Not A Usual Birthday di A_Dark_Fenner (/viewuser.php?uid=59852)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I: Speech and memories ***
Capitolo 2: *** Capitolo II: Necklace and new beginning ***
Capitolo 3: *** Epilogo (Omake): A Pirate Life for me ***
Capitolo 1 *** Capitolo I: Speech and memories ***
Nick Autrice:
A_DaRk_FeNnEr
Titolo: Not
A Usual Birthday
Fandom:
Axis Powers-Hetalia
Genere: Introspettivo,
sentimentale, comico.
Protagonisti:
America (Alfred F. Jones), Inghilterra (Arthur Kirkland), breve
apparizione di altri stati.
Rating:
giallo
Pairing:
UsUk (AmericaxInghilterra)
Avvertimenti:
shonen-ai, long-fic (two-shot+ epilogo/omake)
Note dell'autrice:In
fondo alla storia (non voglio fare spoiler XD)
Trama:
Quattro luglio 2009. Oggi è il compleanno di America, come
tutti sanno. E lui adora il suo compleanno. Ma è davvero
soddisfatto delle cose così come stanno? Forse non
sarà il solito
compleanno.
[Terza
classificata al contest "Multifandom: Birthday's contest" indetto da
Himechan84 sul forum di EFP]
Not A Usual Birthday
Capitolo I:
“Speech and memories”
“Good
Morning, America!”
Ridacchiò
contro il cuscino. Era tentato di rispondere, come se quel saluto fosse
effettivamente rivolto a lui.
“The
Independence’s sun is shining up there, so get out of that
freakin’ beds!”
Allora, una mano
emerse dal caos appallottolato delle lenzuola a stelle e strisce.
Invece di spegnere la sveglia con un colpo secco e qualche borbottio,
come avrebbe fatto in qualunque altro giorno dell’anno, il
proprietario di suddetta mano portò le dita alla rotellina
che regolava il volume, alzandolo al massimo.
“HAPPY
BIRTHDAY, AMERICA!”
Sorrise e, stavolta,
non seppe trattenersi.
“Thank you.”
Rispose, prima di spegnere la sveglia.
***
America stringeva tra
le mani la gigantesca tazza di caffè esageratamente
zuccherato e ne beveva il contenuto, deglutendo rumorosamente. Una
vocina nella sua testa, con un accento sospettosamente britannico, gli
stava ricordando che “quell’orrenda
mistura di caffeina, panna e zucchero che hai il coraggio di
chiamare caffè” non gli avrebbe fatto
per niente bene, ma America optò per l’ignorare
anzidetta voce, e procedette nella sua occupazione; voleva essere al
massimo della sua forma e sicuramente quella bevanda sarebbe servita
allo scopo. In più, era dannatamente buona.
Quando vi diresse lo
sguardo, il braccio muscoloso di Superman sull’orologio
appeso in salotto lo informò che era quasi in ritardo.
Normalmente, la sua cognizione di tempo era molto elastica; uno, due, o
venti minuti
di ritardo non potevano poi essere un grande problema.
Ma il quattro di
luglio, all’improvviso, diventava l’uomo
più puntuale del mondo: alla festa non poteva mancare il
festeggiato, no?
Anche se
quell’anno la tradizionale, enorme festa con le altre Nazioni
non ci sarebbe stata.
Il suo boss aveva
progetti più importanti ed urgenti sui quali
puntare.
Il presidente aveva
fatto notare alla Nazione che una festa non avrebbe mandato in
bancarotta le finanze dello stato, ma America aveva fermamente
insistito.
Non voleva pesare
sulla sua gente, non quest’anno.
Poteva ancora scorgere
sul suo stesso corpo i segni della recessione: i vestiti gli cadevano
troppo larghi sulle spalle e la pelle era innaturalmente pallida per
l’anemia. Sapeva sin troppo bene che la sua gente aveva
sofferto anche di peggio.
Poteva sentirlo.
Per una volta, allora,
aveva messo da parte il suo egocentrismo e le sue onnipresenti manie di
protagonismo e aveva rinunciato a qualcosa, per il bene della sua gente.
Dopotutto,
pensò ispirato, lui era l’eroe,
ed un eroe si vedeva nel momento del sacrificio e della
responsabilità.
Di nuovo la vocina di
prima borbottò qualcosa che suonava come “Bloody hell…Se
tu sei diventato una persona responsabile, allora posso capire
perché tutti siano so bloody
concerned riguardo una probabile prossima fine
del mondo.”.
Per un momento, uno
solo, America si chiese perché mai apparentemente la sua
coscienza quel giorno avesse adottato la voce, l’accento ed
il tic verbale di Inghilterra; poi decise semplicemente di ignorarla,
come dopotutto faceva spesso anche con la Nazione proprietaria di
quella voce.
Infilò in
bocca un’ enorme ciambella grondante di panna ed
uscì dalla cucina come un ciclone, seminando pezzi di dolce
ovunque.
Corse in camera,
avventandosi sul suo armadio a quattro ante, che scricchiolò
pericolosamente a causa della forza dell’impatto. Dopo una
rapida occhiata al suo interno ed una ancor più rapida
decisione, afferrò i vestiti che gli sembravano
più adatti e, dopo aver lanciato con assoluta noncuranza il
suo pigiama sopra il letto ancora sfatto, li indossò ad una
velocità allarmante.
Si lanciò
per il corridoio, ed afferrò il suo fidato bomber, prima di
precipitarsi fuori dalla sua villa, direzione Casa Bianca.
Mentre correva per le
strade di DC, America si guardò intorno eccitato.
Da quasi ogni finestra
pendeva la bandiera americana, e l’inconfondibile melodia del
suo inno nazionale echeggiava da qualche stereo particolarmente
patriottico. La gente attorno a lui aveva le guance dipinte a stelle e
strisce, e nell’aria riusciva già a respirare
l’inconfondibile profumo dei suoi adorati hamburger,
nonostante fosse ancora mattina presto.
Dopotutto,
considerò, era sempre
un buon momento per un hamburger. Sorrise, e si sentì
gonfiare il petto di orgoglio.
La sua gente stava
facendo tutto questo per lui.
Beh, loro tecnicamente
non sapevano nulla della sua esistenza, ma questo non contava davvero,
no?
Finalmente, raggiunse
il grande edificio neoclassico sede del suo governo e si
lanciò verso South Lawn, l’enorme giardino dove
sapeva presto si sarebbero aperti i festeggiamenti. Arrivato ai
cancelli sud della Casa Bianca, si avvicinò esaltato alle
guardie dell’ingresso.
“Salve! Buon
quattro luglio!”
Le guardie lo
fissarono impassibili da sotto i loro occhiali scuri.
“Buon
quattro luglio anche a lei, Mr. Jones. Prego, entri. Il presidente la
aspetta nel suo ufficio.” Rispose una di loro, digitando
alcuni numeri su di un display.
Un piccolo cancello
laterale si aprì dopo la conferma del codice, ed America si
lanciò per uno dei sentieri che salivano verso
l’immenso prato presidenziale, salutando le guardie con un
gesto della mano.
Corse attraverso tutta
la lunghezza della tenuta, passando accanto a barbecue, tavoli da
campeggio, campi da gioco e piccoli banchetti di souvenir.
Presto, il prato si
sarebbe riempito di famiglie, milleduecento per essere precisi. America
sorrise al pensiero di tutta quella gente che si sarebbe riunita per
festeggiare il suo compleanno.
Il giorno della Libertà.
Il giorno
dell’Indipendenza.
L’enorme
sorriso morì un po’ sulle sue labbra quando un
pensiero si fece largo nella sua mente, insistente, nonostante i
tentativi di ricacciarlo indietro.
Inghilterra.
Non che gli importasse
cosa il suo ex-tutore facesse il giorno del suo compleanno; se stesse
male come sosteneva o se fosse solo uno dei tanti modi che trovava per
lamentarsi di lui; se lo avrebbe chiamato per fargli gli auguri, se pensasse a lui quel
particolare giorno dell’anno.
No, assolutamente non
gli importava.
Un eroe incredibile
come lui non aveva bisogno dell’approvazione di nessuno.
…Vero?
Sospirò, ma
poi alzò orgoglioso il mento verso l’alto. Era il
suo compleanno, e voleva goderselo fino in fondo, nonostante la
Recessione, nonostante tutto quello che stava succedendo.
Con o senza
Inghilterra.
Tutto ciò
di cui aveva bisogno era di concentrarsi su sé stesso.
Una cosa che, tra
l’altro, gli riusciva piuttosto bene.
Sì, ne era
convinto: poteva passare la giornata tranquillamente senza pensare a
quel noioso old man.
La sua convinzione
durò circa trenta secondi.
“Chissà
perché poi odia così tanto il mio
compleanno.” Pensò ingenuamente.
Onestamente,
Inghilterra aveva perso una guerra, ed una colonia, ma stava facendo un
po’ troppe storie, considerato tutto il tempo che era
passato.
“Beh,
di sicuro è abbastanza naturale che non sia così
incline a voler festeggiare il giorno in cui è stato
rimandato nella sua terra a calci in culo dalla sua maledetta
colonia preferita,
no?”
Ottimo, oltre alla
voce e all’accento, la sua coscienza pareva avere adottato
anche il linguaggio colorito di Inghilterra.
Ed ovviamente il suo
sarcasmo made in
England.
Stava per ribattere a
quella velenosa affermazione, quando realizzò di essere
arrivato di fronte all’imponente entrata sud della Casa
Bianca.
“Alright, America.
Ora smettila di fare il bambino. Sorridi, è il tuo
compleanno! Fai vedere a tutti come un vero eroe festeggia la sua
nascita!” Pensò deciso.
Scrollò un
po’ la testa, come se in questo modo potesse farne uscire la
miniatura di Inghilterra che, ormai ne era sicuro, aveva preso in
ostaggio la sua coscienza.
Probabilmente era un
esperimento alieno, avrebbe dovuto chiedere chiarimenti a Tony,
più tardi.
A grandi passi,
salì la scalinata d’ingresso, ed entrò
nell’edificio.
Percorse i corridoi
che conosceva a memoria (aveva aiutato a costruirli, ai tempi) e si
ritrovò di fronte alla Sala Ovale.
Di nuovo, alcune
guardie lo riconobbero, gli augurarono un buon quattro luglio ed
aprirono la porta per lui.
Entrato nella grande
stanza, vide che il suo boss era già seduto davanti alla
telecamera, la schiena rivolta alla grande bandiera americana del suo
studio.
Incrociò il
suo sguardo, mentre alcuni tecnici sistemavano il microfono davanti a
lui. Il boss sorrise cordialmente ad America, e sillabò le
parole “Happy
birthday”, mentre gli faceva cenno di sedersi
accanto alla sua scrivania, fuori dal raggio visivo della telecamera.
America sorrise in
risposta e si sedette. Il presidente era uno dei pochi a conoscenza
della sua effettiva natura di Nazione ed era felice di aver ricevuto i
primi auguri di tutta la giornata effettivamente rivolti a lui, ad Alfred F. Jones.
“In onda tra
tre minuti, signore.” Informò uno dei tecnici.
America gli
mostrò I pollici alzati e sorrise incoraggiante.
Era il suo primo
discorso per il Giorno dell’Indipendenza, dopotutto.
Ridacchiò
divertito. Era quasi strano pensare di essere più vecchio di
quell’uomo che dimostrava almeno vent’anni in
più di lui.
“E non solo
fisicamente.” Commentò la
Iggyscienza.
Sì, aveva
dato un nome alla sua coscienza.
Un nome molto
calzante, a suo parere.
“Devi per forza essere
così irritante?” chiese infastidito.
“Sono
un prodotto della tua immaginazione, che ti aspettavi?”
Insomma, da un certo
punto di vista si stava rimproverando da solo.
Con la voce di
Inghilterra.
“Great.”
O forse era una di
quelle maledizioni che Inghilterra proclamava di saper eseguire.
Sì, una
maledizione per farlo stare male il giorno del suo compleanno, ecco
cos’era.
“Bloody
idiot…”
America aveva aperto
la bocca per rispondere, quando sentì le telecamere
accendersi e qualcuno urlare:
“Three,
two, one…You’re on air, sir!”
Allora chiuse la
bocca, e si concentrò sulle parole del suo boss.
“Hello
and Happy Fourth of July, everybody.”
“Salve,
e buon quattro luglio a tutti!”
America sorrise al
saluto informale del suo boss. Amava il modo in cui parlava alla gente,
alla sua
gente. In modo così rilassato e cordiale.
“This
weekend is a time to get together with family and friends, kick back,
and enjoy a little time off. And I hope that’s exactly what
all of you do. But I also want to take a moment today to reflect on
what I believe is the meaning of this distinctly American
holiday.”
“Questo
weekend è un momento per stare insieme alla famiglia ed agli
amici, lasciarsi andare e godersi un pò di tempo libero. E
spero sia esattamente quello che tutti voi fate. Ma voglio prendere un
momento oggi per riflettere su quello che io credo sia il significato
di questa particolare festa americana.”
Passare del tempo con
la propria famiglia..
America ne aveva una?
Aveva Canada, il suo
gemello. Certo, America aveva la tendenza di dimenticarsi facilmente
della sua esistenza, tendenza che, tra l’altro, sembravano
avere anche tutte le altre Nazioni; ma ciò non toglieva che
volesse bene al suo fratellino del nord.
E poi
c’era… C’era stato…
No, non era sicuro di
avere qualcun altro.
Non più
almeno.
“Today,
we are called to remember not only the day our country was born
– we are also called to remember the indomitable spirit of
the first American citizens who made that day possible.”
“Oggi
siamo chiamati a ricordare non solo il giorno in cui la nostra nazione
è nata- siamo anche chiamati a ricordare l'indomabile
spirito dei primi cittadini americani che hanno reso questo giorno
possibile.”
Allora, dopo quelle
parole, il petto di America di gonfiò di orgoglio, come
quando stava camminando per le strade di Washington poco tempo prima.
Già, il suo
compleanno era anche questo.
Era celebrare se
stesso per ciò che era, per il suo sangue libero, per la sua
anima ribelle e coraggiosa.
Era ricordare a se
stesso di essere forte, il
più forte, o per lo meno di esserlo stato; per
non cadere a pezzi e per non lasciare che tutto ciò che
stava accadendo lo trascinasse giù, spezzando i suoi grandi,
enormi sogni e le sue speranze.
Non poteva permettere
che accadesse: per sé e per la sua gente.
I suoi indomiti cittadini americani.
Essere una Nazione era
difficile.
Doveva fare i conti
con il fatto di essere praticamente immortale, di dover veder cambiare
il mondo, il suo
mondo, e di dover accettare questo cambiamento, anche se faceva male.
Qualunque cosa
facesse, creava la storia.
Nel vero senso della
parola.
“We
are called to remember how unlikely it was that our American experiment
would succeed at all; that a small band of patriots would declare
independence from a powerful empire; and that they would form, in the
new world, what the old world had never known – a government
of, by, and for the people.”
“Siamo
chiamati a ricordare come fosse poco possibile che il nostro
“esperimento americano” avesse successo; che
un piccolo gruppo di patrioti dichiaravano indipendenza da un
impero potente; e che avrebbero formato, nel nuovo mondo, quello che il
vecchio mondo non aveva mai conosciuto- un governo di, da e per il
popolo.”
Quel giorno, ormai,
risultava abbastanza chiaro come fosse totalmente senza senso tentare
di non pensare ad Inghilterra.
Quell’
“Impero Potente” di cui parlava il suo boss, quello
che tassava il the sino a farlo costare più del sale e che
gli impediva di commerciare con Francia e con gli altri Europei.
Quello stesso impero
che gli leggeva le favole prima di andare a dormire, che lo faceva
rimanere nel suo letto durante i temporali e che gli cantava ninne
nanne in Gaelico per farlo addormentare.
Ricordava come la sua
rivoluzione era iniziata.
Quando a Boston aveva
versato il the di Inghilterra nell’acqua pallida del porto,
rendendola torbida; il the che aveva
dovuto comprare ancora da Cina.
Eppure Inghilterra
sapeva che lui preferiva il caffè.
Ricordava anche come
dopo si erano ritrovati a combattere per anni, nel fango e nelle
lacrime.
Ricordava come
Inghilterra gli avesse puntato contro il fucile e come si fosse poi
lasciato cadere, senza sparare.
Allora lo aveva
guardato, aveva guardato l’impero dall’alto in
basso.
Per la prima volta da
quando lo conosceva, non era più “Big Brother
England” o “Big
Brother Arthur”.
Era solo Arthur
Kirkland. E lui era solo Alfred F. Jones.
Quel giorno era nato.
Era nato come “United
States of America”, e non aveva la minima idea
di come sarebbe andata a finire.
Ma ce
l’aveva fatta.
Ed era felice, era
orgoglioso, era stupito.
Era felice di poter
festeggiare il suo compleanno come Nazione vera e propria, era
orgoglioso della sua gente e della sua forza, ed era stupito di essere
riuscito ad arrivare dov’era arrivato.
Pero’, in
tutto questo, mancava qualcosa.
E quel qualcosa, era
più un qualcuno.
Qualcuno con dei capelli biondi perennemente in disordine, delle
sopracciglia fuori dal comune ed un accento dannatamente sexy.
Sì, mancava
lui.
E, in un certo senso,
mancava ancora.
Anche se non si
sarebbe mai potuto pentire della sua scelta.
Mai.
Era talmente immerso
nelle sue riflessioni, che non ascoltò gran parte del
restante testo del discorso. Riuscì ad afferrare qualcosa
riguardo lo spirito di iniziativa che li aveva tratti in salvo dal
tracollo economico degli anni trenta, le energie rinnovabili
(probabilmente un suggerimento di Germania e Giappone) e
l’assicurazione sanitaria.
La sua attenzione
venne nuovamente attratta dal discorso quando il suo boss giunse alla
fine.
“We
are not a people who fear the future. We are a people who make it. And
on this July 4th, we need to summon that spirit once more. We need to
summon the same spirit that inhabited Independence Hall two hundred and
thirty-three years ago today.”
“Non
siamo persone spaventate dal futuro. Noi siamo persone che lo fanno. E
in questo quattro di luglio, abbiamo bisogno di convocare ancora una
volta quello spirito. Abbiamo bisogno di convocare lo stesso spirito
che abitò l’Indipendence Hall duecento
trentatré anni fa.”
Quando la sua mente
registrò le parole, gli occhi di America si dilatarono, e la
bocca si aprì, formando una piccola ‘o’
di stupore.
“That
is how this generation of Americans will make its mark on history. That
is how we will make the most of this extraordinary moment. And that is
how we will write the next chapter in the great American story. Thank
you, and Happy Fourth of July.”
“Questo
è il modo in cui questa generazione di americani
lascerà il suo segno nella storia. Questo è il
modo in cui trarremo il massimo di questo momento straordinario. E
questo è il modo in cui scriveremo il prossimo capitolo
nella grande storia americana. Grazie, e Felice Quattro
Luglio.”
Il discorso
finì, e le telecamere si spensero.
Scrivere il nuovo
capitolo…Della storia Americana?
Lentamente, la sua
bocca si chiuse, e la ‘o’, divenne un sorriso
sicuro.
Sapeva cosa doveva
fare.
“Alfred!”
lo chiamò sorridendo il Presidente.
“Scusi, devo
fare una cosa importante! Ne va della salute del
paese…” si fermò un attimo, riflettendo
sulle sue parole “… Che poi sarei io, ma non
sottilizziamo! A dopo, boss!” e detto questo,
sfrecciò via, salutando il boss con una mano.
Il presidente
ridacchiò tra sé e sé, si sedette
dietro la sua scrivania e guardò fuori dalle grandi finestre
che davano sul giardino.
Sorrise.
Doveva pensare come
fare degli auguri originali all’altra sua piccola America.
Fine
Capitolo uno
NOTE
DELL’AUTRICE:
Okay,
eccomi qui a pubblicare la mia prima fic su Hetalia! Onestamente, sono
stata molto sorpresa del risultato che ho ottenuto al contest (che per
inciso richiedeva di scrivere riguardo al compleanno di un personaggio
a scelta), e spero che anche voi lettori apprezzerete la mia fic come
ha fatto la giudice!^^
Che dire su questo capitolo? Ebbene sì, sono una fan di
Obama e volevo includerlo nella fic, quindi quale modo migliore se non
quello di utilizzare il suo discorso alla nazione il quattro luglio? E
poi, calzava a pennello con quello che avevo intenzione di scrivere.
Ve lo giuro, mentre scrivevo mi sentivo veramente una indomita
cittadina americana. Sì, sono patriotta di paesi che non
sono il mio, ma penso sia abbastanza comune quando si segue Hetalia, no?
Detto ciò, ecco le
referenze storiche/culturali/varie ed eventuali in questo primo
capitolo:
·
Links alla descrizione dei festeggiamenti del quattro
luglio: http://www.whitehouse.gov/video/4th-of-July-at-the-White-House
e http://america24.it/content/festa-alla-casa-bianca-barbecue-1200-famiglie-di-soldati
·
Link
al discorso integrale di Obama
·
Tony è l’amico alieno di America, per
chi non lo sapesse.
·
Quando America parla di quando gettò il the di
Inghilterra in mare si riferisce al Boston
Tea Party, quando i coloni americani versarono per protesta
il the inglese nell’acqua del porto di Boston, travestiti da
nativi americani.
·
Quando Obama parla della sua piccola America, si riferisce ad
una delle figlie, nata anche lei il quattro luglio.
Mi sembra di aver
scritto tutto. Se vi resta qualche perplessità fatemelo
semplicemente sapere nelle recensioni.
* Recensite =D *
Kissu^^
|
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Capitolo 2 *** Capitolo II: Necklace and new beginning ***
Capitolo
II: “ Necklace and new beginning”
Estrasse il cellulare
dalla tasca sinistra dei jeans.
Era ancora spento:
misura di sicurezza adottata da quando la sua suoneria, ad un volume
assurdo, aveva interrotto un discorso del suo boss.
In mondovisione.
Ed Inghilterra lo
aveva rimproverato fino
a limite del sopportabile.
Lo riaccese, dicevamo,
e nel momento stesso in cui lo fece, ricevette una miriade di notifiche
di nuovi messaggi vocali.
Sospirando,
digitò il numero della segreteria e si mise in ascolto,
mentre continuava a camminare attraverso il parco presidenziale.
Premette un tasto che
gli avrebbe fatto ascoltare tutti i messaggi in successione continua.
“Bonjour, mon cher
Amerique ! Joyeux anniversaire! Anche se
quest’anno non hai voluto dare una festa ti ho preso comunque
un regalo. Pare pero’ che sia illegale nella maggior parte
dei tuoi Stati. Quindi sarebbe meglio che lo venissi a ritirare di
persona. Ti aspetto.~”
“F-Francis!!
Non usare q-quel tono con mio fratello, lo spaventerai! Ah, H-happy Birthday, brother!”
“Mais oui, mon cher Mathieu!
Farò come dici. Ma non devi essere geloso~”
“F-Francis,
cosa fai?! Mettimi giù!”
“Ohayo, America-kun! O-tanjō bi
omedetō! E’ un giorno importante per te e spero
lo passerai in modo adeguato. Al prossimo meeting mondiale, ti
porterò un piccolo pensiero che ti ho comprato: è
un videogioco a sfondo horror ancora non in commercio. Spero gradirai
il mio regalo.”
“Ve~, Giappone,
dammi il telefono un attimo! Auguri America! Io e il mio fratellone ti
abbiamo preparato una scultura di pasta! Germania dice che non
è un’idea molto intelligente, ma sono sicuro che a
te piacerà, vero? Poi la puoi anche mangiare. E la pasta
è la cosa più buona del mondo, quindi…
“
“Feliciano,
chiudi la dannata chiamata, la bolletta costa!”
“Lovino,
calmarse!
Lascia che tuo fratello faccia gli auguri ad America..”
“Tu
sta zitto, Antonio!”
“Sì,
sì, fratellone, ora spengo! Ciao America, buon
compleanno!”
“Ayah! Ciao America,
Shēngrì
kuàilè, aru! I fuochi
d’artificio che ti ho spedito sono arrivati? Sono fantastici,
te lo assicuro, aru…”
“Certo,
perché si sono originati da me!”
“Corea,
ridammi i telefono, COREA!”
“Mister
America, su gimtadieniu!
Spero passerà una bella giornata!”
“Sì,
tipo, Urodzinowe
Życzenia! Anche da parte del mio pony.”
“Liet~
Cosa stai facendo?”
“Uh-uh,
salve signor Russia… Fa-facevo gli auguri ad America con
Polonia…”
“Ah!
Дорогой America
oggi compie gli anni, hai ragione! Lascia che gli faccia gli auguri
anche io!”
“Tipo,
Russia, fai in fretta e ridai il telefono a Toris!”
“Da,
da…America, С
Днем Рождения! Ho una proposta per te, sai, come regalo di
compleanno… Diventa uno con Russia!”
America rise
nell’ascoltare i messaggi.
Nonostante tutto
quello che aveva combinato negli ultimi anni, i suoi
“colleghi” non avevano ignorato il suo compleanno.
Certo, Russia faceva
paura, e Francia stava molestando il suo gemello (come si chiamava? Ah,
sì, Canada!) al telefono, ma erano comunque
auguri.
E non si aspettava dei
regali, non quell’anno almeno. Dopotutto, la sua crisi
economica aveva influenzato anche gli altri stati, e non pensava
fossero così inclini a regalargli
qualcosa.
A quanto pare, avrebbe
dovuto ricredersi.
Continuò ad
ascoltare i messaggi. Uno da parte dei Nordici, degli insulti da parte
di Cuba, un invito a bere fuori da Prussia…
Non esattamente quello
che voleva sentire.
Perché era quasi sicuro di
quello che voleva sentire.
D’altra
parte, non poteva aspettarsi davvero niente, e lo sapeva bene. Avrebbe
dovuto fare lui la prima mossa.
Stava per comporre il
numero di Inghilterra sul suo cellulare, quando quest’ultimo
lo avvisò con un sonoro “bip” che la
batteria era completamente scarica.
“Shit!” imprecò
tra sé.
Doveva andare a casa,
ed usare il telefono fisso.
Allora, si mise a
correre, ed uscì velocemente dalla tenuta.
Attraversò il più velocemente possibile le strade
ormai gremite di gente venuta ad assistere alla parata che sarebbe
iniziata di lì a poco.
Normalmente si sarebbe
unito alla folla, avrebbe gridato “God
bless America” insieme agli altri, avrebbe
chiacchierato con qualcuno dei suoi cittadini usando il suo nome umano;
ma non quel giorno.
In effetti, quello che
stava vivendo non era di sicuro un compleanno comune.
Corse ancora a
perdifiato finché non si trovò di fronte
all’entrata della sua villa.
Fece per estrarre le
chiavi, ma notò che la porta era semi-aperta.
Si
accigliò. Chi poteva essere entrato in casa sua? Un ladro?
Preventivamente,
afferrò la mazza da baseball che teneva appoggiata accanto
al capanno degli attrezzi ed entrò silenziosamente in casa.
Appena fu entrato,
tese le orecchie per captare qualche suono inusuale.
Sentì un
ovattato rumore di passi provenire dal piano superiore, ed allora
salì furtivamente le scale, volendo mantenere nascosta la
sua presenza.
In quel momento, si
sentiva Indiana Jones, pronto a bloccare qualche maledetto ladro di
tombe.
Più si
avvicinava alla sua camera, più il rumore aumentava.
Un ladro di tombe pervertito.
Probabilmente Francia.
Lentamente, molto lentamente,
iniziò ad aprire la porta.
E, davanti a lui,
trovò qualcosa che davvero
non si aspettava.
Non c’era
Francia, a rovistare nel suo cassetto della biancheria o a nascondere
giornaletti erotici sotto il suo letto come aveva immaginato.
No, c’era Inghilterra.
…Che
piegava e riponeva sotto il cuscino il suo pigiama, quello che aveva
lanciato sul suo letto quella mattina.
Beh, non che si
aspettasse che lui
rovistasse nel suo cassetto della biancheria.
Lo stupore
lasciò spazio alla curiosità, ed allora
aprì completamente la porta, e fece qualche passo
all’interno della stanza, proprio mentre Inghilterra aveva
iniziato a rifare il letto.
“Non ti
disturbare, Inghilterra. Rifare il letto quando sta sera ci
dovrò ritornare è abbastanza inutile, non
pensi?” chiese quando fu abbastanza vicino.
Inghilterra
sobbalzò per la paura, e si voltò lentamente
verso la fonte della voce, sperando non fosse chi pensava che fosse.
Le sue paure si
materializzarono in due grandi occhi azzurri che lo fissavano curiosi
di fronte a sé.
“Bl-Bloody hell,
America! Mi hai terrorizzato, maledetto idiota! Co-cosa ci fai
qui?”
“Beh,
sai…Questa è casa mia. Ci abito.”
Rispose America grattandosi la nuca.
“Oh
sì, beh…Non dovresti essere a festeggiare?”
Cambiò argomento l’altro.
“Beh, ecco
io…” Stavo
tornando a casa per chiamare te. “Mi ero
dimenticato…una cosa a casa e sono tornato a
prenderla!” rispose nervosamente America.
“Oh.”
Uno scomodo silenzio
cadde tra i due.
America avrebbe voluto
chiedergli un milione di cose: cosa faceva in casa sua, in camera sua, quello
specifico giorno dell’anno.
In quel momento,
notò un piccolo pacchetto appoggiato sopra il cuscino. Era
una scatolina avvolta in carta da regalo rossa, bianca e blu, ed un
cartellino pendeva dal lato del pacchetto.
“Iggy…Cos’è
quello?” chiese alzando gli occhi sulla Nazione di fronte a
sé.
“Qu-Quello
cosa?” rispose Inghilterra spostandosi di lato,
così da coprire con il suo corpo la visuale
dell’oggetto ad America.
“E’
un regalo, Iggy? Un regalo per me?”
domandò ancora America, la speranza che trapelava dalla sua
voce, come quella di un bambino davanti ai regali di Natale.
“Not at all!
Perché avrei dovuto portarti un regalo oggi?”
America iniziava a
pensare che Inghilterra avesse perso la capacità di
formulare un’espressione che non fosse una domanda.
Poi, registrato il
significato dell’ultima frase pronunciata
dall’altro, assunse un’aria interrogativa.
“Perché…E’
il mio compleanno…?”
Inghilterra
boccheggiò un momento, per poi chiudere la bocca ed
abbassare lo sguardo.
“Beh,
tecnicamente oggi non
è il tuo compleanno…”
borbottò la Nazione.
“Ah
no?” rispose l’altro, alzando un sopracciglio.
“Jamestown,
ti dice niente?” rispose l’altro, irritato.
“E Roanoke Island? Pensavo conoscessi la tua stessa
storia…Abbiamo anche festeggiato, un po’ di anni
fa.”
America
sbuffò.
“Ero solo Alfred, allora. Non
ero ancora gli United
States of Awesome.” Sorrise “E si, mi
ricordo quando abbiamo festeggiato. Per diciotto mesi eri ubriaco una
sera sì e l’altra anche. Non molto diverso dal
solito, ora che ci penso…”
“ Awesome non è
una parola, you git.
Smettila di uccidere la mia bellissima lingua solo per ingigantire il
tuo già bloody huge
ego.” Ribatté l’altro “E non
darmi dell’alcolizzato, maledetto idiota!”
“La nostra lingua,
Iggy. Ho il diritto di migliorarla.”
Commentò America divertito. Sperava che Inghilterra
cogliesse l’ironia e non la prendesse come un’
offesa.
“Solo
perché sono stato così gentile da permetterti di
usarla, non significa che non me la possa riprendere.”
Esclamò Inghilterra, con un piccolo sorriso sottile, stando
al gioco.
“Mh, non
penso tu possa farlo. Sai, non sono più la tua piccola colonia.”
Replicò l’altro senza pensare.
Si pentì
subito di ciò che aveva appena detto.
Il sorriso leggero
sparì dalle labbra dell’altra Nazione, che
spostò lo sguardo verso un punto del muro che in quel
momento riteneva particolarmente interessante.
“Sì.
Sì, lo so.” Sussurrò.
“I-Iggy,
aspetta. Non volevo, io…” iniziò
America, titubante.
“America, non dire
stronzate. Tu volevi eccome.” Lo interruppe l’altro
con voce calma.
“Oh no.”
pensò America. Avere a che fare con un Inghilterra
arrabbiato non era facile, ma lui era preparato. Ma un Inghilterra
così silenzioso era molto, molto peggio.
“Inghilterra, Arthur…”
“Non mi
chiamare così!” esplose l’altro.
“Non mi chiamare con il mio nome.
Quello stupidissimo soprannome, “Iggy”,
lo posso sopportare, ma quello no!”
America rimase a bocca
aperta, non riuscendo a cogliere il senso del discorso
dell’altro.
“Cosa?”
Inghilterra lo
guardò ostile.
“Non capisci
vero? No, ovviamente no… Non puoi capire.”
America iniziava ad
irritarsi.
Perché lo
trattava come un bambino? Non era più
un bambino, non lo voleva essere. A maggior ragione agli occhi
dell’altro.
“Se non mi
spieghi, come diavolo posso capire?”
ribatté America.
Inghilterra ribolliva
di rabbia.
“Se sei
così bloody
oblivious da non capire da solo, non vale la pena
discuterne!”
America
grugnì frustrato.
“Io non ti
capisco! Prima ti trovo in camera mia, nella mia
villa… Come diavolo sei entrato, a proposito?”
chiese all’improvviso, ma non gli lasciò il tempo
di rispondere. “Nevermind,
poi stiamo parlando normalmente, io dico una cosa stupida e ti chiedo
scusa…Poi tu mi urli addosso che sono un idiota senza
nemmeno dirmi il perché!”
“Perché sei un
idiota” rispose all’improvviso la
Iggyscienza.
“E LA VUOI SMETTERE DI
PARLARE NELLA MIA TESTA?” urlò poi ad
alta voce.
Inghilterra lo
guardò confuso.
“Nella tua
testa…?” domandò sorpreso.
“Uhm,
sì beh, ecco… Tu, io…”
borbottò America, arrossendo e dandosi dell’idiota.
Lo sguardo di
Inghilterra si addolcì un po’.
Aveva ragione lui,
America era davvero
ancora una piccola colonia. Almeno a volte.
Di nuovo, il silenzio
cadde tra i due.
Inghilterra chiuse gli
occhi un secondo.
Sospirò,
poi fece qualcosa che non avrebbe assolutamente voluto fare.
Si voltò
verso il letto di America e prese tra le mani il pacchetto che America
aveva visto.
“Questo…
Questo è per te.” Disse, e mise senza troppo
cerimonie il pacchetto tra le mani dell’altro, che lo
guardava con gli occhi spalancati.
“America, ti
prego, sbatti le sopracciglia. Sembri un maledetto pesce palla
così.” commentò Inghilterra imbronciato.
L’altra
nazione allora fu trasportata di nuovo nella realtà.
Certo che i loro
litigi erano davvero unici nel loro genere, considerò tra
sé.
Soppesò il
pacchetto tra le mani, accarezzandone la carta ed il fiocco elegante.
Prese l’etichetta tra le mani, dove Inghilterra aveva scritto
“to
America” con la sua inconfondibile grafia. Lo
scosse, per tentare di capire cosa ci fosse all’interno,
guadagnandosi un’occhiataccia da parte dell’altro.
“Aprilo e
basta!” ordinò irritato Inghilterra.
“Lasciami
divertire, old
man. E’ il mio compleanno, un po’ me
lo merito.”
Inghilterra
roteò gli occhi e gli fece cenno di muoversi.
America sorrise tra
sé: adorava stuzzicare Inghilterra in quel modo, anche se
probabilmente non l’avrebbe mai ammesso.
Con i movimenti
più dolorosamente lenti (per Inghilterra almeno) dei quali
poteva fare uso, scartò il pacchetto, trovandosi tra le mani
una piccola scatola di legno, intagliata con una grande aquila reale.
La riconobbe immediatamente. L’aveva fatta lui, quando aveva
solo cinquant’anni o giù di lì.
Aveva voluto imitare
Inghilterra e provare anche lui ad intagliare qualcosa. Si ricordava di
essersi tagliato, quel giorno, e di come il suo
“fratellone” lo avesse consolato mentre piangeva,
di come lo avesse coccolato per tutta la giornata come se fosse la cosa
più preziosa del mondo.
Non pensava davvero
che Inghilterra l’avesse tenuto.
“Sai, la
puoi aprire…” commentò sarcastico
Inghilterra, anche se la sua voce era inquinata da una gentilezza
inconsueta, come se anche lui fosse tornato indietro nel tempo con la
memoria.
America, per una
volta, obbedì.
Quando aprì
la scatola, ne trasse fuori una collana d’argento, alla quale
era agganciato un pendente d’oro. Quel pendente consisteva in
un drago rampante, che sapeva essere il simbolo della città
di Londra, i cui occhi erano due corniole, le pietre del coraggio e
della forza d’animo. Riconobbe subito anche
quell’oggetto, e fu colpito da un ricordo ancora
incredibilmente vivido.
“Fratellone!
Che bella collana hai!”
“Ah,
questa? E’ un regalo della regina…”
Gli
occhi di America si spalancarono.
“Davvero?”
“Davvero.”
Ad
America brillavano gli occhi.
“Wow!
E perché te l’ha regalata?”
“Perché
è un modo per dirmi che è orgogliosa di
me…E’ orgogliosa della sua Nazione.”
America
sembrò pensieroso un momento.
“Arthur?”
“Sì?”
“Tu
sei orgoglioso di me?”
Inghilterra
fu sorpreso dalla domanda, ma sorrise comunque.
“Certo
che lo sono! Sei una brava colonia, Alfred.”
America
scosse la testa.
“No,
no! Volevo dire…Sei orgoglioso di me?”
Inghilterra
rimase senza parole per un po’, senza rispondere.
Poi
colse il significato dietro le parole del più piccolo.
Sorrise,
e scompigliò i capelli della sua colonia preferita.
“Ti
risponderò quando sarai più grande. Quando
sarò orgoglioso di te, avrai questa collana.”
Ad
Alfred si illuminarono gli occhi, ed abbracciò forte il suo
fratellone.
“Allora
avrò quella collana, così sarai orgoglioso di me,
Arthur.”
Inghilterra
sorrise, e strinse più forte la sua piccola colonia al petto.
America
alzò gli occhi verso Inghilterra.
“Arthur,
tu…”
“Te
l’ho già detto, non mi chiamare
così.” sbottò Inghilterra,
interrompendolo.
“Arthur.”
Continuò America, ignorandolo. “Tu
sei…Orgoglioso di me?”
Inghilterra
arrossì.
“Non pensavo
te ne ricordassi.” Commentò a mezza voce.
L’espressione
di America era ancora incerta, ma un sorriso si stava facendo spazio
sul suo viso.
“E’
per questo che sei venuto a casa mia, sperando fossi ancora fuori a
festeggiare? Per lasciarmi questo regalo?”
Inghilterra
annuì, lo sguardo ancora lontano dagli occhi
dell’altro.
“E
perché non mi hai semplicemente detto che saresti passato,
invece di fare tutto di nascosto?” domandò ancora
America.
Inghilterra
borbottò qualcosa che somigliava ad un “per evitare
questo.” Senza guardarlo in viso.
America prese un
respiro profondo, e chiuse gli occhi.
Era il momento per
dire quello che rimuginava da tutta la mattina.
“Arthur,
vorrei che tu mi ascoltassi, ora.” Iniziò America,
guardando l’altro.
Inghilterra
alzò lo sguardo su di lui, ed annuì, sorpreso
dall’improvvisa quanto inusuale serietà nel tono
di America.
“Sai
perché sono tornato prima a casa oggi?”
L’altro
scosse la testa in segno di diniego.
“Beh,
perché volevo chiamarti…”
“Chiamarmi?”
“Sì.”
Dopo un attimo di
silenzio America prese un grande respiro e continuò.
Era un eroe, ce la
poteva fare.
Anche se in quel
momento si sentiva tutto tranne che un eroe.
“Volevo
dirti che nonostante tu sia vecchio, brontolone, pignolo, vecchio
stile, noioso…”
Inghilterra
sbuffò.
“America,
non farmi pentire di averti lasciato parlare…”
“…Mi
manchi.”
Ad Inghilterra si
mozzò il respiro.
“What?”
“Mi manchi. I miss you.”
“Questo
l’avevo capito ma… Ti manco? Non mi sembra che non
ci vediamo proprio mai…Ci sono i meeting, le
riunioni…”
America scosse la
testa.
“Ma oggi, il quattro di
luglio, tu non ci sei mai. Il giorno del mio compleanno,
Arthur.”
Inghilterra prese un
grande respiro.
“America, tu
sai cos’è per me oggi…” disse
piano.
“Sì,
Inghilterra! I
know damn well! E tu, tu sai cos’è
oggi per me?” replicò America, lasciando
l’altro a bocca spalancata, incapace di
rispondere.
“Duecento trentatré anni! Così tanto
tempo ed ancora tu non hai capito che per me oggi non è solo
il giorno in cui me ne sono andato da te, è il giorno in cui
sono nato!
Il giorno in cui io pensavo mi avresti dato questa dannata collana!
Invece sei sparito per anni,
fino a quando i nostri boss non hanno deciso che era ora di fare
qualcosa e hanno iniziato a riavvicinarsi. Ma durante le riunioni eri
sempre così dannatamente distante. E sparivi
di nuovo ogni quattro di luglio.”
Allora Inghilterra
recuperò la sua capacità di parola, che pensava
di aver perso completamente.
“Cosa volevi
che facessi? Che fingessi
che non fosse cambiato niente? Avevo perso una colonia, avevo perso il
mio onore!” fece una pausa. “ Avevo perso te. Hai idea di
quanto mi facesse male? Di quanto mi fa male?”
America si fece
sfuggire un risolino.
“Che
c’è di così divertente?”
“Nulla,
pensavo al mio compleanno dell’anno scorso, quando sei
scappato via…”
“Quando ho lasciato velocemente il luogo.”
Lo corresse Inghilterra.
America rise in
risposta.
“Siamo
davvero patetici…” commentò Inghilterra.
“Già…”
rispose America ridacchiando ancora.
Di nuovo, il silenzio
cadde tra loro, ma non durò a lungo.
“Come here.”
Soffiò Inghilterra.
“Eh?”
rispose pateticamente America arrossendo.
Perché quel
tono, all’improvviso?
“Vieni qui,
idiota… Ti metto la collana…”
borbottò Inghilterra.
America allora si
avvicinò, ed allungò il gioiello ad Inghilterra.
Si guardarono un
momento, poi Inghilterra sbuffò.
“Siediti.”
Ordinò.
“Perché?”
America lo fissò confuso.
Inghilterra
borbottò qualcosa troppo silenziosamente perché
America lo sentisse.
“Scusa?”
chiese America.
“Seitroppoalto.”
Confessò Inghilterra tutto d’un fiato.
America sorrise,
orgoglioso di sé stesso, e si sedette sul letto, sprizzando
fierezza da tutti i pori.
“Questo
momento è appena andato a finire dritto nel tuo ego,
vero?” sospirò Inghilterra.
“Yep.”
Inghilterra
roteò gli occhi, e si era già posizionato dietro
America per chiudergli la collana attorno al collo, quando lui lo
fermò.
“Ehy,
aspetta, non è che l’hai maledetta o qualcosa di
simile, vero?” chiese America preoccupato.
“No, ma sto
iniziando a pensarci. Ed ora stay still!”
sbottò Inghilterra.
America rise, ma
obbedì.
Inghilterra, allora,
fece passare le braccia attorno al collo di America, facendo cadere la
collana sopra il suo petto.
America trattenne il
respiro inconsciamente, e si lasciò andare alla meravigliosa
sensazione delle braccia del suo ex-tutore attorno alle sue
spalle. Inghilterra, da parte sua, indugiò un secondo in
quella posizione.
“Ha sempre avuto le
spalle così larghe?” si chiese, prima
di stringere leggermente la collana attorno al suo collo, e di
chiuderla.
America allora prese
tra le dita il pendente, e ne saggiò la superficie con la
punta dell’indice.
“Ti
piace?” chiese Inghilterra, notando il movimento di America.
“Beh, sai,
Francia mi ha regalato una statua un po’ di tempo
fa…” rispose con un sorrisetto malizioso.
Inghilterra
sbuffò.
“Oh, quindi
stai paragonando il mio
regalo a quello di quel blasted frog?”
chiese Inghilterra fingendo offesa.
America rise. Poi
un’idea si fece largo nella sua mente.
“Forse. Ma,
se vuoi, c’è un modo per dimostrare che il tuo
regalo è il migliore.”
“Cioè?”
America, allora, si
girò lentamente verso l’altro.
“Potresti
aiutarmi a scrivere un nuovo capitolo della storia Americana. Anzi,
della storia di Alfred
F. Jones.” Disse piano, avvicinandosi.
“Un eroe che
mi chiede aiuto? Sono lusingato da tale proposta.”
Commentò sarcastico l’altro.
“Arthur,
così rovini l’atmosfera…”
replicò America, ormai a pochi centimetri dal suo viso.
In quel momento, il
pirata che c’era in Inghilterra decise di uscire, e di dire
la sua.
“Non me ne
frega un cazzo della stupida atmosfera. Just kiss me
already, you wanker!”
E chiuse la distanza
tra loro.
Certo, non era
esattamente come America l’aveva immaginato, ma non se la
sentiva di lamentarsi.
Si lasciò
trascinare da quelle labbra con secoli in più di esperienza,
facendosi stendere sul suo letto ancora sfatto, e rispondendo al bacio
con tutta la forza che aveva.
Non che aspettasse
questo momento da secoli, naturalmente.
Si era solo lasciato
trasportare dal momento, ecco tutto.
“Avanti, ammettilo,
che ti costa?” commentò la
Iggyscienza.
Ma America era troppo
occupato ad essere incredibilmente felice per rispondere alla stupida
vocina.
Perché
avrebbe dovuto, quando l’originale era molto, molto
meglio?
America aveva portato
le braccia attorno al collo dell’altro, ancora schiacciato
contro le coperte. E lo stringeva come se ne andasse della sua stessa
vita.
Ad un tratto, senza
preavviso, Inghilterra si staccò dalle sue labbra, le guance
deliziosamente arrossate e l’espressione da pirata che ancora
aleggiava sui suoi tratti.
“Alfred…”
America
sentì un brivido corrergli giù per la spina
dorsale nel sentire il suo nome pronunciato dopo tutti quegli anni.
Ed in quel modo
dannatamente sexy.
“Mh?”
“Happy Birthday, you
git…” sussurrò
Inghilterra, ripiombando sulle sue labbra.
America sorrise nel
bacio.
Era il quattro luglio,
il giorno del suo compleanno, il giorno in cui era nato come Nazione.
Era il giorno nel
quale aveva abbandonato la protezione (o tirannia?)
dell’Impero Britannico, per camminare da solo e per
rivolgersi verso un futuro incerto, ma pur sempre un futuro.
Ancora oggi non era
certo di come quel futuro avrebbe deciso di manifestarsi, aveva ancora
tante, troppe,
faccende in sospeso.
Eppure, in quel
momento, stretto ad Inghilterra e con il suo orgoglio appeso al collo,
si sentiva pronto ad affrontare qualunque cosa.
Anche la perversione
di Francia e il rubinetto di Russia, se necessario.
Era un eroe, e non si
sarebbe tirato indietro.
Quello, ne era certo,
sarebbe stato un nuovo inizio.
Fine
secondo capitolo
NOTE
DELL’AUTRICE:
Ebbene sì, ho
postato anche il secondo capitolo! Ma non è finita, state
pronti per l'epilogo/omake che ho in sebro per voi!^^ Grazie alla
giudicia che ha postato il giudizio tra le recensioni, chi ha messo la
fic tra i preferiti, chi tra le seguite e chi tra le ricordate (ma
questo sistema confonde solo me? @_@)
Allora, tanto per mettere in chiaro una cosa, nella mia testa
Inghilterra non è un povero uke indifeso (non ce lo vedo
proprio) ed America non è sempre un seme (secondo me
è anche molto insicuro) come spesso vengono dipinti del
fandom. Secondo me, i loro caratteri sono troppo sfaccettati per avere
una definizione ed un “ruolo” precisi nella loro
relazione, infatti mi piacciono proprio per questo.
Così come America non è sempre un idiota ed
Inghilterra non è sempre
imbronciato. Lo sono solo per la maggior parte del tempo.
E poi ho
davvero una fissa per Pirate!England, quindi…
Detto ciò,
ecco le referenze storiche/culturali/varie ed eventuali di questo
capitolo:
·
Tutte le parole straniere che vengono usate nei messaggi
telefonici degli altri stati significano “buon
compleanno” o “auguri”, tranne la prima
parola di Russia, che significa “caro”.
·
Tutte le traduzioni in questa storia, ad eccezione
dell’ inglese, francese e giapponese, sono state prese da
google translator, quindi sentievi liberi di correggermi.
·
Quando America si riferisce a Francia come “ladro
di tombe”, lo fa riferendosi alla campagna archeologica
francese in Egitto del periodo napoleonico.
·
Quando Inghilterra parla del fatto che tecnicamente la
nascita di America non sia il quattro luglio, si riferisce alla prima
colonia inglese (Jamestown)
e alla “colonia perduta” (Roanoke
Island), fondate nel 1607 la prima e qualche anno prima la
seconda.
·
Quando America parla del riavvicinamento dei loro boss, si
riferisce alle due decadi precedenti la WW1, durante i quali si
attuò il cosiddetto “Great
Rapprochement”, cioè il grande
riavvicinamento di obbiettivi politici, sociali e culturali tra Regno
Unito e America.
·
Quando America parla del regalo di Francia, intende
naturalmente la statua della Libertà.
Bene, mi sembra ci sia tutto!
Per favore, fatemi
sapere cosa pensate della mia fic!
Kissu,
A_DaRk_FeNnEr
|
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Capitolo 3 *** Epilogo (Omake): A Pirate Life for me ***
Epilogo (Omake): A Pirate Life
for me
“Sei sicuro che possiamo stare qui?” chiese
Inghilterra, indicando con un largo gesto della mano il tetto della
Casa Bianca.
“Iggy, rilassati e goditi i fuochi, alright? Non ti ho
portato quassù per sentirti lamentare.”
“E’ tutto il pomeriggio che mi trascini in giro per
la tua dannata auto-celebrazione, che mi fai mangiare quelle orrende
bombe caloriche che hai il coraggio di chiamare dolci e che mi fai
indossare questa ridicola maglietta, penso di avere tutti i diritti di
lamentarmi!” sibilò Inghilterra, tirando i lembi
della sua maglietta supersize, dove la scritta “America, the land of
the free and the home of the brave!” capeggiava
al centro di una bandiera a stelle e strisce.
“Ammetterai che la parata era molto suggestiva, my dear, con quei
costumi così realistici, non trovi?”
commentò America, adottando un finto accento britannico,
cosa che fece alterare ancora di più il suo compagno.
Inghilterra alzò un sopracciglio.
“Dovevo ridere? Perché sei davvero penoso come
imitatore. E come comico.” Commentò sarcastico.
“Smettila di distruggere i miei sogni!” Rispose
America mettendo su lo stesso muso che aveva da piccolo quando il suo
“fratellone” non lo lasciava giocare con la fionda
accanto ai suoi preziosi vasi Ming.
Per tutta risposta Inghilterra sbuffò, e lasciò
scivolare la sua testa sulla spalla di America, avvicinandosi di
più a lui.
“Ho freddo.” Dichiarò preventivamente
Inghilterra.
“Già, bella scusa da usare il quattro di
luglio.” Commentò America, portando un braccio
attorno alla vita dell’altro.
Inghilterra si irrigidì un attimo, e prese un lungo respiro,
prima di parlare.
“Senti, Amer- Alfred…
Eri serio prima?”
“Io sono sempre
serio.” Rispose America con un sorriso “Ogni eroe
deve esserlo.”
Inghilterra roteò gli occhi.
“Alfred…”
“Okay, okay, ho capito. Un vecchietto come te ha bisogno di
certezze, no?”
Detto questo, guardò verso il cielo che ormai stava perdendo
le delicate sfumature del tramonto per colorarsi del blu notturno.
“Sai perché sono tornato a casa prima,
oggi?”
Inghilterra fece segno di no con la testa.
“Beh, stavo per chiamarti. Avevo ascoltato il discorso del
mio boss, ed ogni parola che diceva, mi faceva venir voglia di passare
il mio compleanno con te, di poter mettere da parte tutto il resto e
festeggiare il giorno in cui siamo diventati Nazioni alla pari. Non il
giorno in cui ci siamo separati.”
Inghilterra lo guardò con gli occhi sgranati, per poi
sprofondare ancora il viso nella sua spalla, borbottando un “Idiota, è
la stessa cosa…”, mentre il suo viso
era rigato da un leggero liquido salato, che avrebbe negato fosse
uscito dai suoi occhi.
“Quindi, per rispondere alla tua domanda, sì, ero
serio. E non vedo il motivo per cui avresti dovuto dubitarne.”
Inghilterra alzò gli occhi leggermente arrossati verso il
viso della sua ex-colonia.
“Sai, quando si è abituati a discorsi su enormi
robot per proteggere la Terra dal riscaldamento globale, si tende a
diventare un po’ scettici.” Proferì
Inghilterra.
“…Disse quello che vede le fate, gli gnomi e gli
elfi!”
“…E gli unicorni, per tua informazione. E sono veri,
checché tu ne dica.”
America stava per rispondere, quando un lampo di rosso, blu e bianco
esplose nel cielo, illuminando a giorno il giardino presidenziale e le
teste degli spettatori giubilanti. Quando un altro fuoco
salì verso il cielo, America non poté fare a meno
di commentare:
“Wow, Cina ha fatto le cose in grande
quest’anno…”
Inghilterra annuì, ancora appoggiato al fianco di America,
lo sguardo incatenato al cielo notturno.
Allora America guardò quelle iridi smeraldo illuminate dai
lampi colorati sopra di loro, e si disse che davvero il suo compleanno
non sarebbe potuto andare meglio di così.
“Iggy?”
“Non puoi proprio fare a meno di usare quello stupido
nomignolo? Adesso puoi
chiamarmi Arthur…”
“Nope!
Stavo dicendo…Hai programmi per la prossima
settimana?”
“…No…?” rispose Inghilterra
titubante.
“Ti va di fermarti un po’… Sai, per accrescere la nostra conoscenza
reciproca nei termini della Special Relationship…”
di nuovo assunse quell’assurdo accento Inglese.
Nel sorrisetto di Inghilterra, America poteva vedere di nuovo Capitan Kirkland,
com’era accaduto alcune ore prima in camera sua.
A quanto pareva quel lato di Inghilterra emergeva spesso in quelle
circostanze. Beh, di certo non sarebbe stato lui a
lamentarsi…
Inghilterra si avvicinò al suo orecchio, e vi
soffiò dentro la sua risposta.
“Sounds good.
Ma non venire a lamentarti se poi al prossimo meeting non riuscirai a
sederti come si deve… ”
Un brivido percorse la spina dorsale di America a quelle parole e al
soffio delicato del respiro di Inghilterra.
“Dici? Io pensavo piuttosto che sarebbe successo il contrario…”
rispose con un sorrisetto.
“Vedremo, Alfred, vedremo…”
commentò Inghilterra, riprendendo la sua comoda posizione
sulla spalla di America.
Quest’ultimo sorrise, continuando a guardare i fuochi mentre
scoppiavano sopra di lui.
Questo era davvero
il compleanno migliore della sua vita.
end
NOTE DELL’AUTRICE:
Ebbene sì, è finita!
Che dire, grazie a tutti quelli che hanno messo la mia fic tra i
preferiti (artemis89,
ChibiElen-Chan ,EsoChan
,Misa N,
TrueMarty, wear81),
quelli che l'hanno messa tra le seguite ( clod88, Dark Soul, giaggia,
hay_chan, killuy93 , noriko, retsu89 , ValeKikyo) e
chi tra le ricordate (Himechan e Lolopanny)
E di nuovo grazie alla mitica giudicia per il fantastico giudizio
(frase mooolto ridondante, scusate, la stanchezza!).
Riguardo l'epilogo, nel caso qualcuno non lo sapesse (anche se dubito),
la
Special
Relationship è come viene definito il rapporto tra
l'America ed l'Inghilterra.
Ciao a tutti, e state all'erta: l'ispirazione in questi giorni
è tanta, potrei tornare molto presto con una nuova fic!^^
Kissu,
A_Dark_Fenner
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