelle parole il ragazzo si accigliò, dando infine i primi segni di preoccupazione.

Era vero: Viola lasciata sola per ben due giorni in mezzo a simili individui era un azzardo gigantesco se si contava che l’argentata non era in grado di difendersi da sola senza rischiare di riaprirsi le ferite, ma da quel che ne sapeva Morgan era con lei, quindi il rischio che qualcuno di quegli schifosi avesse anche solo osato mettere piede nella cabina della cugina era molto basso.

Si era talmente concentrato sui propri pensieri che non aveva notato di quanto avanti fosse andato il discorso del rosso.

“Deve essere una vera tortura stare al fianco di una simile bellezza e tenere le mani a posto...” concluse l’uomo con fare allusivo, abbassando di poco la testa per far sì che il contatto coi loro occhi si facesse più intenso.

“Non so di cosa tu stia parlando.”

Le labbra di Eustass Kidd caddero nuovamente verso il basso per la delusione provocatagli da quella risposta asciutta e laconica, ma ci mise poco a riprendersi.

“Oh.. davvero?” insistette, avvicinandosi ancora un po’ al volto dell’altro, fremendo di soddisfazione nel vederlo cercare inconsciamente di appiattirsi ancor di più alla parete. Era completamente alla sua mercé. Non era un caso che l’avesse disarmato due sere prima: aveva progettato di poter fae quattro chiacchere in privato con il biondino senza spiacevoli inconvenienti, non prima però di rendere omaggio alla stangona una  visitina.

Purtroppo i suoi piani erano falliti quando aveva trovato avvolto al corpo inerme della ragazza il mocciosetto, trasformato in lucertola con tanto di denti affilati.

Ora, Eustass Kidd poteva pure essere un fottuto bastardo, un sanguinario ed un inguaribile attaccabrighe, ma aveva un personalissimo metro di valutazione riguardo le cose che era disposto a fare o meno.

E sporcare di sangue i pavimenti della sua amatissima nave per cercare di graziare il suo corpo di una semplice e sana scopata non rientrava tra le prime.

Ma se l’alternativa alla prima opzione era pronta dietro l’angolo...

I suoi occhi percorsero voraci il corpo dell’altro e le mani prusero violentemente, fremendo per chiudersi ancora una volta attorno quel grazioso e quasi femmineo collo.

Dio che tentazione avercelo a quella distanza.

Se non fosse stato che Killer gli aveva, accortamente,  fatto promettere di limitarsi a poche parole con il ragazzo, senza tentare nulla di sconveniente, di certo non si sarebbe nemmeno posto il problema di tutte quelle stronzate riguardo la consensualità.

Oh. Certo. Non che fare certe cose con entrambe le parti daccordo non fosse piacevole...Ma perchè diavolo aveva dato retta a Killer?! 

Tsè. A quanto pare doveva averlo preso un po’ in simpatia.

Si ritrovò a grugnire inconsciamente, arrabbiato con se stesso per essersi fatto incastrare dalle parole del proprio vice, tornando poi al viso di Angelo Infido che, con i suoi occhi taglienti come cobalti affilati, lo stava trafiggendo con ostilità.

“Allora che ne dici di riprendere il discorso sul Nuovo Mondo?” ridacchiò, senza nemmeno accennare ad allontanarsi dal biondino.

“Voglio vedere Viola.” fu la risposta di quello, anche lui per nulla intenzionato a staccarsi da quel muro.

Per lui non c’erano problemi, anzi, la loro differenza di altezza era talmente tanta che Eustass torreggiava letteralmente sul più giovane, rendendo l’intera situazione, almeno per lui che era in netto vantaggio, molto piacevole.

Ridacchiò dal fondo della propria gola.

“Qualche parolina sul Nuovo Mondo prima.”

Vide Arch scivolare appena da una parte, evidentemente cercando di capire quanto sarebbe stata veloce una sua reazione ad uno scatto laterale.

Quasi gli venne da ridere. Ma per chi l’aveva preso quel moccioso? Per un novellino?

Sbarrò anche la seconda via d’uscita con l’altro arto, inchiodandolo tra le sue braccia, senza alcuna scelta se non quella di affrontarlo rimanendo dov’era.

“Perchè tanta fretta?” lo schernì, vedendosi rispondere con un’occhiataccia più aggressiva delle altre.

Quel biondino aveva davvero del fegato, su quello non c’erano dubbi. Era da quando era entrato che non gli aveva tolto gli occhi di dosso per un istante, studiando e controllando attentamente ogni sua mossa e, come se non bastasse, da quando si era avvicinato tanto da far quasi sfiorare i loro nasi, aveva sempre mantenuto un ferreo e diretto contatto visivo con i suoi occhi, dando vita ad una vera  propria battaglia di sguardi.

Era assurdamente fantastico quanto quella situazione lo esaltasse. 

“Mi era parso di capire che la stangona ti avrebbe sventrato non appena si sarebbe svegliata ...” giustificò in qualche modo la sua falsa perplessità.

Non che gli interessassero granchè dei motivi del biondino, chiaramente indirizzati ad allontanarlo il più possibile da lui, ma metterlo in difficoltà gli sembrava la cosa più divertente che potesse fare al momento.

Arch non si mosse per un po’, restio a concedergli una risposta subito, stretto com’era in una morsa senza uscita, ma, nonostante la sua posizione, che lo costringeva a stringersi nelle spalle a causa dello spazio a dir poco ristretto che la mani del pirata gli concedevano, la sua espressione rimase pressoché immutata.

“Affari miei...” sibilò ostile il biondo, facendo una cosa di cui certamente più tardi, molto più tardi, si sarebbe pentito.

Ma, francamente, non gliene fregava assolutamente nulla.

Portò una gamba all’altezza del petto e, con uno slancio ben calcolato, assestò un calcio dritto in mezzo alle gambe del pirata.

La reazione fu immediata: le mani che lo tenevano imprigionato al muro si ritirarono di scatto e la figura dell’uomo di arricciò su se stessa con un rantolo sorpreso e frustrato.

Lui non rimase certamente ad assistere all’intero spettacolo e, buttandosi verso la porta, afferrando al volo i propri stivali durante il rapido tragitto, fece appena in tempo a sentire l’inizio di una lunga serie di insulti a suo carico, prima di ritrovarsi in uno dei lunghi corridoi interni della nave.

Come aveva previsto un piccolo manipolo scoordinato di pirati gli si presentò davanti, sorpresi di vederlo uscire così improvvisamente dalla sua cabina e troppo confusi per capire che la sua fuga centrava qualcosa con le imprecazioni famigliari provenienti dalla stanza da cui era riemerso dopo una lunga assenza.

Il biondo non si perse certo in chiacchiere e fece la cosa che da sempre gli riusciva meglio: concentrò i propri occhi su ogni singolo movimento che rientrava nel suo raggio visivo ed indirizzò la sua mente ad un unico semplice scopo: scansare tutti quei pirati impomatati e borchiati ed  arrivare al ponte della nave sano e salvo.

Il suo corpo partì istintivamente facendo un vero e proprio slalom tra i corpi sparsi per il corridoio.

Nessuno dei pirati di Kidd capì bene cosa fosse successo quando la testa bionda del ragazzo era ormai passata loro accanto ad una velocità incredibile, allontanandosi a gran velocità, ma, vedendo il loro capitano riaffiorare dalla porta ancora spalancata mentre si teneva rabbiosamente l’inguine digrignando i denti, la situazione si chiarì in un lampo.

La parte più difficile per loro fu non ridere, cosa che non avrebbe giovato né a loro né a quel ragazzo che stava per incontrare la cosa più terribile che ci potesse essere al mondo...

La furia di Eustass Kidd.

Il rosso si era infatti lanciato all’inseguimento del ragazzo, divorando a grandi passi il corridoio della nave, raccogliendo al proprio passaggio qualunque tipo di oggetto metallico che reagisse al suo potere di Frutto del Diavolo.

Voleva giocare? 

Bene! 

L’avrebbe accontentato!

Al diavolo quello che sapeva sul Nuovo Mondo! Non poteva esserci nulla di così importante che venisse prima di una piccola vendetta per quel vero e proprio attentato ai suoi gioielli di famiglia!

E vaffanculo a Killer e alla sua stupida promessa!

Avrebbe preso quella fatina da strapazzo e l’avrebbe sbattuto fino allo sfinimento!

Arrivò in coperta con vero e proprio arsenale in ferro a ricoprirgli il braccio, pronto a chiudersi impietoso sulla figura minuta del ragazzo che, con sua somma gioia, non faticò ad individuare.

Fortuna che il ponte a quell’ora era poco frequentato.

Slanciò l’enorme braccio artificiale in avanti, tendendolo per afferrare al volo Arch, in quel momento rivolto di spalle mentre correva a più non posso verso la cabina di Viola.

Imprecò tutt’altro che velatamente,vedendo il biondino scansare come acqua il suo attacco.

Ritirò la mano e ripetè la stessa mossa, ma il risultato fu sempre lo stesso e questo non fece che aumentare la sua rabbia.

“Torna qui!!” sbraitò prima di sciogliere i legami magnetici che teneva unito il simulacro metallico del suo braccio e passare ad un altro metodo: ogni lama od oggetto tagliente si librò in aria per poi scagliarsi verso il giovane sotto la spinta dell’onda magnetica della sua mano tesa.

Fu un miracolo per Arch, nonostante i suoi riflessi, riuscire a scansarli tutti senza un graffio, anche se i sui vestiti subirono la maggior parte dei danni, presentando di qua e di là squarci che testimoniarono di quanto vicino l’attacco di Eustass fosse andato a centrarlo.

Il biondo boccheggiò esausto, poggiandosi a quella che, si accorse immediatamente con sua immensa gratitudine, era la parete della stanza di Viola.

Non avrebbe mai creduto di potersi sentire felice per la ritrovata vicinanza della cugina.

Davanti a lui Kidd camminava con in faccia un’espressione che tutto diceva tranne pietà.

Si fiondò dritto sulla maniglia della stanza e vi entrò appena in tempo per vedere un paio di lame affilate trafiggere l’uscio poco sopra la sua spalla.

Cavolo, peggio di così non poteva andare...

Indietreggio piano piano, conscio del fatto che Morgan, ancora sotto forma di lucertola, lo stava guardando terrorizzato.

Viola stava ancora dormendo, ma, se conosceva bene i ritmi di guarigione della cugina, ormai le ferite dovevano essersi come minimo cicatrizzate.

Ok, iena rossa dei miei stivali ...- pensò, preparando la gola a una cosa che poche volte nella sua vita aveva fatto - ...è ora di farti conoscere qualcosina su noi del Nuovo Mondo.

Gonfiò i polmoni, sentendoli riempirsi d’aria molto più di quanto avessero fatto in tutta la loro vita, e, spalancando la bocca, fece l’ultima cosa che il pirata rosso, arrivato di poco accanto alla porta, si sarebbe mai aspettato di sentire.

VIOLA!! SVEGLIATI STUPIDA IMBECILLE!!

Un urlo in una lingua che non aveva mai sentito.

 

 

Atto 18, scena 12, Moby Dick

 

Allegra tossicchiò, spuntando quelle poche schegge che erano riuscite ad entrarle in bocca durante l’esplosione che l’aveva letteralmente fatta saltare giù dal letto dell’infermeria, scaraventadola per terra con ancora le coperte attorcigliate alle gambe.

Puntò le braccia sul pavimento in legno come meglio potè, tentando di rialzarsi, ma il mondo sembrò vorticarle attorno non appena provò a raddrizzare il collo per vedere cosa avesse provocato tutto quel disastro.

Le voci confuse delle infermiere e le urla di Betty, che con fermezza invidiabile intimava la calma alle compagne, le sovrastavano le orecchie, intralciando i suoi tentativi di rimettere insieme le idee.

“Ugh..” si lamentò, avvertendo qualcosa di liquido salirle pericolosamente in gola, risalendo l’esofago direttamente dallo stomaco.

Evitò il peggio con un paio di respiri profondi, riuscendo infine a rialzare lo sguardo.

Attorno a lei un polverone che odorava di legno rotto le oscurò dapprima la vista, impedendole di guardare oltre una distanza superiore al metro e mezzo, poi si fece man mano sempre più rado, rivelando, laddove prima c’era stato il suo letto, i resti spaccati di metà del giaciglio che, a dir poco miracolosamente, si era semplicemente capovolto, provocandole la rovinosa caduta che l’aveva portata sul pavimento.  

Individuò Jaws in un battito di ciglia, anche lui capitombolato a terra su un fianco, anche se, dal modo in cui si muoveva, la sua non doveva essere stata una semplice caduta e ne ebbe conferma quando, dopo aver scrollato la testa, il Comandante della terza flotta tornò in piedi, rivelandole il proprio viso girandosi verso di lei.

Avrebbe lanciato un gemito strozzato dalla paura se avesse potuto.

Metà del corpo di Jaws si era letteralmente cristallizzato, dividendo la sua enorme figura in due parti: quella normale e quella che luccicava alla luce del sole filtrante attraverso le finestre.

Anche lui? - pensò incredula non riuscendo a staccare gli occhi di dosso dall’amico, mentre questo gli si avvicinava - Ma le sue non sono fiamme!

Il comandante si accovacciò su di lei, evidentemente intenzionato ad aiutarla a rimettersi in piedi, ma il primo istinto della ragazza, alla vista dell’amico tramutatosi in qualcosa di incomprensibile ai suoi occhi, fu quello di incavare la testa nelle spalle, impaurita e leggermente tremante. 

Gli occhi dell’altro si incupirono al suo gesto, evidentemente ferito e forse fu quello che le permise di notare qualcosa di strano sul suo fianco: nonostante la parte intagliata e quasi trasparente del comandante fosse un incastonarsi perfetto di figure geometriche splendenti, Momo trovò il lato destro del petto orribilmente incrinato, appiattito e percorso appena di piccole crepe, quasi fosse stato schiacciato.

Ritrovare a pochi metri dai piedi dell’altro una strana sfera nera e chiaramente metallica le fece capire al volo la situazione. 

Non solo Jaws era stato colpito in pieno da una palla di cannone, ma aveva anche seriamente rischiato un fianco, riuscendo - ancora non sapeva spiegarsi come - a solidificare all’ultimo momento il proprio corpo giusto per non riportare grossi danni.

Realizzando il tutto, la paradisea strinse i denti, ricacciando all’indietro le parole che gli erano salite spontaneamente, dettate dalla preoccupazione dei confronti dell’amico.

Al posto di ciò che voleva dire emise invece un suono sofferente, che, comunque, fu ben compreso dall’altro, a giudicare dal modo in cui aprì il volto ad un breve sorriso rassicurante.

“Momo!!!!”

La paradisea seppe immediatamente a chi apparteneva quella voce e fu per questo che il suo cuore mancò di un battito, ma, dirigendo istintivamente lo sguardo nella direzione da dove era provenuta, vederlo lì in carne ed ossa minacciò di farglielo esplodere dall’emozione.

Marco stava davanti alla porta spalancata della stanza con le mani puntate sugli stipiti e il volto contratto di sgomento e preoccupazione.

Doveva essere tornato sui suoi passi non appena sentito il frastuono della bomba metallica, accorrendo come un matto solo per assicurarsi che stesse bene.

Quando finalmente gli occhi azzurri della Fenice la individuarono, quest’ultimo le si fiondò subito addosso, fermandosi a malapena in tempo per non inciampare su Jaws, di cui sembrava aver calcolato la presenza solo in un secondo momento.

“Stai bene?!”

A quella domanda quasi urlata la ragazza si limitò ad annuire, indicando però immediatamente con fare preoccupato il fianco di Jaws. Alla vista della vistosa incrinatura sul corpo adamantino del compagno, la fronte della Fenice si aggrottò ancor di più.

“Per la miseria...!” esclamò a mezza voce, incredulo.

Era la prima volta che vedeva il corpo mastodontico del comandante in terza venire scalfito da una semplice palla di cannone. L’attacco doveva averlo colto alla sprovvista.

“Sto bene.” grugnì semplicemente l’altro indurendo gli zigomi con ferocia malcelata.

“Chi sta attaccando?”

“Doma.” rispose la voce di Carol al posto del biondo, intromettendosi nella conversazione, mentre con un cannocchiale in mano osservava la situazione da uno degli oblò.

“Ha pensato bene di passare alle armi ad ampio raggio.” concluse con tono quasi sdegnato. 

Nemmeno le infermiere vedevano di buon occhio l’utilizzo di simili aggeggi per uno scontro tra pirati.

Accovacciato accanto a Momo, il comandante Fenice udì chiaramente un vero e proprio ringhio provenire dalla gola del compagno, e non era un bene.

Conosceva Jaws e in momenti simili la migliore cosa da fare era una sola: permettergli di sfogarsi.

“Io penso a Momo, tu vai pure in coperta.”

Il comandante della terza flotta non se lo fece ripetere.

Una volta rimasto solo con la Paradisea, Marco ritornò su quest’ultima, trovandola tutta presa ad osservarlo piena di confusione e con le fiamme gialle che oscillavano docilmente attorno a lei, incerte, come spaventate.

La prese in braccio, passandole una mano dietro la schiena e l’altra sotto le ginocchia, sollevandola ed infine stringendosela addosso.

Il fuoco della ragazza divampò più forte nel momento stesso in cui le sue piccole mani incontrarono casualmente il petto scoperto del comandante, tradendola nel tentativo di nascondere quanto la vicinanza del biondo la mettesse in soggezione.

“Andiamo.” le sussurrò, mentre lei tentava di tenere lo sguardo il più basso possibile, stringendosi le labbra tra i denti per non emettere alcun suono. Le sue dita affusolate indugiarono per un istante sulle spalle dell’altro per poi chiudersi con decisione attorno la stoffa della camicia.

Marco si concesse un piccolo sorriso prima di alzare la testa e, tornando serio all’istante, emettere a gran voce il proprio ordine a tutte le infermiere.

“Lasciate qui le attrezzature!! Vi spostate nell’altro lato della nave!!”

 

Fine seconda parte Atto Diciottesimo

 

Note di Libretto: jap - ita 

Shinka: Jikko = Fiamma Sacra: Esecuzione (mossa inventata da me XD)

Jankenpou = Sasso, Carta, Forbice

 

Ma Buongiorno! Sono tornata ad aggiornare! Contente? Ovvio che sì. Dovete. Mi sono fatta un mazzo per questo capitolo!

Più vado avanti più mi sembra che le cose stiano diventando un po’ troppo complicate. Che ne pensate?

Naaah, forse mi sbaglio... (Bastard Inside... NdLettori)

Comunque. Incredibile ma vero sono tornate le Note di Libretto! Bhe... se ci metto le parole in giapponese è naturale che ci siano.

Spero di non avervi deluso con queste 16 pagine ricche di descrizioni!

Al prossimo capitolo a voi che siete rimaste (perchè non so perchè ma sembra che appena questa storia ha cominciato a presentare accenni pesanti Yaoi, qualcuno abbia pensato bene di squagliarsela pesantemente [la storia sembra essere preferita da 5 persone in meno]...coincidenza? Mah, fatti loro. Io scrivo.)

 

Alla prossima belle bimbe e non mancate di suggerimenti sempre ben accetti!!!

Kisskiss

TS


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Capitolo 25
*** Atto 19 -prima parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata 

Atto 19 -prima parte -

Atto 19, scena 1, Hell Glory

Non era stato l’urlo di per sé ad averla scossa. Di certo sarebbe stata una vera barzelletta se lei, proprio lei, si fosse spaventata per un grido simile, nemmeno lontanamente paragonabile ai suoi, più alti di almeno qualche centinaio di decibel.

Aveva alzato la testa dal cuscino con un ringhio sommesso, ancora troppo sbigottita dal sonno per partorire qualsiasi pensiero che non fosse direttamente rivolto a quella frase appena sbraitatale a pochi centimetri dalle orecchie.

SVEGLIATI STUPIDA IMBECILLE!!

Imbecille...

Imbecille.

... Imbecille.

Una parola che le rimbombò in testa per un tempo interminabile, senza significato, quasi inserita in un groviglio di altrettante sillabe e parole nebbiose.

Praticamente una goccia d’acqua sospesa nell’oscurità.

Senza senso, nè capo, nè coda.

Viola non era mai stata una grande fan delle lunghe dormite, anzi, su Nido Leila era addirittura quella che si riposava meno di tutte, svegliandosi al tramonto ed addormentandosi molte ore dopo l’alba.

Eppure, vuoi per le ferita, vuoi per l’enorme spreco di energie che l’urlare come una pazza le aveva richiesto giorni prima, realizzare quello che stava effettivamente succedendo, almeno nei limiti della stanza che le era stata messa a disposizione, le parve una vera e propria impresa.

Chissà... , forse perchè nessuno mai aveva osato svegliarla di persona e in quella maniera.

Ciondolò mugugnando mentre riemergeva dalle coperte con i capelli sconvolti e gli occhi ancora gonfi dal sonno, la parola nefasta ancora rimbombante nelle orecchie.

Un odore simile alla segatura le colpì il naso, facendoglielo bruciare dall’interno, e si ricordò di Morgan accanto a lei. Il bambino lucertola si era irrigidito come un pezzo di legno ed era quasi un miracolo che lo sentisse respirare in mezzo ai sottili scricchiolii che le sue squame emanavano.

Si strofinò gli occhi con una mano, non dando troppo peso alla cosa e fu allora che una minima parte del suo cervello cominciò ad elaborare quel poco di informazioni ottenute.

Le fasciature strette alle braccia. 

Il ricordi sfocati  di un letto morbido, il calore di qualcosa di secco e ruvido.

Capelli biondi...

La mano le si bloccò tra i capelli colta nell’atto di grattarsi la nuca e gli occhi le si sbarrarono inorriditi, immediatamente svegli e liberi dal torpore del sonno.

Capelli biondi...

Imbecille...

Fasciature alle braccia ...

Imbecille...

Il rumore di passi affrettati  nella stanza e della porta che si apriva e richiudeva le diedero conferma dei suoi sospetti.

“Signorina...” fece in tempo a sussurrare Morgan, nella speranza che l’argentata non fosse così arrabbiata da..

ARCH!!” Fu una fortuna che la gola le facesse ancora male e che il sonno le avesse anche impastato la bocca: non sarebbe stata i  grado di tenere la voce bassa mentre, brancolando nelle pesanti coperte del suo letto, si accingeva a rincorrere il cugino con il preciso proposito di distruggergli le ossa sane rimaste.

L’avrebbe anche fatto se di punto in bianco la porta non si fosse nuovamente spalancata, facendo ruzzolare all’interno della stanza un Archetto che, senza dar troppo peso all’argentata ed imprecando a mezza voce, si fiondò a capofitto nell’angolo più nascosto della stanza, sbattendo le spalle contro la parete di legno con un forte tonfo, facendo traballare le cianfrusaglie disposte sulle mensole.

Neanche un secondo dopo una serie di coltelli si conficcò nelle travi del pavimento, esattamente dove era passato il biondo, facendo ansimare dallo spavento Morgan, ancora rannicchiato sul letto in forma da rettile  scheggioso, ma solo per un istante non appena sulla soglia apparve la figura mastodontica , almeno per lui, di Eustass Kidd, che gli provocò un ringhio mezzo minaccioso all’altezza della gola.

Viola era rimasta impietrita ad osservare per qualche attimo le lame fermatesi a pochi centimetri dai suoi piedi, prima di posare lo sguardo sul rosso appena giunto.

Anche per riconoscere l’uomo che, con un ghigno raccapricciante, le si era parato davanti, il cervello, ancora intorpidito e bisognoso di una bella schiarita, ci mise un po’.

I ricordi dei giorni scorsi faticarono a tornare, ma, man mano che questi andarono a comporsi, i suoi occhi si allargarono sempre di più, pieni di consapevolezza.

Le ferite sulle sue braccia tornarono a bruciarle per un istante e sul suo viso, per una volta nella sua vita sciolto in un’espressione diversa dal solito cipiglio rabbioso, si contrasse nuovamente, puntando con uno sguardo fulminante il pirata.

Arch e Morgan, dalle loro postazioni, osservarono Kidd e Viola squadrarsi per pochi secondi, sia l’uno che l’altra dimentichi del biondo che era stato poco prima oggetto della loro furia.

“Ma buongiorno...” disse con una sottile nota di sarcasmo il pirata, studiando con voracità, a dire di Viola rivoltante, le forme della propria ospite, in quel momento molto lontana dall’essere presentabile con il corpetto allentato e i segni del sonno ancora ben evidenti addosso.

Viola rispose con un ringhio sommesso, bloccando il pirata dall’avanzare di un passo di troppo, per poi scoccare un’occhiataccia ad Arch, ancora addossato al muro con gli occhi blu sottili e guardinghi.

C’erano molte cose che la ragazza ancora non riusciva a capire e, almeno prima di cominciare a distruggere la faccia di quello schifoso umano depravato che le stava davanti per poi passare al cugino, volle tentare di fare una delle cose che Allegra le aveva suggerito fin da quando erano bambine: mettere da parte gli istinti omicidi e discutere.  

Arch...” cominciò, attirando su di sè l’attenzione del biondo “... che stramaledetti è successo mentre dormivo?

Il tono di voce non fu certamente uno dei più cortesi, ma, dopotutto, Arch non si sarebbe di certo lamentato: era già tanto che non gli si fosse fiondata addosso pronta a fare strage delle sue giunture ossee.

Morgan avrebbe tanto voluto chiedere cosa avesse effettivamente detto la più grande, ma, vista l’atmosfera creatasi, optò per il silenzio, continuando a puntare il pirata rosso a mascelle dentate semi-scoperte, sperando in cuor suo di risultare quantomeno minaccioso ai suoi occhi. 

Kidd, tuttavia, aveva smesso di prestare attenzione al bambino lucertola già da un bel po’ e le parole incomprensibili dell’argentata avevano fatto la loro parte, cancellando di netto il suo sorriso.

Quella era la seconda volta che sentiva parlare uno dei suoi ospiti in quella maniera. La sera prima il biondo si era addormentato borbottando qualcosa di molto simile, ma era stato un istante e non ci aveva riflettuto più di tanto.

Ora però che le parole erano di più e non potè fare a meno di notarlo.

Non era una lingua della Grande Rotta. Poco ma sicuro. Era troppo fluida.

E non furono solo questione di parole utilizzate, ma anche di tono e del modo di pronunciare le parole.

Alle sue orecchie l’intera frase, per quanto duro fosse stato il tono della stangona, era parso suadente, attorniato da una sorta di leggerezza paragonabile solo a quella del vento o dell’acqua che, per quanto forte potessero colpire o muoversi, rimanevano pervasi da quell’alone di mistero e sottigliezza intangibile.

Che razza di lingua era quella?

Si riscosse, scrollando lievemente la testa quando sentì il biondo risponderle. Non capì una sola parola di quello che si dissero, ma non fu certamente una discussione tranquilla da quel che dedusse dall’aspetto poco amichevole dell’argentata.

Hai richiamato un RE, Viola. Abbiamo fatto malapena in tempo ad andarcene dall’isola.

Dov’è la Clara?

Ci fu un attimo di silenzio scomodo da parte del biondo.

Andata.

Il rosso vide la ragazza serrare più duramente la mascella e gli occhi saettare per un attimo tutt’intorno alla stanza, forse non trovandola famigliare.

Dove siamo Arch?

La domanda era stata meno pesante rispetto alle precedenti, ma alle orecchie di Kidd parve la più pericolosa e il fatto che Arch si fosse per la seconda volta ammutolito di colpo gliene diede conferma. Poi accadde qualcosa di inaspettato: con uno scatto quasi felino Viola si lanciò sull’altro, mirando chiaramente ad afferrarlo per il collo e, chissà, magari tirarglielo anche come si fa con le galline.

Fortunatamente il biondo, quasi avesse previsto con largo anticipo quella mossa, si scansò giusto in tempo per vedere la mano dell’altra affondare nel muro in un mare di schegge.

DANNATO BASTARDO!!

Quell’urlo quasi lo sconvolse. Kidd era certo di non aver mai visto una donna più rumorosa di quella. E dire che la gola doveva anche esserle ancora dolente dopo gli strilli di tre giorni fa. Sogghignò deliziato, incrociando le braccia al petto, ormai dimentico dei suoi precedenti progetti di vendetta nei confronti della fatina.

Chi l’avrebbe mai detto che alla fine si sarebbe goduto uno spettacolo tanto interessante in prima fila?

“Signorina!!” esclamò il bambino lucertola ancora tra le lenzuola del letto, gli occhi gialli spalancati dal terrore.

Viola nemmeno si voltò verso il piccolo e caricò una seconda volta, stavolta riuscendo a sfiorare e quasi afferrare con una mano alcuni fili dorati dei capelli dell’altro, cercando di strapparli di netto.

Però... - pensò, colpito per l’ennesima volta, poggiando distrattamente la spalla allo stipite della porta - la fatina non scherzava a proposito della stangona, quando diceva che l’avrebbe ammazzato.

Arch, dopo aver scansato il secondo attacco, quasi inciampò nelle coperte del letto, scivolate a terra dopo che Viola si era alzata di scatto dalla branda, ma riuscì in qualche modo a rimanere in piedi, rifugiandosi dalle mani della ragazza continuando ad indietreggiare.

Kidd si accorse di una cosa e sfoggiò il più glorioso e subdolo dei propri sorrisi.

Intanto Viola era passata ad un altro tipo di attacco: il lancio di oggetti.

Il biondo scansò a malapena un pugnale di piccole dimensioni che, roteando di poco accanto alla sua spalla, andò a cadere con frastuono assurdo sulla parete dietro di lui.

Arch sapeva bene di averla fatta arrabbiare ed era in quello a cui aveva sperato quando, soppesando l’ira di Kidd con quella della cugina,  aveva deciso di svegliare quest’ultima, sbagliando clamorosamente e per la prima volta in vita sua i propri calcoli.

Uscendo dalla porta della stanza come un matto, pronto ad allontanarsi da quella bomba ad orologeria appena innescata di nome Viola, aveva incontrato niente meno che una seconda ondata di arnesi taglienti diretti verso di lui con il volto arcigno e spaventosamente incazzoso del pirata rosso a farne da sfondo.

Tornare nella stanza era stata una scelta obbligata, per quanto suicida, ma il rimanere fuori dall’uscio un solo nanosecondo di troppo lo sarebbe stato ancor di più, a meno che non mirasse a farsi qualche altro buco dopo quello de-..

Il pensiero che gli balenò in testa lo bloccò, lasciandolo ad occhi spalancati ad osservare il vuoto.

L’orecchino!!

A nemmeno un metro di distanza dietro di lui, Eustass continuava ad osservare il tutto con estremo divertimento, aspettando tranquillamente lo svolgersi degli eventi, come se quelli che gli si stavano scannando innanzi non fossero altro che una coppia di mocciosi attaccabrighe, piuttosto che una coppia di ricercati piuttosto suscettibili.

Trattenne una risatina rauca quando, chissà per quale colpo di fortuna, la Sollevapesi afferrò per il colletto il ragazzo, bloccatosi improvvisamente, avvicinandoselo quel tanto che bastò per sbraitarli in faccia quello che aveva da dirgli, qualunque cosa fosse.

CHE COSA HAI PROMESSO A QUESTA BANDA DI VERMI SCHIFOSI?! DIMMELO!

Un attimo di silenzio, in cui la testa bionda di Angelo infido parve ciondolare smarrita, prima di tornare a rispondere per le rime all’altra.

NIENTE! CAPITO? NON H-!

Un movimento delle mani e la Sollevapesi lo scaraventò lontano, facendolo rotolare letteralmente ai piedi di Eustass Kidd.

Cooff!!” tossì, sentendo i polmoni contrarsi e protestare dolorosamente per il colpo subito, e cercò immediatamente di rimettersi in piedi, ma qualcosa all’altezza della spalla, anzi, sulla spalla glielo impedì, inchiodandolo esattamente dov’era atterrato.

“Signor Arch!”

Non gli servì la voce allarmata di Morgan per capire cosa, o meglio, chi lo stesse effettivamente trattenendo.

Sentì il viso sbiancare lentamente, e,pregando il Grande Spirito per un miracolo, una catastrofe, una cosa  qualunque, lanciò un rapido sguardo in basso a sinistra.

Cinque dita smaltate attaccate ad una mano tozza e chiara lo salutarono deridendolo, facendo crollare di colpo ogni sua speranza.

“Andavi da qualche parte, fatina?”

Il primo istinto fu ovviamente quello di dimenarsi, stroncato di netto dalle dita del pirata, artigliatesi alla sua spalla come per cercare di penetrargli la carne, e da uno strattone ben assestato che non fu altro che uno dei primi.

Eustass fu più che felice di essere riuscito finalmente, anche se con un sotterfugio un po’ sleale, ad agguantare il biondino e, più lo trascinava per la spalla verso la porta, più pregustava la sua personale e piacevole vendetta progettata in precedenza.

Viola!!!” piagnucolò il biondino in quella strana lingua, continuando a cercare di fargli mollare la presa con colpi ripetuti al polso e cercando di fargli ritrarre le dita da quella che, sapeva benissimo, era una stretta dolorosissima, visto il punto della clavicola che stava impietosamente stringendo.

E strinse con ancor più decisione, ricevendo un rantolo soffocato che gli mandò ancor più sangue al cervello.

Roger ... che sensazione quella di avere l’assoluto controllo della situazione. 

Era talmente perso nelle proprie euforiche riflessioni che si perse un paio di sussurri e qualche scambio di battute di troppo tra i suoi due ospiti, ma che gliene fregava? L’unica cosa che gli interessava di vedere era l’esterno della stanza riservata alla Sollevapesi e nient’altro che non fossero i suoi alloggi privati come meta ultima!

Ci avrebbe pensato dopo a rendere omaggio anche alla stangona tett-.

Crack.

Per un istante fu certo di vedere il mondo traballare, incupendosi sui bordi, poi capì di essere stato colpito da qualcosa, letteralmente tra capo e collo.

La sensazione pungente di piccoli pezzi di legno più o meno all’altezza della nuca, unito all’intontimento dovuto al forte colpo subito, lo fecero voltare lentamente all’indietro giusto in tempo per vedere Angelo Infido sgusciare via dalla sua presa, approfittando di quel suo minuscolo attimo di distrazione che gli aveva fatto allentare le dita.

Subito dopo gli occhi furiosi della Sollevapesi entrarono nel suo campo visivo, talmente vicini da permettergli di notare che, incredibilmente, erano diventati rossi

E non per modo di dire.

Indietreggiò con la testa appena in tempo, più per la sorpresa che per il riflesso, prima che un pugno gli sfiorasse il mento squadrato.

Il disarmonico suono delle nocche dell’argentata scrocchiate una ad una fece da accompagnamento alla  sua figura scombinata e chiaramente furibonda che, avanzando verso di lui, lo indusse ad indietreggiare fino ad uscire sul ponte.

Le cicatrici sulle gambe e le braccia della Sollevapesi brillarono alla luce del sole, risplendendo bianche e lisce sul resto del corpo in modo inquietante. 

I segni del suo scontro con il Massacratore, richiusesi attorno gli innumerevoli giri di filo con cui Angelo Infido ne aveva costretto i bordi slabbrati, avevano dato vita ad una sorta di trama sulla pelle della ragazza, quasi un manto striato.

Viola grugnì infastidita dalla luce del sole, stringendo gli occhi scocciata.

Ritrasse le proprie fiamme dalle pupille, mormorando improperi verso il suddetto globo incandescente, tornando poi a dedicare ogni singolo grammo della propria attenzione verso il pirata.

Eustass la guardò con un pizzico di ammirazione mentre i suoi occhi ricadevano nel loro originale colore scuro come un paio di tizzoni ardenti freddati dall’aria invernale e la sua bocca sottile e dipinta si costrinse a recuperare un minimo della solita sfrontata compostezza, irrigidendosi quel tanto che bastò per non fargli assumere un’espressione strabiliata.

Non aveva capito un’accidente di quello che si erano detti i suoi ospiti, ma da come si erano accapigliati gli era parso che la stangona non si sarebbe certamente lamentata se ad occuparsi del biondino fosse stato qualcun altro.

Digrignò i denti.

Evidentemente si era sbagliato.

Alzò la mano destra con il palmo verso l’alto e le dita mezze piegate.

Tutte le armi sparse sul ponte iniziarono a lievitargli attorno, attratte dal centro magnetico che aveva creato proprio al centro della propria mano, ma questo la ragazza non poteva saperlo e, con un certo compiacimento, la vide bloccarsi ed allargare gli occhi, completamente presa alla sprovvista.

Viola flesse le ginocchia grugnendo alla faccia euforica del pirata e si preparò a scattare in qualsiasi momento: vedere una simile quantità di armi metalliche svolazzare liberamente per aria guidate da un singolo movimento del rosso non fece che aggiungere altro malumore a quello che già provava, specialmente dopo quello che Arch le aveva detto.  

Maledetto...” ringhiò correggendo immediatamente la lingua “ ...Hai davvero mangiato uno di quei frutti marci. Vero?!”

“Ooh! Molto acuta, bambolona.” la schernì divertito, avvertendo finalmente di star recuperando il controllo della situazione “Anche se mi stupisce che solo la fatina là dentro se ne sia accorta prima.” Aggiunse allusivo con tono di scherno, ottenendo esattamente quello che voleva, ovvero, farla scattare.

Come previsto, le spalle della Sollevapesi scattarono in avanti, pronte a caricare, ma, come succedeva maledettamente spesso di recente, qualcosa mandò a monte i propri progetti, impedendogli di lanciare gli oggetti taglienti sotto il suo controllo per tagliuzzare i vestiti già sgualciti della ragazza.

“Ferma Viola!!”

La voce di Arch Angelo Infido intervenne giusto in tempo per rompergli le uova nel paniere.

Merda. - imprecò internamente, dovendo rinunciare alla deliziosa prospettiva di far cadere nel più completo imbarazzo la panterona isterica che aveva di fronte.

Il biondo uscì alla luce del sole con calma, seguito a ruota dalla sagoma tremante di Morgan, accostatosi con timore vicino allo stipite della porta dopo aver riassunto forma umana.

Kidd detestava essere interrotto, quindi gli venne più che naturale progettare, anche solo per un attimo, di scagliare giusto un paio di spade dritte addosso alla fatina impertinente.

Il motivo per cui non lo fece fu senza ombra di dubbio legato al fatto che, per un altrettanto breve istante, la Sollevapesi parve essere del suo stesso avviso, mentre si voltò di scatto verso il compagno di viaggio.

“Arch...” righiò in tono per nulla affabile l’argentata “... hai intenzione di cucirti la bocca da solo o ci devo pensare una volta per tutte io?!”

Angelo Infido scoccò uno sguardo gelido e colmo di sfida all’altra e, Eustass notò che lo fece zoppicando leggermente, continuò a camminare verso di lui, arrivando infine a poco più di un metro di distanza davanti alla ragazza, interponendosi così tra di loro.

Il pirata lo guardò stranito, inarcando un sopracciglio sulla fronte solida, mantenendo sempre le armi metalliche sospese, pronte ad attaccare ad un proprio cenno.

Doveva ammettere che il fegato ed il sangue freddo a quella fatina non mancavano. Non era da tutti stare fermi ed impassibili davanti a delle lame affilate puntate dritte verso di te.

La mano del biondo si tese verso di lui a palmo aperto, attendendo, chissà perchè, di essere riempita.

Non fece in tempo a chiedere spiegazioni che la voce monotona del ragazzo intervenne in suo favore.

“Credo che lei abbia qualcosa di mio, capitano.” 

Ora, non che Kidd soffrisse di manie di persecuzione... oh, bhe.. forse un tantino, ma gli sembrò che la sua carica fosse stata pronunciata con una nota di scherno e disgusto.

E gli piacque. 

Oh, sì. 

Un mondo.

Lì per lì non capì a cosa esattamente si stesse riferendo Angelo Infido, né gli interessò granché, troppo preso dall’accorgersi del brusio che, pian piano, era andato ad aumentare alle proprie spalle, segno che la sua ciurma, attratta dal casino decisamente poco convenzionale a quell’ora, anche se sulla Hell Glory, si era radunata in coperta.

Ehihihihi! Sembra che il capitano abbia già cominciato le avances!” ridacchiò uno dei suoi in prima fila, provocando qualche commento generale che lui, nel modo più assoluto, non gradì.

“Dici? Ahahaha! Credevo fossero finite nel momento in cui ha rischiato di rimetterci i coglioni!”

“Non sarà facile da ammansire quel tipetto.” “C’è mai stata una conquista del capitano che lo sia mai stata?” “Mai.” “Appunto.”

“FATE SILENZIO VOI!!”

Davanti a lui Arch continuò a tenere la mano tesa, in attesa, per nulla disturbato dallo scatto del più alto, ma  comunque impaziente.

“Il mio orecchino, Kidd.” sibilò stringendo gli occhi cobalto.

Eustass ebbe un attimo di smarrimento, prima di afferrare appieno quello che la fatina gli aveva detto e storse la bocca in una smorfia incredula.

“L’orecchino?” ripetè, lanciando una rapida occhiata a Viola, ricevendo conferma dalla faccia ancora furiosa della ragazza.

Le lame e le armi che aveva tenuto a mezz’aria caddero allo stesso tempo, provocando un frastuono assordante.

“Avete fatto tutte queste storie per un fottuto orecchino?!” disse ancora incredulo, ripercorrendo tutto quello che era stato costretto a subire da parte dei due, comprendente sia il danno alle proprie parti basse che il repentino sbalzo d’umore della panterona. 

“Se fosse solo un fottuto orecchino non saremmo qui.” specificò a mezza voce Arch, stendendo le braccia lungo i fianchi, facendo di tutto per ignorare Viola che, dietro di lui, scalpitava.

“Tre giorni fa su quell’isola me lo hai strappato via dall’orecchio.” si indicò il lobo sinistro, dove ancora erano visibili alcune tracce di sangue incrostato. “Adesso lo rivoglio, Kidd.” concluse tendendo nuovamente la mano in avanti.

Kidd osservò il palmo aperto offertogli pensieroso, il suo solito sorriso da iena scomparso come ghiaccio al sole, e con un turbinio di ragionamenti a rimbombargli in testa.

L’orecchino.

Si ricordava di un orecchino. L’aveva visto penzolare all’orecchio dell’angioletto poco prima di cambiare il proprio stato magnetico e disarmarlo dei coltelli. Però non ci aveva fatto molto caso e di certo il biondino non gli era parso particolarmente preoccupato di averlo perso.

Che importanza poteva avere poi un gingillo così insignificante?

Magari affettivo? 

E montare su un simile casino per un normalissimo accessorio?!

Anche se ... ripensandoci... c’era stato qualcosa di strano.

Non gli era mai capitato che a rispondere al suo magnetismo fossero oggetti tanto piccoli. D’accordo, chiodi, bulloni ed altri oggetti metallici non contavano perché comunque di lega abbastanza sensibile all’influenza del suo magnetismo, ma un gioiello non aveva mai risposto in modo tanto netto al potere che gli derivava dal Frutto del Diavolo.

Questo perchè la maggior parte della bigiotteria che la gente indossava, fatta eccezione per i Nobili che certamente non potevano sminuire le proprie figure con volgari fondi di bottiglia intagliati, avevano una percentuale minima di potenziale magnetico, dovuto alla bassa presenza di metalli preziosi o comunque pesanti.

E questo voleva dire che...

Stese finalmente le labbra, ghignando.

Arch fece in tempo a ritrarre la mano prima che le dita di Eustass Kidd gli si chiudessero attorno al polso.

Un coro di risatine a stento trattenute serpeggiò tra i pirati radunati poco più avanti e il capitano non fu certo da meno, sfoggiando la propria dentatura da iena come mai in vita sua.

Angelo Infido trascinò un piede all’indietro, avvertendo chiaramente che il rosso aveva realizzato qualcosa. Dannazione, ma perché tra tutti i pirati che giravano per la Grande Rotta dovevano beccare l’unico con abbastanza cervello da fare due più due?

Gli occhietti neri di Kidd brillarono vittoriosi alla reazione del biondino.

“Di cos’è fatto quel gingillo?”

Arch avrebbe tanto voluto alzare gli occhi al cielo e maledirsi in tutti i modi possibili ed immaginabili, ma ci avrebbe comunque pensato Viola quindi, perché disturbarsi?

“In che senso?”

“Oh, piantala con la commedia angioletto. Io sono magnetico, attraggo oggetti metallici di qualunque dimensione e misura a metri di distanza, non gioiellini comuni come quella pagliuzzetta dorata che avevi all’orecchio e, a meno che tu non sia un Nobile, il tuo amato orecchino non può essere fatto di puro metallo prezioso.”

Il biondo rimase zitto. Non sapeva cosa rispondere a quelle parole, pur comprendendone il ragionamento logico.

Si trovò combattuto sul da farsi. Che fare? Vuotare il sacco ed assicurarsi così un’ora o due di fuga dall’ira di Viola o continuare a negare, rischiando di peggiorare così la situazione?

Tentennò e non era una cosa che gli accadeva molto spesso. Solitamente era molto bravo a concepire strategie, ma il pirata che aveva dinanzi era un individuo assolutamente imprevedibile, in grado di mandare in fumo anche il più fine e studiato dei propri ragionamenti. Avrebbe dovuto però saperlo, fin da quando avevano oltrepassato l’Orizzonte Rosso, che gli umani avrebbero potuto rivelarsi più problematici di un comune mostro marino o infernale del Nuovo Mondo con cui era abituato ad avere a che fare.

Il collo tozzo del capitano si torse un po’ di lato in modo inquietante, permettendo al proprio sguardo rapace di sondare da capo a piedi sia lui che Viola.

“E da quel che vedo non siete nemmeno muniti di Log Pose o altro. Dimmi, come avete fatto ad orientarvi in un mare come questo?”

O forse erano semplicemente più intelligenti di quel che pensava. Stava intuendo fin troppe cose per i suoi gusti.

Questo però non comportava assolutamente un punto a suo favore. Anzi, la situazione rimaneva invariata. Lui rivoleva indietro l’orecchino, doveva riaverlo, e avrebbe lottato per ottenerlo.

“Dammi l’orecchino e lo saprai.” affermò deciso, ma il sorriso del rosso non accennò a sfumare neanche di un millimetro e questo, aveva imparato in poco tempo, non era un buon segno.

“Non sei nella posizione per dettare condizioni, angioletto.” ridacchiò Kidd “Perchè invece di fare il difficile non facciamo una chiacchierata io e te a quattrocchi? Credo che tu abbia parecchie cose da dirmi e chissà, se riuscissi a riscuotere il mio interesse, potrei anche pensare di restituirtel- ouch!...” 

“Hai detto la tua ultima sillaba di troppo, verme bipede!!”

Kidd scrollò la testa, capendo che a colpirlo dritto in mezzo agli occhi era stato un pezzo di legno ricurvo, saltato fuori da chissà dove, e che, a lanciarlo era stata, neanche a dirlo, la stangona argentata.

“VIOLA!”

“Zitto Arch! Se l’è cercata!” sbraitò di rimando la ragazza, tenendo nel frattempo per la coda uno spaventatissimo Morgan sotto forma di lucertola che, con un paio di lacrimoni agli o occhi, tentava invano di sgusciare lontano dentro le ombre sicure della stanza, artigliando il pavimento e puntandosi con tutta la forza che poteva, guaendo mortificato.

“Non c’era bisogno di strappare una squama a Morgan! Mollalo Viola!” sbottò, girandosi all’indietro, il biondo, guardando con rimprovero la ragazza continuare ad infierire sulla corazza del povero cucciolo rettile, tentando continuamente di strapparne ancora un paio di pezzi.

“Può sopravvivere benissimo anche con una o due di meno!”

“Signor Arch!!!” l’urlo disperato di Morgan si aggiunse ai suoi lamenti acuti, zittendo dallo sconforto ogni pirata presente. 

Caspita, quelli sì che erano suoni strazianti.

Imprecando sottovoce, Arch si voltò completamente verso la ragazza e, con un paio di falcate ben calcolate, le fu subito accanto, fermandole con una mano il braccio occupato a fare razzia di ciò che ricopriva il corpo di Morgan.

“Me la cavo io con l’umano, Viola. Tu fatti da parte e smettila di fare del male a Morgan!” disse di getto, riuscendo a bloccare le azioni sconsiderate della compagna che, a quelle parole, si girò verso il biondo con un’ombra di indecisione ad attraversarle gli occhi.

Tutto nel giro di pochissimi attimi, prima che un movimento sul proprio collo avvertì, decisamente con troppo ritardo, Arch dell’avvicinarsi di una mano, prima che questa gli si stringesse attorno al proprio collo.

Il rantolio sorpreso di Viola non fu che un sussurro paragonato al suono del pavimento che si abbatté sul suo viso.

“Preso!” esclamò trionfante Kidd, inchiodando a terra il biondo con una mano, avvertendo sotto le dita i muscoli della gola contrarsi in cerca d’aria.

Un paio di pirati borchiati esultò all’azione del loro capitano, ma solo per mordersi la lingua, vedendo un piede della Sollevapesi abbattersi  repentinamente sul naso del rosso.

Giù le mani dal bastardo, faccia da Vermsoglia!” esclamò l’argentata, scaraventando il pirata all’indietro in un groviglio di versi doloranti ed imprecazioni.

Libero dalla stretta al proprio collo, Arch provò subito a mettersi in piedi, rantolando con la testa piegata in avanti tossendo un po’ e scattando poi con la testa verso il pirata, ancora a terra con le mani strette sul proprio naso, seminando improperi al cielo senza quasi prendere tempo per respirare.

“Capitano!” “KIDD!” esclamarono i suoi facendo un passo per accorrere in suo aiuto, ma vennero prontamente bloccati da un braccio teso alla fine del quale faceva la propria figura una lama ricurva ed appuntita.

“Killer!!” “Che ti prende!? Facci passare!”

La maschera striata del Massacratore si voltò verso i propri compagni sondandoli senza emozione, tornando poi alla figura del capitano, rimessosi lentamente in piedi.

“Lasciatelo fare.”

Se fossero stati davanti a Kidd i pirati della Hell Glory avrebbero potuto assistere in prima fila all’espressione più feroce e crudele del loro capitano, ma questo, purtroppo, fu un privilegio di cui solo Arch, Viola e Morgan poterono vantare.

Un gesto secco della mano destra, poi della sinistra e le armi tornarono a lievitare, tintinnando minacciose.

REPEL!” 

Ai tre sventurati si mozzò il fiato in gola guardando quello stormo grigio di lame puntare dritte verso di loro. Fu tutto talmente veloce da impedire quasi loro di realizzare quanto successo, almeno finchè non si ritrovarono centinaia di oggetti appuntiti a solleticare loro le gole.

Ferme. Immobili.

Arch potè vedere il filo di una lama sfiorare di poco il suo occhio destro ed avvertì moltissime altre puntellargli il resto del corpo.

Stentava a respirare. Un solo millimetro di troppo e si sarebbe ritrovato a competere il titolo di colabrodo con l’omonimo utensile.

Stessa cosa per Viola e Morgan, con la sola differenza che Morgan, ritraendo la propria forma animale, riuscì a sgusciare via, annaspando all’indietro sul pavimento con neanche tutte le squame ritratte, lasciandone qualcuna sulla fronte e le guance.

I passi pesanti degli stivali di Kidd  scandirono il tempo in cui furono costretti all’immobilità.

“Vediamo di chiarirci subito, carissimi ospiti.” sibilò a denti stretti il rosso, ma non stava affatto sorridendo. 

E quando Kidd non sorrideva era come avere una raccomandazione per l’altro mondo.

Il rosso circuì i due come un grosso avvoltoio, osservando con interesse le loro espressioni inorridite e spaventate. Si avvicinò  ad Arch osservandolo intensamente dall’alto, studiando i suoi occhi cobalto tremare e diventare liquidi dallo sforzo di mantenersi aperti.

“Magari cominciando dalle presentazioni: Sono Eustass “Captain” Kidd e quella dove ora vi trovate ... è la mia nave. ” dichiarò ritraendo finalmente le lame anche se solo di un paio di centimetri, conquistando un piccolo respiro di sollievo da parte dei due.

“Qui prendo io le decisioni, qui si rispettano le mie regole, e se non vi piace...” un cenno da parte di entrambe le mani e i coltelli tornarono esattamente dove erano state.

Una goccia di sudore colò da entrambi le fronti dei due ragazzi, ora di nuovo occupati a regolare il respiro.

“Beh...” sorrise infine Kidd,  ritraendo le proprie mani più verso le spalle, muovendo di conseguenza gli arnesi “... credo che il concetto sia chiaro, no?”

Arch e Viola crollarono inginocchio a terra boccheggiando con il cuore nelle orecchie.

Mai stati così vicini alla morte prima di allora. Il Demone Rosso e Nero era stato nulla a confronto.

Angelo Infido sentì di nuovo una mano sfiorargli il collo, serrandoglielo in una morsa meno forte, ma non meno decisa. Questa volta però lui non fece nulla per sottravisi e lasciò che Kidd lo costringesse a rimettersi in piedi, non mancando comunque di giurare vendetta appena possibile.

“Abbiamo una chiacchierata da fare io e te, fatina.” sogghignò il rosso cominciando a spingerlo in avanti, costringendolo a camminare.

ARCH!” proruppe la voce di Viola allarmata.

“Killer, tienila a bada.”

Bastò quello e subito la sagoma slanciata del Massacratore si fiondò sull’argentata, bloccandone i movimenti con le lame ricurve incrociate sotto la sua gola.

“Uunggh!”

“Signor Arch!” esclamò stavolta Morgan, facendo per lanciarsi in suo soccorso, ma un’occhiata da parte del pirata lo bloccò dalla paura.

Con una risata gutturale Kidd lo portò via, senza però sapere che nella sua testa bionda il pensiero della rivincita non era stato affatto domato.

Il rosso aveva vinto un match, ma la partita restava aperta.

 

Atto 19, scena 2, Moby Dick

 

Il ponte della grande nave Balena dal placido e quieto piazzale a cui si era abituata in quel momento non era altro che un miscuglio di ordini urlati e figure umane agitate.

“Presto!! Presto!! Spiegate tutte le vele!” “Aumentiamo la velocità più che possiamo!”

Allegra guardava i suoi fratelli acquisiti scattare da una parte all’altra e lei, giunta da poco in coperta, non poteva fare a meno di considerare ammirata e forse anche un po’ intimorita, come tutta quella frenesia le ricordasse l’atmosfera della sua isola.

Le palpebre le si allargarono, mentre stupita vedeva sagome femminili e svelte sovrapporsi a quelle maschili  dei compagni persi nella confusione degli ordini dettati a voce alta dai comandanti.

O forse... no ... quello che lei ricordava non era un momento così teso. Ricordava velocità, premura, ma di certo non paura.

“Momo!!” due mani le si posarono bruscamente sulle spalle, riportandola alla realtà.

Marco le si accostò col respiro leggermente accelerato e con in viso un’espressione contrariata.

Allo sguardo severo della Fenice la Paradisea ingoiò un po’ di saliva. 

Decisamente saltare via e dirigersi a gran velocità sul ponte, ignorando le urla di divieto del biondo, non era stata una grande idea, ma era stato più forte di lei.

Una volta giunte dall’altra parte della nave era stata poggiata delicatamente a terra dal Comandante della Prima flotta, ma, non appena messi i piedi per terra lo scoppio di un’altra palla di cannone le aveva fatto rizzare i capelli sin dietro la nuca, portandola a gettarsi letteralmente nei corridoi e guidandole le gambe prima che potesse rendersene conto.

Sentì le mani sulle sue spalle stringerla un po’ più forte e vide la bocca di Marco aprirsi per dire qualcosa.

Il fischio di un’altro globo metallico li distrasse appena in tempo perchè la Fenice, con riflessi degni della propria carica, si accorgesse del pericolo e la prendesse nuovamente in braccio, uscendo con un balzo fuori dalla traiettoria del proiettile sferico.

Allegra trattenne il respiro con gli occhi talmente sbarrati da risultare tondi, guardando con orrore lo squarcio che la palla aveva creato proprio dove pochi istanti prima erano stati lei ed la Fenice.

Con un rapido movimento delle braccia Marco la rimise giù, fronteggiandola però subito dopo sempre con lo stesso sguardo accigliato.

“Torna immediatamente giù.” disse perentorio il comandante in prima, con una voce talmente limpida da sembrare irreale in mezzo a tutto il trambusto che li circondava.

Processare le parole dell’altro le richiese più tempo del normale, ma, non appena carpito l’ordine espresso dalle parole del ragazzo, che in quel momento le stava chinato leggermente davanti, non potè fare a meno di sentire qualcosa scattarle dentro.

Un’assoluta, categorica negazione ad accettare quelle parole.

Quell’ordine.

Sentì le guance imporporarsi di botto e il calore scenderle come lava bollente lungo le braccia.

Marco quasi saltò all’indietro vedendo di colpo le fiamme della Paradisea divampare rabbiose, candide, senza neanche passare per il giallo, seguendo l’espressione rigida e seria della ragazza, accigliatasi pochi istanti prima che le lingue infuocate tornassero a ricoprirle braccia e capelli.

A braccia lungo i fianchi la creatura che prima aveva raccolto da un miscuglio di polvere e schegge in infermeria, in quel momento lo stava letteralmente fronteggiando, negandogli l’autorità che per diritto e necessità aveva reclamato su di lei.

Era pur sempre un comandante sì o no?

Gli occhi cerulei della Fenice risposero per le rime allo sguardo di sfida della Paradisea, rispondendo allo stesso modo.

“Momo.” la richiamò duramente, sperando di riuscire a farla ragionare. Non sapeva combattere e di certo il ponte non era esattamente il posto migliore dove potesse stare durante un’attacco avversario.

“Torna in sottocoperta.”

“No.”

Pochi metri più in là Vista, Satch e alcuni dei componenti più vicini lasciarono le mascelle libere di ciondolare, fissando letteralmente sconvolti la piccola, anche se per motivi ben diversi l’uno dall’altro.

Vista e gli altri l’avevano finalmente sentita parlare di giorno senza trillare come un campanello da pesca per dei Re dei Mari, il secondo per averla, effettivamente e senza alcuna ombra di dubbio, sentita dire esplicitamente di no ad un ordine diretto di Marco.

Chi altri sulla Moby poteva vantare di una cosa simile?

Marco era un ottimo compagno, severo, naturalmente autoritario, coerente  e votato al comando in maniera quasi innata, quindi nessuno si era azzardato mai a negargli l’autorità conferitagli sia dalla sua stessa carica.

Nemmeno il diretto interessato parve credere alle proprie orecchie e sulle prime si trovò indeciso su cosa fare: infuriarsi oppure assecondarla?

Da una parte quegli occhi a lui tanto cari, rimasti  in quel momento del loro colore naturale, apparivano talmente decisi da tacere quasi ogni suo dubbio sul fatto che potesse resistere in coperta, ma dall’altra, a tirare fastidiosamente, c’era il suo orgoglio, quello che la secca risposta di Momo aveva ferito come una coltellata. 

Vinse l’orgoglio.

“Momo. Torna. In. Coperta.”

A quell’ennesimo ordine la ragazza si accigliò ancora di più, puntellando le mani scoppiettanti sui fianchi, sondando attentamente l’espressione dell’altro a labbra strette.

Satch si concesse di deglutire a vuoto per la tensione creatasi.

Per mille scialuppe bucate, l’aria era talmente densa da poter essere quasi tagliata con un coltello!

Cos’era uno scontro tra titani?!

La ciurma e lo stesso Bianco, straordinariamente calmo nonostante fosse seduto sotto una pioggia di cannonate da far invidia alla marina, videro Marco rispondere allo sguardo rovente della paradisea divampando fiamme azzurre sulle braccia, tramutandole in pochi istanti in un paio di ali azzurre. 

Momo sembrò a quella vista tentennare, ma solo per un attimo, prima di fare una cosa totalmente inaspettata.

Sorrise.

“Costringimi.”

E in un lampo bianco sparì, riapparendo proprio accanto sartie, dove un gruppo di uomini stava salendo per sistemare in modo appropriato le vele.

Una rapida occhiata colma di vittoria verso la Fenice e la ragazza si rivolse verso i suoi altri fratelli, sbalorditi quanto lo stesso comandante, chiedendo tra i fischi continui delle palle di cannone:

“Ditemi cosa fare.”

Un attimo di smarrimento. La manciata di uomini appeso alle cime per un attimo si chiese cosa fare. Avevano sentito anche loro l’ordine perentorio di Marco e di certo non ci tenevano ad andare in contro a una severa e giusta punizione per aver ignorato un suo ordine, d’altra parte... loro erano della Terza flotta.

All’unisono i malcapitati cercarono lo sguardo burbero del proprio comandante, vedendolo deviare appena in tempo un proiettile passato troppo vicino al Babbo, mentre un altro ancora veniva fatto esplodere da nientemeno che un’occhiata dello stesso gigante.

Ecco perchè Oyaji non interviene! - si disse Allegra, inarcando un sopracciglio, ammirata dal padre adottivo e dall’amico, il quale, nonostante la ferita, continuava a girare attorno ad Oyaji  proteggendolo a suon di pugni adamantini, pur tenendosi il fianco incrinato durante i contraccolpi.

La ragazza tornò sui propri fratelli, ma questi, evidentemente non avendo ricevuto alcuna risposta dal comandante in terza, fecero le spallucce dispiaciuti, tornando rapidamente ad arrampicarsi verso la vela maestra.

Contrariata, Allegra sbatté un piede a terra, gonfiando le guance.

Diamine. Finalmente riusciva a parlare, non senza poca fatica, in pieno giorno e quelli che facevano? La ignoravano! Insomma! Sapeva anche lei fare qualcosa!

O forse era una dote naturale di quelli della terza flotta essere di poche parole?

Due ali acquamarina le si circondarono per poco attorno, dandole appena in tempo la possibilità di fare un piccolo salto e sgusciare via.

Si trattenne dal lanciare un grido di stupore, non essendo certa di riuscire a mantenere il tono di voce basso.

Gli occhi azzurri di Marco la inchiodarono di nuovo, minacciandola di riprovare a trascinarla di peso in sottocoperta se non l’avesse nuovamente ascoltato.

Momo.” l’avvertì stavolta con voce incrinata da una nota di impazienza.

La ragazza fece per dare aria alla bocca, quando un fischio poco promettente le solleticò un’orecchio. 

In attimo la Paradisea si trovò con una palla di cannone vagante che le passò a pochi centimetri dallo stomaco, tonfando miracolosamente dall’altra parte della nave con uno scroscio d’acqua senza provocare alcun danno.

L’intera nave trattenne il fiato.

La ragazza, che nello stupore si era bloccata con gli occhi sbarrati e fissi nel vuoto, parve per qualche secondo come caduta in trans. Le fiamme, come partecipi di quel momento di confusione, si erano leggermente ritirate, riassumendo il solito colore giallognolo, ma tutta la ciurma sapeva che, come già successo una volta, il piccolo scricciolo non era tipo da scoppiare in lacrime davanti una cosa simile. 

Spaventarsi sì, ma sicuramente rannicchiarsi e implorare aiuto non più.

Non dopo aver preso abbastanza coscienza di sé e delle proprie capacità.

Marco la vide girarsi piano, verso la nave avversaria di colpo zittitasi, sicuramente per via delle munizioni, che, decisamente, dovevano essere terminate, e sbattere un paio di volte le palpebre ... prima di riaccendersi di bianco e con gli occhi che mandavano saette per la rabbia.

“Oh per la Marina!” imprecò Satch schiaffandosi una mano sulla fronte. Ci mancava solo lo scricciolo a dare di escandescenze! Veloce come un felino il comandante della quarta flotta si girò verso Marco che, preso alla sprovvista dalla rapidità con la quale era successo il tutto, si era bloccato ad osservare la ragazza assumere quell’aspetto selvaggio e quasi feroce che le aveva visto assumere la prima volta quando si era lanciata all’inseguimento di Monster per riavere indietro una mela.

A Satch però cosa stesse pensando il biondo non interessava e di certo non ebbe il tempo per farlo.

“Marco! Fermala! Prima che-”

Troppo tardi.

Un battito di ciglia e la ragazza era saltata verso la nave avversaria.

Disperato il biondo dal pizzetto si lasciò cadere a terra, sconsolato, mentre al suo fianco si radunarono subito gli altri comandanti.

“Scriccioloooo...!” lamentò semplicemente prima di lasciar ciondolare la testa con uno sbuffo affranto “Non pensavo fosse capace di simili colpi di testa.”

Una risata discreta di Vista aiutò ad alleggerire la tensione, nonostante Marco non parve volersi staccare di dosso la propria espressione corrucciata, sicuramente troppo conscio della gravità della situazione per potersi rilassare.

Semplicemente la Fenice guardò la fiammella bianca quale era diventata Momo tracciare un’arco in aria e cominciare ad atterrare con apparente lentezza sull’imbarcazione di Doma. Avvertiva una certa delusione per non essere riuscito a fermarla e il fatto di averla vista fiondarsi letteralmente sul pericolo non faceva per nulla da consolazione.

Si accorse di essere osservato e, constatando di essere effettivamente tenuto sott’occhio da quasi tutti sulla nave, Oyaji compreso, sciolse le braccia dal petto ed iniziò ad incamminarsi verso il parapetto a ringhiera della nave, già con qualche piuma infuocata a brulicargli sulle braccia.

“Vado a recuperare quei due.” disse monotono, riferendosi anche ad Ace, certamente occupato a darle di santa ragione a Doma da qualche parte nella sua nave. Caricò il peso su una gamba, innalzandosi sul parapetto, e si lasciò cadere nel vuoto per un piccolo tratto, prima di portare indietro le ali e dare una delle tante falcate che l’avrebbero mantenuto in aria.

Assumendo piena forma di Fenice, Marco guardò prima disinteressato poi con sospetto la nave del Boemo.

C’era troppa calma.

Non era da Ace fare così poco casino. 

Certo, non sarebbe stato male se Ace si fosse finalmente dato una calmata, ma pensare che da un giorno all’altro avesse cambiato il suo modo di fare, specie nei confronti di Doma, era come sperare che i Cinque Astri tirassero le cuoia tutti insieme nello stesso giorno.

Tecnicamente impossibile. 

“Che diavolo combini Ace?” sussurrò, intercettando nel frattempo la figura più piccola e graziosa di Momo. Era praticamente circondata da alcuni compari del Boemo, più spaventati che agguerriti, ma comunque bene armati. Nonostante però la netta posizione di svantaggio il biondo non la vide indietreggiare nè cambiare atteggiamento di un millimetro, mantenendo la schiena ben ritta, dando l’impressione di essere più che sicura di quanto stava facendo.

La Fenice sospirò.

“Ace deve aver avuto una brutta influenza su di lei.” mormorò, preparandosi a planare.

  

Atto 19, scena 3

 

Guardandosi attorno Allegra constatò con ancora la vista annebbiata dalla furia bianca delle sue fiamme  di essere letteralmente circondata da niente più che un semplice branco di mercenari tremanti di paura.

Da come la guardavano stralunati, le mani strette convulsamente attorno all’impugnatura delle loro spade, quei poveracci non desideravano altro che fuggire a gambe levate lontano da lei e dalla nave del Babbo. Con tutta probabilità erano stati pagati a dir poco profumatamente per essere lì, a sparare contro una nave gremita dei pirati più pericolosi al mondo fino alle stive.

La Paradisea storse la bocca al pensiero nauseabondo di come in quel mondo, così lontano dalla sua casa, bastasse il tintinnare di qualche spicciolo per comprare la libertà di una persona.

Ma non era per quel motivo che si era lanciata sulla nave del Boemo.

Lottando per ritirare almeno la luce di cui erano intrise le sue pupille, iniziò a sondare il resto dell’imbarcazione, aspettandosi di vedere da un momento all’altro Ace ed il capitano della nave piombare da chissà dove mentre se le davano di santa ragione.

Aveva un bel po’ di cosette da dire al carissimo Doma il Boemo. 

A cominciare dalla sua brillante idea di rischiare di prenderle in pieno lo stomaco con una palla di cannone. 

Nulla di quello che si aspettava, nessun rumore, nessun urlo o imprecazione che le ricordasse, anche lontanamente,  la voce del comandante della seconda flotta, le solleticò l’orecchio.

Anche dopo un minuto buono a tendere i sensi al massimo l’unico rumore che Allegra poteva percepire era lo stridore nervoso dei denti degli sgherri di Doma.

Le sue pupille si dilatarono, mentre un terribile presentimento la colse impreparata.

Fece in tempo a voltarsi di scatto verso la ciurma tremante del Boemo, provocando un sussulto generale, prima di sentire un battito d’ali crepitante avvicinarsi.

Alzò la testa, ignorando gli urli spaventati che seguirono di quell’apparizione azzurra, non stupendosi più di tanto riconoscendo in essa la figura animale di Marco, giunto sicuramente per venirla a recuperare.

Un urletto decisamente poco adatto ad un uomo prevalse su quello di tutti gli altri, proclamando, non prima di aver abbandonato in grande stile armi e bagagli con un ben poco elaborato tuffo oltre il parapetto della nave:

“Marco la Fenice!!!” 

E con uno scroscio d’acqua che segnò l’inizio di un fuggi fuggi generale, l’intero ponte iniziò a svuotarsi, ognuno degli uomini assoldati da Doma più che mai desiderosi di farsi un bel tuffo in mare.

Frastornata, Allegra rimase a guardare l’ultimo dei mercenari abbandonare la nave, gli occhi le si erano allargati talmente tanto da risultare globi perfettamente tondi.

Si ricordò di ricollegare il cervello quando, di nuovo, le sue orecchie intercettarono il suono delle ali di Marco, stavolta fattosi più vivido e vicino.

Di nuovo i suoi occhi furono rivolti verso l’alto, ma stavolta ad apparirle non fu la figura completamente infuocata dell’aggraziato volatile, bensì quella ibrida del comandante della prima flotta.

Marco continuò a planare verso il basso con movimento verticale, le braccia alate, unica parte del corpo insieme ai piedi che ricordassero la sua forma di animale mitologico, rivolte verso l’alto, completamente spiegate, in modo tale che l’aria, salvo quando le sbatteva per rallentare la propria discesa, scivolasse loro attorno.

Non aveva l’aria contenta, nonostante la sua venuta avesse dato luogo ad una scena abbastanza divertente, nulla pareva scalfire la sua espressione e di certo non lo fece nemmeno il visino di Momo che, intuita più meno le acque in stava nuotando, cercò di assumere l’espressione più dispiaciuta e tenera che riuscì a racimolare, mettendo da parte la rabbia accumulata prima.

Non appena posati i piedi a terra il biondo la inchiodò con lo sguardo, incrociando le braccia al petto.

“Ehm... ecco io...” tentò la ragazza, ma bastò poco per farle capire che non avrebbe ottenuto nulla, facendo l’innocente.

“Oh, senti!” esplose nuovamente, le fiamme innalzatesi insieme al suo tono di voce “Prova tu a rischiare per ben due volte di essere colpita da una di quelle... quelle... cose!” si limitò a dire, girando i tacchi e gonfiando indispettita le guance.

Marco la guardò costantemente serio mentre si allontanava.

Sospirò chiudendo gli occhi e, con un fragore di fiamme azzurre, la raggiunse afferrandole le spalle da dietro con entrambe le mani.

Allegra, sorpresa da quel contatto, rantolò un grido, riuscendo però a coprirsi la bocca con entrambe le mani appena in tempo per ricacciarlo indietro: sarebbe stato un bel guaio se avesse richiamato un Re dei Mari, la Moby era danneggiata e piena di falle un’attacco da parte di uno di quei serpentoni sarebbe stato fatale.

Le mani di Marco comunque non si mossero dalle sue spalle, anzi, rimasero lì anche per troppo tempo, così tanto che alla fine la Paradisea cominciò a provare l’impellente bisogno di saltare via.

Il dorso della mano le pizzicò, riscaldandosi leggermente in un certo punto...

Inghiottì un poco di saliva.

Decisamente voleva saltare via.

“Momo...” la richiamò Marco.

Un brivido le percorse la nuca, riconoscendo la sensazione che le stava solleticando la base del collo.

Cominciò ad agitarsi, liberandosi dall’altro balbettando la prima cosa sensata che le venne in mente.

“A-ah... io... vado a cercare Ace.” 

“Momo!”

Di nuovo la voce della Fenice la bloccò, ma stavolta, forse per il tono di voce, forse per l’urgenza implorata con la quale il ragazzo pronunciò il suo nome, le venne da fermarsi.

Su due piedi. Le spalle rivolte verso il biondo, sentendo quasi di sapere cosa le stesse per dire.

“Quanto ti sei ricordata?”

O chiedere.

Allegra aprì la bocca indecisa. Gli occhi di nuovo la ingannarono e sul ponte fantasmi di figure fiammeggianti iniziarono a danzarle davanti.

Aveva ricordato molto.

Il demone nero e rosso fece capolino sul bordo della sua visione, quasi un ombra indistinta e crudele ai margini di un bellissimo quadro.

Sotto il manto tiepido delle proprie fiamme, la pelle le si alzò rabbrividendo.

Aveva ricordato anche troppo.

“...”

“Momo?” 

“Abbastanza.”

Fu tutto quello che disse, tornando a camminare.

Marco l’avrebbe anche lasciata andare se una voce non l’avesse messo in allarme, prendendo forma davanti a lui impugnando un paio di spade dalla lama stranamente scura.

Con gesto rapido scattò di nuovo verso Momo e la riafferrò, riportandosela al petto nel giro di pochi istanti giusto in tempo perchè la ragazza vedesse una figura umana fendere a pochi centimetri da lei un colpo che le sarebbe anche potuto costare la vita.

La paradisea sentì la gola solleticarle e d’istinto riportò le mani alla bocca, guardando con terrore il pirata dalla fascia squadrare sia lei che Marco con sguardo indecifrabile.

Il biondo se la strinse protettivamente al petto, facendo sì che la schiena di lei gli aderisse contro.

Sarebbe stato anche un momento di cui avrebbe preferito godere, o addirittura scherzare, se soltanto Doma non avesse attirato la sua attenzione ondeggiando una delle spade.

Era sangue quello che gocciolava dal filo della lama?

Si accigliò, squadrando il Boemo pieno di rancore.

Cos’aveva fatto ad Ace?

“Salute a voi, Marco la Fenice.”

 

Atto 19, scena 4

 

Nella sottocoperta Ace rantolò a schiena a terra, dimenandosi come un topo in trappola. L’odore spugnoso e pungente degli interni umidicci e freddi della nave gli penetrò il naso, invadendogli la testa, regalandogli, anche se per un breve istante, un poco di sollievo.

Come aveva fatto a finire in quella situazione, rannicchiato in un angolo tra un paio di botti di polvere da sparo era presto spiegato dalla ferita che gli squarciava il braccio, colando più sangue di quanto ne avesse mai perso in tutta la sua vita da quando aveva ingoiato il suo frutto del Diavolo.

Il taglio di per sè non era tanto profondo e neanche sembrava aver reciso vene o punto vitali, ma bruciava e luinon era certo di voler rischiare di morire dissanguato, visto che il suo fuoco non riusciva a ad agire velocemente come al solito e ciò la diceva lunga sul materiale di cui erano fatte le lame di Doma.

Algamatolite.

Soffiò tra le labbra pieno di rabbia.

Prima i cannoni, ora l’algamatolite. 

Doma stava superando se stesso, e non nel senso buono.

Si passò una mano sulla fronte ed aguzzò un orecchio.

Niente.

Doma doveva essersi allontanato per cercarlo altrove.

“Appena riesco a mettergli le mani addosso...” sibilò, decidendo di sacrificare un lembo dei propri pantaloni per tamponare la ferita. Strinse il pezzo di stoffa più forte che potè poco sotto la spalla, rallentando così il passaggio del sangue, ma lo stesso i lati slabbrati pungevano e ciò gli impediva di pensare correttamente.

Non era abituato al dolore fisico, o almeno, il fatto di essere diventato un Rogia, aveva contribuito a farglielo dimenticare. 

Le tempie non facevano che rimbombargli come tamburi e il fatto di avere  alle calcagna qualcuno in grado di trapassarlo da parte a parte non aiutava.

Prese due respiri profondi e poi rialzò lo sguardo. Il deposito delle polveri era quasi completamente vuoto, fatta eccezione per quella manciata di botti in mezzo alle quali si era rifugiato, e a parte il rumore del mare sulla chiglia non riuscì a sentire nient’altro che potesse metterlo in allarme.

Che vergogna - pensò rialzandosi e procedendo cautamente fuori dal proprio nascondiglio - se Marco o il Babbo sapessero che mi sono andato a nascondere come un poppante... 

“MARCO LA FENICE!!”

Uno splash fuori dall’oblò lo colse impreparato e gli occhi gli strabuzzarono un paio di volte prima che realizzasse che uno degli uomini di doma si era letteralmente fiondato fuori dalla nave.

Marco era sulla nave?!

Le sue gambe scattarono prima di riuscire a processare del tutto quel pensiero.

Quell’imbecille si sarebbe fatto ammazzare!

 

Fine prima parte Atto Diciannovesimo

 

Super mega iper mostruoso ritardo!

Lo so ne sono consapevole e mi dispiace. Sono mortificata, spero solo che non abbiate abbandonato  in molti e che non abbiate trovato troppo noioso questo capitolo.

Per chi mi segue anche su Deviantart sarà chiaro il fatto che non ho mai abbandonato KnA e che mai lo abbandonerò!!

Ho notato che di recente il mio stile sta subendo un’ulteriore trasformazione (O.o) il che è strano dato che credevo che un’ulteriore evoluzione del mio modo di scrivere fosse oramai impossibile, ma noto piccoli e confortanti miglioramenti. 

Speriamo solo che questi miei cambiamenti non siano troppo shoccanti per voi che magari eravate abituate ad un diveso tipo di scrittura da parte mia.

Con questo vi lascio in attesa della seconda parte e come sempre:

  1. Suggerimenti liberi

sempre accetti! XD

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Capitolo 26
*** Atto 19 -seconda parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata 

Atto 19 -seconda parte -

Atto 19, scena 5

“La Verità?”

Clarina annuì per l’ennesima volta, sostenendo lo sguardo di Garp con altrettanta serietà. L’anziano davanti a lei abbassò il capo in avanti, nascondendo gli occhi dietro le dita intrecciate di fronte al viso con un grugnito combattuto, probabilmente troppo sconvolto dalla gravità della notizia per continuare a far girare le rotelle del cervello.

“Lei sa in cosa consiste un’Essenza di Paradisea, signor Garp?”

La domanda della donna fece sì che lo sguardo del vice ammiraglio tornasse ad incrociare il suo, soppesando per un lungo istante se rispondere o meno, prima di riabbassarsi e lasciar scivolare via le parole dalla bocca.

“Poco e niente. Le poche informazioni che mi vengono sono il risultato di piccole confidenze che un amico mi ha fatto durante un paio di nostri colloqui... informali.” Garp si grattò la testa, ricordando quel “paio” di volte in cui un suo rimprovero ufficiale da parte del Buddah si fosse trasformato in un tranquillo, almeno per lui, pomeriggio davanti ad un tavolino imbandito a festa. 

Sengoku si lasciava sempre sfuggire qualche informazione riservata, quando credeva che nelle sue orecchie non rimbombasse altro che il suono delle sue mascelle in pieno all’opera, e lui stava al gioco, facendo finta di fingere di seguirlo, scandendo i suoi discorsi con volute esclamazioni monosillabiche come: “Uhm!” “Certo!” “Già Già!”

In una di quelle volte il Buddah si era lanciato in qualche imprecazione a mezza voce riguardo una nuova stranissima razza che un collaboratore della marina aveva individuato sulla rotta del Nuovo Mondo, relegata su un’isoletta che aveva ingoiato senza mai sputare fuori centinaia e centinaia di uomini.

Le aveva chiamate Paradisee e si era lamentato di cosa mai ci fosse di tanto importante in un gruppo di donne circondate da fiamme che nascevano legate alla loro Essenza per tutta la vita, da mettere i Cinque Astri in una tale agitazione da ordinargli personalmente una spedizione di ricerca.

E ricerca per cosa poi? Sfortunatamente non si era mai lasciato sfuggire particolari in proposito.

“Ma da quel che ho potuto capire...” continuò il marine, incrociando le grosse braccia con fare assorto e le rughe attorno agli occhi più profonde del solito “L’Essenza è, come dire... la vostra anima, giusto?”

“Non esattamente.” lo corresse prontamente Clarina, avvicinandosi di più alla scrivania, trascinando insieme a sè, con un rumore strisciante di legno graffiato, la sedia su cui si era seduta.

“è più corretto dire che l’Essenza è attaccata alla nostra anima, ma non ne è parte integrante.” cominciò a spiegare, mettendo le belle mani intrecciate l’una all’altra con le dita, lasciando comunque spazio tra i palmi, in modo tale che non si incontrassero.

“In un certo senso l’Essenza è come un... uhm... come lo chiamate voi? Ah sì! Parassita. Una cosa ben distinta che cresce col tempo. Quando una Paradisea nasce il suo spirito non è perfettamente collegato all’Essenza. Ci vuole tempo. Per questo su Nido Leila lasciavamo alle bambine un anno di tempo da sole nella foresta.”

Fu in quel momento che Garp, comprese le ultime parole di Clarina, si lasciò sfuggire un risatina gutturale. Qualunque altra persona si sarebbe scandalizzata, sentendo una donna confidare apertamente quale metodo di educazione si impartisse a delle bambine indifese, ma lui era, con grande dispiacere dei suoi cari nipoti, il precursore assoluto di quel tipo di educazione ed il ritrovarlo in un’altra civiltà non poté che farlo gongolare d’orgoglio.

Clarina fece scattare un sopracciglio chiaro all’insù, non capendo il perché di quella reazione, ma, pensandoci bene, in quel momento non importava granché.

“Dicevo... l’anima ha bisogno di tempo per adattarsi all’Essenza e di solito equivale ad un periodo di circa un anno.”

“Di solito?”

Clarina sospirò affranta, sciogliendo per un attimo le mani per posarsele ai lati del viso.

“Viola non si è mai adattata alla propria Essenza.”

Stavolta fu il turno di Garp di inarcare uno dei suoi sopraccigli grigi e Clarina rispose accigliandosi inspiegabilmente.

“Mettiamo subito in chiaro una cosa, signor Garp.” disse con tono di voce pericolosamente serio “Un’Essenza non è mai una cosa positiva. Può essere sia negativa che positiva, ma mai solo positiva.”

Ci fu una lunga pausa, durante la quale la donna sembrò concedergli qualche istante per registrare le sue parole.

“Prenda la mia per esempio. La Verità non è sempre una cosa positiva, spesso ferisce, distrugge le persone, le spaventa, le porta a ritrarsi ed allontanarsi da lei con ogni mezzo. Ciononostante è generalmente vista come qualcosa di positivo. Da piccola non mi fu difficile abituarmi alla mia Essenza, ma dovetti comunque rendermi conto che non era una cosa del tutto buona ed accettarla di conseguenza.”

“E questo cosa centra con sua nipote?”

“L’Essenza di Viola è, purtroppo, una di quelle in cui è difficile vedere del buono. Quando era piccola non faceva che disastri, feriva le sue cugine anche in modo grave e questo la portò a chiudersi sia con gli altri che con se stessa. Nel giro di pochi anni peggiorò, diventando incontrollabile anche per sua madre.”

“E... quindi?”

Gli occhi blu della paradisea si sbarrarono increduli verso Garp, che in quel momento la guardava con il naso gocciolante ed un’espressione da ebete stampata in faccia.

Clarina prese un bel respiro prima di continuare, cercando di calmarsi, o avrebbe incanalato dell’Essenza nella sua voce.

“Quando una paradisea rimane incinta... è sinonimo del fatto che un’altra essenza ha trovato nel suo corpo un’altro spirito in grado di ospitarla. Spirito ed Essenza diventano una forma umana e nasce una bambina.” spiegò il più concisa che poteva “La bambina deve poi adattare il proprio spirito all’Essenza, accettarla in tutto e per tutto ma, mi dica signor Garp, se lei da piccolo si fosse reso conto di avere un’Essenza definita da tutti come pericolosa od orribile che si stava attaccando alla sua anima... una a caso... la Morte...”

La testa del vice ammiraglio scattò all’indietro, colpito e finalmente consapevole del punto in cui l’altra volesse arrivare. 

Gli occhi penetranti e taglienti di Clarina lo perforarono, scandendo piano le ultime parole.

“...cosa avrebbe fatto?”

“Avrei cercato di scrollarmela di dosso con ogni mezzo.” ribattè senza pensarci il marine e seppe di aver risposto correttamente quando la donna annuì, schiodando da lui quello sguardo glaciale.

Clarina tornò a guardarsi le mani nuovamente intrecciate, stavolta con le sopracciglia corrugate in una linea triste.

“è quello che ha fatto Viola fino ad oggi.” asserì con voce amara la donna, poggiandosi all’indietro sullo schienale della poltrona.

“Non accetta la sua Essenza, la odia, la tiene relegata in un singolo punto del corpo e non le permette di unirsi completamente a lei e questo la rende incontrollabile, suscettibile. E il peggio... è che più lo fa, più l’Essenza si attacca a lei, crescendo a dismisura. Ho cercato più volte di spiegarle quanto fosse inutile, ma è come parlare ad un muro.”

Sospirò, passandosi quasi con stanchezza una mano tra le sue, ormai corte, ciocche bionde.

“Un’Essenza cresce?”

Per un attimo fu stupita di sentire Garp domandarle direttamente qualcosa, ma era andata un po’ fuori tema, lasciandosi trasportare troppo dalla storia della nipote, e di conseguenza aveva tralasciato importanti dettagli.

Fece segno di assenso con il viso e rispose:

“Si può dire che cresce, in un certo senso. In realtà, però, quello che le Essenze fanno è accumularsi. E la costanza con la quale lo fanno dipende da quanto intensamente la loro presenza è percepita nel mondo.”

L’espressione confusa di Garp le fu sufficiente per capire di dover sbrigarsi a dare una spiegazione più semplice, prima che il cervello del marine iniziasse a fumare dalle orecchie.

“Prenda la mia, per esempio. la Verità non è percepita direttamente. C’è come non c’è. è palese, ma viene continuamente celata da un’infinità di persone: i bambini che dicono piccole bugie, donne e uomini che custodiscono segreti indicibili, addirittura...” assottigliò gli occhi, impregnando di un tono eloquente le proprie parole. “...uomini di potere alla gente comune.”

A quelle parole Garp scattò.

La sedia sulla quale stava prima seduto si rovesciò sotto la spinta del suo corpo slanciatosi in avanti e le grosse mani batterono sordamente sulla scrivania. Clarina allargò gli occhi blu dallo spavento, osservando con un po’ di paura la maschera di collera che era diventato il volto del vice ammiraglio, in quel momento a pochi centimetri dal suo con il naso che soffiava fiotti di aria rabbiosi.

“Che cosa vorrebbe insinuare?!”

Il tono di voce dell’anziano era miracolosamente basso, se si contava i suoi consueti modi irruenti, ma il fatto che il suo interlocutore fosse una donna , a quanto pareva, contribuiva a frenare almeno di poco i suoi bollenti spiriti. 

In ogni caso quello scatto, per quanto improvviso, non fece piacere a Clarina e presto Garp si trovò nuovamente a confrontarsi con un paio di occhi glaciali ed insondabili, oltre che furiosi.

“Quello che ho detto.” fu la risposta secca della paradisea.

Garp intuì subito che quello non era che un avvertimento, ma il suo orgoglio di marine gli proibì di rimettersi subito a sedere come un bravo bambino e sostenne lo sguardo dell’altra per un paio di minuti buoni, prima di ritirarsi da lei e recuperare la propria poltrona.

“Quello che stavo cercando di dirle, Garp... è che se di colpo la gente cominciasse a dire sempre la verità, la mia Essenza inizierebbe a crescere senza sosta, rischiando persino di soffocare la mia anima. Morirei.”

Di nuovo al proprio posto, gomiti sulla scrivania e sguardo fisso sulla paradisea, il marine si massaggiò con due dita la base del naso. Troppe informazioni e troppe emozioni in un singolo discorso. Cominciava a credere che Sengoku avesse ragione quando gli diceva avrebbero potuto sostituire il suo cervello con quello di un gorilla e che nè lui nè i suoi subordinati avrebbero notato la differenza.

Ma una cosa la capiva: Viola Sassonia La Sollevapesi era una minaccia ambulante e per questo doveva fare in modo che Clarina si ricongiungesse a lei ed ai suoi figli. 

Il più presto possibile.

La ragazza che aveva visto insieme ad Ace sulla nave di Barbabianca  non poteva che essere Allegra, la figlia della donna che gli stava di fronte quindi c’era poco da pensare sul da farsi. Doveva rintracciare la nave del Bianco e pregare che i suoi spostamenti non insospettissero troppo Akainu.

Si alzò lentamente in piedi, le mani intrecciate dietro la schiena e fece un paio di passi oltre la scrivania.  

“Se quello che dice è vero...”

“E lo è.”

Il tono quasi scherzoso di Clarina gli strappò quasi un sorriso. Nonostante non avesse gradito quella piccola allusione ai suoi superiori, non riusciva proprio a farsela stare antipatica.

Certo era una donna strana, logorroica, a volte un po’ lunatica, ma aveva un modo di fare così curioso da risultare addirittura affascinante. 

“Allora le farà piacere sapere che ci stiamo dirigendo verso sua figlia.” concluse con uno dei suoi tipici ghigni larghissimi, dove i denti perfettamente allineati parevano quasi disegnati. 

Stavolta fu il turno dell’altra di saltare in su dalla sedia.

“Andiamo da Allegra??!!” esclamò con gli occhi grandi per l’emozione la bionda.

Al cenno di assenso da parte di Garp nell’ufficio fu come se fosse esplosa una bomba.

Nel giro di un attimo il vice-ammiraglio si ritrovò letteralmente avvinghiato da un paio di braccia fiammeggianti, bianche ed incredibilmente fresche, e con la figura più piccola ed esile dell’altra che gli saltellava letteralmente addosso, dando luogo ad una scena che, se assistita da terzi, sarebbe apparsa più che ridicola.

“Oh, grazie! Grazie! Graziegraziegrazie!” cantilenò eccitata la donna, per poi staccarsi da lui di colpo raggiante come non mai.

“Oh, non vedo l’ora di poterla riabbracciare! Sono mesi che non la vedo! Chissà come sta? Oh cielo, avrà mangiato come si deve? Allegra non ha mai mangiato molto, ricordo che da piccola faticavo ad imboccarla! Una vera tragedia! E chissà se avrà avuto il tempo di mangiare! Povera la mia bambina! Chissà quante ne avrà passate..!”

Il suo delirio da mamma in preda all’ansia fu interrotto da un paio di colpi di tosse da parte di Garp che, non poco disorientato dalla velocità con la quale Clarina aveva parlato, cercò di riprendere in mano il discorso di prima.

“Un’ultima cosa...” tentò “...come fate quando l’Essenza...cresce troppo?” 

L’atmosfera però, a dispetto di ogni sua previsione, non si appesantì di una virgola ed il sorriso smagliante di Clarina continuò a pervadere la stanza come un raggio di sole in pieno inverno.

“Ci liberiamo di quella in eccesso, ovviamente!”

Liberarsi di quella in eccesso?! - pensò Garp, pronto a porle un altra domanda, ma la Paradisea sfoggiò un inchino educato ed un’espressione degna della più amabile delle donne, una visione totalmente diversa da quella a cui aveva avuto modo di assistere durante la loro breve, ma intensa, discussione, e con rapidi ed eleganti saltelli si avvicinò alla porta.

“Sarà meglio che torni in camera mia e che vada a vedere come stanno Koby ed Hermeppo! Non voglio disturbarla oltre! Buona serata signor Garp!”

“Asp-!”

Da dietro la porta che si era appena chiusa alle spalle, Clarina continuò a sorridere raggiante, ignara di aver lasciato il vice ammiraglio dietro di sè più a bocca asciutta di un uomo nel deserto.

Tornata in camera, la prima cosa che fece fu raccogliere il mandarino azzurrognolo e cominciare a cullarlo dolcemente al petto, guadagnando da quest’ultimo una sorta di sospiro sollevato.

Le labbra della donna si tesero sorridenti.

“Mal di mare, eh?”

Un altro verso di risposta, stavolta un po’ più triste ed imbarazzato.

“Tranquilla Agiata, troveremo un modo per farti tornare umana.”

Detto questo andò verso il letto e, sempre con le mani ad avvolgere la Nota che ancora si lamentava un po’, vi si sdraiò, continuando ad accarezzare il frutto dal colore improbabile come se fosse stato un cucciolo ferito.

“Pazienza. Pazienza.” sussurrò, aspettando che i lamenti si affievolissero poco a poco, fino a scomparire, per poi rialzarsi quatta quatta ed uscire dalla stanza senza il minimo rumore.

 

Atto19, scena 6, Hell Glory

Quando Arch si sentì scaraventare a terra con un ultimo strattone seppe di essere arrivato al capolinea. Atterrò sul duro e legnoso pavimento della stanza con una sederata storica e quasi si lasciò sfuggire un lamento di dolore, prontamente serrato tra i denti. 

Non aveva alcuna intenzione di dare una piccola soddisfazione a quel bisonte a due zampe.

Non doveva neanche fargli pensare che avesse paura di lui. 

Il botto della porta che veniva sprangata gli fece alzare gli occhi ed il ghigno bianco ed affamato di Kidd si riflesse nelle sue iridi, tremendo e promettente.

In realtà Arch sapeva bene, mentre guardava il pirata avvicinarsi a lui con la lingua oscenamente scoperta per umettare le labbra nere, che lui aveva paura, e tanta, poteva sentirla chiaramente torcersi nelle interiora e congelargli le ossa dall’interno.

Pazzesco, gli era bastato guardarlo e la sua mente era caduta in preda alla confusione più nera.

Un blackout assoluto che nemmeno un mantra mentale riusciva a scacciare.

Non era da lui. Non era da lui non ragionare. Era assurdo. Non aveva senso. Da quando era apparso quel colosso borchiato non era più stato in grado di fare un ragionamento decente, solo di sudare come una mammoletta e farsi prendere dal panico.

Una mano tozza e smaltata lo afferrò nuovamente per il colletto, sollevandolo talmente tanto che a malapena  riusciva a toccare il pavimento con le punte dei piedi, e un alito di aria malsana accompagnò l’avvicinarsi di quel paio di occhi da pazzoidi che era lo sguardo di Kidd.

Il naso gli si arricciò di disgusto in maniera assolutamente spontanea e la cosa non sfuggì al rosso, che ormai lo teneva ad una distanza talmente ridotta da superare di gran lunga la sua personale concezione di spazio personale.

“Oh, scusa angioletto. Dimenticavo che il tuo naso sopraffino non sopporta gli odori decisi.” lo schernì con il suo solito sorriso a trentatré denti il pirata, accostandosi ancora di più, dimostrando di provare un malato piacere a rendergli difficile anche il solo atto di respirare.

“No...” fu la sua risposta “...è l’odore di cane morto che emani che mi fa venire voglia di vomitare.”

Se ci fosse stata Allegra come minimo l’aria sarebbe stata pervasa da una piccola risata cristallina e tranquillizzante. Sua sorella adorava le sue battute, di qualsiasi genere, sia ironiche che scadenti, e non mancava mai di dargli appoggio, dimostrando il più delle volte un debole ed improbabile senso dell’umorismo.

Ma questa non era Nido Leila e sua sorella non era lì con lui. Al suo posto c’era un pirata sanguinario probabilmente prossimo a scuoiarlo vivo, o peggio, ed al posto dei sentieri di terra fresca battuta di Nido Leila c’era il legno spinoso di una nave colma fino alle stive di tagliagole pazzi quanto il loro capo. 

Decisamente non la più rosea delle situazioni.

Gli occhi di Kidd sfavillarono di furia cieca ed Arch si ritrovò pressato contro un muro in meno di un secondo. Una pila di dischi in vinile crollò dall’angolo della credenza ed il suo fianco sinistro bruciò dolorosamente quando lo spigolo di questa gli si conficcò nel costato. Nel giro di pochi secondi Il rosso lo aveva spinto ed appeso contro il muro, bruciando definitivamente ogni sua speranza di poter evitare qualche livido di troppo.

“Attento fatina...” alitò la voce di Kidd, con un tono increspato da un velo di divertimento, nonostante esprimesse una rabbia a stento trattenuta, ed Arch, aperto a fatica un’occhio a causa del dolore che gli pervadeva i muscoli della schiena, sorprese per un istante gli occhi neri di Kidd percorrergli il collo, scoprendosi e leccandosi avidamente i denti con la mente rivolta chiaramente in una direzione tutt’altro che piacevole.

Il giovane provò un senso di orrore indicibile, interpretando quel gesto nel peggiore dei modi: era un cannibale? Arch sapeva ben poco della razza umana, ma se aveva capito qualcosa in quei pochi mesi di viaggio era che molti esseri umani, specie i pirati, erano il più delle volte dediti ad azioni così turpi che la mente potesse concepire. 

Gli venne naturale quindi stingere le spalle e tentare, nonostante la sua posizione non giocasse a suo favore, di proteggere alla bene e meglio la propria giugulare.

Quel gesto ovviamente non sfuggì ad Eustass ed una risata gutturale vibrò nella gola del pirata.

“Oh, hai paura dei morsi angioletto?...”

Arch digrignò i denti, ingoiando a fatica un insulto, ed arricciò con ancor più convinzione il collo.

Per tutta risposta il rosso lo afferrò per i capelli con la mano libera, strattonandoglieli con forza.

“Ah...!”

Quel mezzo grido era una cosa che Arch non si sarebbe mai voluto lasciar sfuggire, ma, quando con un ultimo strappo Kidd riuscì a portargli la testa all’indietro, le sue preoccupazioni furono dirottate da tutt’altra parte.

I suoi occhi cobalto si sbarrarono di orrore quando sentì il suo collo essere percorso in lungo e in largo da quella che la sua mente registrò essere la bocca del pirata.

Troppo sorpreso per reagire, tantomeno per percepire il dolore proveniente dai capelli, tesi fino alle radici come corde di violino, il ragazzo spalancò la bocca, lasciandola ciondolare abbandonata quando una scia umida e viscida gli ricoprì la clavicola.

I denti arrivarono quasi inaspettati, affondandosi voracemente sulla pelle come a volerla trapassare.

E per un istante, Archetto credette l’avessero fatto.

“NO!!” urlò il biondo accecato più dalla paura che dal dolore, scattando in avanti con le mani. Arch tastò alla cieca finchè non trovò qualcosa che intuì essere i capelli ingellati del pirata e glieli afferrò, tirandoli senza pensarci. Guadagnò qualche millimetro di distanza tra la bocca di quel mostro ed il suo collo, ma solo per pochi secondi, prima di risentire le mascelle del rosso richiudersi con più decisione su di lui, stavolta sulla sua spalla.

Non ebbe abbastanza tempo per accorgersi, infatti, che durante il suo contrattacco la mano smaltata di Kidd aveva abbandonato i suoi capelli, andando ad attaccare la sua camicia, abbassandogliela con rabbia.

“LASCIAMI!!”

Ormai era in pieno stato confusionale. Quell’ultimo grido, comunque, forse un po’ troppo acuto e strozzato dal nodo che la paura gli aveva formato in gola, ebbe il potere di bloccare tutto quanto.

Il dolore lasciato dal passaggio di quelle fauci era tutto ciò che gli riempiva la testa ed era troppo spaventato per osare anche solo azzardare un’occhiata a quello che era lo stato della sua spalla, certo che l’avrebbe trovata sanguinante e  coi muscoli scoperti.

In realtà l’unica cosa che Arch avrebbe potuto vedere sulla propria pelle, sarebbero stati i marchi circolari e rossastri delle mascelle di Kidd, ma la mente aveva smesso di accompagnarlo, lasciandolo scosso e tremante alla mercè di uno sconosciuto pronto a divorarlo.

Kidd si era fatto indietro con la testa assistendo con un certo compiacimento a quello che era rimasto del ragazzo impassibile e sicuro di sè di pochi minuti prima.

Gli occhi dilatati dalla confusione e dalla paura, la fronte leggermente luccicante di sudore e lo sguardo errante come quelli di un folle in preda ad una psicosi.

Decisamente una scena impagabile.

Sorrise vittorioso, certo di aver finalmente ammansito la propria preda e gli agguantò con violenza il collo, guadagnando un rantolo esaltante.

Arch si trovò costretto a guardarlo, la fronte aggrottata  ed una smorfia di sfida, ma gli occhi, disperati e spaventati, dardeggiavano a tratti verso di lui e poi per la stanza, alla febbrile ricerca di un qualunque oggetto da usare come arma.

Ragiona ragiona RAGIONA! - continuava a ripetersi, ma ogni centimetro della sua pelle era concentrato su Kidd, o meglio, sui suoi denti scoperti che pian piano gli si stavano avvicinando al viso. 

Fu allora che il suo corpo tentò, spinto dall’istinto di autoconservazione, il tutto per tutto, iniziando a divincolarsi furiosamente dalla testa ai piedi.

Un calcio mal assestato ad una gamba e la mano che lo teneva fermo allentò la propria presa. Sgusciò via in un breve e prezioso attimo, ma, mentre dietro di lui ancora vibrava un grugnito rabbioso e dolorante, rischiò di inciampare per terra. Dietro di lui sentì il rosso frustare l’aria con una mano per riacchiapparlo, fortunatamente senza riuscirci, ma non andò lontano.

Neanche il tempo di individuare la porta che Kidd lo aveva nuovamente costretto all’immobilità, stavolta per terra, disteso prono su di un qualcosa di morbido e leggermente pungente: un tappeto, di cui poco gli importò del materiale. 

Si sentì voltare in posizione supina, costretto ad affrontare quelle fauci scoperte.

Puntellò entrambe le mani sulla faccia dell’altro non appena lo rivide riavvicinarsi, ma la forza non era mai stata il suo punto forte ed in poco tempo il suo avversario abbatté l’inutile barriera dei suoi palmi.

Strinse forte gli occhi, pronto ad essere letteralmente mangiato vivo, ma invece dei denti, quello che la sua pelle incontrò fu una risata maleodorante alitatagli in faccia.

O meglio, sulle labbra.

Ebbe un attimo di indecisione prima di riaprire gli occhi, ma alla fine si convinse.

Se ne pentì immediatamente non appena focalizzò gli occhi stralunati dell’altro occupare totalmente la sua visuale. 

Il suo corpo si irrigidì automaticamente prima che potesse dissimulare la propria paura ed un’altra risata proruppe dalla gola di Kidd, invadendogli con una nuova ondata di fetore le narici.

Dalla propria posizione di vantaggio il capitano della Hell Glory si gustò la vista di quel bel visino rigido e sgomento dal terrore, con gli occhi blu e le palpebre dalle ciglia bionde sbarrati dalla paura.

Sapeva riconoscere un verginello quando ne vedeva uno.

E Archetto Sassonia rientrava nella categoria. Oh, altrochè! 

In bocca aveva ancora il sapore di quella pelle d’avorio che, per Roger, sapeva ancora di latte!

Arch continuava a guardarlo tremando lievemente, quasi si aspettasse che si fiondasse su di lui e lo divorasse vivo.

Magari si aspettava veramente che lo facesse? Bha, ma che gliene fregava?

Vergine o meno, lui non era tipo da lasciarsi impietosire! Non dopo quello che i suoi gioiellini avevano passato a causa sua!

Si gustò ancora un po’ la visione dinanzi a lui, assaporando ogni piccolo particolare.

Il ragazzo respirava appena, facendo passare tra le labbra, schiuse e leggermente secche, piccoli soffi d’aria ad un ritmo che un dottore avrebbe probabilmente definito preoccupante, con gli occhi leggermente annacquati da una patina di lacrime. Il movimento più rilevante era quello del petto, che ritmicamente si abbassava e rialzava, sfiorando il suo, lasciato immancabilmente scoperto sul davanti dalla pelliccia. 

Fu nel guardare quel cocktail di puro terrore scombinare ed abbattere la scorza di sicurezza del biondo che a Kidd venne un’idea.

E che idea! 

Arch aveva solo una minima percezione di quello che stava succedendo, ma ritrovare le labbra di Kidd incollate alle sue fu come una secchiata d’acqua gelida. Se prima il caos dovuto alla novità di quella strana situazione gli aveva messo in testa qualche dubbio ora poteva dirlo con certezza: il rosso non era cannibale e quelli, almeno in parte, non erano i morsi di una belva affamata.

Quell’assassino non lo voleva divorare. Lo voleva...

Un’ondata di disgusto si fece strada in lui, sovrapponendosi alla paura.

Che diavolo fai?!

Come era riuscito a liberarsi da quella bocca famelica non lo seppe mai, e forse era stato proprio il rosso ad allontanarsi apposta per continuare a deriderlo dall’alto mentre lui si dimenava sofferente con i fianchi stretti tra le sue ginocchia, ma fu più impegnato a mordersi la lingua, maledicendosi per essersi lasciato sfuggire di bocca ben più di un tono di voce mezzo strozzato.

Aveva parlato nella sua lingua madre.

“Bene bene bene.” gongolò con fare viscido l’altro, torcendo la testa di lato con lingua e denti ben visibili.

“Pensavo di aver sentito male prima, sul ponte.”

Il lieve lamento delle assi di legno sotto il tappeto sul quale erano distesi per un attimo gli riempì le orecchie.

Il cervello pian piano ricominciava a connettere ragionamenti e idee.

Buffo. Aveva più paura di essere mangiato vivo che essere costretto ad atteggiamenti amorosi con un simile individuo, ma almeno il suo sangue freddo era tornato alla ribalta.

“Di che parli?” fece volutamente l’ignorante, indurendo lo sguardo e fu con una soddisfazione da puro masochista che vide Kidd lasciar ricadere gli angoli delle labbra nere in una smorfia insoddisfatta.

Cinque dita tozze e callose si abbatterono con forza sul suo collo indifeso.

Rantolò sorpreso e poi alzò gli occhi giusto in tempo per vedere quei dardi neri da pazzo sanguinario inchiodarlo.

L’alito fetido di Kidd era tornato e con lui c’era anche il suo naso deforme e meno di un millimetro dal suo.

“Non giocare con me, mammoletta.” sussurrò minaccioso il pirata, sfilandosi nel frattempo la pelliccia dal braccio libero.

“Ci sono parecchie cose.” continuò dando una piccola stretta alla mano che gli cingeva il collo “Che sarei ansioso di farti e, oh, non sai quanto te le renderei insopportabili. Minuto per minuto.” Dalla propria posizione di svantaggio Arch non potè vedere l’indumento peloso scostarsi e rivelare parte dei pettorali bianchi e nervosi del capitano della Hell Glory, ma aveva capito perfettamente a cosa alludeva quell’animale.

Stette zitto ed immobile nonostante il dolore al collo diventasse sempre più insopportabile. Anni su Nido Leila gli avevano insegnato l’arte della pazienza. Tastare il terreno. Capire le proprie possibilità. Ed infine essere abbastanza veloci da cogliere ogni occasione al volo.

“Ma io sono un tipo paziente, nonostante tutto...” ridacchiò “...e sarei disposto a concederti una piccola grazia, in cambio di qualche informazione.”

Gli occhi blu mare di Archetto si assottigliarono fino a diventare taglienti.

Ecco dove voleva arrivare.

Alla sua espressione Kidd si rifece indietro, ghignando quasi spasmodicamente, trattenendosi addirittura.

“Suvvia, tesorino, voglio solo conoscerti meglio.” Kidd strinse con sadico compiacimento le ginocchia, percependo i fianchi dell’altro scricchiolare penosamente. Era davvero delicato come un giunco.

“A meno che tu non voglia passare direttamente al sodo.”

“Scordatelo.”

Piantò le mani ai lati della testa del biondo , una vena pulsante ad ornargli una tempia. Al contrario di quanto aveva appena affermato, Eustass non era mai stato un tipo paziente e di certo il fatto che le sue minacce, a malapena velate, fossero state snobbate in modo tanto freddo e secco non volgeva a favore di una conversazione all’insegna della calma.

D’altra parte Arch non fece una piega, continuando a guardarlo senza battere ciglio, nemmeno quando aveva fatto scattare verso di lui entrambe le braccia.

“Attento a come parli, moccioso.” sibilò quasi tra i denti “Puoi incantare la tua amichetta con i tuoi modi di fare da primo della classe, ma, come ben ricorderai...”

Con un rapido movimento della mano, sguainò uno dei propri stiletti, premendolo con leggera forza sotto la giugulare dell’altro.

Io qui sono il capitano.”

“Non ti dirò proprio niente.” sussurrò Arch con la voce pregna di ostilità e stretta dalla pressione della lama del pirata.

Kidd avvertì un leggero tic all’occhio.

Dannato visetto da fata...

La lama fu presto sostituita da una mano.

Ancora?- pensò Arch, stupendosi del fatto che il pirata non si fosse ancora stancato di strangolarlo per mettergli paura, ma, invece di sentire le dita tozze serrarsi con forza attorno al suo collo, queste rimasero semplicemente premute sopra la sua pelle, anche se per nulla gentili.

Il ragazzo si stupì ed un tintinnio gli solleticò la nuca, mentre i suoi occhi increduli si allargavano appena in tempo per scorgere i capelli di Kidd muoversi come fiamme sopra di lui.

“Scelta tua, angioletto.” riuscì a sentire prima che un paio di labbra nere si abbattesse sulle sue.

Arch annaspò incredulo, cercando al contempo di combattere, seppur inutilmente, la stretta intorno al collo che lo costringeva all’immobilità.

Che diavolo...?

Arch si irrigidì di terrore, avvertendo non solo i fianchi del pirata muoversi lentamente contro i suoi, ma, come se la prima movenza da sola non bastasse a fargli torcere lo stomaco dal disgusto e dalla realizzazione,  anche qualcosa di umido e ruvido infilarsi senza gentilezza tra le sue labbra.

Bastò il sapore di alcol e di stantio a fargli capire cosa effettivamente fosse quella sensazione viscida nella propria bocca.

Fu per quello che, con decisione, serrò le mascelle.

L’urlo di Kidd riempì la stanza con tanta da forza da stordirlo per un breve attimo.

Eustass, furioso e con un rivolo di sangue che già gli colava dall’angolo della bocca, gli afferrò di ripicca i capelli, tirandolo su di forza.

“Uhg!” si permise di lasciarsi scivolare di bocca, prima di stringere le labbra tra loro, deciso a non permettere un’altra invasione come la precedente.

Quella visione sembrò per un attimo far tornare il buonumore al capitano della Hell Glory.

L’angioletto voleva tenere la bocca chiusa? 

Perfetto. Ad Eustass Kidd erano sempre piaciute le sfide.

Chiuse due dita sul naso del ragazzo, ottenendo quasi immediatamente la reazione desiderata.

Non avendo altro modo per far entrare ossigeno nel corpo, Arch aveva con sguardo disperato spalancato le labbra, cercando di aspirare quanta più aria nel minor tempo possibile.

Cosa che purtroppo non gli riuscì.

Nuovamente costretto a subire una nuova invasione, il biondo non potè fare altro che cercare di sostenere sia il proprio peso che quello dell’altro con le braccia puntellate sul pavimento.

Un attimo.. Lui aveva le mani libere!

Senza perdere tempo fece scattare una mano verso l’alto afferrando, con quanta più violenza era capace, un gruppetto di ciocche rosse, tirandoli da una parte per cercare almeno di trascinare il pirata di lato e toglierselo di dosso.

La risposta fu una risata divertita nella sua bocca.

Ah, sì? - pensò Arch, mentre il braccio rimasto tremava sotto il peso dell’altro, venendo immediatamente colpito da un’idea.

Con fare arrendevole ritirò la mano che con cui aveva tentato di allontanalo e la risistemò com’era prima. Sopportò a malapena quella lingua schifosa nella sua bocca, mantenendosi lucido, nonostante, in un angolo perso della sua mente e sigillato a doppio lucchetto, il suo corpo gli urlasse di divincolarsi con quanta più forza possibile.

Aspettò invece pazientemente che Eustass si rilassasse, credendo in una sua resa, e, quando sentì la presa al suo collo allentarsi abbastanza, lasciò che un braccio cedesse e gli si stendesse lungo il fianco.

Il suo corpo così facendo si inclinò, ed il pirata, con un rantolo sorpreso, si ritrovò a rotolare per terra, a malapena conscio di quanto fosse accaduto.

Scattò in piedi con un rapido slancio delle anche, pronto a fuggire da una delle finestre che, perfettamente allineate lungo la parete che sicuramente dava a poppa.

Vi arrivò davanti senza problemi, ma, appena ne sbloccò una, un fischio fin troppo famigliare gli solleticò le orecchie.

Tempo di rendersi conto di avere una lama galleggiante diretta verso la propria nuca, che il suo corpo aveva già ruotato di 180° ed afferrato istintivamente con una sola mano il pugnale che gli avrebbe sicuramente reciso l’osso del collo se non l’avesse fermato in tempo.

Il filo ben levigato gli sibilò a pochi millimetri dal proprio naso, vibrando quasi infuriato per non essere riuscito nel proprio compito e tuttavia bloccato dalla salda presa delle dita del biondo sul manico.

Ancora una volta Arch si ritrovò a ringraziare Madre Natura per i propri riflessi. 

Furioso per essere andato così vicino alla propria morte, il ragazzo fronteggiò il viso di Kidd, ma solo per impallidire.

Quella di Eustass Kidd era ormai una maschera demoniaca. I denti coperti fin sopra le gengive, la fronte tanto contratta da sembrare percorsa da crepacci e gli occhi tanto stretti da sembrare pronti a trafiggerlo con altre lame.

Deglutì sommessamente e il pirata fece un passo, solo il primo di una lunga ed estenuante serie. Lentamente, come una belva feroce che dopo aver rincorso per chilometri la propria preda se la ritrova finalmente davanti con le spalle al muro e altro non desidera che squartarla nel modo più denso e doloroso possibile con le proprie zanne, Eustass si portò davanti a lui.

E ora..?! pensò Arch, cercando di non lasciarsi sfuggire di mano il minimo controllo di sè, essendoci quasi  ricaduto.

Gli occhi saettarono per un istante sul pugnale che aveva in mano, unica risorsa che era riuscito a guadagnarsi con un po’ di fortuna.

Doveva farlo? Recentemente aveva abusato fin troppo della propria Essenza.

Dalla propria posizione di comando, Kidd vide il ragazzino abbassare la testa e le spalle con fare rassegnato, ma stavolta non gli venne da sorridere vittorioso: quell’angioletto gli aveva dimostrato di saperne sempre una più del diavolo e, per quanto ne sapeva, poteva essere un’altro trucco per fargli abbassare la guardia e tentare nuovamente la fuga.

“Non mi incanti un’altra volta.” grugnì, ormai fin troppo spazientito, muovendo una mano in avanti per strappargli via il pugnale.

E invece fu lui a ritrovarsi con la punta della lama premuta  teneramente contro la sua laringe.

Con un occhio cobalto illuminato da una fiamma amaranto a scrutarlo pronto a colpire.

Oh fantastico, pensò Kidd sarcastico, fottutamente FANTASTICO. Un’altro con gli occhi che si illuminano.

“Non era mia intenzione.” fu il  commento sussurrato del biondo, posizionando meglio il pugnale sotto il mento squadrato del rosso.

La fronte del pirata si corrugò ancor più di quanto già non fosse: cominciava a stancarsi di quei continui risvolti inaspettati. Alzò le mani sopra le spalle in segno di resa, mostrando i palmi, e sfoggiò un sorriso strafottente, tuttavia il sangue gli stava pompando al cervello con una velocità inaudita, conscio di star camminando su un campo di cocci di vetro. Era magnetico, vero, ma attirare a sè o spostare un oggetto tagliente così ben premuto contro la propria pelle sarebbe significato suicidarsi.

“Calma fatina. Non vorrai mica squartarmi così su due piedi...”

“A dirla tutta sto smaniando.”

“Oh, andiamo, non dirmi che te la sei presa per un paio di bacetti.”

La pressione sulla sua gola aumentò lievemente e seppe di dover cambiare tattica ed evitare battute suicide o Killer sarebbe diventato capitano prima del previsto.

“Ok, Ok. Ti ho fatto decisamente incazzare.” ritrattò, sentendo con una punta di sollievo il coltello venire ritratto all’indietro di neanche un pelo. “Ma vediamo la tua situazione, a...”

Di nuovo il coltello tornò a premere minacciosa.

“Arch...” si corresse “... sei bloccato sulla mia nave, con i tuoi amichetti in ostaggio dei miei uomini e anche se riuscissi a sbudellarmi, non faresti neanche in tempo a rubare una delle scialuppe.”

“Io non ci conterei.”

“E come la mettiamo con l’orecchino?”

Il fuoco nell’occhio del ragazzo si affievolì e Kidd sorrise internamente.

Si rese conto di una cosa: la strana luce che aveva nell’occhio non era estesa anche all’altro, ma solo a quello sinistro ed era leggermente più chiaro, quasi color vinaccia.

Di nuovo la pressione sulla sua gola gli stroncò la linea dei pensieri, oltre che al respiro.

“Dammelo.” gli intimò il ragazzo con fare minaccioso, ma lui sapeva bene cosa rispondere.

“Io non ce l’ho.” sorrise gloriosamente, godendosi lo sguardo di pura confusione e sgomento che attraversò il volto dell’altro.

“C-cosa?”

Stranamente non cercò di contraddirlo, nè di dargli del bugiardo.

Addirittura ebbe l’impressione che la luce nel suo occhio sinistro avesse tremato per un breve istante.

“Spiacente, fatina. Non ho avuto tempo di raccogliere il tuo adorabile gingillo quando stavamo sfuggendo dall’isola. Sai, un Re dei Mari alle calcagna mette parecchia fret-urgh!”

Arch si era portato in avanti verso di lui con le labbra strette dalla rabbia e il respiro accelerato, il coltello che ormai saggiava il primo strato di pelle.

Oh merda. Ora sì che è incazzato. pensò il pirata borchiato, mantenendo comunque il proprio sorriso-firma ben stampato in faccia.

Angelo Infido sembrava oramai pronto a fargli la festa.

Eppure, dopo un rapido momento in cui Eustass pensò seriamente di mandare una preghiera a Gol D. Roger in persona, la lama si allontanò con uno scatto da lui e venne scagliata con gesto secco verso una parete.

Un suono secco e qualche urlo accompagnò il gesto del ragazzo e Kidd ritrovò il suo fedele pugnale conficcato fino alla guardia dell’elsa nella porta di legno della cabina.

Il capitano della Hell Glory avrebbe volentieri  lasciato che i suoi occhi uscissero fuori dalle orbite per quanto appena visto, ma l’orgoglio che lo contraddistingueva gli impose di fare la solita faccia di marmo.

Cazzo! Quella porta era spessa di ben 10 cm!! Ed era anche fatta di un materiale resistente!!

Come aveva fatto ad imprimere alla lama la forza necessaria per farla affondare così tanto??!!

Intanto Arch, sconfitto sia nelle speranze che nell’orgoglio, aveva dato le spalle al suo avversario, coprendosi il viso con una mano per nascondere la propria espressione.

Era la prima volta che si ritrovava sul punto di piangere.

Forse perché, con quell’ultima frase, Eustass Kidd l’aveva letteralmente abbattuto nell’animo, mettendolo inconsapevolmente davanti ad una triste realtà: non sarebbero riusciti a trovare sua madre Clarina.

“Di che cos’era fatto?” domandò il rosso, sentendo fiorirgli una nuova smorfia di vittoria sul viso, non appena ebbe capito di aver colpito nel segno ed aver distrutto le sue già flaccide speranze.

Ricominciare l’interrogatorio in quel momento gli sembrò la più rosea delle scelte.

Onde evitare che l’altro ci ripensasse e cercasse nuovamente di tagliargli la testa di netto.

Cosa che, visto quello di cui era capace, gli sarebbe stata facile.

E Kidd ci teneva alla sua testa. Oh, sì.

Arch si girò, scoprendo il viso, e lo scrutò intensamente per un po’, l’occhio sinistro spentosi nel frattempo, tanto che il pirata non ce la fece ad aspettare pazientemente una risposta.

Da ricordare che la parola ‘pazienza’ a stento compariva nel suo vocabolario.

“Senti fatina, sono stanco di-”

“Era una bussola.”

Kidd strabuzzò gli occhi incredulo.

A malapena realizzò che, per la prima volta in assoluto da che l’aveva incontrato, Arch Angelo Infido aveva risposto direttamente a una sua domanda.

E senza minacce o arnesi taglienti nelle vicinanze del suo bel visino!

La cosa gli fece un po’ strano, abituato com’era ad accompagnare le conversazione ad una buona e sana dose di minacce.

Ma, andiamo, di certo distruggere il risvolto vantaggioso si era andato a creare non era nei suoi interessi!

“Una bussola?” ringhiò con tanto si sopracciglio inarcato. Allora i suoi sospetti si erano rivelati fondati.

Sfortunatamente alla sua domanda il biondo parve innervosirsi, cominciando a gesticolare nervosamente, addirittura camminando avanti e indietro per un breve tratto della cabina.

“Sì una bussola. Un ago magnetizzato. Uno di quegli aggeggi che voi umani chiamate Eternal Pose, solo che era attaccato al mio...”

Arch si fermò, come colpito da una realizzazione improvvisa e tornò a guardarlo ad occhi sbarrati.

 “...orecchio.”

Sentirsi osservato così insistentemente non giovò al suo già di per sé avanzato malumore.

“Che c’è ora-..?”

“Hai detto di essere magnetico, giusto?” lo interruppe nuovamente, avvicinandosi di un passo a lui “Quindi puoi immagazzinare il magnetismo di tutto quello che attiri.”

Immagazzinare? Bhe, certo. - pensò il rosso, ritrovandosi a ragionare seriamente sulle sue parole, anche se gli veniva difficile capire, come potesse affermare con tanta sicurezza una cosa che solo lui poteva sapere.

E poi a cosa mai-..

Finalmente una lampadina si accese nella sua mente. 

Ghignò contento come non mai.

Ecco dove voleva arrivare faccia d’angelo.

“Oh.”

Non trovò niente di meglio per esprimersi. Il senso di pura euforia che gli scalpitava dentro avrebbe raso al suolo la nave se l’avesse lasciato uscire.

Finalmente conscio di quanto la situazione si fosse ammorbidita, almeno per lui, Kidd si rilassò, mettendosi comodo nel modo più palese che riuscì a trovare: si stravaccò sul proprio letto a gambe divaricate, il collo ed il busto tesi in avanti ed il braccio sinistro piantato sul materasso ricoperto da pellicce scure ammassate l’una sopra l’altra, mentre l’altro rimaneva ripiegato pigramente sulla rispettiva coscia.

Dal canto suo Arch non si era mosso di un centimetro. Sembrava quasi comprendere perfettamente in che situazione si era cacciato. Era come se fosse tornato a sentirsi a proprio agio.

E in effetti, Kidd non poteva saperlo, era proprio così.

Uno scontro diretto di cervelli per Archetto era il massimo, poichè erano solo le parole a regnare e nient’altro.

“Sono tutto orecchie, angioletto.”

“Facciamo un patto.” iniziò immediatamente l’altro con rinnovata sicurezza.

“Ti dirò tutto quello che vuoi sapere sul nuovo mondo, ogni cosa ti verrà in mente di chiedermi. Ma...”

Quella pausa diede il tempo a Kidd di valutare attentamente quelle parole. Una proposta allettante, anzi, non avrebbe potuto sperare di meglio, tuttavia, se non aveva male interpretato l’ultima parola del ragazzo, le condizioni non sarebbero state poche.

Oh no. Non lo sarebbero state affatto.

“Lascerai in pace Viola e Morgan. Darai loro una stanza, un letto e da sfamarsi. In cambio delle mie informazioni tu dovrai soltanto usare il tuo magnetismo per rintracciare il segnale che hai percepito sull’orecchino e...” 

Arch prese un bel respiro profondo. Non credeva che gli sarebbe stato così difficile.

“... farci da guida.”

L’aria si riempì di suoni di sottofondo e nient’altro.

“Tutto qui?” domandò Eustass con fare quasi deluso.

Il pirata alzò con uno slancio dal letto, dando sfoggio di come anche un uomo della sua corporatura potesse essere capace di movimenti fluidi.

Archetto sapeva perfettamente di aver chiesto pochissimo al tagliagole e non gli serviva vederlo ghignare con quel suo fare da maniaco, mentre gli alzava il mento con due dita, per capire quanto avesse effettivamente offerto.

Volle rimediare.

“No. Ancora una cosa: non ti avvicinerai più a me come hai fatto oggi.” sussurrò riaccendendo con non poco dolore la fiamma dentro il suo occhio sinistro.

“O ti assicuro che la prossima volta che mi vedrai lanciare un pugnale, sarà quando punterò a trafiggerti il cuore.”

Kidd si staccò immediatamente, ma, incredibilmente, non si dimostrò turbato dalla minaccia del biondo.

“Oh, che crudeltà.” lo schernì anzi allontanandosi di qualche passo all’indietro, ammirandolo meglio da lontano.

Oh quante cose gli avrebbe chiesto. Certo, si era giocato una scopata facile e veloce, oltre che soddisfacente dal punto di vista vendicativo, ma, per Roger, ottenere informazioni succulente sul Nuovo Mondo prima ancora di arrivarci?

Era come far arrivare Natale due volte l’anno!

“Affare fatto.”

Fu in quel momento che fuori dalla cabina si sentì un frastuono infernale.

Arch riconobbe distintamente il suono di travi spezzate e urla conciate da altre tutte mescolate insieme, tra cui, ahimè, individuò quella di Viola.

“Che cazzo sta succedendo?!” esclamò Kidd uscendo a grandi passi dalla camera, allertato dai quei suoni poco rassicuranti.

Il più basso lo seguì a ruota ma non prima di aver estratto con un movimento secco e veloce il pugnale, che aveva prima lanciato, dal legno della porta.

Se Kidd si fosse fermato un attimo ad osservare il suddetto arnese, avrebbe notato non solo che sui bordi taglienti vi erano ancora dei lievissimi aloni rosso-violacei, ma anche che nel penetrare l’uscio, lo stiletto aveva centrato in pieno una venatura del legno penetrandola ed allargandola di conseguenza.

Arch sapeva perfettamente dove e come il coltello aveva colpito.

Conoscere azione e reazione di ogni proprio gesto, almeno quando era calmo, era un’altra cosa che la natura, con la sua Essenza, gli aveva concesso.

In fondo, a malapena attaccato al suo corpo ed alla sua anima umana, vi era puro Raziocinio.

 

 

Atto 19, scena 7

Koby sospirò piano, le braccia incrociate sul cuscino della propria branda e la testa immersa fra di esse, nascondendo al meglio quello che Clarina, seduta accanto a lui, aveva definito un rossore degno di una mela.

Era tardi ormai sulla nave del Vice ammiraglio Monkey D. Garp e dal piccolo oblò della sua cabina il ragazzo poteva scorgere dei sottili, ma intensi, raggi caldi ed arancioni, segno che il tramonto era ormai agli sgoccioli. 

Purtroppo Koby non era affatto interessato a che ore fossero, nè tantomeno al meraviglioso spettacolo che la sera stava offrendo ai suoi compagni ancora in coperta a svolgere le ultime mansioni della giornata. 

Affondò ancora di più il viso rosso nel cuscino, pregando di poter dimenticare quello che era successo, di cosa la signora Clarina gli aveva visto fare irrompendo come un’uragano nella stanza di Hermeppo e di come adesso la donna, dopo averlo rincorso per tutta la nave biascicando delle scuse incomprensibili alle sue orecchie, stava seduta accanto a lui, pazientemente in attesa che lui superasse la fase di imbarazzo e si decidesse a rivolgerle la parola.

Di per sè Koby non era arrabbiato con la signora Clarina,non c’era nulla di cui la donna dovesse vergognarsi: entrare nella cabina di una nave era una cosa assolutamente normale.

Era lui semmai che si doveva vergognare.

Premette ancor di più il cuscino sul viso, quasi fosse deciso a soffocarsi e, forse, mettendoci ancora un po’ di buona volontà e qualche minuto in più, ci sarebbe riuscito.

Che gli era saltato in mente? Che diavolaccio gli era preso tutto di colpo?! Era andato da Hermeppo per rassicurarlo, per farlo riprendere non per ... per..! 

Prima ancora che potesse togliere quell’ultima manciata di aria al proprio naso con un ultima letale stretta al guanciale, questo gli venne strappato letteralmente dalle dita, facendo sì che lui crollasse di faccia sul duro materasso della branda.

Ite-!” si lamentò, puntellandosi poi sulle mani per rialzare la testa istintivamente.

Clarina lo guardava dall’alto con un sorriso materno sulle labbra, stringendo nel frattempo il cuscino tra le dita, quasi in modo vittorioso, essendo riuscita ad attirare su di sè l’attenzione del più giovane.

Compreso il proprio sbaglio, ragazzo abbassò frettolosamente gli occhi, le labbra oramai mutate in una linea tremolante.

Avvertì con le orecchie rosse di vergogna un fruscio morbido, che riconobbe come quello del suo guanciale che veniva allontanato da lui e subito dopo la mano affusolata della donna sopra la testa.

La scostò, mettendosi seduto di colpo e poggiandosi all’oblò della cabina con la fronte.

Un sospiro a metà tra lo sconsolato ed il divertito.

“Ti avevo detto di non vergognarti così tanto.”

Al giovane marine venne spontaneo ricercare il contatto visivo con la donna, incredulo per quanto appena udito. A rispondergli fu sempre il sorriso serafico della bionda e, realizzando il pieno significato di quella frase, la sua mascella ciondolò.

Fu un miracolo mettere insieme le parole in mezzo ai balbettii che succedettero.

“V-voi l-l-lo SAPEVATE?!”

Il volto di Clarina assunse un’espressione totalmente innocente.

“Bhe, se vuoi sapere se sapevo che andando da Hermeppo sareste finiti col rotolarvi sul-”

“WAAAAAAAH!!!!” la bloccò immediatamente mettendosi le mani sulle orecchie.

Non riusciva neanche a sentirselo dire! Si vergognava troppo!

La paradisea bianca si imbronciò, per nulla contenta dell’interruzione, ma sorvolò sulla cosa, riattaccando il discorso, omettendo volutamente i dettagli imbarazzanti che il ragazzo non era stato disposto a sentire.

“Bhe no. Non lo sapevo. Non credevo che sareste andati così veloci. Insomma, che una volta soli nella stessa stanza ti si sarebbe fiondato addosso non me lo sarei mai immaginato.” spiegò la donna quasi soprappensiero, mentre Koby, ora a gambe incrociate sulla branda, la guardava ad occhi tondi tondi, non afferrando del tutto la spiegazione.

“M-ma allora a cosa vi riferivate..?”

Gli occhi blu di Clarina saettarono spazientiti sui suoi, quasi arrabbiati.

Koby trattenne il respiro e, anche se l’espressione della donna tornò immediatamente pacifica e comprensiva come lo era stata istanti prima, per un minuto buono faticò rilassare i muscoli, irrigiditisi non appena quello sguardo tagliente si era posato su di lui. Il giovane marine era ben consapevole di quanto Clarina, nonostante l’aspetto angelico, potesse risultare pressoché letale anche solo attraverso la voce ed il pensiero non aiutava.

La paradisea però sorrise birichina, sporgendosi ed allungando una mano quel tanto che bastò per accarezzare la testa del ragazzo. 

“Non mi sembrava ti dispiacesse essere abbracciato in quel modo da Hermeppo.”

Di nuovo una vampata di calore gli salì fino alla punta dei capelli.

Buttarsi nuovamente sul materasso, stavolta con meno danni al setto nasale, gli sembrò l’opzione migliore e così fece, stringendo spasmodicamente le lenzuola tra le mani per l’imbarazzo.

Di nuovo uno sbuffo dietro di lui.

“Vedi? Ti vergogni!”

“Ma siamo due maschi!” protestò il giovane marine, incredulo per le parole della donna.

Se si vergognava? Ovvio che si vergognava! Era un marine! Un uomo che dovrebbe essere esempio di rettitudine ed imparzialità! Come poteva non vergognarsi per essersi lasciato ba- ba... argh non riusciva nemmeno a pensarlo!!

“E allora?Grande Spirito, se Oboe ti avesse sentito ti avrebbe fatto una strigliata da capogiro! Che male c’è a volersi bene? Che siate due maschi non ha alcuna importanza!”

Koby non aveva la minima idea di chi fosse Oboe, nè gli sarebbe importato granchè, data la situazione assurda in cui si trovava. Si irrigidì di colpo, gli occhi stralunati e ormai tondi come due palline da biliardo, e con uno scatto veloce fronteggiò nuovamente gli occhi sottili e dolci della paradisea.

Non aveva importanza che fossero due maschi?! Pensò totalmente spiazzato, gli ingranaggi del suo cervello ormai incapaci di compiere alcun tipo di ragionamento che non si fermasse a metà. 

“M-ma..” balbettò  indugiando lo sguardo sulle proprie mani, le cui punta delle dita si erano congelate per l’imbarazzo salitogli alle guance “... ci siamo ba- ba-..”.

Baciati.”

Rischiò seriamente di strozzarsi con la propria saliva.

“Ma-!” fece per obbiettare scattando la testa all’indietro, ma le dita lunghe ed affusolate di Clarina si posarono sulle sue labbra bloccando ogni singola parola che stava per uscire da esse.

Gli occhi neri di Koby tremarono nel vedere il viso della donna concentrato sul suo, sciolto in un sorriso che avrebbe potuto benissimo eguagliare quello di sua madre.

Ne fu spaventato.

Ne ebbe davvero terrore perchè l’intensità di quello sguardo lo faceva davvero sentire come se a guardarlo non fosse un’estranea ma la stessa donna che l’aveva visto nascere, crescere, piangere, diventare adulto.

La stessa a cui mai e poi mai avrebbe potuto nascondere qualcosa.

Tantomeno i suoi sentimenti.

Cominciò a sudare freddo, vedendo le pozze cobalto della paradisea sondare i suoi, cercando qualcosa che non tardò ad arrivare, accompagnato da un tono dolce e leggero che gli perforò il cuore.

“Lui ti piace.”

Per un attimo fu certo di sentire l’aria della stanza addensarsi e circondargli la testa, quasi cercando di impedire a quelle parole di arrivargli al cervello.

Poi però la stanza tornò limpida, l’aria più fresca e il cervello più ricettivo che mai.

La sua prima reazione fu quella di mettersi a piangere, ma fermò prontamente le lacrime, concedendo solo ad un sottile velo liquido di appannargli la vista.  

La seconda fu quella di mettersi il volto tra le mani e girarsi verso l’oblò.

Koby sapeva che una simile reazione di fronte a tre semplici parole poco si addiceva ad un marine, ma non potè farne a meno.

Non riusciva a controbattere nè a smentirle, perchè, il giovane marine lo sapeva, erano vere, talmente vere da risultare quasi tangibili, sottili ed acute come tanti piccoli agi conficcatisi nella sua mente.

Facevano male, eppure sapeva che cercare di rifiutarle sarebbe stato inutile, se non doloroso.

Lanciò un sospiro tremante e sentì una mano accarezzargli la schiena in un gesto di conforto.

Non sapeva che accettare la verità potesse essere così difficile.  

“Non devi buttarti giù così.” gli sussurrò Clarina risalendogli la schiena con la mano, arrivandogli ai capelli “E’ una bella cosa, sai? Avere qualcuno che ti stia a cuore.” 

“Ma...” 

Il giovane marine si bloccò, trovando la propria voce troppo strozzata e patetica per continuare e decise di schiarirsi la gola con un paio di colpi di grugniti.

“Non è così semplice per gli esseri umani.” disse senza mai alzare lo sguardo “Non puoi ... amare una persona dello stesso sesso e fare come se nulla fosse. La gente ... la gente non lo accetta. Ti evita. Ti allontana. è una cosa...”

Anormale?

Koby si bloccò un attimo, avvertendo il tono di voce della donna farsi più amaro.

“La gente lo dice.”

“E tu pensi che abbiano ragione?”

“Non tanto.”

Il rumore delle onde che battevano sulla chiglia della nave riempì le loro orecchie per un po’ e Koby ne fu grato perchè gli permise di rilassarsi, anche se per poco. Gli venne da pensare alle persone che conosceva, i suoi compagni che si trovavano con lui a bordo, il Vice ammiraglio Garp. Come avrebbero reagito se l’avessero scoperto?

Un brivido gli salì lungo la schiena.

“Clarina...” gli scivolò dalle labbra prima ancora che potesse rendersene conto “Se suo figlio fosse... come.. me...” si bloccò dandosi coraggio per continuare “Gli vorreste ancora bene?”

Non sapeva da dove gli fosse uscita quella domanda, ma in quel momento non gli interessò granchè di quanto patetico potesse apparire agli occhi dell’altra.

Clarina non rispose subito e questo lo preoccupò un po’.

La mano della paradisea, prima tra i suoi capelli, scivolò verso il basso posandosi delicatamente sul suo ginocchio, unica parte raggiungibile dato che le sue mani ancora restavano premute sul viso.

“Tesoro... sono sposata con un uomo che è partito per inseguire i propri sogni senza nemmeno sapere che ero incinta, ho una nipote problematica che non fa che rendere difficile la vita ai miei figli...”

Clarina fece fatica a non ridere, notando quel poco di pelle a lei visibile dell’altro, al di sotto della fascia indossata, brillare di un rosso ancor più acceso e una leggera nuvola di vapore alzarsi dalla  testa. Aveva capito che con quella domanda si stava riferendo a se stesso. Non ci voleva un genio per capirlo. 

Poverino - pensò, guardandolo affondare di più la testa tra le braccia - devo averlo proprio messo in imbarazzo.

Ciononostante non si diede molta bene a rincarare la dose con un colpo di grazia degno di lei.

“Spiegami perchè mai non dovrei volere bene a te... quando posso amare loro senza problemi.”

Non sarebbe stata la Verità se non l’avesse messo alle strette.

Tempo di pronunciare l’ultima parola e Clarina si vide, come previsto, la testa del ragazzo piombare in avanti, ciondolando in segno di resa.

SOB.”

Eeee .. affondato!- si ritrovò a pensare vittoriosa, mordendosi le labbra per non ridere.Per un istante si immaginò addirittura mentre saltellava allegramente per la nave con le braccia tese al cielo e le dita a formare due sfrontati segni di vittoria.

Oh, andiamo! Che ci poteva fare lei se vincere un confronto mentale la faceva sentire così euforica?

Non ebbe però tempo di ripensare ai suoi pensieri puerili perché dei passi si accostarono velocemente alla porta della cabina che si spalancò in un tonfo sordo e rapido.

Koby saltò di sorpresa alzando gli occhi appena in tempo per vedere Hermeppo torreggiava davanti alla soglia, la quale continuava in sottofondo a lagnarsi con voce gracile per il modo indelicato con la quale era stata aperta. 

A braccia teste lungo i fianchi e le spalle rigide il biondo fissava a mascella tesa la paradisea bianca senza quasi muoversi di un millimetro.

Sarebbe quasi parso una statua se non fosse stato per il sudore che gli scivolava lento lungo i lati del viso e per il lieve movimento tremolante delle sopracciglia che, ben visibili dato che gli occhiali scuri che era solito indossare erano stati tirati all’indietro, si tendevano aggrottate, in un movimento che Koby non riuscì se attribuire alla rabbia o all’incertezza.

La confusione provocata dall’improvvisa apparizione del compagno di guarnigione non l’aiutò granché a capire cosa effettivamente stesse succedendo, nè cosa stesse frullando per la testa di Hermeppo, nè cosa l’avesse spinto a correre fino alla sua cabina e...

Ah..., giusto. - pensò, allargando appena gli occhi, ricordandosi di quanto accaduto minuti prima del suo discorso con la donna accanto a lui.

Quando Clarina era letteralmente piombata davanti a loro, sorprendendoli in..ehm... atteggiamenti molto intimi, lui era corso via, lasciando Hermeppo da solo, mentre la paradisea, mortificata per il proprio a dir poco inopportuno intervento, si era immediatamente precipitata al suo inseguimento.

Poteva solo immaginare quante seghe mentali il biondo si fosse fatto prima di decidere di affrontarla così apertamente.

Clarina nel frattempo guardava incuriosita il ragazzo, sostenendo il suo sguardo con assoluta naturalezza, quasi davanti a lei non ci fosse un marine probabilmente molto arrabbiato e ferito nell’orgoglio, ma piuttosto un quadro astratto, un tripudio di linee e colori che aspettava solo di essere decifrato.

Ora, non che Clarina si interessasse d’arte, non grafica almeno, ma decifrare le persone, le loro emozioni e le loro ragioni era la sua specialità.

Per questo, sotto gli occhi mezzi stralunati di Koby e quelli apparentemente furiosi di Hermeppo, la paradisea si limitò a sorridere gentilmente ed accavallare le gambe tranquillamente, aspettando poi la risposta di Hermeppo con il viso poggiato sul palmo della mano.

Dal canto suo il marine spadaccino non si sbilanciò di una virgola, rimanendo serio nonostante la reazione inattesa dell’altra.

Poi, abbassando lo sguardo dopo un tempo che a Koby sembrò lunghissimo, parlò, la voce tremante e incredibilmente strozzata, tanto da stonare pesantemente con la sicurezza poco prima dimostrata.

“Voi... Voi...” 

“Sìì?” lo incitò in tono canzonario Clarina.

“Avete ... intenzione di dirlo... al vice ammiraglio?”

Un groppone si bloccò in gola a Koby, realizzando quanto la situazione fosse realmente complicata. Hermeppo non sbagliava ad essere preoccupato su cosa la signora Clarina potesse dire, o meglio, lasciarsi scivolare di bocca in un successivo colloquio con il loro superiore. La paradisea dalle fiamme bianche non era una semplice chiacchierona, ma LA chiacchierona, anche non volendo si sarebbe sicuramente fatta sfuggire una parola di troppo e loro si sarebbero ritrovati con ogni probabilità additati ed evitati dall’intero reggimento, o peggio, radiati dalla marina.

Un brivido gli salì lungo la schiena.

No. Questo mai. Non sarebbe stato più in grado di guardarsi allo specchio se il suo sogno si fosse infranto in modo tanto stupido. Si passò velocemente una mano sul viso, improvvisamente umido di sudore. Come avrebbe potuto affrontare lo sguardo di Rufy-san dopo essere venuto meno alla loro promessa? Si immaginò il giovane pirata lì davanti a lui, i suoi occhi neri e quasi inespressivi che lo fissavano delusi, contrariati come quelli di un bambino tradito.

Scacciò velocemente quell’immagine così come l’aveva creata, tornando alla realtà.

Clarina si era messa  a guardare poco sopra la testa di Hermeppo con aria pensierosa, quasi soppesando la possibilità di andare da Garp e raccontargli quello che aveva visto.

Entrambi i ragazzi trattennero il respiro ed il biondo quasi andò in preda al panico quando la risposta della donna si tradusse in:

“Non dovrei?”

“OVVIO CHE NO!!” esplosero i due ragazzi all’unisono con gli occhi strabuzzanti e i denti appuntiti.

La donna sembrò farsi piccola piccola, spaventata da quello scoppio d’ira nei suoi confronti, ma riprendendosi in un attimo, rispose alle facce degli altri due con un broncio che rasentava di poco l’infantile, complice gli occhioni chiari della donna, in quel momento tanto spalancati da sembrare dei fanali tondi.

“Ma...” 

Due mani però le bloccarono ogni parola sul nascere, poggiandosi sulle sue spalle, e un paio di occhi più giovani, forse un po’ miopi, incontrarono i suoi, implorandola con ogni briciolo della propria anima.

“La prego...” sussurrò Koby “... la prego, non dica nulla al vice ammiraglio.” 

Quella richiesta la lasciò perplessa.

Perché avevano tanta premura di mettere tutto a tacere? Che male c’era a volersi bene?

Clarina non lo capiva. Su Nido Leila l’amore non aveva motivo di essere fonte di vergogna, tantomeno di paura. Oh, a parte il fatto che lei si era sposata con un umano ed aveva avuto Arch, ma quello era tutto un altro paio di maniche. Le sue sorelle non l’avevano esiliata perché si era unita ad uomo, più che altro per il fatto che Archetto non era il risultato che ci si sarebbe aspettati.

Comunque...

Senza pensarci oltre sondò gli occhi del ragazzo e, trovandoli pregni di terrore, decise di invadere un po’ la privacy del più giovane.

La sua Essenza le sfrigolò sotto pelle, risalendo con movimenti simmetrici le braccia, spalle, scapole, collo e mento, arrivando alle orecchie. Ne accumulò più che poté nei timpani, circondandoli con quella sottile patina tintinnante che era la Verità.

Si concesse un momento per preparasi a quello che sarebbe venuto dopo: usare l’essenza in modo passivo poteva risultare più facile e meno stancante rispetto a quello con il quale aveva messo fuori gioco Sakazuki, ma solo se si trattava di piccoli movimenti sottocutanei. Corrugò la fronte e si concentrò più che potè.

Quando si trattava di toccare in maniera più precisa organi importanti e piccoli, le cose dovevano essere portate avanti con prudenza.

I cumuli pulsanti d’Essenza che si erano fermati sui timpani si dilatarono, fili sottili si arrampicarono sul resto del suo apparato uditivo, risalendolo a ritroso.

Ossicini, Coclea ed infine il Nervo.

Respirò un po‘ più profondamente, ora che la parte più difficile era andata.

Da lì in poi non le bastò altro che andare avanti ed arrivare al cervello.

Deviare il collegamento dei nervi dalla zona riservata all’udito con quella della vista fu come una passeggiata a confronto. Alla fin fine non si trattava altro che di aggiungere una cosiddetta corsia preferenziale ai neuroni, consentendo allo stesso tipo di informazione di arrivare da un’organo all’altro.

Nel giro di pochi istanti aveva reso la sua vista capace di trasmettere quello che vedeva alle sue orecchie che erano in grado di processare il tipo di informazione che le interessava.

Non era passato infatti che mezzo minuto dacché aveva messo in moto quella sua capacità passiva e quindi nè Koby nè Hermeppo si erano mossi.

Tutto era rimasto come l’aveva lasciato.

Il marine più piccolo era sempre davanti a lei, serio ed accigliato con lo stomaco così nervoso da essere perfettamente udibile anche attraverso il rumore ritmico del mare all’esterno.

Ciononostante la paradisea ci fece caso solo in secondo luogo e si preoccupò focalizzare la propria attenzione su Koby.

Le sue pupille si dilatarono accogliendo una visione completa del ragazzo, ma, a differenza di quanto si possa immaginare, i dettagli non vennero messi da parte. Ogni più piccolo particolare, dalla cicatrice incrociata sulla sua fronte ai contorni sbiaditi della sua intera figura, venne recepito in ugual misura da Clarina insieme a tutti gli altri.

Così, come ogni volta, la Verità radicata nelle sue orecchie tradusse per lei, facendole comprendere tutto quello che bisognava sapere del marine davanti a lei. 

Sbattè un paio di volte le palpebre, finalmente pienamente consapevole.

“Oh...” disse piano “... capisco.”

Davanti a lei Koby non si trattenne nemmeno dall’esternare la propria confusione. Capire? Cosa doveva capire se non aveva neppure cominciato ad elencare le loro ragioni?

Alla paradisea bianca però non serviva che Koby dicesse nulla, aveva già sentito a sufficienza.

Un sogno. Una promessa... - ricapitolò la donna sorridendo appena, girandosi poi di poco verso Hermeppo, che continuava ad osservarla dall’alto - ... un obbiettivo comune.

“Uff. E va bene.” sbuffò alla fine alzando una mano per accarezzare in un gesto materno i capelli rosati del marine.

“V-veramente?” balbettò quest’ultimo, quasi non credendo alle proprie orecchie.

“Sì, state tranquilli, terrò per me il segreto.”

“Grazie!!”

Per entrambi i giovani marine fu assolutamente naturale chinare la testa in avanti, uno sul pavimento legnoso della stanza, uno sulle coperte del letto, puntellando le mani ai lati di esse in un inchino solenne e pieno di gratitudine. 

Clarina inarcò un sopracciglio.

“Ma voi umani dovete essere sempre così teatrali?”

 

Atto 19, scena 8, Aria di Battaglia Annunciata.

“Dov’è Ace?”

La voce di Marco non mi era mai parsa così fredda.

Anche se non potevo vederlo, avvertivo con chiarezza l’ostilità nelle sue parole.

E intuirne il perchè non mi fu nemmeno tanto difficile non appena i miei occhi caddero su una delle spade del pirata dalla fascia.

Spalancai gli occhi alla vista del liquido cremisi che lento scorreva sul filo della lama, gocciolando pigramente sul ponte della nave.

Tic.

Il suono di una di quelle perle rosse mi invase la testa, ammutolendo qualsiasi altra cosa.

Tic.

L’immagine di Ace che sorrideva a denti scoperti come un bambino mi apparve come un miraggio solo per sbiadire pian piano e venire sostituito dall’espressione dura del Boemo.

TIC.

La gola e gli occhi mi punsero dolorosamente.

TI-.

E le mie gambe scattarono prepotenti in direzione di Doma.

 

 

Atto 19, scena 9

 

“MO-!!!”

Marco non riuscì nemmeno ad allungare una mano verso la ragazza, che subito nei si occhi si riflesse l’immagine più incredibile che avesse mai visto: la paradisea, nel lampante tentativo di colpire con un calcio lo stomaco del Boemo, stava in quel momento gareggiando con un braccio dello stesso pirata che, abituato a vedersi attaccare direttamente ed a reagire di conseguenza, si era mosso in avanti intercettando il colpo.

Doma corrugò la fronte, invisibile sotto la sua fascia, sondando con muto interesse l figura femminile crepitante di fiamme bianche davanti ai suoi occhi.

Una ragazza con dei poteri di un frutto del Diavolo? - pensò, ma non riuscì a capire di che razza di frutto potesse trattarsi. D’altronde, si sapeva che i poteri dei frutti erano raramente di natura palese, ma questo potere proprio non riuscì catalogarlo: era saltata verso di lui con una velocità impressionante e, oltre ai suoi capelli ed alle sue braccia, anche i suoi occhi brillavano di luce bianca.

Magari un Paramisha? - ipotizzò, allontanando con uno scatto del braccio la gamba della ragazza e prepararsi a colpirla con una delle proprie lame d’algamatolite, certo che comunque, Paramisha, Rogia o Zoan, nulla l’avrebbe protetta da un fendente da quella distanza.

Cosa? 

Si ritrovò a tagliare in due il vuoto, Marco la Fenice lontano di pochi metri con addosso un’espressione sbalordita sicuramente quanto la sua.

E un forte dolore al fondoschiena lo portò a barcollare in avanti.

Voltandosi, irritato per l’essersi lasciato prendere così facilmente alla sprovvista, Doma ritrovò la ragazza in piedi con ancora la gamba tesa verso di lui e le labbra strette tra i denti con così tanta forza da annacquarle gli occhi di lacrime.

Ma non erano lacrime di dolore. Doma strabuzzò gli occhi, fermandosi un attimo a guardare meglio la ragazza, no, la donna che aveva innanzi.

Dietro quei lineamenti dolci e le lunghe ciglia non c’era una ragazzina nel fiore dell’età, ma qualcosa di molto più antico.

Qualcosa che lui conosceva bene.

Ed era sul punto si esplodere.

Un nuovo scatto della gamba e lui si riapprestò a difendersi, stavolta indietreggiando con un balzo.

Non che avesse paura di quella signorina dal corpo gracile, ma qualcosa dentro di lui gli imponeva di tenere una certa distanza, quasi come colto da una sorta di rispetto reverenziale. 

Fu allora che da dietro si sentì appuntare sul pavimento da qualcosa stretto al proprio collo.

Si era lasciato distrarre dalla ragazzina, accidenti! 

Grugnendo un po’ di dolore un po’ per la sorpresa, il pirata dalla bandana cercò di muovere una delle proprie spade, riconoscendo in quelle dita adunche e squamose le zampe animali della Fenice.

Un’altra zampa gli fermò la mano, serrandogli tanto forte il polso da fargli lasciare la presa sull’elsa.

Ma rimaneva comunque l’altra.

Allargò un sorriso, e mosse con decisione il braccio rimasto. Provò una grande soddisfazione nel sentire la propria lama penetrare nel fianco del primo capitano di Barbabianca.

Marco urlò, sorpreso dalla sensazione sgradevole di quella spada perforargli le carni. Ebbe l’istinto di ritrarsi, ma, anche se in un primo momento fu il timore a lambirgli il cervello, quello che venne dopo fu un immensa rabbia, provocata dalla consapevolezza del materiale di cui erano composte quelle armi.

Algamatolite?!- fu il primo pensiero - ACE!!! - fu il secondo.

E non ci vide più.

Serrando le mascelle, invece di allontanarsi, si protrasse in avanti circondando la lama che lo inchiodava sul posto con una mano.

Per un attimo si sentì spossato, ma, dandosi lo slancio necessario per non crollare sulle proprie ginocchia, lasciò che l’adrenalina guidasse le sue azioni ed estrasse quell’arma ignobile dal proprio corpo.

Un fiotto di sangue fuoriuscì dalla ferita, bagnandogli buona parte del fianco e le sue fiamme azzurre iniziarono a crepitare, seppur lentamente, sui lati slabbrati dello squarcio.

Con quanta più velocità riuscì, Marco strappò dalle mani del Boemo la spada e la scagliò lontano, facendola tintinnare contro il parapetto della nave.

Azzardò un’occhiata a Momo e, come immaginava, la trovò ammutolita e con le mani al viso. Non se la sentì di regalarle un sorriso rassicurante, perchè, a causa della propria collera, sarebbe risultato troppo tirato, così si dedicò completamente a Doma.

“Sapevo che eri un cocciuto Doma...” disse quasi in un rantolo per via del bruciore alla ferita “..., ma non pensavo saresti arrivato a tanto.”

Sentì l’altro ridacchiare sotto di sè.

“La Tigre arriva anche a rompersi gli artigli pur di uscire dalla propria gabbia.”

“Tu NON sei un prigioniero Doma.”

Non ancora... - avrebbe voluto aggiungere, poichè, oh Roger gli era testimone, stavolta il Boemo non sarebbe scappato via con la coda tra le gambe come faceva di solito.

“A ognuno le sue opinioni.”

“Dove. è. Ace?!” sbottò infine la Fenice, stanco di parlare. Solitamente era lui il più diplomatico dei comandanti, ma il cocktail di dolore e di preoccupazione per la sorte di Ace aveva ridotto la sua pazienza ad un livello preoccupante.

Un’altra risata da parte del mulatto.

“Era stupito quanto te, quando l’ho colpito.”

Ci fu un momento in cui sia lui che Momo trattennero il respiro.

Poi con uno scatto bianco, la paradisea si voltò dirigendosi con le ali ai piedi verso la sottocoperta.

Gli fece quasi male vedere una scena simile, ma ingoiò il groppone che gli era salito in gola: era naturale che fosse preoccupata per Ace, anche lui lo era e sperava davvero che lo trovasse.

“Chi è la ragazza?”

Doma aveva parlato ancora una volta.

Per un attimo Marco fu tentato di non rispondergli, ma la ferita cominciava a fargli meno male. Benedetto Frutto Zoan della Fenice.

“La nostra nuova sorella.” disse semplicemente, senza entrare nei particolari.

“Una ragazza?” fu la domanda quasi incredula del pirata.

Era risaputo quanto fosse raro tra le schiere del Bianco vedere una donna-pirata.

Ma non spettava a lui spiegare i dettagli al Boemo.

Con poco più della forza necessaria, Marco strinse meglio il collo ed il braccio dell’altro e tramutò al contempo i propri arti in ali guizzanti di fiamme.

“Ora noi due andiamo a fare una visitina ad Oyaji.”

E Doma tremò.

 

Atto 19, scena 10, Alborada “del Gracioso”

 

Ero da poco entrata in sottocoperta. 

Il cuore batteva all’impazzata e in testa avevo un unico pensiero: Ace.

Saltai un paio di scalinate con dei grandi balzi, continuando a correre, e con la gola che ancora mi pizzicava, pronta a farmi tintinnare la voce se avessi osato aprire bocca.

Vidi una porta sulla mia sinistra e la spalancai: una cabina, vuota.

Ne vidi un’altra e feci lo stesso.

Un’altra cabina.

Ma di Ace nessuna traccia.

Continuai finchè le gambe non tremarono troppo per sorreggermi un solo istante di più.

Nella mia mente si succedevano immagini terribili.

E tutte vedevano Ace che giaceva esanime in un angolo sperduto di quella nave.

Come avrei fatto ad affrontare Oyaji? Non mi sarei mai perdonata se ad Ace fosse accaduto qualcosa!

“Ace..” sussurrai con voce fortunatamente arrochita da un nodo alla gola, pronta a iniziare ad urlare a squarciagola il suo nome quando...

“DANNATA SCIMMIAAA!!!!”

Qualcosa di dannatamente veloce, anche per i miei canoni, mi passò accanto ad una velocità supersonica, facendomi quasi sbilanciare per via del risucchio d’aria che provocò.

“Eh?” dissi io un po’ intontita, ma, rimesse un po’ insieme le idee, mi resi conto che la voce che aveva accompagnato quella sorta di tornado apparteneva proprio a..

“Ace!” esclamai, lanciandomi al suo inseguimento con il cuore pieno di gioia.

Ero troppo contenta per accorgermi cosa effettivamente stesse facendo correre come un forsennato il mio amico.

Sulla sua testa, sbraitando versi acuti ai quattro venti c’era proprio una scimmia.

Una scimmia!!

Per un attimo mi venne in mente Monster, ma lui, come ben sapevo, era rimasto sulla Moby e di certo in testa non portava una strana cordicella.

E poi, ripensandoci, Monster era più tozzo, mentre quella che mi trovavo davanti aveva gli arti più sottili ed affusolati, quasi... femminili?

Intanto Ace, che stava ancora combattendo con il primate, aveva trovato il tempo per voltarsi verso di me, sorpreso di ritrovarmi a pochi metri da lui.

“Momo!” esclamò felice, anche se sorridere proprio non gli riuscì, impeganto com’era a proteggere i propri capelli dalla furia della sua avversaria.

“E piantala, stupida..!”

Vedendo come quella pestifera continuasse a dargli battaglia, feci un piccolo balzo in avanti e, accigliata, allungai una mano verso l’animale, strattonandogli malamente la coda.

Dopo un breve, ma acuto lamento da parte di quest’ultima, mi ritrovai a fronteggiarle lo sguardo che, però, non appena intraviste le mie fiamme, si addolcirono spaventate.

“Il mio amico ha detto di smetterla.” scandii attentamente e con quanta più durezza riuscii a dare alle mie stesse parole.

Mimare Viola serviva!

La scimmia si ammutolì di colpo e, come se avessi schiacciato un interruttore, la vidi scendere dalle spalle di Ace e mettersi a guardami con una strana espressione.

Era quasi...

Gli occhi dell’animale erano diventati tondi e brillavano.

Mi stava venerando??!!

Fui improvvisamente soffocata da un paio di braccia muscolose. “Stai bene!” urlò Ace contento.

Io stavo bene? Io?!

Lo colpii in testa.

“Uch! Perchè l’hai fatto?”

“Perchè mi hai fatto preoccupare, stupido!” risposi puntando le mani sui fianchi, dimentica della scimmia ai nostri piedi. Lui si zittì e io colsi l’occasione per guardare in che condizioni versava.

Una ferita al braccio, abbastanza profonda e fasciata alla bene e meglio, ma si vedeva lontano un miglio che le sue fiamme, che zampillavano ad intermittenza sugli angoli del taglio visibili, stavano facendo molta fatica a fare il loro lavoro.

Di che cavolo erano fatte quelle spade?

Marco aveva detto qualcosa tipo Algato-qualcosa, ma non avevo idea di cosa fosse.

“Momo... tu parli?”

Tornai a guardare Ace, per un attimo sorpresa da quella domanda, ma poi mi ricordai che lui, effettivamente, era stato l’ultimo a sentirmi aprire bocca di giorno.

Sbiancai, vedendo le sue labbra aprirsi in un sorriso malandrino.

Uh-oh.

“Ma è fantastico!” esclamò spalancando le braccia per afferrarmi, ma mi scansai appena in tempo.

Lui però non si scoraggiò, nemmeno dopo essere crollato per terra per via dello slancio finito a vuoto che l’aveva fatto sbilanciare, e continuò a sorridere imperterrito verso di me rialzandosi ed aggiustandosi il proprio cappello.“Ora potremo parlarci anche di giorno! E non dovremo più temere che un Re dei Mari cerchi di affondarci..!”

“Guarda che faccio molta fatica a parlare così!!” protestai sporgendomi con un dito puntato verso di lui, e lanciai un’occhiata alla sua ferita, dai cui penzolava uno straccetto strappato dai suoi stessi pantaloni, nemmeno annodato tanto bene.

Si vedeva che non era abituato a curarsi.

Sbuffai e mi girai in direzione delle scale che portavano verso la coperta.

“Vieni. Marco è già tornato sulla nave. Dobbiamo andare in infermeria per la tua ferita. ” dissi cominciando a camminare.

“Non preoccuparti. Sto beniss-.”

“Ci andremo comunque.”

Ok, forse avevo esagerato. Ace non mi parlò per un paio di minuti, finchè non risalimmo sul ponte, ma non potevo farci niente: la paura di ritrovarmelo morto da qualche mi aveva resa irritabile.

Specie dopo averlo ritrovato con niente più di un taglio al braccio. Anche se abbastanza preoccupante, visto il ritmo con cui il sangue gocciolava.

E se...

Neeeh Momo-chan.”

Alzai gli occhi al cielo: rieccolo alla ribalta.

“Hai detto che eri preoccupataaaa?” chiese il moro con tono insinuante e le mie fiamme crepitarono furiose.

Mi girai verso di lui, le labbra strette e la gola che pungeva.

Che razza di domande erano??!!

Certo che ero preoccupata!Scemo! Mi hai fatto prendere un colpo!

Ci rimasi male almeno quanto lui.

Avevo appena gorgheggiato.

E questo significava che...

Un ruggito da sotto la superficie dell’acqua fece tremare l’intera struttura di legno dell’imbarcazione.

“Di nuovo??” disse Ace, trascinandomi per una mano  verso il parapetto della nave.

Era chiaro che dovevamo levare alle tende da quel veliero e al più presto anche.

Squeeeeeaaak!

Per un attimo ebbi paura che il Re dei Mari fosse appena uscito dall’acqua, ma poi mi resi conto di avere un nuovo peso attaccato attorno alla vita, dietro la schiena.

Guardando all’indietro riconobbi la scimmia di prima che, aggrappandosi a me tremante come se ne dipendesse delle sua vita (e in effetti lo era), ricambiò il mio sguardo con uno implorante e pieno di paura.

Per questo non me la sentii di scrollarmela di dosso, nè di dire ad Ace che, effettivamente, non ero io ad essere ingrassata, mentre navigavamo verso la Moby a bordo del suo Striker, ma che avevamo un clandestino a bordo.

E frattanto che lui si lamentava per cose inutili, io, a fiamme ritratte, guardavo la nave di Doma affondare sotto i colpi impietosi di un serpente giallognolo affamato.

Girai lo sguardo per non vedere il ponte venire spaccato in due e risucchiato lentamente dal mare, metro dopo metro.

Quella scena mi ricordava troppo il giorno in cui avevo fatto affondare la nave degli schiavisti che mi avevano catturata, portando alla morte non solo loro, ma anche tantissime anime innocenti prigioniere come me.

Sperai solo che i mercenari che avevano abbandonato la nave prima dell’arrivo del mostro fossero riusciti a mettersi in salvo. 

 

Fine seconda parte Atto Diciannovesimo

 

 

.... Ho paura che dovrò comunque scrivere qualcosa, quindi cominciamo.

(prende un respiro profondo)

Mi dispiace. Questo capitolo ci ha messo più tempo della Creazione stessa, è più lungo degli altri (20 pagine di puro delirio invece di 13), ma comunque non ho parole per descrivere il mio dispiacere.

Lato positivo: sono a un passo dalla laurea da cui mi ero allontanata per via degli esami arretrati. Ho recuperato alla stragrande e appena sono riuscita ho finito il capitolo, lentamente ma comunque finito.

Spero sia stato di vostro gradimento ç.ç

Com’è? Ho seguito alcuni suggerimento lasciatomi in precedenza e limitato l’utilizzo del gerundio dove potevo.

Mi spiace anche non aver potuto decretare il passaggio da Arancione a Rosso per la storia (kymyit scusaaaa!) ma credo sia  troppo presto per un passaggio tanto drastico (e poi il povero Arch non se lo merita dai...)(Oh, grazie NdArchetto) (non ancora almeno...)(Cos-!?NdArchetto)

Come sempre tesori miei lascio per voi la possibilità di:

1)Suggerimenti Liberi

al prossimo capitolo !!!(non troppo tardi stavolta.)

Kisskiss

TS

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Capitolo 27
*** Atto 20 -prima parte- ***


Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata 

Atto 20 -prima parte-

Atto 20, scena 1

“Si può sapere perchè te la sei portata dietro?!”

L’urlo disperato di Ace aveva percorso tutta la Moby, strappando qualche  sorriso e risata da parte dell’equipaggio, contento di sentire il comandante della seconda flotta pieno di energie, nonostante fosse stato ferito al braccio, anche se prontamente curato dalle infermiere.

Era passata all’incirca un’ora da quando i due capitani e la Paradisea erano tornati sani e salvi dalla nave di Doma, colata a picco sotto la furia implacabile dell’ennesimo serpentone acquatico richiamato dalla piccola Momo.  

Cominciavano a pensare che la loro sorellina potesse rivelarsi più pericolosa di tutti loro messi insieme. Non fisicamente, ovviamente, ma non era da tutti la capacità di scatenare un vero e proprio inferno lanciando in aria qualche versetto cantato!

La ragazza in quel momento se ne stava tranquillamente seduta a gambe incrociate sul parapetto della nave, osservando con malcelato divertimento Ace lamentarsi con lei quasi con le lacrime agli occhi, assistendo a come il suo cappello arancione fosse oramai diventato proprietà di Monster.

Il primate, infatti, stava in quel momento gonfiando il petto su uno dei pennoni del veliero, cercando disperatamente di attirare  l’attenzione di nientemeno che Josephine, la scimmia di Doma. 

Ora, che l’animale stesse cercando di fare colpo sulla sua bella, almeno per i suoi gusti, simile Pugno di Fuoco avrebbe anche potuto capirlo, specie se tale azione portava benefici a tutta la ciurma, finalmente libera dai suoi dispetti e schiamazzi.

Ma, dico, che bisogno c’era di rubargli il cappello e metterselo in testa?!

“Restituiscimelo palla di pelo!!! O giuro che Shanks rimpiangerà un membro della ciurma in meno!!”

Momo soffocò a malapena una risata con una mano. Trovava alquanto divertente la situazione, anche se non avrebbe dovuto, visto che il compagno non aveva fatto altro che subire le angherie dei due animali parecchie volte. In più era anche ferito e quindi non sarebbe stato giusto lasciarlo soffrire emotivamente, oltre che fisicamente.

La Paradisea guardò con una vena di dispiacere la bendatura che Betty aveva applicato al braccio del moro. Non che le dispiacesse il fatto che fosse stato curato. No, questo mai!

Tuttavia, c’era rimasta un po’ male quando la Capo reparto l’aveva bloccata dall’intervenire direttamente sulla ferita di Ace con le proprie fiamme, fulminandola con lo sguardo da dietro i proprio occhiali scuri e facendole segno con un dito sulle labbra di non dire niente.

Che non volesse che la ciurma venisse a conoscenza di quest’altra sua capacità lo capiva: non erano ancora certe di cosa le sue fiamme potessero effettivamente fare ed Ace, come buona parte degli elementi più forti della ciurma, non era nemmeno un umano normale, quindi, nella peggiore delle ipotesi, il risultato sarebbe potuto essere tutto l’opposto di quello sperato.

Allegra sospirò e gettò la testa all’indietro, ammirando cielo e mare scambiarsi di posto.

Un’altro segreto che si sarebbe dovuta tenere dentro.

Zehahaha...

Un brivido le percorse la schiena e le gambe le scattarono istintivamente, portandola in piedi. Si era ripromessa di non dire nulla ad Oyaji sull’attacco che aveva subito da parte del proprietario di quell’orrenda risata, ma dopo i suoi ricordi, il Demone rosso e nero, le insinuazioni da parte di quell’uomo in biblioteca, sentiva che sarebbe anche potuta esplodere da un momento all’altro se non avesse detto qualcosa. C’erano troppe domande che voleva fare.

Troppo di tutto.

Una mano le si posò sulla spalla.

“Tutto bene scricciolo?” chiese con voce allegra Satch, comparendo al suo fianco con il suo immancabile sorrisone stampato in faccia. 

La ragazza rispose al sorriso di rimando, ma non se la sentì di mentire un’altra volta.

“In realtà no Satch.” disse con voce più gutturale che poteva.

I pochi abbastanza vicini per poter ascoltare quanto aveva appena detto si girarono verso di lei. Tra questi c’erano anche Vista, Jaws e Marco, quest’ultimo seduto ai piedi di un paio di botti con una mano al fianco fasciato. 

La Fenice alzò lo sguardo ceruleo sulla ragazza, scorrendo sulla sua espressione nel tentativo di trovarvi traccia di turbamento.

E ne trovò anche troppo.

Satch strinse i denti, abbassando gradualmente gli angoli della bocca con alle tempie un sottile strato di sudore, prontamente asciugato da una mano che si alzò, simulando un piccolo intervento al proprio ciuffo.

“Ascolta scricciolo...” cominciò il comandante dal ciuffo “... so bene che è difficile accettare ricordi di quel genere, ma non devi sforzarti di parlarne se non ti senti pronta. Davvero, noi-...”

Le parole del pirata vennero frenate da una mano della ragazza davanti alla sua bocca. La Paradisea scosse la testa in segno di diniego, sorridendo al contempo rassicurante.

“Non è solo quello Satch.” disse per poi dirigersi verso il pennone dove di trovava Monster, ancora intento a cercare, senza molto successo, di attirare l’attenzione di Josephine, troppo preoccupata per il padrone, ancora occupato a parlare con Oyaji nella sua cabina. 

Ace guardò la ragazza passargli davanti senza degnarlo di uno sguardo e, non appena fu esattamente sotto l’albero dove si era arrampicato il primate, la vide illuminarsi di giallo e flettere le gambe, compiendo infine uno dei suoi, ormai frequenti, straordinari balzi.

La ciurma trattenne il fiato vedendo la piccola figura della sorella perforare l’aria, rallentare ed infine fermarsi con precisione proprio all’altezza di Monster. La scimmia era rimasta sconvolta e, mentre i suoi occhietti guardavano la paradisea scomparire così come era arrivata, neanche si accorse di essere stata privata al volo del suo nuovo copricapo, rimanendo a fissare il vuoto con i bulbi oculari ormai tondi quasi quanto delle palline da calcio-balilla.

Riatterrando sul ponte, la ragazza non fece una parola e si limitò a restituire velocemente il cappello ad Ace, tornando davanti a Satch, nuovamente priva di fiamme.

“Scricciolo, che-?”

“Non voglio andare da Oyaji.”

Se prima i pirati di Barbabianca erano rimasti fermi a guardarla per curiosità, adesso la guardavano preoccupati. La loro sorellina sembrava rassegnata, quasi una bambina che, a testa bassa, sente di dover confessare qualcosa ai propri fratelli maggiori.

“Non voglio andare... a parlare solo con lui.” continuò l’altra volgendo lo sguardo verso il basso, le spalle lievemente curve, mentre davanti a lei Satch la guardava sempre più preoccupato. Marco si rialzò dalla propria posizione, la ferita gli bruciò quando provò a fare perno su una gamba, ma scacciò con un piccolo sibilo tra i denti il dolore, senza mai smettere di guardarla. Anche Ace, rimasto stranito da quella situazione si era rimesso in testa il cappello e si era avvicinato all’amica, allungando una mano verso di lei per richiamare la sua attenzione.

“Momo...” disse, sperando che questa si voltasse verso di lui in modo tale da poterne vedere l’espressione.

Allegra.”

Inizialmente nessuno capì cosa la paradisea volesse dire con quella parola, ma poi, pian piano, ognuno di loro ne realizzò il significato.

Primo fra tutti Satch che, allargando la bocca in un sorriso, si gettò sulla ragazza con una risata e la sollevò da terra con un abbraccio, facendole fare una mezza piroetta a mezz’aria. Allegra lanciò un urletto di sorpresa, non aspettandosi una tale reazione da parte dell’amico.

“Satch! Mettimi giù! Dai!” protestò, ma l’altro continuò,  senza neanche preoccuparsi del fatto di star dando spettacolo.

“Scricciolo! Ti sei ricordata il tuo nome!” rise ancora, mettendola infine a terra. La paradisea barcollò, mettendosi una mano sulla tempia per riprendersi. La testa le vorticava ferocemente e fu un miracolo riuscire a far smettere di girare il mondo.

“E’...” si bloccò, ancora un po’ frastornata“... da un po’ che me lo sono ricordata.”

Un po’? - pensò Marco, ma, a differenza di lui, gli altri parvero non aver fatto caso alle ultime parole della ragazza e a dimostrarglielo fu infatti Ace, secondo a farsi avanti a braccia spalancate, imitando, con suo enorme dispiacere, Satch.

“Ace!!” si lamentò la ragazza, non appena sentì un’altro paio di braccia tirarla su. Era chiaro che si trattasse di lui. Chi altri l’avrebbe sollevata così di sorpresa, da dietro e ridendo sguaiato? 

“Dai Ace, stavo cercando di fare un discorso serio!”  Ma quello, invece che ascoltarla, continuò a tenerla sollevata in aria, sorridendo birichino come non mai.

“E così ti chiami Allegra, eh?” ridacchiò accanto a loro Satch, mentre guardava Ace godersi come non mai lo scricciolo. 

Era una scena impagabile. Non erano rari i momenti in cui il comandante in seconda si lanciava in simili dimostrazioni di affetto nei confronti della piccola, ma vederli così, la Paradisea rossa di vergogna ed il moro con tutti i denti spiegati mentre l’agitava in aria come una bambola di pezza, metteva nel cuore una dolce sensazione, una contentezza placida.

A Satch, come a tutti gli altri suoi fratelli, era chiaro che Ace non si fosse ancora arreso. Lo vedeva ogni giorno tentare di attirare con ogni mezzo l’attenzione della ragazza, in barba ai consigli di Betty che gli aveva imposto più volte di essere più delicato e fare meno il cafone, ma nulla.

D’altra parte Ace rimaneva sempre Ace: educato nelle circostanze più estreme, ma con le ragazze proprio non ci sapeva fare.

Era peggio di un elefante in una cristalleria, per intenderci.

Qualunque mossa intraprendesse faceva danni, come nel caso del bacio rubato allo scricciolo. Se ci ripensava non aveva che tre parole per descrivere quell’avvenimento: un vero disastro. La piccola era venuto da lui a lamentarsi con le lacrime di rabbia agli occhi. Di parlare con le infermiere la giovane paradisea non ne aveva voluto sapere, troppo pettegole ed interessate alle sue vicende sentimentali per i suoi gusti, e lui era ovviamente parso come la scelta più ovvia, essendo il più riservato e vicino a lei tra la ciurma. Il tutto si era terminato in una frase:

“Come faccio a dirgli che non mi piace, Satch?” gli aveva chiesto a testa china la piccola in tono lamentoso e lui, imbarazzato, si era voltato da un’altra parte grattandosi nervosamente la testa. Neanche lui, tanto abituato ad essere respinto, sapeva la risposta.

In conclusione, nonostante Pugno di Fuoco si facesse in quattro, il suo rapporto con Allegra rimaneva sempre e comunque quello di amicizia. Nulla di più, nulla di meno. E da questo, Satch, Vista e Jaws ne erano certi, Marco ne era più che tranquillizzato. 

Ma non abbastanza per farlo rimanere troppo in disparte.

“Insomma Ace, mettila giù, ti stai comportando come una scimmia in calore!” esclamò la Fenice con la solita espressione accigliata e mezza annoiata, incrociando le braccia al petto mentre si avvicinava con finta noncuranza alla coppia.

Dall’alto del suo pennone Monster si sentì in dovere di ritenersi offeso. Paragonarlo ad un bacucco spelacchiato come quello... tsé!

Tutta la ciurma si mise a ridere, fatta eccezione per il diretto interessato ovviamente che buttato giù dal paragone, posò la paradisea, diventando di botto rosso d’imbrazzo.

“Sempre il solito guastafeste, eh Marco?” ribatté quello sporgendo le labbra in un broncio al quale le poche infermiere presenti, per la precisione  Ribibi e Biribi in pausa turno, quasi scoppiarono in una ridarella isterica.

Il capitano dalla testa ad ananas sbuffò, snobbando quella lamentela con un : “Non fare il bambino.”

“Posso chiedere una cosa?” intervenne di punto in bianco la voce di Momo, oramai divenuta Allegra, riattirando nuovamente su di sè l’attenzione di tutti. Il gruppo di pirati si fermò a guardare negli occhi la sorellina, trovandoglieli fissi ed altrettanto attenti su tutti loro.  Di nuovo furono assaliti da una strana e brutta sensazione, quasi stesse per crearsi una situazione difficile e decisiva. Marco, Ace, Jaws, Vista e Satch si scambiarono a turno un paio di sguardi interrogativi. La Fenice rimase come sempre, o almeno all’apparenza, impassibile, guardando i suoi compagni esporre la propria silenziosa opinione: Ace alzò lievemente entrambe le sopracciglia, facendogli capire che non sapeva su cosa la ragazza volesse esprimersi, Jaws fece altrettanto accentuando il tutto accentuando un po’ il proprio broncio ed irrigidendosi appena visibilmente, Vista fece emergere dalle sue braccia incrociate una delle mani, mostrando il palmo verso l’alto e alzando al contempo le spallucce, Satch infine, meno interessato a passare inosservato agli occhi dello scricciolo, alzò entrambe le braccia e mani all’altezza delle spalle e fece anche lui le spallucce.

Nessuno di loro sapeva cosa Allegra intendesse chiedere.

“Voi lo sapevate?”

Altra confusione. Con quella domanda la paradisea non gli aveva certamente illuminati, ma forse era proprio per vedere una loro reazione che restò sul vago, poichè, non appena la fece, sondò velocemente le loro espressioni con occhi attenti, per poi continuare.

“Sapevate che non sono umana?”

Tutta la ciurma, nessuno escluso, rimase con il fiato sospeso per una frazione di secondo, poi tutti insieme, inghiottirono un groppone di saliva. Qualcuno si coprì il viso, oppure lo girò semplicemente da un’altra parte, sudando appena più del dovuto sulle tempie, ma ormai il danno era fatto e quel breve silenzio valse più di mille parole. 

La pelle le sfrigolò così come la gola e l’istinto di scappare via con un salto si fece sentire prepotente come non mai.

Lo sapevano. L’avevano sempre saputo.

Scattò senza neanche dare loro il tempo di dire altro.

Un sussulto generale si fece strada tra i pirati, confusi da quella sparizione improvvisa.

“Ma dove diavolo-?!” esclamò Ace guardandosi attorno così come Satch e gli altri.

“Scricciolo!” protestò il comandante della quarta flotta, spiattellandosi al contempo una mano in faccia non appena intuì dove effettivamente l’amica fosse andata a rifugiarsi.

Marco alzò lentamente la testa verso l’alto, individuando senza neanche troppa fatica la figura luminosa che si era appollaiata sulla vedetta della nave.

Il posto più in alto della nave. Brutto segno. - pensò riabbassando con uno sbuffo gli occhio.

Portò la mano del fianco sano al viso, massaggiandosi gli occhi con fare stanco. Da quel poco che aveva potuto intuire di Momo, o meglio Allegra, in quei mesi  intensi era che, quando qualcosa la spaventava, infastidiva, o peggio, la faceva arrabbiare, tendeva sempre a rifugiarsi in posti alti.

E l’altezza era direttamente proporzionale all’emozione provata.

L’aveva già capito da quella volta che, arrabbiata sia con lui che con Ace per la questione di Satch, si era letteralmente fiondata sul pennone della nave.

Ricordava il loro breve, ma significativo, scambio di battute come se fosse stato ieri.

“Sei facile da trovare. Ti piacciono i luoghi alti.” aveva detto lui con falsa noncuranza e lei, di tutta risposta, aveva azzardato un’occhiata giù di sotto, diventando leggermente pallida e distogliendo velocemente lo sguardo nel tentativo di dissimulare, senza successo, la propria paura.“Molto... è cadere che non mi piace”

I luoghi alti le infondono sicurezza... - era stata questa la conclusione a cui la Fenice era velocemente arrivato, prendendone mentalmente nota. Poteva anche essere una conseguenza della sua infanzia, poichè dai pochi racconti che la Paradisea aveva condiviso con loro riguardo la sua vita sulla sua isola natale, gli alberi erano sempre stati un elemento fondamentale.

“Una volta siamo stati rincorsi da un grande vermone appiattito con la bocca piena di denti, siamo riusciti a malapena a rifugiarci su un albero e per poco Arch non ci rimetteva la pelle!”

Una simbolo di sicurezza, insomma, sviluppato in un posto dove tutte le minacce si raggiravano salendo il più in alto possibile e dove scendere equivaleva ad esporsi al pericolo.

Era normale che reagisse in quel mondo.

Nel caso presente però erano loro, la ciurma, la minaccia da cui Allegra voleva scappare.

 

Atto 20, scena 2

Allegra inalò con respiro tremante un po’ dell’aria salina e fresca del mare e la rigettò fuori, guardando nel frattempo l’orizzonte farsi sempre più viola. Era lassù da ore ormai e nessuno, nemmeno Marco, era venuto a cercarla.

Dal poco che era riuscita ad udire dalla sua posizione, la ciurma era rimasta a cercare di convincerla a scendere per un po’, per poi far scemare sempre più incoraggiamenti e suppliche. Accoccolò ancora di più la testa tra le braccia, poggiate sulle ginocchia.

Devono essersi stancati di aspettare la fine dei miei capricci... -rimuginò sentendosi montare addosso un peso indicibile, immediatamente scacciato da un moto di rabbia che le fece schiarire di più le fiamme gialle verso un colore più pallido.

Capricci? Quali capricci? Io avevo diritto di sapere cos’ero! Ho passato mesi a torturarmi perchè non capivo nulla di me stessa e adesso scopro che loro sapevano tutto fin dall’inizio! Io sono stata sincera con loro-...!

I suoi pensieri infuriati si bloccarono, rendendosi conto del suo errore.

Le sue fiamme si calmarono appena, diventando a malapena un sottile strato luminoso sulle braccia, talmente piatto da sembrare un velo.

No, lei non era stata sincera con loro. Aveva tenuto per sè delle cose: il suo nome, la strana capacità delle sue fiamme di curare piccoli tagli e ... peggio dei primi due, c’era l’assalto di quel mostro dalla risata grottesca tra i corridoi della Moby.

Rabbrividì per un attimo ed affondò ancora di più la testa tra le braccia. No, lei non era stata affatto sincera.    

“Complimenti Allegra.” sussurrò a se stessa “Complimenti davvero.”

Un lieve giramento di testa la colse un attimo e l’immagine di due ragazze sorridenti, due sorelle, una ciarlona ed esuberante, l’altra taciturna e timida, le riaffiorò dalla mente. Sbuffò, trovando stranamente e penosamente facile dare un nome a quei visi famigliari e che, con tutta probabilità, non avrebbe mai più rivisto. 

“Se Gaida e Dita mi vedessero ora ...” sussurrò, avvertendo gli occhi inumidirsi “... si rifiuterebbero di rivolgermi la parola per un anno intero.”

Non sapeva dire cosa la rendesse tanto certa di una cosa simile, ma, da quel che stava pian piano ricordando, Gaida detestava le bugie, con omissioni e falsità annesse, piccole o grandi che fossero, e Dita rispettava e seguiva sempre le decisioni della sorella maggiore.

“E chi sarebbero Gaida e Dita?”

Alla voce saltata fuori da chissà dove le venne quasi da sorridere sollevata, ma, vuoi per il ricordo delle due cugine appena rinnovato, vuoi per i rimasugli dell’arrabbiatura di prima, la voce non le uscì tanto amichevole, anzi, parve quasi scocciata.

“Satch.”

Il capitano dal foulard sospirò con un sorriso tirato, sedendosi stancamente sulla vedetta in direzione opposta rispetto a quella della ragazza, tecnicamente schiena contro schiena, se non fosse stato per l’ultima porzione di albero che li separava. Due facce di un unica moneta.

Il biondo alzò gli occhi al cielo, individuando già alcune piccole stelle accendersi sulla volta celeste.

“Sei ancora arrabbiata, eh?” disse con fare comprensivo, accomodando le braccia dietro la testa in una posizione incrociata “Ti capisco, avremmo dovuto dirtelo prima...” 

Il lieve oscillare legnoso della nave intercalò quella piccola pausa, senza che la Paradisea tentasse di approfittarne e prendere le redini della conversazione.

Il pirata riabbassò lo sguardo ed intrecciò le dita davanti a sè, poggiando gli avambracci sulle ginocchia pigramente divaricate, il cielo ormai aveva perso ogni suo interesse.

“Non volevamo ferirti.” continuò tristemente, sperando di non incorrere con quella frase in uno scatto d’ira dell’altra. “Temevamo solo di ... forzare troppo la mano.”

“Forzare?”

Allegra si morse la lingua, maledicendosi per essersi lasciata sfuggire quella piccola e quasi insignificante parola e riaffondò con più decisione la testa tra le braccia. Lontano dalla sua vista, Satch sorrise, intuendo di essere vicino ad una tregua con la piccola. 

“Eravamo preoccupati che, rivelandoti quello che ci aveva detto il Rosso, avresti reagito nel senso opposto... trattare con un caso di amnesia come il tuo non è facile, sai?”

Di nuovo una lunga pausa. Troppo lunga. Così tanto che per un istante l’ottimismo di Satch cadde nel profondo timore di aver schiacciato i tasti sbagliati e di aver compromesso definitivamente la possibilità di riconciliarsi con lo scricciolo.

“Il Rosso...” fu poi il sussurro pressoché inaudibile della Paradisea, al quale per poco il cuore del pirata non fece un balzo tale da uscire fuori dal petto “Vuoi dire... l’uomo dai capelli rossi che ha parlato con Oyaji la prima volta che mi sono ricoperta di fiamme?”

Finalmente, dopo tanto, un eternità a parere del biondo, gli occhietti illuminati di luce gialla della ragazza apparvero da dietro quella porzione di pennone che li divideva. Allegra si sporse appena, guardando l’amico stupita e curiosa, mantenendosi in equilibrio nella sua posizione leggermente inclinata grazie a una mano poggiata sul cilindro legnoso davanti a lei.

“E’ stato lui a dirvi che cos’ero?”

Satch annuì.

“Già. Ti ha descritto come una Paradisea, una sirena di scoglio e...” il pirata si fermò un attimo, incerto se continuare o meno, ma l’espressione rapita dalle sue parole dell’altra lo incitarono ad andare avanti. “... ha detto, che... molte leggende vi ritraggono come creature che affondano le navi.”

Affondare??!!”

La voce della ragazza era immediatamente sbottata con tono indignato, facendolo piombare nel panico più totale quando riconobbe di quanto la pronuncia dell’amica si fosse innalzata, sfondando la soglia che divideva il parlato dal cantato. Fortunatamente le sue preoccupazioni furono messe a tacere quando, guardandosi attorno, si accorse che nel frattempo il sole era calato completamente, scongiurando il pericolo di un attacco da parte di un mostro marino.   

Ammetto di aver provocato il naufragio di alcune navi di recente...” continuò in tono quasi furioso Allegra con gli occhi che scintillavano quasi bianchi di rabbia, “...,ma ti posso assicurare che farlo non è la mia occupazione principale!

Si bloccò un attimo, probabilmente accortasi di aver alzato troppo la voce dall’espressione un po’ intimorita che aveva assunto Satch. Aggiustò la propria gola con un piccolo grugnito e tornò a parlare, stavolta più calma e anche un po’ imbarazzata.

“E non lo era nemmeno per la mia specie.” concluse volgendo lo sguardo dall’altra parte e tornando a sedersi specularmente rispetto all’amico dal  foulard.

A quelle parole il capitano della quarta flotta si rattristò. “Non lo era nemmeno per la mia specie” era una frase con un significato sottinteso troppo tragico da passare inosservato.

“Scricciolo...”

“Vai a dormire Satch, è tardi, ormai tutti quanti saranno a far cena.”

Il pirata alzò le sopracciglia, stupito da quel che aveva appena sentito, lasciando penzolare un po’ la mascella.

“Scricciolo... tu non hai guardato giù di sotto neanche una volta?” domandò incredulo. Ricevette dall’altra un’altra occhiata incuriosita.

Era incerta se rispondere. Anche se le era normale ricercare sempre luoghi alti dove rifugiarsi, guardare la distanza che la divideva dal suolo non era tra le sue passioni principali.

“Bhe...” balbettò arrossendo un poco sulle gote “...n-no.”

Il sorriso largo e sincero del biondo riapparve dal nulla, lasciandola perplessa. Allegra lo vide rialzarsi e con gesto cortese porgerle la mano, invitandola a rialzarsi.

Nonostante le sembrasse un po’ strano, accettò, tornando in piedi sulla vedetta con l’aiuto dell’altro. Questo, lasciandole la mano, le fece cenno con la testa di guardare di sotto, facendole l’occhiolino.

Una volta che ebbe seguito il seguito il suggerimento del pirata, Allegra trattenne il respiro e si mise una mano sul viso. Sentì gli occhi farsi di nuovo umidi.

Da non credere...

Sotto di lei non c’era un centimetro di ponte che non fosse occupato.

“Ehi! E’ Momo!” “Ehi! Sorellina! Era ora che ti facessi rivedere!!”

Ognuna delle teste di diversa forma e dimensione dei pirati del Bianco, si alzarono verso di lei, accogliendola con espressioni felici e sollevate. Un brusio contento invase la Moby e ben presto non ci fu uno sola persona sulla grande nave pirata che non fosse col naso per aria.

Anzi. Tranne uno.

Ace era rimasto a testa bassa, praticamente a penzoloni stando seduto accanto alle sartie della nave. Allegra credette quasi, col cuore pesante, che l’amico fosse rimasto talmente contrariato dalla sua reazione da non volerle nemmeno rivolgere lo sguardo.

Poi accanto a lui Marco, notato lo stato in cui versava l’amico accennò un sorriso e, sempre con la mano premuta sulla fasciatura al fianco, gli diede un leggero scappellotto sul retro della testa.

Ora, se Pugno di Fuoco fosse stato in situazioni normali si sarebbe incavolato a morte, ma, siccome non lo era, cadde in avanti, finendo faccia a terra e il sedere per aria.

La scena fu accompagnata da un forte ronfo, anche se non perfettamente udibile a causa della confusione che le esclamazioni della ciurma provocavano, segno che il capitano della seconda flotta, nell’attesa di rivedere ricomparire l’amica dalla Paradisea, era ricaduto in uno dei suoi soliti attacchi narcolettici.

A quella scena Satch esplose in una fragorosa risata con la testa all’indietro, sporgendosi poi in avanti con una mano accanto al viso.

“Ehi Marco! Sveglia Ace! Altrimenti se la prenderà con me per averci messo tanto a salire quassù ed avergli fatto perdere la visione dello scricciolo!”

“Satch-san!” protestò la ragazza ridendo, dando un piccolo colpetto sul braccio dell’altro. L’amico rispose con una risata e strofinandosi in modo giocoso la parte “colpita” facendo finta di lamentarsi per il dolore.    

D’altra parte la paradisea non ci fece molto caso e, contagiata dall’allegria dal biondo che le stava accanto, anche la sua voce rischiarì l’aria con una risata argentina. Non si erano mai mossi dal ponte. Neanche uno. Persino Ace e Marco erano rimasti nonostante la sua scenata.

“AAAAAAAAAAAUUUUUU!!!”

L’urlo straziato di Ace che veniva brutalmente svegliato da Marco la fece letteralmente saltare in alto per lo spavento. Senza neanche sapere come, si ritrovò aggrappata alla cima del palo di vedetta come un gatto spaventato col pelo ritto dalla paura.

Oh noooo... - si lamentò mentalmente Allegra con le guance in fiamme per l’imbarazzo.

“Ehi scricciolo!” disse Satch poco sotto di lei  con un sorrisone a trentatré denti “Penso che cambierò il tuo soprannome! Che ne dici di Micetta?”

“Dico che prenderò in seria considerazione la possibilità di metterti in testa Monster e Josephine, Satch!”

A quella minaccia aperta il pirata diventò bianco come un lenzuolo e si lisciò all’indietro il ciuffo. No, decisamente sarebbe rimasto al soprannome “Scricciolo” per l’amica.

Oi! Allora vi decidete a scendere?!”

La voce di Marco li richiamò entrambi col solito tono autoritario e venne naturale al capitano della quarta flotta rispondere con un:

“Arriviamo!” bello forte e chiaro, ma neanche il tempo di compiere un passo verso le sartie della vedetta che una manina affusolata lo trattenne per un polso impedendogli di calarsi giù di sotto. Si voltò stranito verso Allegra che, scesa nel frattempo, stava davanti a lui con la stessa espressione combattuta che aveva avuto prima di arrabbiarsi.

Allegra udì ancora una volta la risata arcigna del suo assalitore rimbombarle in testa.

“Satch...” disse l’amica con gola tremolante “... prima di scendere... devo dirti una cosa.”

 

Atto 20, scena 3

Sul ponte intanto la ciurma continuava a guardare all’insù, attendendo inutilmente che i due compagni si sbrigassero a calarsi e raggiungerli. Ace, nonostante si fosse arrabbiato come una biscia a cui hanno pestato la coda, si era ripreso e guardava, sotto le occhiate divertite di Vista, verso l’alto come tutti cercando di non pensare alla figuraccia subita dalla Fenice.

C’era proprio bisogno di lasciare a Betty l’onore di infilzargli nel didietro uno dei suoi micidiali tacchi a spillo 15 cm??

“Scusi, Comandante Ace.” Lo aveva snobbato la Capo Infermiera, ancheggiando spudoratamente via come se nulla fosse successo. Anche se quella donna si fosse anche solo minimamente lasciata sfuggire un sorriso di vittoria gli sarebbe stato impossibile scorgerlo da dietro quelle enormi lenti scure con cui si copriva sempre gli occhi.

Che poi, che senso aveva portarli di notte?

“Ma di che stanno discutendo?” disse con ancora la bocca impastata e strofinandosi gli occhi come un bambino assonnato, scatenando i gridolini estasiati di Ribibi e Biribi, da sempre sue grandi fan, anche se il loro interesse non aveva nulla a che vedere col piano fisico o sentimentale. Semplicemente, come gli aveva spiegato con un sorriso enigmatico Biribi, le due sorelle lo trovavano adorabile e kawaii.

Kawaii lui??

Meglio non pensarci.

“E’ da un po’ che sono lassù.” rimarcò l’ovvio Jaws, più corrucciato del solito, a parere di Marco che nel frattempo assisteva la scena in silenzio.

“Che avranno mai da discutere..” bofonchiò a guance gonfie il ragazzo dalle lentiggini per nulla contento.

“Sai com’è Madamigella Mom..ehm ... Allegra.” intervenne Vista inciampando sul nome, pur mantenendo i suoi soliti modi di fare eleganti e sicuri. Era più che comprensibile un simile errore, anche da parte del pirata gentiluomo. D’altronde dover smettere di riferirsi alla loro novella sorellina con l’appellativo scelto da loro così di punto in bianco non sarebbe stato affatto facile per chiunque. “Sicuramente si starà confidando con Satch... a lui dice sempre tutto.”

“Già...tutto.” ripeté con fare inconsolabile Pugno di fuoco, il mento poggiato su una mano. Ancora non gli andava giù che la ragazza si confidasse così tanto con il comandante della quarta flotta.

Una leggera pacca sulla spalla che voleva essere consolatoria gli venne da una mano lievemente abbronzata.

“Dai..” fece Marco, raddrizzandosi sul fianco buono prima che potè, scansando un’ennesima e dolorosa fitta alla ferita “... non cadere in catalessi, altrimenti ti arriva un altro attacco narcolettico.” terminò scherzando e scostò appena in tempo la testa di lato per evitare un globo di pura fiamma diretto verso di lui.

Non se la prese. In fondo sia lui che Ace sapevano bene che gli attacchi dell’uno non avevano grandi conseguenze sull’altro, a meno che non fossero imbevute di Haki.

Quindi lasciò che il fiume di insulti a lui diretti da parte del fratello gli scivolasse addosso, concentrandosi sull’ambiente circostante col suo solito modo di fare tra l’assonnato e l’assente.

Intercettò per puro caso la figura di Teach e si stupì di ritrovarlo tutt’altro che sorridente.

La sua dentatura mezza marcia era quasi del tutto scoperta dalle labbra e, nonostante stesse anche lui guardando verso l’alto, la sua faccia era torta in una vera e propria espressione arcigna. 

Marshall non era mai stato un musone. Neanche quando si gettava nella mischia di un arrembaggio, anzi, in ogni situazione, anche quella più pesante, le sue gli angoli della sua bocca non si abbassavano mai oltre una certa soglia. Alle volte la sua risata sguaiata risuonava per così tanto che alcuni nella ciurma sospiravano di sollievo quando la smetteva. Per questo si meravigliò tanto nel sorprenderlo mentre lanciava vere e proprie occhiate omicide alla vedetta della nave.

Corrugò un po‘ di più la fronte e assottigliò gli occhi azzurri, colto da un insolito dubbio: perchè gli sembravano passati dei mesi dall’ultima volta che aveva sentito Marshall ridere apertamente?

Lo vide poi girare i tacchi senza alcun preavviso e farsi strada tra alcuni dei suoi fratelli un po’ chiedendo permesso, un po’ spintonando con le labbra che si muovevano mute sotto il suono immaginario di un fiume infinito di imprecazioni.

Che sta succedendo?

“Ehi, mi ascolti Testa d’Ananas??”

 

Atto 20, scena 4

Lontano da occhi indiscreti Marshall sferrò un calcio pieno di frustrazione su una delle strutture in legno della nave, forse una pila di casse piene di medicine ammassate lì, ma che gliene importava?!

L’unica cosa a cui riusciva a pensare al momento era che quello smidollato di Satch aveva ancora una volta mandato a monte i suoi piani!

Far perdere a quel bocconcino la fiducia nella stessa ciurma dove era stata accolta sarebbe stata un ottima strategia, la migliore in assoluto, ma quel biondo imbrillantinato se ne era stato buono a guardare la ragazzina cadere nella sua rete? No! Doveva fare il rompiscatole e andarle a spiegarle ogni cosa, riguadagnandone la fiducia in neanche metà del tempo che ci aveva messo lui per fargliela vacillare!

Prese un lungo e profondo respiro dalle narici, allargandole come mai in vita sua, e ributtò la stessa aria dalla bocca. Quel piccolo gesto lo aiutò a darsi una calmata e schiarirsi le idee.

Ormai aveva capito quanto forte fosse l’ascendente di Satch sulla piccola Paradisea.

Si passò una mano sul viso sudicio e poi accarezzò con fare casuale il manico della propria sputa-fuoco vecchio stile.

Gli dispiaceva doverlo fare. In fondo quello scalmanato e incorreggibile adulatore di infermiere gli stava simpatico, ma il suo sogno non poteva aspettare troppo a lungo e avrebbe fatto anche quel sacrificio se fosse stato necessario.

D’altronde era colpa sua. Si fosse fatto un po’ di più i cavoli suoi non si sarebbe mai ritrovato tra lui ed il One Piece.

“Ehi Teach! Sei qui?”

Un novellino gli apparve di sorpresa da dietro richiamandolo e lui fu costretto a riassumere a tempo di record la solita smorfia amichevole e gioviale. Si girò con tutta la dentatura scoperta e con gli occhi socchiusi in un falso sorriso.

“Che succede fratellino? Stavo per fare un salto nelle latrine per liberarmi un po’. Sai, quest’attesa ha messo a dura prova la mia vescica! Zehaha...”

“Ah, ok. Volevo soltanto dirti che Allegra è finalmente scesa e che Doma ha smesso di parlare col babbo.” disse l’altro senza accorgersi del velo di falsità che ricopriva le parole del grassone.

“Ah...” rispose Teach, fingendosi sollevato, quando in realtà l’unica cosa che avrebbe voluto fare era prendere il braccio di quel novellino e mandarlo a farsi coccolare da Penelope. “E quale sarà per te il verdetto per Doma?”

“Penso proprio che lo accoglieremo in famiglia. Sai com’è fatto Oyaji...”

Fu tutto quello che disse prima di battersela in ritirata. Anche se Teach gli era parso amichevole ed innocuo, non gli erano estranee le storie riguardanti  gli scatti d’ira di cui era capace verso quelli arrivati da poco come lui.

La sua fu una scelta saggia, perché neanche una manciata di secondi dopo la più inquietante delle smorfie tese le labbra del pirata dal pancione.

 Quella che era buona notizia.

“Ehi Teach.”

Sentire la voce di Satch alle proprie spalle lo prese un po’ alla sprovvista, ma riuscì comunque a risistemarsi in viso l’espressione bonaria ed innocua che aveva imparato dopo lunghi anni di pratica.

“Ehilà comandante!”

Come aveva intuito dalla voce, dietro di lui il comandante della quarta flotta era proprio arrivato da dietro di lui, ma c’era qualcosa di diverso: il suo solito sorriso non gli stendeva le labbra come al solito. Anzi, la fronte era addiritura corrugata nel mezzo e persino la sua postura si era irrigidita, imponendosi davanti a lui con autorità.

Era serio.

Guai in vista.

“Vorrei scambiare quattro paroline con te.”

Eccola. La mitica frase che tutti sulla Moby conoscevano e che nessuno mai avrebbe voluto sentirsi dire da uno dei comandanti, ancor meno da Satch.

Fece le spallucce da finto tonto e annuì con la testa, scattando con i piedi non appena il comandante dal ciuffo gli fece cenno di allontanarsi insieme a lui in un luogo più appartato.

Non appena furono completamente soli, isolati da resto della ciurma in un angolino recondito della grande nave pirata Satch tonrnò a fronteggiarlo, guardandolo con la stessa espressione tesa e grave.

Lui continuò a fare il caduto dal pero, grattandosi la nuca con una mano ed una faccia da punto interogativo stampata in volto.

“C’è qualcosa che non va Satch?”

“Dimmelo tu, Teach.”

Marshall D. Teach non aveva mai visto il comandante della quarta flotta così serio e telegrafico. Era famoso per essere il più compagnone e bonario tra i pirati scelti del Bianco e perfino Ace, più giovane di lui, trasmetteva molta più autorità nei modi di fare, ma non per questo era meno temibile degli altri. Anzi, Satch poteva rivelarsi insidioso come avversario se si superava quel punto limite della sua pazienza e questo non faceva che aumentare le sue preoccupazioni. 

Qualcosa gli diceva di averlo appena inconsciamente oltrepassato.

“Eeeh...?”

“Perchè hai attaccato Allegra in sottocoperta?”

Oh. Teach irrigidì la mascella. Ora si spiegava tutto: la bambolina aveva vuotato il sacco. Era convinto che non avrebbe mai trovato il coraggio di farlo, ma a quanto pate aveva sbagliato i propri calcoli.

“Ma di che par..?”

“La tua risata Teach!” Lo interrupe di nuovo l’altro, esplodendo finalmente, pur mantenendo il tono abbastanza basso per evitare che gli altri venissero attratti dalla loro discussione privata “Se la ricorda come se fosse ieri! Ha passato tutti questi mesi a guardare con sospetto chiunque somigliasse a te per stazza! Persino avere Jaws troppo vicino la spaventava a morte!”

Quella spiegazione veloce fu più che sufficiente. La sua risata. Satch non gli aveva detto nulla di nuovo fino a quel punto: era stato lui stesso a cercare di evitare qualsiasi risata spontanea con la Paradisea nei paraggi ed aveva anche notato quanto la ragazza non gradisse inizialmente la vicinanza del comandante-diamante.

“Non voglio creare stupide dispute sulla nave Teach, quindi ti do una possibilità:...”

Il pirata dalla camicia bianca lo fissò intensamente, avvertendolo che intendeva davvero dargli una sola possibilità di spiegarsi e riscattarsi.

“...dimmi perchè lo hai fatto.”

Marshall avrebbe volentieri tirato fuori un coltello e tagliato la gola di netto.

Era così vicino. Così vicino a mettere nel sacco quella cosina insignificante che avrebbe potuto aprirgli le porte del Nuovo Mondo e ora quell’impiastro si stava interponendo tra lui ed il suo sogno.

Il sogno di una vita, sudato e rincorso per anni solo per essere abbandonato con la rassegnazione del cuore. E ora che si presentava l’occasione non solo di rispolverarlo, ma addirittura di realizzarlo gli si parava davanti   Satch nel ruolo del guardiano senza macchia e senza paura!

D’accordo: accettava la sfida.

“Senti Satch...” cominciò con tono un po’ lamentoso, mostrandogli i palmi delle mani “... io non avevo intenzione di farle del male...”

Il che era vero, in un certo senso.

“L’hai. Quasi. Strozzata!” scandì però l’altro, non bevendosela. Non aveva mai visto Satch così agguerrito e la cosa non favoriva ad infondergli sicurezza.

“Senti. Non ti arrabbiare. Ok?” fece finta di supplicare “Volevo solo saziare una mia piccola curiosità e mi sono fatto prendereun po’ la mano. L’avrei lasciata subito andare, ma ha cominciato ad agitarsi come una forsennata e...”

Di nuovo il biondo lo guardò male. Si vedeva lontano un miglio che non era affatto convinto da quella spiegazione. La piccola preda doveva aver fatto un resoconto piuttosto dettagliato.

“Ok ok.” gesticolò frettolosamente, capendo di dover cambiare ritmo “Vuoi sapere la verità? Non so nemmeno io cosa mi sia preso.”

Stavolta la reazione da parte dell’altro fu diversa. Satch strabuzzò gli occhi, preso in contropiede.

“Che..?”

“Senti Satch.” decretò con tono impaziente, manco fosse stato Satch ad essere sotto interrogatorio “Io mi sono solo avvicinato a lei e neanche un secondo dopo mi ritrovo a cercare di bloccarla come meglio potevo!”

“Cosa vuoi dire...?”

“Voglio dire che forse c’è una ragione per la quale le Paradisee sono dette ‘sirene’.”

Il calcio nello stomaco arrivò doloroso, ma non inaspettato. Sentì la suola di una scarpa considerevolmente leggera  dalla suola di una scarpa conficcarsi e sprofondare tra gli strati adiposi della sua pancia, mozzandogli il respiro di netto. Tossì dolorosamente e cadde all’indietro.

Non gli servì alzare gli occhi per sapere con quale espressione l’altro lo stesse squadrando dall’alto verso il basso.

Era furibondo di certo. 

“Eviterò di parlarne con Oyaji e gli altri.”

Con la testa piegata verso il pavimento Teach si permise un largo ghigno soddisfatto.

Perfetto.

“Ma da oggi sei avvertito, Teach.” continuò il pirata con suo enorme disappunto “Avvicinati un’altra volta allo scriccolo e non esiterò a farne rapporto ad Ace. Sto già trasgredendo ad una delle nostre regole non parlandone con il comandante della tua divisione. Ti voglio distante da lei di almeno 10 metri.”

Fece volutamente a meno di rispondere.

“Sono stato chiaro?!” scattò in avanti l’altro, aspettandosi una risposta.

“Sì.”

Quando finalmente rimase solo, Teach fu combattuto se tirare un sospiro di sollievo o lanciarsi in una risatina di vittoria. Aveva perso l’occasione di potersi avvicinare alla ragazzina e farle dubitare dei suoi stessi compagni di ciurma, ma adesso che sulla nave era salito Doma le cose non cambiavano.

Rise grottesco. Era ancora lui ad essere in vantaggio. 

 

Atto 20, scena 5, Hell Glory

“Dammi una buona notizia, Killer”

Il vice capitano della Hell Glory inclinò la testa di lato, accompagnato da buona parte della ciurma che guardò il proprio capitano di sottecchi. Erano certi di non aver mai visto Kidd così sconvolto. Certo, Killer ed il rosso si conoscevano da nemmeno due anni, ma mai al Massacratore era capitato di vederlo tanto giù di morale come in quel momento.

Il pirata magnetico stava in quel momento mezzo stravaccato sul prapetto della nave, praticamente in bilico tra il mare ed il ponte, stranamente non tirato a lucido come al solito, della sua nave. Una gamba era tirata su e si appoggiava con ben poca grazia su una botte di polvere da sparo, dando sfoggio non solo dell suola consumata degli stivali, ma anche della sua innata e caratteristica mancanza di qualsivoglia nozione di buona educazione. 

Una decina di bottiglie di rum sparse ai suoi piedi, senza contare quella che tratteneva dal cadere tra i fiotti del mare con un mano che oscillava pigramente nel vuoto.

“La Sollevapesi sembra essersi calmata.” rispose Killer, ignorando un paio di risate e grugniti poco contenti da parte di alcuni dei loro compagni.

“Dammene un’altra.” lo implorò Kidd.

“Oggi non ha cercato di staccare la polena della nave.”

Il rosso grugnì come un’animale ferito e si passò una mano sugli occhi, ma almeno sembrò sollevato dalla notizia.

“Che cazzo gli hanno dato a quella donna quando era ancora in fasce?!” disse mentre cercava di raddrizzarsi sulla sedia, scolando giù in un solo gesto un’ultimo grande sorso di liquore.  Quando finalmente l’ultima goccia del liquido ambrato fu andato il contenitore di vetro venne ben presto scagliato fuori bordo, privo ormai di ogni utilità.

Tornato seduto un po’ più civilmente, anche se curvo su se stesso con gli avambracci posti sulle gambe e la testa a penzoloni per via dell’alchol che gli appesantiva la testa, il capitano diede sfoggio ai suoi uomini una parte di sé che mai e poi mai avrebbe immaginato di dover dare.

Kidd era livido. Non tanto per il colore della pelle, cadaverica come poche nella Grand Line, quanto per l’innegabile e palese incazzatura che gli sprigionava dallo sguardo. Per intenderci, se un’occhiata avesse potuto uccidere, Eustass sarebbe potuto passare alla storia come “il Fulminatore” anzichè “Captain”. 

Per il resto era completamente sconvolto: capelli leggermente scompigliati, vestiti sgualciti, persino i suoi potenti muscoli, che mai si permetteva di coprire, sembravano aver perso un po’ di tono.

Erano passati giorni. Dei maledetti, interi, inteminabili, estenuanti, catastrofici, distruttivi giorni a passati tenere a bada quella selvaggia dai capelli argentati di nome Viola la Sollevapesi. 

Eustass stava cominciando a rivalutare seriamente la possibilità di buttarla fuori bordo, anche a costo di non poter vedere più un bel paio di tette girare per la nave. Questo e altro per evitare che la sua amatissima nave venisse danneggiata ulteriormente! 

L’unica cosa che lo frenava dal farlo era l’accordo fatto con Arch Angelo Infido a cui , se anche si fosse solo permesso di torcerle un capello a Viola, avrebbe dovuto dire “addio amore mio”, insieme alle informazioni che l’angioletto, bene o male, gli stava dando sul Nuovo Mondo. Era già stato un miracolo riuscire a prenderlo da parte due volte sì e una no per costringerlo a tenere fede al loro accordo, pur sudando freddo con il rumore angosciante delle travi della sua nave che venivano tirate e spaccate in modo assordante dalle mani insospettabilmente forti della Sollevapesi. 

Roger fosse dannato, quella donna lo stava facendo diventare pazzo!

Tirò su di poco la testa e si sfregò ancora una volta gli occhi, avvertendo chiaramente i fumi del liquore ingerito fare il loro lavoro sui suoi sensi.

Quanto diamine aveva bevuto? Bah. Massaggiandosi le tempie con le dita, ripensò alla prima chiacchierata avuta con Angelo Infido. Se non altro aveva scoperto parecchie cose sul mondo che gli avrebbe attesi oltre la Red Line: un vero e proprio inferno. Arch aveva passato pochi ed essenziali minuti a dargli un quadro generale di ciò che avveniva tra le acque selvagge ed inesplorate di quel mondo.

Cambiamenti climatici continui, più frequenti ed imprevedibili di quelli sulla Grande Rotta, creature marine e terrestri a farti la festa al minimo errore, isole inospitali oltre ogni immaginazione umana.

Come quei due fossero riusciti, pur odiandosi così tanto da arrivare a cercare di ammazzarsi (almeno da parte della stangona), a oltrepassare illesi i pericoli descritti rimaneva comunque un mistero. Persino da dove fossero riusciti a racimolare un Log Pose lungo la strada e percorrere più di una rotta al contrario era per lui ancora argomento in attesa di chiarimenti. Il motivo del loro viaggio rimaneva ancora oscuro, come fosse possibile che la stangona potesse richiamare con la propria voce un Re dei Mari anche, e a malapena era riuscito a strappare alla fatina il nome della loro isola d’origine: Nido Leila.

Non ne aveva mai sentita nominare, ma, da come il ragazzo aveva prontamente fatto scena muta, rifiutandosi di aggiungere altro, aveva avuto l’impressione che per costringerlo a parlare avrebbe dovuto fare ben più che i salti mortali. E poi cera la questione del “voi umani” che gli aveva fatto rizzare le orecchie quando il biondo aveva finalmente vuotato il sacco sull’orecchino dal materiale sconosciuto.

Doveva ammetterlo però, omettendo l’eccitazione  provocata da tutto quel cocktail di pericolo e mistero che il ragazzo emanava,  scoprire che quei due erano cugini non era stato molto piacevole.  

L’equivalente di una spruzzata d’acqua gelida.

Sapere di non avere a che fare con due semplici estranei finiti a viaggiare per puro caso, ma di “ospitare” due persone imparentate tra loro gli aveva messo addosso un’ansia non trascurabile.

Con una furia come La Sollevapesi a bordo,  che ogni 10 minuti sembrava volersi rifare le unghie sulle travi della sua nave, tenere le mani a posto sarebbe stata un’impresa non meno degna di un’assalto a 10 navi della marina armate di tutto punto.

Se avesse saputo che a quella stangona mancavano così tanti venerdì non avrebbe mai stretto il famoso patto con Angelo Infido, ma sarebbe passato direttamente all’azione, unendo l’utile al dilettevole senza troppe complicazioni!

Chi gliel’aveva fatto fare?!

“Hai l’aria abbattuta, capitano.”

L’immagine fredda e distaccata di Arch, o Archetto come aveva detto di essere stato battezzato, era apparsa in mezzo agli uomini della sua ciurma quasi come un fantasma.

Gli venne quasi sa ridere. Sul serio: a quale madre sana di mente sarebbe mai passato per la testa di dare al proprio figlio un nome tanto assurdo?

Alzando gli occhi stanchi ed intontiti Eustass fece in fretta individuare la figura esile di Angelo infido in mezzo ai corpi massicci dei propri uomini.

Il ragazzo stava a pochi passi da Killer, ora volto verso di lui, le braccia rilassate lungo i fianchi e la solita espressione apatica in volto. Kidd digrignò i denti in un moto di disappunto. Come faceva ad essere ancora fresco come una rosa nonostante fossero ben più di sette giorni che l’aveva costretto a dormire fuori sul ponte??

Avrebbe dovuto avere un poco di occhiaie, un colorito un po’ più smorto, barcollare almeno un po’... e invece nulla!!

“Chissà di chi è la colpa...” brontolò a mezza voce, sentendo di cominciare a detestare ardentemente quella faccina priva di espressione.

“Sono venuto a dirti che ho parlato con Viola.”

A quelle parole tutti osservarono straniti Angelo Infido. Anche Kidd, che non si aspettava un risvolto simile, rialzò gli occhi stanchi, sconcertato.

Aveva parlato con la Sollevapesi?!

Fu allora che notò, quasi invisibile a una prima occhiata un piccolo livido rossiccio e fresco appena sopra lo zigomo destro del ragazzo.

Decisamente non stava mentendo. Aveva veramente parlato con quella pazza di sua cugina, ma, la domanda rimaneva, per cosa?

“Ha accettato di smetterla di tentare di distruggere la nave ad ogni occasione.”

Un brusio emozionato e colmo di sollievo si propagò per la nave a macchia d’olio. Quella che era una buona notizia. Eppure Eustass stentava ancora a crederci.

Accettato? Che voleva dire accettato? Perchè diamine quella scalmanata avrebbe voluto accettare? E perchè Angelo Infido si era esposto così tanto alla collera della propria cugina solo per frenarla dal rovinargli la barca?!

Ci diveva essere qualcosa sotto.

“Perchè?” gli venne naturale domandare, così di punto in bianco che la ciurma, tranne Killer perennemente chiuso nel proprio silenzio dietro la propria maschera forata, si ammutolì, ritornando tesa e vigile.

Arch a quelle parole inarcò un sopracciglio.

“Anche io non sopporto le scenate di Viola, cosa credi.”

Kidd non seppe proprio come prendere quella frase. Incazzarsi o rilassarsi? In ogni caso non gli sfuggirono le parole a stento sussurrate dall’angioletto, mentre credeva di non essere più ascoltato e coperto dalle voci soddisfatte dei suoi uomini.

E poi... sta solo facendo male a se stessa.

Eustass non capì il senso di quelle parole, nè tantomeno volle starci a pensare: la testa cominciava già a rimbombargli sotto i primi effetti di una sbornia. Riuscì comunque a rialzarsi e barcollare verso il biondino, arrivando incredibilmente a poggiargli peantemente un braccio attorno alle spalle.

“Abbiamo parecchie cose di cui parlare, angioletto.” gli alitò praticamente in faccia ed Arch arricciò il naso schifato.

“Domanda allora.” 

“Qual’è il motivo del vostro viaggio?”

Arch sembrò pensarci un po’ su, forse valutando le sue possibilità e l’eventualità tentare di raccontargli una balla, ma alla fine la risposta uscì celere:

“Stiamo cercando una persona.” rispose asciutto.

Eustass non fu soddisfatto da quella risposta arida. Cercavano una persona, ma dai, davvero? Solitamente chi intraprendeva la via del mare aveva tre cose in mente: un tesoro, la libertà o una persona.

“E questa persona...” tornò all’attacco i pirata borchiato “... ha un nome?”

Detestava dover spingere per ottenere qualcosa ed Angelo Infido stava veramente cominciando a fargli detestare con tutto sè stesso quel riserbo che dimostrava ogni qualvolta gli toccava rispondere ad una sua domanda. Dannazione, avevano fatto un patto, o no??!! 

“Clarina Sassonia.” 

Quelle parole lo lasciarono di sasso e di nuovo il brusio della ciurma si fermò. Perchè diavolo si stupivano tanto quando la fatina rispondeva in modo diretto? Per la barba di Roger! Ne sarebbero dovuto essere felici, non scandalizzati!!

“E’ mia madre.”

Ok. No. Decisamente l’opzione “felici” non era neanche quella più adeguata. Stavano ospitando, un po’ forzatamente, due cugini con un bambino-drago alla ricerca di una loro parente, o meglio, la mammina del ragazzo che aveva davanti?! 

Era a dir poco esilarante!

Esplose in una fragorosa risata prima ancora di rendersene conto e quasi gli dispiacque dover chiudere gli occhi per lo sforzo, perdendosi forse l’espressione più impagabile e smarrita di Angelo Infido.

Solo quando si riprese e tornò a dare aria alle orbite si rese conto che, per la prima volta la sua ciurma non si era unito a lui, anzi, era rimasto a fissarlo in attesa che il suo sfogo finisse.

Non mi dire ... - pensò, sentendo un lieve, lievissimo senso di disappunto gonfiatgli un paio di vene sulla fronte - ... Hanno preso in simpatia l’angioletto?  

“E quindi mi stai dicendo...” continuò “... che la mammina se ne è andata.”

“Non è andata via.” venne interrotto bruscamente “E’ stata rapita.”

Ooooh adesso sì che le cose si facevano interessanti.

Ribaltò con un movimento deciso la botte piena di polvere per terra e ci si sedette sopra, guardando con soddisfazione il volto di Angelo Infido, torcersi lievemente di disagio.

“Sono tutto orecchie Angelo Infido.”

Il ragazzo non perse tempo e con un semplice movimento della gamba destra si mise a sedere sul posto. La ciurma lo guardò incuriosita sospirare e sistemarsi il più comodamente possibile sul pavimento liscio e ben curato del ponte.

Arch si concesse il lusso di pensare a quello che doveva dire ancora per una manciata di secondi, poi partì a parlare.

“La nostra isola è stata presa d’assalto da delle navi qualche mese fa. Non era la prima volta che ne notavamo qualcuna aggirarsi attorno alle nostre coste, ma ... non erano mai state così tante.”

Queste due prime frasi bastarono ed avanzarono a Kidd per fargli capire a chi appartenessero tutte quelle navi: la Marina, e chi altrimenti?

“Nido Leila è circondata da una fascia di bonaccia.” continuò intanto il ragazzo, mantendo il più possibile gli occhi concentrati in un sol punto, quasi temesse di incrociare gli occhi di uno dei pirati e perdere irrimediabilmente il filo del discorso che si era prefissato.

“Prima di allora molte imbarcazioni che avevano osato entrarvi erano affondate, attaccate da un Re, ma...”

“Quelle navi sono riuscite ad entrare.” terminò per lui Kidd, sorridendo bieco. Era lampante in che modo le navi dei berretti bianchi fossero riuscite a superare illese una fascia di bonaccia del Nuovo Mondo. Rivestimento in Algamatolite, una delle poche genialate della Marina di cui era riuscito a venire a conoscenza per mezzo di Trafalgar Law.

Come il dottorino ne fosse a sua volta al corrente non era un suo problema.

Arch annuì.

“All’inizio nessuno di noi ha dato peso alla cosa. Anche riuscendo ad oltrepassare il Rigo, le coste della nostra isola non forniscono appiglio per le imbarcazioni. Non ci sono insenature tra gli scogli e le sole correnti sono sufficienti per spingervi contro le navi più grosse. Così...” Angelo Infido inspirò e si passò una mano tra i capelli “... abbiamo fatto come se niente stesse succedendo ed è stato, continuando ad occuparci dei preparativi del Carnevale... il nostro più grande errore.”

Troppo facile intuire quello che era successo.

“Vi hanno tartassato di cannonate.”

“No.”

Kidd ci rimase di sasso.

“No?”

“Il nostro villaggio era nella parte più alta dell’isola.” spiegò Arch, finalmente tornando a fissarlo. “Non sarebbero neanche riusciti a sfiorarci dalle coste.”

Il pirata magnetico lo guardò interdetto: quanto poteva essere alta un’isola per evadere le potenti palle di cannone di un’intera flotta del Governo Mondiale?

“Per questo...” continuò il biondo “... le altre ci sono rimaste tanto male quando un singolo individuo si è presentato illeso al villaggio.”

“Uno solo?!” Un attimo, ci ripensò, aveva detto ‘le altre’?! 

“Considerando la distanza che avrebbe dovuto percorrere per giungere fino a noi, senza contare l’innumerevole quantità di belve feroci nella foresta, ci siamo quasi subito resi conto di cosa stava per accadere...” si interruppe e gli scoccò un’occhiata piena d’odio “... voi umani d’altronde siete solo capaci ad uccidere.”

Nessuno osò fiatare a quell’affermazione, neanche Kidd, che avrebbe preso quella frecciatina come un complimento se non fosse stato preso da altri pensieri.

Uno sterminio di massa. Perpetrato da un singolo scagnozzo della Marina. E se il cervello non aveva smesso di accompagnarlo del tutto, si poteva dire che un solo tipo di ufficiale avrebbe potuto essere incaricato di tanto.

Un Ammiraglio.

Per la Barba di Roger, in che guaio si era andato a cacciare?

Un momento... - ci ripensò, prima di dare di matto - ... come avevano fatto quei due a scappare?

“Come ...?” fece per dare aria alla bocca, ma ancora una volta Angelo Infido lo precedette.

“Ero riuscito a costruire una barca, prima che tutto ciò avvenisse.” spiegò senza tanti giri di parole “Ma di tutte quante sono riuscito a portare in salvo solo Viola e mia sorella.”

Ecco che ne entrava in scena un’altra. Non bastava la madre dispersa. Ora anche la sorella. Kidd aveva quasi paura di chiedere dove la suddetta sorellina fosse andata a finire.

“Ci siamo dovuti nascondere tra gli scogli finchè le navi e quel mostro non se ne sono andati, ma mia mdre non ci ha mai raggiunti.”

“Un momento.” decretò alla fine il capitano della Hell Glory, sentendo la testa scoppiare per via sia delle troppe informazioni acquisite in una sola volta, sia per la sbornia in pieno atto.

Si massaggiò l’attaccatura del naso con due dita e tornò poi a perforarlo con i propri occhi neri, più deciso che mai.

“Se la mammina non vi ha mai raggiunti è molto più probabile che sia morta, non che sia stata rapita.”

Per un attimo ebbe come l’impressione che Archetto fosse leggermente sbiancato. Il ragazzo riabbassò la testa, forse troppo scosso da una simile eventualità per poter continuare a mantenere un atteggiamento fermo ed imperturbato.

D’altronde si sa... la mamma era sempre la mamma.

“Questo lo so anch’io...” disse scoraggiato il biondo, affondando il volto tra le mani e respirando a fondo per un attimo “..., ma ho le mie ragioni per sperare che non sia così.”

Le sopracciglia invisibili di Kidd scattarono all’insù.

“Ovvero?”

“L’orecchino.” disse semplicemente l’altro e una vena pulsante comparve sulla tempia del pirata. Possibile che l’intera situazione girasse attorno ad un gingillino tanto insignificante? Se si fosse soltanto sprecato di dirgli di che materiale era fatto quell’aggieggio la cosa gli avrebbe fatto venire meno nervi a fior di pelle!

Con uno scatto si alzò in piedi e afferrò Arch per il colletto, portando i loro nasi quasi a sfiorarsi.

“Adesso mi spieghi cosa centra il tuo gioiellino con tua madre, angioletto.” gli ringhiò praticamente in faccia, guadagnandosi una smorfia a malapena celata da parte del biondino.

“Mia madre me lo regalò per il mio sesto compleanno.” gli rispose a denti serrati, prendendogli le mani e facendogli mollare la presa dalla sua camicia con uno scatto “E’ un oggetto magnetizzato che indica la posizione di oggetti fatti con lo stesso tipo di materiale. Nido Leila ha ne ha un grande giacimento al proprio interno. ”

Si aggiustò i vestiti continuando a guardarlo sprezzante.

“E mia madre ne aveva uno uguale all’orecchio. Non se ne separava mai.”

Finalmente Kidd cominciò a capire. Quel piccolo accessorio non era utile alla sola navigazione, ma l‘unica speranza di quel ragazzo di ritrovare la madre. Per questo quando gli aveva riferito di averlo perso era crollato in preda allo sconforto.

“Capisci, Kidd? Senza quell’orecchino non possiamo nè tornare a casa... nè salvare mia madre.”

Angelo Infido gli si avvicinò a passo felpato sino a fronteggiarlo quasi petto contro petto. Lui sentì il retro del collo fremergli di una sensazione che non seppe definire, e la bocca torcersi involontariamente in una smorfia di rabbia. 

“Ed è tutta colpa tua.”

Quel biondino lo aveva messo nel sacco.

 

Atto 20, scena 6, Hell Glory

Viola sapeva per certo che Arch se la stava cavando benissimo.

E come sarebbe potuto essere altrimenti? 

Quel verme bipede di nome Eustass Kidd non aveva la minima idea di che razza di individuo fosse suo cugino, e di certo Arch non gliene avrebbe dato conto neanche sotto tortura.  Pensare che lo aveva anche costretto a dormire all’aperto credendo di fargli un dispetto!

Tsk! A Nido Leila quel bastardino era abituato a dormire all’aria aperta meglio di chiunque altro.

Guardò con un certo schifo il volantino con cui gli umani avevano annunciato una vera e propria ricompensa in denaro per la testa di suo cugino. Lei e Arch non si erano mai piaciuti. Anzi, se la sorella di quel pezzo di ghiaccio non fosse stata Allegra, probabilmente la sua mano sarebbe scivolata da un pezzo.

Accartocciò piena di frustazione quel pezzo di carta giallastra e lo tirò all’indietro, trovando comunque impossibile non ripensae all’appellativo dato sia a lei che ad Archetto stesso.

Angelo Infido... bleah. Che schifo di soprannomi trovavano gli umani. I loro gusti in fatto di nomi le facevano venire a dir poco l’orticaria.

E lei? La SOLLEVAPESI? Che razza di scherzo era?

Avrebbe volentieri accartocciato anche il suo di volantino se non fosse stata tanto occupata a fulminare con sguardo rosso la sua stessa immagine immortalata dalla foto che la ritraeva sulla taglia.

Si passò una mano su un braccio, sentendo gli avvallamenti lisci e tesi delle cicatrici stuzzicarle i polpastrelli.

Neanche un mese fa la sua pelle era stata a dir poco perfetta.

Normalmente le sue fiamme l’avrebbero curata completamente, cancellando in poco tempo anche il più piccolo graffio, ma nel suo stato attuale era impossibile anche solo oltrepassare il livello di guarigione più veloce del normale. A nemmeno una settimana dal suo scontro con il Massacratore le sue ferite non avevano più avuto bisogno di essere tenute ferme dalle fasciature e Arch aveva potuto rimuovere i punti senza problemi.

Si raggomitolò sul letto, portando le ginocchia al petto e abbracciandosi gli arti, accarezzandoli con il magone alla gola. Stava peggiorando. Questo lo sapeva da tempo e non le servivano le occhiate sprezzanti e piene di rimprovero di Arch o di Allegra per capire che doveva liberarsi di un po’ di Essenza.

Le sue fiamme stavano diventando pesanti da gestire e cercare di rompere più cose possibili per sfogarsi un po’ non serviva più a nulla. Le mani le prudevano sempre più frequentemente e doveva fare uno sforzo immane per non affondare le unghie nella sua stessa carne, tanto era forte l’impulso di rompere qualcosa.

Scattò di lato e prese due lembi della coperta sudicia e sporca del suo giaciglio, spaccandola a metà con un gesto rabbioso e veloce. Non si puliva da giorni, addirittura aveva addosso gli stessi identici vestiti di quando si erano imbarcati su quella nave pirata. Già accettava a stento di uscire di giorno con quelle cicatrici sulle braccia e gli occhi pesanti dal sonno, ma ormai nemmeno la notte si concedeva più di farsi viva.

La luce delle stelle le avrebbe fatto soltanto male.

Digrignò i denti e buttò la testa sul cuscino, respirando a grandi sorsate il puzzo di sudore e polvere proveniente dalla federa.

Scendere a patti con degli umani. Degli assassini che avevano visto uccidere dei loro stessi simili con il sorriso sulle labbra. Dove aveva lasciato la sua essenza Arch? In qualche latrina di Talpasauro di Nido Leila? Per quanto fosse intelligente non sarebbe mai riuscito a tenere a bada quei tagliagole per tanto tempo e lei sarebbe probabilmente impazzita nel giro di pochi giorni, se non addirittura morta.

Un breve ma intenso senso di nausea le fece portare velocemente le mani alla bocca e respinse con successo un piccolo conato di vomito.

Si rifiutava di dire ad Arch quanto effettivamente stava male: sapeva già cosa gli avrebbe detto. Glielo aveva già ribadito largamente il giorno stesso in cui l’aveva informata del patto stretto con Eustass Kiss.

Devi accettare la tua Essenza o non arriverai alla prossima isola.”

Il viaggio era lungo. Lungo. E le tappe fissate da quel balordo del capitano della nave erano poche.

Merito di una stiva piena di cibo.” aveva detto Arch. Per lei invece era per pura e semplice pigrizia.

C’era un motivo se lei e Arch facevano così tante tappe durante il loro viaggio: non era solo per via delle piccole dimensioni della Clara o per rifornirsi di cibo e acqua potabile; anche lei necessitava fisicamente di sfogarsi di tanto in tanto e liberarsi di un po’ di Essenza.

I tendini e i muscoli delle braccia si contrassero dolorosamente e fu costretta a mordersi le labbra per non far uscire neanche un lamento. Quei crampi la stavano uccidendo. La sua Essenza la stava distruggendo dall’interno.

Si rannicchiò ancora di più sul letto ed incrociò gli arti sotto il seno, pregando che quell’attacco finisse presto. Era lì dove teneva la propria Essenza: nelle braccia.

Dalla spalla fino alle punte delle dita quell’odiosa sostanza, che stava al centro della vita di ogni Paradisea, invadeva anche il più piccolo nervo, ma ormai era diventata talmente tanta da farle quasi scoppiare i capillari. Le sue fiamme rosse stavano diventando sempre più deboli e scure, soffocate dalla stessa sostanza che le alimentava, come un fuoco a cui si da troppa legna.

Il dolore non passava. Le fitte continuavano a morderle con violenza i muscoli e la testa cominciava a suonare come un tamburo. Si ritrovò a piangere prima ancora di rendersene conto.

Singhiozzi silenziosi le scuotevano le spalle. Lei non la voleva quell’Essenza. Non voleva accettarla. Voleva che si staccasse da lei. Avrebbe accettato qualsiasi altra cosa. Paura. Amore. Pace. Morte. Male. Qualsiasi cosa, ma non quella.

Si accorse di avere una manina pallida e fredda poggiata sulle spalle, ma lo stesso non riuscì a fare altro che continuare a piangere con le labbra strette tra i denti, neanche quando quella manina venne accompagnata da una voce in preda all’ansia.

Scaglie legnose e dall’odore pungente si sostituirono alle mani di Morgan e, quasi per sonseguenza al corpo flessuoso coperto di scaglie al suo fianco, il dolore alle braccia andò via via attenuandosi sempre di più, fino a tornare ad essere un lieve senso di torpore ai muscoli.

Viola respirò profondamente dal naso e rigettò l’aria dalla bocca, sollevata. Si rilassò in pochi istanti e le palpebre le si appesantirono tanto da abbassarsi leggermente. In una situazione normale avrebbe scacciato via subito dopo il bambino orientale, ma, man mano che il tempo passava era sempre più stanca e la sua naturale ostilità per la vicinanza altrui non aveva quasi più modo di manifestarsi.

“Signorina...” disse Morgan dal fondo della propria gola serpentina “... s-sta bene?”

La Paradisea dalle fiamme rosse era troppo esausta per riuscire a riflettere un solo attimo di più.

“No mocciosetto...” rispose in automatico con la bocca impastata dal sonno, terribilmente seria “ ... sto morendo.”

Fece in tempo a sentire il rumore di passi frettolosi ed una porta chiudersi prima di sprofondare in un sonno profondo.

 

 

Atto 20, scena 7, Hell Glory

Quinn Jakzon era l’unico medico di bordo sulla Hell Glory. 

Nessuno meglio di lui sapeva ricucire una persona reduce da uno scontro completamente fatta a brandelli e il fatto di conoscere i rimedi di molte malattie mortali, al momento di essere arruolato tra i pirati della Hell Glory, era stato un fattore più che decisivo. 

Kidd lo aveva raccattato su un’isola tetra della Grande Rotta, salvandogli platealmente le chiappe e dandogli una nuova chance di vita che nessun’altro, neanche il tanto osannato Governo Mondiale, gli avrebbe mai concesso. 

Malgrado la sua rispettabile professione purtroppo, Quinn nell’aspetto trasmetteva tutt’altro che professionalità.Chissà, forse era perchè le sue labbra erano cucite da veri e propri fili da punti chirurgici, o forse per via della sua capigliatura rasta tinta da un azzurro delicato e polveroso, o ancora per via dei tatuaggi a forma di rovi spinosi che gli percorrevano spalle e braccia e che gli si attorcigliavano attorno al collo.

Era per via del divario tra i suoi gusti in fatto di estetica e la sua specializzazione che nella sua isola natia non aveva avuto successo come dottore. Poi era arrivato Kidd a fare casino e la sua vita era cambiata. Più o meno quella era la storia di tutti nella ciurma del pirata magnetico.

Ma Quinn doveva ammetterlo, anche se non era mai stato uno dei suoi sogni nel cassetto di essere rincorso e preso a cannonate dalla Marina, non avrebbe potuto immaginare una vita migliore di quella: era libero, svolgeva al meglio il lavoro per il quale aveva studiato una vita intera e, soprattutto, non era più un emarginato, ma parte di un gruppo.

Certo a volte la vita sulla Hell Glory non poteva definirsi rose e fiori, ma Quinn, avendo conosciuto di peggio sulla terraferma, non si lamentava.

Dal proprio studio, uno dei vani più centrali e più vicini al ponte principali della nave, il dottore sentiva il brusio conciato dei suoi compagni, mentre si occupava di ripulire minuziosamente i suoi strumenti da lavoro. Man mano che le sue mani allenate procedevano la propria occupazione, bisturi, pinze, tenagliette, seghetti e altri strumenti che avrebberofatto rabbrividire anche il più pompato degli energumini vennero riposti ordinatamente nella propria cassetta, anch’essa sterillizata a dovere.

Quinn non era un tipo a cui piaceva stare in mezzo alla gente. Non era raro infatti che preferisse tenere in ordine il proprio studio piuttosto che farsi una bella sbronzata insieme agli altri. Più di una volta Killer era venuto a fargli compagnia, sedendosi semplicemente in un angolo e contemplando in assoluto silenzio ogni suo movimento.

Non che gli desse fastidio, anzi, faceva piacere di tanto in tanto ricevere una visita da parte di un’amico non bisognoso di cure immediate. Distendeva i nervi e in più riscaldava l’aria fredda di quella stanza che, benchè tanto amata dal dottore, conteneva solo oggetti inanimati e metallici, per nulla paragonabili alla presenza di un essere umano.

Cosa lo avesse spinto ad intraprendere quella professione Quinn non se lo ricordava nemmeno, ma di una cosa era certo: il corpo umano lo affascinava e lo repelleva al tempo stesso. Cosa strana da dire se si è un medico, e anche piuttosto preoccupante, eppure Quinn, ogni volta che un suo compagno gli si presentava grondante di sangue e sofferente, si ritrovava da un lato a pregare col cuore in gola di non commettere errori, dall’altro a leccarsi le dita.

Non era un cannibale e nemmeno un masochista, anche se il suo modo di vestire avrebbe potuto trarre in inganno.

Era più che altro un certo senso di... onnipotenza, quello che lo spingeva ad andare avanti. Sì, ecco cos’era che adorava dell’essere un medico: quella sensazione esaltante di avere una vita umana tra le mani e poterla salvare per il solo fatto di volerlo.

Non era un ragionamento molto sano e non si era mai concesso di dirlo ad anima viva, ma, almeno finchè svolgeva un buon lavoro e i suoi compagni sopravvivevano il problema non si presentava.

Giusto?

“Signor dottore! Signor dottore!”

Quinn alzò gli occhi dal tavolino e richiuse in automatico la scatoletta di arnesi chirurgici, voltandosi verso la porta della stanza.

Aveva riconosciuto praticamente subito la voce di Morgan, il bambino che Angelo Infido e la Sollevapesi si portavano dietro. Più di una volta il bambino era venuto da lui balbettante ed impaurito dal suo aspetto per fargli qualche domanda. All’inizio era stata solo una domandina riguardante i poteri del suo frutto del Diavolo.

Per un bambino così piccolo ingerire una cosa tanto potente doveva essere stato devastante e non solo a livello psicologico. Gli ci era voluto un po’ per spiegargli cosa esattamente facessero i frutti. Nel giro di un paio d’ore Morgan D. Roc, così aveva detto di chiamarsi per intero, aveva appreso, con occhi grandi e spalancati, pro e contro del fatto di mangiare uno di quei frutti mistici.

Poi però il bambino era tornato a fargli compagnia, non più per parlare di quei frutti infernali, ma dello stato di salute di Viola.

Da circa tre o quattro giorni La Sollevapesi soffriva di dolori articolari sempre più frequenti: fitte, crampi, addirittura nausea e scatti d’ira.

Inizialmente Quinn aveva pensato ad un’infezione alle ghiandole surrenali, il che  avrebbe spiegato tutti i sintomi, ma, anche dopo aver dato al piccolo una medicina da versare nel cibo della ragazza, le cose non erano migliorate, andando sempre peggio.

Kidd non sapeva niente di quella storia e nemmeno Arch Angelo Infido: il bambino gli aveva pregato di non farne parola con anima viva.

“Altrimenti la signorina Viola si arrabbierà con me.” era stata la giustificazione del piccolo orientale e lui l’aveva assecondato, tenendo fede alla sua professione di medico che gli imponeva il segreto professionale.  

Cosa di cui in quel momento, con il bambino sconvolto e più pallido del solito sulla soglia, si stava pentendo.

“L-la signorina Viola...” aggiunse con i lacrimoni agli angoli degli occhi “... sta morendo.”

Quinn venne assalito dalla stessa deliziosa e repellente sensazione che provava ogni volta che “entrava in servizio”.

Lasciò i propri strumenti lì dov’erano e scattò verso il bambino senza ripensamenti, seguendolo a grandi falcate per i corridoi della Hell Glory con il cuore in gola.

Gli alloggi della Sollevapesi distavano parecchi corridoi e piani rispetto al suo studio. Quinn sapeva per certo che la ragazza si era scelta non solo una delle cabine più basse e vicine alla chiglia, quindi più scure, umide e male illuminate, ma anche una delle più sporche e, da quanto gli aveva detto Morgan, non si era neanche data la briga di dare una ripulita, prima di occupare il letto.

Il rischio che si fosse presa qualche strana malattia sviluppatasi in quell’ambiente, isolato ed ospitale per qualunque genere di germe, era quindi molto alto.

D’altra parte era quasi un’albina*.

“è...è qui!”

Le parole a stento ansimate dal bambino gli bloccarono le gambe e in poco tempo individuò la maniglia della prorta, afferrandola ed abbassandola di conseguenza.

La prima cosa che notò di quella stanza era l’odore: sgradevole e pesante, forse anche accentuato dalla forte umidità che aleggiava al suo interno, era come se qualcosa stesse lentamente marcendo. 

Fece un passo al suo interno con una mano sul naso e solo dopo un paio di secondi in più si rese conto che, sebbene non vi fossero oblò od alcun tipo di aperture, riusciva a vedere abbastanza chiaramente, quasi da qualche parte vi fosse accesa una flebile e sottile fiammella. 

Un lamento a pochi passi più avanti attirò la sua attenzione e non credette ai suoi occhi.

Rannicchiata sul letto in posizione fetale, con la schiena rivolta verso di lui, Viola Sassonia tremava di dolore.

E la cosa più sconvolgente erano i capelli e le braccia, specie in prossimità delle cicatrici, percorsi a tratti da dei bagliori luminosi color rosso acceso. Quinn poteva trovare un solo paragone per quello stava vedendo: un pezzo di carbone in procinto di spegnersi.

“M-mar-mocchio?”

“Signorina!”

Morgan si gettò sul letto, quasi arrampicandosi confusamente sulle coperte sgualcite e, Quinn ebbe modo di notarlo, rotte. Quel giaciglio pareva un campo di battaglia. A quanto pareva l’argentata si era sfogata sulle lenzuola, strappandole in più parti più e più volte.

Era un bene, considerando che non aveva dirottato il proprio malumore su qualcosa di inanimato, piuttosto che sul bambino.

Si avvicinò di soppiatto. Qualcosa gli suggeriva di non palesare subito la propria presenza. Dal poco che aveva potuto appurare, Viola era poco incline all’accettare la presenza di estranei.

“Signorina...” ripetè ancora una volta Morgan, la voce quasi rotta dal pianto. Doveva essere spaventatissimo, poverino. 

“Presto si rimetterà. Gl-glielo pr-prometto.”

“Non... promettere, mar-mocch-...” Una serie di brividi la scosse le spalle, impedendole di finire la frase. Alla fine di quel breve attacco, probabilmente un’ennesimo crampo, la sentì grugnire tra le labbra piena di frustrazione.

“MERDA!!!”

Decisamente quello era segno che non poteva più starsene in disparte.

Avanzò pian piano fino alla sponda del letto e con non poca ansia, si chinò sulla ragazza, cercando di prederle un polso ed ascoltarle il battito cardiaco.

L’urlo non arrivò inaspettato, ma i timpani arrivarono quasi al punto di rottura.

Diavolo! Quella ragazza sembrava un’aquila! 

Nel mentre cercava di riprendersi, con le orecchie che gli fischiavano come non mai, Morgan si lanciò sulla ragazza, provando, senza successo, a ternerla ferma con le sue piccole braccia.

“Signorina si calmi! La prego!” provò a dire il piccolo orientale ma solo per essere scaraventato giù dal giaciglio senza gentilezza.

La ragazza era in evidente stato confusionale, o meglio, ci era appena entrata dopo averlo visto in faccia.

Il dottore della Hell Glory era abituato a quel genere di reazione dai suoi pazienti, ma rimaneva sempre difficile come la prima volta riuscire a calmarli e far loro capire che con lui non correvano alcun rischio.

“Tienilo lontano da me!!”

Accidenti, quella voce era davvero forte come il suono di una cannonata.

Allungò le braccia verso la Sollevapesi, intercettandone i polsi.

“TOGLIMI LE MANI DI DOSSO!”

“Signorina si calmi! E’ un dottore!”

A quelle parole la ragazza si calmò di colpo. Fu una cosa surreale, poichè Morgan aveva a malapena avuto il tempo di finire la frase.Gli occhi castani di Viola lo squadrarono dubbiosi da capo a piedi, mettendolo a disagio. Sembrava dubitare seriamente delle parole del bambino.

A parte quello Quinn ebbe la possibilità di notare un’altro particolare: le pupille della Sollevapesi presentavano al loro interno un pallido riverbero rosso della stessa tonalità dei capelli e le braccia.

Il medico ne prese mentalmente noto, pur essendone rimasto scosso e si concesse il lusso di liberare dalla propria presa la malata. Viola rispose a quel gesto con uno sguardo pieno di smarrimento, rimettendosi immediatamente con gli arti incrociati sotto il seno e mordendosi nuovamente le labbra.

“Si rilassi adesso.” disse in automatico Quinn, dando sfoggio della sua voce.

Non era un tono grottesco e gracchiante quello che Viola aveva udito uscire dalle labbra da quella specie di spaventapasseri, al contario, quell’uomo era dotato di una voce normalissima, addirittura gradevole.

“Si stenda all’indietro signorina, adesso il dottore la visita, ok?”

Era un bene che insieme a lui ci fosse il piccolo Morgan: dal modo in cui La Sollevapesi  aveva guardato prima il bambino, poi lui, poi ancora il bambino, Quinn capì che in sua assenza non sarebbe stata tanto collaborativa.

Un po’ titubante e circospetta l’argentata si adagiò supina sul letto, bestemmiando a bassa voce ogni qualvolta una fitta le faceva tremare le braccia e salire le lacrime agli occhi.

Una volta che si fu stesa il dottore della Hell Glory allungò automaticamente le mani in avanti, pronto ad applicare una semplicissima indagine per via tattile, ma a quel gesto gli fece guadagnare un sibilo iroso da parte della ragazza.

Ma dai. Che cos’era una donna o un gatto inferocito?

“Devo vedere se il suo problema riguarda una specifica parte del corpo.” disse  rimanendo fermo, sempre con le mani tese ed immobili a metà strada “Il bambino mi ha raccontato più o meno quello che si sente.”

Vide la ragazza scoccare un’occhiata sprezzante al bambino che di rimando rannicchio di più la testa tra le spalle.

“Allora non serve che...ugh.. ti scomodi.” grugnì l’argentata, ormai con la fronte imperlata di sudore freddo. Peggiorava a vista d’occhio. “Io...so già cos’ho.”

Se Quinn avesse avuto delle sopracciglia di sicuro ne avrebbe alzata una. Sapeva cos’aveva? E allora perchè non parlarne. Bah, le donne. Le aveva sempre reputate una razza a parte e troppo complicata da gestire, ma quella che aveva davanti le superava tutte.

Sospirò attraverso i fili chirurgici che gli tenevano unite le labbra.

“Di che cosa ha bisogno allora?”

Ormai rivoli di sudore contornavano il viso della ragazza. Decisamente quella non era un’infezione alle ghiandole surrenali.

Viola Sollevapesi digrignò i denti sotto il peso di un’altra fitta e poco ci mancò che non si rimise seduta per il semplice fatto di essersi piegata in due per il dolore.

“Non puoi aiutarmi dottorino...augh...Chiama Arch...!Ugh!”

“Signorina, la prego! Dica di cos’ha bisogno!” intervenne il piccolo orientale sporgendosi di nuovo sul letto.

Viola, incredibilmente, non rimase sorda alle parole del piccoletto e, sempre con voce perforante, diede voce a un’ultima frase, prima di non capire assolutamente più nulla.

“Di un dannatissimo albero, moccioso! Ora chiama ARCH!”

Pochi attimi e il bambino era già partito alla ricerca del ragazzo, lasciandolo alle prese con la paziente più indisponente, urlatrice e nevrotica che gli fosse mai capitato di avere.

Quinn quasi si pentì di aver scelto di fare il medico.

 

Fine prima parte Atto Ventesimo

 

Note di Libretto

*: riferendosi a Viola con “albina” Quinn si vuole fare riferimento ai suoi capelli incolori e la pelle chiara. Ovviamente lui non sa della sua natura di Paradisea e che abitano praticamente tutta la vita al buio. Il fatto che usi questa frase per giustificare una la possibile contrazione di una malattia sta nel fatto che gli albini, cosa risaputa, sono molto cagionevoli di salute e quindi meno protetti da germi e batteri. Giusto per precisare.

 

 

Siamo all’atto 20!!! (trombette e coriandoli entrano in scena dando un’aria di festa allo schermo) Uff, che lavoraccio ragazze. Questo capitolo è non lungo. Di più! Anche se credo la ragione sia semplicemente il fatto che sono tornata a mettere gli opportuni spazi ad ogni paragrafo!

Non mi ci trovavo proprio a fare tuttoooo di seguito. Che dite? Lo stile ne ha risentito in meglio o in peggio? Secondo me in questo modo riesco a dare un ritmo al testo e il lettore non si sente soffocato dalle parole!

A voi il verdetto!

In ogni caso anche qui ho dovuto compiere una divisione, ma sono fiduciosa di aggiornare prima stavolta (ho un buon periodo, sì, ce la posso fare).

Stiamo pian piano entrando nel vivo e ormai è tutto predisposto. Diamo inizio alle danzeeeeeeee!

Vi lascio le domande e spero recensiate numerose nonostante il flop del precedente capitolo!

Domande:

  1. Secondo voi Akainu è riuscito a sterminare tutte le paradisee o alcune, senza contare Arch, Viola, Clarina, Allegra e Agiata, sono riuscite a sopravvivere? (insomma, vi do una possibilità, in fondo anche io detesto far morire i miei personaggi adorati.)
  2. Datemi una canzone con una voce che secondo voi vedreste bene cantata da Arch!

L’ultima è strana lo so, anche perchè nello speciale natale feci dire apertamente da Viola che il nostro beniamino è “pessimo nel canto”, ma mettiamola così: una voce maschile è diversa da quella femminile e Viola non è propriamente la gentilezza fatta a persona. Quindi..

Donne! Votate!

E al prossimo capitolo!

KISS!

TS

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Capitolo 28
*** Atto 20 -seconda parte- ***


Kaikoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 20 - seconda parte-

 

Atto 20, scena 8, Moby Dick

 

Doma ringhiò per l’ennesima volta in tutta la mattina ad uno dei pirati del Bianco, un’altra povera anima incaricata di portargli del cibo, ignorando ostinatamente il gorgoglio che gli stava torturando da una settimana lo stomaco.

Non che non avesse mangiato.

La sua fedele Josephine riusciva sempre a sgraffigniare sia per lui che per lei abbastanza frutta da farlo tirare avanti, ma ormai le sue guance erano scavatissime e le sue gambe tremavano ogni qualvolta tentava un passo di troppo sul ponte di quella odiata nave.

Nonostante fosse ormai passato tanto tempo dalla sua sconfitta ancora il pensiero non lo abbandonava: aveva perso. Di nuovo. Contro il Bianco.

Dopo tanto tempo passato a razziare quanto più denaro possibile, trovare una nave degna di questo nome ed infine incastrare un gruppo di mercenari affinchè lo accompagnassero in una missione suicida, alla fine il risultato era rimasto sempre lo stesso.

Doma non era tipo da accettare le sonfitte. Non lo era mai stato. Era un uomo libero, certo delle proprie capacità ed aggirare anche solo un ostacolo, per quanto piccolo, per lui sarebbe parso come riconoscere un limite.

E un vero pirata, almeno secondo la sua personalissima visione della pirateria, non aveva limiti.

Nemmeno se si trattava di Edward Newgate “Barbabianca”.

La pancia risuonò dolorosamente, facendolo piegare su se stesso con le mascelle strette, e per poco non pensò che qualcuno gli stesse strizzando lo stomaco a mani nude come si fa con uno straccio bagnato.

Ostinarsi a mangiare poco e niente lo stava poco a poco distruggendo.

“Disturbo?”

Avrebbe volentieri risposto con uno dei soliti grugniti rabbiosi alla domanda del nuovo arrivato, che non aveva dubbi fosse un’altro figlio del Bianco, ma un’ennesima fitta lo fece desistere, imponendogli di non sprecare ulteriori energie.

Con la faccia tirata ed un po’ sudaticcia Doma alzò lo sguardo e si stupì nel ritrovarsi non il solito novellino mingherlino che a malincuore veniva inviato per cercare di trascinarlo in mensa.

Davanti a lui c’era niente meno che Marshall D. Teach.

Il motivo per cui lo conoscesse era ovvio: nonostante fosse una figura di poco spicco tra gli uomini del Bianco, era noto, a chiunque avesse avuto l’occasione di leggere quel particolare articolo di giornale, che quell’omone panciuto e dall’aspetto apparentemente innocuo era riuscito in un’impresa non da tutti: aggiungere una cicatrice all’occhio di Shanks il Rosso.

E questo la diceva lunga su quanto fosse pericoloso.

Doma lo accolse con un grugnito meno deciso dei precedenti, vuoi per mantenere più forze possibili, vuoi perchè non voleva rischiare di rendersi nemica una serpe come quella.

“Zehaha.” rise a bocca sguaiata il pirata con fare compiaciuto, il volto disteso in un’espressione tanto distesa da risultare rilassata ed ingenua.

“Calma, calma. Non voglio cercare di convincerti ad unirti alla mensa, se è questo che pensi.”

Questo lasciò Doma perplesso, anche se per poco: non era stato mandato a chiamarlo?

Da sotto la sua fascia, la fronte gli si corrugò con sospetto.

C’era qualcosa sotto.

Quello però continuò imperterrito a sorridere, un sorriso che, oltre a sembrare terribilmente falso, per il Boemo risultava quasi inguardabile. Era come guardare una scacchiera con buchi profondi e oscuri al posto sia delle caselle nere che di quelle bianche, con la sola differenza che una scacchiera non sorrideva e non puzzava.

“Ammiro la tua ostinazione Doma.” Gracchiò l’altro pirata, facendo un passo in avanti al quale lui rispose con un’espressione più ostile. Parve servire a qualcosa fare muso duro, visto che quello si bloccò sul posto, non azzardando un altro passo in più. “Ma non otterrai niente stando qui seduto ad aspettare che uno di noi venga a farti la pelle per pietà.”

Doma si trattenne dal ribattere a tono. Sapeva che, per quanto facessero male, quelle parole erano vere.

Nessuno dei pirati del Bianco si sarebbe preso la briga di porre fine alle sue sofferenze. Aveva dunque solo due opzioni: unirsi a Newgate come suo figlio ed alleato, oppure morire in un angolo della nave di fame e scorbuto.

Una morte onorevole non era contemplata. 

“E cosa dovrei fare allora?”

Si morse la lingua non appena si rese conto della domanda scivolatagli dalle labbra. Dannazione.

Al di fuori del suo campo visivo Marshall sorrise viscido per un istante.

“Stare al gioco..”

Doma lo guardò sprezzante, pronto a ribattergli qualcosa di cui, sapeva, si sarebbe pentito, ma l’altro continuò “... e aspettare l’occasione giusta per rifarti.” 

Per un attimo i rumori dei gabbiani, che si aggiravano a grandi archi attorno alla Moby, infastidirono i pensieri del Boemo, impedendogli di capire al volo quella sottile allusione, ma, quando finalmente ebbe messo insieme i pezzi, sbarrò gli occhi, incredulo.

Gli stava suggerendo di ... comportarsi da vigliacco? A quel punto Doma perse ogni prudenza:

“Va al diavolo.” disse, sistemandosi meglio accanto al parapetto, dandogli così le spalle.

Mai. Mai e poi mai si sarebbe concesso un simile atto di codardia: arrendersi al nemico, giurargli fedeltà era già di per sè un’onta indescrivibile per lui, ma addirittura tradirlo e tagliargli la gola nel sonno...

Solo un debole avrebbe scelto di colpire alle spalle il proprio avversario anzichè faccia a faccia su un campo di battaglia.

E Doma non era un debole.

Teach non fu contento di quella risposta, ma non demorse e, ingoiando il groppone acido che Doma con il suo rifiuto gli aveva provocato in gola, tornò alla carica. D’altronde quello era solo l’inizio.

“Capisco.” sbuffò con fare disinteressato, quasi quello che gli aveva appena proposto non fosse stato altro che una battuta di poco conto e buttata lì a caso. “Ho sentito parlare molto di te. Sei un veterano tra quelli dell’era della Vecchia Pirateria e hai un codice comportamentale tutto tuo.” sorrise ancora una volta amichevole, intercettando un’occhiata sbieca del Boemo.

“E tu che ne sai di un codice d’onore?” chiese il pirata dalla fascia a denti stretti. Questo fu un colpo più duro da digerire per Teach.

“Zehahahahaha!” scoppiò a ridere il grassone, dissimulando perfettamente la propria rabbia e riuscendo al contempo a confondere l’altro. Doveva fare il condiscendente. Doma era il suo asso nella manica, ma sarebbe stato del tutto inutile se non fosse riuscito ad instaurarci un rapporto quantomeno di pacifica conoscenza.

Pazienza. Doveva portare pazienza.

“Hai ragione. Hai ragione. In effetti io sono più un tipo che vive alla giornata. E finchè sto bene e la mia pancia si riempe di crostate, per me non c’è problema. Zehaha.”

Quella che aveva detto non era del tutto falso, ma neanche del tutto vero. Lui aveva vissuto alla giornata per un breve periodo di tempo, vero. Aveva riso e scherzato con alcuni componenti della ciuma del Bianco come se fossero stati suoi fratelli, alcuni gli stavano pure simpatici, ma niente di quello che gli era stato offerto su quella immensa nave dalla polena a forma di balena era mai riuscito a cancellare per un singolo istante il suo unico grande sogno: Conquistare il Nuovo Mondo.

Non come parte di una ciurma, ma come suo padrone assoluto. Imbattibile. Potente. Temuto.

E per farlo, per far sì che tutti, compresi quei vecchi bacucchi rinsecchiti dei Cinque Astri, lo temessero, aveva bisogno di due cose. Un Frutto del Diavolo e una Paradisea.

La sua fortuna che era che una Paradisea portava conseguentemente ad un Frutto del Diavolo. Nel suo libricino di appunti dimenticati, aveva ritrovato anche quella informazione. Quindi sapere che tipo di Essenza avesse il piccolo bignè salito a bordo passava in secondo piano. A lui bastava che fosse potente e che lo conducesse ad un Frutto. Come avrebbe fatto ancora non lo sapeva, ma avrebbe avuto tutto il tempo per chiederlelo a tempo dovuto.

I suoi appunti erano finiti, tutte le informazioni che aveva trovato si limitavano a quello, quindi doveva cominciare ad agire. Tra l’altro Newgate si era messo in testa di fermarsi in un’isola vicina.

Il tempo per agire era limitato.

“Ho sentito che hai conosciuto il nostro ultimo acquisto.” ridacchiò, dirottando l’argomento verso tutt’altra parte, facendo finta di voler soltanto evitare quello del codice d’onore.

Doma abboccò, alzando completamente lo sguardo verso di lui, incuriosito, ma comunque circospetto.

“Ti riferisci alla ragazzina.” era più un’affermazione che una domanda.

Marshall D. Teach si stiracchiò con le braccia all’indietro, facendo di tutto per l’apparire rilassato. Era fondamentale che Doma non sospettasse nulla.

“Sì, il vecchio l’ha racimolata per mare. Era su una nave di schiavi che ha fatto affondare.”

“Affondare?” domandò più stupito che incredulo. Aveva avuto solo pochi secondi di scontro con quella ragazzina, ma doveva ammettere che, anche se completamente priva di un qualunque stile di combattimento, era stata capace di schivare tutti i suoi attacchi, confondendolo in pochissimo tempo come mai nessuno era riuscito a fare. Era inafferrabile.

Non era forte fisicamente. Se lo fosse stata, avrebbe riportato ben più che qualche semplice livido. Per questo si stupiva del fatto che una così gracile creatura fosse riuscita ad affondare una nave di schiavisti che, se ben ricordava, avevano una mole considerevole, dovuta al fatto che i loro “carichi” erano sempre voluminosi e problematici. 

Recentemente a quella gentaglia interessava che la merce arrivasse al mercato viva.

“Già. Non ci crederai, ma quella a quanto pare è una Sirena.” continuò Teach indicando con un pollice il soggetto della loro conversazione, che proprio in quel momento stava passando lì accanto a calvalcioni su una spalla di Jaws, incredibile ma vero con gli zigomi spigolosi alzati da un sorriso. Quella ragazza era incredibile.

Ed era una Sirena?

“Raccontane un’altra.” rispose asciutto il pirata, tornando a lanciare occhiate fiammeggiante a quello accanto a lui. “Durante i miei viaggi ho avuto modo di conoscere una vera sirena e quella non lo è.”

“Oh.” fece con fare sorpreso Teach, formando una “o” con la bocca che di buono ebbe solo il fatto di coprire la sua dentatura malfatta “Non dirmi che non hai mai sentito parlare delle Sirene di Scoglio.”

A quelle parole Doma si rabbuiò di colpo, piombando nei propri pensieri come se fosse stato un neonato a cui avevano appena lanciato di fronte agli occhi una pietra in acqua ed ne era rimasto sconcertato dal tonfo.

Dentro di sè Marshall gongolò. Ormai lo aveva in pugno.

“Quelle sono una leggenda. Una favola inventata da navigatori incapaci per spiegare i propri insuccessi.” disse serio il Boemo guardandolo fisso, sfidandolo a dargli torto. Purtroppo per lui quella era esattamente l’intenzione dell’altro pirata.

“La tua nave è colata a picco. Non lo sapevi?”

Fu con sua grandissima soddisfazione che Doma ricalò nel proprio testardo silenzio, stavolta con gli occhi tondi e increduli. No. Decisamente non lo sapeva. A quanto pare era rimasto al fatto che la sua imbarcazione di fortuna fosse stata abbandonata in mezzo all’oceano senza nè capitano nè equipaggio.

“E’...è stata lei?”

Oh. Alle volte Teach si sarebbe volentieri dato una pacca sulle spalle da solo.

Finse di pensarci su, con gli occhi indirizzati verso il cielo.

“Lei ed il Comandante Ace sono stati gli ultimi a tornare. Quindi sì. Probabilmente è stata lei.”

“Come potrebbe mai il Bianco tenere a bada un pericolo simile allora? Non ha senso!”

Il tono di voce con cui il Boemo era sbottato era basso ed apparentemente piatto, ma disperazione e terrore trasparivano perfettamente dalla sua espressione.

Perfetto.

“Semplice. Alla piccola fa piacere affondare qualche nave di tanto in tanto. E noi le concediamo questo onore tutte le volte che uno come te viene a farci una visitina per la testa del Babbo.”

Quella frase lasciò letteralmente a bocca asciutta il povero pirata zingaro che, non sapendo che altro dire ed in preda forse ad un momento di panico, si ritrovò a boccheggiare con occhi da pazzo.

Ora mancava solo il colpo di grazia. Teach sperò solo di non scoppiare a ridere  sadico e di riuscire a mantenere l’espressione grave e sconsolata che si era imposto. Doveva recitare la sua parte alla perfezione.

“E, detto tra noi...” continuò, abbassando la voce di un tono e guardandosi attorno preoccupato con una mano al fianco della bocca per coprirla. Ne approfittò anche per assicurarsi che Satch non l’avesse visto od osservando. “Quella ragazzina era molto contenta quando ha visto la tua nave colare a picco con dentro l’equipaggio, saltellava di gioia addirittura.”

Doma scoccò un’occhiata di puro terrore alla ragazza, ma, invece di trovarla piena di vita e in vena di scherzi, la vide ciondolare tristemente sulla spalla di Diamond Jaws, come sotto il peso di un profondo dispiacere.

Non gli sembrò affatto contenta e questo gli diede una speranza.

Tornò su Marshall D. Teach con un po’ più di sicurezza:

“Non mi sembra che stia saltellando di gioia.”

“Ah, quello.” rispose velocemente l’uomo mezzo sdentato, continuando a parlare piano, lottando con se stesso per non ridere. Addirittura riuscì a farsi uscire un po’ di sudore dalle tempie. Che maestro. 

“Ci stavo arrivando. Quando ha saputo che Marco ti aveva portato via dalla nave si è letteralmente demoralizzata. A quanto pare sperava di mandare tutto l’equipaggio sul fondo del mare. Te compreso.”

E Doma sbiancò di colpo. Quelle parole misero la parola fine ad ogni resistenza di Doma. Se Marshall D. Teach aveva detto la verità, non solo doveva la vita a Marco la Fenice, ma anche a Barbabianca che chissà perchè avevano deciso di dargli una possibilità e strapparlo dalle grinfie di quel...

Tornò a guardare la ragazza che nel frattempo di era abbracciata ancora di più a Jaws con respiro tremolante, prontamente circondata da sia Marco la Fenice che gli altri comandanti, occupati a consolarla con qualche parola e pacca sulla schiena.

Quella ragazza era ... un mostro

Proprio come narravano le leggende: un mostro dalle sembianze di una ragazza innocente.

E da come la vedeva lui, era riuscita a soggiogare una delle più potenti ciurme al mondo.

Se non fosse stato che aveva colpito ed indebolito Pugno di fuoco con le proprie spade di algamatolite avrebbe anche potuto pensare che in realtà fosse stato proprio il comandante della seconda flotta ad affondare per l’ennesima volta l’imbarcazione di turno con un Hiken.

E invece... era stata lei.

“Beh, io quello che dovevo dirti te l’ho detto. Ora la scelta è tua.”

Non fu tanto la voce a ripotarlo alla realtà, quanto il rumore dei passi pesanti di Teach, detto Barbanera, che si allontanava noncurante da lui.

“Se hai bisogno di me comunque mi trovi sempre nella biblioteca della nave. Terzo piano, terzo corridoio a sinistra scendendo dalle scale.” gli disse velocemente e a lui non rimase che ritrovarsi da solo con i propri pensieri.

Più avanti Marshall stese le labbra in un sorriso diabolico.

Perfetto.

 

Atto 20, scena 9, Hell Glory

 

Kidd ne era certo. Ne aveva abbastanza.

Quei due da quando si erano stanziati sulla sua nave non avevano fatto che combinare casini.

Prima il biondino dalla faccia d’angelo con la sua snervante ritrosia nei suoi confronti, poi la stangona con le sue manie e modi di fare da scaricatrice di porto. Il capitano della Hell Glory credeva di aver toccato il fondo quando Arch Angelo infido gli aveva detto senza giri di parole che si era messo nello sterco di gigante fino al collo, accettando di aiutarli, e invece? Si ritrovava ancora una volta a sopportare gli schiamazzi di quella pazza della Sollevapesi da una delle tante cabine della sua nave, ascoltando insieme alla fatina il resoconto del moccioso di nome Morgan, intento a far uscire più parole di fila possibili in mezzo ai singhiozzi.

“Ha dett...sigh... ha detto che sta per morire signor Arch. Sigh. Io mi sono spaventato. Non fa che...sigh.. sentire male alle braccia, si trattiene a stento ...sigh... dal gridare...”

Kidd non capiva cosa stesse succedendo. E come avrebbe potuto? Il bambino sembrava sconvolto, Quinn da dentro la cabina sembrava star facendo molta fatica per tenere a bada la stangona ed accanto a lui Angelo Infido non faceva una piega, ascoltando con occhi attenti e sottili ogni parola di Morgan.

Sembrava quasi le urla della cugina nella stanza accanto non lo toccassero minimamente.

Il ragazzo a un certo punto alzò una mano e accarezzò con fare rassicurante la testa del piccolo, tuttavia Kidd, dalla sua posizione poteva giocarsi la sua preziosa giacca di pelliccia che quella che aveva in faccia la fatina non era un’espressione rilassata.

Non lo stupì vedere il biondo abbassare con decisione la maniglia della porta ed irrompere nella stanza a passo quasi militare.

Manco fossero stati dei poppanti lui e Killer, insieme ad un altro paio dei suoi che si erano aggregati pur rimanendo leggermente più indietro, si sporsero oltre gli stipiti della porta allungando il collo come delle giraffe, ansiosi di vedere come le cosa stessero effettivamente andando tra Quinn e la sollevapesi.

A Kidd gli si mozzò il fiato nello stesso momento in cui al piccolo Morgan scappò un singhiozzo alla vista di quella scena: nella semi oscurità della stanza il suo medico di bordo e la sua sgradita ospite erano seduti l’una di fronte all’altro su quella che una volta doveva essere stata la branda per dormire, ormai mezza distrutta in ogni sua parte, Quinn cercando in tutti i modi di tenerle ferme le mani e la Sollevapesi grugnendo e scattando rabbiosamente con tutto il corpo tentando di liberarsi.

Al rosso non comprese subito perchè fosse tanto essenziale per il suo compagno medico bloccare i polsi alla ragazza, finchè non gli caddero gli occhi su due particolari: le dita affusolate dell’argentata erano contratte a mo‘ di artigli e sulle braccia, le stesse che Killer aveva fatto sanguinare e marchiato con orrende cicatrici per nulla attraenti su un corpo femminile, scorrevano poche ma già scarlatte linee parallele.

Rantolò un po’ di disgusto e un po’ per pena.

Qualsiasi cosa avesse la Sollevapesi, la stava portando all’autodistruzione.

Dalla stanza poi gli arrivò un odore pesante e ... oh cacchio.

Si coprì il naso con una mano, sentendosi un piccolo conato solletigargli il fondo della gola.

Conosceva bene quell’odore. Era nato in uno di quei pochi dannati posti dove i nobili si stanziavano e ammassavano la loro sporcizia accanto alle case dei poveri comuni mortali, non abbastanza ricchi da permettersi il lusso di un paio di scarpe quantomeno decenti, e, per sporcizia, quei farabutti profumati ed ingioiellati non intendevano solo oggetti o scarti di cibo: delle volte lui ed alcuni dei suoi coetanei si erano imbattuti in veri e propri cadaveri umani.

Quello che gli era arrivato addosso era tanfo di marcio. Tanfo di morte.

Alla vista di Angelo Infido comunque Quinn si bloccò, azzardando un’occhiata verso il nuovo arrivato e per poco non perse la presa sui polsi della ragazza.

Kidd vide solo di schiena il biondo, ma di certo vederlo in viso non sarebbe stato necessario per quello che aveva da dire. Lo guardò fermarsi a pochi metri dal letto, forse neanche uno, ed alzare un braccio teso verso la porta, con tanto di indice alzato.

“Fuori.”

Niente da dire. Quello era un ordine vero e proprio diretto al suo medico, ma stranamente Kidd non sentì la sua autorità di capitano venirne sminuita. In quel momento l’unica cosa di cui si accorse dagli atteggiamenti ed il tono del giovane era che, invece di essere preoccupato, era arrabbiato.

Arrabbiato!

Non appena Quinn fu uscito dalla stanza, Kidd lo fermò dal chiudere la porta con un’occhiataccia e un braccio teso puntellato sull’uscio.

Non aveva intenzione di lasciare troppo spazio a quella signorina con gli attributi opposti.

Finalmente libera salle mani del medico della Hell Glory, Viola poté finalmente sfogarsi su se stessa, scorrendo le mani lungo le sue stesse braccia, come un gatto intento a rifarsi le unghie. La cosa durò, fortunatamente, poco perchè, come preso da un rapsus di rabbia, Archetto si allungò verso di lei afferrandone istintivamente un solo polso.

Mossa inutile comunque. Neanche il tempo di cercare di prenderle l’altro che questa l’aveva già spinto via, facendolo barcollare all’indietro.

Per un attimo lui, Killer e Jackzon poterono vedere l’espressione tesa e forse appena appena contratta di rabbia del biondo, per poi vederlo ritornare con le spalle completamente rivolte verso di loro ed esplodere con una frase mezza urlata: 

Che diavolo stai combinando, Viola??!!

Di nuovo quella lingua. Se non fosse che i suoi sospetti sull’umore della fatina fossero appena stati confermati, si sarebbe anche potuto arrabbiare a sua volta.

Un guaito da parte della sollevapesi provocato da una serie di graffi troppo profondi. Dietro di lui Kidd sentì un paio dei suoi rantolare disgustati. Non poteva neanche biasimarli: nemmeno lui aveva mai visto un simile livello di autolesionismo. Non era come vedere una persona venire uccisa in un colpo solo, a quello, mal che vada, ci si abitua in fretta. Vedere qualcuno ferirsi ed uccidersi lentamente, e con tanto accanimento per di più, avrebbe fatto rivoltare lo stomaco a chiunque.

Dentro la camera l’argentata si costrinse a fermare le mani e ficcarle in mezzo alle coperte, stringendole come se fossero state il collo di qualcuno. 

“Non iniziare la paternale, ugh..bastardino....” ansimò iniziando a stringere senza pietà il collo di chissà quale nemico immaginario. Era tanto occupata nel suo intento da non accorgersi di aver usato una lingua comprensibile a lui ed alla sua ciurma.

Questo però, a quanto pareva, non fece demordere Arch, che cominciò a passeggiare nervosamente avanti e indietro per la stanza, proprio come aveva fatto quando nella sua cabina aveva vuotato il sacco sulla natura dell’orecchino-bussola. 

Credevo ci fossimo già spiegati su questo punto Viola!! Sai bene che in mezzo all’oceano non puoi sopravvivere a lungo!! Perchè ti ostini a fare la testarda!? Dannazione!!! Pensavo che la situazione ti avrebbe fatto finalmente decidere!

La Sollevapesi neanche si degnò di scoccargli un’occhiataccia per rispondergli a tono:

“Smettila di sparare stronzate. Io non accetterò mai quell’Essenza nella mia anima, Arch!!!!”

A quelle parole sia lui che il biondino, insieme probabilmente al bambino-lucertola ed ai pochi elementi della sua ciurma presenti, si bloccarono, sorpresi da quelle parole, anche se probabilmente non allo stesso modo.

Essenza? Anima? - pensò Kidd, rabbuiandosi e non capendo.

Angelo Infido rimase fermo ed in silenzio per un po’, guardando la cugina da un singolo punto della stanza con tutto il corpo teso, quasi si stesse trattenendo dallo scattare in avanti e picchiarla. Non che avrebbe fatto molto comunque, dal poco che aveva potuto vedere il punto di forza di quel bel faccino non era la stamina. Aspettò a braccia conserte che si esprimesse di nuovo con quella lingua incomprensibile.

“Cosa intendi fare? Morire?”

Ecco, questo non se lo aspettava.

Quella frase, oltre ad essere pronunciata nella loro lingua madre, aveva appena confermato che lo stato della Sollevapesi non era dovuto ad una malattia incurabile, ma piuttosto a qualcosa direttamente sotto il suo controllo. Si stava veramente ammazzando da sola, qualunque cosa fosse quest’Essenza che la stangona doveva “accettare nella propria anima”, la stava divorando dall’interno.

L’argentata smise di tendersi dagli spasmi, congelata da quanto gli era stato appena detto. Kidd la vide stringere i denti e voltare il capo dall’altra parte, impedendo a chiunque di guardarla. Archetto si mosse con calma in avanti, mettendosi accanto alla sponda del letto, la testa leggermente china, fissa sulla nuca dell’altra, forse sperando di riuscirle a perforare il cranio e vedere cosa diamine le passava per la testa.

Dannazione. Da quando era diventato un esperto in immedesimazione?

“I miei complimenti Viola. Come al solito non ti smentisci mai.” continuò il biondo sempre con lo stesso tono di voce atono. Nessuna reazione da parte della Sollevapesi.

“Fai tanto la voce grossa, ma alla fine non fai altro che fuggire.” Si piegò sulle proprie ginocchia, riuscendo probabilmente a vederla in viso.

“Perchè rifiuti di combattere?”

Un fagotto di coperte sgualcite e sfilacciate si abbattè sul visino del ragazzo, facendolo cadere all’indietro col sedere. Quel paio dei suoi che si erano aggiunti ridacchiarono per la leggera comicità della scena, lui no. Da non fraintendere che anche lui avrebbe trovato molto divertente quella scenetta, se non fosse stato per la drammaticità intrinseca in tutta quella situazione.

“Sono anni che combatto Arch! Fottutissimi anni!!!” era sbottata alla fine la Sollevapesi, girandosi finalmente verso di loro. 

Aveva il volto rigato da lacrime e si mordeva le labbra in continuazione. Allora anche una donna sguaiata come quella sapeva come piangere. Kidd doveva ammetterlo, ne rimase sopreso e anche Angelo Infido lo fu, a giudicare da come rimase silente per un istante in più del normale, prima di tornare all’attacco con il suo tono sicuro e tagliente.

“No, tu non stai combattendo.” disse tornando in piedi in tutta tranquillità, pulendosi addirittura il retro dei pantaloni. “Tu stai fuggendo. Dalla tua Essenza e anche da te stessa.”

“Quell‘Essenza non sono io. Non sono io! E non ti ho chiamato perchè mi ribadissi quanto io sia stupida e testarda! Sto morendo, Arch! Mi serve un albero! ORA!”

Tremava da capo a piedi. Anche se se ne stava accovacciata sul letto, quasi piegata su se stessa si vedeva quanto fosse prossima allo spezzarsi. Morgan, accanto a lui, non smetteva di guardarla ad occhi sgranati e con le mani davanti alla bocca, impedendo a qualsivoglia tipo di suono di uscire. Addirittura Quinn, spinto da un moto di pena nei confronti del piccolo, gli circondò una spalla con una delle sue mani ossute, sperando così di confortarlo almeno un pochino.

Kidd invece non faceva che analizzare le parole della ragazza, ripetendosele mentalmente come un mantra.

Mi serve un albero. Un Albero? A che diavolo le serviva un albero? Doveva essere uscita di testa.

Angelo infido sembrò non farci molto caso però.

“E’ vero, non sei tu.” disse dopo un momento “..., ma rimane comunque una parte di te, Viola. Anche zia Drama in passato cercò di fare la tua stessa identica cosa e alla fine dovette cedere ugualmente. Ha vissuto molto meglio dopo aver accettato la Paura, ricordi?”

Essenza? Paura? No, ..- si disse Kidd - ..., non sono usciti di testa. Qui c’è qualcosa che ancora non mi hanno detto.

“Ma è morta.” lo contraddisse a denti stretti “Si è lasciata prendere dal panico come suo solito ed è morta per questo.”

“E chi ti dice che non sarebbe successo ugualmente anche se non avesse accettato la sua Essenza?”

A questo Viola non osò ribattere. 

“Viola...” La richiamò il ragazzo rimettendosi accovacciato accanto a lei, esattamente come prima, ma stavolta con un tono stranamente meno severo, quasi dolce. Allora anche lui alle volte sa essere delicato. - pensò Kidd. “Non puoi rifiutarla senza fare del male a te stessa. E’ una parte di te, solo molto più visibile e sovradimensionata. Smettila di fuggire.”

“E’ per questa tua folle e strana teoria che ti abbiamo isolato, bastardino.”

“Preferiresti la mia o la vostra?”

Un ultimo singhiozzo e la Sollevapesi si gettò in avanti sulle poche lenzuola strappate che non era riuscita a lanciargli.

Io non sono la Violenza.” mugugnò come una bambina, sdraiandosi prona sul proprio giaciglio con le ginocchia rannicchiate sotto la pancia.

Archetto annuì, poi si girò e tornò da loro con la solita espressione atona in volto, ma, notò Kidd, con qualcosa di diverso. C’era un’ombra indefinita ad oscurargli il viso dai tratti delicati e seri.

E io non sono il Raziocinio.” 

Non appena Archetto fu fuori dalla stanza, Kidd fu indeciso se sommergerlo di domande, ma l’occhiata che quest’ultimo gli mandò gli impose di rimanere zitto, almeno per ora.

“Dobbiamo fare tappa su un’isola qualsiasi”

Kidd non si stupì tanto: la sua nave non aveva alberi, almeno non vivi, e da come si era espressa l’argentata, per lei era vitale procurarsene uno, qualunque fosse il suo utilizzo.

Sorrise sornione. Lui però non era mai stato tipo da assecondare tanto facilmente una richiesta.

“Dovrai raccontarmi parecchie cose in più, angioletto.” gragghiù con la risata in gola e si guadagnò un’altro sguardo di disprezzo, cosa a cui si era largamente abituato.

“Viola rischia di morire.” specificò con un sibilo tra i denti il ragazzo.

Questa era bella. Da quando il biondino faceva il bravo cuginetto?

“A cosa le serve un’albero?” domandò sempre con un ghigno sulle labbra dipinte.

Arch Angelo Infido parve pensare se risponderglio o meno. Lo vide chiaramente esitare, poi, improvvisamente, girarsi verso Morgan ad occhi lievemente sbarrati.

“A scaricarsi della cosa che la sta uccidendo.”

Kidd ci rimase un po’ male nell’essere snobbato in quel modo, dovette ammetterlo, ma non ebbe la possibilità di arrabbiarsi.

“Morgan!” esclamò di punto in bianco il biondino poggiando entrambe le mani sulle spalle del bambino, così di slancio che per poco il piccolo orientale non saltò per lo spavento.

“S-sì?”

“Nella tua forma animale le squame sono di legno, vero?” domandò sempre come se andasse di fretta. In effetti però la situazione non permetteva certamente di mettersi a bere allegramente una tazza di the con biscotti. 

“S-sì, ma...”

“Trasmutati e fammi vedere dove Viola ti ha strappato le squame!”

Detto fatto, il bambino si allungò in neanche dieci secondi, diventando in poco tempo lo stesso lucertolone affusolato e legnoso che tutte le volte che aveva tentato di intrufolarsi nella cabina della Sollevapesi, l’aveva minacciato a suon di ringhi e fauci spiegate. Ora però, sotto lo sguardo attento e serio di Angelo Infido che frugava sulla sua schiena alla ricerca del danno fatto tempo addietro dalla Sollevapesi, sembrava un semplice animaletto indifeso e spaventato, con le orecchie, appena visibili e spinose, portate all’indietro in segno di sottomissione.

Archetto si rialzò di scatto, proclamando con fare entusiasta, ma senza mai osare un sorriso.

“Trovato!”

Tutti quanti, Killer compreso, si sporsero per vedere cosa avesse trovato di tanto importante.

Tra le squame del bambino rettile, marroni e rugose come la corteccia dell’albero più sano sulla terra, c’era uno spazietto dove alcune erano rimaste staccate a metà e lievemente sfilacciate dall’azione violenta dall’argentata. Kidd ancora non capiva perchè quel bambino si preoccupasse tanto di una che aveva cercato di strappargli di dosso l’equivalente della propria pelle.

Era proprio in mezzo a questo spazietto che, comunque, lui e gli altri della sua ciurma capirono: alcuni di quei filacci di legno non si erano ancora scuriti ed asciutti, anzi, erano bianchi, teneri e tendenti al verde.

Il bambinetto era composto da legno vivo.

Il collo lungo e serpentino del ragazzino si torse, facendo incontrare il volto effemminato del biondo con il proprio da rettile, confuso e con gli occhi gialli pieni di domande.

“Morgan.” gli disse Arch guardandolo fisso negli occhi,quasi l’intera questione dipendesse dal fatto che il piccolo gli prestasse piena attenzione.

“Viola si sentiva meglio quando tu le stavi attorno, vero?”

Morgan annuì un paio di volte, pur non realizzando ancora cosa stesse succedendo.

“Va’ da lei e stalle più vicino che puoi in questa forma. L’aiuterà a resistere fino a che non sbarchiamo su un’isola.”

Finalmente il piccolo fu colto da un lampo di consapevolezza e si gettò a capofitto nella stanza. Kidd ebbe l’impressione che Killer e Quinn si fossero lasciati scappare un sospiro intenerito, non appena il piccolo ebbe attorcigliato le proprie spire legnose attorno al corpo inerme della Sollevapesi.

L’effetto fu immediato. Non solo la ragazza smise di torturarsi le braccia con le unghie, ma si lasciò sfuggire una frase inpensabile per lei, ma probabilmente dettata dal dolore e dalla disperazione:

“Bentornato marmocchio.”

Arch richiuse la porta della cabina di Viola. Interrompendo, con somma gratitudine da parte di Kidd, quello spettacolino smielato.

“Mettiamo in chiaro una cosa, Capitano Kidd.”

Ahia. Aveva usato la sua carica prima del suo nome. Brutta storia.

“Io e Viola non ci siamo mai piaciuti. Anzi, a dirla tutta non ci sopportiamo da una vita e se uno dei due sparisse, l’altro probabilmente non verserebbe neanche una lacrima.”

Kidd alzò un sopracciglio, guardandolo rimanere a testa china sul pomello della porta. Dov’era allora il problema?

“Ma rimane sempre mia cugina. Siamo parte di un’unica famiglia e non potrei guardare nè mia sorella nè tantomeno mia madre in faccia se le succedesse qualcosa. Quindi te lo dico fin da ora, capitano: se Viola muore...”

Occhi cobalto e più insidiosi di un fondale marino si inchiodarono sui suoi.

“... la mia bocca rimarrà sigillata a vita. Anche a costo di morire su questa nave.”

Kidd ghignò.

Prospettiva invitante.

“Killer, Dì a Domb di virare verso l’isola più vicina. Sgranchiamo un po’ le gambe.”

 

Atto 20, scena 9, Moby Dick

 

“TERRA!!!”

Allegra avrebbe tanto voluto saltellare verso il parapetto e godersi la vista dell’isola su cui avevano deciso di fare scalo, ma l’unica cosa che ottenne da se stessa fu affondare ancora di più la testa tra le mani, sentendo al suo fianco Jaws guardarla affranto, mentre la teneva in equilibrio sulla propria spalla.

“Andiamo scricciolo.” fece Satch accanto a lei, ma non osò muoversi neanche per guardarlo: Satch era troppo bravo a convincerla a sorridere, specie quando indossava quell’espressione che tanto le ricordava quella di un cane singhiozzante sulla gamba del padrone nel sentirlo triste. “Non puoi continuare a torturarti in questo modo. E’ stato un incidente. Punto. Non potevi mica evitarl-”

“Sì che potevo invece Satch.” lo interruppe, circondando Jaws con le braccia. Respirò profondamente e buttò fuori un po’ d’aria, ricordandosi di tenere basso il tono di voce.

“Ho provocato la morte di altri innocenti. Potevo starmene zitta, potevo...” gli occhi le punsero più forte di prima e la gola le si strozzò al pensiero di cosa avrebbe voluto dire.

Potevo rimanere su quella nave di schiavi.

Una mano le si posò sulla schiena, strofinandogliela con fare rassicurante. Le venne in mente la prima volta che Archetto si fece male a un ginocchio, inciampado in una radice sporgente, e si rannicchiò su se stesso, rifiutandosi di ammettere di sentire dolore, nonostante gli evidenti lacrimoni, che a detta sua erano di rabbia. Ricordava di essere rimasta  con lui fino a mattina inoltrata ad accarezzargli la testa e pulirgli la ferita. Si rese conto che suo fratello non aveva mai, neanche una sola volta nella propria vita, aperto bocca per lamentarsi delle proprie sventure. 

Buffo. Da quando la sua mente si era sbloccata notava più cose, rivivendo i propri ricordi. Coglieva particolari minimi, riviveva situazioni famigliari, eppure così estranee. A volte di notte si svegliava e non riusciva più a riaddormentarsi, sconvolta dalla senzazione di star ricordando, anche nei sogni, la vita di qualcun’altro.

Dopo aver ripercorso con la mente la fine delle sue parenti, la scomparsa di sua madre e la pressochè impossibile fuga di lei, Viola e Archetto da Nido Leila si era spesso ritrovata a gironzolare dalle parti dell’infermeria e delle stanze di Oyaji, premunendosi accortamente di un qualunque volume, quasi sempe di medicina, per potersi giustificare col fatto che le piacesse leggere e camminare al tempo stesso.

Non riusciva a trovare il coraggio di andare da Oyaji e raccontargli tutto. Qualcosa gli diceva che avrebbe causato qualcosa di brutto se l’avesse fatto. Eppure doveva dirgli qualcosa. Non poteva stare per tutta la vita a rimuginare e piangere sul suo passato senza dire nulla all’uomo che le aveva offerto protezione, oltre che salvato la vita.

La mente dirottò verso Archetto, precisamente al giorno in cui l’aveva spinto fuori dalla nave di schiavi insieme al bambino per salvargli la vita.

Chissà cosa stava facendo il suo fratellino? Se la sarebbe cavata? E Viola sarebbe stata in grado tenersi lontana dai guai? Persino il bambino che aveva salvato ed affidato ad Arch era entrato nei suoi pensieri.

Come si sarebbe trovato con Viola? Lei detestava gli umani. Poteva a malapena soffrire Archetto, figuriamoci quel piccolino che nulla di male aveva fatto se non implorargli di tirarlo fuori dalla gabbia angusta in cui era stato rinchiuso.

Ricordava troppo bene la prima volta che l’aveva visto. Nel buio del buio totale della stiva piena di schiavi, i suoi occhietti neri sembravano brillare di luce propria attraverso le sbarre. Allegra aveva addirittura creduto che, anche senza le sue fiamme a schiarirgli gi occhi, sarebbe stata comunque in grado di distinguerlo anche nell’ambiente più cupo.

Era stata la sua voce disperata, più di tutti gli altri sventurati nella sua stessa condizione, però a smuoverla:

O-onee-san. O-nee-san, ta-tasukete, kuda-sa-sai. Kudasai.

S-sorellona. S-orellona, sa-salvami, t-ti prego. Ti prego.

Allora ancora non conosceva il significato di quelle parole, ma ripensandoci, non sbagliò molto nell’interpretarle.

Era stata una richiesta d’aiuto chiara e semplice. 

Nessuno oltre a lui aveva espresso il chiaro desiderio di essere salvato, forse avendo perso ogni speranza, eppure lui lo aveva fatto: aveva teso la sua manina gracilina ,ma ancora morbida, attraverso le sbarre della propria gabbia e l’aveva chiamata a sè, implorandola di restare, di non abbandonarlo a quel destino, a quella gabbia, che lui sapeva di non meritare.

Aveva liberato solo lui. Gli altri alla sua vista non avevano reagito bene, anzi, uno aveva addirittura cercato di attaccarla, facendo per scontrarsi su di lei a denti gialli spiegati, intimandogli con sguardo folle di non avvicinarsi.

Lei aveva fatto come suggeritole e se n’era andata senza voltarsi, solo Arch e il piccolino al suo seguito.

Dopo essere stata catturata però le cose erano cambiate. Aveva assaporarto il gusto amaro, quasi vomitevole, della prigionia, si era ritrovata nella stessa situazione di quegli sventurati a cui aveva voltato le spalle, aveva sperimentato la loro stessa disperazione, arrivando, proprio come loro, a perdere ogni speranza.

E ora, di tutti loro, solo lei era sopravvisuta, per lo stesso motivo che aveva fatto colare a picco la nave di Doma il Boemo.

Aveva chiamato un Re, e per il suo errore altri innocenti avevano rimesso la vita.

Di nuovo. 

“Su scricciolo, su.” la richiamò ancora Satch e lei si riscosse.

Non ce la faceva più a piangersi addosso in quel modo patetico. Cercando di essere il più delicata possibile, si allontanò dalle mani dell’amico e scese con un salto dalle spalle di Jaws.

“Dove vai?” le chiese la voce di Marco con fare preoccupato, ma ormai lei era partita a razzo.

Doveva trovare Doma.

 

Atto 20, scena 10

L’isola su ci stavano per attraccare faceva parte di un minuscolo arcipelago della Grande Rotta.

Era una semplice coppia di isolette aguzze ed inclinate verso l’esterno che, a lungo andare, avevano preso il nome di “Corna dell’Orco”, complice infatti la loro forma simmetrica e perfettamente speculare. Qualcuno narrava addirittura fosse stato lo stesso Gol D. Roger, durante uno dei suoi epici scontri con Edward Newgate a causare la rottura dell’isola originaria, portando alla formazione dell’attuale e bizzarra conformazione geologica.

Barbabianca non aveva mai nè confermato nè smetito simili dicerie, lasciando sia i suoi figli che i suoi rivali con uno dei suoi soliti ghigni ambigui a fare da risposta.

A dispetto però del nome minaccioso, comunque, la gente dell’Arcipelago delle Corna era conosciuta per l’essere una delle più ospitali della Grande Rotta.

Nessun problema economico, nessuna escursione da parte di pirati. Insomma, sembrava che insieme alla all’unità dell’isola originaria, se mai c’era stata, a dissolversi fosse anche stato il suo campo magnetico, rendendola irraggiungibile o comunque non facilmente individuabile per mezzo di qualsivoglia Log Pose.

Questo aveva quindi portato a molti vantaggi. Nel loro viaggio alla volta del Nuovo Mondo, le Corna dell’Orco erano  meta di scalo non prevista  dai bucanieri e la Marina era sempre troppo occupata ad andare dietro alle bandiere nere per prestare attenzione ad un paio di isolette sprovviste di campo magnetico.

A chi interessava poi? Del resto bastava che pagassero le tasse, no? Finchè i tributi venivano versati periodicamente, il problema non sussisteva.

A Marshall personalmente la cosa non toccava minimamente, ma la vicinanza di quell’arcipelago stava ormai cominciando a fargli venire i nervi a fior di pelle.

Era da un bel po’ di minuti che gironzolava nella biblioteca, facendo finta di interessarsi ai libri ivi contenuti e di Doma il Boemo ancora nessuna traccia.

Che la sua tattica avesse fallito?

Stando ai suoi calcoli il pirata dalla fascia sarebbe già dovuto presentarsi in biblioteca col fiatone parecchi minuti prima.

Che cosa lo stava trattenendo? E se qualcuno lo avesse intercettato e gli avesse spiegato come effetivamente stavano le cose e che la faccenda del naufragio della sua nave  era stato solo un incidente? In quel caso avrebbe fatto meglio a levare le tende il più in fretta possibile, preferibilmente con il pasticcino luminoso svenuto e sottobraccio.

Argh. Ma che andava blaterando a se stesso?! Con i due comandanti della Prima e della Seconda Flotta sempre a ronzarle attorno, per non parlare di Satch che dal giorno che aveva saputo del suo attacco nei confronti della piccola era diventato peggio di un cane da guardia, sarebbe stato impossibile prenderla e portarla via senza che qualcuno lo vedesse o che, per lo meno, se ne accorgesse giusto in tempo per riprenderlo e metterlo sotto chiave.

Sospirò e si strofinò il viso unticcio con entrambe le mani, stando chino sull’ammasso di libri accatastati alla rinfusa attorno a lui per dare l’impressione a Doma di essere impegnato in tutt’altro, semmai si fosse presentato.

Deve presentarsi. - ringhiò a se stesso - Altrimenti tutto andrà a puttane.

“Marshall D. Teach?”

Alzò lo sguardo immediatamente, puntando gli occhi tondi e mezzi intontiti oltre la pila di libri che aveva raggruppato attorno a sè, verso l’entrata principale dell’enorme stanzone, e faticò per non farsi sfuggire un sorriso di vittoria sdentato.

Contrasse gli angoli della bocca in modo tale da far apparire la sua espressione più distesa ed innocente possibile.

Non voleva certo che la sua nuova pedina scappasse via prima ancora di cadere completamente nella rete.

“Doma! Che sorpresa! Zehaha! Non pensavo di vederti così presto!” si fermò, assumendo un’aria dubbiosa “Ma non hai ancora mangiato? Sei stravolt-.”

“Come ci si libera di una Sirena di Scoglio?”

Teach allungò il volto, fingendo sconcerto, ma in realtà nella propria mente saltellava come un bambino.

“Come prego?”

Il pirata dalle guance segnate indurì lo sguardo e fece qualche incerto passo in avanti, ritrovandosi in poco tempo seduto su uno dei divanetti col fiato corto ed una lieve, ma pur sempre visibile, nota di sollievo nei lineamenti.

“Ha messo praticamente in ginocchio tutta la ciurma.” disse con la lingua mezza impastata dalla fame per poi lanciargli un’occhiata da sotto la mano che si era posato sugli occhi “Non dirmi che non te ne sei accorto.”

Teach non rispose e rimase ancora un po’ con la faccia stupita.

Nel frattempo il Boemo si era messo seduto e a gambe divaricate sulla poltroncina, schiena china in avanti e mani intrecciate, un cipiglio grave ad indurirgli il volto affaticaso ed un poco più spunto di quando era salito sulla Moby.

“La Fenice,Pugno di Fuoco, Diamante, persino il Diplomatico* e Spada Fiorita... sono così presi da lei da non rendersi conto di quello che sta accadendo.” prese un respiro profondo “Una volta Newgate e la sua ciurma non avrebbero mai permesso ad un membro della ciurma di ammazzare fino all’ultimo uomo della nave avversaria per il semplice gusto di farlo.”

Ci fu una breve pausa in cui il Boemo ci coprì ancora una volta gli occhi, forse per stanchezza.

“Quel mostro li ha stregati tutti dal primo all’ultimo.”

“Zehaha!” esplose Marshall buttandosi all’indietro sullo schienale della sedia, tenendosi la pancia con espressione soddisfatta.

Doma lo fulminò. 

“Puoi darmi del pazzo se vuoi. Non importa. Farò in modo che Newgate si svegli e si accorga di cosa quel mostro dalle fattezze umane gli sta costringendo a fare.” Lo zingaro si alzò un po’ traballante da dove si era seduto e fece per andarsene. “Con o senza il tuo aiuto”

Teach lo seguì con lo sguardo. Mostro dalle fattezze umane? Addirittura? Oh, ma perchè aveva scelto di fare il pirata e non il truffatore di professione? Era un talento naturale!

“Ehi ehi! Aspetta! Che vuoi fare!?” Scattò in avanti con la mano tesa, facendo finta di volerlo fermare in preda al panico “Oyaji non ti darà mai retta!! Credi che sarei qui a cercare una soluzione in mezzo a questi libri polverosi se non ci avessi già provato?”

Come previsto, Doma si voltò, cautamente per non rischiare un giramento di testa, con occhi stralunati.

“Tu...?”

Non serviva che gli lasciasse finire la domanda.

“Sono settimane...” sbuffò riaffondando la testa tra le mani con fare disperato “... che cerco di far riaprire gli occhi a tutti, ma nessuno mi da retta.In qualche modo sembro essere l’unico a non essere caduto nel tranello della signorinella. L’ultimo con cui ho provato a parlarne è stato Satch e sai cosa ho ottenuto?”

Si alzò piano dalla sedia e, sotto gli occhi attenti e sbalorditi del Boemo, si alzò di poco la maglietta, rivelando il livido violaceo che il comandante della quarta flotta aveva lasciato con il suo piede sulla sua pancia flaccida.

Riabbassò immediatamente l’indumento, gustandosi la faccia boccheggiante dell’altro.

“E questo era solo un avvertimento. Non oso immaginare cosa farebbe l’intera ciurma, se andassi a sbandierare questa cosa in mezzo al ponte.”

Ecco che il volto smunto di Doma impallidiva di nuova paura. Era fatta.

“Che cosa proponi di fare?”

Si lasciò sfuggire un sorrisetto.

“Stiamo per sbarcare su una delle due Corna dell’Orco.” rivelò, tornando alla scrivania e richiudendo di scatto uno dei libri che aveva lasciato aperto. “Dovremo agire lì appena sbarcati.”

Oh, non stava più nella pelle.

 

Atto 20, scena 11, Hell Glory

“Corna dell’Orco?”

A Kidd faceva sempre uno strano effetto vedere Angelo Infido fare una domanda, non proprio aperta in quel caso, ma almeno si poteva definire diretta. Da lontano le punte sbilenche delle due isole in questione fendevano già l’orizzonte e da qualche parte sul ponte Eustass sentiva già levarsi qualche sospiro di sollievo.

Era stata una fortuna trovarsi da quelle parti. Le Corna dell’Orco era una delle mete più sicure della Grande Rotta, specie per i pirati che vi avessero già fatto tappa come loro, anche se nel loro caso era stato più una specie di naufragio che altro: una tempesta gli aveva colpiti così alla sprovvista una volta che si erano ritrovati spaesati e con il senso dell’orientamento andato completamente a puttane.

Già, perchè non solo loro, dopo essersi riforniti delle opportune scorte di polvere da sparo e vivande erano ripartiti con le tasche meno piene del dolce e rassicurante peso di bery, ma si erano anche accorti di aver scelto di tornare indietro seguendo la pista del loro Log Pose! In pratica la tempesta gli aveva fatto guadagnare chilometri di vantaggio sulla via per la Red Line e loro avevano fatto marcia indietro come degli imbecilli!!

Il solo pensiero gli faceva digrignare ancora i denti per la rabbia.

“E’ un arcipelago con due isole a quattro stagioni. Una delle poche.” spiegò Quinn seduto accanto a lui sul parapetto della nave come se nulla fosse. Ecco un’altra cosa che Kidd trovava snervante: com’era che l’angioletto si lasciava avvicinare così serenamente dai suoi subordinati e invece a lui toccavano solo occhiatacce e minacce di morte? Che colpa aveva lui se il suo aspetto era tanto delicato da indurlo a cercare di scoparselo? Che andasse a lamentarsi dalla cuginetta che non si lasciava avvicinare e dalla mammina che gli aveva dato quel bel visino!

Cazzo. Doveva trovarsi una baldracca non appena sbarcati, possibilmente abile e costosa: al diavolo la parsimonia!

“Non dirmi che non ci siete neanche passati, angioletto.” ridacchiò punzecchiandolo volutamente.

Subito lo sguardo atono e blu intenso del ragazzo lo puntò. Kidd ancora non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che degli occhi fossero tanto blu. Per la miseria, sembravano dei cobalti di prima qualità!

“Abbiamo fatto un giro lungo.” disse il ragazzo con indifferenza, guardando poi dietro di sè, osservando le Corna emergere via via sempre più da lontano. In quel momento una leggera brezza marina gli scompigliò i capelli, portandoglieli all’indietro, ma lui non ci fece caso, continuando a guardare le due isole senza fare una piega. 

Kidd invece aveva altro a cui pensare. Non riusciva ad inquadrarlo. Pazzesco, di solito lui non si faceva tante seghe mentali su un ragazzino dalla pelle d’angelo e gli occhi color dell’oceano. Solitamente un tipo così se lo sarebbe cercato di scopare in tutti modi e basta. Allora perchè tutte le volte che lo guardava non poteva fare a meno di rimanerne affascinato? Era come avere di fronte... sì ... ecco. Era come una di quelle pazze ed incomprensibili formule matematiche che l’insegnante del loro villaggetto sperduto aveva cercato più di una volta di inculcargli, scrivendogliele e riscrivendogliele col gesso vecchio e pastoso su una lavagna di ardesia mezza rotta e crepata, forse nella speranza che le memorizzasse.

Ricordava che all’epoca lui non passava molto tempo sui libri, figuriamoci sull’aritmetica, ma quelle poche volte in cui si ritrovava, suo malgrado, di fronte quelle scritte bianche su nero non poteva fare altro che lasciare i suoi robottini fatti a mano e stare a fissare la lavagna per ore. Kidd non lo avrebbe mai ammesso, ma a quei tempi la matematica lo irritava perchè era semplice, come aveva ribadito più e più volte la sua insegnante, ma al tempo stesso per lui era incomprensibile.

E questo lo affascinava

Lui, del resto, era un pirata: attratto per definizione dall’ignoto e dall’incomprensibile. Se non lo fosse stato non si sarebbe mai messo per mare.

Arch Angelo Infido era quindi per lui l’equivalente di un’equazione matematica: logica, indecifrabile e ...

Forse accortosi di essere osservato, le iridi blu di Archetto saettarono verso di lui.

...Terribilmente problematica. Forse avrebbe fatto bene ad aggiungere un’altra condizione sulla lista della baldracca da cercare: occhi il più azzurri possibile. Giusto per lo sfizio.

“Che cos’è quella?”

Non capì subito a cosa alludesse il biondo, ma bastò la voce di Killer per fargli più o meno dove guardare.

“Kidd.” asserì il Massacratore con tono allarmato.

Non era un granchè come frase. Anzi, non poteva neanche essere definita come tale, ma tanto tempo passato insieme si poteva dire che lui e il suo vice avessero raggiunto un livello di simbiosi non da tutti.

E poi una nave con la polena a forma di balena bianca grande il triplo di un normale veliero della marina non è una cosa che si può semplicemente “non notare”.

“Merda.” scattò in piedi mettendo in allarme anche l’angioletto, che di istinto infilò una mano sotto il gilet.

“Marina?” chiese il ragazzo del Nuovo Mondo. Gli avevano anche spiegato cosa fossero i Marines già che c’erano. Giusto per fargli sapere che nella Grande Rotta il razziare e provocare morte di gente innocente non era una prerogativa dei soli pirati. Ad Eustass era pure sembrato che conoscere i dettagli di quella distinzione avesse allentato un po’ la tensione tra lui e la ciurma.

“Che ci fa Barbabianca nell’Arcipelago delle Corna?” disse uno dei suoi un po’ preso dal panico.

Lui avrebbe voluto saper rispondere, ma quella era anche la sua domanda.

Quelle due isole non erano territorio del Bianco. Edward Newgate, nonostante fosse legato da alcune leggende alla formazione di quelle due isole, non ne aveva mai reclamato il possesso.

Che avesse cambiato idea?

“Kidd.” lo chiamò Killer, accostandosi a lui “Che si fa?”

Lui continuò a guardare la natura delle sue preoccupazioni. Era molto lontana rispetto a loro. Se andava bene doveva trovarsi a più di due nodi di distanza e dirigeva sul Corno Destro.

Rimaneva solo una cosa da fare.

“Puntiamo sul Corno Sinistro! Non voglio rogne con il Bianco e la sua ciurma di pazzoidi. Almeno, non oggi!”

Una volta eseguito, con grande sollievo, l’odine impartito la ciurma si rilassò, tornando alle propie mansioni quotidiane.

Solo Archetto però continuava a fissarlo dubbioso. Ancora quei dannati occhi blu.

“Chi è il ‘Bianco’?”

Lui poggiò i gomiti sul parapetto, sorridendo sornione.

“Ti costerà una domanda bonus, angioletto.”

Il ragazzo lo guardò intensamente, forse indeciso sul da farsi.

“Affare fatto.” decretò poi con immensa gioia di Kidd che, se possibile, stese un po’ più all’insù gli angoli della bocca.

“E’ il più potente pirata al mondo. Scatena terremoti ed ha una ciurma di più di mille uomini.”

Gongolò tantissimo nel vedere gli occhi sottili dell’angioletto allargarsi di stupore. Ora però era il suo turno.

“Ora tocca a me, angioletto.” disse e di nuovo quei dannati cobalti tornarono sottili e taglienti.

“Spara.”

“Sei vergine?”

Nel bloccare a mezzaria uno dei coltellini di Angelo Infido, impedendogli di penetrargli in mezzo alle gambe, Kidd fu soddisfatto di concludere un po’ di cosette.

Primo: L’angioletto assomigliava molto a Trafalgar per certi aspetti. E questo giocava a suo favore.

Secondo: Aveva la mania di puntare ai suoi gioiellini per punirlo.

Terzo: La baldracca che avrebbe cercato sarebbe dovuta essere, al diavolo l’abilità e l’esperienza, assolutamente vergine.

Giusto per lo sfizio. 

 

Atto 20, scena 12

“Che diavolo ti è saltato in testa Garp!!??”

Il lumacofono sulla sua scrivania sbraitò contro di lui con occhi venati, sputacchiando un po’ di bava di qua e di là. Era da un po’ che non assisteva ad una sfuriata di quei livelli da parte del Buddah. Solitamente si sarebbe limitato ad insultarlo di brutta maniera e poi chiudere di netto la conversazione, ma oggi stava dando il peggio di sè.

Si riparò il viso dietro le mani incrociate dinanzi a sè, nascondendo alla bene e meglio l’espressione da vero e proprio cane bastonato. Quella lumacofonata proprio non ci voleva.

“Quant’è grave la situazione?” osò chiedere  con gli occhi chiusi dietro le proprie mani, quasi pregando.

Un breve silenzio e la lumaca da comunicazione tornò a sputacchiare.

“Tu che dici? Hai fatto irruzione negli appartamenti di un tuo superiore e poi te la sei filata via senza neanche fare rapporto!”

Oh, già. Il rapporto.

“Come credi che stia reagendo l’intero Quartier Generale?!? Non c’è un corridoio in cui non si parli di te e Dio solo sa quante voci stiano correndo  sul tuo conto!! Dannazione Garp!! Non posso proteggerti anche dai pettegolezzi! Quelli sono fuori dalla mia portata e Akainu è molto influente con i Cinque Astri, lo sai!!”

Lui rimase in silenzio. Che altro poteva fare? Sapeva a cosa andava incontro aiutando Clarina Sassonia a fuggire, ma questo superava la sua immaginazione. Cane Rosso non aveva scherzato quando lo aveva avvertito. Se non in un modo, lo avrebbe distrutto in un’altro. Grazie a Dio comunque su Koby ed Hermeppo non girava alcuna strana voce. L’ammiraglio Rosso aveva accuratamente evitato di citare in alcun modo la fuga di qualcosa o qualcuno dalle proprie stanze, facendo passare le sue azioni come un semplice atto di insubordinazione ai massimi livelli.

In pratica, aveva intenzione di condannarlo per alto tradimento.

L’unico a rischiare era soltanto lui per il momento e i suoi subordinati non erano stati toccati dalle malelingue che quel vigliacco vestito di rosso aveva sparso in giro. Questo, benchè strano da sentire, lo rassicurava.

“Garp.” lo richiamò di nuovo Sengoku, stavolta con voce calma “Che diavolo è successo quel giorno?”

Sospirò e, senza pensarci due volte, vuotò il sacco. Lui e Sengoku erano amici di vecchia data e, carriera o non carriera, carica o non carica, lo sarebbero sempre rimasti. Non c’era altra persona sulla faccia della terra di cui potesse fidarsi.

Mentre parlava di quello che aveva visto, sentito ed ipotizzato il lumacofono, uno di quelli un po’ più piccoli del normale che garantivano una linea sicura, non fece una piega, ascoltando pazientemente fino all’ultima parola.

“Una paradisea?” concluse alla fine interdetto l’oggetto di comunicazione, mimando lo stesso cipiglio pensoso che in quel momento doveva aver assunto il Buddah.

“Più di una Sengoku.” lo corresse il marine dai capelli grigi continuando a tenere la testa china verso la scrivania “Una è al sicuro tra gli uomini del Bianco e altre due sono già apparsi sul giornale. Arch Angelo Infido e Viola La Sollevapesi.”

“Impossibile.” lo contraddise perentorio il lumacofono “Le Paradisee sono tutte donne, non..-”

“E’ un ibrido.”

La mascella viscida dell lumacofono si allentò per un istante.

“Lo sai cosa potrebbe significare, Garp.”

Lui annuì, senza bisogno di altro. Figlio di un pirata. Era l’unica spiegazione possibile e ciò non giocava a loro favore. Se Akainu avesse malauguratamente collegato il ragazzo alla madre fuggita dalle sue grinfie non ci avrebbe messo molto a catturarlo ed usarlo come esca.

“Sengoku...” 

avrebbe tanto voluto alzare la testa e confrontarsi con l’aggieggio che lo fissava con occhi tondi e seri, ma il peso invisibile che avvertiva sulle spalle era troppo per lui.

“Quella donna e i suoi figli vogliono solo vivere in pace.”

“Come tutti, Garp.”

La sentenza finale arrivò con un sospiro mezzo ringhiato e mezzo ridacchiato.

“Hai sempre avuto un debole per le famiglie disastrate, vero Garp?”

Il vice ammiraglio ridacchiò con l’amaro in bocca.

“Eredità che mi viene da quello sciagurato di mio figlio, Sengoku.”

Un’altro sospiro, stavolta più pesante e meno incline a sdrammatizzare.

“Cercherò quante più informazioni possibile sulle Paradisee e proverò a limitare gli effetti di questo casino come posso.” disse il lumacofono prima sconsolato, poi deciso e servero di colpo “Ma ti voglio qui il più presto possibile. Metti al sicuro quella donna e poi precipitati qui. Non lascerò quel che quel figlio di cagna ti rovini per un boiata simile. Intesi?”

“Dannatamente sì.”

E chiusero la comunicazione.

 

Fine seconda parte Atto Ventesimo

 

Siamo a cavallo belle bimbe! Ho ufficialmente superato me stessa: 19 pagine e in più ho dovuto aprire un 4° file di testo su word perchè i precedenti erano troppo lenti!

Finalmente questa parte è andata. Avvincente, ma sono contenta di aver messo la parola fine anche  a questo capitolo.

(si accascia)

Cribbio come sono stanca. Datemi un letto un disco jazz, una tazza di the inglese fumante e non mi vedete più!

A parte gli scherzi. Spero vi sia piaciuto questo capitolo e con non abbiate dovuto soffrire troppo l’attesa!

Ora vi lascio alle Domande, alle Note di Libretto e ad una nota mia personalissima che ho voluto aggiungere alla fine, giusto per sicurezza.

Domande:

  1. Quante di voi sanno che sono su Deviantart e sono andate a guardare i miei disegni? XD

ok... questa non vale.

  1. Suggerimenti liberi sul destino di Arch e Viola!
  2. Suggerimenti liberi su romanticherie tra Allegra e Marco!

 

Molti suggerimenti liberi oggi... -_-

Rimediamo!

  1. Chi vuole una dimostrazione canora da parte delle nostre paradisee?

Donne! Votate!

 

Note di Libretto

*Il Diplomatico: con questa espressione Doma si riferisce a Satch, il soprannome che ho deciso di affibbiare al nostro beniamino preferito. X3 Oda mi ammazzerebbe se lo sapesse, ma chisseneeeeeeeee!! Comunque in giapponese la traduzione sarebbe Gaikookan. Perchè Oda me lo ha dovuto far uccidereeeee!! Teach! Sei un mostro!!! X((

 

D3CL41M3R P3R50N4L3:

Notare bene che anche se nell’ultima battuta ho fatto dire a Kidd che avrebbe cercato una prostituta vergine io sono CONTRARIA ALLA PROSTUZIONE, quindi non veniate a dirmi che se metto simili frasi sono una depravata o simili. La prostituzione è una realtà anche peggiore di quella che ho descritto per mezzo di Eustass caro, quindi non veniate a rompere le balle a me con messaggi offensivi chiunque voi siate perchè questi verranno opportunamente snobbati e cestinati. Avviso terminato! ^^

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Capitolo 29
*** Atto 21 -prima parte- ***


 

Kaikoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 21 - prima parte-

 

Atto 21, scena 1, Corno Sinistro

 

Il Corno Sinistro dell’Arcipelago delle Corna non era certamente un posto problematico dove attraccare una nave. 

Durante la sua ultima visita Kidd e la sua ciurma avevano addirittura avuto l’imbarazzo della scelta. Nonostante la morfologia apparisse inospitale da lontano, infatti, l’isola era dotata di una lunga linea di costa che, oltre a permettere di calarsi direttamente in acqua con le scialuppe senza nemmeno il pensiero di qualche insidia sommersa come scogli o altre diavolerie, era dotata di una serie ridicolmente vasta di insenature e nascondigli funzionali a qualsiasi tipo di imbarcazione, anche ad una delle dimensioni della Hell Glory.

A Kidd la cosa era puzzata parecchio la prima volta.

Il sospetto di doversi trovare da un momento all’altro braccato da uno stuolo di marines scalpitanti e capitanati da quella perseguitatrice di Hina non lo aveva abbandonato per neanche per un istante, finchè non aveva dato un’occhiata più da vicino alle bancarelle della piazza mercantile che dava sul porto.

Le sue preoccupazioni erano volate via, sostiuite da uno dei suoi soliti sorrisi sghembi.

Sui banconi e nel retro bottega di almeno la metà dell’intera piazza trionfavano casse su casse della più svariata quantità di sostanze ed oggetti illegali. Non gli era stato difficile fare due più due e capire su cosa in realtà si basasse maggiormente l’economia dell’arcipelago.

Un Mercato Nero, non rintracciabile dalle rotte convenzionali, sicuro e completamente esposto alla luce del sole.

Per non dire dotato anche di posti extra, “disposti” per lo più per chi non volesse rischiare in una sfortunata capatina della Marina.

Kidd guardò la vegetazione volutamente rigogliosa che cirocondava l’insenatura dove si erano infilati. Osservando bene nei pochi spazi sgombri e tra un albero e l’altro era addirittura possibile distinguere i segni  di un precedente passaggio umano.

Non era nuovo nel notare quelle piccolezze su quell’isoletta all’apparenza innoqua, ma andiamo... un Mercato Nero?Roba da matti.

Il cigolio della passerella che veniva abbassata lo distolse dai suoi pensieri.

Vide la Sollevapesi ciondolare pericolosamente in avanti e riacquisire all’ultimo l’equilibrio grazie alla presenza del marmocchio-drago che si posizionò davanti a lei in modo tale da imperdirle di ruzzolare malamente lungo la scaletta appena posta dinanzi a loro. Con un grugnito trattenuto, vide l’argentata aggrapparsi a pugni chiusi alle scaglie di Morgan e cominciare a scendere dalla nave con passo incerto e tremante.

Vedere la Sollevapesi scendere dalla sua nave tanto malridotta e debole gli faceva uno strano effetto. Non che ne provasse pena, poichè gli era già capitato di vederla in fin di vita, ferita tra l’altro dalle lame di uno dei suoi stessi uomini, ma questo caso era ... diverso.

L’argentata anche se curata abilmente del cugino era guarita senza problemi, ad un ritmo che avrebbe fatto strabuzzare gli occhi a qualsiasi dottore - e non solo a Quinn, che la prima volta che aveva visto la ragazza muoversi come una forsennata dopo poco più di un giorno era rimasto basito sul ponte della nave a guardare l’oceano con aria abbattuta.

Questa situazione invece era completamente assurda.

La stangona non era ferita, non presentava né grosse perdite di sangue né lesioni che potessero far sospettare qualche danno interno.

Eppure stava, nel vero senso della parola, marcendo.

Come una mela matura cotta al sole.

Con la coda dell’occhio scorse la capigliatura bionda di Angelo Infido e spostò la propria attenzione su di lui. Lo vide indossare la solita maschera seria ed imperturbabile, poggiarsi al parapetto con entrambe le mani e guardare insistentemente la cugina, quasi indugiando prima di aprire bocca.

“Viola..?” tentò, guadagnandosi un’occhiataccia di sottecchi ed un ringhio strozzato.

“Resta. Qui.” scandì con prepotenza poi la ragazza, voltandosi e continuando la propria difficile marcia verso la terra ferma.

A quella scena Kidd si interessò particolarmente, fissando il proprio sguardo sul volto del biondo per scorgere una qualsiasi emozione sul bel visino, ma l’unica cosa che ottenne fu vederlo abbassare le palpebre, prendere un respiro profondo e poi girarsi, allontanandosi dal parapetto per sedersi ai piedi dell’albero maestro.

Con un paio di gesti precisi e veloci il capitano vide il ragazzo tirare fuori uno dei propri coltelli dal proprio gilet, studiarne il filo della lama seghettata ed iniziare ad affilarlo con una pietra, probabilmente già in suo possesso da tempo.

Ridacchiò di gusto. Era proprio vero che quei due non si sopportavano.  

“Non segui la cuginetta?” lo schernì, abbandonando la propria postazione ed avvicinandosi a lui, ridacchiando famelico. Il biondo continuò ad affilare con calma la propria arma, senza nemmeno alzare lo sguardo su di lui e questo lo infastidì di non poco.

Non appena fu comunque arrivato a meno di un passo da lui, questo si degnò finalmente di rispondergli, guardando nel frattempo il profilo della lama.

“Se la caverà. Sa quello che deve fare.”

Kidd continuò a guardare l’angioletto tornare alla propria occupazione senza troppe cerimonie, muovendo le mani con movimenti calmi e precisi.

Strinse i pugni con rabbia. Quanto detestava essere ignorato.

Avrebbe aperto la bocca per sommergerlo di battutine crudeli se questo non l’avesse battuto sul tempo.

“Credevo fossi ansioso di scendere a terra, capitano.”

A quelle parole il pirata boccheggiò un paio di volte.

L’aveva appena invitato a scendere dalla propria nave?! Digrignò i denti, trattenendosi dall’afferrarlo per il colletto ed insegnargli un po’ di rispetto, ma frenò la mano: non aveva accettato di prenderli a bordo solo per poi mandare tutto a puttane per un colpo di testa.

Cercò di prendere un respiro profondo nel modo più discreto possibile, ripetendosi a mo’ di mantra che la fatina custodiva importanti informazioni sul Nuovo Mondo.

Tornò ad osservare il ragazzo e con sua grande sorpresa vide quelle due pozze color cobalto osservarlo leggermente di sbieco, dal basso verso l’alto e viceversa. Quello sguardo quasi inumanamente affascinante sembrò indugiare sul suo viso, quasi per scorgerne particolari nascosti all’occhio nudo, ma solo per poi tonare al proprio lavoro. Kidd ebbe l’impressione di essere stato appena studiato.

“Non è la prima volta che Viola lo fa.” disse Arch, passando e ripassando il filo della propria lama lungo la superficie liscia della pietra. “Ci vorranno si è no una ventina di minuti.”

“E tu non ti unisci a lei?” cercò di stuzzicarlo novamente, ma non ottenne né un’occhiataccia né una smorfia.

“Io sono fatto diversamente.” rispose semplicemente, continuando la propria opera di affilatura. “Non ho bisogno di fare quello che fa lei ogni settimana.”

Il capitano della Hell Glory lo guardò continuare ad affilare quella lama seghettata, gli angoli della bocca dipinta oramai appesantiti da un’espressione assorta. Nella testa gli turbinarono le domande e i pensieri più disparati.

Era fatto diversamente? Non aveva bisogno di fare come la cugina ogni settimana?

Alla fine però solo un interrogativo riuscì ad emergere, sovrastando gli altri, prendendo forma in una frase pronunciata ad alta voce.

“E’ per l’Essenza?”

Il rumore della lama strusciata sulla grana grossa di quella pietra naturale si arrestò di botto, per poi tornare a riempire l’aria del ponte.

“Dimenticavo che avete origliato per tutto il tempo.”

“E’ la mia nave.” rispose ridacchiando Kidd, certo di aver colpito un nervo scoperto.

“Avevo detto di chiudere la porta.”

“E’ la mia nave.” Ribadì lui con i denti bianchi svergognatamente scoperti.

Ancora una volta Kidd si vide infilzare da quegli occhi cobalto, stretti in un’espressione ostile che gli fece tremare le viscere di soddisfazione finchè non lo vide riabbassare (per l’ennesima volta Roger Santissimo!) subito gli occhi rispondendoli a voce atona. 

“Ti basti sapere che non mi vedrai mai implorare per scendere.”

Kidd arricciò il naso. Argomento chiuso.

Scocchiò la lingua infastidito e girò la testa da un’altra parte, poichè, ne era certo, guardare il biondino un altro secondo di più l’avrebbe fatto impazzire.

“Io non ci conterei, angioletto.” disse più per ripicca che altro, girando i tacchi e raggiungere Killer, come sempre immobile pochi passi più avanti a lui, in attesa di ordini. Si fermò non appena superato il proprio vice, ricordandosi improvvisamente di una cosa.

Il collo tozzo e scultoreo del pirata si torse all’indietro.

“Ehi angioletto! Non hai più risposto alla mia domanda!”

Fu con piacere che vide le iridi cerulee dell’altro tornare allo scoperto e uno dei suoi sopraccigli chiari incurvarsi con fare interrogativo. Oh, Kidd non avrebbe chiesto di meglio.

“Allora, sei vergine o no?”

La sua era stata più una domanda di circostanza, più diretta a punzecchiare il ragazzo che ad elemosinare una risposta vera e propria. Qualche risatina da parte dei suoi uomini si fece sentire più discreta del normale, ma comunque benvenuta alle sue orecchie anche se Killer, dietro la propria maschera, rimase come sempre silenzioso e immobile da bravo osservatore quale era.

Arch rispose abbassando il sopracciglio, tornando così alla propria maschera priva di espressione. Kidd si preparò a tutto, anche a vedersi lanciare lo stesso coltello che il ragazzino stava affilando con cura. 

A dispetto delle sue aspettative nessun coltello gli venne lanciato addosso e la risposta che arrivò, zittì l’intera ciurma, capitano compreso.

“Definisci vergine.”

Gli ingranaggi del cervello di Kidd, cigolarono pietosamente prima di rimettersi nuovamente in movimento.

Comecomecome?? Aveva capito bene?! Gli aveva appena chiesto di dirgli il significato della parola “vergine”?

Ma allora... il pugnale che mi ha lanciato prima... -pensò a mascella lenta - ...lo ha fatto perchè credeva lo stessi insultando?!

Non sapeva se ridere o imbufalirsi.

Non optò per nessuna delle due.

Sbuffò e con aria seccata rielaborò una frase un po’ meno complicata.

“Rispondi: Hai mai visto una donna nuda? Sì o no?!”

Lo sguardo di Arch Angelo Infido parve illuminarsi di consapevolezza per un secondo, per poi ricadere nell’atonismo. Di colpo, Kidd non sapeva spiegarsi bene il perchè, la situazione assunse un’atmosfera comica, imbarazzante quasi.

“Sì.”

La mascella dei presenti toccò terra in un unico grande tonfo.

Senza alcun segno di imbarazzo, nè tanto meno il benchè minimo rossore sulle guance il ragazzo si alzò, riponendo pietra e pugnale al proprio posto, e si avvicinò a lui, forse non capendo il peso di quanto appena risposto.

“E quindi?”

Dopo un attimo di smarrimento Kidd riacquistò la facoltà d’uso della propria bocca, scoccando al ragazzino un’occhiata sprezzante. Se pensava di farlo fesso un’altra volta, campava male.

“Tua madre non conta, angioletto.” sghignazzò a denti scoperti, certo di aver fatto centro.

Arch lo guardò male.

“Infatti non mi riferivo a mia madre.”

“Ooooh.” rise sempre meno convinto il capitano della Hell Glory, voltandosi poi verso i suoi con aria complice “Sentito ragazzi? Abbiamo un Casanova a bordo! E sentiamo, raggio di sole, sapresti dirmi quante?”

A parte qualche risatina qua e là, non ricevette il clamore sperato dalla propria ciurma. Ok, forse stava calcando un po’ troppo la mano, ma, diamine, se era divertente!

“Tutte quelle della mia isola.”

...

No. No. Un attimo. Aveva sentito bene o le sue orecchie per un attimo avevano indetto sciopero?

“Come prego?” la domanda gli era uscita per miracolo dopo una breve ma intensa battaglia con la sua bocca, oramai disidratata.

“Eccezzion fatta per mia madre e mia sorella, tutte le donne della mia isola non necessitavano di indumenti, come li chiamate voi umani.”

Con ormai la ciurma al proprio seguito completamente ammutolita, Killer escluso data la sua natura silenziosa, Kidd si ritrovò ad esaminare con occhi a palla il viso del biondino, cercando disperatamente un qualche segno che smascherasse una boiata degna del più grande dei contaballe, ma non ne trovò alcuno. Improvvisamente gli sembrò quasi di risentire la sua voce rimbombargli nelle orecchie, mentre gli raccontava di come si era perpretato lo sterminio di massa della marina.

[..Per questo le altre ci sono rimaste tanto male quando...]

Le ‘altre’. Quella frase aveva attratto la sua attenzione già prima e ora capiva quanto fosse effettivamente importante. Un’isola con un solo maschio?!

Il più giovane continuava a guardare sicuro e senza mai tentennare, dritto dinanzi a sé. 

Era serio. Mortalmente serio. Non stava mentendo.

E a lui non rimase altro se non pensare: perchè diavolaccio quegli ignoranti del Governo Mondiale avevano distrutto, tra tutte le meravigliose isole del Nuovo Mondo, proprio quella dove le donne giravano nella più gloriosa delle loro mise??!!

Si coprì gli occhi con una mano.

Proprio quella in cui avrei fatto volentieri una lunga sosta ristoratrice... pensò disperato, oramai più che convinto di odiare il Governo e i suoi cani fedeli più di qualunque altra cosa al mondo. Come se il suo odio originale non fosse sufficiente.

“Ti sei fatto tutte le donne della tua isola?!”

Chi fosse il cristo che era sbottato in una simile domanda, Kidd non riuscì a riconoscerlo, ma lui non avrebbe saputo chiedere di meglio.

Un’espressione, prima di stupore, poi di puro disgusto deformò i bei lineamenti androgini di Arch. Il capitano della Hell Glory capì già da quello che la risposta era...

“No! Certo che no!! Che razza di idee sono?!” sbottò con fare confuso, confermando l’impressione di Kidd, che si ritrovò a gioire internamente come un bambino, mentre guardava il ragazzo compiere un piao di passi indietro, scosso dalla domanda fattagli.

Arch lo guardò sprezzante “Tutte le donne della mia isola erano mie parenti!”

Ovviamente Kidd non era tanto malato da pensare che l’angioletto si fosse fatto tutte le donne della sua terra natia... ok, forse un po’ lo era, ma se quella bambola di porcellana con gli attributi opposti si aspettava veramente che lui ci arrivasse da solo a capire una cosa simile ... bhe, allora tra i loro due il più malato non era certo il sottoscritto!!

Si massaggiò il ponte nasale con due dita, desiderando ardentamente scendere a terra ed andare a caccia di una compagnia a pagamento. Si girò, apprestandosi a seguire il proprio istinto.

“Kidd.” 

Incredibile, ma vero, a bloccarlo dal suo proposito non era stato Killer, ma lo stesso angioletto dagli occhi cerulei in quel momento voltato di spalle, impedendo a chiunque di vederlo in viso.

“Se ti capita di incappare in un’altro dei casini di Viola...” disse mantenendo sempre schiena e spalle dritte “... dalle una mano.”

“Non scendi anche tu?” intervenne Killer da sotto la propria maschera forata.

“No... ”

La conclusione della frase fece ulteriore danno alle cellule cerebrali dell’intero manipolo di pirati borchiati, ma non un solo fiato volò in aria e a tutti, capitano compreso, non restò che guardare la figura più giovane e longilinea dirigersi verso un punto imprecisato del ponte.

Kidd deglutì, labbra e gola seccatesi di colpo.

La sua voglia di scendere era come svanita nel nulla.

Reagendo d’istinto si portò in avanti di alcuni passi, afferrando senza gentilezza il colletto del ragazzo che, sentendosi tirare all’indietro, emise un suono stupito per poi guardarsi all’indietro stralunato.

“Ehi! Ma che-??”

Kidd non gli diede neanche il tempo di finire la frase e, sotto gli occhi dei suoi uomini, iniziò a trascinare Angelo Infido verso la passerella. 

“Se pensi che ti lasci da solo sulla mia nave con un misero manipolo di uomini a farti da guardia ti sbagli di grosso!” fu la sua giustificazione, in parte vera, ma in cuor suo sapeva bene che non era il solo motivo per il quale aveva praticamente lanciato fuori dalla nave il biondino.

Arch ruzzolò un paio di volte sulla scaletta prima di riuscire a fermarsi con una mano piantata su di essa,frenando la sua stessa caduta. Il suo visino delicato era contratto per la rabbia.

“Non riuscirei a portare via questa nave neanche volendo! La mia nave era di piccole dimensioni ricordi? Neanche con tutta la buona volontà di questo mondo potrei sperare di maneggiarla da solo!”

Il pirata magnetico non fece caso alle sue proteste e scese con sicurezza la passerella di legno, addirittura oltrepassandolo con un sorriso da iena sulle labbra.

“Potresti sempre chiedere un aiutino a tua cugina.” insinuò, ma venne prontamente zittito.

“E secondo te Viola vorrebbe aiutarmi a manovrare un veliero?”

Le sue labbra nere si chiusero e si contrassero nel senso opposto, facendo svanire l’espressione gioiosa di prima.

In effeti la stangona non gli era sembrata un tipo collaborativo.

Ma ormai aveva deciso che Archetto sarebbe sceso insieme a loro.

E, per la barba di Roger, nulla gli avrebbe fatto cambiare idea!

 

Atto 21, scena 2

Viola abbracciò con più convinzione il tronco d’albero, aderendovi sia col petto che con la guancia come se fosse stata la più adorabile delle creature sulla terra.

Il dolore era svanito.    

Sospirò, accoccolandosi ancora di più contro la corteccia di pino marittimo su cui si era scagliata appena le era stato possibile. Le braccia non le facevano più male e, come un liquido attraverso le sue dita, l’Essenza della Violenza fluì all’interno dell’albero, forse meno velocemente di quanto avrebbe fatto con uno di Nido Leila.

Un naso ruvido e lievemente umido le grattò un braccio e un verso sofferente le echeggiò nelle orecchie.

Si voltò piano piano, confrontandosi infine con lo sguardo da cucciolo spaventato di Morgan in forma animale. L’iride chiara e ferina del piccolo drago si contrasse, focalizzandosi meglio su di lei e le centinaia pagliuzze dorate si allungarono, stringendosi insieme alla pupilla.

“Signorina, si sente meglio?”

Lei inalò un po’ d’aria ed alzò il naso verso l’alto, intercettando la figura di un gruppo di pigne ancora acerbe penzolare dai rami spinosi del pino.Sospirò sollevata e, lentamente, si staccò dal tronco.

“Ora sì.” sussurrò sedendosi di schiena contro lo stesso, il viso stravolto da un’aria stanca. Le palpebre le pesavano come mattoni.

Di nuovo il musetto serpentino e ricoperto di scaglie legnose invase completamente la sua vista. Ringhiò meno convinta delle altre volte, non avendo comunque la forza per compiere uno sforzo fisicamente eccessivo.

In quel momento il suo corpo voleva solo trascinarla nel limbo del sonno, ma lei, al tempo stesso, non ne voleva sapere. Non era mai stata deboluccia e certamente non avrebbe cominciato ad esserlo con un essere umano a guardarla.

Scrutò al di sotto la linea delle sue ciglia il lucertolone riprendere poco a poco le sembianze originali, i lineamenti contrarsi, le scaglie e la coda ritirarsi, fino a lasciare al suo posto la figura bipede di un bambino dagli occhi grandi e neri.

Anche dopo settimane quella mutazione non smetteva mai di sorprenderla ed affascinarla. Possibile che le loro Note marce provocassero un simile effetto sui corpi umani?

Una manina pallida le carezzò la guancia e lei si accorse delle righe di lacrime che le avevano solcato il viso durante l’atto liberatorio di scaricarsi di un po’ della sua Essenza.

Tentò di scattare all’indietro a quella rivelazione, ma la sua nuca scontrò contro la superficie dura della pianta dietro di lei.

Davanti a lei Morgan parve quasi ferito da quel gesto, poi preoccupato.

“Signorina... i suoi .... capelli.”

Automaticamente una mano le scattò verso la propria frangia. Le già lunghe ciocche argentate della sua chioma si erano allungate di circa 15 centimetri, incorniciandole il viso in maniera quasi spettrale. Se si fosse potuta specchiare, si sarebbe addirittura paragonata a zia Drama, che con i suoi lunghi capelli neri pareva più un fantasma che un essere vivente.

Un anno di vita in meno... 

Doveva aspettarselo. Aveva rinunciato a pezzettini minuscoli della sua Essenza per tutto il viaggio, liberandosene non appena un albero entrava nella sua visuale, e in quel momento aveva buttato via una quantità di almeno cento volte tanto quella abituale. 

Perdere un anno di vita era il minimo che le potesse accadere.

 Quanto avrebbe voluto tornare indietro. Su Nido Leila. La sua casa. La sua amata terra. L’unico posto in assoluto dove si sarebbe sentita sicura, lontano da quella schifosa civiltà umana e più vicina al centro della sua isola che le aveva sempre impedito di invecchiare ad un ritmo che persino per un umano sarebbe stato eccessivo.  

E in cuor suo sapeva che era tutta colpa sua. 

Si strinse mollemente le ginocchia poggiando la testa su di esse.

Arch, per quanto le facesse schifo ammetterlo, aveva ragione. Era lei stessa la causa del suo male, lei e la sua testardaggine nel non volere che l’Essenza della Violenza le scorresse in ogni parte del corpo. Se l’avesse lasciata libera di circolare non avrebbe avuto problemi e lei non avrebbe dovuto scaricarsi ogni settimana, anzi, avrebbe potuto decidere lei quando farlo.

Ma non voleva. Come si poteva accettare di avere dentro di sè la Violenza? Con quale ragionamento si poteva anche solo pensare di accettarla? Lei non voleva che quell’Essenza facesse parte di lei. 

“Signorina?”

Era così stanca che per un attimo si era scordata della presenza di Morgan.

Lottò per schiudere nuovamente gli occhi, finchè non vide il bambino ancora davanti a lei con la mano di nuovo tesa, diretta probabilmente a una delle sue spalle per darle una carezza.

“Perchè ti preoccupi tanto?” sussurrò con voce stanca, bloccando l’avanzata delle dita paffute del piccolo verso di lei.

Morgan sembrò incassare il colpo e la sua bocca cominciò a tremulare, colta da un attacco di balbuzia.

“I-in c-che sen-so? P-perchè m-me lo c-c-chiede?”

Non era ancora abbastanza lucida per arrabbiarsi con lui per via quel modo di parlare a suo dire improponibile, ma riuscì a far viaggiare il proprio sguardo fino al fianco sinistro del bambino dove la maglietta si era sporcata appena di sangue rosso, proprio nel punto da cui lei aveva strappato via un paio di scaglie.

“Ti ho fatto male...”

Nessuna domanda. La sua era una pura e semplice constatazione che non ammetteva repliche, anche se in quel momento per lei far valere le proprie opinioni come era solita fare non le sarebbe riuscito. Morgan comunque non fece un grande sforzo per smentire l’evidenza, abbassando semplicemente lo sguardo e massaggiandosi la parte lesa.

“Non è niente... n-non mi fa più tanto male.”

“Piantala marmocchio...” sbuffò lei, tornando con la testa sulle proprie ginocchia “Riconosco una brutta ferita, quando la vedo. So di essere ... un mostr-”

“No! Non lo è invece!”

Alzò la testa di scatto a quella esclamazione ed il collo le protestò dolorosamente per quel movimento improvviso. Il bambino orientale la guardava con i lacrimoni agli occchi e questo la lasciò senza parole. Di fronte a lei ed al suo improvviso silenzio Morgan sembrò intimorirsi, ma solo per un istante, prima di deglutire un groppone di saliva e tornare all’attacco.

“E’ vero che forse io non la conosco abbastanza per dirlo, ma...” disse incredibilmente senza balbettare, diventando inoltre più sicuro di sé ad ogni parola che diceva “... io ho visto tante persone cattive prima di incontrare lei e...e...” fece una pausa, torturandosi le mani “...lei... non è un mostro.”

Ancora la bocca non riusciva ad arrivarle alcuna parola. Era sbigottita da quello che Morgan le stava dicendo. Nessuno mai, nemmeno sua madre, così e austera ed autoritaria, era mai arrivato a rivolgerle simili parole. Era tanto abituata a essere temuta e a vedere la gente tremare di fronte alle sue occhiatacce che in quella situazione non sapeva che pesci pigliare.

“Come...” provò a dire, fermandosi però immediatamente, ritrovando la voce rauca e la gola un poco secca. “Come fai a dirlo...? Io... non ti volevo. Ho cercato di buttarti in mare...”

“Ma non l’ha fatto.”

Di nuovo le parole le morirono in gola. Gli occhi del bambino spalancati e sinceri le intimavano di non interromperlo. Terribile. La sensazione che stava provando era terribile. Forse per via della stanchezza o forse per il fatto di sentirsi bene dopo essersi scaricata dall’Essenza, ma quelle parole la lasciavano impotente.

Erano troppo sincere. Innocenti.

Si rannicchiò ancor di più su se stessa, affondando il viso tra le mani. Non sapeva come ribattere. Lei non era brava a parlare. Al massimo rispondeva lanciando oggetti a destra e a manca, ma, ora che il suo corpo reclamava nient’altro che il riposo, non poteva farlo.

“Sa, mia madre...” continuò il bambino, sedendosi accanto a lei contro l’albero “... era terrorizzata la prima volta che mi sono trasformato.”

Ritornò a guardarlo. Lo vide osservarsi le manine giunte al petto con un sorriso amaro sulle labbra.

“Era così spaventata che uscì di casa correndo e... quando io cercai di andarle dietro per dirle che ero sempre io, tutti quelli del mio villaggio iniziarono a colpirmi con sassi e oggetti pesanti...” lo vide rannicchiare la testa nelle spalle “Tra di loro vidi anche il volto di mamma, che cercava di colpirmi con dei coltelli da cucina.”

Ora anche lui era rannicchiato su se stesso. Viola lo guardava con il mento a penzoloni.

“E’ così ... che sei finito ... su quella nave di schiavisti?”

Faticò per dire quella frase e quando vide la testolina nera dell’altro annuire sentì l’acido della sua bile salirle alla gola.

“Mamma non riusciva più a guadagnare a sufficienza per tutti e due...” continuò il piccolo orientale “... e poi ... non poteva sopportare l’idea di avere un mostro come figlio.”

A quella frase Viola si sentì cogliere da uno strano istinto, un urgenza irrazionale: le venne di avvicinarsi a lui e prenderlo tra le braccia, dondolarlo e sussurrargli con tutta la dolcezza di cui poteva essere capace che lui non era un mostro.

Non lo fece. Rimase a guardarlo, intervenendo poi con una strana e dolorosa stretta al petto.

“Sei stato venduto... da tua madre.”

Un singhiozzo proruppe improvviso, rimbarzando da un albero all’altro e perforandole le orecchie.

Morgan stava piangendo.

Viola non resistette più e Morgan si ritrovò circondato da un paio di braccia segnate da ferite e cicatrici. Un odore dolce e deciso gli arrivò al naso e sentì, come per magia, il groppo alla gola sparire, permettendogli di continuare.

“Lei non è un mostro signorina ... lei... è speciale.”

Fu come essere stata punta da una vespa.

“Non deve avere paura di quello che è.”

Sciolse di scatto l’abbraccio che lei stessa aveva creato, stupendosi del proprio gesto. Aveva abbracciato...?! E lui aveva appena detto che lei...?

Una manina le arrivò alla guancia, accarezzandogliela.

Gli occhioni neri come pietre d’onice la guardarono pieni di speranza e ... cosa c’era d’altro? Non era come quando Allegra o Agiata le sorridevano nei suoi rari momenti di calma, era... c’era... qualcosa di più. Di nuovo il cuore le fece male. 

Quel bambino umano aveva sofferto la solitudine, era stato ripudiato, scacciato e probabilmente disprezzava se stesso, esattamente come lei disprezzava se stessa, eppure, contrariamente a lei, ... riusciva ad avere ancora una buona parola per gli altri.

Era una strana sensazione... una sorta di... empatia. Per quanto assurdo, quell’umano non era come gli altri. In lui non c’era la crudeltà che aveva intravisto negli occhi del mostro mandato a sterminare lei e tutta la sua famiglia. Era solo, abbandonato ed innocente e questa consapevolezza aumentava ad ogni istante che passava uno strano istinto...

[Saresti un’ottima mamma.]

Perchè le parole del bastardello le tornavano alla mente proprio in quel momento?! E perchè proprio quelle??!!

No... non poteva essere che..

Un calore estraneo le si rannicchiò accanto e, abbassando lo sguardo, Viola vide il bambino poggiare la testa contro il suo petto con gli occhi chiusi e ancora umidi.

Pochi istanti ed il piccoletto crollò addormentato contro di lei. Fu allora che si ricordò che il bambino aveva fatto le ore piccole per stare accanto a lei notte e giorno. Forse era addirittura più stanco di lei.

“Mamma...” lo sentì sussurrare a mezza voce nel sonno con ancora le ciglia umide di lacrime.

“Che stupido... marmocchio.” sussurrò, sentendo di colpo la stanchezza scivolare via.

Si ritrovò prima ancora di rendersene conto in piedi con Morgan assopito tra le braccia e la sua testa sulla spalla. Non era troppo pesante e, anche se lo fosse stato, lei era pur sempre La Sollevapesi.

[Lei... è speciale. Non deve avere paura di quello che è.]

Camminando a ristroso la strada che aveva percorso dalla nave, cullando il piccolo con una dolcezza che non sapeva neanche di possedere, si sorprese con un certo imbarazzo a pensare.

Vale anche per te, marmocchio.

Da uno dei rami di pino che si era lasciata alle spalle, una delle pigne iniziò gradulamente a cambiare di colore, ingrossandosi, passando dal marrone legnoso ad un viola rugoso e poroso.

La Nota iniziò a penzolare pigramente un paio di volte, prima provocare col proprio peso eccessivo la rottura del picciuolo che la sosteneva, cadendo con un tonfo sordo sul manto di aghetti secchi e ingialliti ai piedi dell’albero.

 

Atto 21, scena 2, Corno Destro

“TE LO DICO PER L’ULTIMA VOLTA, JAWS! METTIMI GIU’!” terminò così la serie di proteste di Allegra, dopo una lunga serie di calci, pugni e minacce, nemmeno tanto prese seriamente, rivolti a Jaws che l’aveva trasportata di peso su una spalla fino al termine della passerella in legno che collegava la Moby alla terraferma.

Proprio in quel momento l’energumeno la mise finalmente a terra, accennando appena un sorriso divertito nel mezzo del suo solito cruccio burbero. 

Marco, Ace, Vista e Satch gli avevano aspettati al termine delle scalette, ridacchiando sotto i baffi per quella scenetta divertente, ma, non appena Allegra si girò verso di loro, spettinata e con i vestiti sgualciti come non mai, per fulminarli con lo sguardo, furono costretti a voltare velocemente lo sguardo da un’altra parte, chi fischiettando rivolto al cielo, chi facendo cenno con il cappello verso una bella signorina che passava provvidenzialmente nelle vicinanze e chi fingendo si aggiustarsi il ciuffo con un pettine.

L’unico a non aver voltato la testa era stato Marco, e il suo sorrisetto non fece che far inacidire ancor di più il malumore della paradisea. 

Piccole fiammette gialle tendenti al bianco minacciarono di spuntare sulla testa della ragazza, ma prima che potessero invaderle completamente la chioma, la voce del primo comandante di Barbabianca la bloccò.

“Non farlo. Su quest’isola la gente non prenderebbe bene una ragazza con la testa in fiamme.”

Ed ecco che le fiamme erano sparite, sostituite da uno sbuffo seccato.

La paradisea incrocò le braccia al petto , spostando lo sguardo di lato con fare offeso con tanto di broncio.

“Dov’è Doma?” fu la domanda. Infatti, il motivo per il quale era così contrariata ad essere stata trascinata giù dalla nave era proprio il pirata con la bandana. Dopo aver detto a Marco che sarebbe andata a cercare il Boemo per scusarsi aveva girato la nave in lungo in largo, senza però ottenere alcun risultato.

Gira che ti rigira, alla fine il tempo era volato e la Moby aveva avuto tutto il tempo per terminare le manovre di ormeggio.

Dacchè avevano avvistato l’Arcipelago delle Corna il Boemo sembrava essersi volatilizzato e non si sarebbe neanche stupita se avesse scoperto che cercava di nascondersi da lei.

Si sentiva un mostro...

“Alcuni dicono di averlo visto scendere barcollando circa venti minuti fa.” fu la risposta di Marco, che non le piacque affatto.

“Esattamente quando abbiamo mandato Jaws a prenderti!” la precisazione di Ace le piacque ancora meno.

Un’altra occhiataccia, giusto per cancellargli dal viso il suo solito sorriso a 33 denti, per poi abbassare la testa sconsolata.

“Non prendertela, scricciolo.” intervenne la voce di Satch,  dandole qualche amichevole pacca sulla spalla. “Goditi la giornata piuttosto, è da mesi che non tocchi terra.”

Allegra si aggiustò alla meglio i vestiti, e colse l’occasione per analizzare i dintorni del porto.

Le case del Corno Destro si incastravano l’una contro l’altra lungo tutta la piazza principale, creando uno spazio regolare dove la conformazione frastagliata delle sponde non permetteva. Erano tutte case a schiera di circa due piani, una bottega a piano terra e un tetto spiovente o in terracotta o in un altro materiale grigio e grezzo che non riuscì ad identificare. Il sole brillava come non mai, riflettendosi, senza alcuna nuvola a farle da ostacolo, sulla pietra bianca della pavimentazione che componeva la piazza.

Quest’ultima al proprio centro ospitava una fontana che, con un paio di getti, diffondeva nell’aria alcune gocce rinfrescanti d’acqua, almeno nella zona più distante dal mare.

Si parò lo sguardo con una mano, alzandolo ancora un po’ di più: sopra la linea dell’orizzonte e della fila di tetti il cielo era azzurro e terso, di un colore così uniforme da farle male agli occhi.

Riabbassandoli, individuò in pochi secondi alcune tipologie di passanti: qualche coppietta felice che passeggiava sotto il sole, uno o due anziani lenti e tranquilli, una decina di scaricatori di porto tutti muscoli e ordini pronunciati ad alta voce, le parve anche di vedere qualche bambino correre di qua e di là insieme ai propri compagni.

Sembrava una cittadina qualsiasi, tranquilla e piacevole... Doveva essere sicuramente la forza dell’abitudine quella che le stava intimando d’individuare al più presto una via di fuga.

Aaah! Maledetto istinto di sopravvivenza! - si rimproverò internamente - Non siamo più a Nido Leila! Smettila di assillarmi!

Doveva essersi lasciata andare in un’espressione disturbata senza volere perchè Ace, persa ogni traccia di derisione sul suo sorriso, si era avvicinato a lei chiedendole:

“Tutto bene?”

“Sì... tutto bene. E’ che...”

Non ritenne necessario dire loro di sentirsi insicura così allo scoperto in un posto a lei sconosciuto. Non voleva dare l’impressione di non potersela cavare da sola.

...

D’accordo, era stata catturata da degli schiavisti, naufragata, ripescata da una nave pirata, accudita, attaccata nella stessa nave da un estraneo per ben due volte, per non parlare poi delle numerose volte in cui aveva attirato sulla nave le ire di un Re dei Mari...

Ma era pur sempre cresciuta in una giungla! Quanto poteva essere pericolosa una città confrontata alla sua isola dove da dietro ogni albero poteva balzarti addosso una o più belve feroci?

“Non ti senti a tuo agio, vero?”

Colpita nel segno, traballò pericolosamente in avanti con una piccola gocciolina di sudore su una tempia e fece appena in tempo a ristabilizzarsi ed assumere un portamento deciso, prima di rendersi conto che a parlare altri non era stato Marco che in quel momento la osservava col suo solito sguardo ceruleo e rapace.

Cercò di dimostrarsi rilassata, simulando un’espressione distesa e un sorriso, ma alla fine rinunciò. Chi voleva prendere in giro?

“Si nota tanto?” bofonchiò sconsolata.

“Non tanto, ma si vede da come sei rigida che non sei abituata a stare in mezzo a tanta gente.” 

Beccata. Per quanto potesse apparire superficiale all’apparenza, Ace aveva un occhio molto attento.

“E’ comprensibile.” aggiunse Vista con garbo “Una cittadina come questa, per quanto piccola, non è  minimamente paragonabile ad un’isola intoccata dalla presenza umana.”

“Ti ci abituerai scricciolo.” intervenne Satch, accostandosi al pirata gentiluomo e poggiandogli una mano sulla spalla, mentre si sporgeva verso di lei sorridendo rassicurante. “Solitamente noi ci fermiamo per minimo una settimana su un’isola per raccogliere le scorte necessarie a ripartire. Vedrai, tra qualche ora non ci pensarai neanche più.”

Allegra ripercorse mentalmente i momenti che ricordava aver passato con Arch e Viola sulle varie isole dove erano approdati per fare scorta di cibo. Omettendo il fatto che sua cugina rischiasse puntualmente di scatenare un putiferio ogni 10 minuti, lei non si era mai sentita tranquilla da nessuna parte.

Le città erano troppo diverse, troppo scoperte. Per non parlare degli alberi: pochi e bassi. Assurdamente scarsi ed insufficienti per nascondersi e quest’isola dell’arcipelago delle corna non faceva eccezione.

No, decisamente le città non facevano per lei.

Se ci fosse stato almeno Arch a darle una sicurezza in più... suo fratello era sempre così cauto e sicuro di sé.

Si fece coraggio, e, con un respiro profondo, mise da parte i suoi propositi di parlare con Doma, almeno per il momento.

“Vorrà dire che ne approfitterò per procurarmi qualcosa di nuovo da mettermi...”

Non fece neanche in tempo ad aggiungere qualcosa riguardo a Mindy, l’infermiera sarta, che uno strattone al braccio le fece ricordare di Ace e del suo più che palese entusiasmo per il fatto di essere sbarcato dopo mesi di navigazione.

“Allora, andiamo! Sono certo che facendo un giretto ti scioglierai un po’!” la incitò con lo stesso fare petulante di un bambinetto che cercava di tirare la mamma verso il chiosco di gelati.

“Ehi..Ehi!” protestò, barcollando un po’, ma l’altro non si scoraggiò di una virgola, continuando a trascinarla chissà dove.

In suo soccorso arrivò prontamente l’intervento di Marco, che bloccò l’avanzare dell’amico semplicemente afferrandogli con una mano la collana di perle rosse che aveva al collo, mozzandogli il fiato di conseguenza.

Guh!”

“Calma i bollenti spiriti fratellino.” lo riprese la Fenice con occhi perforanti, mentre gli altri comandanti ridacchiavano e scuotevano la testa divertiti “Non credo tu sia la persona più adatta a portare una ragazza a fare shopping.”

Ace si massaggiò il collo, dove era apparso un lieve segno rossastro, e guardò il biondo con sfida “Perchè? Tu invece sì?”

Allegra di fronte a quel piccolo battibecco, scrollò con fare seccato il braccio dalla presa di Ace e li fulminò entrambi, facendo capire loro quanto quella situazione le facesse piacere.

“Ragazzi...” cercò di intervenire a mò di avvertimento, ma, anche se Pugno di fuoco abbassò lievemente la testa in segno di pentimento, Marco non sembrò disponibile alla resa.

Non completamente almeno. 

Il biondo scosse le spalle, massaggiandosi poi la nuca. “Non ho mai detto questo.” disse e dopodichè si girò verso un punto particolare del molo ed esclamare:

“Ehi! Izou!”

Tutti quanti, paradisea compresa, seguirono incuriositi la linea dello sguardo del primo comandante. Poco più in lontananza c’era un gruppetto di pirati che parlottavano rilassati tra di loro. Si trattava per di più di energumeni, ma ad Allegra, che ripensandoci era certa di averli intravisti da qualche parte sulla Moby, saltarono subito all’occhio tre elementi in particolare: la prima, che non spiccava tanto in altezza quanto in gioventù, era la figura di un ragazzo con una strana blusa militare verde chiaro ed una spada alta quanto lui assicurata alla spalla, viso tondo, occhi taglienti colo blu scuro e caschetto rossiccio scuro; la seconda, sicuramente la più strana in assoluto, era un esserino tarchiato più che basso, indossante una semplice maglietta a maniche lunghe azzurra dalle spalle ai polsi ed un paio di jeans chiari, ma dall’aspetto assulutamente animalesco, così tanto che le ricordò quello di uno squalo, nonostante in testa non mancassero i capelli, con la mandibola inferiore sporgente e robusta, denti appuntiti  anch’essi sporgenti ed un’andatura ingobbita, quasi lo stare in piedi non lo facesse sentire a proprio agio; per ultima, ma certamente non da meno, vi era una figura più alta, la stessa che al richiamo di Marco si era voltata verso di loro.

Da dietro le era sembrata una figura maschile, ma, una volta vista in viso, le venne spontaneo mettere in dubbio la prima impressione.

La persona che aveva risposto all’appellativo di Izou doveva essere sicuramente la persona più ambigua su tutta la nave. Aveva un viso un po’ squadrato, ma comunque liscio e delicato, completamente privo di macchie, i lunghi capelli neri e lucidi come dei fili di inchiostro erano legati in un’acconciatura tipicamente orientale, ma dalla quale sfuggiva un unica ciocca davanti al viso e, come se non bastasse, la zona centrale delle labbra era dipinta di un bel rosso acceso, probabilmente per dare l’illusione di una bocca piccola come un bocciolo .

La sola cosa che la convinse di avere innanzi un uomo, anzichè una donna, fu la vista che la scollatura dello yukata (rosa pallido, oltretutto) forniva di due pettorali inequivocabilmente maschili.

E dire che aveva sempre pensato fosse Arch quello androgino!!

“Ma guarda un po’ chi si rivede!” scherzò la figura rivolta al capitano-fenice, camminando con gesti misurati ed eleganti, il tutto con una voce decisamente mascolina. “Iniziavo a pensare di esserti diventato antipatico. Cosa c’è? Troppa strada da fare da poppa a prua, Marco-san?”

Dietro di lei Allegra udì appena qualcuno ridacchiare divertito dalla battuta insinuante del nuovo giunto.

Non che non l’avesse mai visto, anzi, a pensarci bene ricordava di averlo intravisto bazzicare per la Moby, o meglio, aveva intravisto la stramba acconciatura che si portava in testa e, in particolare, era certa di averlo visto partecipare all’uccisione dell’ultimo serpentone che aveva attaccato la nave.

Marco comunque non si fece molto scrupolo a rispondere all’altro, girandosi verso di lei come se nulla fosse:

“Allegra, questo è Izou, comandante della sedicesima flotta.”

“Aaah, la Paradisea! Finalmente ci presentiamo! Con tutto il lavoro che c’è sulla Moby, pensavo non sarei mai riuscito a rivolgerti la parola.” intervenne l’orientale sporgendosi in avanti con un sorriso cordiale e con la mano tesa in avanti in attesa che gliela stringesse. 

Lei ricambiò, anche se un po’ incerta.

La mano dell’altro al tatto le risultò liscia, niente calli né macchie, così curata da sfiorare il sovrannaturale. No, decisamente una stretta di mano ferrea e decisa. Uomo. Assolutamente.

“Piacere.”

“Come mai mi hai chiamato?” chiese Izou una volta lasciata la mano della ragazza, tornando a guardare la Fenice con fare composto e cordiale. Pareva un iris, dritto ed elegante, più che un pirata dedito a battaglie e razzie, come da definizione.

La risposta dell’altro non tardò ad arrivare, accompagnata dal dileguarsi immediato del sorriso di Ace, che si tramutò in broncio a tempo di record.

“Allegra dovrebbe andare a fare qualche spesa, potresti accompagnarla?”

Non l’avesse mai detto. La compostezza del nuovo arrivato si dissolse di colpo. Le labbra si spalancarono, dando sfoggio di un’espressione raggiante per nulla piccola nè tantomeno femminile, gli occhi si assottigliarono in un sorriso e le mani, prima compostamente tenute all’altezza della vita (o vicino alle pistole lì assicurate, questione di punti di vista) si congiunsero da un lato, accompagnate da una lieve inclinazione del viso. 

“Chi? Io?? Vuoi dire che ti fidi abbastanza da lasciarmi in custodia la nostra nuova sorellina? Quale onore! Non vedo l’ora di farle provare qualche bel kimono nuovo di zecca!”

L’entusisasmo di Izou la mise leggermente in allarme, temendo di poter piombare nella trappola di una replica al maschile di Mindy l’infermiera-sarta, la quale non avrebbe esitato, avendone l’occasione, ad agghindarla come una bambola di pezza.

“E-ehi! Un attimo! Perchè non può venire Satch con me?” balbettò, cercando aiuto nello sguardo dell’amico che però le rispose scuotendo la testa dispiaciuto, mettendo al contempo le mani avanti.

“Scusa scricciolo. Ma io non sono proprio portato per lo shopping.”

“Nel senso che lo odia.” aggiunse laconico Jaws.

“Non è colpa mia se le donne ci mettono un’eternità!”si giustificò prontamente Satch, bloccandosi solo per girarsi un attimo verso Allegra, che lo stava guardando a braccia conserte e con fare offeso “Senza offesa scricciolo.”

“Credevo ti piacesse guardare una donna sfilare fuori da un camerino.” intervenne Ace, aggiungendo poi con sorriso sornione “Specialmente dopo aver dato un’opportuna sbirciatina.”

A quella frase Allegra si concesse un calcio negli stinchi del lentigginoso.

Ite-!!”

“Sbirciatina?” domandò la paradisea verso il diretto interessato con un sopracciglio alzato, mentre al suo fianco Ace borbottava offeso:

“Sei diventata più manesca da quando hai recuperato la memoria...” 

Le palpebre le abbassarono leggermente a quelle parole, ma continuò comunque a rivolgersi all’altro con fare severo “Hai il vizio di spiare le donne con cui vai a fare compere Satch?”

D’accordo, lei aveva vissuto metà della propria esistenza nuda, come le sue parenti, in mezzo alla foresta e quindi di fondo la nudità non la disturbava più di tanto, ma spiare una persona mentre si sveste certa di non essere osservata per lei rimaneva comunque un’invasione della privacy.

A quelle parole il volto del Diplomatico divenne rosso per la vergogna e iniziò a gesticolare furiosamente con le braccia, come per afferrare al volo le parole da dire.

“N-non sono un maniaco!! E’ successo solo con donne di cui ero seriamente interessato!! Non lo farei mai con te scricciolo!! Giuro!!!”

Un braccio tatuato si avvinghiò attorno al collo del capitano dal foulard ed Ace fece propria l’ennesima intromissione nel discorso.

“Posso confermarlo. E sono pronto anche a fare qualche nomeeee!” terminò malizioso, seguendo in modo eloquente con gli occhi Carol che proprio in quel momento passava ad un paio di metri da loro.

La rossa si fermò, scoccò loro un’occhiataccia e poi tornò a camminare con il naso per aria.

Allegra, compresa l’allusione di Ace, si lasciò sfuggire una risatina appena soffocata e tornò di scatto a guardare incredula il comandante della quarta flotta.

“Satch!” esclamò scandalizzata, ma sempre con la bocca tirata in sorriso.

“E’ stato molto tempo fa, scricciolo!” tentò nuovamente di giustificarsi il pirata, gesticolando a più non posso sotto gli sguardi presenti “E non mi sono più azzardarto a fare certe cose!! Giuro!!”

“Ma Satch,...Carol??” continuò la paradisea allargando le braccia per enfatizzare quello che per lei era una cosa assurda. Ora si spiegava parecchie cose! Tra tutte le infermiere, difatti, Carol era quella che meno si era dimostrata amichevole nei suoi confronti da quando si era avvicinata a Satch.

“Ora capisco perché ogni volta che ti vede sembra volerti accoltellare alla spalle.” ridacchiò.

Satch abbassò le spalle abbattuto, impallidendo a vista d’occhio.

“A-addirittura...?”

Qualcuno da dietro le poggiò le mani sulle spalle, picchiettandole lievemente e il sorriso largo e truccato di Izou fece il proprio ingresso nella sua visuale.

“Su, su. Basta con inutili discorsi. La giornata è breve. Meglio affrettarsi prima che i negozi chiudino.”

“Non fate tardi mi raccomando.” si premurò di aggiungere Marco. Per un istante Allegra vide gli occhi azzurri della Fenice concentrarsi intensamente sui suoi, fermi e profondi come al solito, ma lei vi percepì qualcosa di... febbrile, come se il comandante volesse comunicarle qualcosa. Il sangue le fluì caldo nella guance e si ritrovò ad abbassare la testa, anche se malvolentieri.

Una risatina elegante provenne da Izou, ancora dietro di lei e intento ad assistere alle loro battute con raffinata compostezza.

“Ok Mamma.” scherzò il pirata dallo yukata, scambiando con Allegra un occhiata di intesa.

Lei annuì di rimando, sentendo con sollievo il volto rinfrescarsi rapidamente, e senza perdere tempo si accostò al fianco dell’orientale, allontandosi passo dopo passo. 

“Ci vediamo dopo ragazzi!” salutò con aria contenta dietro di sè, venendo ricambiata immediatamente.

“Buone compere Madamigella Allegra!” ossequiò Vista verso di lei, levando appena il cilindro.

“Mi raccomando fatti bella!” aggiunse Ace con una mano accanto alla bocca.

Fatta eccezione per Satch e Jaws, l’uno troppo demoralizzato per osare più di una sventolata di mano, l’altro troppo fedele a se stesso anche solo per aprire bocca, Marco fu l’unico a rimanere stoicamente immobile e muto, almeno all’apparenza perchè solo leggendogli le labbra, mosse con lentezza quasi impossibile, si sarebbero potute riconoscere 3 semplici parole:

“Fai attenzione, Momo.”

 

Atto 21, scena 3, Corno Destro

Assolutamente perfetto.

Teach scoprì i propri denti marci con compiacimento,  guardando da lontano la sua gallina dalle uova d’oro allontanarsi con una scorta quasi deludente, alla volta di acquisti che, se tutto fosse filato liscio, non sarebbero serviti.

Non che Izou non fosse un degno avversario, questo mai: Barbabianca non dispensava i ruoli di comandante di flotta a caso. Era ben risaputo quanto quell’Onnagata del comandante della sedicesima flotta fosse, a dispetto delle apparenze, una vera e propria macchina d’assalto quando si trattava di tirare fuori le proprie pistole e buttare giù quanti più avversari possibili.

Era un peccato che, a causa del suo aspetto, la marina gli avesse appioppato un nome tanto ingrato quale Belladonna Izou.

Gli occhietti tondi di Barbanera non faticarono troppo a trovare, nascosto dietro qualche cassa impilata accanto ad una delle innumerevoli bancarelle disposte per la piazza, il suo inconsapevole complice mentre  si addentrava con fare furtivo nelle zone più interne del paesino del Corno, intenzionato a non lasciare alla piccola paradisea non più di 15 metri di respiro da lui. 

Un vero e proprio seguigio.

Di nuovo la sua bocca si stese.

Lo aveva istruito a dovere.

Si affrettò a cambiare direzione dello sguardo ed espressione, fischiettando innocente mente per aria, quando notò con la cosa dell’occhio Satch cercarlo tra quelli che erano rimasti a bordo.

Era fondamentale che lui non si muovesse dal ponte, almeno non subito, o avrebbe messo in allerta il guardiano della sua...correzzione... la loro piccola preda. Sapeva benissimo che se soltanto avesse osato mettere un piede fuori bordo, il Diplomatico gli sarebbe stato fiato sul collo per il resto della giornata, onde assicurarsi non si avvicinasse troppo alla sua protetta.

Gongolò internamente ripassando mentalmente il proprio piano. Poche ore e la ragazza sarebbe caduta in trappola e la parte più bella era che quell’imbecille del Boemo si sarebbe preso la colpa, almeno per il tempo che gli sarebbe servito per darsela a gambe.

Appena un attimo di distrazione e Teach potè tornare sul punto dove prima si era nascosto il Boemo, ma solo per ritrovarlo vuoto.

Si sfregò le mani, fingendo di dirigersi verso le dispense per sgraffignare qualche avanzo di crostata, con un sorriso beota stampato in faccia.

Doveva fare una lumacofonata importante.

 

Atto 21, scena 4, Corno Destro

Fare shopping con Izou si era rivelato più rilassante del previsto. Il pirata dal kimono si era rivelato non solo un compagno rilassante per fare spese, poco pretenzioso e molto incline ad ascoltare quali fossero le sue preferenze in materia di vestiti, ma anche un ottimo consigliere, con uno spiccato senso estetico anche per quel che riguardava l’accostamento dei colori.

L’unica pecca che Allegra poteva trovare nel fare compere insieme a Belladonna Izou era che ovunque andassero, fosse anche stato il ciglio di una stradina più stretta del normale, erano seguiti costantemente dagli sguardi dei passanti, a volte con ammirazione, a volte con curiosità e addirittura con rabbia e fastidio. A lei non piaceva essere al centro dell’attenzione, e sulle prime, sentendo la base del collo pungerle fastidiosamente per via della marea di sguardi su di loro,  si era rannicchiata nelle spalle, cercando di farsi piccola ed insignificante. Poi si era accorta di non essere lei quella perforata dagli occhi degli estranei brulicanti attorno a loro, ma proprio Izou.

Doveva essere a causa della sua fama come pirata di Barbabianca il motivo di tutto quel clamore.

Il suo accompagnatore non pareva però turbato dalla cosa, anzi, a testa alta e schiena ritta camminava fiero, mostrando una sicurezza che lei, così intimorita da quel cielo troppo aperto a da quelle case troppo basse, si ritrovò ad ammirare ed invidiare al tempo stesso.

Nel mezzo della strada, al sicuro e nascosta nell’ombra di quel fiore alto ed ambiguo, Allegra si ritrovò ad abbassare gli occhi e guardare la strada scorrere sotto di lei come un fiume, sentendosi terribilmemte fuori luogo, ma, del resto, come sarebbe potuto essere altrimenti?

Lei non apparteneva a quel genere di posto. I profumi le erano estranei, le voci sovrapposte l’una all’altra nel caos dell’infinito mercato, il peso dei vestiti dentro quei sacchetti che odoravano i maniera strana.

Nulla di tutto ciò aveva veramente a che fare con lei.

Lei non aveva veramente a che fare con quel genere di posti. Dubitava fortemente che, anche passando più di ventiquattr’ore in un ambiente simile come suggeritole da Satch, si sarebbe mai riuscita ad ambientare.

“Allegra-chan?”

La sua fronte colpì lievemente la schiena davanti a lei.

Guardando in alto, la paradisea vide gli occhi neri di Izou perforarla dall’alto.

“Sì?” disse lei con un filo di voce, stringendo con un po’ di nervosismo i manici di plastica tra le dita.

“Ti senti bene?”

“Ah.” indugiò “S-sì tutto bene. S-sono solo un po’ frastornata da tutto questo...” accennò con un movimento della testa alle persone che, addocchiandoli di sottecchi, borbottava scontenta.

“... trambusto.”

Contrastando nettamente col trucco minimale sulle proprie labbra, Izou spalancò la bocca in un ghigno spavaldo, affrontando quell’indesiderato pubblico, che, vedendosi ricambiare dall’oggetto delle proprie discussioni, si ammutolì, tornando ad occuparsi, almeno all’apparenza, degli affari propri.

“Ecco fatto! Caso chiuso!” esclamò sorridente.

“G-grazie Izou.” ricambiò lei un po’ meno convinta. L’onnagata però si rabbuiò.

Sbuffò e con le mani sui fianchi le si pose accanto, ritornando a camminare dritto al centro della strada:

“Avanti, sputa il rospo. Cosa c’è che non va?”

Tutto.- avrebbe voluto rispondere lei di getto,ma si cucì la bocca.

“Nulla, Izou davvero...” si schiarì la gola, dannazione perchè le si doveva seccare di colpo proprio in quel momento?!

“Pensavi alla tua isola, vero?”

Lo guardò sbalordita. Belladonna guardava fisso davanti a sè senza vedere realmente la strada, la bocca stretta con gli angoli rivolti all’ingiù e le sopracciglia appena contratte in un’espressione talmente seria da farlo sembrare arrabbiato.

“Come..?”

“Ci sono passato.” la interruppe. “Anche io prima di diventare un pirata di Oyaji ho visto la mia isola sparire.”

Girò elegantamente il collo verso di lei, il tono e l’espressione fattisi più dolci, addirittura nostalgici.

“Per i primi mesi non si fa che guardare con paura e sospetto tutto ciò che ti sta intorno... e rimpiangere ciò che si è perso.”

Alla paradisea passò davanti agli occhi l’immagine delle sue cugine e parenti sedute sui rami nel buio della notte ad intrecciare liane luminescenti come dei festoni. Il loro Carnevale, o meglio, la Festa delle Stelle, era una delle cose che più di tutte le altre cose le saltava alla mente: i loro canti, le fiamme che danzavano coprendole come dei mantelli, gli addobbi arborei e luminosi che ornavano il loro villaggio, pendendo languidamente dai rami degli alberi. 

Prima che arrivasse quel demone loro erano state ad un passo dal terminare i preparativi...

Si morse le labbra, sentendo il groppone in gola crescere a dismisura. 

Sua zia Drama era stata quella a lanciare il primo urlo d’allarme e, forse, era stata anche una delle prime ad andarsene.

Un paio di mani per nulla femminili le strinsero le spalle, come a volerle infondere con piccole e veloci strizzate un po’ di coraggio.

“Su, su. Non piangere. Mi dispiace di averti intristita. Dai, pensa positivo! Vedrai che troveremo tuo fratello e la tua cuginetta in men che non si dica! Ok?”

Lo guardò per qualche istante. Le sembrava così sincero, con quel sorriso che, ripensandoci, era proprio tipico di tutti i membri della ciurma. Le venne naturale azzardare un sorriso tirato.

“Ok.”

“Bene!” esclamò quello, alzando le braccia con esultanza per poi tornare immediatamente alla propria camminata elegante e superarla.

“Ora sbrighiamoci, prima che quel favoloso negozio di yukata e kimono pregiati chiuda! Abbiamo già fatto abbastanza tardi!”

Sulle prime Allegra ci rimase di sasso, ma poi si rilassò, tornando ad un’espressione serena.

Che tipo strano.

“EEK!EEK-EEK! EEEEK!”

La paradisea si afferrò di scatto il petto, premendoselo all’altezza del cuore. Non si curò di aver lasciato cadere nel gesto alcune delle buste che trasportava, perchè, girandosi verso la serie di versi striduli che l’aveva spaventata, sempre mantenendo le labbra serrate onde evitare che il benché minimo rumore acuto le fuoriuscisse, riconobbe fin troppo bene la colpevole.

“Josephine?” sussurrò, allentando la presa alla propria maglietta, mentre la scimmia di Doma, saltellava davanti a lei sulla tettoia in tegole di una bottega, gesticolando come un’indemoniata verso di lei.

Ma che ci fa qui?- pensò, avvicinandosi alla primate che intanto non smetteva di soffiare e gridare verso di lei a labbra tanto tirate da soprire anche le gengive.

Non appena le fu abbastanza vicina, alzò una mano, tentando di attirare la sua attenzione, certa che non l’avesse riconosciuta.

“Ehi, ma non dovresti essere sulla nav- ehi!”

Neanche il tempo di finire la frase che la scimmietta era scattata di lato, atterrando su un’altra tettoia lì accanto, continuando a saltellare e battere le mani sopra la testa. Lei si spostò d’istinto, seguendola.

“Mi prendi in giro?” si accigliò lei a braccia incrociate, avvertendo le radici dei capelli scaldarsi e sfrigolare.

Si bloccò appena in tempo e, con un respiro profondo, soffocò l’impellente bisogno di doversi ricoprire di fiamme che a quanto pare il suo corpo sentiva.

“Josephine!” richiamò lo scimpanzè ancora una volta, questa volta con tono di rimprovero, ma ancora una volta l’animale finse di non capirla, continuando a saltellare e gracchiare così forte che Allegra si stupì che nessuno avesse ancora protestato o, come minimo, scoccato verso di loro uno sguardo di rimprovero.

Normalmente la cosa non le avrebbe dato fastidio, tuttavia...

Cercò istintivamente la figura di Izou, ma solo per trovarlo molto distante da lei, con la propria acconciatura che spuntava in lontananza tra le teste degli altri passanti e, dal modo in cui stava gesticolando, non aveva ancora notato la sua assenza.

La gola le si seccò di colpo, iniziando a pizzicarle in modo famigliare.

“EEK!EEEEK!!!”

“Dai Josephine, fai la bra-”

Di colpo la luce se ne andò. 

Fece appena in tempo a capire di essere stata bendata da una mano premuta forte sugli occhi.

Poi un fonte dolore all’altezza della nuca.

E più nulla.

 

 

Fine prima parte Atto Ventunesimo

 

Ancora stavolta 19 pagine dopo un lungo periodo di assenza (abbiamo sforato quasi un anno??) che giustifico qui di seguito: a seguito di un gravissimo lutto in famiglia la mia voglia e gioia di scrivere si era ridotta a zero praticamente.

Ne sono venuta a capo solo pochi giorni fa e se ci sono riuscita lo devo a due utenti in particolare che non si sono arrese con me, dimostrandosi non solo delle lettrici fedeli, ma anche delle ottime persone:

un grazie enorme quindi a KH4 e kymyit e ovviamente tutte le altre che hanno continuato a commentare!

 

Detto questo vi lascio ai commenti e come sempre:

1. Suggerimenti liberi! XD

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Capitolo 30
*** Atto 21 -seconda parte- ***


Kaikoku no Allegretto

L’allegretto del pirata

Atto 21 - seconda parte-

 

Atto 21, scena 5, Corno Destro

 

Era la prima volta dopo anni di forzata convivenza che Arch si ritrovava a desiderare ardentemente la presenza di Viola.

Dopo averlo trascinato fino ai confini della città Kidd l’aveva letteralmente mollato dentro la prima taverna a portata di lancio, seguendolo a ruota con un’entrata di gran lunga più dignitosa con i suoi sgherri alle calcagna. Neanche a dirlo, Arch si era subito sentito punzecchiare il collo dalla sgradevole sensazione di essere osservato da ogni singolo energumeno zuppo d’alchol presente in quella bettola odorosa.

E la situazione non migliorò di certo, quando lo stesso capitano che l’aveva scaraventato la prima volta, si premurò di raccoglierlo di nuovo per la calotta, manco fosse stato un gattino, per poi rigettarlo sulla prima sedia a disposizione.

Se soltanto avesse potuto, avrebbe ricambiato quel trattamento con un sonoro calcio nelle gengive, giusto per dare un tocco di classe a quella dentatura fin troppo perfetta per essere quella di un bucaniere.

Oh, quanto avrebbe desiderato un po’ della forza bruta della cugina.

Quasi si vergognava nel pensare una cosa del genere: sua madre lo aveva sempre incitato a non pensare di essere inferiore alle altre per via della sua incontestabile mancanza di tonicità muscolare, nè di dover desiderare quello che gli altri possedevano già per natura. Tuttavia, sentendo le sbirciatine degli avventori di quella locanda e le loro risatine conciate provocate dalla sua magra figura, non potè far altro che rimpiangere il fatto di essere, confrontato ai suoi accompagnatori, solo un ragazzo gracilino, e meditare al contempo vendetta verso il capitano.

Si appoggiò al tavolo con un gomito, passandosi le dita fra i capelli della frangia. Da sotto le proprie ciocche bionde, spostate verso l’alto, Arch ebbe modo di lanciare un’occhiata discreta a Kidd che, ovviamente, si stava già rinfrescando la gola con un boccale di birra schiumosa.

Fece per aprire bocca, ma la voce di un’altra persona, il locandiere molto probabilmente, lo bloccò.

“Allora Kidd, qual buon vento ti porta qui?” disse quello, asciugandosi le mani nel grembiule sudicio che teneva legato alla vita, sfoggiando un sorriso largo e fermo, tipico di chi, secondo Arch, avrebbe potuto anche pugnalarti alle spalle alla minima occasione. “Spero non una tempesta come l’ultima volta! Ricordo che alle mie ragazze ci vollero parecchie ore di servizio per risollevarti il morale.” concluse allusivamente condendo il tutto con un’occhiolino in segno d’intesa.

Ragazze?

Alzando la testa Arch notò, per la prima volta da quando entrato, un secondo piano, ben visibile grazie ad una soppalco in legno ad “L” dotato di ringhiera sulle quali, con sua sorpresa, erano poggiate in fila, chi con espressione giuliva, chi annoiata, un gruppo di giovani donne vestite succinte e in modo vistoso.

Ad Angelo Infido non ci volle molto per capire l’utilità della loro presenza.

Una sensazione di acido gli salì su per la gola e la lingua gli si attaccò al palato.

Prostitute.

Quel coglione di Kidd lo aveva portato in una…

Notato il suo sguardo, una delle ragazze gli mandò un bacio volante.

Arch non ci fece granché caso, troppo impegnato a girarsi verde di rabbia verso Kidd, ancora preso dalle battute dal dubbio umorismo del locandiere.

Il capitano, si asciugò i rimasugli della prima birra con un movimento osceno della lingua, intercettando il suo sguardo adirato con un po’ di stupore.

“Che intenzioni hai, Kidd?” scandì sibilando tra i denti, approfittando del suo momento di smarrimento.

Una risatina montò nel petto del pirata, esplodendo e rimbalzando tra i muri di quella bettola con una nota beffarda.

“Rilassati, angioletto, siamo qui solo per sgranchirci le ossa. Tutto qui.”

Ne dubito...- pensò scoccando un’altra occhiata alle ragazze affacciate sopra si loro.

A Kidd però quella sbirciatina non passò inosservata.

Ridacchiò direttamente dal fondo della propria gola.

“Scommetto che sulla tua isola eri quello che si divertiva di meno.” ghignò, scoccando le dita poi verso il locandiere “Ehi, un giretto anche per raggio di sole!”

Neanche il tempo di dire che lui non beveva che subito Arch si trovò davanti un boccale traboccante di liquido ambrato, col sorriso del locandiere a farne da sgradevole contorno.

Arch decise che nemmeno sotto tortura avrebbe accettato di bere qualcosa versatogli da quel tizio. Benchè meno quel liquido giallastro che gli umani più rivoltanti sembravano trangugiare come acqua.

Un’altra sua sbirciatina verso l’alto venne accolta da una strizzata d’occhio e quattro risate acute di sottofondo.

Un altro conato alla gola.

“Viola dovrebbe essere già tornata.” dichiarò lui desiderando solo avere una scusa per uscire da quella topaia.

“E di che ti preoccupi?” disse però con voce impastata dai primi segni di una sbronza uno dei tanti pirati di Eustass “Sicuramente avrà solo voglia di riposare, dopo tutto quello che ha passato! Lasciala quietare!”

Kidd, osservò compiaciuto il biondino agitarsi sulla propria sedia, chiaramente a disagio. 

Si raccomandò di offrire un paio di boccali in più al santo tra i suoi che aveva parlato.

Non avrebbe saputo dire di meglio.

 

Atto 21, scena 6, Corno Destro

 

Quale parte della frase “Resta qui.” Arch non riusciva a capire?!

Viola osservò con disprezzo il ponte dell’imbarcazione miseramente vuoto - fatta eccezione per quei due o tre poveri cristi che erano rimasti di guardia, imboscandosi qua e là per la nave, nella vana speranza di non essere notati da lei.

Sforzo inutile, visto che lei era più che allenata ad individuare la presenza di altri esseri viventi in condizioni di visibilità pessime. La boscaglia di Nido Leila in confronto a quella imbarcazione era mille volte più insidiosa.

Non era comunque a quei galletti spauriti che stava pensando.

Il sangue le era salito al cervello da un pezzo, immaginando di stritolare con dolce soddisfazione il collo del cugino.

Tentò di non contrarre troppo le dita, conscia di avere ancora tra le braccia Morgan, beatamente addormentato, e che, onde evitare di svegliarlo in maniera traumatica avrebbe fatto meglio a lasciarlo sulla nave, prima di partire alla volta della propria vendetta personale.

Risalì a passi pesanti la passerella della nave e, facendo a meno di ringhiare ai piratuncoli, che tremarono al suo solo passaggio, si mise a cercare un’alloggio decente, certa di non voler più tornare a quel polveroso e puzzolente cubicolo che si era scelta inizialmente.

Una volta trovato, stavolta optando per uno più luminoso e asciutto, poggiò il bambino delicatamente, anche se un po’ impacciatamente,  sul letto.

Il piccolo orientale si raggomitolò borbottando, forse disturbato dall’improvvisa mancanza di calore, prima di risprofondare in un sonno tranquillo e scandito da respiri lenti e regolari.

Viola lo guardò, prima accigliata come suo solito, poi sempre più rilassata, fino ad arrivare ad un accenno di sorriso. Quel marmocchio era riuscito a fare qualcosa che in anni e anni nemmeno le ramanzine insistenti di Arch ed Allegra sarebbero mai riuscite.

Uscì dalla camera, richiudendo la porta dietro di sè con cautela, china sul pomello per controllare fino all’ultimo spiraglio che Morgan non si svegliasse.

Quando finalmente la serratura scattò al minimo del rumore, i pirati di Kidd che, preoccupati e poco ansiosi di lasciare libera di girare indisturbata per la Hell Glory quella calamità naturale fatta a donna, si erano accostati a spiarla da dietro la scala che portava al ponte, videro gli occhi della argentata scintillare di rosso e farsi taglienti come lame.

Il suono di nocche fatte suonare in modo sinistro non fu la sola cosa che accompagnò la figura flessuosa di Viola, man mano che risaliva ed infine percorreva a ritroso il ponte della Hell Glory. 

Un sottile sorriso incurvò la bocca normalmente imbronciata della paradisea. 

Era un vero peccato che Arch dovesse essere il primo ad assaggiare ciò che per anni le aveva sempre suggerito, con una certa prepotenza, di accettare appieno.

Dalle braccia segnate da tratti di pelle tirata e liscia una sensazione di calore risalì legamenti, ossa e nervi some le spire di un serpente.

Non appena i serpenti incandescenti superarono la linea immaginaria che separava le spalle dal resto del corpo, s’irrigidì istintivamente. Erano anni che la sua essenza non le invadeva tutto il corpo. Un minimo di disagio era inevitabile, ma non potè fare comunque a meno di serrare lievemente le mascelle, lasciando che la Violenza facesse il suo lavoro.

Non fu comunque una passeggiata: fu come se migliaia di piccoli spilli le si stessero conficcando uno per uno nelle profondità della sua pelle. Anche se dall’esterno non ne appariva per nulla turbata le costò non poco rimanere impassibile fino alla passerella, dove, finalmente, il dolore si dissipò come neve al sole.

Respirò a pieni polmoni... e - guardò incredula il cielo senza vederlo veramente- si sentì come rinata.

Lasciò il mento libero di penzolare, incurante degli sguardi incuriositi dei pirati di Kidd.

Era assurdo ammetterlo così, ma... non era mai stata meglio.

Non era solo per il fatto di non sentire più dolore.

Si sentiva... lucida. Così tanto che persino odori e suoni le sembravano più limpidi che mai. 

Guardò in basso e riuscì a distinguere l’odore fresco ed umidiccio dell’erba bagnata. Gocce di rugiada risplendettero vibranti alla luce del pomeriggio filtrante dagli alberi.

Dall’alto un paio gabbiani vociarono ripetitivi, tracciando cerchi immaginari sullo sfondo azzurro del cielo.

Mentre si addentrava nella boscaglia alla volta della città, ebbe l’istinto ridere commossa e divertita e, per la prima volta nella propria vita, lo fece. 

Viola Sassonia scoprì proprio quel giorno di avere una risata argentina a dispetto delle proprie aspettative. Squillante e altisonante.

Pur riuscendo a trattenere la voce, suonò proprio come un canto di vittoria.

 

 

Atto 21, scena 7, ?????, Aria di Prigionia

 

Freddo. Faceva freddo.

Quando mi risvegliai non riuscii immediatamente ad muovermi, né tantomeno ad aprire gli occhi, ma attorno a me sentivo chiaramente un’ambiente umido ed una sottile patina d’acqua formarsi sulle mie spalle nude.

Sentivo le membra pesanti ed intorpidite, come se avessi dormito per giorni interi.

La mia testa iniziò gradualmente a pulsare, rendendomi doloroso anche il più piccolo pensiero.

Provai allora a respirare un poco più a fondo, sperando che un po’ più di aria al cervello mi aiutasse a rimettere in moto il resto del corpo, ma il mio respiro era come bloccato in un ritmo lento e a malapena sufficiente alla mia sopravvivenza.

Provai ad aspettare, ma, nonostante il passare dei minuti, il senso di spossatezza non sparì e nemmeno l’apatia muscolare che mi impediva letteralmente di reagire.

Eppure da qualche parte nella mia testa, riuscivo ancora a ragionare. 

Dov’ero?

Le mie orecchie sentivano lo sciabordio lontano del mare che si fracassava sugli scogli, ma anche quello più vicino di onde e spruzzi d’acqua su qualcosa di più compatto…un pavimento?

Strinsi gli occhi e riscoprii le mie palpebre pesanti e doloranti. 

Quando li aprii a fatica la prima cosa che notai furono alcune ciocche di capelli che dalla mia fronte erano scivolate dinanzi ai miei occhi, poi le mie braccia, distese parallele su qualcosa di liscio e scuro, e infine le mie mani, legate da una doppia fila di catene spesse e grigie.

Ero distesa di fianco su un pavimento freddo e umido, con la testa tanto reclinata e solo la mia stessa spalla a farmi da cuscino.

Cosa? - pensai senza capire e provai ad arricciare le dita, ma il mondo iniziò a sdoppiarsi e a vorticare con più forza e i miei muscoli si rifiutarono di collaborare.

Non ero semplicemente stanca.

C’era qualcos’altro che mi impediva di muovermi e non erano le catene.

“Ehiehiehi, Reginald! La pupette si sta svegliando!”

“Di già? Ma quella dose doveva tenerla fuori gioco per almeno 4 ore!”

“Forza passami la siringa, così la rimettiamo a nanna! Almeno finchè il compratore non arriva con la grana e se la porta via.”

Una mano ruvida e rozza mi scostò i capelli e prima che potessi dare un senso alle loro parole, qualcosa di appuntito mi venne conficcato nel collo. 

Spalancai gli occhi più per la paura che per il dolore e, come colta da un’improvvisa urgenza di scappare, iniziai ad agitarmi mollemente, mugugnando con bocca impastata lamenti incomprensibili.

L’ago venne estratto con più gentilezza rispetto a prima e, dopo che la mia testa venne riposata a terra, una carezza alla testa sopraggiunse poco prima della stanchezza, insieme a delle parole che mi parvero lontane ed echeggianti.

“Mi spiace pupette, ma gli affari sono affari.”

Le mie mani vennero riavvolte dall’oscurità e sprofondai nuovamente nell’oblio. 

 

 

Atto 21, scena 8, Corno Destro

 

C’era un lungo ponte a collegare le due isole dell’arcipelago, soprannominato Ponte Squama. 

La sua creazione era costata molti soldi alle due isole, amministrate da due rappresentanti distinti che erano riusciti, sorprendentemente, a far combaciare gli interessi di ambedue gli insediamenti senza intoppi burocratici.

Si trattava di un lungo ponte sorretto da resistenti pilastri in cemento, due possenti file di di legno massiccio ne seguivano il percorso ed il rivestimento, nonch’è la pavimentazione sul quale carri mercantili e carrozze viaggiavano, era composta da piastrelle ricavate dal sezionamento delle pietre tonde e lisce sul fondale marino, incastonate l’una all’altra in un effetto mosaico che ricordava, sia per la variazione continua di colore, la pelle squamosa di un rettile.

Era, di per sè, una meraviglia dell’ingegneria, sottovalutata per lo più dai suoi stessi residenti che, avendo avuto modo di ammirarla da almeno un paio di generazioni, la davano forse un po’ per scontata e non più importante di un’alternativa meno costosa a pagare il trasporto via nave dei propri beni dall’altra parte del canale.

Viola non la valutò neanche di striscio.

Arrivata al molo del Corno Destro con un’espressione talmente scazzata da intimidire anche i più interessati al volume della sua scollatura, l’unica cosa a cui prestò veramente attenzione furono le poche teste bionde che entravano nel suo campo visivo.

Niente. No. Troppo alto. Oh Grande Spirito, no, che razza di naso era quello?!? - i suoi pensieri viaggiavano più in fretta delle sue gambe, mentre passava in rassegna tutti quelli che potevano anche solo di sfuggita somigliare al cugino.

Essenza accettata o meno, Viola sentiva le mani pruderle.

Erano almeno 2 ore che vagabondava per quello schifo di isola!

D’accordo, forse addentrarsi in città non accompagnata, senza avere la benché minima idea di dove “naso schiacciato” avesse trascinato suo cugino, non era stata una grande idea.

Un’altro biondo le passò oltre, stavolta azzardando un’occhiata di troppo al solco dei i suoi seni.

La sua mano scattò istintivamente, quasi mossa da vita propria, ed il viso del guardone, tanto pressato dalle sue dita da sembrare quello di un polpo dalle labbra sporgenti, entrò nel suo campo visivo con occhi strabuzzanti di terrore.

Un paio di mugugni di dolore le furono straordinariamente sufficienti per ritenersi soddisfatta.

“Hai 10 secondi per sparire dalla mia vista, vermetto bavoso.”

Un movimento secco del polso e lo sentì barcollare a terra mezzo terrorizzato.

Non lo degnò neanche di uno sguardo. Che mammolette gli uomini umani. Non sarebbero sopravvissuti su Nido Leila nemmeno 10 secondi.

Quasi quasi rivalutava Archetto. 

Almeno lui non frignava come un poppante per una semplice occhiataccia.

Persino Morgan piagnucolava con più dignità di quel tipo. Era stato anche fin troppo fortunato ad essersela cavata con un semplice avvertimento: in passato non avrebbe esitato a spaccargli i denti.

Uao. E lei che credeva la sua Essenza l’avrebbe trasformata in una macchina per uccidere. 

Meglio non dirlo ad Arch. Non gli voleva dare la soddisfazione di rinfacciarle di aver avuto ragione anche su quello.

Fu in quel momento, nel mentre ancora rimuginava sui piacevoli effetti dell’aver accettato la propria Essenza, che Viola si accorse di una lunga fila di carri e carovane in fila che le sbarravano la strada.

S’imbronciò confusa ed un sopracciglio grigio le scattò in alto.

Ma che…

Fece scorrere lo sguardo di lato e finalmente si accorse del lungo ponte che, accanto lei, superava una grande distesa d’acqua, fino a raggiungere le sponde di un’isola di forma vagamente simile a quella su cui stava lei.

E se…?

Osservò ancora una volta la fila di persone ammassate quasi l’una sull’altra, chi trasportando borse, tappeti, fagotti, chi sudando come una fontana, chi sventolandosi placidamente un ventaglio in faccia, e le venne la nausea.

Grugnì e, alzando gli occhi al cielo, si sforzò per una volta tanto di valutare la situazione: Arch non c’era nelle vicinanze, o almeno, lei non l’aveva trovato, e a quanto pareva quel ponte era parecchio battuto.

…. Argh. doveva darci un’occhiata o ci avrebbe pensato per il resto della giornata.

“Appena rivedo naso-rotto…” ringhiò a mezza voce decidendo di seguire il fiume di gente verso l’accesso al ponte.

Non ci mise molto, non essendosi infilata in quell’ammasso di corpi sudaticci, ma quando arrivò al lato del ponte non poté fare a meno di lasciar penzolare il mento per lo stupore.

Davanti a lei un fiume di persone si spargevano a macchia d’olio per tutta la lunghezza di quell’enorme struttura, limitata ai lati dalle ringhiere più massicce e lunghe che avesse mai visto. 

Lunghe travi a base quadrata, disposte a tripla fila alla maniera orientale così comune d’averla subito stufata, lisce, intarsiate con decorazioni floreali in rilievo di una finezza terrificante e …immense.

Da quanche parte Viola avvertì gli scatti ed i flash di un gruppo di macchine fotografiche, sicuramente qualche turista meravigliato, ma lei fece solo caso ad un singolo palloncino rosso volato via dalla mano di un bambino che, salendo verso l’alto si accostò ad una delle travi che componevano quell’immensa barriera.

La gola le si asciugò.

Era come vedere una coccinella posarsi su un dito umano.

Ci fu un istante in cui si sentì piccola ed insignificante.

Si sforzò di compiere qualche passo in più, scrollando lievemente la testa, come a voler allontanare quella sensazione odiosa al pari di una zanzara.

Ok, forse gli umani non erano totalmente patetici.

Le labbra le si strinsero, mentre tornava a guardare quel ponte mastodontico.

Ma rimangono comunque degli ignoranti pericolosi. - decretò mentalmente e, accucciandosi a terra, ginocchia flesse tanto da sfiorare il terreno e mani puntellate sul pavimento, molleggiò un paio di volte, prima di darsi un potente slancio verso l’alto.

Il suo corpo si librò in aria esattamente come quello di un gatto, il vento le passava sotto le braccia, tra i capelli e le batteva forte sul viso.

Non si curò delle urla sotto di lei, pur avvertendole distintamente con la punta dell’orecchio, perché troppo occupata a godersi quella sensazione che tanto conosceva e che tanto le era mancata.

Per un attimo le sembrò di essere tornata su Nido Leila, a lanciarsi da un albero all’alto facendo a gara con Allegra su chi sapeva saltare più in alto o più lontano.

Le lacrime fecero appena in tempo a solleticarle gli angoli degli occhi, prima che la trave su cui aveva puntato le colpisse d’improvviso una gamba, facendola ruzzolare malamente per un lungo tratto di quella immensa ringhiera.

Quando finalmente il suo corpo smise di rotolare, rantolò un paio di volte, riscoprendosi in una posizione talmente sgraziata e pericolosa da farle ringraziare di non essersi portata il marmocchio appresso. 

Era stato un miracolo che non si fosse rotta l’osso del collo.

Riportò le gambe a terra, finite con le ginocchia all’altezza del collo, e sospirò sollevata.

A parte qualche ammaccatura e graffio superficiale, non sentiva nulla di rotto.

Non sono mai stata brava con gli atterraggi. - pensò massaggiandosi il retro del collo, un poco dolorante.

Il riverbero di un fischio le infastidì le orecchie, attirando la sua attenzione alla propria destra, verso il basso.

A circa 10 metri sotto di lei si era radunato un gruppetto di uomini in divisa bianca e, a giudicare da come uno di loro, il capo molto probabilmente, gesticolava con un dito puntato in sua direzione ed un fischietto ancora sollevato all’altezza della bocca nell’altra mano, sbraitava ordini a quelli raccolti intorno a lui, era lei la fonte del problema.

Chiessenfrega.- concluse iniziando a camminare lungo la scia di legno che le si profilava innanzi.

A lei interessava soltanto ritrovare Arch.

“SIGNORINA SI FERMI!”

Viola rialzò ancora una volta gli occhi al cielo, le dita di entrambe le mani contratte come a voler artigliare o strangolare qualcosa di inesistente. 

Di questo passo era certa che avrebbe ben presto perso quella poca pazienza da poco ritrovata.

Grande Spirito… che cazzo c’era ancora?!

Azzardò un’altra occhiata verso il basso.

Stavolta il capetto di quella marmaglia di berretti bianchi stava parlando attraverso una sorta di cono in sua direzione che, stranamente, stava amplificando la sua voce in maniera per lei assolutamente irritante.

“LEI STA OLTREPASSANDO UN CONFINE AMMINISTRATIVO SENZA PAGARE LA DOVUTA TASSA DI ESPATRIO. IN QUANTO PRIMO UFFICIALE DELLA SICUREZZA, LE INTIMO DI ARRENDERSI E RITORNARE SUI PROPRI PASSI. IN CASO CONTRARIO SAREMO COSTRETTI A TRATTARLA DA CRIMINALE ED APRIRE IL FUOCO SU DI LEI!”

Cosa cosa? 

Aveva capito bene?

Volevano “spararle”? Per essere salita su un pezzo di legno? E che cavolo era una “tassa di espatrio”?

Un’altra cretinata umana senza dubbio…

“Tsk!” fece guardandoli con sufficienza, azzardando un passo in avanti.

Non si sarebbe certo lasciata intimidire da un branco di molluschi senza spina dorsale! 

Non c’era modo in cui potessero salire o ferirla da quella distanz-

Qualcosa le vibrò accanto alla testa.

Eh?

L’istinto di buttarsi a terra fu la prima cosa che la mosse.

Tempo di sfiorare con le punta delle dita la superficie di legno laccata ed attorno a lei si scatenò un inferno di sibili e palline metalliche lanciate a grande velocità.

Anche quell’atterraggio non fu dei migliori: sentì la cassa toracica scontrare il resto della ringhiera con un colpo secco e gli oramai lunghi capelli impigliarlesi tra le venature meno trattate della trave. Maledizione! Potevano passare almeno 15 minuti senza che rischiasse di ammaccarsi la zona pettorale?!

Rantolò con il respiro mozzatosele in gola, scivolando di nuovo per un certo tratto.

Poi, un ultimo sibilo ed avvertì qualcosa di orrendamente piccolo oltrepassarle le carni del fianco da parte a parte.

Inizialmente, stando ancora prona e lievemente tremante per lo shock, tutto quello che sentì fu una sensazione  di incredibile fastidio.

Poi fu il turno del dolore, accompagnato dalla sensazione di qualcosa di caldo scorrerle lungo l’anca, verso il basso, inzuppandole l’orlo dei pantaloni.

E la gola sfrigolò, minacciando di dar vita ad un urlo.

Viola si conficcò i denti nelle labbra, arricciando le lunghe dita della mani a pugno, mentre vedeva il mondo farsi nebbioso a brevi tratti.

Infine arrivò l’oltraggio. La vergogna.

E infine la rabbia.

Digrignò i denti.

Le avevano sparato!

L’avevano centrata!

Dannati cani rognosi dal grilletto facile!

Non notò le proprie braccia, puntellate ai lati del suo viso, venire ricoperte da un manto uniforme, sottile e quasi fumoso di fiamme rosse che sfregiò la laccatura resinosa del ponte, così come non si rese quasi conto di aver voltato il viso, fronteggiando i militari sottostanti.

Doveva avere un aspetto veramente spaventoso, perché le pallottole cessarono di vibrarle attorno e li vide sbiancare letteralmente di netto.

Uno di loro urlò qualcosa, puntandole di nuovo un dito contro, ma l’ululare del vento che le turbinava attorno coprì qualsiasi tipo di suono.

Volevano la guerra?! D’accordo! 

Puntellò i piedi, raccogliendo le ginocchia al petto con un singolo slancio e, una volta accucciata, si lasciò dondolare di lato, oltre il bordo della struttura in legno.

Per un istante il mondo vorticò, scambiando di posto terra e cielo, in una successione che per chiunque sarebbe stata da capogiro.

Ridacchiò sotto i baffi.

Ma non per lei. Era abituata a quelle manovre spericolate, solo che non era mai riuscita a trovare né il luogo adatto né la voglia di cimentarvisi nuovamente. 

Nel mezzo della caduta alzò un braccio ed affondò con gesto secco le unghie infuocate nella laccatura del pilastro legnoso di fianco a lei. Il materiale fibroso le si raggruppò sotto i polpastrelli, arricciandosi in tanti trucioli di segatura che le volteggiarono attorno, mentre la sua discesa proseguiva rallentata fino al pavimento lapideo del grande ponteggio.

Quando i suoi piedi nudi incontrarono la superficie bollente del lastricato, Viola non era comunque meno imbufalita di prima. Ed a giudicare della sinfonia di denti battuti ed artiglieria a stento trattenuta da mani sudaticce che si ritrovò davanti, quel manipolo di sgherri in divisa ne era pienamente consapevole.

Bene.

Non erano dei marines: anche se la divisa poteva sembrare la stessa, mancavano le odiose insigne cerulee a forma di gabbiano che aveva oramai imparato a riconoscere ed odiare.

Erano solo un gruppo di omuncoli spaventati e con la sfortuna di essere assegnati alla sicurezza.

Fece per dire qualcosa, ma uno degli agenti le puntò prontamente la bocca del fucile contro, pur fremendo da capo a piedi in preda all’ansia.

“V-viola Sollevapesi! S-siete in arresto p-per violazione d-di un limite di frontiera. E-e-e re-sistenza a-!”
“Metti giù quell’arnese mammoletta, e ti faccio tornare a casa con le gambe al proprio posto.”

Lei che patteggiava?! Uao!

Si lanciò in avanti poco prima che un colpo partisse, deviando la canna del fucile in modo tale danno essere colpita. 

Le sue fiamme crepitarono più forte sulle sue braccia.

Allora volevano proprio ucciderla quei bastardi!

Altro che “arresto” ed altre cretinate!

Afferrò la guardia dal grilletto facile per il colletto e gli riservò un lungo e glaciale scambio di sguardi, pieno di dolorose promesse, prima di scaraventarlo contro i suoi compagni che, sotto il peso del loro collega, andarono giù come birilli.

Il dolore al fianco tornò a ruggire insistente ed le venne istintivo portarsi le mani alla ferita ancora grondante.

Oh merda. Stava perdendo troppo sangue.

Il lato sinistro dei suoi pantaloni era oramai quasi interamente ricoperto da una macchia umida e scura.

“Cazz..!”

Tempo di rialzare lo sguardo e si ritrovò una dozzina di fucili puntati addosso.

No, davvero??!!

“Si arrenda o faremo fuoco.” le intimò uno dei berretti bianchi.

Le sue minacce incontrarono orecchie sorde.

Davvero?! Dopo averle sparato addosso due volte di seguito, si aspettavano veramente che lei si fidasse?!

“Andate al diavolo.” sibilò tra i denti prima di frustare l’aria con un movimento del braccio per aprirsi un varco.

E ci riuscì.

Gli agenti, spaventati dal fuoco che minacciò di si scottare loro le facce, incespicarono a fiato corto all’indietro, chi abbandonando l’arma a terra, chi stringendosela al petto a mo’ di assurda barriera contro le fiamme.

Un rapido e deciso molleggio delle gambe, uno slancio, e Viola si ritrovò nuovamente sospesa in aria, con un mare di persone a guardarla boccheggianti col naso per aria. 

Le sue mani artigliarono saldamente la ringhiera, scavando dei solchi profondi quel tanto che bastava per non farla né scivolare né cedere alla potenza del vento. 

Scoccò un’occhiata sotto di sè, soddisfatta di trovare tutti ancora troppo scossi dalla sua ennesima dimostrazione di agilità e potenza per muovere anche un solo muscolo.

Ma non aveva tempo per una rissa.

Forse in passato non avrebbe esitato a buttarcisi a capofitto, godendo del suono di ossa rotte e dell’odore metallico del sangue, ma la musica era cambiata.

Era arrabbiata sì, ma l’urgenza di menare le mani non era così impellente come in passato.

Era più importante trovare Arch e…

Un’odore acre e fumoso le pizzicò il naso.

Odore di bruciato?

Oh no…

Girò la testa cautamente, dirigendo gli occhi verso l’alto. Uno sgradevole presentimento le tamburellava nel retro della propria testa.

Sotto le sue dita le fiamme rosse si erano espanse.

Talmente tanto da aver ricoperto ormai l’intero pilastro.

I bulbi oculari le fuoriuscirono poco a poco dalle orbite, ed era certa che la stessa cosa stesse avvenendo sui volti delle persone sotto di lei.

La resina con cui era stato laccato il ponte era stata smangiata dalle sue fiamme ed il legno sotto di essa aveva preso fuoco.

Oh cacchio.

“AL FUOCO!!!”

   

 

Atto 21, scena 9, Corno Sinistro

 

“Come sarebbe a dire che l’hai persa??!!”

Da quando Belladonna Izou era tornato dalla sua missione di compere a mani vuote e con una persona al seguito in meno, gran parte dei figli del Bianco si erano fiondati ai piedi della passerella, radunandosi attorno al lui come un gruppo di bambini tremanti.

Qualcuno lo spingeva, cercando di cavargli di bocca qualche informazione in più, qualcun’altra, probabilmente un membro della sua stessa flotta, lo incitava con qualche parola implorante.

E lui ovviamente, non poteva fare altro che mordersi le labbra pieno di vergogna.

Aveva girato lo sguardo per un istante.

Un misero, maledetto istante.

Ed era bastato perché Allegra svanisse nel nulla.

Proprio sotto la sua custodia.

Non gli servì alzare lo sguardo per sapere che davanti a lui si era materializzato, in un turbine di fiamme azzurre che aveva fatto indietreggiare spaventati il suo gruppo di assediatori, Marco, così come non gli servì per collegare il suo tono grave ad un cipiglio severo e pericoloso.

“Che cosa è successo, Izou?”

Si strinse nelle spalle, pregando che un miracolo lo facesse sparire nel nulla.

Izou era solitamente molto sicuro di sé. Abituato a stare sotto i riflettori, perennemente osservato, deriso, ammirato addirittura.

Ma questa… oddio, questa era troppo grossa da sopportare a testa alta.

Cosa avrebbe detto ad Oyaji? Come l’avrebbe presa?   

Deglutì, tentando vanamente di schiarirsi la gola, oramai secca come un deserto.

“L’ho persa di vista per un istante nella zona commerciale…” la voce gli tremò, imponendogli un momento di pausa “… deve essere rimasta dietro di me a causa della folla, pensavo… che sarebbe bastato tornare indietro e recuperarla…ma…”

Non c’era bisogno che continuasse. Era ovvio quello che voleva dire.

Aveva perso Allegra.

Aveva perso la loro nuova sorella.

Aveva perso l’unica cosa che Marco gli aveva personalmente affidato, fidandosi del suo giudizio.

E lui l’aveva deluso.

“Dannazzione Izou! Una sola cosa dovevi fare!”

Il tono di voce della Fenice era esploso in maniera così improvvisa che all’onnagata venne istintivo scattare indietro con la testa, pregando inconsciamente di potersi sottrarre a quella strigliata degna di un bambino colto a compiere in flagrante una marachella troppo grossa.

C’era da aspettarselo comunque che esplodesse. Non poteva biasimarlo per aver alzato la voce.

Si era anche fin troppo trattenuto nell’esprimersi.

Un paio di mani lo afferrarono per le spalle da dietro e lo voltarono senza che potesse dire niente.

Le facce pallide e piene d’apprensione di Satch e di Ace invasero il suo campo visivo. Le loro espressioni  sarebbero state anche divertenti, tanto drammaticamente deformate da farli somigliare a delle maschere teatrali da tragedia, ma, sfortunatamente, quello non era il caso.

Uno scossone gli fece ricordare di essere ancora sotto interrogatorio e la voce di Satch subentrò in un misto quasi rassicurante di premura ed ansia. Grazie a Roger almeno lui non sembrava incolparlo, per il momento.

“Sei sicuro di aver cercato ovunque? Ogni singolo vicolo della via?” 

Prima ancora che potesse rispondere al viso lievemente abbronzato di Satch si sostituì uno più pallido e lentigginoso.

“Izou! Sappiamo bene che non sei il tipo da lasciarti sfuggire da sotto il naso una persona in un modo tanto ridicolo! Devi pur averla cercata da qualche parte, no??!!”

Ma grazie Ace. Il solito tesoro.

A quel punto non riuscì più a stare zitto.

Davvero lo pensavano così idiota?!

Spinto da un’improvvisa ondata di indignazione e rabbia si mosse in avanti, confrontandosi direttamente con Pugno di Fuoco:

“Ovvio che l’ho cercata! Ho rastrellato quella maledetta zona da cima a fondo, ma nulla! E’ come sparita nel nulla!”

“Le persone non spariscono nel nulla, Izou.” la voce nuovamente calma di Marco, ancora in piedi dietro di lui, sedò prontamente i suoi bollenti spiriti meglio di una doccia fredda. Fu con non poco sforzo che si azzardò a girare la testa all’indietro.

Il viso scuro di rabbia trattenuta di Marco lo fece rabbrividire. Già di norma il suo sguardo naturalmente accigliato non lo rendeva la persona più amabile al mondo, se poi si metteva pure a lanciare occhiatacce apposta, la sua faccia sembrava più una promessa di morte!

E dire che, della loro ciurma, lui era solitamente il più placido! 

Diresse gli occhi di lato, lontano da quella vista agghiacciante, mentre dalla tempia sentiva una goccia di sudore scendergli con estenuante lentezza.

“Questo lo so anche io, Marco.” bofonchiò con cautela, temendo in un secondo sbotto di rabbia “Probabilmente Allegra è stata…”

Il suono ridondante di campane lo interruppe.

Tutti quanti, compresi i paesani che si erano posizionati a distanza di sicurezza da loro, temendo forse stessero progettando un’attacco all’isola, alzarono lo sguardo verso l’alto, improvvisamente turbati da quel suono famigliare e per nulla rassicurante.

Dal ponte della nave il Bianco  strinse la grande mascella, concentrandosi sulle onde sonore che riempirono in poco tempo l’aria tutt’intorno a loro.

“Ma che diavolo?” sussurrò Satch, lasciando andare le spalle di Izou.

“Le campane d’allarme.” spiegò secco Marco.

“Le usano solo in caso di…”

Un’odore di forte di legno bruciato invase l’aria e fu solo allora che lo notarono.

Il grande Ponte Squama era oramai interamente ricoperto di fiamme rosse rubino.

Stava bruciando.

 

Fine seconda parte Atto Ventunesimo

 

ALLORA. *gesti circolari semi-mistici con le dita*

Premettiamo che sono molto dispiaciuta per l’immenso ritardo dovuto ad un necessario periodo per risollevarmi da profonde piaghe della mia anima.

*Corre fuori campo e prende qualcosa di piatto ricoperto da un telo*

Ma questo.

*Prende il telo e scopre l’immagine di Momonosuke umano e in forma di drago*

Questo non riesco proprio a buttarlo giù! 

Perché più lo guardo più mi sembra una versione perfezionata di Morgan con un nome riferito a quello di Momo/Allegra?! Y^Y

Le cose sono due: o io ed Eichiro Oda ci siamo sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda artistica quel fatidico giorno (o qualche assurda influenza planetaria ha messo il suo zampino nelle nostre teste) oppure Oda conosce l’Italiano e bazzica senza che noi lo sappiamo sui siti di fanfiction???

No ciccie mie. Spiegatemelo! 

Ve ne prego!!! T^T

 

Annuncio con immenso rammarico che da oggi in avanti i Suggerimenti Liberi sono chiusi!

Basta! Caput! Da oggi la storia prende una strada ed una soltanto!

Restano solo e unicamente:

Recensioni costruttive! XD

 

*Si prepara ad affrontare i pomodori*

Bring it on, ladies! I’m back!!

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Capitolo 31
*** Uomini e Belve ***


31: 

Uomini e Belve

~Corno Destro

I cardini della porta non ebbero nemmeno il tempo di cigolare, tanta fu la furia con la quale Archetto uscì da quella topaia per ubriaconi allupati. Il tonfo dell’uscio, rimbalzato con forza sulla parete esterna in legno,  grattato da anni di abusi e coltellini annoiati di avventori casuali, fu presto seguito da un altro meno deciso ed un breve echeggiare di risate e fischi.

Arch si risistemò seccamente la camicia dentro i pantaloni,  digrignando i denti nell’identificare nello stesso capitano, responsabile di averlo condotto in quella bettola, la persona corsagli dietro.

Benchè ancora gli desse le spalle, aveva imparato fin troppo bene a riconoscere la presenza del pirata variopinto, a cominciare dallo scalpiccio metallico dei suoi stivali fino allo scontrarsi secco delle pistole appese alla sua cintola. Persino il modo in cui pestava i piedi a terra gli era oramai familiare.

Si rialzò meglio i pantaloni, aggiustandosi alla meglio i capelli con l’altra mano, sempre a passo spedito in avanti, senza nemmeno avere idea di dove stesse effettivamente andando. Nessuna direzione. Aveva completamente perso di vista il bisogno di avere una meta ed oramai proseguiva alla cieca.

Nord, Sud, Est.. che importava? Tutto quello che voleva era allontanarsi il più possibile da lì senza voltarsi.

“Oh andiamo, angioletto! E divertiti, no?”

Quelle parole innescarono in lui il desiderio, tanto impellente quanto inusuale, di girarsi e graziare la faccia squadrata del capitano della Hell Glory con un gancio destro ben piazzato.

Con uno scatto che rischiò di provocargli uno strappo muscolare al collo, Arch si ritrovò a fronteggiare il naso schiacciato e le la ferita dentata che era la bocca di Eustass Kidd.

Come sempre a petto nudo, ma con la pelliccia, solitamente poggiata sulle spalle, assente, probabilmente dimenticata nell’atto di corrergli dietro, il pirata torreggiava su di lui, emanando quel tipico tanfo di liquore ed acqua di colonia che, Arch ne era tristemente consapevole, gli veniva per metà dalla lingua, sempre immersa in qualche intruglio alcolico, e per metà da chissà quale dannata riserva personale che da qualche giorno aveva iniziato a scaricarsi addosso come acqua per lavarsi.

Una piccola parte di sé sospettò, con un velo di soddisfazione, che avesse risentito delle loro continue osservazioni sul suo odore.

Abbandonò con gesto secco il proposito di riallacciarsi, bottone dopo bottone, la camicia, frustando le mani dall’alto al basso in unico grande arco, per poi riaffondarle tra le proprie ciocche bionde e scompigliarsele frustrato. 

Doveva ricomporsi. 

Respirava così forte da sembrare reduce da una di quelle maratone che lui e Viola avevano fatto tantissime volte ad ogni villaggio in cui avevano cercato di scuoiarli vivi.  

Divertirsi, aveva detto Kidd. Divertirsi.

“Mi hai buttato…” La bocca gli sembrò talmente amara che gli si bloccarono le parole in gola, come strette in un nodo soffocante. Persino lui stentava a credere a ciò che stava per dire.

“Mi hai lanciato…. in mezzo ad una stanza piena di prostitute …per farmi fare sesso!”

“Oh, andiamo, non fare il melodrammatico, erano solo due alla fine!”

Fu molto deluso nel vedere le sue nocche mancare di netto la mascella del rosso e venire prontamente intercettate da una mano smaltata.

Con uno strattone Kidd lo tirò in avanti, così tanto forte da fargli sbattere il naso contro il suo petto. Un sottile odore di salsedine e pelle sovrappose quello di liquore e colonia maschile, ma solo per un istante, prima che il dolore lo facesse grugnire e portare una mano al viso.

Accidenti! Che oltre ad attirare il metallo fosse anche in grado di diventare duro come lo stesso materiale?

L’aria si fece nuovamente viziata ed una serie di parole gli venne alitata a pochi centimetri dalla guancia.

“Cosa c’è angioletto? Deluso di non essere riuscito a dimostrare di essere un vero uomo?”

Arch sapeva bene di poter facilmente scansare una simile provocazione con più dignità. Sapeva che, prendendo un paio di respiri profondi e lasciando che la sua Essenza gli affluisse come ossigeno al cervello, avrebbe addirittura potuto costringere quel gorilla borioso a girare i tacchi, chiudersi la porta della locanda alle spalle e lasciarlo in pace per il resto della giornata.

Ma qualcosa andò storto. 

Forse stava veramente passando troppo tempo in mezzo agli esseri umani. 

Forse la sua parte umana, quell’odioso unico fardello lasciatogli da suo padre, stava iniziando a farsi più forte, come in risposta ad un mondo che inconsciamente sentiva come famigliare e che amplificava la sua parte più animalesca.

Doveva essere quello il motivo per cui, contrariamente a quanto avrebbe voluto, si ritrovò a tentare con la mano libera un altro gancio, solo per vederselo nuovamente bloccato, e fronteggiare fronte contro fronte Kidd a mascelle serrate, con una gran voglia di sputargli addosso veleno.

Lui non era tipo da confronti diretti, né tantomeno prove di forza. Quello che stava facendo poteva essere un comportamento degno di Viola, non suo.

Gli occhi neri e dal taglio duro del pirata sembrarono sfidarlo e studiarlo al contempo.

Le sue ultime parole gli tornarono alla mente e lui non ci vide più.

Un vero uomo…

Il sangue gli affluì così in fretta al cervello che la vista gli si annebbiò. Aveva una gran voglia di portarsi in avanti e, come più di una volta sua cugina aveva minacciato di fare ad altri, strappare a suon di morsi grandi lembi di pelle sanguinolenti direttamente dalla faccia cadaverica di Kidd.

Realizzò quanto appena pensato e gli si gelarono le interiora. Il sangue alla testa sparito così come era venuto.

Si tirò indietro con uno scatto, barcollando per un paio di passi per via dello slancio. La sensazione di tutti quegli occhi puntati addosso contribuì a confonderlo, se possibile, ancora di più.

Non era da lui.

Decise, in un breve e saggio momento di lucidità, di evitare per lo meno di guardare Kidd, che si era messo a fissarlo a bocca penzolante come un pesce lesso. 

Chiuse gli occhi. 

Un paio di respiri. Inspirare. Espirare. 

Riaprendoli trovò molto interessante l’elegante palpitare di una farfalla bianca più o meno all’altezza delle sue ginocchia, ma, per sua sfortuna, non abbastanza rilassante.

Un vero uomo… 

Si coprì gli occhi con una mano, pressando indice e pollice sulle tempie, avvertendole pulsare frenetiche.

Un vero uomo.

Che diavolo era un vero uomo? Un essere così smanioso di rendersi superiore agli altri da prevaricare e calpestare la dignità e l’identità altrui? Un maiale bavoso che faceva a gara a chi apriva più cosce femminili in tutta la sua vita? Un porco che metteva incinte donne a caso e poi le abbandonava senza pensare alle conseguenze?

Uno come suo padre?

Una sensazione di gonfiore e dolore alle nocche lo indusse ad abbassare gli occhi.

Esattamente dove Eustass Kidd lo aveva afferrato, premendo i polpastrelli sulla pelle lattea del dorso delle mani per tenerlo fermo, erano iniziati a comparire già dei segni violacei.

Ah…

Un senso di torpore stagnante lo avvolse come una coperta sulle spalle.

A volte dimenticava quanto la sua pelle fosse delicata.

Alle volte dimenticava di essere una Paradisea nata maschio.

Dalle sue labbra fuoriuscì una risatina, dapprima a malapena espirata, poi, man mano che continuava, sempre più forte ed inequivocabile.

Dal proprio punto di vista Kidd iniziò a preoccuparsi, e molto. 

Il biondino sembrava sull’orlo di una crisi isterica e, qualunque fosse stata la causa di tale scenata, che Kidd rifiutava categoricamente di credere fosse stato il suo scherzetto alla locanda, stava provocando nel fondo delle sue viscere una sensazione che pareva un assurdo, melenso ed inequivocabile… senso di colpa.

Per una manciata di secondi, davanti al visino ovale dell’angioletto coperto da una lieve patina di sudore e con l’incarnato più esangue che mai, fu quasi tentato di avvicinarsi a lui e…

Eustass trattenne il respiro scioccato, realizzato quanto stesse per spingersi oltre i propri principi.

Cos’era diventato? Una donnicciola?!

I pugni venati gli si strinsero, pieni di frustrazione, sfidando le sue polsiere borchiate a bloccare del tutto il suo flusso sanguino.

Che cazzo! Mica c’era bisogno di fare tante storie per… per una scopata! Neanche andata a segno, tra l’altro!  Non voleva rilassarsi tra le braccia di una bella donna? Bene! Non voleva che lo toccasse con un dito? Ricevuto! Ma almeno la smettesse fare la pudica ragazzina isterica!

Il fatto che le risatine sussultanti si fossero bloccate di colpo, lo mise in allarme. 

Vide le spalle di Angelo Infido alzarsi sotto il peso di un profondo respiro e, poco dopo, neanche il tempo di vedere il volto del ragazzo scoprirsi completamente dalla barriera della sua mano,  sentì la sua voce biasciare flebile: 

“Io non sono un uomo.”

Kidd avvertì qualcuno dei suoi sulla soglia della locanda alle proprie spalle domandare agli altri se avesse sentito bene e, Roger, quanto avrebbe voluto potergli rispondere, ma la sua bocca si era come impastata.

Il peggio poi arrivò quando il biondino alzò del tutto il capo.

La sua gola di prosciugò del tutto.

Archetto stava sorridendo.

E non uno di quei sorrisi tirati, tipici di chi con sarcasmo ti guarda con sufficienza e sprezzo, cui Kidd era tanto abituato ad incontrare ed a rompere a suon di pugni nelle gengive. 

Quella linea serrata, sempre testardamente imbronciata, che era stata la bocca del ragazzo dacché ne aveva memoria, si era magicamente distesa in una linea rilassata, appena rivolta all’insù alle due estremità.

Eppure non era un vero sorriso.

Kidd se ne accorse una frazione di secondo dopo, osservando meglio il volto dell’altro.

Forse per qualcuno meno abituato a stare attento alle più piccole sfumature delle espressioni umane sarebbe anche potuto sembrare un normalissimo sorriso imbarazzato dato dalle circostanze, ma non per lui. Anni ed anni passati ad individuare con quasi morbosa insistenza il disprezzo nelle più infime micro-espressioni di volti appartenenti a persone appena viste e mai più riviste, gli avevano insegnato a riconoscere ben altro.

Lo capì dal modo in cui gli occhi si erano assottigliati, paradossalmente. 

Quelle due pozze color cobalto, sempre spalancate e dilatate come quelle di un falco pronto scendere a picco su una preda, erano oramai timidamente nascoste dietro le proprie palpebre.

In un’altra persona Kidd l’avrebbe a malapena notato, ma per un tipo sempre rigido e sull’attenti come Arch lasciarsi andare in quella maniera poteva solo significare due cosa: incertezza e sconforto.

“Cosa..?” si bloccò ancor prima che le onde metalliche riempissero l’aria, allarmando con la loro vibrazione prepotente il locandiere e le sue prostitute dietro di loro.

“Capitano! Il Ponte!”

Qualcuna delle baldracche accompagnò l’urlo del proprio protettore con un qualche gridolino impaurito ed a Kidd non bastò che una semplice occhiata all’orizzonte: dove prima le due isole dell’Arcipelago erano state unite da un lungo e mastodontico ponte, ora si ergeva un interminabile corridoio di fiamme rosse alte quanto un palazzo.

Un verso di stizza proveniente da Arch diede conferma ai suoi timori.

“Tch. Viola..”

La stangona con la lingua da scaricatore di porto aveva letteralmente mandato alle fiamme il ponte principale dell’isola. 

Come diavolaccio ci era riuscita?! 

Come cazzo era finita al porto?

E, per il bottino di Roger, che razza di fiamme erano quelle?!

Sembravano tante lingue di sangue che si stagliavano verso il cielo! Persino i suoi capelli sarebbero sembrati pallidi al confronto! 

Un senso di dejàvu gli formicolò in testa. Aveva già visto quella tonalità di colore, ma non riusciva a ricordare dove.

Pensò di sopperire al senso di impotenza che lo attanagliava, esternando un ben ponderato e poco lusinghiero sproloquio di aggettivi diretti alla cara cuginetta della fatina, quando questi lo precedette.

“Ci vediamo alla nave, capitano.” 

Neanche il tempo di tornare a guardarlo che già il ragazzo si era fiondato in avanti, correndo come se avesse avuto le ali ai piedi.

“Dove pensi di andare??!!” urlò con quanto più fiato riuscì a trovare.

“A salvare il culo a quell’idiota di mia cugina!”

Lo vide scomparire giù per la collina, manco fosse stata una volpe inseguita da un branco di cani pronti a sbranarla.

“Capitano, che facciamo?” chiese uno dei suoi uomini, avvicinandolo timorosamente.

Lui digrignò i denti, affrontando di scatto il volto truccato ed impallidito del proprio uomo. 

Nella sua mente c’era un casino incredibile.

Le parole di Arch continuavano a rimbombargli in testa come un’eco di una caverna, il suo sorriso incerto si alternava alla visione del Ponte Squama lambito dalle fiamme e il sentore di star tralasciando qualcosa di importante gli attanagliava le viscere.

Lo detestava.

“Trascina quelli rimasti dentro fuori dalla locanda. Non mi importa se sono ancora avvinghiati alle loro baldracche. Si torna alla nave! SUBITO!!!”

 

~Corno Sinistro

Se prima ad Izou percorrere le strade affollate della zona commerciale era sembrata un’impresa ardua, ripercorrere lo stesso tragitto in mezzo al caos della gente presa dal panico per via dell’incendio del Ponte Squama pareva impossibile.

Da quando lui, Ace, Marco ed Haruta erano partiti dal molo alla ricerca di Allegra, la situazione si era fatta insostenibile.

Ad ogni loro passo Marco ed Ace, posizionatisi davanti a loro nella speranza di avvistare per primi la ragazza, ricevevano almeno una ventina di gomitate al costato, tutte da parte di persone troppo prese dalla foga di allontanarsi il più possibile dal fuoco per riconoscere in loro dei membri della ciurma del Bianco.

Se non fossero stati rispettivamente uno Zoan ed un Rojan avrebbero sicuramente sentito di più i colpi.

Quando si dice il risvolto buono della medaglia…

“Credete sia stata Allegra??”

La voce sottile e forse un poco stridula di Haruta attirò su di sé la loro attenzione.

Era ovvio che si riferisse all’incendio. In fondo la paradisea era solita rivestirsi di fiamme quando arrabbiata o in difficoltà. Quello del comandante della dodicesima flotta non era un dubbio tanto infondato.

“Ne dubito.” fu comunque la risposta perentoria di Marco, pur sempre occupato a scrutare con morbosa attenzione anche il più infimo vicoletto.

Belladonna si accigliò stranito e lanciò alla Fenice uno sguardo dubbioso da sopra la propria spalla, distraendosi un’attimo dalla ricerca:

“Come fai a dirlo con certezza?”

La risposta però si tradusse in una semplice occhiataccia colma di rabbia, che lo spinse ad abbassare la testa ed a deglutire nervosamente. 

Era ovvio che Marco fosse ancora arrabbiato con lui.

Prima avrebbero trovato la Paradisea, prima la tensione tra loro si sarebbe alleviata.

O almeno così sperava.

“Semplice!” proferì Ace, arrampicandosi con un sol salto sulla tettoia più vicina per poi passare elegantemente sul .

Ad Izou il gesto non andò molto a genio, visto che la sua assenza lo privò della protezione necessaria ad evitargli uno scontro frontale con i passanti sconvolti ed angosciati dell’isola.

In un baleno un branco di paesani spaventati a morte lo investì, rischiando di farlo cadere e calpestarlo a morte. 

Ma ce l’avevano tutti con lui??

Svincolarsi non fu facile, ma per lo meno riuscì ad uscirne solo lievemente ammaccato.

“Le fiamme di Allegra non sono rosse.” continuò nel frattempo Ace più serio del solito, fissando lo spettacolo orrendo che in quel momento era il principale collegamento tra le due isole. 

“E, a giudicare da quanto successo quando si è scontrata con quell’ex schiavista mesi fa, non sarebbero in grado di bruciare alcunché.” Izou lo vide sondare brevemente il circondario con fare assorto.

Era raro vedere Pugno di Fuoco così meditabondo. Izou non l’aveva mai visto smettere di sorridere nemmeno la prima volta che si era ritrovato ad affrontare Oyaji faccia a faccia, prima di entrare ufficialmente nella ciurma. E la cosa lo preoccupava.

“Roid Brinata.” aggiunse Haruta in un sussurro astioso al suo fianco.

Già… ora che ci ripensava, anche Izou aveva assistito alla scena: la paradisea era letteralmente capitombolata a terra, sfiorando con le proprie braccia infuocate il pavimento legnoso della loro nave più di una volta, eppure queste non erano sembrate in grado di generare alcun tipo di incendio.

Era comunque strano il fatto che fosse riuscita ad ustionare quello schifoso mercante di umani, ma non di intaccare la Moby …

Si fermarono in mezzo alla strada. Ormai l’avevano setacciata in lungo ed in largo. Continuare testardamente a cercarla da quelle parti sarebbe stato controproducente.

Marco si era fermato più avanti, dando loro le spalle mentre contemplava in silenzio il ponte avviluppato dalle fiamme. 

Il sussurro di una folata di vento accompagnò i passi degli ultimi paesani.

Oramai quella zona si era fatta deserta.

Difficilmente qualcuno sarebbe rimasto in quella zona, col pericolo di un incendio nelle vicinanze.

Allora che fare?

I suono degli scarponi di Ace che atterravano sul pavimento lapideo della strada li avvertì che il loro fratellino era tornato coi piedi per terra.

All’onnagata venne naturale mordersi nervoso il labbro inferiore. Quella situazione era snervante. Ogni secondo che passava sembrava tempo prezioso sprecato.

“Chi potrebbe avere interesse a rapirla?” 

Si stupì dal modo in cui quella domanda gli fosse scivolata via dalle labbra, ma gli bastò la sensazione di essere osservato dagli altri per capire di aver inconsciamente centrato il punto.

Gli occhi cerulei della Fenice lo puntarono silenziosi e lui preferì continuare il suo ragionamento ad alta voce, accostandosi una mano al mento con fare pensieroso.

“Allegra non ha una taglia sulla testa e nonostante abbia già fatto colare a picco molte navi pirata, dubito fortemente la Marina possa avere delle notizie su di lei. Quindi escluderei a prescindere dei cacciatori di taglie.”

“Che siano stati degli schiavisti?” propose Haruta, guardandosi al contempo attorno con fare diffidente.

“E’ possibile.” si inserì Marco, avvicinandosi a loro a braccia incrociate “Il mercato nero dell’arcipelago si trova dall’altro capo del ponte e potrebbe aver sviluppato interesse per la tratta degli schiavi nell’ultimo periodo, ma con l’incendio dubito che si possano essere mossi più di tanto.”

“Potremmo dividerci e setacciare più attentamente l’isola, ma non sappiamo se siano riusciti a portarla dall’altra parte prima che il fuoco si espandesse.”asserì Izou.

“Ragazzi…”

L’intervento di Ace interruppe i loro ragionamenti come un fulmine a ciel sereno.

Il volto di Pugno di Fuoco si era fatto ancor più truce. Gli occhi scuri sondavano un punto imprecisato di una viuzza poco lontana, senza realmente vederla. 

Qualcosa nella sua mente doveva essere scattato.

La tensione che precedette le parole del loro solitamente allegro e spensierato fratellino non fu nulla se paragonata a quella che le succedette.

“Dov’è Doma?”

Fu come ricevere una scossa elettrica lungo la schiena. L’aria si fece pesante e di colpo Marco venne inondato da una coltre di fiamme azzurre.

Tempo di allontanarsi dal calore quasi insopportabile emanato dalle piume fiammeggianti che la Fenice si era già innalzata in volo.

“Ehi Marco! Aspet-!

“Setacciate in lungo in largo il Corno Sinistro! Io mi occuperò del Destro!”

“Non-!”

Il comandante della prima divisione si avviò in direzione dell’incendio rosso.

“Argh!” grugnì Ace, strapazzandosi i capelli da sotto il cappello da cowboy nel mentre malediceva la sua boccaccia “Quell’imbecille..!”

Con un ultimo scatto delle braccia il moro si girò verso Izou ed Haruta.

“Chiamerò Satch al Lumacofono per spiegargli la situazione. Voi controllate la parte alta dell’isola io mi occuperò della zona al molo! Dobbiamo trovare Doma!”

“Credi davvero che ci sia lui dietro tutto questo?” chiese l’onnagata, non risparmiandosi un’espressione poco convinta, mentre gli passò al volo la lumaca collegata a quella di Satch che conservava sotto lo yukata. Era vero che il Boemo si era dimostrato ostile verso Allegra, ma da lì a rapirla… non suonava abbastanza convincente per le sue orecchie.

Pugno di Fuoco saltò nuovamente sui tetti, stravolta mostrando un cipiglio più feroce di prima.

“Spero per lui che non ne sappia niente.”

Un cenno d’intesa con la testa e si congedarono.

Ace mise immediatamente mano al lumacofono, attivandola con gesto secco sul bottone della conchiglia.

“Satch, mi ricevi?”

Di colpo l’invertebrato aprì gli occhi assumendo l’espressione interessata e preoccupata del comandante della quarta flotta, persino la cicatrice sotto l’occhio destro era presente.

“Ace? Che succede? Avete trovato lo scricciolo?”

“Non ancora Satch. Ma stammi bene a sentire.”

Gli occhi dai lineamenti gentili della lumaca si incupirono.

“Ti ascolto.”

“Abbiamo un enorme problema, Satch.”

 

~ Moby Dick

Satch fermò la propria mano giusto un istante prima che affondasse nel suo ciuffo imbrillantinato per scompigliarlo nervosamente. 

Boccheggiava per lo shock.

Non ci credeva.

Era un disastro. Un fottuto disastro.

“Ne sei sicuro Ace?!” squittì al lumacofono con le stesse lentiggini dell’amico che in quel momento lo scrutava serissimo.

“Non totalmente. Tu comunque non dire nulla ad Oyaji. Non finchè ti richiamo per darti conferma.”

Il Diplomatico si passò una mano sulla fronte, poi sugli occhi. 

Come se avesse potuto dire una cosa simile al loro capitano.

Dopo essere stato lui stesso ad informarlo che Allegra si era persa nell’isola, in un momento così critico oltretutto, non sarebbe mai riuscito informarlo anche di quello.

Lui stesso, più giovane ed in salute, si era sentito mancare le forze alla notizia.

Rapita. 

Da degli schiavisti o da Doma stesso.

Tra le due opzioni non sapeva quale fosse la peggiore.

Santo Roger.

“Ricevuto. Ma mi unirò anche io alle ricerche.” asserì con più sicurezza e chiuse di netto la conversazione.

Mentre si avviava lungo la passerella la sua mente galoppava a ritroso gli avvenimenti che avevano preceduto quell’incubo di giornata.

Era iniziato tutto nel migliore dei modi. 

Avevano riso, scherzato tra loro.

In quale momento tutto aveva inizato a prendere una brutta piega?

Che i sospetti di Ace e gli altri fosse fondati e Doma fosse sceso senza alcuna spiegazione solo per nuocere alla ragazza?

Personalmente conosceva a malapena il Boemo, ma l’aveva sempre ritenuto una persona d’onore, fatta eccezione per l’ultimo attacco suicida che aveva lanciato loro addosso con un manipolo di mercenari scelti a caso.

Non era da Doma nuocere ad una ragazzina. Nè tantomeno venderla a degli schiavisti.

Ogni pirata che intraprendeva la Grande Rotta disprezzava gli schiavisti e, se non era possibile tenersene alla larga, li ostacolava con ferocia e disgusto.

No. Rifiutava anche solo di pensare ad un simile colpo basso da parte dello zingaro di mare.

“Ehi comandante! Il comandante Ace e gli altri sono riusciti a trovare Allegra?”

“Ormai l’isola è un disastro! Non si capisce più niente”

“Nemmeno i paesani sono riusciti a dirci granché!”

Satch si morse l’interno della bocca. Maledizione. Non poteva neanche permettersi di raccontare come stessero effettivamente le cose al resto della ciurma: avrebbe mandato l’intera nave nel caos più totale.

Indossò il migliore dei suoi sorrisi cordiali ed affrontò i propri fratelli di mare.

“Ace mi ha appena chiamato. Ha detto che pensa di averla intravista da qualche parte giù al molo. Sto giusto andando a dargli una mano.” 

Un sospiro generale invase l’aria.

“Meno male! Cominciavamo già a temere il peggio!”

“Certo che la nostra nuova sorellina non ci fa stare tranquilli un attimo eh?”

Satch si sentì tremendamente in colpa nel vederli così rilassati per una sua menzogna, ma non poteva fare altrimenti. Doveva tenere in piedi la recita a denti stretti e sorriso largo.

Doveva.

“Ah.” esclamò ricordandosi di un’altra questione lasciata in sospesa “Avete per caso visto Teach?”

“Ah. Teach. E’ rimasto con gli altri a preparare la nave per una possibile partenza. Visto come si stanno mettendo le cose non mi stupirei se ci ritrovassimo a dover levare le tende di botto!”

Dentro di sé il Diplomatico tirò un sospiro di sollievo.

Almeno Teach non avrebbe creato problemi. Se ripensava che per un istante aveva sospettato anche di lui, quasi si vergognava di se stesso.

“Oh, bhe. Allora lo incontrerò dopo. Volevo semplicemente dirgli una cosa. Niente d’importante.” concluse facendo per andarsene con il braccio alzato in segno di saluto.

“Mi raccomando comandante, ci riporti indietro la nostra piccola salterina!” fece in tempo ad urlargli dietro un altro membro ridacchiante della ciurma, prima che iniziasse a correre verso le prime strade che si diramavano dalla piazza.

“Senz’altro!” rispose lui, sbracciandosi in un ultimo cenno di saluto, per poi girarsi e rabbuiarsi.

Avrebbe volentieri potuto credere di più alle sue stesse parole.

Da lontano Marshall D. Teach sogghignò tra i buchi della propria dentatura marcia.

Che attore nato era il comandante Satch! 

Certo, la sua tecnica non era raffinata quanto la sua, ma sapeva certamente farsi onore!

Non appena ebbe visto scomparire il Diplomatico dietro una delle prime case, il grassone si fermò nell’atto di trasportare le casse e le botti destinate al deposito di provviste. Erano riusciti a racimolare ben poco prima dello svilupparsi dell’incendio, ma, se si contava quello rimasto nella stiva, quanto raccolto era più che sufficiente.

Contemplò un poco il grande ponte Squama riducersi lentamente ad un cumulo di legno bruciato.

Era stato un imprevisto, ma che comunque non cambiava nulla.

Ancora un paio di casse e si sarebbe potuto allontanare.

Se tutto fosse andato liscio, gli sarebbe bastata una lumacofonata per mettere fine a quella farsa.

Aggiustò meglio le casse che teneva sotto braccio e ricominciò a camminare.

Mentre i comandanti si affannavano per trovare il pasticcino, lui si sarebbe gustato con calma l’avanzare del suo piano.

Girò l’angolo della stiva buia, poggiando a terra le ultime taniche di cibo sotto sale, ed alla luce rossastra delle lanterne appese alle pareti il suo volto scuro ed ispido si torse di malevola soddisfazione.

“Zehaha…”

 

~Corno Sinistro

Per Viola arrivare dall’altro lato del ponte approfittando della confusione fu cosa abbastanza facile, se si metteva da parte il fatto che le sue fiamme si erano fatte così aggressive da rischiare di ustionare persino lei, che normalmente sarebbe dovuta esserne immune.

Giunta finalmente al molo dell’isola gemella, il suo primo istinto, dopo quello di riprendere fiato insieme agli umani che come lei sei erano diretti verso il Corno Sinistro, fu quello di affondare la testa nell’acqua fresca e cristallina della fontana lì presente.

La sensazione di quell’acqua freschissima che le carezzava scalpo e tempie ebbe il potere di farle tornare provvisoriamente il buonumore.

Grande Spirito.

Per un attimo aveva temuto di lasciarci la pelle.

Riemerse dalla fontana di scatto, schizzando gocce d’acqua mista a fuliggine da tutte le parti, e tornò ad osservare il macello che aveva provocato.

Quella mastodontica struttura, che aveva avuto il potere di stregarla per qualche istante, si stava lentamente disassemblando sotto i suoi occhi, divorata secondo dopo secondo dalle sue stesse fiamme. Osservò la gente accasciatasi a terra dopo aver corso per la propria vita.

Tra quelle persone c’erano persino donne con in braccio bambini ancora in fasce.

I pianti disperati di quelle creature venivano attutiti dai brevi e rassicuranti sussurri delle loro madri che, nonostante sporche, dai vestiti mezzi bruciacchiati, addirittura con le mani tanto rosse da sembrare coperte di sangue, continuavano a cullarli e dare loro piccoli baci con le lacrime agli occhi.

Un groppone le salì alla gola e l’immagine di sua madre le passò davanti in un istante.

Voltò le spalle a quella scena straziante, mordendosi nervosamente le labbra, ed iniziò a camminare per allontanarsi il più possibile.

Grande Spirito…” mormorò con vergogna crescente ad ogni passo “…cos’ho…?”

“Eccola!!”

Si girò di scatto e vide in lontananza delle altre guardie, vestite come quelle di prima, dirigersi verso di lei a fucili mezzi puntati.

Alzò gli occhi al cielo, lanciando un grugnito frustrato.

Cos’era? Non le era concesso di sentirsi una merda nemmeno per 5 secondi?!

Scattò prima che potessero avvicinarsi a lei di anche solo tre passi, labbra strette, occhi grandissimi e le braccia che si agitavano rigide ed ad angolo retto nel mentre della corsa.

A chiunque l’avesse vista in quel momento, così tesa  e sgraziata nella corsa, sarebbe sicuramente venuto da ridere fino allo sfinimento.

Per lei invece si trattava semplicemente di ottimizzare al massimo la fuga, poco importava quanto ridicola apparisse.

La ferita al fianco era ancora troppo fresca comunque, per sperare in un’andatura veloce e dignitosa.

Forse fu per quel motivo che, dopo metri e metri passati a boccheggiare, svoltando angoli a casaccio per seminare i suoi inseguitori, uno di quei fanatici del controllo riuscì a placcarla.

La paradisea della Violenza si sentì inizialmente afferrare da dietro, all’altezza del petto, poi un gesto secco la strattonò verso il basso, aggrappandosi con forza ai lacci del proprio corpetto.

Un attimo dopo il suo volto si ritrovò a saggiare il lerciume polveroso della strada e le sue anche urlavano indignate per l’ennesimo maltrattamento subìto.

Ovviamente Viola, ritrovata quel poco di lucidità che le permise di puntellare le braccia e sollevare il dorso e lanciare uno sguardo furente al suo assalitore, non si premurò nemmeno di inzuccherare il fiume di imprecazioni che le uscì di bocca.

“Toglimi quelle merdosissime mani di dosso, figlio di una vaccatrota in perenne calore!!!”

Il povero soldato semplice, sentendosi sbraitare in tono così feroce, ebbe un attimo di tentennamento che gli costò una pedata dritta in faccia.

Libera dalla presa del malcapitato, la ragazza si rimise immediatamente in piedi, sondando nervosamente i dintorni alla ricerca di altri ufficiali pronti ad acciuffarla.

Fu sorpresa di non vedere nessuno.

Si trovava un una lunga via piena di bancarelle abbandonate, alcune con ancora le pietanze da cuocere sul momento sulle griglie all’aperto, abbandonate lì a bruciare.

Si guardò attorno confusa.

Quanto tempo aveva corso?

A giudicare dal modo in cui i suoi polmoni bruciavano doveva essere passata una buona mezz’ora, ma a lei era parso non più di pochi minuti.

Che avesse seminato la maggior parte dei suoi inseguitori e solo il vermiciattolo che aveva innanzi fosse stato l’unico ad avere abbastanza stamina per raggiungerla?

Ripresasi dallo shock iniziale, cercò di tirarsi su il corpetto, abbassatosi così tanto durante la colluttazione da rischiare di farglielo scivolare, ma i risultati, anche dovuti alle dimensioni notevoli del suo davanzale, non furono dei migliori.

Quel maledetto pezzo di stoffa non voleva proprio risalire!

Già l’aveva odiato la prima volta che lo aveva infilato, non appena notato quanto fosse stretto.

Ora i suoi nervi provati dalla stanchezza e dall’ansia le stavano letteralmente gridando di strapparlo e procedere a petto nudo per il resto dell’isola.

“Arch, se ti metto le mani addosso…” grugnì, ma fu interrotta da uno scoppio seguito da un sibilo all’altezza della sua tempia.

Qualcosa nella sua mente scattò.

Fece appena in tempo a registrare la mano della guardia puntata verso di lei che impugnava una pistola ancora fumante.

E poi, come se il mondo si fosse oscurato di botto per poi riaccendersi, si ritrovò a sovrastare il suddetto, le mani strette a pugno con le nocche che affondavano ripetutamente nella sua faccia.

Era stata l’ultima goccia.

 

~Corno Sinistro

Per Satch trovare la via commerciale del Corno Sinistro era stato uno scherzetto.

Gli era bastato annusare l’aria e dirigersi laddove l’odore di spezie e profumi abbandonati a loro stessi si facevano più forti.

Far partire le ricerche da dove lo scricciolo era stata portata via gli era sembrata la scelta più giusta, nonostante i suoi fratellini avessero prediletto l’approccio più dispersivo.

Era certo che, in situazioni diverse, anche Marco avrebbe fatto lo stesso, tuttavia, dato che l’unico ad aver mantenuto più sangue freddo era lui, gli sarebbe toccato procedere da solo.

Izou aveva detto di averla persa di vista all’altezza delle bancarelle di abbigliamento, a pochi metri dal venditore di takoyaki, 4 negozi più avanti.

Era un inizio.

Proseguendo sempre dritto gli capitò più di una volta di scontrare, se non additirrura calpestare, ogni tipo di oggetto: dalle buste alle scatole di cibo ammaccate. 

Rabbrividì.

Era come camminare in una città fantasma.

Almeno avrebbe potuto scandagliare i dintorni alla ricerca di indizi senza problemi.

Il “peréperé” del lumacofono lentigginoso in tasca lo distrasse ancor prima di arrivare a destinazione, ma fu ben felice di rispondere nell’immediato, ansioso com’era di buone notizie.

“Qui Satch.”

“Satch?! Come procedono le ricerche?!” rispose la voce di Ace.

“Sono appena arrivato nella via commerciale in cerca di indizi. La zona è completamente deserta.”

“Izou e Haruta hanno il problema opposto. Stanno sgomberando i civili dalle zone prossime all’incendio.” sbuffò la lumaca lentigginosa.

Strinse gli occhi abbattuto. Non andava bene.

In mezzo a tutto quel casino sarebbe stato pressoché impossibile trovare anche un solo capello dello scricciolo. 

“Come vanno invece le cose da te?” cercò comunque di informarsi, sperando sempre un in piccolo colpo di fortuna.

“Neanche un’anima, Satch. Hanno radunato tutta la popolazione nelle zone alte dell’isola”

Il Diplomatico inspirò per darsi forza ad occhi chiusi e, quando li riaprì, la sua voce uscì più autoritaria che mai. 

“Venite a darmi una mano. Io continuo a vedere se trovo qualcosa.”

Appena chiusa la chiamata, Satch si sentì piombare addosso un peso enorme. 

Era una situazione troppo caotica. Dovevano muoversi velocemente e con precisione, o non osava immaginare come sarebbe potuta andare a finire.

Allegra poteva essere ovunque, arrivati a quel punto, ma Satch sperava, implorava, che l’incendio avesse in qualche modo scombussolato i piani dei (o del) rapitori.

Ripose al proprio posto la lumaca da comunicazione e si fece coraggio, iniziando ad ispezionare la zona predestinata con l’intenzione di non tralasciare neanche un centimetro.

Trovare qualcosa da quelle parti era la loro unica possibilità.

“AIUTOOO!!!”

Che diavolo..?! -

Preso com’era dalla propria ricerca, Satch non si accorse nemmeno di avere attaccato un pezzo di polvere sulla punta del naso, mentre rialzava la testa da terra al suono di quell’urlo disperato.

Non sarebbe stato comunque importante, dato lo spettacolo raccapricciante che si stava dirigendo a passi veloci e scoordinati verso di lui: un uomo in divisa bianca, non un marine, ma chiaramente appartenente alle forze dell’ordine locali, con la faccia tanto maciullata e sanguinolenta da non sembrare neanche più umana.

Il primo istinto fu quello di indietreggiare.

Cavoli, quel poveraccio sembrava direttamente uscito da uno di quei libri dell’orrore che Marco si divorava la sera sulla propria branda!

“Mi aiut-“ tentò di implorarlo quello una volta giunto a qualche metro da lui, venendo però interrotto da un proprio singhiozzo, che, dopo un attimo di sconcerto, gli fece realizzare che, sotto quella maschera rossa, il malcapitato stava piangendo.

Satch si sentì immediatamente solidale verso di lui e, smettendo di allontanarsi, mise le mani avanti, palmi verso il basso, ondeggiandole pacatamente su e giù nel tentativo di tranquillizzarlo.

“Calma amico. Cosa ti è..?”

“PRESO!”

Neanche il tempo di finire una frase, una stramaledetta frase, ed ecco un’ombra argentata scaraventarsi letteralmente sulla schiena del poveraccio, sbattendolo a terra come un fuscello.

La forza di quell’impatto fu tale che persino il pirata si ritrovò culo a terra, troppo scosso per capire immediatamente cosa stesse succedendo.

“No! Noo! Noo!” strillò preso dal panico il poliziotto, come se, qualsiasi cosa gli fosse appena piombata addosso, e che in quel momento lo stava tenendo bloccato a terra per la calotta con una mano, fosse la più orribile e sanguinaria creatura uscita direttamente dalla bocca dell’inferno.

Satch guardava orripilato la scena, aspettandosi da un momento all’altro vedere zanne, artigli e fiumi di sangue scorrere.

Deglutì piano, sentendo un sottile strato di sudore freddo formarsi sul collo.

Santo Roger, quella situazione assomigliava ad un libro dell’orrore ogni secondo che passava.

Poi la creatura infernale alzò le testa.

E a Satch gli si mozzò il respiro.

Due occhi color nocciola e furenti degni della più fiera delle tigri, lunghi e scarmigliati capelli argentati, una scollatura prosperosa e perfetta, una pelle chiarissima e braccia toniche percorse da innumerevoli cicatrici.

Non era affatto l’immagine di una belva feroce.

Fu sicuro di essere rimasto ad osservarla a bocca penzolante come un pesce lesso per una buona manciata di minuti, prima di rendersi conto di chi fosse effettivamente.

“Viola S..sassonia?!”

Sperava che lei e lo scricciolo condividessero lo stesso cognome, altrimenti aveva appena fatto la più ingrata delle figure.

La Sollevapesi reagì al suo nome bloccando un pugno mezzo insanguinato a mezz’aria e, come una visione, alzò gli occhi su di lui. Lo squadrò per qualche secondo, come se non si fosse accorta, se non in quel momento, che c’era anche lui.

Poi, facendo una smorfia, mandò a segno l’ultimo colpo sulla testa del poveraccio sotto di lei, mandandolo direttamente a nanna.

Almeno ha smesso di soffrire. - si consolò Satch, recitando una piccola preghiera per lui.

Ma si poteva sapere cosa le aveva fatto per meritarsi si essere malmenato in quella maniera?!

Viola Sollevapesi lo guardava circospetto e, quando fece per alzarsi, senza mai distogliere lo guardo da lui, si puntellò una mano su un fianco.

Fu quel particolare a fargli notare che, oltre a piccoli graffi sovrapposti alle cicatrici, aveva anche quella che assomigliava tremendamente ad una ferita da arma da fuoco.

La osservò un po’ più attentamente. 

Lo era davvero.

Le porse istintivamente una mano, come per offrirle il suo aiuto, ma questa gliela scacciò via con uno schiaffo.

“Ehi!” protestò.

“Chi sei? Come fai a sapere il mio nome?” chiese quella, sempre premendo la mano sulla ferita oramai attorniata da liquido rosso rappreso e leggermente secco.

L’aura di ostilità che emanava si sarebbe potuta tagliare con un coltello.

Accidenti, certo che tra lei e lo scricciolo c’erano la terra e il mare! Non si somigliavano per niente!

Si sentì letteralmente strattonato in avanti per il foulard e gli occhi pericolosamente accigliati della Sollevapesi ricoprirono, di punto in bianco, il suo intero campo visivo.

Vederla così vicina gli fece venire un nodo allo stomaco, le gambe iniziarono a tremare ed il sudore freddo tornò a ricoprirgli il viso.

Satch non era mai stato tipo da lasciarsi intimidire da qualcuno al primo incontro, ma l’espressione feroce di quella ragazzo lo lasciò letteralmente spiazzato e teso come una corda di violino.

Sembrava sul punto di prenderlo a morsi in faccia da un momento all’altro e, da come ne era uscito l’ultimo che aveva subito la sua ira, non gli sembrava un’opzione tanto inverosimile.

Marco ci aveva visto giusto, la prima volta che aveva espresso la propria opinione su quella ragazza, guardando la foto della sua taglia. Era pericolosa. Una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, anzi, era una belva rabbiosa!

Oh, Roger, era stato veramente un ringhio quello che aveva sentito?!

“Chi. Diavolo. Sei?” scandì la ragazza a denti scoperti, le labbra contratte.

Cercò di balbettare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di evitare di subire l’ira di quella creatura…

Ma perché non poteva essere dolce e calma come lo scricciolo?!- piagnucolò mentalmente, sentendo oramai il suo destino segnato.

“SATCH!” fece capolino la voce di Ace dietro di lui.

Oh Santissimo Beneamatissimo Roger. GRAZIE.

 

Fine Capitolo 31

 

Notato qualcosa? °U° Dai che l’avete notato! 

Sì sì! Avete visto bene! Da oggi i capitoli avranno un nome! (per comodità mia, deus maximus gratia non ne potevo più di atti e scene, era ora che mi decidessi a semplificarmi la vita, SOB… )

Come avranno notato i più accaniti lettori ho anche da poco pubblicato uno Spin-off dedicato ad altre Paradisee: Ningyo no Sonata(la sonata delle sirene, mamma mia l’originalità! *sarcasm mode ON*)

Grazie a tutti quelli che ancora seguono la storia e non mi abbandonano nonostante i lunghi tempi di attesa per ogni capitolo!

p.s. Come sempre, ditemi che ne pensate e recensite!! (le vostre recensioni nutrono la mia anima!!) :))

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Capitolo 32
*** Scelta Giusta ***


Attenzione prego!
Nel mentre della lettura si consiglia l'ascolto (in quest'ordine) delle seguenti canzoni:
Ivan Graziani - Poppe poppe poppe
Kiznaiver OP - LAY YOUR HANDS ON ME
Major Lazer & DJ Snake - Lean on (feat. Mø)
Coldplay - Adventure of a lifetime


32: 

Scelta Giusta

 

~Corno Sinistro

Erano state due le cose che il cervello di Ace era riuscito a registrare, una volta raggiunto Satch.

Una ragazza teneva l’amico per il bavero della giacca, ringhiandogli in faccia come un animale, e poi … il suono di uno strappo ed il ricordo offuscato di un pezzo di stoffa caduto a terra.

Dopodiché non ricordava granché.

Forse il suo cervello era andato in blackout. Troppe informazioni.

Probabilmente.

Molto probabilmente.

No, ripensandoci, il suo cervello era sicuramente andato in tilt. 

Troppa roba. 

Non riusciva ad afferrare cosa, ma era stato decisamente troppo.

“Copriti! Copriti!!! Li vuoi uccidere??”

Era la voce di Izou? Quand’era arrivato?

“Non osare dirmi cosa fare e non osare toccarmi, confetto ambulante!”

“E tu riprenditi, imbecille!”

Un colpo secco alla testa lo fece rinvenire, scagliandolo letteralmente a terra. Stropicciò gli occhi. Si sentiva come quando si svegliava da un attacco narcolettico. Solo che in quel caso era certo di non essersi addormentato. 

Mi sono imbambolato? - si domandò incredulo. Non gli era mai successo. Cosa diamine aveva visto per reagire in quella maniera?

Puntellando le mani a terra per rialzarsi Ace, scorse con la coda dell’occhio qualcosa di scuro e filamentoso abbandonato tra la polvere della strada. Lo studiò un po’ meglio: sembrava di pelle ricucita verticalmente ed alle estremità presentava dei lacci filamentosi, chiaramente danneggiati e strappatisi per via dell’usura.

Qualcosa nel suo cervello soffriva per scattare.

Ce l’aveva sulla punta della lingua.

“Satch! Smettila di sanguinare!!”

“Ti zembra bvacile???!!!”

Satch stava sanguinando?!?!

Colto da un’improvvisa ondata di adrenalina, Pugno di Fuoco saltò in piedi come un grillo, pronto ad agire in difesa del fratello. Cosa gli aveva fatto quella ragazza? Staccato il naso a morsi? Sperava di no, a detta di Carol era la parte migliore di Satch.

E fu allora che il viso della colpevole rientrò nel suo campo visivo.

Due occhi nocciola accigliati, lunghe ciglia, un volto indurito dalla rabbia, una bocca stretta, capelli lunghi, scarmigliati e da un colore simile a quello della polvere.

Ace stabuzzò gli occhi.

La ragazza teneva ancora il compagno per la giacca e stava squadrando Izou con fare minaccioso, sicuramente intimandogli di non avvicinarsi. 

La cugina di Allegra… Stava ancora sognando? Com’era possibile che si trovasse sulla loro stessa isola?

Poi spostò lo sguardo inevitabilmente verso il basso.

Due grandi colline bianche lo guardavano sfrontate.

Sbiancò impietrito e si ricordò cosa effettivamente lo aveva fatto entrare in coma e … rischiò seriamente di tornarci.

La sua mascella ciondolò a pochi centimetri da terra e così le sue braccia.

Viola Sollevapesi era letteralmente a petto nudo, davanti a loro. E non sembrava nemmeno considerare l’eventualità di doversi coprire. 

Non aveva parole. Cosa..? Come..? 

Izou gli tirò un pizzicotto sul braccio, ridestandolo dal trans in cui era ripiombato.

Persino Satch, la cui testa ciondolava all’altezza del suo prosperoso petto, era rimasto senza parole e, nonostante stesse chiaramente cercando di rimettersi in piedi sulle proprie gambe ed al contempo non far scivolare il proprio sguardo lungo quella profondissima scollatura, dalle sue mani, premute disperatamente sul proprio viso, scorreva una quantità considerevole di liquido rosso.

Ora capiva perché Izou fosse così alterato.

Lui veniva da una civiltà estremamente rigida nei confronti del vestiario femminile, ma nonostante tutto, doveva ammetterlo, l’onnagata stava dimostrando molto più autocontrollo di lui e Satch messi assieme.

“Insomma! Copriti!” sbraitò il suddetto orientale, per l’ennesima volta, coi denti apparentemente più affilati per la rabbia.

Doveva ammettere che era uno spasso vedere il compagno di ciurma così scombussolato. Aveva persino parecchi capelli fuori posto che, per uno come Belladonna, sempre impeccabile e ben curato, era dire molto.

La ragazza lanciò un ennesima occhiataccia all’orientale. Si vedeva che non era contenta, assolutamente. Più Izou le urlava addosso più la sua bocca si storceva feroce, sfoggiando una fila di denti bianchi e digrignanti.

“Se non la smetti di alzare la voce…confetto…”

Un crepitio sottile gli stuzzicò la punta del naso, non attribuibile al fracasso che il ponte Squama, oramai un mucchio di macerie bruciacchiate. Gli parve quasi che il suo corpo si stesse tramutando nel turbinio di fiamme roventi che conosceva, preceduto da una sorta di scoppiettio a fior di pelle, seguito da una vampata d’aria calda. L’unica differenza stava nel fatto che lui non si stava trasformando e per nulla al mondo si sarebbe permesso di nuocere con il proprio potere sulla cugina di Allegra, sebbene gli atteggiamenti tutt’altro che pacifici di quest’ultima.

La folata calda che gli arrivò in pieno viso non lo colse di sorpresa, come invece fece con Satch e Izou, così come non lo stupì il distendersi improvviso di un manto di fiamme rosse sanguigne lungo le braccia di Viola Sollevapesi. Sembrarono proliferare dalla sua stessa pelle e le ricoprirono gli arti dalle spalle fino alle punte delle dita.

Dal basso della propria posizione Satch rantolò, per un attimo preso dal panico nel vedersi quelle lingue infuocate guizzare a pochi millimetri dalla propria persona, ma solo per poi grugnire dolorante, quando il proprio didietro incontrò la superficie fin troppo solida della strada.

La paradisea scrollò le mani, come a volersi ripulire da qualche germe immaginario proveniente dall’umano appena scaraventato all’indietro, per poi arricciare le dita con gesto secco e puntare verso di loro.

Le fiamme rosse si allungarono oltre la linea della clavicola, coprendo, per la gioia dei loro poveri, disabituati sensi, i pettorali della giovane. Ace giurò di sentire Izou tirare un sospiro di esasperato sollievo.

Di norma nessuno di loro si sarebbe sentito minacciato da una ragazza a pugni stretti nella loro direzione, e a petto nudo per giunta, ma quelle fiamme, di quel colore così particolare poi, fece loro capire un paio di cose non proprio irrilevanti. Le fiamme che avevano divorato il Ponte Squama erano rosse e anche quelle della paradisea lo erano.

Non ci voleva un genio per fare un collegamento così semplice.

Oltretutto, era impossibile non notare quanto tonici e e scolpiti fossero le sue braccia, anche da sotto quel manto di fiamme.

Ciò non fece che preoccuparlo maggiormente.

Ripensare che aveva addirittura preso in giro Allegra quando aveva dichiarato che sua cugina sarebbe stata anche in grado di ridurli ad un misero mucchietto di ossa, gli mise addosso un certo imbarazzo. Forse in cuor suo aveva sperato la paradisea gialla stesse esagerando per una qualche cristallizzata forma di rispetto mista a timore nei confronti della consanguinea, ma vederla così, reale, tesa, selvaggia, le mani macchiate di sangue ed a pochi passi di un corpo apparentemente esanime, dissipò ogni suo dubbio.

Aveva già capito dalla sua taglia che fosse una tipa tosta e, tralasciando il personale imbarazzo per averla sottovalutata senza averla mai incontrata, la cosa non gli dispiaceva. Il suo istinto da combattente prudette, stuzzicato dalla possibilità di un combattimento stimolante, ma lui lo ricacciò indietro, nell’angolo più remoto della propria mente.

Simili atteggiamenti bambineschi sarebbero stati più adatti a quella testa calda del suo fratellino, non suoi, e poi non potevano concedersi di perdere tempo: dovevano trovare Allegra.

Assunse la postura più tranquilla e pacifica che conoscesse: dritto sulla schiena, mani a palmi aperti rivolti verso l’avversaria ed un sorriso rilassato, forse un po’ troppo tirato per i suoi gusti, ma ,data la tensione, non riuscì a fare di meglio.

“Ehi ehi. Calma i bollenti spiriti, ok? Non abbiamo cattive intenzioni, siamo dalla tua parte.”

La ragazza assottigliò lo sguardo, scrutandolo diffidente.

“Tsè… raccontalo a qualcun altro.”

“No, dico davvero. Noi siam-…”

“Il vermiciattolo dal ciuffo sa il mio nome…” sibilò, interrompendolo.

Satch stava nel mentre cercando di non far defluire altro sangue dal proprio naso, alzando la testa più che poteva, guardando verso l’alto a gambe incrociate.

“Che baleducata…” bofonchiò il Diplomatico.

“Hai una taglia sulla tua testa, cocca.” intervenne Izou, puntellando una mano su un fianco, forse nella vana speranza di salvare la situazione con una spiegazione che non implicasse rivelazioni pungenti, come il rapimento di Allegra.

Ace, tuttavia, non poteva condividere con il desiderio del compagno di tenere celato il motivo di quella loro malaugurata scampagnata tra le strade del Corno Sinistro: si trattava pur sempre della cugina della paradisea. Non potevano lasciarla all’oscuro, soprattutto in una situazione critica come quella.

“SULLA MIA TAGLIA NON C’E’ IL MIO COGNOME!!!”

E poi non è tipo da farsi prendere per il naso. - ridacchiò sudando freddo. Che tipino.

Satch era riuscito ad infilarsi un paio di pezzi di carta attorcigliati nelle narici, fermando l’emorragia, tornando a poter parlare quasi come una persona normale.

“E se ti dicessimo che conosciamo tua cugina?”

Diretto. Coinciso e con un tocco di cautela. Ace aveva sempre ammirato la capacità che Satch aveva di trattare i temi più spinosi con parole nette e semplici, nonostante di solito lo facesse con una faccia più felice e meno accigliata.

Le parole del diplomatico ebbero effetto immediato: gli occhi nocciola della ragazza di sbarrarono e la sua testa scattò di lato, verso Satch, incredula e smarrita.

“Cos’hai detto?” sussurrò con voce a malapena udibile, strozzata dalla sorpresa.

“Allegra.” si fece avanti Pugno di Fuoco, attirando l’attenzione della paradisea rossa su di sé. “Navighiamo con lei da qualche mese, l’abbiamo ripescata dal mare che era mezza disidratata. Ci ha raccontato di essere scappata da una nave di schiavisti e che il Governo Mondiale ha massacrato le vostre simili e costrettovi alla fuga.”

I corpo teso di Sollevapesi si rilassò appena, e persino le fiamme crepitarono meno forti. C’era confusione nei suoi occhi e forse un tocco di speranza, ma non durò a lungo.

Stringendo i denti e scuotendo la testa, Viola Sollevapesi tornò ad essere la molla tesa e mortale che era stata fino ad allora.

“Stronzate! Allegra non può avervelo raccontato! Lei non conosce una parola della vostra lingua! Non è mai riuscita a mettere insieme più di mezza parola!”

“Eeee… testarda come ti aveva descritta.” esclamò il pirata dal cappello alla cowboy, lasciando che le sue braccia ciondolassero in avanti. Sbuffò deluso: per un attimo ci aveva quasi creduto.

“Gliel’abbiamo insegnata, cocca.” 

“Non chiamarmi cocca, confetto!!!!”

“Con quel davanzale spudorato che ti porti appresso puoi assomigliare solo ad una cocca, cocca!!!”

“E chi gliel’avrebbe insegnata la vostra strascicata e schifosa lingua, eh? Neanche Arch è riuscito mai a inculcargliela in testa e dire che sono io quella che ha fatto più storie per impararla!!”

Ace non sapeva quando, esattamente, Satch si fosse avvicinato a Sollevapesi Viola. Che avesse gattonato era cosa scontata, ma era stato tanto preso dal rapido scambio di insulti tra lei e Belladonna che se ne rese conto all’ultimo, quando l’argentata abbassò improvvisamente lo sguardo verso il basso, distratta dal pirata imbrillantinato che, ancora seduto a gambe incrociate per terra, le aveva stuzzicato una gamba con un dito.

Una volta guadagnata la sua attenzione, Satch fece una cosa abbastanza spiazzante: puntò quello stesso dito con cui l’aveva richiamata verso l’alto, indicando insistentemente qualcosa per poi elargire un’unica e semplice parola:

“Lui.”

Era impossibile non riconoscerlo, anche da lontano ed intento a sorvolare i resti, oramai quasi del tutto spenti, del ponte.

Marco la Fenice si era certamente soffermato a controllare il monumento, preso dall’ansia di potervi trovare Allegra, bloccata da dei muri di fiamme. 

Lo si poteva capire da come volteggiava. I suoi battiti d’ali, solitamente pigramente sinuosi, non erano mai stati così veloci e frenetici ed Ace non poté che condividere la sua ansia.

“Oh, Grande Spirito.”

A giudicare però dall’incarnato notevolmente impallidito della paradisea rossa, noto a tutti una volta abbassati gli sguardi, la vista del loro compagno di ciurma aveva messo fuori uso parecchi dei suoi fusibili cerebrali.

D’accordo, forse la vista di un grande rapace infuocato non doveva essere una cosa normale per una paradisea. Ora che ci ripensava anche Allegra si era fermata ad osservare Marco più a lungo del dovuto, la prima volta che si era tramutato di fronte a lei…

“LUI?!” esplose infine l’argentata con voce tremolante, ma, incredibile a dirsi, ugualmente potente.

“LUI..è …” balbettò un paio di volte, incapace di articolare una frase di più.

“Viola Sassonia.” intervenne Izou in tono colloquiale, ponendosi davanti alla ragazza come se la stesse presentando all’amico, nonostante la distanza. “Marco la Fenice. Membro della ciurma di Edward Newgate detto Barbabianca.”

Come se le fosse scoppiata una bolla di sapone in faccia, Sollevapesi tornò a guardarli, non meno sconvolta.

“Anche…anche voi siete quella roba…pirati?”

“Ne conosci altri?” ridacchiò lui, ma si morse la lingua, vedendosela accigliarsi pericolosamente.

“Sì, lentiggine, dei clown alla guida di un’obbrobrio galleggiante con un ratto volante stampato davanti e tanti teschi come ornamenti.” scandì ringhiante, per poi far calare velocemente la propria attenzione su Satch.

“E tu levati, brillantina.” lo snobbò velocemente dandogli un rapido, ma nemmeno tanto convinto, calcio nelle costole.

Satch la prese abbastanza bene e, addirittura ridacchiando sotto i baffi, strisciò di qualche metro di lato, come ordinatogli.

Nel frattempo tutti e tre ragionarono sulla descrizione appena ricevuta: una polena a forma di pipistrello e ornamenti macabri. Era la Hell Glory di Eustass Kidd, senz’ombra di dubbio.

Pazzesco.- pensò Ace, grattandosi la testa da sotto la falda del cappello - Ora ne dobbiamo una pure ad Eustass Kidd.

Ad ogni modo si notava a colpo d’occhio che la paradisea si fosse parecchio rabbonita rispetto a prima, ed era bastata la presenza di Marco? Buono a sapersi.

“Va bene, vermetti, vi credo.” decretò e le sue fiamme di colpo si dissiparono, come evaporate. Izou fece uno slancio da record, sfilandosi l’haidate in tessuto rosso che portava alla vita, e, con rapido movimento delle braccia, salvò da nuova vergogna i propri compagni di ciurma ed avvolse il telo di tessuto pregiato (non fosse mai che lui si coprisse di roba volgare) attorno alle nudità della giovane.

Al compimento della propria impresa, l’orientale si mise quasi a piangere commosso. Ce l’aveva fatta a farla coprire, infine.

Viola si limitò a guardarlo stranita ed un poco stizzita per un istante.

“Ora portatemi da mia cugina.”

Di colpo l’atmosfera gelò.

“Cosa c’è?”

Satch aveva prontamente rotolato in avanti, nascondendosi dietro lo yukata roseo di Izou.

Alla fine erano arrivati al punto. Era anche ora, ma Ace cominciava ad avere dei dubbi sul lieto fine di quella vicenda. Deglutì e, forse con voce ancora un po’ troppo arrochita dal nervoso, si fece avanti. 

“C’è un problema:…” faticò a far scivolare via il resto “…tua cugina è stata rapita.”

Izou si ritrasse per un soffio, prima che l’impietosa presa della Sollevapesi calasse su di lui, diretta nientemeno che alla propria acconciatura.

La paradisea era tornata ad essere un fascio di nervi: occhi fissi e spiritati, narici dilatate e dita arricciate, pronte ad artigliare la prima persona a portata di mano.

“Lo sapevo…” sibilò velenosa, portandosi di un passo in avanti  “…siete esattamente come tutti gli altri. E dire che c’ero quasi cascata. Tch. Arch si farebbe una grassa risata se avesse senso dell’umorismo.”

“Aspetta.” la interruppe Satch, alzatosi in piedi e coraggiosamente spintosi in avanti. Nonostante il Diplomatico avesse ancora nel naso quei ridicoli pezzi di carta, la sua espressione era assorta e a tratti glaciale. Ace potè intuire e condividere appieno la scelta dell’amico di non lasciarsi prendere da chiacchiere e sorrisi inutili, anche se si trattava della cugina di Allegra.

“Noi non vogliamo grane in questo momento. Stiamo veramente cercando tua cugin-.”

“Stonzate! Scommetto che la tenevate rinchiusa, lei è scappata e ora volete solo scambiare una pagnotta per un’altra!”

“Ti abbiamo già detto che siamo pirati, non schiav-! Dannazione, almeno fammi finire di parlare!!! Chi ti ha insegnato l’educazione, un troglodita?!” protestò l’orientale, mettendosi nuovamente al riparo dalle mani dell’altra, tornate scarlatte e roventi.  Ace vide le unghie minacciose dell’argentata sfiorare e tagliare, con il proprio semplice calore, una manciata di filamenti neri sfuggiti all’acconciatura dell’altro e si mosse in avanti di puro istinto.

I suoi palmi e quelli di Sollevapesi cozzarono a metà strada dalla faccia di Izou.

Pugno di Fuoco avvertì i propri muscoli tremolare nell’atto di contrastare la forza del colpo, originariamente diretto all’amico, e la sua pazienza si spezzò come un ramoscello secco.

Al diavolo il suo grado di parentela con Allegra. Aveva superato il limite!

In una frazione di secondo, prima che questa potesse indietreggiare e caricare un’altro colpo, decise di non farsela scivolare via dalle mani. Le sue mani si mossero veloci e ferme, costringendo le dita di Viola ad intrecciarsi con le sue.

La paradisea lo fissò allibita e, dopo un attimo di smarrimento, tentò di sottrarsi alla presa, senza successo. Non ci volle molto perché intuisse l’andazzo di quella situazione e optasse per una tattica più offensiva.

Ace avvertì uno strattone, poi le lunghe ciglia pallide dell’altra invasero il suo campo visivo, accompagnate da un bruciore ridondante al centro della propria fronte. Quella stronza…! Gli aveva appena dato una testata!!

Pugno di fuoco strizzò appena gli occhi, colto da una sensazione da tempo quasi dimenticata: dolore. 

Sapeva usare l’Haki?

Si aspettò di vederla caricare all’indietro la testa, ma, con sua enorme sorpresa, la paradisea calcò ancor di più la propria fronte sulla sua e le dita affusolate bloccate tra le sue iniziarono a sfrigolare più forte.

Nel giro di un battito di ciglia le fiamme rosse di Viola erano tornate a divampare, più aggressive e furiose di prima. L’haidate di Izou fu la loro prima vittima.

“No, no, no!! Quella è pura seta di Wano!!”

Ovviamente Ace non fece caso ai piagnucolii di Izou, colpito dalla faccia tosta della ragazza. La paradisea continuava a guardarlo come a volerlo incenerire, aspirazione alquanto inverosimile, se si considerava ciò di cui era capace.

Per nulla intimidito rispose alla dolorosa pressione, dando il via ad una prova di forza tra teste dure. Lo spazio personale che stavano condividendo, alitandosi a così pochi centimetri l’uno dall’altro,  avrebbe fatto arrossire qualsiasi altro esponente del “gentil sesso”, invece Viola non faceva una piega, anzi, l’unica smorfia che deformava occasionalmente il suo viso sembrava di dolore, e non di vergogna.

Ace sogghignò, avvertendo le fiamme cremisi aumentare di calore. Era quasi divertente vederla impegnarsi così tanto per ustionarlo, ma non aveva più né la voglia né il tempo per i giochetti.

Dal proprio punto di vista Viola osservò il sorriso birbante del lentigginoso, stendersi con sicurezza inaspettata.

Non gli sto facendo niente. - realizzò con una punta di panico. Aveva dunque bruciato tutta quella Essenza per niente!? Grande Spirito, ma almeno una gioia non gliela poteva dare?!

Avvertì la presa dell’umano farsi più solida e dolorosa tra le sue dita, così tanto che le sfuggì un rantolo, e notò quegli occhietti neri, ombrati dalla falda del copricapo, luccicare in un modo entusiasta e sinistro.

“Vuoi fare a gara a chi brucia di più, simpaticona?” 

I palmi dell’altro premettero più forti e una sensazione famigliare si sovrappose a quella già presente delle proprie fiamme.

“Perchè, se cercavi una sfida all’ultima fiamma, hai scelto la persona giusta!!”

Fece fatica a processare l’immagine dell’umano esplodere in un turbine di fiamme arancioni. Alcune parti dei suoi arti, così come i vestiti, persino il cappello, si stavano letteralmente dissolvendo in fiamme. Le braccia muscolose che la costringevano all’immobilità, assomigliavano in maniera sconvolgente alle sue in quel momento: rivestite da un manto infuocato.

Non registrò nient’altro. A malapena si rese conto della presa dell’umano, prima solida e di muscoli tesi sui suoi, fattasi più evanescente, pur rimanendo in grado di bloccarla.

Fiamme! Arancioni! Fiamme più alte delle sue!! Oh cavolo. Cavolo. Cavolo!!

Strattonò le braccia per ritirarle ed Indietreggiò d’istinto, colta dalla terribile, ancestrale, sensazione di aver fatto un errore stupido ed imperdonabile. Lottò per riprendere possesso delle proprie dita, ancora trattenute da quelle fiamme assurdamente concrete.

Il pirata osservò meravigliato quell’improvviso cambio di attitudine ed impiegò una buona manciata di secondi prima di lasciare che il suo fuoco si ricompattasse nell’originaria forma di corpo umano. Una volta che le sue dita lunghe e tozze ripresero il proprio posto, Ace l’assecondò, allargando le falangi e lasciando che scivolasse via.

Viola rischiò di ruzzolare a terra, ma, nonostante la propria foga di allontanarsi, riuscì a mantenere quel briciolo di equilibrio che preservò la poca dignità che sentiva esserle rimasta. 

Se prima aveva avuto più di un dubbio riguardo quei tre strambi individui, ora ne aveva ancora di più. Allegra conosceva gente simile? Quello che aveva davanti sembrava una versione potenziata di Arch senza tutte quelle lagne su ustioni di vario genere e quell’altro, di nome Marco, che svolazzava sopra il suo ultimo capolavoro di idiozia…

E se avessero detto il vero? Se veramente Allegra fosse stata presa in ostaggio da altri vermi schifosi, ansiosi di riempirsi le tasche e quei tre stessero solo cercando di trovarla e rimetterla al sicuro? Il lentigginoso non dava l’impressione di essere un contaballe e si era anche parato in difesa del confettino, cosa che non aveva mai visto fare agli schiavisti, o cacciatori di taglie chissà, che avevano erroneamente cercato di metterla nel sacco tempo addietro. Inoltre il brillantinato dal ciuffo improponibile aveva avuto più di una buona occasione per poterla bloccare vigliaccamente da dietro ed avvantaggiare i suoi possibili complici.

Non le risultava difficile immaginare sua cugina concedere loro fiducia, ma non poteva permettersi il lusso di valutare con così poco dei perfetti estranei.

Restavano, o comunque sembravano, sempre degli umani, dopotutto.

Dunque che fare? 

Conosceva un solo modo per capire se conoscevano bene Allegra come sostenevano.

Rilassò le spalle e prese un respiro profondo. Davanti a lei i tre sedicenti pirati la fissavano col groppo alla gola.

“Se davvero conoscete Allegra così bene…” cominciò scrutandoli con gli occhi ridotti a due fessure “…allora ditemi: quali sono la cosa che ama e che odia più di ogni altra cosa al mondo?”

Non risposero subito e questo non fece che alimentare nuovamente i suoi sospetti. Il moretto lentigginoso dal petto scoperto si aggiustò il cappello arancione con espressione dubbiosa e il confettino dalla stupida acconciatura fece le spallucce.

Solo il biondo brillantinato si fece avanti con espressione seria e risoluta.

“Lo scricciolo ama i luoghi alti, ma odia con tutto il cuore cadere.” decretò senza mezzi termini.

A Viola mancò il respiro.

Non ci sarebbe mai stata risposta più azzeccata di quella.

Pochi sapevano del contraddittorio timore che la paradisea dalle fiamme cangianti provava nei confronti delle altezze. Solo lei, Archetto e Clarina ne erano a conoscenza, mentre le altre sull’isola avevano sempre ritratto la sua piccola, svelta e iperattiva cuginetta come un esserino indomito e senza alcuna paura.

In quel momento però i suoi pensieri erano diretti a ben altro.

Perché quella rivelazione, apparentemente di poco conto, apriva le porte ad una orribile e ben più grave realtà: Allegra era stata veramente rapita.

Ace la vide abbassare il capo e, a pugni stretti, marciare verso di lui finché non fu a pochi centimetri dal suo naso. 

Pugno di fuoco avvertì il laccio del cappello, ornato dall’emblema di un teschio, venire strattonato verso il basso, poi trainato in avanti, costringendolo ad arrancare per non cadere di faccia a terra.

“E voi che aspettate vermetti? Muovete il culo e cerchiamola!!”

 

 

 

 

Non doveva muovere nemmeno un muscolo. Non un tic. Nemmeno un respiro troppo profondo.

Riprendere coscienza  con l’effetto di qualsiasi cosa le avessero iniettato ancora addosso era una cosa orribile: si sentiva la bile acida solleticarle il palato e un senso di stanchezza opprimerle i muscoli, come se una forza estranea glieli spremesse dall’interno, lasciandoli molli e doloranti. 

Soppresse la tentazione di lamentarsi ed accigliarsi, colta dall’ennesimo piccolo conato che le mosse la gola. Aveva faticato non poco a mantenere l’espressione rilassata ed il respiro regolare, una volta accortasi di star riprendendo controllo del proprio corpo, ma non avrebbe commesso lo stesso errore una seconda volta.

A quanto percepiva i suoi rapitori non si erano dati pena di legarle le mani, quindi si dedicò quasi immediatamente all’obiettivo di riuscire a risvegliare dal proprio torpore almeno un singolo dito, tentando di percepire con un polpastrello la superficie ruvida del pavimento umidiccio dove era distesa. 

“ARGH!” ringhiò inattesa una voce alle sue spalle. Cavolo, si era quasi lasciata scappare un sussulto!

Calme toi, Pobs.” riconobbe l’accento ed il modo stranissimo di strascicare le parole: era la stessa persona che l’aveva drogata.  A giudicare dalla voce era il più vicino rispetto a lei, e ciò le mise addosso sia un certo disagio sia un senso di impazienza. L’idea di avere quella carogna a potenziale portata di mani le faceva prudere i palmi di pura brama di vendetta. Oh. Un bel calcio nei punti bassi non glielo toglieva nessuno!

“Calmarmi?! Quel bastardo è in ritardo! Io non ho tutto il giorno Reginald! Mia moglie ha cominciato ad usare il rastrello per quando non arrivo a casa in tempo! Non posso permettermi di mancare all’ennesimo pranzo con mio figlio perché ‘mister rapitore/benefattore’ ha il culo pesante!!”

“Davvero Pobs. Non riesco proprio a capire perché tu abbia scelto questo lavoro. Io ho debiti di gioco dalla testa fino agli alluci. Tu almeno hai una famiglia, una casa. Si può sapere perché ti sei buttato in questa faccenda?”

Allegra udì una lunga sofferta pausa, poi un tonfo per terra. Quella conversazione l’incuriosì: quindi non era stata loro l’iniziativa di rapirla per venderla a qualche nave schiavista. Si concentrò sulle loro parole, interrompendo i suoi tentativi di riattivare la propria capacità motoria. 

“Ho perso il lavoro, Reg. Da quattro mesi.” dichiarò Pobs.

“Oh mon dieu.”

“Già…”

“Deduco che Jara non lo sappia.”

“Crede ancora che lavori in un quel cubicolo di sfruttatori al soldo del governo. Ed è meglio che continui a crederlo. Non voglio rovinarle la vita.”

“Senti Pobs. Conosco te e Jara, da quanto? Sei anni? Praticamente ho visto Breton nascere. Jara non è il tipo di donna che lascia uno su due piedi solo perché non ha più un lavoro.”

“Tu non l’hai vista Reg, era così felice quando ho ottenuto quel lavoro. Così orgogliosa. Non voglio che pensi di aver sposato il proverbiale fallito che per problemi di coscienza manda la famiglia per strada.”

“E per non affrontare tua moglie, la tua coscienza ti ha mandato a sequestrare una ragazzina in cambio di qualche spicciolo.”

“Senti chi parla.”

Oh, bene. Quindi non era nelle mani di due maniaci assassini stagionati. Era rassicurante sapere di avere a che fare con qualcuno che, tutto sommato, una coscienza ancora ce l’aveva. Sarebbe stato meglio, comunque, non contare troppo su un loro ripensamento.

Bene. Il suo dito finalmente rispondeva, anche se incerto.

“Io mi sto giocando la vita Pobs, quelli non vogliono più aspettare che mi faccia un nome tra i tavoli da gioco. O i soldi o la mia testa. Ringrazio solo il cielo di non aver mai messo su famiglia.” 

Quasi si sentiva in colpa per star progettando di scappare via. Quasi. Non era mica masochista. Ora doveva solo aspettare il momento giusto.

“Io te l’avevo detto di smetterla col gioco. Stavi appiccicato a quei tavoli come un droga-!”

“NON SONO UN DROGATO!!!” lo bloccò Reginald, lanciando qualcosa di metallico a terra, che rimbalzò qualche metro più avanti. Il riecheggiare delle vibrazioni di quell’oggetto le fece intuire di trovarsi in un luogo piuttosto ampio. Perfetto: avrebbe avuto più spazio per muoversi.

“E tu come lo chiami uno che è talmente ossessionato da qualcosa che si dimentica addirittura di mangiare??!! Hai dimenticato chi è che ti sfamava quando i buttafuori di quella trappola ti gettavano in strada svenuto??!! O forse il cibo che ti preparava Jara non era di tuo gusto?!”

Ci fu un lamento seguito da un tonfo a terra, seguito dal rumori di altri colpi.

Si stavano picchiando.

Un’ondata di euforia la scosse. Perfetto.

Aprì lentamente gli occhi, appurando che la rissa stava avendo luogo alle sue spalle, dove quei due non potevano notare che si era risvegliata. 

La luce era scarsa e tremolante, fornita da delle lampade ad olio probabilmente appese fuori dal suo campo visivo, il pavimento era umido e ricoperto di sabbia e da lontano si poteva udire lo scroscio ritmico del mare. Dovunque si trovasse, era a livello del mare.

Mosse ancora un paio di volte il polpastrello e si concentrò.

Una fiammella gialla fece capolino sulla punta del suo dito.

Ora.

Si rimise in piedi con uno slancio delle braccia, approfittando di essere distesa lungo un fianco, e, ancora un poco traballante alle ginocchia, sondò i dintorni. Dietro di lei i suoi rapitori si stavano ancora azzuffando quindi ebbe tempo a sufficienza per controllare. Come aveva sospettato, si trattava di una grande sala squadrata senza finestre nè fonti di luce naturale, ed il soffitto, sempre composto in pietra lavorata, formava una sorta di croce al centro che scendeva poi ricurva fino al pavimento. 

Ognuno dei quattro muri che componevano la stanza si apriva in un’apertura ad arco.

“Ma che-…UGH!“

A giudicare dal modo in cui Pobs aveva strabuzzato gli occhi, doveva essersi accorto che mi ero rialzata. Fortunatamente Reginald, nonostante la corporatura più smilza, ne aveva approfittato per assestargli un altro pugno in pieno viso.

Ora doveva scegliere quale strada prendere. Ok, doveva riprendere fiato. Aveva sentito il rumore delle onde, quindi doveva essere vicino al mare, molto vicina. Poteva scegliere se dirigersi verso il mare, e pregare di avere forza a sufficienza per nuotare in un luogo sicuro, o addentrarsi nei cunicoli di quel posto che, già ad una prima occhiata, pareva immenso. Se però avesse imboccato la strada sbagliata quei due l’avrebbero come minimo riacciuffata nel giuro di pochi minuti.

Non aveva molto tempo per pensarci su. Pobs non si sarebbe fatto interrompere un’altra volta.

“Al diavolo!” si gettò sul passaggio più vicino, da dove le sembrava provenire il suono rassicurante dell’acqua.

“STA SCAPPANDO!”

Appena in tempo. Davanti a lei si aprì un lungo corridoio scuro e gocciolante, ma che, con sua immensa gioia, presentava la proverbiale luce alla fine del tunnel a soli pochi metri più avanti. Ad ogni passo che compiva, pestando i piedi scalzi sulla superficie bagnata del pavimento, si accorgeva che questa diventava sempre più ruvida e granulosa.

Sabbia! Era sulla strada giusta!

Anche il suono del mare si faceva sempre più forte, risuonandole nelle orecchie come un canto di speranza.

“FERMA!”

La vista di una distesa azzurra liquida la fece frenare appena in tempo per non capitombolare giù per una vecchia scala in pietra. Rantolò, agitando le braccia per riprendere l’equilibrio ed osservò la scala tuffarsi e sparire nello specchio d’acqua brillante. 

La nuova stanza dov’era sbucata non era altro che una grotta nera e spigolosa.

La cosa che però attrasse maggiormente la sua attenzione fu il bianco e fulgido riflesso proveniente da una delle insenature di roccia più lontane: l’esterno. 

Si scansò di lato, impedendo ad una mano ossuta, sicuramente di Reginald, di afferrarle una spalla, e si lanciò senza ripensamenti giù per la scalinata. Quando le sue caviglie infransero la perfezione di quella superficie acquosa sentì la libertà invaderla ed aprirsi davanti a lei.

Era immersa fino alla vita quando la voce rotta di Reginald la bloccò.

“Fermati, TI PREGO!”

Non seppe mai cosa la mosse a voltarsi.

Il volto rigato di lacrime e contratto di Reginald fu la cosa più miserabile che avesse mai visto. Sotto i segni rossi della scazzottata con Pobs la disperazione del giocatore d’azzardo era evidente e la investì così forte da stringerle il cuore.  Si era persino lasciato cadere a carponi, inchinandosi a terra in segno di preghiera.

La stava letteralmente scongiurando di restare. Era bastata la sola eventualità che potesse riuscire a scappare per farlo crollare definitivamente. Quello che aveva davanti non era un uomo in cerca di denaro facile, ma un condannato a morte che vede la sua ultima speranza scivolargli dalle dita.

Colta da un momento di incertezza, la paradisea si lasciò scivolare verso la parte più profonda di quella piscina naturale, facendo volteggiare le gambe tra i suoi flutti limpidi, mentre continuava a scrutare l’uomo perdere ogni tipo di contegno. 

“Ti prego…mi ammazzeranno. Ti prego… N-non… lasciarmi morire.”

Sapeva che la scelta più sensata sarebbe stata fuggire senza voltarsi più indietro, immergersi totalmente nuotare verso l’uscita della grotta. Era così vicina da sentire l’aria salina del mare solleticarle il collo. Un paio di bracciate e sarebbe stata di nuovo libera. Avrebbe rivisto Oyaji, Penelope, Mindy, Carol, Ace, Satch, Jaws…Marco. Nessuno l’avrebbe portata via un’altra volta, nè l’avrebbe rinchiusa o incatenata. Sarebbe ripartita alla ricerca di Viola e Arch e si sarebbe presto dimenticata di quella disavventura.

Allora perchè, nonostante il suo cervello le urlasse di muoversi, non riusciva a muovere un muscolo?

L’uomo che aveva davanti, e che in quel momento stava ripetendo la sua preghiera a lei diretta come un mantra, aveva troppo da perdere, esattamente come lei. Non se la sentì di abbandonarlo.

Borbottò a pelo d’acqua, creando delle bollicine. 

Forse Viola aveva ragione quando le diceva che aveva il cuore troppo tenero.

Pobs era arrivato zoppicando dietro Reginald, accostandosi a lui come avrebbe fatto un vecchio amico ad un funerale.

“Vi aiuterò.” 

Alle sue parole si Reginald che Pobs la guardarono basiti.

“Ma dovrete fare come vi dico. Niente obiezioni. E al primo tentativo di vendermi ancora, giuro che vi mollo. Chiaro?” si affrettò ad aggiungere, ma ormai il danno era fatto. Nuovi fiumi di lacrime affluirono nello specchio d’acqua in cui stava nuotando e sguardi colmi di ammirazione erano puntati su di lei.

Onee-chan!!!

Nuove bollicine ricoprirono il pelo dell’acqua.

Era davvero troppo buona. 

 

 

Corno Destro~

Questa volta Viola l’aveva combinata grossa. Sapeva di averlo detto più volte, ad ogni isola, specie dopo che la dolce voce della cugina aveva distrutto un’isola intera per aver richiamato un Re dei Mari quando avevano conosciuto quella bella faccia di Eustass Kidd, ma questa volta era per davvero.

Arch osservava quel disastro con le mani tra i capelli, e pregava che almeno questa volta non ci fossero vittime. Fissava impietrito ogni singolo pezzo del ponte deteriorarsi e crollare secondo dopo secondo, affondando nel mare come un misero castello di carte.

Un fottuto ponte. Aveva letteralmente incenerito un fottutissimo ponte in pietra e legno!

Fosse stato un Re dei Mari gli sarebbe stato più semplice da accettare! Almeno quei serpentoni marini avevano la scusa di essere immensi e di non fermarsi di fronte a nulla pur di agguantare uno di loro. Sua cugina era riuscita a compiere la stessa quantità di danni semplicemente spargendo le sue fiamme lungo la struttura come coriandoli!!

E ora come la risolveva?!

Gli fu molto difficile girare i tacchi e cominciare a dirigersi a grandi passi in direzione della Hell Glory. C’erano molte persone ustionate dalla sua parte del ponte e lo stomaco gli si stringeva al solo pensiero che qualcuno potesse non avercela fatta, ma non poteva fare niente. In quel momento Viola doveva essere la sua priorità.

Quel che non riusciva a capire e come fosse riuscita a fare tutto quello da sola.

Non aveva mai estratto dal corpo Essenza a sufficienza per rendere aggressive le sue fiamme, anzi per lei sarebbe stato impossibile dato che non l’aveva mai accet-…

No. Sul serio? Adesso?! Adesso si metteva a dargli retta?! Anni a dirle di non reprimere se stessa, a intimarle di cercare di essere ragionevole e poi di punto in bianco si svegliava?! 

Sentì il sangue andargli al cervello, mentre accelerava.

Come si aspettava di potersi controllare dopo una vita passata a camminare sulle punte?! Era come se un bambino neonato pretendesse di poter procedere in linea retta senza inciampare fin dalla prima volta che si metteva in piedi! Aveva fatto la scelta giusta nel luogo e nel momento sbagliato, dannazione!

 

~Corno Sinistro

Furono i versacci squillanti di Josephine a risvegliarlo.

Doma tornò nel mondo dei vivi con un concerto strillante in testa e con l’impressione che il cranio gli si stesse spaccando in due. Si tirò faticosamente su, mettendosi a sedere, mentre la sua scimmia continuava ad appesantirgli lo stomaco, sbraitandogli suoni insopportabilmente acuti dritto nelle orecchie.

Scosse la testa, provando, inutilmente, a mettere fuoco il pavimento su cui era disteso, ma i suoi occhi sembravano ricoperti di una patina spessa e grigia.

Cos’era successo? Si massaggiò il retro della testa con una mano, incontrando la sensazione di qualcosa di umido, e quando se la riportò all’altezza vide che del rosso vivo ne aveva tinteggiato i polpastrelli. Sangue. Ne rimase confuso, inizialmente, ma poi, quando il dolore si affievolì, lasciando spazio alla lucidità, gli tornò tutto alla mente.

Aveva mandato Josephine ad attirare il mostro nei vicoli, così da poterla bloccare, imbavagliare e procedere indisturbato col resto del piano accordato con Teach, ma, proprio quando pensava che le cose si sarebbero svolte senza intoppi, era successo qualcosa.

Si rimise in piedi, grugnendo per il conato che gli salì alla gola e che lo costrinse, suo malgrado, a svuotare di nuova a terra lo stomaco di quel poco di bile che aveva. Una commozione celebrale. 

Assestò un pugno debole e colmo di frustrazione sulla superficie ruvida della stradina. Gli avevano teso un agguato e lui si era lasciato sorprendere come un novellino!

Josephine  ora saltellava su quattro zampe al suo fianco, continuando imperterrita nel suo tentativo di dirgli qualcosa.

“Dannazione Josephine…” biascicò sentendo la lingua scivolare su ogni sillaba. Quanto forte l’avevano colpito?

“Doma!!”

Non provò gioia nell’udire la voce giovane e a tratti ancora infantile del comandante Haruta, specialmente a causa del trillo che, forse prima attribuito ingiustamente ai versi della sua scimmia, gli aveva invaso i timpani.

Crollò come un peso morto, prono. Al suo fianco la sua scimpanzé urlò allarmata e i passi leggeri di Haruta gli si accostarono.

Il tempo di ispezionare le sue condizioni e il Boemo sentì il ragazzino biascicare un imprecazione a denti stretti ed estrarre il Lumacofono da una tasca.

“Izou. Ho trovato Doma. é privo di sensi in un vicolo nei pressi della zona commerciale… ” non sentì il resto della conversazione. A quanto pareva il manto nero dell’incoscienza glielo impediva, ma riuscì a cogliere tra i momenti di pura confusione un tocco leggero e cauto ispezionare la sua ferita “…colpito molto forte alla testa …… Cosciente … Dobbiamo portarlo all’infermeria della nave …… Allegra non è con lui………vi aspetto…… All’angolo del Mayumi Dressie ……… gira a destra poi a sinistra.”

Non passò molto, almeno secondo il suo punto di vista, prima che le sue orecchie venissero nuovamente offese da una moltitudine frenetica di passi.

“Chi è il rimbambito?” domandò brusca una voce femminile, poi d’un tratto si sentì tiare su per il bavero della giacca e davanti la sua testa ciondolante apparve il viso di Pugno di Fuoco.

“Doma!! Dov’è Allegra?!”

“Calmati Ace così l’ammazzi!!” intravide farsi avanti l’ombra color pastello del comandante orientale. Stava lentamente perdendo coscienza, di nuovo. Dov’era Josephine? Era scappata via o si era zittita alla vista dei pirati del Bianco?

“Se sa dov’è lo scricciolo non è nelle condizioni di dircelo.” 

Le loro voci erano ormai echi lontani e senza volto.

“Ehi vermetti, l’animale peloso sembra aver molto da dire.”

… Josephine?

Fine Capitolo 32

Finito di leggere? XD 
Spero abbiate gradito anche la piccola Soundtrack che mi ha ispirato nel mentre della stesura XP
Il prossimo capitolo è in stesura anche lui, quindi non penso dovrete aspettare molto.

 

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Capitolo 33
*** Nomi sulla lista ***


33: Nomi sulla lista

“Come sarebbe a dire che non sapete come uscire da qui?”

Allegra aveva davvero faticato a mantenere la voce ferma nel mentre squadrava i suoi “rapitori”, seduti ai piedi della scala davanti a lei, ancora gocciolante e immersa fino ai fianchi. Era rimasta a braccia al petto e con una voglia montante di prenderli a schiaffi a turno, nel sentire la cosa più insensata che avesse mai sentito (dopo i pettegolezzi fantasiosi delle gemelline infermiere della Moby).

Pobs si massaggiò il collo, chiaramente imbarazzato. Ora che lo osservava meglio, Allegra notò che non era solo un energumeno tutto muscoli, mani nervose, sbarbato e testa piccola. Cioè, aveva effettivamente la testa più piccola e leggermente incavata nelle spalle, ma presentava anche quei particolari tipici di chi è sposato e che aveva a casa una moglie pronta a farlo, effettivamente, a fette. Per esempio aveva attorno agli occhi, sottili e gentili, i primi accenni di zampe di gallina, una calotta brizzolata affetta da calvizie, delle guanciotte paffute e rubiconde, vestiti stirati quasi a fresco, ma con svariate macchioline colorate ed appena sbiadite qua e là, sicuramente qualche souvenir lasciatogli da una sessione di gioco con la propria prole. Inoltre, per quanto potesse apparire strano, aveva un sorrisetto bonario che sembrava essergli stato stampato in volto dalla nascita. Era, in sostanza, il classico gigante gentile  che non si può non amare, e questo ebbe il suo peso sulla sua scelta di non infierire su di lui.

Di tutt’altra pasta era fatto Reginald: un cosino smilzo che a prima vista le ricordò un grillo con gli occhi grandi e la faccia lunga. Sembrava, letteralmente, soffrire nel rimanere fermo davanti a lei e persino i suoi occhietti, piccoli e tondi, non smettevano mai di saettare di qua e di là per la caverna, alla ricerca di qualcosa di inesistente. Era il classico smilzo che galleggiava nei suoi stessi vestiti, proporzionalmente insignificante e fragile rispetto a Pobs, di almeno una buona ottantina di centimetri d’altezza. Si vedeva chiaramente dalla sua totale assenza di massa muscolare che su di lui non si poteva fare affidamento né per grandi sforzi, né tantomeno per lavori di resistenza. Non si stupiva che un simile elemento, certamente inadatto a lavori di tipo manuale, si fosse lasciato andare al guadagno facile. C’era però da dire una cosa in suo favore: aveva un volto giovane e nel complesso non proprio sgradevole. Certo, magari con la barba un po’ più curata e i capelli, lunghi e secchi, aggiustati in maniera un poco più ordinata, sarebbe stato anche un tipo a cui Carol avrebbe volentieri ronzato attorno.

“Non guardarci così! Questi sotterranei sono più vecchi di me e Reginald!” protestò dispiaciuto Pobs

“Li hanno costruiti prima che l’arcipelago si spaccasse. Praticamente ai tempi dei nostri bisnonni!”

“E quindi?”

“Quindi, pupette…” scandì Reginald con fare troppo sprezzante per i suoi gusti “…i cunicoli sono spesso e volentieri impraticabili, inclinati all’inverosimile e questa…” indicò con un rapido movimento del braccio la scalinata da cui prima si era lanciata per scappare da quella grotta.

“…è l’unica via che permette di uscire senza doversi improvvisare scalatori.”

I conti tornavano, in un certo senso, ma Allegra non riusciva a non smettere di fulminare Reginald. Era vero che prima si era dimostrato disperato e pentito, ma, adesso che non la stava più implorando di non prendere il largo, si stava dimostrando un po’ altezzoso.

“E il punto da dove siete entrati?” incalzò nuovamente. Non voleva lasciare nulla al caso. Per quel che ne sapeva, potevano star benissimo ancora complottando di venderla, facendole credere di non poter condurla fuori da quelle grotte.

“Si blocca ogni volta che viene utilizzato. L’ho scoperto per sbaglio tempo fa: il meccanismo riapre il passaggio solo dopo ben 12 ore.” un brivido lo scosse “Credevo sarei morto sepolto vivo.” bisbigliò tremante.

Sembrava sincero, ma non abbastanza per convincerla completamente.

“Ma se sapevate di dovervene andare per forza via mare, perchè non avete preparato una barca?”

La sua obiezione fece il suo effetto: i due abbassarono le teste pieni di vergogna. Si vedeva lontano un miglio che avrebbero preferito poter dirottare il discorso su un argomento meno spinoso. Aveva centrato nel segno. Cosa non le stavano dicendo? Sentiva puzza d’inganno.

“Ehm…”

Incrociò le braccia il petto, spazientita. Il suo sguardo oscillò da uno all’altro, venendo, nonostante ciò, continuamente evaso, in una specie di giochino infantile che ben presto la stancò.

“Il patto era che una volta consegnata a lui ci avrebbe ceduto la propria barca e lasciato andare via con la ricompensa.”

Allegra non avrebbe mai potuto credere a una simile versione e in un primo momento si era detta che mai e poi mai l’avrebbe fatto. Certo, sarebbe stato semplice, se solo quei due bacucchi non si fossero rannicchiati pietosamente su loro stessi, rossi più delle fiamme di sua cugina ed evidentemente sconvolti dalle loro stesse parole. Erano stati sinceri.  Avevano veramente creduto che mettersi alle spalle al muro con un perfetto sconosciuto che doveva loro dei soldi, sarebbe stata una buona idea.

Si massaggiò la base del naso. Non era colpa loro. Dovette ripeterselo più volte in quel breve lasso di tempo che la separò da quella che fu, senz’ombra di dubbio, la reazione più ponderata e trattenuta della sua intera vita.

“E non avete pensato fosse una pessima idea?”

Reginald si coprì gli occhi con una mano ossuta, le gote oramai rosse di vergogna che spiccavano attraverso le dita. Pobs, invece, iniziò a trovare stranamente affascinanti le venature rocciose della parete alla sua destra.

Se non altro ci stavano pensando in quel momento.

Allegrà sospirò: non c’era altra scelta.

“Ok. Ho un piano. Ma vi avverto: non vi piacerà.”

 

——

Non era così che doveva andare.

Teach, fulminò con odio la Hell Glory da dietro le fronde di un arbusto provvidenziale. Per sua fortuna le pareti rocciose del Corno Destro non mancavano di vegetazione ed insenature dove nascondere una piccola scialuppa come la sua, ma le correnti erano insidiose e la sua pazienza stava venendo messa a dura prova.

La sue dita s’intrecciarono nervosamente su un ramoscello a portata di mano. Quella stupida imbarcazione gli impediva di dirigersi, senza essere avvistato, verso l’entrata della grotta dove il suo bottino lo attendeva. Il ramoscello si spezzò. A quanto sembrava la sfortuna non aveva smesso di perseguitarlo.

La dentatura marcia del pirata stridette, dente contro dente. Normalmente non si sarebbe fatto tanti problemi a passare sotto il naso di una nave pirata avversaria, magari sventolando una bandiera bianca di fortuna come precauzione, ma non poteva concedersi un simile passo falso. Non con la nave del Bianco a pochi chilometri di distanza.

Doveva essere cauto. Una sola lumacofonata, una minima incomprensione e il suo piano sarebbe andato a rotoli, smascherandolo in così poco tempo che neanche la più forte delle tempeste sarebbe riuscita a sottrarlo all’ira di Barbabianca e la sua ciurma.

Un altro paio di rami vennero gettati nel mare, senza pietà.

I suoi occhietti stralunati puntarono il vuoto, carichi di odio.

Quando sarebbe giunto il momento Eustass Kidd e la sua marmaglia di pagliacci sarebbero stati tra i primi sulla lista.

 

——

 

Marco aveva sfrecciato freneticamente da parte a parte del ponte per almeno 5 volte, il cuore nelle orecchie, l’aria fendente sul petto. Le ali infuocate avevano iniziato a dolere di stanchezza, ma lui le aveva volutamente ignorate.

Ancora nessuna traccia. Niente.

Mille orribili possibilità gli bussavano alla testa e ormai non riusciva più a scacciarle via.

Scosse la testa rapace, costringendosi a non cedere al panico. Doveva restare calmo e controllarsi.

Optò per ispezionare le coste orientali del Corno Destro. Battere troppo su un unico punto lo stava consumando mentalmente.

Le sue ali lo portarono velocemente nella direzione desiderata. Fortunatamente la sua forma animale gli permetteva una libertà di movimento superiore a quella di un normale essere umano. Certo, come tutti i volatili, anche lui era legato ai capricci delle correnti d’aria, ma la sua stazza giocava sempre a suo favore, offrendogli la possibilità di andare anche controvento all’occorrenza.

Si ritrovò davanti una nave.

Una nave? Ormeggiata da quelle parti?

Sentì i sensori olfattivi del suo becco venire stuzzicati da un immaginario fetore di marcio.

Strinse gli occhi e la studiò meglio. Una polena a forma di pipistrello, ornamenti a forma di teschio ed un ponte così variopinto da fargli dubitare seriamente della sanità mentale del capitano. Poi riconobbe l’imbarcazione: la nave di Eustass Kidd.

Tsé. Ovviamente. Tra le nuove leve della pirateria quella testa calda aveva un senso estetico tutto suo ed inconfondibile.

Cosa ci faceva comunque da quelle parti? Per di più in una posizione così nascosta… e in un momento come quello. Non lo convinceva.

Curvò di lato, iniziando a tracciare un paio di cerchi sopra la Hell Glory. Non c’erano strani movimenti a bordo, anzi, se proprio doveva azzardare un’opinione, quella nave sembrava essere stata ormeggiata, e abbandonata alla custodia di pochi svogliati, da sole poche ore.

Si accorse di qualcosa di insolito: rannicchiato contro un parapetto di prua, quasi celato dalle ali invadenti della polena a forma di ratto volante, era seduto un bambino. Un bambino su una nave pirata? La cosa assumeva dettagli sempre più loschi.

Osservò il corpo gracile del bimbo, tentando di cogliere qualcosa che gli rendesse possibile capire qualcosa di più. Era visibilmente teso, ma, per quanto si fosse concentrato, non aveva intravisto nemmeno un accenno di tremore. Se fosse stato prigioniero sarebbe stato in grado di scappare con pochissimo sforzo e gli stessi uomini lì a pochi passi da lui non sembravano dare peso alla sua presenza.

No, si disse, non è prigioniero. Sembra più preoccupato.

Decise che non avrebbe fatto colpi di testa ed avrebbe risparmiato la Hell Glory di una sua visita, ma per il momento Eustass Kidd e la sua ciurma rimanevano, per lui, sulla lista dei potenziali sospettati.

Un paio di colpi d’ala ed eccolo diretto nuovamente altrove, pronto a riprendere la ricerca da dove l’aveva interrotta.

Un’altra cosa gli balzò all’occhio, interrompendo i  suoi propositi di allontanarsi: una barchetta dotata di singola vela, mezza nascosta e traballante dietro un pezzo di roccia e della rada vegetazione. Osservò meglio: vi era un uomo sulla piccola imbarcazione ed assomigliava… no un momento… eppure la stazza e i lineamenti….

“Teach?”

 

 

Hell Glory~

Quando Kidd pestò rumorosamente i piedi oltre la gli scalini della passerella, furono gli occhi neri grandi e preoccupati del mocciosetto, Morgan se non ricordava male, ad accoglierlo. Una rapida occhiata al ponte della Glory gli bastò per capire che la sua fatina bionda non era ancora tornata alla nave.

“Ehi Capitano!” lo salutò uno dei suoi. “Già di ritorno! Già di ritorno dalla bettola del vecchio-…?”

“Iniziate i preparativi per la partenza. Leviamo le tende.” lo interruppe senza tanti preamboli, oltrepassandolo.

“Ma…ma come?! Siamo appena arrivati!” Kidd non fece caso alle proteste del proprio sottoposto e si concentrò sul piccoletto orientale che, sentendo odore di guai e vedendolo puntare proprio verso di lui, indietreggiò, accennando un tentativo di fuga. Il Capitano lo battè sul tempo e, avvertita la sua intenzione di scappare, si lanciò su di lui, afferrandolo per il collo della maglietta prima che potesse anche solo pensare di infilarsi dietro uno dei mucchi casse lasciate lì all’aria aperta.

Morgan emise un rantolo di panico, nel ritrovarsi faccia a faccia con il volto squadrato ed evidentemente infuriato del capitano. Le labbra dipinte del pirata erano oramai una linea nera e sottile, deformata dalla smorfia di pura rabbia su suo viso.

Iniziò a tremare, tentando di incavare la testa nelle spalle, senza successo.

“D-dov’è…V-viola?” balbettò, non riuscendo a collegare il malumore dell’uomo a qualcosa che potesse aver fatto. Era sempre rimasto fermo ad aspettare che sia Arch che la signorina Viola tornassero. Non si era mosso di un millimetro! Quindi perchè il capitano lo stava guardando in quel modo. Pensò di tramutarsi in drago per un istante, almeno per tentare di spaventarlo ed intimargli di lasciarlo andare, ma la voce dell’uomo dinanzi a lui lo distrasse, grattando sui suoi timpani come un artiglio affilato e nervoso su una lastra di metallo.

“La tua amichetta ha pensato bene di dare fuoco al ponte dell’Arcipelago, poppante lagnoso.” ringhiò a denti stretti Kidd, mollandolo si colpo e lasciandolo cadere con un tonfo sordo sul pavimento. “E io mi sono stancato di farle da balia. Quindi non appena Angioletto Infido arriva, noi leveremo le tende. Sta a te scegliere se rimanere o seguire quella disgrazia ambulante.”

“NO.”

Morgan intravide oltre la pelliccia ispida del cappotto di Kidd, il viso ansante ed appena arrossato di Archetto, appeso alle travi dei parapetti con la disperazione di uno che appena percorso di corsa un tragitto troppo lungo per amore dei propri polmoni. Dietro di lui facevano capolino i volti di tutti coloro che erano tornati dalla locanda, .

Kidd si mosse lentamente, quasi meccanicamente, finché non si ritrovò ad osservare il ragazzo da sopra la propria spalla con sguardo truce.
Una cosa che fece rabbrividire Morgan.
“No?”

La domanda che venne da Eustass fu calma. Calma e pericolosa. Eppure Arch non subì quell’occhiataccia, non visibilmente almeno.
Tutto ciò che il biondino fece fu ingoiare con aria sofferente l’aria che continuava ad uscire dal suo corpo ansimante e spingersi in avanti in uno slancio disperato, braccia tese lungo i fianchi, pugni stretti e passo deciso.

“Non ce ne andremo…finché Viola non sarà tornata.”

Kidd era decisamente il tipo da grandi scatti di rabbia. Oh, sì. Killer ne era a conoscenza. Alcuni dei migliori, o peggiori, a seconda, scatti del suo capitano erano stati in grado di dare vita alle più raccapriccianti e spettacolari carneficine che Killer avesse mai visto.
Eppure, in quel momento, nonostante Angelo Infido stesse letteralmente tentando di dettare regole sulla sua nave e l’intera ciurma attendesse a fiato sospeso lo scatto finale del loro capitano, Kidd… non fece nulla.

Nulla di orribilmente violento, per lo meno.

Al contrario, si girò lentamente, cosicché da poter guardare direttamente il ragazzo, torreggiando sopra di lui, dall’alto verso il basso, la sua espressione che lasciava trasparire solo una minima parte dell’enorme rabbia che stava trattenendo.

“Stammi a sentire ora, femminuccia coi calzoni…”

Se prima la ciurma aveva semplicemente trattenuto il respiro, nel momento in cui Kidd aprì bocca, tutti, persino Killer, sentirono l’irrefrenabile istinto di indietreggiare di non meno di un paio di passi.

Arch stava simpatico, oramai, a buona parte della ciurma, vero, ma nessuno sfidava Eustass Kidd.
Nessuno sopravviveva abbastanza per raccontarlo.

Il ragazzo non si mosse di un millimetro, tuttavia, forse proprio a causa dell’alito rancido ed intriso di alcol che gli si infranse in faccia, il suo naso si storse, accentuando la sua espressione seria e per nulla accomodante.

“Non sei tu che decidi cosa non si può o non si può fare, su questa nave. IO decido. Se io dico di andarcene a far baldoria, ce ne andiamo. Se dico di levare il culo da questo schifo di isola, cugina o non cugina, noi. ce. ne. andiamo.”

La calma con cui Kidd aveva parlato non era un buon segno. Oramai Killer e Jack cominciavano a temere per la vita del biondino.
Gli occhi cobalto di Arch si ridussero a due fessure. Più il tempo passava, più il giovane pareva voler perforare la faccia del capitano con lo sguardo.

“Allora l’accordo salta.”

Un coro di rantoli si levò tutt’attorno a loro.
Oh cavolo. Nessuno si sarebbe aspettato una conclusione pacifica per una discussione tanto tesa, ma…

-Forse…- Killer rifletté, guardando Arch voltarsi e dirigersi silenziosamente verso la passerella che lo avrebbe riportato a terra, il tutto sotto lo sguardo esterrefatto di Eustass. - Forse è anche peggio che si sia conclusa così..-


Morgan stava per seguire il ragazzo, ma non fece in tempo a fare un passo,  che il pirata variopinto si era già gettato in avanti, un movimento violento ed unico che tutti, tranne Killer, non si sarebbero aspettati. Il rantolo sorpreso di Arch e la sua faccia contorta dal dolore, fecero intuire al Massacratore che nemmeno il biondino si sarebbe aspettato un’azione tanto immediata.


Killer, però, non era il braccio destro di Kidd tanto per fare scena.

Per lui il suo capitano era come un libro aperto. Conosceva ogni minima cosa di lui, cosa amava, cosa odiava, che tipo di persone risvegliavano in lui i suoi incontrollabili appetiti sessuali e… cosa lo faceva incazzare.


E in quel momento.. Kidd era incazzato.

Era sufficiente guardare il modo in cui stava stritolando l’avambraccio di Arch Angelo per capirlo. Le dita di una singola mano avviluppate attorno il sottile arto del giovane, le unghie nere conficcate nel tessuto bianco della sua camicia, quasi a volerla perforare e, soprattutto, lo sguardo.

Arch trattenne il fiato non appena riuscì a focalizzare il volto del pirata.

Se prima Kidd si era semplicemente imposto come figura autoritaria, resasi prepotente nella vana speranza di fargli suonare i tacchi da bravo soldatino, ora si era tramutato nel suo perfetto opposto: una bestia rabbiosa. Occhi fiammeggianti e le labbra contorte in un ringhio di una violenza a stento trattenuta.
Sarebbe stato anche divertente, ripensando al fatto che era stata propria la violenza di Viola, la sua Essenza, a provocare tutto quello, ma ad Arch non era in vena di una risata. Non rideva mai quando la sua vita o quella di altri era in bilico. E la sua vita era decisamente in pericolo.
Lo poteva sentire dal modo in cui Eustass gli stava stritolando il braccio.
Gli venne automatico pensare al modo in cui il pirata aveva tentato di afferrarlo, costringerlo a baciarlo e fare molto peggio insieme a lui, e quasi lo rimpianse. Il tocco che stava usando Kidd non era quello di un bastardo in cerca di contatto umano, ma quello di una leone pronto a sbranare e lacerare ogni singolo lembo della sua pelle, se necessario a farlo rimanere.

“Tu…” il ringhio del capitano vibrò fin dentro le sue ossa, facendolo tremare, per un attimo e forse un paio di secondi in più. “Resti dove sei.”
Una parte di Arch, quella più umana e spaventata, quella che gli stava facendo sudare senza controllo le tempie e gli occhi, lo tirò dalla parte opposta a Kidd, quasi fosse stata un’altra persona avvinghiata al suo altro braccio, gareggiando col pirata in una sorta di tiro alla fune dove lui era la corda che, a giudicare dalla forza con cui Eustass lo strattonò per farlo tornare al suo posto, si sarebbe spezzata molto facilmente.

Eppure lui strattonò nuovamente all’indietro. Paura nei suoi occhi. Kidd poteva vederlo chiaramente. Erano larghi, disperati, come quelli di una cerbiatto sorpreso nel bosco dalla lanterna di un cacciatore.
Notarlo gli fece salire una strana scarica di soddisfazione quasi animalesca. Finalmente. Era ora che la fatina capisse chi comandava.

“Se l’accordo salta…”

Arch deglutì, un nodo gli stava stringendo la gola. Sapeva bene dove voleva andare a parare.
Il suo braccio cercò di ritirarsi ancora una volta ed ancora una volta Eustass rispose in maniera brutale, bloccandogli definitivamente la circolazione dell’arto.
Solo in quel frangente Arch si permise di lasciarsi scappare un sottile singhiozzo di dolore.

“Nulla mi impedirà di prenderti e sbatterti in cambusa.”

Tutti sapevano cosa intendesse Kidd con ‘sbattere’. Arch era stato saggio a stabilire come una delle condizioni dell’accordo la totale immunità propria e degli altri due, ma adesso… si trovavano entrambi in una situazione di stallo.
Non poteva rompere l’accordo senza dare a Kidd un motivo per riprendere dove avevano interrotto settimane fa, quando per la prima volta aveva fatto visita ai personalissimi alloggi del capitano, ma al tempo stesso… non rompere l’accordo avrebbe significato levare gli ormeggi e lasciare indietro Viola.

Arch strinse gli occhi al solo pensiero, il suo stomaco in subbuglio alla nauseante prospettiva, e le sue labbra tremanti strette nella morsa dei propri denti.

“Ma cos’avete voi umani che non va?”
La voce di Arch era parsa un singhiozzo, quasi il preludio di un pianto, una cosa che nessuno si sarebbe mai aspettato.
Kidd osservò a mascella lenta gli occhi del ragazzo farsi lucidi.
Stava… piangendo?
La presa sull’altro gli si allentò per lo shock, permettendo ad Angelo Infido di recuperare il proprio braccio con uno strattone, ma solo per essere riacchiappato pochi istanti dopo per il polso.
La visione era… angosciante a dir poco. Nel breve lasso di tempo in cui Arch era riuscito a liberarsi dalla stretta di Kidd, le braccia del ragazzo erano andate automaticamente al proprio viso, asciugando in velocità quella che era parsa a tutti come… un lacrima.
“Che diavolo ti prende ades-..?”
“SONO STANCO DI PERDERE LA MIA FAMIGLIA A CAUSA DI VOI UMANI!”

Il silenzio che piombò rese possibile udire il garrito spaventato di un gabbiano proprio sopra di loro.

Morgan premette di più le mani sulla propria bocca, grosse e pesanti lacrime gocciolanti dalle proprie ciglia.Non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Era tutto troppo veloce, ma sentiva che qualcosa nel signor Arch si stava sgretolando. Il suo autocontrollo e …

Kidd non disse nulla, non una reazione, non un verso, non un cenno di cambiare espressione. Era troppo preso dall’assurdità della situazione per collegare i propri pensieri al cervello. Era questo che stava succedendo? Stava costringendo un ragazzino solo e spaventato… l’ultima persona che sapesse essere ancora in vita della propria famiglia? Di colpo l’equivalete di un pugno lo colpì alla bocca dello stomaco. Era la prima volata che si sentiva… uno stronzo. Non era una cosa a cui era abituato.
D’altra parte… continuava a non capire. Perché il biondino non faceva altro che ripetere ‘voi umani’? Voi umani. Voi umani. Voi umani. Quelle parole continuavano a rimbombargli nel cranio, alimentando la propria irritazione.
Cosa cazzo c’era che non andava in lui??

[Io non sono un uomo.]

Di colpo entrambe le mani di Kidd scattarono e Arch si ritrovò nuovamente bloccato dalle sue enormi braccia.
Eustass avvertì le sue spalle dell’altro tremare sotto i propri palmi callosi, tradenti una paura che, per la prima volta, Kidd non si sentiva felice di aver provocato.

Eustass digrignò i denti, sentendosi ancor di più irritato, e con uno strattone costrinse Arch a guardarlo in faccia. Il biondino era rimasto inerme alla propria stretta, senza nemmeno curarsi di alzare le braccia per tentare di liberarsi.
Le iridi cobalto di Arch Angelo Infido rilucevano dietro la patina acquosa delle proprie lacrime.

Dannazione.
DANNAZIONE.


“Rispondi a questa mia domanda, Arch…” disse con respiro affannato, il suo viso sempre più vicino a quello del biondo, fino a far sfiorare i loro nasi.
Nell’istante in cui le punte dei loro nasi collisero, Arch capì: Kidd era arrivato al limite della propria pazienza.
“…e io ti lascerò scendere da questa nave….”

Arch deglutì, i singhiozzi a stento trattenuti di nuovo aggrovigliati sul fondo della sua gola. Non credeva alle proprie orecchie.
Una domanda? Bastava solo quello?

“Domanda …allora.”

“Sei umano?”

Tutti guardarono Eustass come se avesse improvvisamente fatto crescere sulla propria testa un corno circondato da cuoricini ed arcobaleni. Se era umano?! Che razza di domanda era quella? Ovvio che Arch fosse umano!
“Non é che il Capitano é già ubriaco?” qualcuno sussurrò a Killer, il quale scosse la testa in senso di diniego.
Kidd era lucidissimo e, se glielo avessero chiesto, il Massacratore avrebbe detto che condivideva a pieno di dubbi del suo capitano.

Arch smise di respirare, il suo petto scosso da un lungo e percepibile tremito. Kidd lo avvertì, sentendosi male e con la bile a solleticargli il palato.

“…Io…”
Abbassò lo sguardo.
“Io non lo so.”

“Io… non dovevo nascere così.”

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*rotola* Wow.
Madonna quanto tempo. eh? Vi sono mancata? ...oh beh, immagino che molti miei lettori si siano ritirati ormai. Colpa mia. 
Lo ammetto. Sono stata una pessima autrice in questi anni. Ho messo questa fanfiction prima in Hiatus e poi in pausa a tempo indeterminato, non pretendo di avere ancora un seguito dopo tanto tempo, ma... beh. ^^''' Diciamo che non me la sentivo di lasciare un'altra cosa in sospeso.
Di recente ho ritrovato la mia vena scrittoria e penso che nei prossimi mesi riuscirò a terminare questo e altri progetti.
Molte cose sono successe, sono passata in un lungo periodo di depressione e di mancanza di autostima. Posso dire che aver trovato una strada da percorrere adesso: diventare Fumettista a tutto tondo. Non so quanto le mie storie, anche quelle originali, possano attirare l'attenzione di altre persone, ma sto lavorando anche su quello.
*abbraccia il pubblico*
Vi ringrazio per tutto quanto. Quest'anno sarò a Lucca con dei compagni di corso di fumetto. Spero di incontrare qualcuno di voi, anche per puro caso.
<3 Bacioni a tutti e... al prossimo capitolo! ^.-

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