Not A Usual Birthday

di A_Dark_Fenner
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I: Speech and memories ***
Capitolo 2: *** Capitolo II: Necklace and new beginning ***
Capitolo 3: *** Epilogo (Omake): A Pirate Life for me ***



Capitolo 1
*** Capitolo I: Speech and memories ***


Nick Autrice: A_DaRk_FeNnEr
Titolo: Not A Usual Birthday
Fandom: Axis Powers-Hetalia
Genere: Introspettivo, sentimentale, comico.
Protagonisti: America (Alfred F. Jones), Inghilterra (Arthur Kirkland), breve apparizione di altri stati.
Rating: giallo
Pairing: UsUk (AmericaxInghilterra)
Avvertimenti: shonen-ai, long-fic (two-shot+ epilogo/omake)
Note dell'autrice:In fondo alla storia (non voglio fare spoiler XD)
Trama: Quattro luglio 2009. Oggi è il compleanno di America, come tutti sanno. E lui adora il suo compleanno. Ma è davvero soddisfatto delle cose così come stanno? Forse non sarà il solito compleanno.

[Terza classificata al contest "Multifandom: Birthday's contest" indetto da Himechan84 sul forum di EFP]








Not A Usual Birthday



Capitolo I: “Speech and memories”




“Good Morning, America!”

Ridacchiò contro il cuscino. Era tentato di rispondere, come se quel saluto fosse effettivamente rivolto a lui.

“The Independence’s sun is shining up there, so get out of that freakin’ beds!”

Allora, una mano emerse dal caos appallottolato delle lenzuola a stelle e strisce. Invece di spegnere la sveglia con un colpo secco e qualche borbottio, come avrebbe fatto in qualunque altro giorno dell’anno, il proprietario di suddetta mano portò le dita alla rotellina che regolava il volume, alzandolo al massimo.

“HAPPY BIRTHDAY, AMERICA!”

Sorrise e, stavolta, non seppe trattenersi.
“Thank you.” Rispose, prima di spegnere la sveglia.

***

America stringeva tra le mani la gigantesca tazza di caffè esageratamente zuccherato e ne beveva il contenuto, deglutendo rumorosamente. Una vocina nella sua testa, con un accento sospettosamente britannico, gli stava ricordando che “quell’orrenda mistura di caffeina, panna e zucchero che  hai il coraggio di chiamare caffè” non gli avrebbe fatto per niente bene, ma America optò per l’ignorare anzidetta voce, e procedette nella sua occupazione; voleva essere al massimo della sua forma e sicuramente quella bevanda sarebbe servita allo scopo. In più, era dannatamente buona.
Quando vi diresse lo sguardo, il braccio muscoloso di Superman sull’orologio appeso in salotto lo informò che era quasi in ritardo. Normalmente, la sua cognizione di tempo era molto elastica; uno, due, o venti minuti di ritardo non potevano poi essere un grande problema.
Ma il quattro di luglio, all’improvviso, diventava l’uomo più puntuale del mondo: alla festa non poteva mancare il festeggiato, no?
Anche se quell’anno la tradizionale, enorme festa con le altre Nazioni non ci sarebbe stata.
Il suo boss aveva progetti più importanti ed urgenti sui quali puntare.     
Il presidente aveva fatto notare alla Nazione che una festa non avrebbe mandato in bancarotta le finanze dello stato, ma America aveva fermamente insistito.
Non voleva pesare sulla sua gente, non quest’anno.
Poteva ancora scorgere sul suo stesso corpo i segni della recessione: i vestiti gli cadevano troppo larghi sulle spalle e la pelle era innaturalmente pallida per l’anemia. Sapeva sin troppo bene che la sua gente aveva sofferto anche di peggio.
Poteva sentirlo.
Per una volta, allora, aveva messo da parte il suo egocentrismo e le sue onnipresenti manie di protagonismo e aveva rinunciato a qualcosa, per il bene della sua gente.
Dopotutto, pensò ispirato, lui era l’eroe, ed un eroe si vedeva nel momento del sacrificio e della responsabilità.
Di nuovo la vocina di prima borbottò qualcosa che suonava come Bloody hell…Se tu sei diventato una persona responsabile, allora posso capire perché tutti siano so bloody concerned  riguardo una probabile prossima fine del mondo.”.
Per un momento, uno solo, America si chiese perché mai apparentemente la sua coscienza quel giorno avesse adottato la voce, l’accento ed il tic verbale di Inghilterra; poi decise semplicemente di ignorarla, come dopotutto faceva spesso anche con la Nazione proprietaria di quella voce.
Infilò in bocca un’ enorme ciambella grondante di panna ed uscì dalla cucina come un ciclone, seminando pezzi di dolce ovunque.
Corse in camera, avventandosi sul suo armadio a quattro ante, che scricchiolò pericolosamente a causa della forza dell’impatto. Dopo una rapida occhiata al suo interno ed una ancor più rapida decisione, afferrò i vestiti che gli sembravano più adatti e, dopo aver lanciato con assoluta noncuranza il suo pigiama sopra il letto ancora sfatto, li indossò ad una velocità allarmante.
Si lanciò per il corridoio, ed afferrò il suo fidato bomber, prima di precipitarsi fuori dalla sua villa, direzione Casa Bianca.
Mentre correva per le strade di DC, America si guardò intorno eccitato.
Da quasi ogni finestra pendeva la bandiera americana, e l’inconfondibile melodia del suo inno nazionale echeggiava da qualche stereo particolarmente patriottico. La gente attorno a lui aveva le guance dipinte a stelle e strisce, e nell’aria riusciva già a respirare l’inconfondibile profumo dei suoi adorati hamburger, nonostante fosse ancora mattina presto.
Dopotutto, considerò, era sempre un buon momento per un hamburger. Sorrise, e si sentì gonfiare il petto di orgoglio.
La sua gente stava facendo tutto questo per lui.
Beh, loro tecnicamente non sapevano nulla della sua esistenza, ma questo non contava davvero, no?
Finalmente, raggiunse il grande edificio neoclassico sede del suo governo e si lanciò verso South Lawn, l’enorme giardino dove sapeva presto si sarebbero aperti i festeggiamenti. Arrivato ai cancelli sud della Casa Bianca, si avvicinò esaltato alle guardie dell’ingresso.
“Salve! Buon quattro luglio!”
Le guardie lo fissarono impassibili da sotto i loro occhiali scuri.
“Buon quattro luglio anche a lei, Mr. Jones. Prego, entri. Il presidente la aspetta nel suo ufficio.” Rispose una di loro, digitando alcuni numeri su di un display.
Un piccolo cancello laterale si aprì dopo la conferma del codice, ed America si lanciò per uno dei sentieri che salivano verso l’immenso prato presidenziale, salutando le guardie con un gesto della mano.
Corse attraverso tutta la lunghezza della tenuta, passando accanto a barbecue, tavoli da campeggio, campi da gioco e piccoli banchetti di souvenir.
Presto, il prato si sarebbe riempito di famiglie, milleduecento per essere precisi. America sorrise al pensiero di tutta quella gente che si sarebbe riunita per festeggiare il suo compleanno.
Il giorno della Libertà.
Il giorno dell’Indipendenza.
L’enorme sorriso morì un po’ sulle sue labbra quando un pensiero si fece largo nella sua mente, insistente, nonostante i tentativi di ricacciarlo indietro.
Inghilterra.
Non che gli importasse cosa il suo ex-tutore facesse il giorno del suo compleanno; se stesse male come sosteneva o se fosse solo uno dei tanti modi che trovava per lamentarsi di lui; se lo avrebbe chiamato per fargli gli auguri, se pensasse a lui quel particolare giorno dell’anno.
No, assolutamente non gli importava.
Un eroe incredibile come lui non aveva bisogno dell’approvazione di nessuno. …Vero?
Sospirò, ma poi alzò orgoglioso il mento verso l’alto. Era il suo compleanno, e voleva goderselo fino in fondo, nonostante la Recessione, nonostante tutto quello che stava succedendo.
Con o senza Inghilterra.
Tutto ciò di cui aveva bisogno era di concentrarsi su sé stesso.
Una cosa che, tra l’altro, gli riusciva piuttosto bene.
Sì, ne era convinto: poteva passare la giornata tranquillamente senza pensare a quel noioso old man.
La sua convinzione durò circa trenta secondi.
“Chissà perché poi odia così tanto il mio compleanno.” Pensò ingenuamente.
Onestamente, Inghilterra aveva perso una guerra, ed una colonia, ma stava facendo un po’ troppe storie, considerato tutto il tempo che era passato.
“Beh, di sicuro è abbastanza naturale che non sia così incline a voler festeggiare il giorno in cui è stato rimandato nella sua terra a calci in culo dalla sua maledetta colonia preferita, no?”
Ottimo, oltre alla voce e all’accento, la sua coscienza pareva avere adottato anche il linguaggio colorito di Inghilterra.
Ed ovviamente il suo sarcasmo made in England.
Stava per ribattere a quella velenosa affermazione, quando realizzò di essere arrivato di fronte all’imponente entrata sud della Casa Bianca.
Alright, America. Ora smettila di fare il bambino. Sorridi, è il tuo compleanno! Fai vedere a tutti come un vero eroe festeggia la sua nascita!” Pensò deciso.
Scrollò un po’ la testa, come se in questo modo potesse farne uscire la miniatura di Inghilterra che, ormai ne era sicuro, aveva preso in ostaggio la sua coscienza.
Probabilmente era un esperimento alieno, avrebbe dovuto chiedere chiarimenti a Tony, più tardi.
A grandi passi, salì la scalinata d’ingresso, ed entrò nell’edificio.
Percorse i corridoi che conosceva a memoria (aveva aiutato a costruirli, ai tempi) e si ritrovò di fronte alla Sala Ovale.
Di nuovo, alcune guardie lo riconobbero, gli augurarono un buon quattro luglio ed aprirono la porta per lui.
Entrato nella grande stanza, vide che il suo boss era già seduto davanti alla telecamera, la schiena rivolta alla grande bandiera americana del suo studio.
Incrociò il suo sguardo, mentre alcuni tecnici sistemavano il microfono davanti a lui. Il boss sorrise cordialmente ad America, e sillabò le parole “Happy birthday”, mentre gli faceva cenno di sedersi accanto alla sua scrivania, fuori dal raggio visivo della telecamera.
America sorrise in risposta e si sedette. Il presidente era uno dei pochi a conoscenza della sua effettiva natura di Nazione ed era felice di aver ricevuto i primi auguri di tutta la giornata effettivamente rivolti a lui, ad Alfred F. Jones.
“In onda tra tre minuti, signore.” Informò uno dei tecnici.
America gli mostrò I pollici alzati e sorrise incoraggiante.
Era il suo primo discorso per il Giorno dell’Indipendenza, dopotutto.
Ridacchiò divertito. Era quasi strano pensare di essere più vecchio di quell’uomo che dimostrava almeno vent’anni in più di lui.
“E non solo fisicamente.” Commentò la Iggyscienza.
Sì, aveva dato un nome alla sua coscienza.
Un nome molto calzante, a suo parere.
“Devi per forza essere così irritante?” chiese infastidito.
“Sono un prodotto della tua immaginazione, che ti aspettavi?”
Insomma, da un certo punto di vista si stava rimproverando da solo.
Con la voce di Inghilterra.
“Great.”
O forse era una di quelle maledizioni che Inghilterra proclamava di saper eseguire.
Sì, una maledizione per farlo stare male il giorno del suo compleanno, ecco cos’era.
“Bloody idiot…”
America aveva aperto la bocca per rispondere, quando sentì le telecamere accendersi e qualcuno urlare:
“Three, two, one…You’re on air, sir!”
Allora chiuse la bocca, e si concentrò sulle parole del suo boss.

“Hello and Happy Fourth of July, everybody.”

“Salve, e buon quattro luglio a tutti!”


America sorrise al saluto informale del suo boss. Amava il modo in cui parlava alla gente, alla sua gente. In modo così rilassato e cordiale.

“This weekend is a time to get together with family and friends, kick back, and enjoy a little time off. And I hope that’s exactly what all of you do. But I also want to take a moment today to reflect on what I believe is the meaning of this distinctly American holiday.”

“Questo weekend è un momento per stare insieme alla famiglia ed agli amici, lasciarsi andare e godersi un pò di tempo libero. E spero sia esattamente quello che tutti voi fate. Ma voglio prendere un momento oggi per riflettere su quello che io credo sia il significato di questa particolare festa americana.”


Passare del tempo con la propria famiglia..
America ne aveva una?
Aveva Canada, il suo gemello. Certo, America aveva la tendenza di dimenticarsi facilmente della sua esistenza, tendenza che, tra l’altro, sembravano avere anche tutte le altre Nazioni; ma ciò non toglieva che volesse bene al suo fratellino del nord.
E poi c’era… C’era stato
No, non era sicuro di avere qualcun altro.
Non più almeno.

“Today, we are called to remember not only the day our country was born – we are also called to remember the indomitable spirit of the first American citizens who made that day possible.”

“Oggi siamo chiamati a ricordare non solo il giorno in cui la nostra nazione è nata- siamo anche chiamati a ricordare l'indomabile spirito dei primi cittadini americani che hanno reso questo giorno possibile.”


Allora, dopo quelle parole, il petto di America di gonfiò di orgoglio, come quando stava camminando per le strade di Washington poco tempo prima.
Già, il suo compleanno era anche questo.
Era celebrare se stesso per ciò che era, per il suo sangue libero, per la sua anima ribelle e coraggiosa.
Era ricordare a se stesso di essere forte, il più forte, o per lo meno di esserlo stato; per non cadere a pezzi e per non lasciare che tutto ciò che stava accadendo lo trascinasse giù, spezzando i suoi grandi, enormi sogni e le sue speranze.
Non poteva permettere che accadesse: per sé e per la sua gente.
I suoi indomiti cittadini americani.
Essere una Nazione era difficile.
Doveva fare i conti con il fatto di essere praticamente immortale, di dover veder cambiare il mondo, il suo mondo, e di dover accettare questo cambiamento, anche se faceva male.
Qualunque cosa facesse, creava la storia.
Nel vero senso della parola.

“We are called to remember how unlikely it was that our American experiment would succeed at all; that a small band of patriots would declare independence from a powerful empire; and that they would form, in the new world, what the old world had never known – a government of, by, and for the people.”

“Siamo chiamati a ricordare come fosse poco possibile che il nostro “esperimento americano” avesse successo; che un  piccolo gruppo di patrioti dichiaravano indipendenza da un impero potente; e che avrebbero formato, nel nuovo mondo, quello che il vecchio mondo non aveva mai conosciuto- un governo di, da e per il popolo.”


Quel giorno, ormai, risultava abbastanza chiaro come fosse totalmente senza senso tentare di non pensare ad Inghilterra.
Quell’ “Impero Potente” di cui parlava il suo boss, quello che tassava il the sino a farlo costare più del sale e che gli impediva di commerciare con Francia e con gli altri Europei.
Quello stesso impero che gli leggeva le favole prima di andare a dormire, che lo faceva rimanere nel suo letto durante i temporali e che gli cantava ninne nanne in Gaelico per farlo addormentare.
Ricordava come la sua rivoluzione era iniziata.
Quando a Boston aveva versato il the di Inghilterra nell’acqua pallida del porto, rendendola torbida; il the che aveva dovuto comprare ancora da Cina.
Eppure Inghilterra sapeva che lui preferiva il caffè.
Ricordava anche come dopo si erano ritrovati a combattere per anni, nel fango e nelle lacrime.
Ricordava come Inghilterra gli avesse puntato contro il fucile e come si fosse poi lasciato cadere, senza sparare.
Allora lo aveva guardato, aveva guardato l’impero dall’alto in basso.
Per la prima volta da quando lo conosceva, non era più “Big Brother England” o “Big Brother Arthur”.
Era solo Arthur Kirkland. E lui era solo Alfred F. Jones.
Quel giorno era nato. Era nato come “United States of America”, e non aveva la minima idea di come sarebbe andata a finire.
Ma ce l’aveva fatta.
Ed era felice, era orgoglioso, era stupito.
Era felice di poter festeggiare il suo compleanno come Nazione vera e propria, era orgoglioso della sua gente e della sua forza, ed era stupito di essere riuscito ad arrivare dov’era arrivato.
Pero’, in tutto questo, mancava qualcosa.
E quel qualcosa, era più un qualcuno. Qualcuno con dei capelli biondi perennemente in disordine, delle sopracciglia fuori dal comune ed un accento dannatamente sexy.
Sì, mancava lui.
E, in un certo senso, mancava ancora.
Anche se non si sarebbe mai potuto pentire della sua scelta.
Mai.
Era talmente immerso nelle sue riflessioni, che non ascoltò gran parte del restante testo del discorso. Riuscì ad afferrare qualcosa riguardo lo spirito di iniziativa che li aveva tratti in salvo dal tracollo economico degli anni trenta, le energie rinnovabili (probabilmente un suggerimento di Germania e Giappone) e l’assicurazione sanitaria.
La sua attenzione venne nuovamente attratta dal discorso quando il suo boss giunse alla fine.

“We are not a people who fear the future. We are a people who make it. And on this July 4th, we need to summon that spirit once more. We need to summon the same spirit that inhabited Independence Hall two hundred and thirty-three years ago today.”

“Non siamo persone spaventate dal futuro. Noi siamo persone che lo fanno. E in questo quattro di luglio, abbiamo bisogno di convocare ancora una volta quello spirito. Abbiamo bisogno di convocare lo stesso spirito che abitò l’Indipendence Hall duecento trentatré anni fa.”

 
Quando la sua mente registrò le parole, gli occhi di America si dilatarono, e la bocca si aprì, formando una piccola ‘o’ di stupore.

“That is how this generation of Americans will make its mark on history. That is how we will make the most of this extraordinary moment. And that is how we will write the next chapter in the great American story. Thank you, and Happy Fourth of July.”

“Questo è il modo in cui questa generazione di americani lascerà il suo segno nella storia. Questo è il modo in cui trarremo il massimo di questo momento straordinario. E questo è il modo in cui scriveremo il prossimo capitolo nella grande storia americana. Grazie, e Felice Quattro Luglio.”


Il discorso finì, e le telecamere si spensero.
Scrivere il nuovo capitolo…Della storia Americana?
Lentamente, la sua bocca si chiuse, e la ‘o’, divenne un sorriso sicuro.
Sapeva cosa doveva fare.
“Alfred!” lo chiamò sorridendo il Presidente.
“Scusi, devo fare una cosa importante! Ne va della salute del paese…” si fermò un attimo, riflettendo sulle sue parole “… Che poi sarei io, ma non sottilizziamo! A dopo, boss!” e detto questo, sfrecciò via, salutando il boss con una mano.
Il presidente ridacchiò tra sé e sé, si sedette dietro la sua scrivania e guardò fuori dalle grandi finestre che davano sul giardino.
Sorrise.
Doveva pensare come fare degli auguri originali all’altra sua piccola America.




Fine Capitolo uno




NOTE DELL’AUTRICE:

Okay, eccomi qui a pubblicare la mia prima fic su Hetalia! Onestamente, sono stata molto sorpresa del risultato che ho ottenuto al contest (che per inciso richiedeva di scrivere riguardo al compleanno di un personaggio a scelta), e spero che anche voi lettori apprezzerete la mia fic come ha fatto la giudice!^^
Che dire su questo capitolo? Ebbene sì, sono una fan di Obama e volevo includerlo nella fic, quindi quale modo migliore se non quello di utilizzare il suo discorso alla nazione il quattro luglio? E poi, calzava a pennello con quello che avevo intenzione di scrivere.
Ve lo giuro, mentre scrivevo mi sentivo veramente una indomita cittadina americana. Sì, sono patriotta di paesi che non sono il mio, ma penso sia abbastanza comune quando si segue Hetalia, no?

Detto ciò, ecco le referenze storiche/culturali/varie ed eventuali in questo primo capitolo:
·    Links alla descrizione dei festeggiamenti del quattro luglio: http://www.whitehouse.gov/video/4th-of-July-at-the-White-Househttp://america24.it/content/festa-alla-casa-bianca-barbecue-1200-famiglie-di-soldati
·    Link al discorso integrale di Obama 
·    Tony è l’amico alieno di America, per chi non lo sapesse.
·    Quando America parla di quando gettò il the di Inghilterra in mare si riferisce al Boston Tea Party, quando i coloni americani versarono per protesta il the inglese nell’acqua del porto di Boston, travestiti da nativi americani.
·    Quando Obama parla della sua piccola America, si riferisce ad una delle figlie, nata anche lei il quattro luglio.

Mi sembra di aver scritto tutto. Se vi resta qualche perplessità fatemelo semplicemente sapere nelle recensioni.
* Recensite =D *
Kissu^^

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Capitolo 2
*** Capitolo II: Necklace and new beginning ***


Capitolo II: “ Necklace and new beginning”

Estrasse il cellulare dalla tasca sinistra dei jeans.
Era ancora spento: misura di sicurezza adottata da quando la sua suoneria, ad un volume assurdo, aveva interrotto un discorso del suo boss.
In mondovisione.
Ed Inghilterra lo aveva rimproverato fino a limite del sopportabile.
Lo riaccese, dicevamo, e nel momento stesso in cui lo fece, ricevette una miriade di notifiche di nuovi messaggi vocali.
Sospirando, digitò il numero della segreteria e si mise in ascolto, mentre continuava a camminare attraverso il parco presidenziale.
Premette un tasto che gli avrebbe fatto ascoltare tutti i messaggi in successione continua.

Bonjour, mon cher Amerique ! Joyeux anniversaire! Anche se quest’anno non hai voluto dare una festa ti ho preso comunque un regalo. Pare pero’ che sia illegale nella maggior parte dei tuoi Stati. Quindi sarebbe meglio che lo venissi a ritirare di persona. Ti aspetto.~”
“F-Francis!! Non usare q-quel tono con mio fratello, lo spaventerai! Ah, H-happy Birthday, brother!
Mais oui, mon cher Mathieu! Farò come dici. Ma non devi essere geloso~”
“F-Francis, cosa fai?! Mettimi giù!”


Ohayo, America-kun! O-tanjō bi omedetō! E’ un giorno importante per te e spero lo passerai in modo adeguato. Al prossimo meeting mondiale, ti porterò un piccolo pensiero che ti ho comprato: è un videogioco a sfondo horror ancora non in commercio. Spero gradirai il mio regalo.”
Ve~, Giappone, dammi il telefono un attimo! Auguri America! Io e il mio fratellone ti abbiamo preparato una scultura di pasta! Germania dice che non è un’idea molto intelligente, ma sono sicuro che a te piacerà, vero? Poi la puoi anche mangiare. E la pasta è la cosa più buona del mondo, quindi… “
“Feliciano, chiudi la dannata chiamata, la bolletta costa!”
“Lovino, calmarse! Lascia che tuo fratello faccia gli auguri ad America..”
“Tu sta zitto, Antonio!”
“Sì, sì, fratellone, ora spengo! Ciao America, buon compleanno!”



Ayah! Ciao America, Shēngrì kuàilè, aru! I fuochi d’artificio che ti ho spedito sono arrivati? Sono fantastici, te lo assicuro, aru…”
“Certo, perché si sono originati da me!”
“Corea, ridammi i telefono, COREA!”


“Mister America, su gimtadieniu! Spero passerà una bella giornata!”
“Sì, tipo, Urodzinowe Życzenia! Anche da parte del mio pony.”
“Liet~ Cosa stai facendo?”
“Uh-uh, salve signor Russia… Fa-facevo gli auguri ad America con Polonia…”
“Ah! Дорогой America oggi compie gli anni, hai ragione! Lascia che gli faccia gli auguri anche io!”
“Tipo, Russia, fai in fretta e ridai il telefono a Toris!”
“Da, da…America, С Днем Рождения! Ho una proposta per te, sai, come regalo di compleanno… Diventa uno con Russia!”


America rise nell’ascoltare i messaggi.
Nonostante tutto quello che aveva combinato negli ultimi anni, i suoi “colleghi” non avevano ignorato il suo compleanno.
Certo, Russia faceva paura, e Francia stava molestando il suo gemello (come si chiamava? Ah, sì, Canada!) al telefono, ma erano comunque auguri.
E non si aspettava dei regali, non quell’anno almeno. Dopotutto, la sua crisi economica aveva influenzato anche gli altri stati, e non pensava fossero così inclini a regalargli qualcosa.
A quanto pare, avrebbe dovuto ricredersi.
Continuò ad ascoltare i messaggi. Uno da parte dei Nordici, degli insulti da parte di Cuba, un invito a bere fuori da Prussia…
Non esattamente quello che voleva sentire.
Perché era quasi sicuro di quello che voleva sentire.
D’altra parte, non poteva aspettarsi davvero niente, e lo sapeva bene. Avrebbe dovuto fare lui la prima mossa.
Stava per comporre il numero di Inghilterra sul suo cellulare, quando quest’ultimo lo avvisò con un sonoro “bip” che la batteria era completamente scarica.
“Shit!” imprecò tra sé.
Doveva andare a casa, ed usare il telefono fisso.
Allora, si mise a correre, ed uscì velocemente dalla tenuta. Attraversò il più velocemente possibile le strade ormai gremite di gente venuta ad assistere alla parata che sarebbe iniziata di lì a poco.
Normalmente si sarebbe unito alla folla, avrebbe gridato “God bless America” insieme agli altri, avrebbe chiacchierato con qualcuno dei suoi cittadini usando il suo nome umano; ma non quel giorno.
In effetti, quello che stava vivendo non era di sicuro un compleanno comune.
Corse ancora a perdifiato finché non si trovò di fronte all’entrata della sua villa.
Fece per estrarre le chiavi, ma notò che la porta era semi-aperta.
Si accigliò. Chi poteva essere entrato in casa sua? Un ladro?
Preventivamente, afferrò la mazza da baseball che teneva appoggiata accanto al capanno degli attrezzi ed entrò silenziosamente in casa.
Appena fu entrato, tese le orecchie per captare qualche suono inusuale.
Sentì un ovattato rumore di passi provenire dal piano superiore, ed allora salì furtivamente le scale, volendo mantenere nascosta la sua presenza.
In quel momento, si sentiva Indiana Jones, pronto a bloccare qualche maledetto ladro di tombe.
Più si avvicinava alla sua camera, più il rumore aumentava.
Un ladro di tombe pervertito.
Probabilmente Francia.
Lentamente, molto lentamente, iniziò ad aprire la porta.
E, davanti a lui, trovò qualcosa che davvero non si aspettava.
Non c’era Francia, a rovistare nel suo cassetto della biancheria o a nascondere giornaletti erotici sotto il suo letto come aveva immaginato.
No, c’era Inghilterra.
…Che piegava e riponeva sotto il cuscino il suo pigiama, quello che aveva lanciato sul suo letto quella mattina.
Beh, non che si aspettasse che lui rovistasse nel suo cassetto della biancheria.
Lo stupore lasciò spazio alla curiosità, ed allora aprì completamente la porta, e fece qualche passo all’interno della stanza, proprio mentre Inghilterra aveva iniziato a rifare il letto.
“Non ti disturbare, Inghilterra. Rifare il letto quando sta sera ci dovrò ritornare è abbastanza inutile, non pensi?” chiese quando fu abbastanza vicino.
Inghilterra sobbalzò per la paura, e si voltò lentamente verso la fonte della voce, sperando non fosse chi pensava che fosse.
Le sue paure si materializzarono in due grandi occhi azzurri che lo fissavano curiosi di fronte a sé.
“Bl-Bloody hell, America! Mi hai terrorizzato, maledetto idiota! Co-cosa ci fai qui?”
“Beh, sai…Questa è casa mia. Ci abito.” Rispose America grattandosi la nuca.
“Oh sì, beh…Non dovresti essere a festeggiare?” Cambiò argomento l’altro.
“Beh, ecco io…” Stavo tornando a casa per chiamare te. “Mi ero dimenticato…una cosa a casa e sono tornato a prenderla!” rispose nervosamente America.
“Oh.”
Uno scomodo silenzio cadde tra i due.
America avrebbe voluto chiedergli un milione di cose: cosa faceva in casa sua, in camera sua, quello specifico giorno dell’anno.
In quel momento, notò un piccolo pacchetto appoggiato sopra il cuscino. Era una scatolina avvolta in carta da regalo rossa, bianca e blu, ed un cartellino pendeva dal lato del pacchetto.
“Iggy…Cos’è quello?” chiese alzando gli occhi sulla Nazione di fronte a sé.
“Qu-Quello cosa?” rispose Inghilterra spostandosi di lato, così da coprire con il suo corpo la visuale dell’oggetto ad America.
“E’ un regalo, Iggy? Un regalo per me?” domandò ancora America, la speranza che trapelava dalla sua voce, come quella di un bambino davanti ai regali di Natale.
Not at all! Perché avrei dovuto portarti un regalo oggi?”
America iniziava a pensare che Inghilterra avesse perso la capacità di formulare un’espressione che non fosse una domanda.
Poi, registrato il significato dell’ultima frase pronunciata dall’altro, assunse un’aria interrogativa.
“Perché…E’ il mio compleanno…?”
Inghilterra boccheggiò un momento, per poi chiudere la bocca ed abbassare lo sguardo.
“Beh, tecnicamente oggi non è il tuo compleanno…” borbottò la Nazione.
“Ah no?” rispose l’altro, alzando un sopracciglio.
“Jamestown, ti dice niente?” rispose l’altro, irritato. “E Roanoke Island? Pensavo conoscessi la tua stessa storia…Abbiamo anche festeggiato, un po’ di anni fa.”
America sbuffò.
“Ero solo Alfred, allora. Non ero ancora gli United States of Awesome.” Sorrise “E si, mi ricordo quando abbiamo festeggiato. Per diciotto mesi eri ubriaco una sera sì e l’altra anche. Non molto diverso dal solito, ora che ci penso…”
Awesome non è una parola, you git. Smettila di uccidere la mia bellissima lingua solo per ingigantire il tuo già bloody huge ego.” Ribatté l’altro “E non darmi dell’alcolizzato, maledetto idiota!”
“La nostra lingua, Iggy. Ho il diritto di migliorarla.” Commentò America divertito. Sperava che Inghilterra cogliesse l’ironia e non la prendesse come un’ offesa.
“Solo perché sono stato così gentile da permetterti di usarla, non significa che non me la possa riprendere.” Esclamò Inghilterra, con un piccolo sorriso sottile, stando al gioco.
“Mh, non penso tu possa farlo. Sai, non sono più la tua piccola colonia.” Replicò l’altro senza pensare.
Si pentì subito di ciò che aveva appena detto.
Il sorriso leggero sparì dalle labbra dell’altra Nazione, che spostò lo sguardo verso un punto del muro che in quel momento riteneva particolarmente interessante.
“Sì. Sì, lo so.” Sussurrò.
“I-Iggy, aspetta. Non volevo, io…” iniziò America, titubante.
America, non dire stronzate. Tu volevi eccome.” Lo interruppe l’altro con voce calma.
“Oh no.” pensò America. Avere a che fare con un Inghilterra arrabbiato non era facile, ma lui era preparato. Ma un Inghilterra così silenzioso era molto, molto peggio.
“Inghilterra, Arthur…”
“Non mi chiamare così!” esplose l’altro. “Non mi chiamare con il mio nome. Quello stupidissimo soprannome, “Iggy”, lo posso sopportare, ma quello no!”
America rimase a bocca aperta, non riuscendo a cogliere il senso del discorso dell’altro.
“Cosa?”
Inghilterra lo guardò ostile.
“Non capisci vero? No, ovviamente no… Non puoi capire.”
America iniziava ad irritarsi.
Perché lo trattava come un bambino? Non era più un bambino, non lo voleva essere. A maggior ragione agli occhi dell’altro.
“Se non mi spieghi, come diavolo posso capire?” ribatté America.
Inghilterra ribolliva di rabbia.
“Se sei così bloody oblivious da non capire da solo, non vale la pena discuterne!”
America grugnì frustrato.
“Io non ti capisco! Prima ti trovo in camera mia, nella mia villa… Come diavolo sei entrato, a proposito?” chiese all’improvviso, ma non gli lasciò il tempo di rispondere. “Nevermind, poi stiamo parlando normalmente, io dico una cosa stupida e ti chiedo scusa…Poi tu mi urli addosso che sono un idiota senza nemmeno dirmi il perché!”
“Perché sei un idiota” rispose all’improvviso la Iggyscienza.
“E LA VUOI SMETTERE DI PARLARE NELLA MIA TESTA?” urlò poi ad alta voce.
Inghilterra lo guardò confuso.
“Nella tua testa…?” domandò sorpreso.
“Uhm, sì beh, ecco… Tu, io…” borbottò America, arrossendo e dandosi dell’idiota.
Lo sguardo di Inghilterra si addolcì un po’.
Aveva ragione lui, America era davvero ancora una piccola colonia. Almeno a volte.
Di nuovo, il silenzio cadde tra i due.
Inghilterra chiuse gli occhi un secondo.
Sospirò, poi fece qualcosa che non avrebbe assolutamente voluto fare.
Si voltò verso il letto di America e prese tra le mani il pacchetto che America aveva visto.
“Questo… Questo è per te.” Disse, e mise senza troppo cerimonie il pacchetto tra le mani dell’altro, che lo guardava con gli occhi spalancati.
“America, ti prego, sbatti le sopracciglia. Sembri un maledetto pesce palla così.” commentò Inghilterra imbronciato.
L’altra nazione allora fu trasportata di nuovo nella realtà.
Certo che i loro litigi erano davvero unici nel loro genere, considerò tra sé.
Soppesò il pacchetto tra le mani, accarezzandone la carta ed il fiocco elegante. Prese l’etichetta tra le mani, dove Inghilterra aveva scritto “to America” con la sua inconfondibile grafia. Lo scosse, per tentare di capire cosa ci fosse all’interno, guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’altro.
“Aprilo e basta!” ordinò irritato Inghilterra.
“Lasciami divertire, old man. E’ il mio compleanno, un po’ me lo merito.”
Inghilterra roteò gli occhi e gli fece cenno di muoversi.
America sorrise tra sé: adorava stuzzicare Inghilterra in quel modo, anche se probabilmente non l’avrebbe mai ammesso.
Con i movimenti più dolorosamente lenti (per Inghilterra almeno) dei quali poteva fare uso, scartò il pacchetto, trovandosi tra le mani una piccola scatola di legno, intagliata con una grande aquila reale. La riconobbe immediatamente. L’aveva fatta lui, quando aveva solo cinquant’anni o giù di lì.
Aveva voluto imitare Inghilterra e provare anche lui ad intagliare qualcosa. Si ricordava di essersi tagliato, quel giorno, e di come il suo “fratellone” lo avesse consolato mentre piangeva, di come lo avesse coccolato per tutta la giornata come se fosse la cosa più preziosa del mondo.
Non pensava davvero che Inghilterra l’avesse tenuto.
“Sai, la puoi aprire…” commentò sarcastico Inghilterra, anche se la sua voce era inquinata da una gentilezza inconsueta, come se anche lui fosse tornato indietro nel tempo con la memoria.
America, per una volta, obbedì.
Quando aprì la scatola, ne trasse fuori una collana d’argento, alla quale era agganciato un pendente d’oro. Quel pendente consisteva in un drago rampante, che sapeva essere il simbolo della città di Londra, i cui occhi erano due corniole, le pietre del coraggio e della forza d’animo. Riconobbe subito anche quell’oggetto, e fu colpito da un ricordo ancora incredibilmente vivido.

“Fratellone! Che bella collana hai!”
“Ah, questa? E’ un regalo della regina…”
Gli occhi di America si spalancarono.
“Davvero?”
“Davvero.”
Ad America brillavano gli occhi.
“Wow! E perché te l’ha regalata?”
“Perché è un modo per dirmi che è orgogliosa di me…E’ orgogliosa della sua Nazione.”
America sembrò pensieroso un momento.
“Arthur?”
“Sì?”
“Tu sei orgoglioso di me?”
Inghilterra fu sorpreso dalla domanda, ma sorrise comunque.
“Certo che lo sono! Sei una brava colonia, Alfred.”
America scosse la testa.
“No, no! Volevo dire…Sei orgoglioso di me?”
Inghilterra rimase senza parole per un po’, senza rispondere.
Poi colse il significato dietro le parole del più piccolo.
Sorrise, e scompigliò i capelli della sua colonia preferita.
“Ti risponderò quando sarai più grande. Quando sarò orgoglioso di te, avrai questa collana.”
Ad Alfred si illuminarono gli occhi, ed abbracciò forte il suo fratellone.
“Allora avrò quella collana, così sarai orgoglioso di me, Arthur.”
Inghilterra sorrise, e strinse più forte la sua piccola colonia al petto.

America alzò gli occhi verso Inghilterra.
“Arthur, tu…”
“Te l’ho già detto, non mi chiamare così.” sbottò Inghilterra, interrompendolo.
Arthur.” Continuò America, ignorandolo. “Tu sei…Orgoglioso di me?”
Inghilterra arrossì.
“Non pensavo te ne ricordassi.” Commentò a mezza voce.
L’espressione di America era ancora incerta, ma un sorriso si stava facendo spazio sul suo viso.
“E’ per questo che sei venuto a casa mia, sperando fossi ancora fuori a festeggiare? Per lasciarmi questo regalo?”
Inghilterra annuì, lo sguardo ancora lontano dagli occhi dell’altro.
“E perché non mi hai semplicemente detto che saresti passato, invece di fare tutto di nascosto?” domandò ancora America.
Inghilterra borbottò qualcosa che somigliava ad un “per evitare questo.” Senza guardarlo in viso.
America prese un respiro profondo, e chiuse gli occhi.
Era il momento per dire quello che rimuginava da tutta la mattina.
“Arthur, vorrei che tu mi ascoltassi, ora.” Iniziò America, guardando l’altro.
Inghilterra alzò lo sguardo su di lui, ed annuì, sorpreso dall’improvvisa quanto inusuale serietà nel tono di America.
“Sai perché sono tornato prima a casa oggi?”
L’altro scosse la testa in segno di diniego.
“Beh, perché volevo chiamarti…”
“Chiamarmi?”
“Sì.”
Dopo un attimo di silenzio America prese un grande respiro e continuò.
Era un eroe, ce la poteva fare.
Anche se in quel momento si sentiva tutto tranne che un eroe.
“Volevo dirti che nonostante tu sia vecchio, brontolone, pignolo, vecchio stile, noioso…”
Inghilterra sbuffò.
“America, non farmi pentire di averti lasciato parlare…”
“…Mi manchi.”
Ad Inghilterra si mozzò il respiro.
“What?”
“Mi manchi. I miss you.
“Questo l’avevo capito ma… Ti manco? Non mi sembra che non ci vediamo proprio mai…Ci sono i meeting, le riunioni…”
America scosse la testa.
“Ma oggi, il quattro di luglio, tu non ci sei mai. Il giorno del mio compleanno, Arthur.”
Inghilterra prese un grande respiro.
“America, tu sai cos’è per me oggi…” disse piano.
“Sì, Inghilterra! I know damn well! E tu, tu sai cos’è oggi per me?” replicò America, lasciando l’altro a bocca spalancata, incapace di rispondere.             
“Duecento trentatré anni! Così tanto tempo ed ancora tu non hai capito che per me oggi non è solo il giorno in cui me ne sono andato da te, è il giorno in cui sono nato! Il giorno in cui io pensavo mi avresti dato questa dannata collana! Invece sei sparito per anni, fino a quando i nostri boss non hanno deciso che era ora di fare qualcosa e hanno iniziato a riavvicinarsi. Ma durante le riunioni eri sempre così dannatamente distante. E sparivi di nuovo ogni quattro di luglio.”

Allora Inghilterra recuperò la sua capacità di parola, che pensava di aver perso completamente.
“Cosa volevi che facessi? Che fingessi che non fosse cambiato niente? Avevo perso una colonia, avevo perso il mio onore!” fece una pausa. “ Avevo perso te. Hai idea di quanto mi facesse male? Di quanto mi fa male?”
America si fece sfuggire un risolino.
“Che c’è di così divertente?”
“Nulla, pensavo al mio compleanno dell’anno scorso, quando sei scappato via…”
“Quando ho lasciato velocemente il luogo.” Lo corresse Inghilterra.
America rise in risposta.
“Siamo davvero patetici…” commentò Inghilterra.
“Già…” rispose America ridacchiando ancora.
Di nuovo, il silenzio cadde tra loro, ma non durò a lungo.
“Come here.” Soffiò Inghilterra.
“Eh?” rispose pateticamente America arrossendo.
Perché quel tono, all’improvviso?
“Vieni qui, idiota… Ti metto la collana…” borbottò Inghilterra.
America allora si avvicinò, ed allungò il gioiello ad Inghilterra.
Si guardarono un momento, poi Inghilterra sbuffò.
“Siediti.” Ordinò.
“Perché?” America lo fissò confuso.
Inghilterra borbottò qualcosa troppo silenziosamente perché America lo sentisse.
“Scusa?” chiese America.
“Seitroppoalto.” Confessò Inghilterra tutto d’un fiato.
America sorrise, orgoglioso di sé stesso, e si sedette sul letto, sprizzando fierezza da tutti i pori.
“Questo momento è appena andato a finire dritto nel tuo ego, vero?” sospirò Inghilterra.
“Yep.”
Inghilterra roteò gli occhi, e si era già posizionato dietro America per chiudergli la collana attorno al collo, quando lui lo fermò.
“Ehy, aspetta, non è che l’hai maledetta o qualcosa di simile, vero?” chiese America preoccupato.
“No, ma sto iniziando a pensarci. Ed ora stay still!” sbottò Inghilterra.
America rise, ma obbedì.
Inghilterra, allora, fece passare le braccia attorno al collo di America, facendo cadere la collana sopra il suo petto.
America trattenne il respiro inconsciamente, e si lasciò andare alla meravigliosa sensazione  delle braccia del suo ex-tutore attorno alle sue spalle. Inghilterra, da parte sua, indugiò un secondo in quella posizione.
“Ha sempre avuto le spalle così larghe?” si chiese, prima di stringere leggermente la collana attorno al suo collo, e di chiuderla.
America allora prese tra le dita il pendente, e ne saggiò la superficie con la punta dell’indice.
“Ti piace?” chiese Inghilterra, notando il movimento di America.
“Beh, sai, Francia mi ha regalato una statua un po’ di tempo fa…” rispose con un sorrisetto malizioso.
Inghilterra sbuffò.
“Oh, quindi stai paragonando il mio regalo a quello di quel blasted frog?” chiese Inghilterra fingendo offesa.
America rise. Poi un’idea si fece largo nella sua mente.
“Forse. Ma, se vuoi, c’è un modo per dimostrare che il tuo regalo è il migliore.”
“Cioè?”
America, allora, si girò lentamente verso l’altro.
“Potresti aiutarmi a scrivere un nuovo capitolo della storia Americana. Anzi, della storia di Alfred F. Jones.” Disse piano, avvicinandosi.
“Un eroe che mi chiede aiuto? Sono lusingato da tale proposta.” Commentò sarcastico l’altro.
“Arthur, così rovini l’atmosfera…” replicò America, ormai a pochi centimetri dal suo viso.
In quel momento, il pirata che c’era in Inghilterra decise di uscire, e di dire la sua.
“Non me ne frega un cazzo della stupida atmosfera. Just kiss me already, you wanker!
E chiuse la distanza tra loro.
Certo, non era esattamente come America l’aveva immaginato, ma non se la sentiva di lamentarsi.
Si lasciò trascinare da quelle labbra con secoli in più di esperienza, facendosi stendere sul suo letto ancora sfatto, e rispondendo al bacio con tutta la forza che aveva.
Non che aspettasse questo momento da secoli, naturalmente.
Si era solo lasciato trasportare dal momento, ecco tutto.
“Avanti, ammettilo, che ti costa?” commentò la Iggyscienza.
Ma America era troppo occupato ad essere incredibilmente felice per rispondere alla stupida vocina.
Perché avrebbe dovuto, quando l’originale era molto, molto meglio?
America aveva portato le braccia attorno al collo dell’altro, ancora schiacciato contro le coperte. E lo stringeva come se ne andasse della sua stessa vita.
Ad un tratto, senza preavviso, Inghilterra si staccò dalle sue labbra, le guance deliziosamente arrossate e l’espressione da pirata che ancora aleggiava sui suoi tratti.
“Alfred…”
America sentì un brivido corrergli giù per la spina dorsale nel sentire il suo nome pronunciato dopo tutti quegli anni.
Ed in quel modo dannatamente sexy.
“Mh?”
“Happy Birthday, you git…” sussurrò Inghilterra, ripiombando sulle sue labbra.
America sorrise nel bacio.
Era il quattro luglio, il giorno del suo compleanno, il giorno in cui era nato come Nazione.
Era il giorno nel quale aveva abbandonato la protezione (o tirannia?) dell’Impero Britannico, per camminare da solo e per rivolgersi verso un futuro incerto, ma pur sempre un futuro.
Ancora oggi non era certo di come quel futuro avrebbe deciso di manifestarsi, aveva ancora tante, troppe, faccende in sospeso.
Eppure, in quel momento, stretto ad Inghilterra e con il suo orgoglio appeso al collo, si sentiva pronto ad affrontare qualunque cosa.
Anche la perversione di Francia e il rubinetto di Russia, se necessario.
Era un eroe, e non si sarebbe tirato indietro.
Quello, ne era certo, sarebbe stato un nuovo inizio.



Fine secondo capitolo




NOTE DELL’AUTRICE:
Ebbene sì, ho postato anche il secondo capitolo! Ma non è finita, state pronti per l'epilogo/omake che ho in sebro per voi!^^ Grazie alla giudicia che ha postato il giudizio tra le recensioni, chi ha messo la fic tra i preferiti, chi tra le seguite e chi tra le ricordate (ma questo sistema confonde solo me? @_@)
Allora, tanto per mettere in chiaro una cosa, nella mia testa Inghilterra non è un povero uke indifeso (non ce lo vedo proprio) ed America non è sempre un seme (secondo me è anche molto insicuro) come spesso vengono dipinti del fandom. Secondo me, i loro caratteri sono troppo sfaccettati per avere una definizione ed un “ruolo” precisi nella loro relazione, infatti mi piacciono proprio per questo.
Così come America non è sempre un idiota ed Inghilterra non è sempre imbronciato. Lo sono solo per la maggior parte del tempo.
E poi ho davvero una fissa per Pirate!England, quindi…
Detto ciò, ecco le referenze storiche/culturali/varie ed eventuali di questo capitolo:
·    Tutte le parole straniere che vengono usate nei messaggi telefonici degli altri stati significano “buon compleanno” o “auguri”, tranne la prima parola di Russia, che significa “caro”.
·    Tutte le traduzioni in questa storia, ad eccezione dell’ inglese, francese e giapponese, sono state prese da google translator, quindi sentievi liberi di correggermi.
·    Quando America si riferisce a Francia come “ladro di tombe”, lo fa riferendosi alla campagna archeologica francese in Egitto del periodo napoleonico.
·    Quando Inghilterra parla del fatto che tecnicamente la nascita di America non sia il quattro luglio, si riferisce alla prima colonia inglese (Jamestown) e alla “colonia perduta” (Roanoke Island), fondate nel 1607 la prima e qualche anno prima la seconda.
·    Quando America parla del riavvicinamento dei loro boss, si riferisce alle due decadi precedenti la WW1, durante i quali si attuò il cosiddetto “Great Rapprochement”, cioè il grande riavvicinamento di obbiettivi politici, sociali e culturali tra Regno Unito e America.
·    Quando America parla del regalo di Francia, intende naturalmente la statua della Libertà.
Bene, mi sembra ci sia tutto!
Per favore, fatemi sapere cosa pensate della mia fic!
Kissu,

A_DaRk_FeNnEr

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Capitolo 3
*** Epilogo (Omake): A Pirate Life for me ***


Epilogo (Omake): A Pirate Life for me


“Sei sicuro che possiamo stare qui?” chiese Inghilterra, indicando con un largo gesto della mano il tetto della Casa Bianca.
“Iggy, rilassati e goditi i fuochi, alright? Non ti ho portato quassù per sentirti lamentare.”
“E’ tutto il pomeriggio che mi trascini in giro per la tua dannata auto-celebrazione, che mi fai mangiare quelle orrende bombe caloriche che hai il coraggio di chiamare dolci e che mi fai indossare questa ridicola maglietta, penso di avere tutti i diritti di lamentarmi!” sibilò Inghilterra, tirando i lembi della sua maglietta supersize, dove la scritta “America, the land of the free and the home of the brave!” capeggiava al centro di una bandiera a stelle e strisce.
“Ammetterai che la parata era molto suggestiva, my dear, con quei costumi così realistici, non trovi?” commentò America, adottando un finto accento britannico, cosa che fece alterare ancora di più il suo compagno.
Inghilterra alzò un sopracciglio.
“Dovevo ridere? Perché sei davvero penoso come imitatore. E come comico.” Commentò sarcastico.
“Smettila di distruggere i miei sogni!” Rispose America mettendo su lo stesso muso che aveva da piccolo quando il suo “fratellone” non lo lasciava giocare con la fionda accanto ai suoi preziosi vasi Ming.
Per tutta risposta Inghilterra sbuffò, e lasciò scivolare la sua testa sulla spalla di America, avvicinandosi di più a lui.
“Ho freddo.” Dichiarò preventivamente Inghilterra.
“Già, bella scusa da usare il quattro di luglio.” Commentò America, portando un braccio attorno alla vita dell’altro.
Inghilterra si irrigidì un attimo, e prese un lungo respiro, prima di parlare.
“Senti, Amer- Alfred… Eri serio prima?”
“Io sono sempre serio.” Rispose America con un sorriso “Ogni eroe deve esserlo.”
Inghilterra roteò gli occhi.
“Alfred…”
“Okay, okay, ho capito. Un vecchietto come te ha bisogno di certezze, no?”
Detto questo, guardò verso il cielo che ormai stava perdendo le delicate sfumature del tramonto per colorarsi del blu notturno.
“Sai perché sono tornato a casa prima, oggi?”
Inghilterra fece segno di no con la testa.
“Beh, stavo per chiamarti. Avevo ascoltato il discorso del mio boss, ed ogni parola che diceva, mi faceva venir voglia di passare il mio compleanno con te, di poter mettere da parte tutto il resto e festeggiare il giorno in cui siamo diventati Nazioni alla pari. Non il giorno in cui ci siamo separati.”
Inghilterra lo guardò con gli occhi sgranati, per poi sprofondare ancora il viso nella sua spalla, borbottando un “Idiota, è la stessa cosa…”, mentre il suo viso era rigato da un leggero liquido salato, che avrebbe negato fosse uscito dai suoi occhi.
“Quindi, per rispondere alla tua domanda, sì, ero serio. E non vedo il motivo per cui avresti dovuto dubitarne.”
Inghilterra alzò gli occhi leggermente arrossati verso il viso della sua ex-colonia.
“Sai, quando si è abituati a discorsi su enormi robot per proteggere la Terra dal riscaldamento globale, si tende a diventare un po’ scettici.” Proferì Inghilterra.
“…Disse quello che vede le fate, gli gnomi e gli elfi!”
“…E gli unicorni, per tua informazione. E sono veri, checché tu ne dica.”
America stava per rispondere, quando un lampo di rosso, blu e bianco esplose nel cielo, illuminando a giorno il giardino presidenziale e le teste degli spettatori giubilanti. Quando un altro fuoco salì verso il cielo, America non poté fare a meno di commentare:
“Wow, Cina ha fatto le cose in grande quest’anno…”
Inghilterra annuì, ancora appoggiato al fianco di America, lo sguardo incatenato al cielo notturno.
Allora America guardò quelle iridi smeraldo illuminate dai lampi colorati sopra di loro, e si disse che davvero il suo compleanno non sarebbe potuto andare meglio di così.
“Iggy?”
“Non puoi proprio fare a meno di usare quello stupido nomignolo? Adesso puoi chiamarmi Arthur…”
Nope! Stavo dicendo…Hai programmi per la prossima settimana?”
“…No…?” rispose Inghilterra titubante.
“Ti va di fermarti un po’… Sai, per accrescere la nostra conoscenza reciproca nei termini della Special Relationship…” di nuovo assunse quell’assurdo accento Inglese.
Nel sorrisetto di Inghilterra, America poteva vedere di nuovo Capitan Kirkland, com’era accaduto alcune ore prima in camera sua.
A quanto pareva quel lato di Inghilterra emergeva spesso in quelle circostanze. Beh, di certo non sarebbe stato lui a lamentarsi…
Inghilterra si avvicinò al suo orecchio, e vi soffiò dentro la sua risposta.
Sounds good. Ma non venire a lamentarti se poi al prossimo meeting non riuscirai a sederti come si deve… ”
Un brivido percorse la spina dorsale di America a quelle parole e al soffio delicato del respiro di Inghilterra.
“Dici? Io pensavo piuttosto che sarebbe successo il contrario…” rispose con un sorrisetto.
“Vedremo, Alfred, vedremo…” commentò Inghilterra, riprendendo la sua comoda posizione sulla spalla di America.
Quest’ultimo sorrise, continuando a guardare i fuochi mentre scoppiavano sopra di lui.
Questo era davvero il compleanno migliore della sua vita.

end


NOTE DELL’AUTRICE:
Ebbene sì, è finita!
Che dire, grazie a tutti quelli che hanno messo la mia fic tra i preferiti (artemis89, ChibiElen-Chan ,EsoChan ,Misa N, TrueMarty, wear81), quelli che l'hanno messa tra le seguite ( clod88, Dark Soul, giaggia, hay_chan, killuy93 , noriko, retsu89 , ValeKikyo) e chi tra le ricordate (Himechan e Lolopanny)
E di nuovo grazie alla mitica giudicia per il fantastico giudizio (frase mooolto ridondante, scusate, la stanchezza!).
Riguardo l'epilogo, nel caso qualcuno non lo sapesse (anche se dubito),
la Special Relationship è come viene definito il rapporto tra l'America ed l'Inghilterra.
Ciao a tutti, e state all'erta: l'ispirazione in questi giorni è tanta, potrei tornare molto presto con una nuova fic!^^
Kissu,

A_Dark_Fenner

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