Niente di Buono sul Fronte Occidentale

di Hoel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Peggior Halloween ***
Capitolo 2: *** Primi Issues da chiarire ***
Capitolo 3: *** Opa, Saga! prima parte ***
Capitolo 4: *** Opa, Saga! seconda parte ***
Capitolo 5: *** L'8 Novembre: Malheureux Anniversaire! ***
Capitolo 6: *** Il Malato Immaginario, ma anche no - prima parte ***
Capitolo 7: *** Il Malato Immaginario, ma anche no - seconda parte ***
Capitolo 8: *** Romanzo Bollywoodiano ***
Capitolo 9: *** Lettera dal Fronte: che fine ha fatto Shaka Saintdiego? ***
Capitolo 10: *** Pride and Prejudice and Wyvern ***
Capitolo 11: *** À la recherche du Yaoi perdu! - prima parte ***
Capitolo 12: *** À la recherche du Yaoi perdu! - seconda parte ***
Capitolo 13: *** Di cene, di matrimoni e altre complicazioni varie - prima parte ***
Capitolo 14: *** Di cene, di matrimoni e altre complicazioni varie - seconda parte ***
Capitolo 15: *** I Dolori dei Giovani Valavitis ***
Capitolo 16: *** Il Quarto Lato del Triangolo ***
Capitolo 17: *** Paname, Paname - parte prima ***
Capitolo 18: *** Paname, Paname - parte seconda ***
Capitolo 19: *** Momus Ubique: la Maldicenza è Dappertutto ***
Capitolo 20: *** On the Road: Autostrada 90, Uscita 48 ***



Capitolo 1
*** Il Peggior Halloween ***


Salve a tutti!

In un momento di malinconia post-studio, stavo ripensando allo stage che feci in un liceo francese a Mont-de-Marsan in quinta. Così, volendo scrivere una fic che non fosse né gotica, né storica, ho richiamato a raccolta i miei ricordi di tale esperienza e voilà, che la fic è nata!

Prima d’incominciare, però una breve lezione di civiltà francese e non provate a saltarla (a meno che non la conosciate in anticipo), ché altrimenti, certi dettagli nella storia vi lasceranno alquanto interdetti.

La scuola. In Francia, la scuola è organizzata diversamente dall’Italia. È composta da: l’école maternelle, dai 3 ai 6 anni d’età; poi, l’école élémentaire, dai 6 agli 11 anni; le collège, dagli 11 ai 15 anni e le lycée, dai 15 ai 18 e si divide in liceo generale o tecnologico oppure liceo professionale. In ogni modo, alla fine dei tre anni di liceo, si prende il bac o il bacalauréat, che equivale all’italiana maturità.  Gli anni vengono contati all’incontrario, come una sorta di countdown alla maturità: s’incomincia con la sesta collegio, che corrisponde alla nostra prima media, per arrivare alla terza collegio, per il diploma di brevetto. Dopodiché, segue la seconda liceo, la prima liceo ed infine la “terminale”, per noi la quinta superiore e via alla volta del bac e, forse, dell’università! Inoltre, mentre in Italia ci sono i licei specializzati (es. liceo classico, scientifico, linguistico, …) in Francia vi è un solo istituto, che racchiude tutte le materie e sta allo studente comporsi il corso, un po’ come all’università. Per questo, in Francia non ci sono delle vere e proprio classi definite, ma gruppi di persone con la materia in comune. Infine, non è il professore a venire in classe, bensì sono gli studenti che si spostano di aula in aula e credetemi, i primi giorni sono una disperazione.

 

Studenti e residenza. La maggior parte della popolazione francese si concentra nelle grandi città, come Parigi, Lione, Marsiglia, etc. mentre il resto della Francia è piuttosto disabitato: Mont-de-Marsan, capoluogo delle Landes, vanta di una popolazione di 31.700 abitanti! E non è una provincia, è capoluogo! Quanto alla campagna delle Landes (nella regione dell’Aquitania) essa è uno spettacolo agli occhi: boschi, boschi e boschi, senza costruzioni o città per kilometri interi! Ogni tanto s’intravede un paesetto, composto dalla chiesa, il municipio e qualche casetta e la graziosissima “scuola di campagna”, dove tutti i bambini della zona imparano le loro prime lezioni, sotto la guida di un unico maestro e spesso gli allievi hanno età differenti! I collegi (le nostre medie) e i licei si trovano nelle città più grandi del dipartimento. Siccome, però molti studenti abitano lontano dalla scuola, arrivando anche a 60 km di distanza, certi istituti mettono a disposizione dei dormitori apposta per i più disagiati. Il coprifuoco per entrare o uscire dai dormitori è in genere alle 18, mentre all’interno del dormitorio alle 23. La colazione va dalle 7.30 alle 8.30. N.B. Questa è almeno la tabella di marcia della scuola, che ho frequentato per il periodo dello stage, poi può variare a seconda dei vari dipartimenti.

 

Nomi. I nomi degli edifici  e dei luoghi nel corso della fic sono tutti veri. Invece, i nomi dei personaggi sono di fantasia, come del resto i fatti narrati.

 

La lingua. Generalmente, mi piace essere accurata nelle mie fic, per quanto riguarda lo scenario, concedendomi, qualche volta, piccole licenze a fine narrativo. Quindi, ogni tanto inserirò delle espressioni in francese, anche imprecazioni, per aiutare i miei lettori ad entrare nell’ambiente! Ma non vi angustiate, le traduco! Intanto, ecco del lessico base sulla famiglia nel linguaggio gergale: Maman = Mamma; Mamie = nonna; Papa = papà; Papie = nonno.

Bien, mi sembra tutto. Che dire? Buona lettura e divertitevi!

H.

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Koukou tout le monde …

Si può?

Mi chiamo Camus (come il grande Albert !) Molinier e sì lo so, mostruosa allitterazione della “m”, tanto da valermi sia a casa, che a scuola il nomignolo di “Momus” [1] con mio sommo chagrin, anche perché sembra più un appellativo da gatto, che da essere umano, non vi pare?

Ho diciassette anni e mezzo, quasi diciotto, e quest’anno sto felicemente veleggiando verso il sospirato bac littérature, che segnerà la fine della mia condanna ai sette anni di carcere duro, che ho scontato al Collège d’Etat et Lycée Victor Duruy di Mont-de-Marsan.  Poi, conto di proseguire gli studi o a Bordeaux o anche a Parigi, tutto dipenderà dai risultati.  Ammetto, però, che un poco mi dispiace di lasciare il liceo, specie Shaka Kumar, il mio migliore amico … ehm … unico … ehm … insomma, avete capito, e compagno di dormitorio, dato che tutti e due, come mezza scuola del resto, abitiamo a più di 30 km dalla città, tornando a casa giusto per il fine settimana.

Mi sono trovato davvero bene con lui, non mi posso proprio lamentare: tranquillo, posato, serio, come me! (Questo è linguaggio formale, quello gergale prevedrebbe lessico quale “ameba”, “sfigato” e altri relativi a preferenze sessuali viranti allo stesso sesso). Ma chissenefrega, dico io, è pur sempre un mio amico!

 E mi sarebbe molto mancato.

Uhm … che aggiungere … mi piace molto leggere, qualche volta disegnare, adoro il cinema e il teatro, suono il pianoforte … mah, basta temo. Eh, non ho mai avuto una vita avventurosa.

Fino a quel maledetto Halloween (Sembra un po’ il titolo di un film dell’orrore, il che, sotto certi aspetti, può anche essere …)

Bien, credo che possiamo incominciare, no? Spero di non avervi annoiato con questa mini presentazione del sottoscritto, ma sapete, espediente narrativo, giusto per chiarire che sì, sarò io a raccontarvi questo doloroso dramma.

 

Era, come sopra citato, il 31 ottobre del mio ultimo anno di liceo e per essere più precisi, l’ultima ora prima della pausa pranzo, quella d’inglese, una noia pazzesca, ve lo giuro! Non fraintendetemi: la lingua era di mio gusto, ma non la lettrice! Sempre gli stessi esercizi, gli stessi psico – dibattiti, stessi video, stessi articoli di giornale … l’educazione … la criminalità … l’alimentazione … internet e le nuove tecnologie …

Uf! Roba vecchia, fritta, rifritta e strafritta! Bleah!

Pertanto non c’era da stupirsi, se passai tutta la prima mezz’ora a fissare trasognato l’orologio sopra la lavagna, la matita irrimediabilmente rosicchiata e sbavata, con somma gioia dei miei molari. Inoltre, il fattore fra meno di quattro ore sei libero e pronto a goderti in santa pace un ponte di quattro giorni non facilitava certo la concentrazione, eh!

La lettrice, notando il torpore generale della classe, decise di smuoverci un po’ con un bel dibattito a due, ovvero: ti siedi con un compagno e fai finta di discutere sull’argomento appena presentato, compilando poi le domande di comprensione sotto lo pseudo articolo di giornale. Siccome, però, Ms. Power non era esattamente nata ieri, sapeva troppo bene, che noi afferravamo l’occasione per cicalare dei cavoli nostri, quindi, per pura soddisfazione dei suoi istinti sadici, formava lei stessa le coppie e io, alas, sapevo già con chi mi avrebbe messo: con quel dannato di Milo Valavitis, l’essere più odioso di Mont-de-Marsan e forse di tutto il creato.

Per questo, la lettrice mi era talmente antipatica: mi costringeva a sopportare la sua presenza! Come se non mi bastasse già l’ora di educazione fisica! Per fortuna, lui seguiva il bac économique e quindi ci vedevamo solo a ginnastica e inglese, ma era sufficiente, maledizione, sufficiente per rovinarmi la giornata!

Vidi Ms. Power avvicinarglisi e, dal leggero fremito delle sue spalle (per la cronaca: a inglese siedo sempre all’ultimo banco), osservai che neppure Valavitis era troppo entusiasta di lavorare in coppia con me.

Per l’ennesima volta in tre anni di liceo.

E il tonfo del suo libro e del suo quaderno degli appunti sul mio banco e la malagrazia con la quale si sedette accanto a me confermarono il suo malumore.

“Ciao”, abbozzai cortesemente un saluto, facendo spazio al suo materiale di lavoro, ignorando lo sguardo assassino, che Valavitis mi lanciò. E quella mattina dovetti essere un po’ su di giri, perché mi azzardai pure a domandargli, intanto che la lettrice era occupata altrove: “Allora, dove vai per il ponte?”

Milo smise di scrivere e il modo estremamente lento, con il quale appoggiò la matita, doveva già mettermi in allarme, per aver troppo osato. “Senti, Ionesco, oggi sono di buonumore; quindi, vedi di chiudere quella boccaccia e rispondi in silenzio alle domande!” e ritornò, con mio sollievo, al suo lavoro interrotto.

Stai zitto? Ma se non fiatavo mai! Oh beh, non con lui almeno. Se c’era una cosa, che avevo imparato in sette anni di collegio e liceo era che non mi conveniva attaccar briga con lui, anche perché finiva sempre male.

Per me.

Definire Valavitis il mio personale bullo sarebbe esagerato, visto che lui mi evitava come se fossi un lebbroso. Certo, le due sottili cicatrici, che avevo sotto il mento, erano un suo ricordino, ma temo di essermele infondo meritate: all’ultimo anno di collegio, preso da un raptus vendicativo, in seguito al suo ennesimo sgradito insulto, m’infiltrai di nascosto nel suo dormitorio e gli tagliai i biondi capelli.  Sinceramente, non comprendo, come lui abbia subito capito, chi fosse stato il parrucchiere pazzo; fatto sta, che il giorno dopo, mentre mi lavavo nel bagno comune i denti, mi riempì di un sì gran numero di sberle, che quasi svenni, anzi, forse lo feci pure, sbattendo conseguentemente il mento sul lavandino, tagliandomelo. Risultato: due punti belli, belli.

Insomma, entrambi avevamo stabilito, in un reciproco patto silenzioso, di non frequentarci assolutamente, di farci i  fattacci nostri; eppure, nelle dannate ore di ginnastica e inglese, il sottoscritto riusciva sempre a innervosirlo, scatenandolo, sia verbalmente, che, più raro, fisicamente. Per questo, seguivo con ardore la regola “Stai zitto!”, nonostante, lo ammetto, la cosa non mi risultasse più di tanto difficile: sono piuttosto silenzioso di natura e diversamente abile nel socializzare con i miei coetanei.

Ancora mi chiedo, come riuscii a farmi amico Shaka. Forse perché condividiamo da sette anni la stessa stanza? Uhm …

Il ruggito del mio stomaco interruppe la presunta quiete tra me e il greco (in realtà era mezzo greco, mezzo francese, ma non dilunghiamoci nei dettagli), causando in quest’ultimo un divertito sbuffo, al quale, piccato risposi: “Soffri di flatulenze croniche, Valavitis?” , non rendendomi conto, di aver violato il limite di conversazione approvata dal Trattato di Convivenza Scolastica.

“E tu? Di diarrea?”, ribatté, senza neppure degnarmi di uno sguardo, che pareva ben incollato sull’articolo di giornale.

“Non ho fatto colazione”, spiegai, anche se sapevo, che non gliene sarebbe importato più di tanto. Invece, con mia sorpresa, Milo si voltò, fissandomi dritto negli occhi. “Ah ouais?”, disse, giocherellando con la matita. “Well, you shouldn’t do so: you’ve to remember, that breakfast is the most important meal of the day, do you know that?”  e solo in quel momento, alzando lo sguardo oltre al suo viso, capii che il repentino cambiamento di lingua era dovuto all’improvvisa comparsa della lettrice alle nostre spalle.

Ms. Power fece un cenno d’assenso con il capo, scribacchiò qualcosa sul registro e proseguì nella sua ronda. Da quel momento in poi, il mio “compagno” non mi rivolse più la parola fino al suono della campanella, ovvero il leitmotiv dell’Esorcista. Balzando quasi in piedi, Valavitis raccolse in fretta  e furia le sue cose, scappando via da me, neanche avessi la peste addosso, per unirsi al suo gruppetto d’amici.

Sospirai di sollievo: almeno ero sopravvissuto alla lezione d’inglese. Mi restava quella di ginnastica, alle ultime due ore, e poi non lo avrei più rivisto per quattro gloriosi giorni!

Dopo aver riordinato il mio banco, mi caricai sulla spalla la mia borsa a tracolla, dirigendomi verso la cantine – la mensa- calcolando mentalmente i punti rimastimi per mangiare: come al solito, Maman si era dimenticata di darmi i soldi per ricaricarmi la carta per la mensa, nonostante l’avessi tampinata per quasi una settimana. Quanto alla nonna, lei era più taccagna di uno scozzese, non le avrei spillato un soldo, neppure svenandomi sotto i suoi occhi.

Uhm, pensai, leggendo con attenzione il menù, con quaranta punti, che mangio?

Solo lo spezzatino, miseria ladra!, appurai avvilito, visto che, in generale, la carne non era la mia passione. Tuttavia, le appassionate proteste del mio stomaco affamato mi persuasero a prenderlo lo stesso, intanto che mi appuntavo mentalmente di chiedere i soldi a Maman per i nuovi punti, pena una settimana intera a digiuno.

Con il mio bottino, mi diressi verso il tavolo dov’era seduto Shaka, il primo che si era sbrogliato dalla coda infinita per la mensa, individuandolo grazie all’ampio gesto del suo braccio. E seguendo quest’ultimo come una falena attirata dalla luce, non mi accorsi della scritta “pavimento bagnato” proprio davanti a me. Quando ne presi coscienza, era ormai troppo tardi: il mio piede destro scivolò troppo in avanti, sbilanciandomi; cercai di buttare il peso indietro, invece, compromisi ulteriormente il mio già precario equilibrio, finendo vergognosamente per terra, con le risate dei ragazzi come sottofondo, presso il cui tavolo avevo avuto la brillante idea di ruzzolare.

Che bello, avevo pure fornito loro uno spettacolino per favorire la digestione!

Intanto, però, la mia andava a farsi friggere, visto che trequarti dello spezzatino mi era finito addosso. Bene, mi affidai al piano B come Battersela quatto, quatto e mangiare veloci il quarto salvato, per poi svanire nel dormitorio. Dopo questa figuraccia, dubitavo di avere il coraggio necessario per presentarmi a educazione fisica.

Fui bruscamente distratto dalla progettazione della mia brillante strategia da una ferrea presa al coppino, che mi aiutò, per così dire, a rimettermi in piedi, senza però lasciarmi libero.

“Tu”, sibilò Shura Martìn, grande amico del Demonio (a.k.a Milo Valavitis), gli occhi neri furenti e bramosi del mio scalpo. Non ci voleva un genio per capire, che gli stavo sul gozzo a priori, come a mezzo istituto del resto.  “Mi hai sporcato la maglia nuova, piccolo …” e censuriamo. Rapido, portai i miei occhi sull’indumento oltraggiato e mi venne quasi da ridere alla vista della singola macchia al suo bordo: si lamentava solo per quella facezia? E che dovevo dire io, che avevo lo spezzatino spalmato fin sopra ai capelli?

“Dai, Martìn”, lo blandì Shaka, venendomi in soccorso. “É solo del sugo: gli dai la maglia  e Molinier te la riporta pulita lunedì! Non farci una tragedia!”, disse, cercando di sfilarmi dalle tenaglie, che lo spagnolo aveva al posto delle mani, senza però alcun successo: a quanto pareva, Martìn ci teneva a trasformare il sottoscritto stesso in uno spezzatino.

Una terza mano si aggiunse sul già esistente groviglio formatosi sul mio povero coppino martoriato e fu quella più persuasiva. “Giusto, Shura, ascolta Krishna!”, gli consigliò Milo, alle sue spalle, la voce grondante di sarcasmo fino alla nausea.

Shaka strinse gli occhi, punto sul vivo. “Non sono induista, Valavitis!”, soffiò pericoloso, pronto alla rissa. Che la facessero pure, niente in contrario, ma che prima mi lasciassero andare, ché mi sentivo leggermente soffocare dalla stretta del collo della mia felpa.

Il greco alzò le spalle, ineffabile e sordo al commento del mio compagno di stanza. “Come vuoi. Comunque Shura, lascialo perdere: è inutile prendersela con questo sgorbio, non merita tale onore!”

Prendersi una caterva di botte equivaleva per me a un onore?!? Ma brutto …!

In ogni modo, lo spagnolo mollò la presa e ne approfittai per fare un balzo di sicurezza, onde allontanarmi dal suo raggio d’azione, nel caso in cui il Demonio dicesse: “Nah, stavo scherzando: pestalo fino a fargli perdere i sensi!”

Invece, ottenni questo suo gentilissimo consiglio: “Quanto a te, Ionesco, va’ a cambiarti indumenti e fatti una bella doccia: non vorrai ucciderci tutti a fisica con quel tanfo di spezzatino, spero? Oppure è una tua strategia, per non venir placcato nelle partite di rugby?” e mi rivolse il più velenoso dei suoi – con me - rari sorrisi, provocandomi un brutto cortocircuito mentale, dovuto alla rabbia per l’umiliazione subita dinanzi a tutta la mensa.

E feci la cazzata del secolo.

“Allora saremo in due, stronzo!”, gli urlai, afferrando il piatto di spezzatino con violenza, lanciandogli addosso in pieno viso la pietanza rimastavi.  Per un folle istante, gustai euforico quella mia piccola vittoria su di lui, gioendo alla vista del sugo colargli dal mento in una lenta e vischiosa cascata.

Ma quando l’effetto fallace dell’endorfina terminò, esso venne sostituito dal crampo doloroso della paura: Oddio, che avevo combinato?

Che avevo fatto?

Che avevo fattooooooo?

Nessuno di noi osò fiatare, né proferire parola, l’aria densa dell’elettricità pre- rissa apocalittica e in quel momento, la prospettiva di non ritornare a casa sulle mie gambe si delineava sempre più nettamente. Che diavolo mi era preso? Per quanto detestabile, Valavitis mi aveva sottratto dallo spirito vendicativo di Martìn! (E non era cosa da poco). Quanto a quella battuta, beh, da parte sua ne avevo sopportate di ben più crudeli! Insomma, perché fui così idiota da schiaffargli in faccia lo spezzatino?

Fortunatamente, Aiolia, il fratello minore del Demonio, s’intromise tra noi due e cinse il maggiore per le spalle, allontanandolo da me per precauzione, non essendo, infatti, sfuggito al ragazzo lo sguardo carnefice dei suoi occhi. “Milo, andiamo … non te la prendere …”, gli sussurrò, facendomi cenno con la testa di filarmela e anche alla svelta.

Lentamente, Valavitis levò le mani del fratello dalle sue spalle, pulendosi con il dorso della mano il sugo, che, inspiegabilmente, si mise a leccare, mentre un feroce sogghigno gli deturpava il volto. “Solo uno sfigato come te può mangiare questa merda!”, dichiarò, dirigendosi verso l’uscita della mensa, per la volta dei dormitori, ma intuii che me l’avrebbe fatta in ogni modo pagare, almeno a detta delle nocche bianche dei suoi pugni serrati.

“Stai zitto, Momus, non dire una parola …”, mi mormorò Shaka all’orecchio, conducendo un me stesso stordito verso il bagno, abbaiando dietro a chiunque avesse strane domande da porgerci.

***

 

Ad educazione fisica, fui fissato, se non con odio, almeno con grande pericolosità: mi ero azzardato a toccare la loro Vacca Sacra e ora pretendevano il sacrificio espiatorio per riparare a tale sacrilegio. E indovinate un poco chi era l’agnello designato?

Nessun’idea?

No?

A nulla valsero le mie scuse con il professore, per persuaderlo a non farmi giocare l’ultima mezz’ora a rugby: l’aura vendicativa dei miei compagni non m’ispirava nulla di buono. E di fatti, in un passaggio durante la partita, nonostante mi fossi liberato della palla, cedendola a un mio compagno, mi ritrovai seppellito vivo sotto un’ammucchiata non da poco.

E di nuovo, toccò a quella Bernadette di Shaka di riacchiapparmi, portandomi traballante in infermeria, dove mi venne diagnosticato un bello slogamento del polso: yu-hu! Così non potevo suonare neppure il pianoforte! Che bello! (Volevo essere sarcastico, eh!)

Tuttavia, anche nelle miserie delle vicende umane vi erano dei lati positivi: con la scusa del polso fuori gioco, potevo starmene per mezz’ora in santissima pace, sdraiato sul lettino, lontano da chicchessia. E solo in quel momento, cullato dal confortante silenzio, mi accorsi che Valavitis non era presente alla lezione. Che l’avesse bruciata?

Non che me ne importasse qualcosa, però, sapete, saperlo nei casini …

“Sei uno stronzo, Milo!”, sentii d’improvviso una voce femminile gridare, facendomi trasalire violentemente, anche perché la nuova arrivata sbatté la porta dell’infermeria con veemenza.

Vero, tutto vero, confermo: stronzo al duecento per cento!

“Shaina, è l’ennesima volta che me lo ripeti: ho capito, sai?”, fu la secca replica del ragazzo, dal cui tono della voce pareva quasi annoiato dallo sfogo di quella che immaginai essere la sua gonzesse. “E smettila accidenti di tampinarmi così, tanto le tue sono solo paranoie: non vedo nessun’altra!”, sbottò, sedendosi pesantemente sul letto accanto al mio: fortuna, che c’erano le tendine, sennò …

Comunque, realizzai che dovevo assolutamente andare via di lì; l’ultima cosa, che mi mancava, era che si accorgessero che stavo – contro la mia volontà- assistendo a quella drammatica crisi di coppia.

“Come? Paranoie? Ma se lo sa tutto l’istituto, che mi decori a testa!”

“Ha! E tu credi a tutto quello che ti dicono gli altri? Ti facevo più giudiziosa, mi deludi!”

“E io ti pensavo meno cinico, meno bastardo! Sei più velenoso di uno scorpione, bon sang! Non hanno significato nulla per te i due anni che siamo stati assieme?”

Silenzio.

“No, assolutamente nulla.”

Di nuovo silenzio.

“Allora è vero, che c’è un’altra! Tu mi tradisci!”, si sfogò la giovane, la voce incrinata di qualche ottava.

La risata gutturale di Milo riecheggiò nella stanza e provai un sentimento di pietà per quella povera Shaina: parola di esperto, quando il Demonio sghignazzava così, voleva dire che ti stava preparando il colpo di grazia. Sperai per lei, che avesse il cuore forte.

“Sei proprio dura di comprendonio, eh? No, non c’è un’altra persona …”, esordì lentamente, quasi divertito dalla penosa situazione “… almeno, non fisicamente, intendo.”

“Significa che … che pensavi a … a … mentre noi eravamo …”, udii boccheggiare sconcertata la giovane, il cui respiro irregolare preannunciava una prossima crisi di pianto. Ma come faceva quel disgraziato ad essere così menefreghista nei confronti di ogni esponente del genere umano, specie se si trattava della sua ragazza? Cornuta e pure umiliata? Proprio non lo capivo!

“Sì. Siccome pare che oggi siamo in vena di confessioni, ti rivelerò il vero motivo, per il quale ho accettato di mettermi con te. Sai, in seconda c’era, anzi, c’è tuttora una persona che m’interessa, solo che io gli stavo piuttosto indifferente e non sai quanto la cosa, all’epoca, mi avesse fatto arrabbiare, peggio di una iena.  Quand’ecco che arrivasti tu, attaccandoti a me, neanche fossi una patella. Ho quindi pensato: “Perché no? Magari dimentico questa persona!” Invece, più il tempo passava, più l’attrazione per lei aumentava a dismisura.”

“Per te, non sono quindi stata né più né meno, che una sostituta?”

“Se vuoi essere così brutale, sì. E ti ringrazio, inoltre, per questa tua scenata di gelosia: mi hai dato la perfetta scusante per rompere questa relazione a entrambi ingombrante. Inoltre, sono ormai risolto a fare mia questa persona …”, disse e giurai d’aver percepito una nota di dolcezza nella sua voce, di solito arrogante e cinica.

“Posso almeno sapere, chi è lei?”, sentii Shaina vibrare di collera.

“No. Lo scoprirai, quando ci vedrai assieme …”

Sciaff!, fu la replica, che interruppe bruscamente Milo.

Uh, lo aveva davvero schiaffeggiato? E ben gli stava! Però, perché allora lui continuava a ridere di gusto?

“Va bene, te la concedo. Ma non provare a giocare alla sedotta e abbandonata: tanto lo so, sai, di quel Seiya, che lavora al bistrò in centro …”, affermò malizioso e mi stupii parecchio nell’appurare, che quel che aveva dichiarato doveva essere pure vero, visto che la ragazza uscì imprecando furiosa, sbattendo di nuovo la porta.

 Dopo un lungo sospiro, se di sollievo o di tristezza non avrei saputo dirlo con precisione, Milo la imitò, allontanandosi quieto dall’infermeria.

 

***

Finalmente la giornata più stressante della mia carriera scolastica era finita e senza altri spiacevoli incidenti: suonata la campanella liberatrice, mi recai rapido nella mia stanza, dove raccolsi la mia valigia, pronto per andarmene via da quel che percepivo ormai come un manicomio. Salutai Shaka e mi diressi a passo spedito verso il parcheggio all’entrata del parco, dove mia nonna Séraphine mi veniva a prendere con la macchina.

E come al solito, rimasi ad aspettarla per un’ora esatta, peggio di un pirla. Da piccolo, ci stavo male, sapete, crisi d’abbandono e robe varie, ora, al contrario, la cosa mi lasciava del tutto indifferente: mi sedevo in una panchina al parco e la attendevo buono buono, magari con un libro in mano, giusto per distrarmi dalla noia. Quel pomeriggio non fu da meno e mi recai verso il mio posticino, sperando che la nonna arrivasse presto, dato che il mio stomaco, vuoto sia della colazione che del pranzo, ruggiva impazzito.

Ero talmente immerso nei miei pensieri alimentari, da non riconoscere immediatamente la persona, vicino alla quale mi ero seduto accanto. E quando scoprii la sua identità, ebbi quasi un arresto cardiaco.

“Non attorcigliarti come un Bretzel, Ionesco; non ho fame, quindi per stavolta non ti mangerò!”, fu il saluto di Milo nei miei confronti.

Vuol dire, che se ne ha, quello squilibrato mi divora sul serio?

Levandosi le cuffie dell’Ipod, il greco mi sorrise famelico, divertito dal mio balzo quasi istintivo. “Che c’è, petit chaperon rouge? Ti faccio paura?”, mi provocò, accennando alla mia gamba tesa oltre la panchina,  pronta per partire.

“No, Valavitis, non ho paura di te”, dichiarai con sicurezza, nonostante mi stessi inconsciamente allontanando da lui, giusto per sicurezza.

Continuando a sorridermi, il ragazzo affermò sarcastico: “Ne sono contento, Ionesco” e potevo mettere la mano sul fuoco, che il suo cervello all’incontrario si stava preparando al prossimo tiro birbone, che stranamente, non avvenne, anzi, Valavitis si ritirò nel suo silenzio, lo sguardo rivolto altrove.

“Tuo fratello?”, chiesi, accorgendomi ad un tratto dell’assenza di Aiolia, il che mi parve bizzarro, giacché i due erano più legati di Bonnie e Clyde.

“Agli allenamenti di rugby”, fu la sua laconica risposta, sempre senza mai guardarmi in faccia. Che ce l’avessi così brutta?

“E tu che fai?” e omisi qui, anticipandolo nella sua possibile replica, ovvero che il parco non era di mia proprietà, bla, bla …

Scrollando le spalle, Milo rispose senza entusiasmo: “I cavoli miei!” e, girandosi finalmente dalla mia parte, aggiunse: “Mentre qui, qualcuno di mia conoscenza non se li sta facendo!”

“Mi stai dando dell’impiccione?”

“Tu l’hai detto, non io.”

All’udire simile sentenza, vidi di nuovo rosso e commisi, nell’arco di neppure ventiquattr’ore, la seconda cazzata del secolo. “Abbassa la cresta Valavitis”, sbottai, alzando, invece, la mia “tentavo solo d’intraprendere con te una conversazione civile! Eppoi, hai un bel fegato a fare ancora il figo, dopo essere stato prima scaricato, poi schiaffeggiato dalla tua ex! Per non parlare di quella intelligentissima ragazza, che ti rifiuta da ben due anni, sfigato!”

Milo si voltò di scatto verso di me, gli occhi azzurri ridotti a due bracieri fumanti e dilatati come quelli di un lemure. “Hai origliato, non è così? Hai sentito tutto, non è vero?”, sibilò dolcemente, come un serpente a sonagli.

“N- no”, balbettai, arrivando a negare perfino l’evidenza: gli avevo riassunto alla perfezione il suo dialogo con Shaina! Ma perché non riuscivo mai a tenere la bocca chiusa con lui?

“Sì, abbiamo rotto e allora? Ce ne sono tante, per il mondo! Ma cosa ne può capire un verginello come te, le cui uniche mani che ti abbiano mai sfiorato erano quelle di tua madre? O” e le sue iridi ceruli brillarono di crudele malizia “il tuo  professore di pianoforte ha messo le mani altrove, oltre che sulla tastiera?”, insinuò, conoscendo il bastardo la mia innocente cotta per il mio maestro di musica, quand’ero ancora in quinta collegio. Era ormai acqua passata, non mi arrovellavo più il cervello con sospiri e struggimenti vari, però non tolleravo lo stesso che questo mio primo “amore” venisse sì volgarmente dileggiato, in particolar modo da un figlio di buona donna come Milo Valavitis.

E che diamine, anch’io avevo il mio onore!

“Zitto, patacca pervertita!”, gli gridai, levando la mano, pronto a scardarmela sulla sua guancia. Tuttavia, il greco fu più rapido di me e, in neppure un battito di ciglia, ritrovai il mio povero polso fasciato alla mercé delle chele di Valavitis, il quale pensò bene di stringermelo lievemente, causandomi una piccola fitta di dolore.

“Non t’azzardare, sai? Da te proprio non l’accetto, sarebbe troppo umiliante!”, soffiò costringendomi in piedi di malagrazia, senza però abbandonare la presa al mio polso. “Com’è che oggi ci siamo presi tutte queste libertà nei miei confronti, Camus?”

Sbiancai: l’ultima volta, che Milo aveva pronunciato il mio vero nome, mi ero ritrovato due punti sotto il mento; infatti, per abitudine, il ragazzo non mi chiamava mai “Camus”, preferendo, al contrario, il suo personale nomignolo, “Ionesco”, in quanto entrambi scrittori dell’Assurdo.

“Stamattina a inglese, mi hai tartassato di domande, deconcentrandomi dal mio lavoro;  poi a mezzogiorno, nonostante abbia salvato la tua ingrata pellaccia dagli artigli di Shura, mi sporchi di spezzatino; al pomeriggio, origli spudoratamente conversazioni private e ora, dopo avermi insultato, pretenderesti pure di schiaffeggiarmi? Non scherziamo!”, continuò velenoso, spingendomi all’indietro, la stretta al polso sempre più forte. “Sembra quasi che tu lo faccia apposta ad attaccar briga con me; non è che, per caso, ti piaccio?”, mi schernì crudelmente e la fitta di dolore crebbe a dismisura, fino ad inumidirmi gli occhi. Tuttavia, serrai caparbio le labbra, rifiutandomi di piangere di fronte a lui e, sputandogli in faccia, gli ritornai con gli interessi il suo stesso veleno:

“Solo un gran coglione masochista potrebbe provare  dell’interesse per te, figurarsi dell’affetto! L’unica cosa che m’ispiri è un enorme disgusto e la tua presenza mi ripugna altamente!”, furono le mie ultime parole e il mondo divenne all’improvviso nero.

Non saprei dire se la causa fosse stata il mio sfogo molto poco ortodosso o il mio sputo; in ogni modo, quando finalmente riaprii gli occhi, mi ritrovai con mio sommo orrore nella fontana del parco, a far compagnia alle paperelle.

“Tu …”, ansimai, tra un colpo di tosse e l’altro, mentre tentavo di rimettermi in piedi, lottando contro il liscio vischioso del marmo. “Ma ti sei rimbambito? Che cavolo ti è passato per quella testa balenga?”

Il Demonio si appoggiò ai bordi della fontana, sogghignando: “Mi sono solo adoperato a lavarti una volta per tutte: ancora olezzavi così tanto da spezzatino, da nausearmi!”

“Non è vero!”, protestai, finendo nuovamente con il sedere sott’acqua, dopo essere scivolato. “E comunque, se crepo per polmonite, mi avrai sulla coscienza, disgraziato!”

“Tu, crepare? Tzé, figurati: sei come l’erba cattiva, non muori mai!”, fu la sua sentenza, mentre si allontanava alla volta dell’uscita del parco, continuando senza pietà a ridere del sottoscritto, che, furente, cercò di uscire dalla fontana, sennonché inciampò con una gamba sul suo bordo, ruzzolando arlecchinescamente per terra, inzaccherandosi tutto di fango.

 

***

 

Quando nonna Séraphine mi raccolse dal parco, parevo, agli occhi di un inesperto osservatore, un barbone coi fiocchi: per tenermi caldo, in quanto autunno inoltrato, mi ero infilato tutti i maglioni disponibili nella mia valigia, ergo quelli che avrei riportato a casa, poiché da lavare. Di conseguenza, coi capelli impazziti; il viso e i pantaloni sporchi di terra e l’odore non proprio accattivante di sudore delle felpe non dovetti dare una buona impressione ai passanti e non mi sarei sorpreso, se qualcuno mi avesse pure allungato un euro.

Il che avvenne, alas.

Mamie non disse nulla, si limitò a condurmi in macchina, dove mi distesi sfinito sul sedile posteriore, addormentandomi di brutto e non vedendo l’ora di chiudermi in camera mia, affogando i miei dispiaceri in un barattolo maxi di Nutella, celato rigorosamente sotto il letto, lontano dagli sguardi indiscreti di Maman.

Non che lei fosse molto in casa per controllare i miei movimenti, del resto. Mia madre lavorava in un tour operator e spesso si assentava anche per mesi, lasciandomi in balia di mia nonna, una misantropa convinta, malata terminale di cinismo verso il prossimo, in particolar modo, nei confronti dei partner di famiglia.

Infatti, io non avevo il papà, o meglio, l’ebbi fino ai cinque anni, perché un giorno lui ci fece le valigie invitando Maman e me a sloggiare, piantandoci così in asso. Fummo dunque costretti a tornarcene in campagna dalla nonna, la quale ci accolse senza tante storie, memore anch’ella di un terribile vissuto: ebbene sì, pure il nonno Dégel se n’era andato via di casa.

Con un uomo.

 Non seppi mai il suo nome, né Mamie volle mai comunicarmelo; l’unico dettaglio di quella “tragica” vicenda che conoscevo era che il mio prozio Unity – che riposi in pace – ebbe il suo bel daffare a impedire alla nonna di rincorrere il marito fedifrago con il fucile da caccia. Da allora, lei incominciò a guardare con sospetto gli uomini, in particolar modo se omosessuali.

Di conseguenza, potete ben immaginare, quanto fosse poco contenta, nell’assistere all’infinita sequela d’insuccessi amorosi della figlia. Non che Maman fosse brutta o sgraziata, al contrario era molto carina, con i capelli rosso scuro e gli occhi dorati (tratti somatici da me entrambi ereditati) e di certo, a trentotto anni, non le mancavano degli spasimanti, che le ronzavano attorno come veri e propri mosconi.

No, il vero inghippo ero io. E non state a pensare ora, che m’intromettessi nella vita sentimentale di mia madre con scenate isteriche o tiri birboni alla Piccola Peste, no! Era la mia sola esistenza a far sì, che i drudi, appena saputo che la Madamoiselle Molinier aveva un figlio diciassettenne, si rigirassero come Bretzel, tentennassero, tergiversassero, blaterando incredibili scuse e filandosela all’inglese, con un “Ci sentiamo”.

Tzé!

Comunque, sarà egoista da parte mia affermare ciò, ma questa vita in fin dei conti non mi dispiaceva; sicuramente, avrei preferito avere vicino Maman un po’ più spesso, tuttavia, la libertà che godevo era grande e inebriante. Inoltre, vivevamo indisturbati in mezzo al bosco, il villaggio più vicino a dieci kilometri da noi (e in ogni modo composto dal municipio, la chiesa, qualche casetta e la crêperie) e avevamo un solo vicino di casa, Monsieur Giraud, che viveva a mezzo kilometro da noi, con la moglie e i due figli, Marin e Toma (forma contratta di Thomas? Mai capito …) La prima aveva due anni più di me e posso annoverarla, assieme a Shaka, nel mio cerchio delle amicizie; quanto a suo fratello, mio coetaneo, da piccoli giocavamo insieme, ma poi, con il passare degli anni, ci siamo persi di vista.

 Arrivati finalmente a casa, dopo quasi un’ora e mezza di autostrada, mi stupii nel notare la macchina di Maman in garage: non doveva essere a Bordeaux per lavoro?

Apparentemente no, ché la vidi vispa e su di giri in cucina. “Momus, tesorino di Maman, vieni qui, fatti abbracciare, mon chouchou!”e dovetti subire una mossa di wrestling abilmente camuffata d’abbraccio. “Com’è andata a scuola? Me lo dici dopo in macchina, va bene? Ora preparati, che fra mezz’ora usciamo a cena!”, esclamò contenta, gli occhi ridenti.

“Che si festeggia?”, chiese Mamie, versandosi del succo ai mirtilli. “In che ristorante andiamo?”

“Oh no!”, dichiarò Maman, scuotendo il capo ramato. “Stasera, siamo tutti e tre invitati a casa di Christophe!”

Per poco la nonna non si soffocò con il succo, che le andò dolorosamente di traverso. Battendole piano la schiena, domandai io stesso molto sorpreso: “Il cardiologo? E che vuole da noi?”

Chiedo venia, se prima non avevo accennato a lui, quando vi descrissi le vicissitudini amorose della mamma, terminate tutte in fallimenti fino all’anno scorso, momento in cui incontrò questo misterioso corteggiatore, che pareva seriamente interessato a lei, visto che era da tanto tempo, che i due si frequentavano. Nonostante tutto, Maman non rivelò né alla nonna, né al sottoscritto il suo nome e cognome, solo la professione, cardiologo appunto. E solo recentemente, siamo riusciti a spillarle almeno il nome di battesimo: Christophe.

Che si vedessero o meno, mi era del tutto indifferente; però, non comprendevo il motivo della nostra presenza in una cenetta romantica à deux.

“Vorrei presentarvi a Christophe e vi confesso, che lui stesso ha richiesto della vostra presenza …”, ci spiegò ansiosa Maman, le dita tra loro attorcigliate.

Silenzio.

“Non mi sento bene, Maman, posso restare a casa?”, domandai, sfoderando i miei migliori occhioni da cerbiatto indifeso.

“Neppure io, credo che mi siano ritornate le mestruazioni!”, si lagnò la nonna, massaggiandosi il ventre.

Passandosi la mano sulla tempia, Maman sibilò per la prima volta davvero incavolata: “No! Vi ha invitati a cena e a cena voi verrete, capito?” e lo sguardo assassino nei suoi occhi non preannunciava nulla di buono.

“Ma …”, tentammo di protestare.

“Ci si vede fra mezz’ora!”

“Ma …”

“Fra mezz’ora, ho detto!” e fu la fine delle comunicazioni.

“Qui finisce male”, borbottò Mamie, mentre le passavo la biancheria da lavare. “Molto male …”

E stranamente, sentivo di non poterle dare torto.

 

***

 

Alle otto e mezza puntualissimi (sperando di non aver beccato alcun autovelox) Maman, Mamie ed io eravamo parcheggiati sotto casa del cardiologo, il quale doveva avere abbastanza grana, da potersi permettere un appartamento in pieno centro e anche piuttosto spazioso, a detta della lunghezza del balcone.

Maman suonò al citofono e, dopo qualche istante d’imbarazzante attesa, finalmente una chiara voce maschile ci rispose, dichiarando secca: “Mi dispiace, ha sbagliato indirizzo!”, spiazzandoci letteralmente, soprattutto, quando una seconda voce s’intromise scocciata:

“Nônon, levati dalle palle e dammi quella diavolo d’una cornetta!”

“Non se ne parla neppure, Sasà! Pussa via!”, ribatté l’altra con altrettanto trasporto. Seguì poi uno strano ronzio di sottofondo nel citofono, come se i due litiganti si stessero contendendo il dominio dell’apparecchio elettronico. E siccome il terzo gode, una voce più giovane di qualche ottava s’intromise, chiedendo candidamente: “Buonasera, chi è lei?”, provocando l’ira delle altre due, che cercarono d’allontanarla. Il provvidenziale arrivo di quello che sembrava il capo clan ci impedì di rimanere come fessi davanti al citofono per tutto il resto della serata.

“Via, via bon sang! E tu, va’ a vedere che fine ha fatto l’altro tuo fratello!”, borbottò l’uomo, ignorando, che la conversazione era da noi perfettamente udita. “Ehm …”, riprese con tono più gentile, rivolgendosi a noi “sei tu Corinne? Scusali, stasera i ragazzi sono sull’euforico” e pronunciò l’ultima parola tra i denti, evidentemente diretta ai figli.

Ah, ora si spiegava, come mai il cardiologo non si fosse tirato indietro con Maman: anche lui aveva della prole a casa. Sì, ma quanti? Due? Tre?

“Scendo giù a prendervi, aspettatemi!” e si dimenticò di riattaccare, poiché sentimmo le appassionate proteste continuare, anche dopo la risoluzione del pater familias.

“Ma papà …”

“Chut!”

“Ma papino …”

“Zitto!”

“Ma papu!”

“Silenzio!”

Non erano molto entusiasti di vederci, no no!

Spalancando il portone con la forza dell’esasperazione, il cardiologo fece la sua entrata in scena, rivelandosi come un signore sui quarantacinque anni, leggermente stempiato e dagli occhi blu, nascosti da pesanti occhiali da vista.

“Corinne, cara, sono così felice, che siate venuti tutti e tre! Su, entrate!”, c’invitò con un ampio gesto della mano e salendo su per le scale, non mi sfuggì la furtiva carezza, che M. Christophe elargì a Maman, la quale ridacchiava sommessamente, neanche fosse una scolaretta al suo primo amore.

Diabetico.

Due giovani uomini di vent’anni ci aspettavano all’entrata, il primo che cercava di spingere via il secondo, il quale era in procinto di chiudere la porta. Ah, piccolo dettaglio: erano identici, ergo gemelli.

“Corinne, non so se ti ricordi dei miei figli maggiori, Saga e Kanon”, li presentò M. Christophe, indicandoli. Quello dai capelli di un biondo leggermente più scuro si liberò del fratello con una rapida gomitata, ricacciandolo dentro casa una volta per tutte. E tendendo la mano a Maman, la salutò sinceramente contento: “Piacere di conoscerla, M.lle Corinne, Papa ci ha tanto parlato di lei!”

“Ma sentilo …”, borbottò il suo gemello, ricevendo un pestone al piede.

“Sei Saga, vero?”, ricambiò con entusiasmo Maman.  “E tu dovresti essere Kanon o mi sbaglio?”, domandò leggermente confusa al giovane dietro, che rispose:

“No, questo balengo qui davanti è Kanon, Saga sono io ... ehi!”

“Sarà meglio entrare, che dite? Il corridoio non è così confortevole!”, lo interruppe bruscamente il padre, mormorando serio al vero Saga. “Disponi di tuo fratello, va’!”

Il giovane uomo abbozzò a un cenno affermativo, spingendo via Kanon per la schiena, affermando più mieloso di un’ape regina: “Dai, Nônon, andiamo in cucina, eh?”

Una volta dentro il salotto, M. Christophe ci fece accomodare sulle poltrone, offrendoci da bere qualcosa di fresco. Era sorprendente notare, come Maman si sentisse a suo agio nell’ambiente, dimostrando di essere stata in più occasioni sua ospite, e perfino Mamie si stava lentamente rilassando, grazie all’abile cicaleccio del cardiologo. L’unico fesso, che se ne stava seduto più rigido di un cadavere in piena fase di rigor mortis era il sottoscritto.

L’intera sinfonia era sbagliata, piena di stonature: due piccioncini all’apice del loro stordimento amoroso non si sognerebbero mai di invitare i rispettivi pargoli e famigliari a meno che …

“Oh Saga, rieccoti qua!”, esclamò il padre, rivendendo il figlio tornare dall’impresa sbarazziamoci di elementi scomodi. “Sai per caso dov’è finita la belv- ehm tuo fratello?”

Sbattei confuso le palpebre: ma non l’aveva appena relegato in cucina? Allora, ce n’era un altro …

“Credo sia in camera sua di sopra con Iou – Iou”, rispose incerto il maggiore, sedendosi vicino a me. Iou – Iou? E chi era? Il gatto?

“No, è andato in cucina da Nônon, l’ho visto io!”, rispose dalle scale una voce a me piuttosto famigliare, anche se non ricordavo dove l’avevo già sentita. Incuriosito, alzai lo sguardo in direzione della sua fonte e credo che i miei occhi divennero simili a quelli di una civetta, non appena vidi Aiolia scendere giù, per venirci a salutare.

Un momento: che ci faceva Aiolia lì? Che ci faceva il fratello del Demonio in quella casa? M. Christophe mica era suo …

“Camus!”, mi venne incontro Aiolia, spedito come il TGV, abbracciandomi forte. “Questa sì che è una sorpresa: non sapevo, che M.lle Corinne fosse tua madre! Allora, hai già conosciuto i miei due fratelloni?” e, girandosi in direzione della cucina, chiamò ad alta voce: “Milo! Vieni a vedere chi è il figlio di Corinne!”

No, non può essere. Questo è un dannatissimo incubo, dal quale ti sveglierai, facendoti poi una bella e grassa risata.

Dalla porta della cucina emerse tranquillamente quel birbo malnato di Milo, il quale, nel momento in cui incrociammo gli occhi, si fermò di colpo, fulminato sul posto. Quanto a me, avrei voluto scavarmi una fossa e seppellirmici dentro: Oddio, la mia Maman usciva col Papa di Valavitis!

Mi aspettai, quindi, di vedere negli occhi turchesi del mio compagno di scuola la stessa sorpresa oppure la sua solita espressione arrogante, quando si trattava di interagire con il sottoscritto. Invece, inaspettatamente e sconvolgendoci tutti, Milo si mise a ridere a crepapelle, reggendosi la pancia.

“Eh bien, Milo, che ti prende?”, chiese confuso il padre, assai interdetto.

Asciugandosi le lacrime agli occhi, il volto paonazzo dalle risate, il ragazzo scosse il capo biondo con energia. “Niente, niente!”, e se ritornò in cucina ridendosela alla grossa. E la notizia dovette essere così gustosa, da condividerla pure con il fratello maggiore e, infatti, alla gioviale risata di Milo si aggiunse quella di Kanon, che risuonarono insieme per tutto il salotto.

Sospirando a fondo, Saga si diresse con spirito bellicoso verso la cucina, simile a un capitano di una nave in procinto di strigliare una ciurma troppo indisciplinata. Nel frattempo, M. Christophe dirottava diplomaticamente Maman e Mamie verso la sala da pranzo ed io mi unii a loro, trascinando Aiolia con me, giusto per avere la sicurezza, che il Demonio evitasse di sedersi accanto al sottoscritto.

 

***

 

La cena fu sorprendentemente piacevole: dopo il primo imbarazzo all’entrée, con l’arrivo della crema di funghi l’atmosfera si era rilassata, specie per me, che mi ero posizionato in maniera strategica dalla parte opposta di Milo.

Ascoltando spezzoni vari di conversazione, incominciai a delineare un poco il background della famiglia Valavitis: il pater familias, non era, come pensai all’inizio, divorziato, bensì vedovo da quasi otto anni, anche se la causa del decesso della fu Madame Valavitis non riuscii ad afferrarlo; aveva poi incontrato Maman per caso ad una cena di lavoro, offrendole un passaggio a casa, dopo che lei fu scaricata brutalmente da un suo collega, quando aveva saputo, che la donna aveva un figlio adolescente sul groppo. Durante il tragitto di ritorno, mamma si era sfogata con lui e tra una confessione e l’altra, si erano scambiati i numeri di cellulari, seguito dal famoso refrain Ci sentiamo. Tuttavia, M. Christophe fu di parola: il giorno successivo la chiamò per davvero, chiedendole se voleva prendere una crêpe assieme a lui un sabato pomeriggio. Maman accettò ed eccoci qua.

Saga e Kanon, o Cip e Ciop come li soprannominava il padre (giurai di averli visti stringere convulsivamente il coltello a sentirsi così nominare, ma potrei anche sbagliarmi) studiavano entrambi all’estero, il primo psichiatria all’università di Münster, in Germania; il secondo economia e management ad Oxford, in Inghilterra. Ora si trovavano momentaneamente a casa, sfruttando il ponte degli Ognissanti e ciò dovette significare il ritorno di un poco di disciplina nel focolare domestico: M. Christophe di sicuro si faceva rispettare dai propri figli, tuttavia si assentava spesso, lasciando incustodito il posto di comando della nave; di conseguenza, i figli più piccoli ne approfittavano per battere bandiera corsara. Invece, Aiolia e Milo parevano più tranquilli alla presenza dei due gemelli, soprattutto davanti a Saga.

Di Aiolia conoscevo già abbastanza cose, visto che frequentavamo lo stesso liceo;  tuttavia, ignoravo, che il ragazzo giocasse a livello agonistico nella squadra giovanile di rugby di Mont-de-Marsan: infatti, la sua corporatura  sì forte, ma non robustissima, non mi pareva esattamente idonea ad uno sport molto fisico, quale appunto il rugby.  Aiolia mi spiegò, che, certo, un corpo resistente era necessario, specie nella mischia, ma non per il suo ruolo: lui era un tre quarti ala e il suo compito era di concludere rapidamente l’azione, segnando una meta, sfruttando il corridoio di corsa creato dai compagni nella mischia. Le ali erano quindi i giocatori più veloci della squadra e per questo, non dovevano essere tanto massicci, altrimenti, il loro stesso peso li avrebbe ostacolati nella corsa, facilitando il placcaggio da parte dell’avversario.

Quanto a Milo, non seppi nulla di nuovo, anzi, l’interessato non si unì quasi mai alla conversazione, fissando coscienziosamente il suo piatto in silenzio, perso nei suoi astrusi pensieri.

“Camus, vedo che hai già finito il petto d’anatra! Ne vuoi ancora?”, mi domandò ad un tratto Kanon, spingendo in avanti il vassoio ricolmo di cibo. “Ti è piaciuto? L’ho cucinato io!”

Che il petto d’anatra fosse davvero buono, non lo mettevo in dubbio; ciononostante, mi sentivo sazio, avevo mangiato anche più del dovuto. Fui quindi sul punto di declinare l’offerta, se un buffetto sulla coscia da parte di Aiolia non me l’avesse impedito.

“Ti conviene accettare”, sussurrò da dietro al tovagliolo, con il quale si stava pulendo la bocca. “È Kanon, quello che cucina in famiglia ed è molto suscettibile: rifiutargli il cibo equivale a una dichiarazione di guerra!”

Spiando di sottecchi il sorriso obliquo del gemello più giovane, mi servii diplomaticamente di una seconda porzione, chiedendomi come l’avrei finita, visto che non avevo sul serio più fame.

“Nônon”, gli disse Milo, parlando per la prima volta in tutta la cena “non sforzarlo: il signorino è a dieta!”

“Come?”, fu la sorpresa replica del fratello, che mi lanciò una veloce occhiata.

“Eh, sì. Non vorrai mica farlo ingrassare: guarda che ci tiene al suo vitino da vespa!”

“La dieta? Alla sua età, la dieta?”, ripeté Kanon, incredulo.

“Chi è che fa la dieta?”, s’intromise Saga, cercando con lo sguardo il colpevole.

“Perché fai la dieta?”, mi domandò invece Aiolia, incuriosito.

“Quale dieta?”, fece Maman, attirata dalla catena di domande, che si era inavvertitamente formata.

“Da quando sei a dieta?”, si accigliò Mamie, lo sguardo obliquo.

“Si parla di dieta, ora?”

Grazie alla brillante battuta del Demonio, mi ritrovai in un colpo solo tutti gli occhi della compagnia addosso e la cosa mi mise oltremodo a disagio, poiché non ero abituato a tanta attenzione nei miei confronti. Le uniche due soluzioni che mi si presentarono davanti furono: a) spiegare, che la mia era una dieta forzata, giacché Maman non si ricordava mai i soldi per la tessera della mensa; b) ficcarmi immediatamente un pezzo di anatra in bocca, smentendo subito ogni diceria.

E come sempre, optai per il piano B, causando un sospiro di sollievo nei convitati, sciogliendo quindi la tensione e rassicurandoli, che non avevano un anoressico a cena.

Il dolce, poi, fu fenomenale, la migliore crème brûlée, che abbia mai assaggiato, giuro! Anche quella era opera di Kanon e mi complimentai sinceramente con lui per la sua bravura ai fornelli.

“Ovvio, che Nônon cucina bene”, replicò Saga, contro ogni pronostico. “Altrimenti, come si tiene stretto Rhada, laggiù, in the fair country of Her Majesty?”, e si mise a ridacchiare sotto i baffi assieme agli altri due fratelli. Le guance di Kanon s’imporporarono violentemente e cercò vendetta nei confronti del gemello con una decisa gomitata sul fianco.

“Chi è Rhada?”, chiesi sottovoce ad Aiolia, il quale affondò ridendo il naso nella coppa.

La mia curiosità rimase insoddisfatta, poiché M. Christophe richiamò la nostra attenzione. “Sono contento, che voi ragazzi abbiate avuto modo di conoscervi e che vi stiate divertendo. Vedete, stasera Corinne ed io abbiamo organizzato questa cena, per comunicarvi una nostra importante decisione”, disse, stringendo la mano a Maman, che lo guardava adorante. Quanto a noi, eravamo piuttosto a disagio, ognuno sperando che quel che i genitori stavano per dire, non corrispondesse a …

“Ormai è quasi un anno, che vostro padre ed io ci frequentiamo”, continuò mia madre “E siccome, desideriamo fondare la nostra relazione su delle basi più solide e non su di un fallace flirt …”

“… abbiamo deciso di sposarci ad Aprile!”, annunciarono i due in coro.

Veloce, mi guardai attorno, per cogliere le varie reazioni dinanzi a tale dichiarazione shock: il cucchiaio di Saga cadde piuttosto pesantemente nella crema, spargendola sul tavolo; Kanon sputacchiò l’acqua, che stava bevendo; Milo si limitò ad alzare scettico il sopracciglio; Aiolia ed io spalancammo la bocca in perfetto sincronismo e mia nonna terminò la catena con un sonoro Boff!

Si volevano sposare? Questo significava, che ad Aprile quella peste bubbonica di Milo sarebbe divenuto legalmente il mio fratellastro?

“E non è tutto!”, proseguì M. Christophe, ignorando lo sconcerto, che regnava sovrano tra i commensali.

Che altro poteva esserci di peggio?

“Poiché mancano tanti mesi ad Aprile, ecco … vostro padre ed io abbiamo pensato, per aiutarvi a conoscervi meglio, di vivere assieme fino ad allora. Proporrei di venire a casa nostra; che ne dici mamma?”

Mamie ghignò verde, nel vedersi costretta a capitolare. Neppure il resto dei convitati brillò d’entusiasmo e comprendevo il loro disappunto: per uno che è sempre vissuto in città, la campagna equivaleva alla morte civile. Però, logicamente parlando, quella di Maman era la soluzione più sensata, dato che la nostra casa era provvista di un gran numero di stanze, troppe forse, per una famiglia composta da solo tre persone.

Sconfitti dinanzi all’evidenza, le dovute congratulazioni vennero fatte meccanicamente  e pure un brindisi alla nascita del nuovo nucleo famigliare.

Gli zombie di Romero sarebbero stati più vispi.

L’unico, invece, che se la rideva, era proprio Milo, gli occhi luccicanti di birbante malizia, che mi fissavano divertiti da dietro al bicchiere. E non riuscendo a sopportare oltre quello sguardo insistente, appoggiai il mio bicchiere e, scusandomi, mi diressi di gran fretta al bagno.

Una volta raggiuntolo, aprii il rubinetto dell’acqua fredda e mi sciacquai il viso e il collo, sentendomi, infatti, la testa girare: tra tutte le disgrazie che mi potevano capitare, quella di avere Milo in casa era la peggiore! Non bastava ritrovarmelo a scuola, nelle ore d’inglese e ginnastica? No, ora pure nella mia abitazione, l’ultimo mio vero rifugio rimastomi! Diavolo Maman, proprio del signor Valavitis ti dovevi innamorare?

“Tutto a posto, Ionesco?”, fece una voce alle mie spalle. Alzai di scatto il capo, trasalendo nel vedermi bloccato da dietro da Milo. “Delizioso digestivo, vero? A me veniva voglia d’applaudire a momenti!”

“Levati dalle scatole, Valavitis!”, gli intimai, cercando di scivolargli via, ma quel birbo mi afferrò saldamente per le spalle, tenendomi fermo davanti a lui, i nostri sguardi rivolti allo specchio del bagno.

“Uh, così freddi siamo nei confronti di tuo fratello? Mi spezzi il cuore!”, si lagnò falsamente ferito dalla mia invettiva.

“Fratellastro”, lo corressi a denti stretti, aumentando i miei sforzi per liberarmi da quella sgradita morsa. “Eppoi, non so cosa tu ci abbia trovato di divertente: la sola idea di vivere con te …”

“… ti ripugna, lo so. Non ho dimenticato la tua appassionata confessione al parco!”, mi canzonò, come se, al posto di avergli dichiarato il mio disprezzo per lui, gli avessi rivelato il mio amore. “Chissà che magari con il tempo non arriverai ad apprezzare la mia compagnia; a meno che una Vierge Marie [2] come te non abbia paura di essere irrimediabilmente sporcata da un essere disgustoso, come hai definito, con molta gentilezza,  il sottoscritto!” e rise ancora con quella sua risata gutturale, che mi riempiva ogni volta la schiena di brividi freddi. 

Scostandomi poi una rossa ciocca umida dietro all’orecchio, mi sussurrò terribilmente serio: “E nel frattempo, mi divertirò a renderti la vita un vero inferno, sia a scuola, che a casa, tu verras, Camus!”[3]

 

To be continued?

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Spero che vi sia piaciuto, fatemelo sapere e pardon, se è troppo lungo come primo capitolo!

A presto! Ciao!

 

Un po’ di noticine:

[1] Momus = nomignolo formato da Molinier e Camus. In Francia si tende molto spesso a contrarre le parole, per esempio: adolescent diventa ado e così via. Lo stesso vale per i nomi propri, a volte con molta fantasia. Quelli che ho affibbiato ai personaggi di questa fic sono basati sul suono predominante nel loro nome, in base, però alla fonetica francese. Di Saga mi pare la “S”, quindi ho scelto Sasà, con la “S” sorda, quindi una sorta di “ZS”; di Kanon la “N” e la “O” e siccome il suo nome francese è “Kanôn” voilà che diventa “Nônon”! Aiolia, invece, è “Iou – Iou”, giacché né “Lia”, né “Aio” mi parevano adeguati. Qual è quello di Milo? Oh beh, leggete il prossimo capitolo e lo saprete!

[2] Vierge Marie = letteralmente, “Vergine Maria”,  è un modo di dire francese, corrisponde al nostro “Santarellino /a”.

[3] Tu verras, Camus = dal francese, “Vedrai, Camus”

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Capitolo 2
*** Primi Issues da chiarire ***




Salut a tutti! Rieccoci qua con il secondo capitolo! Allora, prima d’incominciare il nuovo capitolo, un po’ di vocabolario d’emergenza, per delle parole che troverete nella storia:

Mec = è il moroso, il fidanzato;

Gonzesse = la morosa, la fidanzata;

Flûte = lett., sarebbe il flauto, ma per i francesi corrisponde al nostro “cacchio”;

Enfin = “insomma”, usato spesso anche come intercalare;

Chouchou = da chou, ovvero cavoletto. Corrisponde al nostro “ciccino” o “tesorino” o a qualsiasi interpretazione stucchevol – amorosa vogliate dargli;

Roastbeef = oltre ad essere una pietanza, questo è il nomignolo con il quale i francesi chiamano gli inglesi. Chissà perché, ci si offende sempre con il cibo: insomma; i francesi sono “mangiarane”; gli italiani “pastasciutta o mangiapasta”; i tedeschi “crauti” … boh …

Tiens = lett. significa “tieni”, usato a volte come esclamazione, corrisponde circa al nostro “Toh!”

Ta gueule = forma contratta di ferme ta gueule (chiudi la tua gola) corrisponde all’italiano “chiudi il becco!”

Mon oeil = lett. “il mio occhio”, è un’espressione ambivalente: da una parte, viene utilizzata, quando si vuole ironizzare, tipo “Sì, come no! Sicuro!”; dall’altra, segna un totale rifiuto: “Un corno!”

Cochon = maiale, usato per definire sia l’animale, che varie attività sconce;

Conneries = stronzate o cazzate, insomma, cose molto sciocche;

La ferme! = smettila!

Bordel = bordello, viene spesso utilizzato come esclamazione o imprecazione;

Putain / P’tain = il mestiere più antico del mondo …

Crétin geignard = cretino piagnucoloso;

Canard laqué = anatra alla pechinese, ricetta tipica cinese;

Le goûter = la merenda!

Minou (pronuncia minù) = gattino

Foi de … + nome = nei giuramenti corrisponde a “parola di …”

 

Basta, credo di averle inserite tutte, almeno quelle più ostiche, comunque per intuizione si capisce, per fortuna!

Un enorme ringraziamento ai miei lettori e recensori (cui per motivi di spazio risponderò alla fine del capitolo) e …

Buona lettura!

 

H.

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“Quindi, traslocheranno proprio questo pomeriggio?”, domandai a Maman, osservando infelice il mio café au lait.

“Esatto”, mi confermò lei, appoggiando la sua tazza, per attaccare il croissant al miele. “O meglio, si fermano da noi stanotte e il giorno successivo incominceremo il vero trasloco!”

“Ma non possono venire allora domani?”, mi lagnai, per nulla entusiasta dall’idea di avere subito in casa il Demonio e famiglia. “Come mai tutta questa fretta?”, fu la mia domanda retorica: ovvio che Maman voleva restare appiccata come una patella al suo nuovo e (a Dio piacendo) definitivo mec il prima possibile.

“Vedi, Momus, dobbiamo approfittarne ora, che Saga e Kanon sono qui, così ci possono dare una mano e finiremo prima!”, fu la pragmatica risposta di mia madre, nonostante avesse benissimo intuito, che io conoscevo il suo vero motivo e il modo con il quale cercò di nascondere il rossore del suo viso dietro alla tazza me lo confermò.

“Tzé! La nostra casa è ben fornita: che cosa devono portarsi di nuovo?”, affermai piccato, interpretando il trasloco come un’alterazione del mio territorio. Il che, sotto certi punti di vista, lo era: nuovi mobili, nuovi accessori, nuovi vestiti, nuovi inquilini avrebbero modificato l’equilibrio e il silenzio della mia abitazione, chissà arrivando perfino ad alienarmela.

“Mais enfin, Momus! Non lamentarti come un bébé di cinque anni! Ormai è deciso: vengono ad abitare da noi! Eppoi, prima inizierà la coabitazione, prima vi soppor- ehm, prima diverrete intimi!” e si ficcò diplomaticamente un pezzo di dolce in bocca, onde evitare ulteriori lapsus.

“Ma io non voglio diventare intimo con loro!”, protestò il detto bébé di cinque anni, specialmente con Milo: la sola idea mi fa vomitare!, conclusi mentalmente, affogando di malagrazia due canelés, per poi ingollarle quasi intere: flûte, il solo pensare a lui mi causava un nervoso epico, subito seguito da una fame altrettanto nervosa, specie di dolci, con sommo chagrin della mia glicemia.

“Zut, zut mon chouchou, ti abituerai presto: non sarà così terribile!”, fu l’ottimistico responso di Maman, ignorando che il Demonio mi aveva promesso di farmi assaporare le delizie dell’inferno proprio in casa mia e l’idea mi aveva tormentato per tutta la notte, tenendomi sveglio fin quasi alle quattro del mattino, tra incubi, congetture una più sadica e orrorifica dell’altra, tutto mischiato con il continuo refrain: ma che gli ho fatto, per meritarmi tale astio da parte sua?

Era una domanda che mi ponevo da quasi sette anni, in particolar modo in questi ultimi due: insomma, non ero popolare, anzi, se sparivo nessuno se ne sarebbe accorto; non ero una cima nello sport; non mi consideravo neppure tanto bello da attirare chicchessia; ero timido al parossismo, quindi non potevo avergli sottratto un’ammiratrice o peggio, la sua ragazza … L’unica cosa, nella quale brillavo era lo studio, ma sai che roba, visto che eravamo in corsi diversi, tranne che per inglese.

Boh.

Se si abituerà!”, s’intromise Mamie, intanto che sparecchiava. “Non è mai facile digerire nuova gente in casa!”, aggiunse ed io, per una volta, fui d’accordissimo con lei.

Appoggiando con insolita veemenza la tazza sul tavolo, mia madre le ricordò con stizza: “Senti Maman, sono anni, che mi tampini con le tue ansie, perché non trovavo un compagno, che mi amasse e che accettasse Camus e me!  E ora, che l’ho trovato, ti lamenti?”

Uh – uh, scontro mattutino tra le leonesse.

“Quando ti dicevo di portare a casa un uomo, intendevo letteralmente uno. Non cinque!”, sottolineò piccata Mamie, punta sul vivo, memore delle sue paranoie, circa la terribile prospettiva di vedere sua figlia irrimediabilmente zitella, marchiata a vita come intoccabile, per via del figlio a carico, unico ricordino rimastole del fedifrago compagno.

“Tecnicamente, sono in tre, visto che Saga e Kanon saranno a casa solo per le vacanze!”, ribatté Maman impassibile, per nulla intimorita dalla frecciatina di Mamie.

“Certo! Portando magari qualche loro amichetta, trasformando così questo luogo morigerato in un bordello!”, sentenziò offesa l’augusta genitrice. Bordello? “Già uno mi pare sia imbrigliato con una ragazza, una roastbeef tiens!”

Ah, ecco allora chi era Rhada: era la fidanzata di Kanon!

Scrollando le spalle, la di lei figlia replicò serafica: “Boh, des conneries ça … oh, merde … di già le undici e mezza? Devo arieggiare le stanze e preparare i letti! Momus, vieni a darmi una mano!”, imprecò, ingollando a grandi sorsi il café au lait rimasto. “E fai qualcosa per quel maledetto gallo, ché è tutta la notte che rompe, neanche gli avessero dato una purga!”, disse alla nonna, prima di sparire fuori dalla cucina.

“Ta gueule! Non toccarmi Jean – François!”, le inveì contro Mamie, la quale era affezionatissima a quella dannata bestia, la quale si divertiva a ricordare la sua misera e inutile esistenza a tutto il pollaio e a noi, non solo di giorno, ma anche di notte a scapito del nostro sonno. Enfin, io ci sono ormai abituato, tuttavia un estraneo …

Un sorriso maligno s’increspò sulle mie labbra, immaginandomi sadicamente la faccia stravolta, che il Demonio avrebbe avuto la mattina successiva, dopo aver sopportato l’intero repertorio di gorgheggi di Jean – François! Mentalmente, mi appuntai di scattargli pure una foto.

“Camus Molinier, viens ici, maintenant!”, mi chiamò urlando Maman, il cui tono scocciato non concedeva ulteriori ritardi al suo imperioso appello!

Sbuffando, mi alzai dalla panca, sistemando la tazza e il cucchiaio nel lavabo, intanto che Mamie sciacquava le altre stoviglie, prima di metterle nella lavastoviglie.

“Umphf, greci in casa nostra!”, la sentii borbottare, osservando preoccupato la foga con la quale puliva un coltello, che mi puntò all’improvviso contro, facendomi balzare indietro di riflesso. “D’ora in avanti, ti consiglio la notte di chiudere a chiave la tua stanza, giusto per sicurezza!”

Forse avrei dovuto, sì. Di certo, non era il mio sogno proibito, di essere picchiato di notte da Milo, mentre dormivo, nel mio letto!

 

***

 

Dopo aver riordinato, ventilato e arredato con lenzuola pulite ben quattro stanze da letto (figurarsi se Maman ci riusciva da sola), mi rintanai nella mia cameretta, buttandomi sfinito sul letto, osservando come ipnotizzato l’orologio appeso alla parete, simile a un prigioniero della Conciergerie, che attendeva la carretta per essere portato a Place de la Concorde e lì ghigliottinato.

Ancora mezz’ora e il Demonio sarebbe arrivato, rendendomi amara la vita, almeno fino alla fine dell’anno scolastico e magari oltre.

Ancora mezz’ora e sarei stato costretto a chiamare Papa e fratelli, gente a me estranea e sconosciuta.

Ancora mezz’ora e l’invasione greca sarebbe infine incominciata e non c’era nulla che potessi fare per impedirlo.

Quando vidi la lancetta appropinquarsi alle quattro, un crampo doloroso mi attorcigliò lo stomaco, sconquassandomelo; flûte, neppure all’esame per il diploma del collège ero stato così in ansia! Veloce, afferrai da sotto il letto il barattolo maxi di Nutella, ingoiando spudoratamente e à la cochon grosse cucchiate della crema marrone, sperando di calmarmi e che l’effetto della cioccolata mi desse quelle poche endorfine necessarie, per sopravvivere al pomeriggio e alla serata.

La pendola del salotto batté le quattro del pomeriggio con l’entusiasmo di un carillon in rottamazione, eppure riuscì a farmi quasi saltare giù dal letto; avevo i nervi ipertesi, pronti a captare il fatale squillo del campanello.

Invece, fummo deliziati da quello del telefono.

Scesi in fretta dalle scale, raggiungendo l’apparecchio e mettendo il vivavoce, acciocché Maman potesse ascoltare la conversazione e allo stesso tempo finire di sistemare le goûter sulla tavola. “Bonjour, qui Corinne Molinier!”, salutò meccanicamente, contando sovrappensiero le tazze per la cioccolata calda.

“M.lle Corinne? È lei? Ci sente?”, domandò incerta la voce di quel che mi pareva essere Saga, mezza coperta dal rumore del motore e dai concitati commenti degli altri passeggeri.

“Giriamo da tre quarti d’ora, bordel, tre quarti d’ora!”, sentii borbottare Aiolia. “Ma dove vive? Nella giungla? Dov’è quest’uscita della malora?”

La voce scocciata (e con un pizzico di esasperazione) di Kanon lo ammonì pericolosamente. “Silenzio, patacca: chi è che si è dimenticato l’indirizzo, eh?”, cui il fratello minore si ribellò, rigirandogli con abilità la frittata:

“Ah ouais?  E perché neppure tu te lo sei ricordato? Cos’è, hai il troppo cervello pieno di Rhada - chouchou?”

“No! No, la ferme, Kanon, non qua!”, protestò Milo, in quale, molto probabilmente, doveva essere seduto in mezzo ai due litiganti. “Se gli vuoi spezzare le ossa, fallo quando siamo arrivati, non qui e soprattutto, non con me tra voi due!”

Sono un genio!, avevo indovinato!

Ascoltando perplessi la grottesca conversazione, Maman ed io ci chiedemmo se per caso non fosse meglio prendere in mano la situazione, incominciando dal domandare se …

“M.lle, temo che ci siamo persi …”, riuscimmo finalmente a sentire il flebile responso di Saga, subito messo a tacere dal sarcastico commento del terzo fratello minore.

“Brillante deduzione, Sasà!”

“Lo sai, Milo, che il sarcasmo è la forma più bassa d’intelletto?”

“Mouais, però almeno io ne posseggo un poco; quanto a te … uhm … ho i miei dubbi …”

“Saga! No! La ferme! Non in macchina: non vorrai mica sporcare la tappezzeria? E tu, taci per una volta, mi vuoi fare questo favore?”

“Solo se baci Iou – Iou sulla bocca!”

“Milo!”

“Tu …”

“La ferme tutti e quattro o appena arrivati, vi faccio passare un brutto quarto d’ora, putain de bordel de merde!”, s’impose alquanto irritato il pater familias, imprecando pesantemente e sottraendo al primogenito il prezioso cellulare.  Nessuno osò più fiatare. “Pronto Corinne?”

Avvicinandosi timorosa all’apparecchio telefonico, quasi temesse di essere coinvolta in quell’intimo – per così dire – scambio d’idee tra fratelli, Maman rispose: “Ehm … Christophe? Dove siete?”

“Eh, perbacco, c’est la question ma très chère demoiselle !”, bofonchiò Milo mezzo soffocato, evidentemente ancora prigioniero dell’abbraccio di Kanon – boa constrictor.

“Siamo in autostrada, ma non riusciamo a vedere l’entrata per casa tua!”, c’informò M. Christophe a disagio, quasi si sentisse in colpa; poveraccio, non era così: ignorava quanta gente si fosse persa prima di loro, per venirci a trovare, io in primis, quando venni iniziato alla nobile arte della guida.

Raccogliendo le idee, Maman gli domandò: “Uhm … precisamente, dove siete? Voglio dire, ci sono dei cartelli specifici?”

Un mormorio ci svelò, che il clan si stava consultando. Infine il portavoce, il pater familias,  annunciò: “L’ultimo visto era quello di un ristorante …”

“Il nome?”

Altra consultazione e poi, finalmente il nome. “L’abbiamo appena superato di … due kilometri, credo …”

Ahia, la prossima risposta di Maman non li sarebbe di certo andata a genio. “Mais alors, siete arrivati: ancora cento metri e vedete sulla sinistra un cartello per dare la precedenza; girate e procedete per altri duecento – trecento metri avanti, poi girate ancora sulla sinistra e siete da noi!”

Silenzio imbarazzante.

Tuttavia, il rumore meno ovattato della strada, interrotto dallo scricchiolio dei sassi e dei rami che la ricoprivano, ci rivelò, che i nostri ulissi avevano imboccato l’uscita giusta.

Quand’ecco che un urlo, che sembrava provenire dalle profondità stesse dell’inferno e un brusco stridore dei freni interruppero la pace del viaggio. E la nostra: Oddio, che era accaduto?

“Aaaaahhhhhhhh!!!!!!!!!!”

“Putainnnnn!!!!!!!!!!!!!”

“Bordellllllll!!!!!!!!!!!!!”

“Merdeeeeeeeeee!!!!!!”, furono le grida belluine e disperate, che udimmo, anzi, che ci trapanarono le orecchie, provocandoci a momenti un arresto cardiaco.

Poi, un inquietante silenzio.

“Christophe? Che è successo? Christophe?”, il tono di Maman aveva assunto una piega isterica. “Christophe? Tutto a posto?”

 E mentre mia madre era impegnata a cercare segni di vita del suo mec, io mi portai alla finestra: il rumore della frenata mi era parso piuttosto vicino, forse non erano tanto distanti da noi … E, infatti, scrutando con il cannocchiale, potei intravedere, ben celati dalle fronde degli alberi, una sagoma scura immobile in mezzo al sentiero.

“Saga!”, sentimmo all’improvviso, anche se in maniera ovattata: evidentemente, il cellulare doveva essere caduto per terra, durante il brusco arresto della vettura. “Crétin geignard! Dovevi proprio urlare come un porco sgozzato?”

Yuk, orribile immagine!

“Volevi forse, che Papa investisse il povero leprotto?”

“Mon oeil, povero leprotto! Mi hai appena accorciato la vita di dieci anni, animal stupide!”

“Ma va’ a cagare, Nônon!”

“Eh guarda, con lo spavento che mi hai fatto prendere, credo che mi sia proprio venuto lo stimolo!Tu e le tue convinzioni animaliste!”

“Taci, canard laqué! L’importante è che siamo riusciti a risparmiare una vita innocente!”

“Ehm, veramente …”, s’intromise Aiolia, che doveva aver aperto il finestrino. “Temo, che l’abbiamo preso in pieno …”

“Cheeeeee?”, strillò M. Christophe, riprendendosi dallo shock e uscendo rapido dalla vettura, subito imitato dalla maschia prole. “Seigneur, dritto sulla ruota; gli ha spezzato l’osso del collo!”

“Beh, almeno non ha sofferto …”

“Messieurs, stasera lepre alla cacciatora!”

“Milo! Espèce de sauvage!”

“Cosa? Mica vorrai lasciarla qua? Eppoi, sai che buona, che viene con i funghi e il purè?”

“Non hai tutti i torti …”

“Kanon, non ti ci mettere pure tu, eh?”

Maman ed io ci guardammo interrogativamente negli occhi, incerti se ridere o piangere per la tragicomica situazione, cui avevamo assistito in diretta via cellulare. Beh, almeno non avevano avuto un incidente, il che era un sollievo (per mia madre).

Quanto a me, la gustosa scenetta dell’alterco tra i fratelli mi aveva calmato i nervi, facendomi dimenticare l’ansia, che mi aveva roso fino a quell’istante il fegato.  E preda di un inaudito slancio di generosità, mi offrii volontario per andare a recuperare i naufraghi e, ovviamente, la cena.

 

***

 

Le goûter venne consumato nel silenzio più assoluto; evidentemente l’imbarazzo di essere stati uditi in un momento di debolezza metteva la famiglia Valavitis, la mia futura famiglia, a disagio ogni oltre dire. Fortuna che il dolce allo yoghurt di Mamie e la cioccolata calda avevano fatto la loro parte, riempiendo diplomaticamente la bocca, impedendo così commenti non necessari.

Per quel che riguardava la vittima del delitto, essa era già pronta per essere una delle portate principali di stasera e dalle occhiate assassine tra Kanon e Mamie, intuii una prossima guerra per il predominio della cucina e sulla preda in questione.

E, infatti, per alleggerire la tensione, che alleggiava come una nuvola di smog sopra di noi, Maman m’invitò ad accompagnare i miei fratelli alle loro nuove camere.  Come un martire, mi alzai e, sfoderando l’espressione più entusiasta che potei, li feci cenno di seguirmi. Aiolia mi fu accanto subito, incuriosito da vedere la sua stanza, mentre il Demonio ci mise il suo tempo, restando indolentemente dietro. Saga, invece, si offrì di aiutare Maman e M. Christophe a portare le valigie di prima necessità.

Gli unici rimasti in cucina furono Mamie e Kanon, i quali continuarono a fissarsi in cagnesco, impegnati in una tacita contesa del territorio. Il primo a parlare fu il minore dei gemelli, che, impirando l’ultima fetta di dolce nel suo piatto, dettò la sua condizione: “La lepre e il dolce.”

Lentamente, Mamie appoggiò la tazza di cioccolata sul tavolo. “Mi pare equo. E apparecchi la tavola”, dichiarò solenne, spostando verso Kanon la chicchera vuota, che il giovane riempì con il caldo liquido, segno che il patto era stato sancito in comune accordo tra le due parti.

Scuotendo rassegnato la testa, Aiolia, Milo ed io salimmo al piano superiore, il quale era diviso in tre stanze, collegate tra loro da una sorta di studiolo al centro, dove volendo, si poteva lavorare assieme. Guidai Aiolia nella camera mediana, rimanendo piacevolmente sorpreso, quando vidi il volto del più piccolo dei Valavitis illuminarsi di piacere.

“È di tuo gusto?”, gli domandai, gongolando fieramente come un riccio in fase digestiva. Chi se la sarebbe mai aspettata una reazione così entusiasta?

Appoggiando per terra il suo zaino, il ragazzo si mise a girovagare per la camera a naso all’aria, ancora incredulo che fosse riservata a lui. “Non ho parole … davvero … Flûte, non ho mai avuto una stanza tutta mia!”

“Ah no?”, feci incuriosito, sedendomi ai bordi del letto. In effetti, per quanto spazioso, il loro appartamento in centro era oggettivamente piccolo, per una famiglia così numerosa.

Imitandomi, Aiolia mi confessò: “Ho incominciato ad avere una stanza mia, solo quando Sasà e Nônon sono partiti per l’università; prima, la dovevo condividere con Milou e credimi, non sai quante volte mi sia venuta la tentazione di soffocarlo nel sonno!”

Ridacchiai sommessamente, contento che eravamo almeno in due a non sopportare la Fauve, la bestia. Oh, ecco che gli avevo trovato un nuovo soprannome! E a proposito, com’era che il fratello lo aveva appena chiamato?

“Milou?”, ripetei piano, sperando di aver capito bene. Allora, era quello il suo personale nomignolo?

“Sì Milou, perché quand’era piccolo Maman diceva che lui assomigliava a un minou!”, affermò candidamente Aiolia, osservando poi un po’ sconcertato un me stesso rotolare dalle risate su per il letto, come un furetto imbottito di caffeina. Oddio, che immagine si era formata nella mia mente: Milo simile a un gattino! Miao!

Improvvisamente, la risata mi morì in gola: un momento, dov’era la Fauve? L’ultima volta, che l’avevo visto, era dietro di me! Balzai invasato giù dal letto sotto lo sguardo attonito di Aiolia, il quale, molto probabilmente, si stava domandando a che livello arrivasse la mia sanità mentale, da correre via ululando il nome del fratello.

Spalancai la camera sulla mia sinistra, quella assegnata a Milo, sperando di vederlo lì; invece, la trovai terribilmente vuota. Quasi in preda alle convulsioni a causa dell’orribile prospettiva di vedermelo in camera mia, volai nella suddetta stanza, sospirando di sollievo nell’appurare, che anch’essa era vuota.

Sempre con il fiato corto e i nervi a fior di pelle, per lo spavento appena provato, mi lasciai cadere pesantemente sul letto, imponendomi di calmarmi: di certo, quel Demonio era da qualche altra parte, inghiottito o dalla casa o dal bosco, che avevamo per giardino. Non avevo nulla da temere, tutto era a posto …

Ma allora, cos’era quell’Ouch!  che sentii non appena il mio corpo ebbe toccato il materasso?

Lentamente, mi sistemai in ginocchio su di esso, osservando ipnotizzato il suo bordo, sperando che la belva non fosse … Facendomi coraggio, mi sporsi oltre il letto, alzando il piumino e, dopo un sentito Fa’ che non sia, dove penso che sia, guardai sotto il letto.

L’inattesa vista di due iridi cerule illuminate di pura birbanteria e un Buh!, urlato in faccia mi fecero cadere arlecchinescamente all’indietro a gambe all’aria, intanto che Milo usciva stile marine da sotto il mio letto. “P’tain, Valavitis!”, imprecai, la pressione a mille sia per lo spavento preso, che per la collera montante. “Che accidenti ci fai lì sotto? Chi t’ha invitato?”

Scrollandosi ineffabile un poca di polvere dai jeans, il diretto interessato rispose flemmatico, quasi fosse normale e moralmente accetto strisciare sotto i giacigli altrui: “Stavo cercando i tuoi giornaletti porno, sai, in caso d’insonnia …” Prima che potessi replicare, offeso a morte da simile oltraggiosa supposizione – io, leggere dei magazine cochon? – Milo riprese: “Invece, ho trovato …” e s’inginocchiò, tirando fuori il suo bottino “I falsari, di André Gide; I Buddenbrook, di Thomas Mann; un più venale Persepolis, di Marjane Satrapi … uhm, hai buon gusto …”, commentò, sfogliando i suddetti libri “Tutti con lo stesso leitmotiv: la famiglia …” e mi lanciò un’occhiata obliqua, alla quale, per ripicca non ricambiai. Sghignazzando, la Fauve riprese: “Ma ciò, che mi ha colpito di più è questo: bravo il nostro birbo! Facciamo gli schizzinosi a tavola, però non disdegniamo les joies della Nutella, eh? Maxi barattolo, poi!” e mi sventolò trionfante la Nutella sotto il naso, che tentai invano di afferrare. “Uh, Maman sarà deliziata nell’apprendere che il suo Momus chèri si avvelena con queste schifezze!”, mi canzonò, utilizzando l’esatto termine di mia madre: mica l’avrà ascoltata sul serio, nella sua invettiva contro la Nutella e il McDo?

Ricomponendomi in fretta, replicai freddamente: “Ebbene, Valavitis, arriva al punto!”

Un sorriso malevolo gli attraversò il viso. “Il punto, Ionesco? Il punto è che ora vado ad informare tua madre!”

Alzandomi dal letto, mi avvicinai a lui, pronto a dare battaglia per la salvezza della mia Nutella. E del mio scalpo: se Maman lo veniva a sapere, avevo finito di stare bene. “Non ne avresti il fegato!”, lo sfidai gelido, sperando di persuaderlo nel desistere dall’impresa kamikaze: perché se finivo nei casini per causa sua, quant’era vero che il gallo Jean – François era un gran rompipalle, la Fauve non la passava liscia! Foi de Camus!

“Ah, ouais?”, mi chiese sornione Milo, piazzandosi davanti a me, i suoi occhi azzurri puntati sui miei con assassina insistenza. “Mettimi alla prova!”, mi soffiò, il suo naso a qualche centimetro dal mio, facendomi deglutire a disagio; tuttavia, mi rifiutai di abbassare lo sguardo: gli sarebbe troppo piaciuto. E stranamente, il ragazzo sembrava piuttosto divertito da questa mia reazione. Bestia! “Ma sarò generoso con te, Ionesco, ti proporrò uno scambio, va bene?”, disse, facendo quasi le fusa, come una tigre del Bengala, che si pregustava l’imminente pasto. Non dissi nulla, temendo di convincerlo, che ero disposto a cedere alle sue malsane trattative. Interpretando il mio silenzio come un incentivo a continuare, il Demonio dettò le condizioni del patto faustiano: “Io non dico niente a Corinne dei tuoi peccati di gola …” e si strinse più presso a me, tanto che potei sentire il battito del suo cuore, lento, mentre il mio pareva un tamburo di guerra: bon sang, quanto odiavo, essere messo con le spalle al muro, da lui poi! “… e tu …”, riprese con esasperante lentezza, portando il suo viso vicino al mio e in quel momento maledii il destino di essere qualche centimetro più basso di lui. “ … tu, Molinier Camus …”, mormorò al mio orecchio; giurai d’aver percepito un brivido scendermi per la schiena “… mi cedi la tua camera!”

Puntandogli le mani contro il petto – troppo vicino, per i miei gusti – lo spinsi indietro, schiaffandogli tutta la mia indignazione. “Mon oeil, che ti prendi la mia stanza, bon sang! Ce ne sono tante in giro per casa, pigliati quella che più ti piace, ma la mia è T-A-B-U’!”

Per nulla toccato dalla mia vivace protesta, Milo dichiarò tranquillo: “Ah, d’accord. Peccato, volevo venirti incontro. Allora, porto questa a Corinne, ça va?”

Decisi di cambiare strategia: se fingevo, che la cosa non mi toccava (invece mi toccava, eccome!) forse la Fauve avrebbe desistito nella sua impresa ricattatrice. Piano un po’ garibaldino, ma c’era la mia camera in palio. “Fa’ quel che vuoi, Valavitis: portala a mia madre; buttala giù per il cesso; mangiala … je m’en fiche!” e mi levai da sotto gli incisivi la punta del pollice [1] , aggiungendo pure un sorrisetto di sufficienza, come ciliegina sulla torta.

Milo mi guardò a lungo, come se fossi una bestia rara o incredibilmente stupida o con tendenze suicide (o forse entrambe le cose), girando pigramente l’indice sul coperchio bianco del barattolo della discordia. Infine, sospirando, lo abbassò e per la prima volta in vita mia, osai sperare di aver ottenuto una qualche forma di vittoria nei suoi confronti.

Sicuro: e Shaka ballava il cancan senza mutande!

“Corinne!”, chiamò ad alta voce Milo in direzione delle scale. Più ratto di un ghepardo, mi fiondai sulla porta, sbattendola di malagrazia e chiudendola a chiave. “Ionesco, cos’è quella faccia? Non avevi detto, che potevo farne quel che volevo?” disse, ridendosela sotto i baffi e, spostandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio, aggiunse, il tono della voce più freddo e pragmatico: “Vorrei questa stanza, perché hai il bagno privato ed io non me la sento la mattina di entrare in camera tua, aspettando mille anni, che tu finisca i cavoli tuoi. Del resto, non desidero neppure scendere nel bagno di sotto, con Papa e Corinne che faranno i piccioncini nella doccia!”

“Cos’è, una scusa per giustificare il tuo ricatto?”, gli rinfacciai, dimenticando che ero solo con il Demonio e con la porta chiusa a chiave, ergo indifesa preda dei suoi istinti vendicativi.

Milo scrollò le spalle. “Chiamala come vuoi. Accetti?” e si rimise a fissarmi con insistenza. Sbattendo sconfitto il pugno sul legno della porta, mi diressi a grandi falcate verso il mio letto, afferrando rabbioso il pigiama e incominciando a levare la federa del cuscino, quando il greco m’interruppe, spaesato: “Che fai?”

“Che faccio?”, ripetei sarcastico, le mani che mi tremavano dalla voglia di strangolare quel dannato biondino. Merde, era appena da due ore in casa mia e già dettava legge, anzi, mi dettava la sua legge! “Visto che ti cedo la stanza, dovrò pur portarmi via il mio pigiama e le mie lenzuola, no?”, sputai veleno, ponendo un forte accento sugli aggettivi possessivi.

Dopo aver appoggiato il barattolo colpevole sulla scrivania, Milo mi allontanò dal letto, lasciandomi in mano solamente il pigiama da notte. “Pigliati quello, il resto lascialo.”

“Che? Vuoi dormire sulle mie lenzuola?”, l’accusai con tono da lesa Maestà.

Scostando con un ampio gesto le coperte e controllando attentamente il materasso, il ragazzo mi chiese accigliato: “E perché no? Cos’è, ci sono ancora delle tracce dei tuoi solitari sulle lenzuola?”

“Uhm?”, feci poco elegantemente, sbattendo le palpebre a dir poco confuso. “I solitari? Mica gioco a carte di notte, sai?”, affermai piccato: ma che razza di domande mi poneva?

“Ma non mi dire …”, mormorò malizioso il Demonio, causandomi un pericoloso arricciamento dei capelli dalla rabbia e non riuscendo più a sopportare quell’aria da sfottò dipinta in viso, gli domandai dolce come una leonessa a digiuno:

“Perché tu sì?”

“Eccome!”, mi rispose anche fin troppo entusiasta, gli occhi due fari di birbanteria. “E ben altro!”

Stavolta, inquisii più per curiosità, che per ripicca: “Ah ouais? E che fai, oltre al solitario?”

Avvicinandosi a me con le mani in tasca e ridacchiando furbescamente, Milo dichiarò divertito: “Scopa!”

Pausa di riflessione, onde captare i vari significati della battuta. Risultato: encefalogramma piatto.

Scopa? Di notte? Boh, di sicuro ci giocava con Aiolia, ché quello non era un gioco a uno. “Se ogni tanto vuoi venire a fare una partitina, be my guest, come direbbero in Inghilterra!”, aggiunse il ragazzo, partendo all’esplorazione del bagno, dopo avermi fatto l’occhiolino. Che si fosse dato alle gioie della cannabis?

Scrollando le spalle, aprii l’armadio per acchiappare i miei vestiti per il forzato trasferimento. “Perché t’ingozzi di cioccolata?”, mi domandò poi a bruciapelo la Fauve dal bagno.

“Perché non ti fai gli affaracci tuoi?”, ribattei io, mentre lottavo per non finire sommerso dai miei stessi indumenti.

Instancabile, il greco ritornò nella mia camera, appoggiandosi al muro. “Non è una risposta. Allora, perché?” e il tono mi parve, per un folle istante, addirittura serio. Ma no, che andavo a pensare! Figurarsi se quel dannato poteva essere per davvero interessato alla mia salute. Dinanzi alla mia mancanza di collaborazione, Milo riprese: “Lo sai, dicono che chi si strafoghi di cioccolata non sia altro che una persona sessualmente frustrata!”

Arrossendo furiosamente per la sgradita congettura  sulle condizioni della mia vita intima, replicai gelido: “Tzé! Dicono anche che mangiare frutta e verdura guarisca dal tumore alla prostata! Conneries, nient’altro che delle conneries!” e mi avviai spedito alla porta, armeggiando maldestramente con la chiave.

Afferrando al volo tre capi d’abbigliamento, che mi erano scivolati, Milo commentò ilare: “T’as raison!”, e mi aiutò a uscire dalla mia ex, alas, stanza.

 

***

 

La serata scivolò via piacevolmente, contro ogni pronostico. La sfida culinaria tra i due contendenti si risolse in un onorevole pareggio, anche se dovetti ammettere che il tiramisù di Kanon valeva un extra bonus.

 L’argomento principale della conversazione a tavola fu il mio improvviso trasloco di camera, notizia alla quale risposi serafico che sì, avevo accettato la proposta indecente di Milo, poiché quest’ultimo aveva la vescica debole e di conseguenza, necessitava della toilette ogni tre minuti.

L’incontinente in questione non reagì alla mia pubblica provocazione, anzi, la confermò, lodando il cielo di aver ricevuto un fratellastro così comprensivo e dolce come il cioccolato.

Bastardo!

 E se Maman e M. Christophe interpretarono la vicenda in chiave positiva, ovvero che il Demonio ed io incominciassimo finalmente a familiarizzare l’uno con l’altro; i di lui fratelli lo crocifissero con lo sguardo, immaginando a quale tiro mancino mi avesse sottoposto quella peste bubbonica di Milo, che ricambiò con un’espressione da Bernadette.

Terminata la cena e tre fette ciascuno di tiramisù, ci alzammo da tavola, lasciando l’incombenza di sparecchiare e pulire ai due neo piccioncini, fin troppo desiderosi di averci fuori dalle scatole, onde godere di un attimo di intimità.

Conquistammo dunque il salotto e ognuno si ritagliò un suo posticino: Mamie sfidò chiunque a sottrarle la sua poltrona preferita dinanzi la televisione, che accese per sentire il telegiornale; le tre Marie, ergo Aiolia, Milo e Kanon erano immersi in una concitata partita a Uno, i primi due distesi comodamente sul pavimento e il terzo stravaccato sul divano. Saga, invece, si era sistemato su di un tavolo in un angolo del salotto, immerso in una torre di Pisa tra libri e quaderni degli appunti.

Attirato dai miei amori cartacei, mi avvicinai silenziosamente al giovane, sedendomi accanto a lui, la morbida testa pelosa di Fred in grembo.

Per chi non lo sapesse, Fred era il mio cane, un bellissimo e coccolone pastore tedesco di tre anni, che mi seguiva dappertutto, tranne che in camera, dove gli era stato insegnato di non entrare, giacché raramente le sue zampe erano modello di pulizia.

Rimasi in contemplazione dei libri per quasi mezz’ora, tentando di leggiucchiarli dall’alto del mio B2 in tedesco e nonostante la mia buona conoscenza della lingua, dovetti inginocchiarmi davanti alla bravura di Saga nel comprendere testi sì difficili e soprattutto di prendere complicati appunti parola per parola. Osservai affascinato come quegli incomprensibili caratteri cuneiformi si trasformassero nel quaderno ufficiale in un fluente e preciso fiume di parole, arricchito ogni tanto da qualche grafico e schema riassuntivo.

“Yo, Sasà!”, lo chiamò Milo da dietro al divano. “Molla il tuo grande amore Freud e vieni a giocare un poco con noi!”

Levandosi gli occhiali da vista – approfittandone quindi per una mini pausa, onde riposarsi gli occhi – Saga ribatté tra lo scocciato e il divertito: “Non ti conviene, Milou” e giurai d’aver visto il porpora nelle guance della Fauve. “Perché se vengo a giocare a carte, ti traumatizzerei a tal punto, da persuaderti ad affogarti nel gabinetto, senza il bisogno di tirare lo sciacquone!”

“Cattivo!”, fece finto offeso il ragazzo “Sei un bel tomo, sai? Sparisci per un anno in Germania e quelle poche volte che torni, incolli subito il tuo bel naso sulle pagine dei tuoi libri della malora! Su, Sasuccio, vieni a passare un po’ di tempo con la tua famiglia!”, lo provocò scherzosamente, ritornando al gioco.

Il diretto interessato scosse il capo, inforcando di nuovo gli occhiali e riprendendo il lavoro interrotto dal fratello discreto come una iena.

“Saga”, gli chiesi piano, dopo averlo lasciato ricopiare gli appunti in santa pace per quasi mezz’ora. “Come mai hai scelto di studiare psichiatria? In Germania, poi!”

Il gemello più grande alzò gli occhi dal foglio, sorpreso dalla mia domanda così inaspettata. Poi, riconobbi il lampo birbante nelle sue iridi azzurre – doveva essere un tratto di famiglia – quando, facendomi cenno di avvicinarglisi, mi domandò con fare cospiratorio: “Sai mantenere un segreto, Camus?”  e alla mia risposta affermativa, confessò: “Ho intenzione di prendere una laurea in psichiatria, così posso imbottire Milou di psicofarmaci, zittendolo almeno per una settimana di fila!” e imitò l’espressione di uno rintronato dai suddetti medicinali.

Ridemmo assieme di gusto alla battuta e dovetti ricredermi su di lui: in fin dei conti, Saga non era così serioso, come mi era apparso all’inizio. Inoltre, il fatto che riuscisse a domare quella bestia di Milo gli faceva guadagnare extra punti.

Il giovane continuò a ricopiare i suoi appunti fino alle nove e mezza di sera, quando, dopo l’ennesimo appello dei fratelli, si decise ad unirsi a loro.  Della serie: o li sopprimo o li accontento.

“Dunque”, annunciò Saga ad alta voce, chiudendo il quaderno e levandosi definitivamente gli occhiali. “Chi è che osa affermare di essere più bravo di me a carte? Partita a scala quaranta?”e il suo sguardo leggermente miope si fermò su uno a caso dei suoi fratelli – Milo – che ricambiò alla sua sfida con altrettanto trasporto ed entusiasmo. “Ci puoi scommettere le mutande, Sasà!”

“Eh – eh, attento a non perdere le tue, mon minou!”, fu la risposta sorniona del fratello e fu di parola: ci stracciò vergognosamente, vincendo due partite su tre. E com’era ovvio immaginarsi, i fratelli gridarono al baro, gettandosi addosso al “colpevole” e lo perquisirono a suon di solletico, in cerca di carte compromettenti.

E osservandoli, non potei non trattenere un timido sorriso, invidiando un poco la loro complicità e domandandomi, se un giorno anch’io vi sarei stato incluso.

“E ora perquisiamo Camus!”, propose Kanon sogghignando; i tre fratelli furono istantaneamente d’accordo e in un battito di ciglia mi ritrovai vittima del peggior solletico mai sopportato in tutta la mia vita, finendo per scalciare poco dignitosamente come un bébé appena nato, arrivando perfino alle lacrime, da quanto ridevo.

Ritiro tutto! Ritiro tutto! Non voglio la loro complicità! No, no!

 

 

 

To be continued …

 

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[1] Il termine Je m’en fiche, equivale al nostro “me ne frego”; in Italia, il gesto che sottolinea tale stato d’animo è uno strofinamento dell’indice sotto al mento, in Francia, invece, si porta la punta del pollice sotto gli incisivi, per poi levarla bruscamente, imitando un poco il gesto di levarsi l’unghia.

 

ORA AI MIEI RECENSORI:

 

A Kiki May: cattivissima? Eh – eh, sarà la mia gemella malvagia! Non so perché ho voluto creare un Milo così “oscuro”, io sarei per un Milo puccioso e invece, no, in questa fic il nostro scorpione preferito è stato attirato dal Lato Oscuro del Cosmo! ;-)  Sì, in qualche maniera perversa, le basi per un grande amore ci sono, ma si evolveranno o i due si disintegreranno prima a vicenda? Saga che studia psichiatria è stata una trovata all’ultimo momento, volevo fargli studiare chirurgia (sai, piccola passione per i coltelli e bisturi …) e invece … Beh, Kanon non ha tutti i torti: gli uomini si prendono per la gola! Grazie per la recensione, ti aspetto al prossimo capitolo! Ciao!

A Clayre: dovresti davvero visitarla la Francia, non solo le grandi città: la provincia è un mondo totalmente diverso, te l’assicuro! Eh – eh, promette bene come famiglia? Di certo, sono molto rumorosi, ma che vuoi, quattro fratelli + il nuovo fratellastro … una vera masnada. Eh sì, Milo ha tirato fuori il suo aculeo e si diverte come un matto ad usarlo (nessun doppio senso è contemplato in questa frase). Allora, contenta del nomignolo? Non è puccioso Milou? Grazie per seguire la storia, ti aspetto al prossimo capitolo! Ciao!

A Sagitta72:  ciao! Ben trovata! Ebbene sì, sono madre per la terza volta! (Almeno in Saint Seiya) Già, qui il nostro ghiacciolo e scorpione non si possono vedere! Ma mai dire mai! Eh – eh, vero, Camus ha coraggio nel provocare Milo, ma noi conosciamo bene, quanto l’Acquario possa essere dannatamente orgoglioso! E chissà, magari è un modo per attirare la sua attenzione … no, in questa fic Saga fa il bravo bimbo, però ogni tanto … quando gli saltano i cinque minuti … Sorpresa eh, per i 4 fratelli? Ho chiamato a raccolta tutti i Gold greci e non preoccuparti, se uno manca all’appello, presto si saprà, che fine ha fatto! Quanto a Shaina, beh, io sono per la coppia Milo/ Camus 4ever, vedere Milo accompagnarsi con quella vipera … grrrrrr … questa è la mia vendetta! (risata maligna della gemella malvagia) Anch’io non vedo l’ora di vederla sconvolta! Muaahahah! Grazie per seguire questa storia e le altre in generale! Ti aspetto, eh!

Ad Aurora: neanch’io vorrei essere nei panni di Camus, non quando Milo è nel pieno dei suoi umori maligni … ma per il resto … grazie per la recensione! Ti aspetto al prossimo capitolo! Ciao!

 

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Capitolo 3
*** Opa, Saga! prima parte ***





Salut tous le monde!

Come al solito – i  lettori che mi seguono anche nelle altre fic lo sanno per certo -  ho dovuto tagliare a metà il capitolo, giacché si stava trasformando nel fiume Nilo, infinito davvero. Credevo di essermi liberata della maledizione dei “Capitoli fiume” almeno in questa storia e invece … no! Mi perseguita pure qui!

Vabbè, nous allons, citoyens !

Ringrazio i miei lettori e recensori, che mi bombardano di endorfina con le loro recensioni!

 

 A Sagitta72:  ho dato tutti gli esami, che potevo dare, quindi posso finalmente dedicare più tempo alle mie storie, anche se ho anch’io i miei issues da chiarire … Sì hai ragione: le tre Grazie – Aiolia, Kanon e Milo – sono delle vere bestie (il che non dovrebbe stupirci, sono o non sono rispettivamente un leone, un dragone e uno scorpione?) ma cosa vuoi, senza madre per otto anni e con il padre molto occupato nel lavoro, immagina te un po’ che caratterino hanno sviluppato! Povero Saga, che se li è dovuti sorbire in qualità di fratello maggiore, facendo loro da Petit Papa! Poveraccio … Comunque, fossi in te, mi preoccuperei più per Camus, che per sua madre: pensa, lui è stato cresciuto in un ambiente molto tranquillo e soprattutto femminile! (Ha solo Mamie e Maman) Ovvio, quindi, che sia un po’ ingenuo su certi issues virili  e ora se li ritrova sbattuti in faccia con il tatto di cui solo gli uomini sono capaci … Grazie per la recensione!

A Kiki May: Era il tuo compleanno? Se sì, tanti auguri, anche se in ritardo! Sono contentissima, che tu abbia apprezzato la storia fino a questo punto! Incredibile, miracolo: nonostante sia un AU, sono riuscita a rendere Saga IC! Beh, non hai tutti i torti, anch’io m’immagino Gemini n°1 molto amorevole con i suoi “pulcini”, forse più di Aiolos, che mi pare più focalizzato sul fratello di sangue Aiolia. Boh, non so. E per quanto riguarda il ragazzo di Saga, non so ancora chi sarà o se sarà un maschio, anche perché Saga non riesco a vederlo con nessuno! Un po’ come un monaco! Ma c’è sempre tempo per ravvedersi … Oh ecco, Rhada scambiato per donna è una trovata della gemella malvagia, insomma, nome che termina per “a”, sta assieme ad un ragazzo, la prima cosa che un estraneo pensa è che sia una donna, no? Quanto a Milo … mah, cosa avrà in mente … le lenzuola di Camus … (risatina della gemella cattiva) Grazie per la doppia recensione!

A Clayre:  allora espatriamo in due! Quello stage in Francia mi è piaciuto troppo e non sai quanto vorrei ritornarci! Sì, in effetti, la famiglia di Milo dovrebbe evitare ogni mezzo di comunicazione elettronico, giacché passa di tutto, tranne il messaggio! No, non è mia intenzione ucciderti (per il momento) avrò altri capitoli per farti stramazzare dalle risate! Già, anch’io m’immagino la faccia di Mamie, quando vedrà chi è la fidanzata di Kanon e non so se la prenderà bene … Quanto alla proposta indecente di Milo, beh, a buon intenditore poche parole! Accetterà mai Camus una partita amichevole a scopa? Chi lo sa …  Grazie per la recensione!

Bien, buona lettura a tutti!

 

H.

P.S. Spiegazione del titolo. Il termine “Opa”, in greco, è ambivalente: ha la funzione o d’incitamento, tipo “su!”, “avanti!” oppure di fermare qualcuno, tipo “stop!” Quale sarà, in questo capitolo?

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Stavo sognando l’esecuzione di Milo al rogo in stile Il Gobbo di Notre – Dame (ed io ero Frollo), quando un timido battito alla porta della mia nuova camera mi distrasse dal gustoso sogno: non capitava, infatti, tutte le notti di sognare Valavitis alla diavola.

Grugnendo poco elegantemente, mi nascosi come un paguro sotto il morbido piumino, sperando che lo scocciatore mattutino desistesse nella sua turpe opera, ovvero di svegliare un povero studente in vacanza alle sette del mattino, in particolare se quest’ultimo si era coricato a mezzanotte e mezzo, dopo una spietata partita a monopoli, nella quale Kanon aveva messo in atto le sue conoscenze in economia e management, portandoci tutti crudelmente e inesorabilmente alla bancarotta nel giro di neppure un’ora. 

E tale teatro si era ripetuto per tre volte consecutive, mettendo a dura prova i nostri nervi e la nostra autostima e ci volle tutta l’abile dialettica di Saga, per impedire che Aiolia e Milo si fiondassero per vendetta sullo scalpo del fratello maggiore. Questo solo a monopoli; mi chiedo, come reagirebbero in una partita a Malefix: si pugnalerebbero a vicenda?

Toc, toc, toc.

Niente, il tafano si era intestardito di svegliarmi e il lento cigolio della porta mi rivelò, che era consigliabile per me alzarmi di mia spontanea volontà, se non desideravo un risveglio alla sbrandamento totale.

“Wakey ! Wakey! Dormito bene?”, mi salutò in inglese Kanon, mieloso come un’ape regina. Sottotesto della battuta: alza il culo, che hai un’incombenza da portare a termine con il sottoscritto.

“Sparisci!”, sbiascicai, inabissandomi ulteriormente sotto le coperte, delle quali mi vidi privato in un ampio volteggio alla toreador da parte del minore dei gemelli, lasciandomi in maglietta e mutande alla mercé del freddo mattutino di novembre.

“Zut, zut Momus!”, mi rimproverò Kanon, afferrandomi per un braccio e mettendomi forzatamente a sedere; dopodiché, non pago, m’inflisse il colpo di grazia, spalancando le tende, permettendo così alla livida luce di penetrare nella mia stanza, accecandomi. “Su, va’ a prepararti, che andiamo a fare la spesa al centro commerciale!”, m’incitò, entusiasta all’idea. Io, mica tanto. Ma siccome la mia opinione valeva in casa – prima e dopo l’invasione greca – meno dello zero assoluto, ormai mi ero forzatamente abituato a rassegnarmi alle folli idee di famiglia, come quella di alzarsi quasi all’alba per far compere.

“La spesa?”, cercai di contrattare, strofinandomi gli occhi ancora gonfi di sonno. “L’abbiamo fatta mercoledì!”

“Vero! Ma con tutte le boccucce di rosa, che abbiamo in famiglia, dubito che basti anche solo per la colazione!”, replicò Kanon, ripigliandomi da sotto le coperte, deciso di portami seco anche a costo di rapirmi.

Beh, non aveva tutti i torti: l’intera sua famiglia pareva essere dotata di un eccellente appetito, complice anche la bravura del giovane ai fornelli, perfino Maman ci dava dentro (Mamie mangiava sempre e comunque per tre). Ero io, insomma, la pecora nera della tavola, a pochi passi dall’essere marchiato come anoressico senza speranza. E a quanto pareva, Kanon si era prefissato come fioretto dell’anno di farmi ingrassare un pochino, giacché ieri sera, dopo il feroce solletico, aveva commentato quasi scandalizzato, che fossi più magro di una ragazza. E quando gli confessai, sotto tortura, che il mio IMC era 17.5, il minore dei gemelli per poco non era andato in apnea, ricordandomi con vivacità, che un ragazzo virante all’1.84 doveva come minimo avere un valore di 19 IMC.

“La colazione è pronta; fra meno di mezz’ora ti voglio lì, capito?”, fu l’ultimatum di Kanon, prima di dirigersi nella stanza di Aiolia, pronto per il secondo round di duri risvegli.

Lentamente, mi misi in piedi e sbadigliando come un ippopotamo, mi recai nella mia ex- camera, per raggiungere il bagno. “Milo”, chiamai, tra uno sbadiglio e l’altro “sto entrando!” Non ricevendo risposta, aprii scocciato la porta, dirigendomi alla zombie verso il bagno, notando, che era vuoto come la stanza. Dov’era finito il Demonio? Dal poco vapore rimasto, pareva che si fosse svegliato prima di me e che avesse già terminato la sua doccia: meglio, uno scocciatore in meno.

Dopo essermi stiracchiato per bene, mi spogliai e sempre mezzo assonnato spalancai la porta della doccia, facendo un passo in avanti per infilarmi nella cabina.

“Gueh?”, mi fece Milo disorientato, girandosi di scatto verso il sottoscritto, le mani tra i capelli insaponati. E nudo.

Nudo, con me altrettanto discinto davanti a lui, bon sang!

Come se una secchiata d’acqua fredda ci fosse cascata improvvisamente addosso, rimanemmo entrambi gelati sul posto, fissandoci stupidamente negli occhi, incapaci di proferire parola. Quand’ecco che gli occhi turchesi di Milo si abbassarono, per quel che io pensai – ingenuo! - fosse pudore; invece, l’affermazione, che il ragazzo proferì, rivelò ben altre elucubrazioni da parte sua. “Ah!”, esclamò sornione, aprendo il getto d’acqua per risciacquarsi i capelli, bagnando con lui anche il sottoscritto. “Allora è vero, che sei maschio!”

“Pardon?”, chiesi stupito, prendendomi la briga solo in quel momento di seguire la traiettoria del suo sguardo, diventando più rosso dei miei capelli, quando appurai cosa il mio fratellastro stesse esattamente osservando, tra l’interessato e il divertito.

Ebbene sì, quello.

Gridando come una novizia in un convento di clausura, uscii in un balzo dalla doccia, indossando febbrilmente l’accappatoio, che strinsi fin quasi a levarmi il respiro. E mentre cercavo d’impormi uno spietato mind control, per non liquefarmi al solo pensiero di aver visto Milo en nature, quest’ultimo uscì serafico dalla doccia, asciugandosi tranquillo davanti a me, come se fossi invisibile.

“Non puoi metterti su qualcosa, espèce de sauvage vicelard?”, lo rimbrottai, più acido di un limone scaduto. E l’impudente rispose flemmatico, intanto che s’infilava - alla buon’ora - le mutande:

“Boff, non scocciarmi, Ionesco, fino a prova contraria, sei maschio anche tu, ergo non ho nulla, che la tua anatomia non possegga già!”

“Cos’ha Camus?”, s’intromise sbadigliando Aiolia, ancora in canotta e con i calzoni da notte e una capigliatura così arruffata, da sembrare la criniera di un leone.

Con nonchalance, suo fratello maggiore lo informò dell’ultima novità: “Non ti preoccupare, Iou – Iou: ho solo avuto modo di appurare, che Ionesco è un maschio a tutti gli effetti!”

“Ne dubitavi, forse?”, sbiascicò Aiolia, mentre si lavava i denti, dimentico totalmente che l’oggetto della conversazione era dietro alle sue spalle.

“Mah, sai, avevo i miei dubbi: pensavo fosse un’ermafrodita e invece …”

“Bene!”, esclamai battendo le mani, facendoli sobbalzare entrambi, stufo marcio di assistere oltre a tale dibattito cochon. “Ora che vi siete accertati del mio sesso, volete avere la cortesia di sparire dal bagno?”

“Ma ero venuto a fare la doccia!”, protestò Aiolia, levandosi lo spazzolino di bocca.

“E allora, fila a fartela!”, sbottai, indicando la cabina con un nervoso gesto della mano, voltando lo sguardo, quando anche il piccolo Valavitis incominciò a spogliarsi. E, una volta sentito il rassicurante scroscio dell’acqua, domandai esasperato a Milo: “In casa vostra, la parola privacy rientra nel vostro vocabolario?”

“Con quattro fratelli, che mi ritrovo? Ma dai!”, dichiarò sarcastico il ragazzo, indossando i jeans.

“Quattro?”, chiesi perplesso, dopo aver eseguito un rapido calcolo mentale.

“Scusa, tre, hai ragione”, si corresse in fretta Valavitis, mordendosi il labbro inferiore a disagio e voltandomi la schiena, per afferrare la felpa. Stavo per replicare qualcosa riguardo a quel suo improvviso lapsus, quando notai sulla sua spalla destra una cicatrice seminascosta dai capelli umidi. E senza accorgermene, mi avvicinai a lui, scostandoli leggermente, onde avere una migliore visuale della ferita, rimanendo sinceramente impressionato da quando fosse profonda e ampia, percorrendo tutta la scapola nella sua lunghezza.

Come se l’avessi ustionato, Milo si sottrasse veloce dal mio tocco, infilandosi con la stessa rattezza l’indumento, un’espressione indecifrabile sul volto, come se stesse valutando una mia prossima azione.

“Come te la sei procurata?”, domandai sul serio dispiaciuto per quello sfregio. Il ragazzo non rispose subito, anzi, mi squadrò con maggiore intensità, per poi, infine, sciogliersi in una scrollatina di spalle, affermando laconico:

“Un incidente avvenuto tanti anni fa.”

“Ma …”

La mia protesta venne bruscamente interrotta dall’arrivo pressoché vandalico di Kanon, che sbottò scocciato: “Ancora così? Neppure le ragazze ci mettono tutto questo tempo! Iou – Iou, datti una mossa!”, lo intimò bussando alla porta della doccia, aiutando il fratellino ad indossare l’accappatoio una volta che fu uscito. “Camus, ora tocca a te!” m’invitò poco elegantemente, afferrandomi per il coppino.

“Non con tutta questa gente in giro per il bagno!”, strillai poco dignitosamente, lottando contro i tentativi di Kanon di levarmi l’accappatoio e di sbattermi dentro la doccia.

“Cos’è codesto casino di prima mattina, banda di masnadieri?”, brontolò Mamie, entrando in bagno senza previo annuncio. “Kanon!”, lo chiamò severamente puntandogli il dito contro. “Io ora vado dal macellaio per la questione dell’agnello; sta a te, badare a questi sanculotti, visto che tuo fratello non si trova neanche a pagarlo!” e se ne andò via imprecando, maledicendo l’indiscrezione dei giovani d’oggi.

“Madame, faccio quel che posso!”, le sbuffò dietro il gemello più piccolo, riuscendo alla fine a sfilarmi di dosso l’indumento e a cacciarmi dentro alla cabina, aprendo l’acqua.

“Uffa!”, scoppiai allora, specie quando Milo mi cambiava costantemente la temperatura dell’acqua, aprendo e chiudendo quella del rubinetto “Basta gente nel bagno!”

“Ma che cos’ha?”, chiese sconcertato Kanon, asciugandosi le mani, dopo essersele bagnate nell’accanito scontro per ficcarmi in doccia.

“Ah, niente di che: gli sono venute le mestruazioni!”, rispose con nonchalance Milo, ridendo come un matto davanti alle mie appassionate proteste, dovute a getti di acqua ora bollente, ora gelida.

“Le mestruazioni? Ma non dicevi, che era maschio?”, inquisì Aiolia, stando al gioco, intanto che si asciugava i capelli.

“Sì, però, potrei essermi sbagliato, sai, avevo lo shampoo sugli occhi … ehi, Nônon, ma che fai?”, si dimenò la belva, presa a tradimento sottobraccio come una baguette assieme al fratello e assieme prelevati a forza dal maggiore, che borbottava, tra un’imprecazione e l’altra:

“Mi domando come mai Saga non sia finito ancora dallo psicologo, per avervi fatto da balia in questi ultimi otto anni! Gesù, siete esasperanti, bon sang!”

E non potei essere più d’accordo con lui.

***

 

Una volta sceso in cucina, venni sequestrato da Kanon, che mi accomodò a tavola con la delicatezza, che si riserva ad una tigre da addomesticare.

“Momus, eccoti qua, finalmente! Guarda, ti ho preparato della crema zabaione per tirarti su, poiché  stamane ti ho visto un po’ pallidino, sai?”, mi salutò il giovane, porgendomi una scodella ripiena fino all’orlo del dolce, con affogati dentro due biscotti, i quali, a giudicare dal profumo nella cucina, dovevano esser stati preparati anche loro da lui. Ma a che ora si era alzato, per preparare una simile colazione? Infatti, sulla tavola non c’erano solo biscotti e creme allo zabaione, ma anche croissant, brioche, torte alle noci e allo yoghurt, marmellate varie, miele, burro e pane fresco; il tutto accompagnato da bricchi di caffè, the, cioccolata e latte caldo.

Osservando infelice la crema, ne presi una piccola cucchiaiata, giusto per dare il contentino a Kanon, che mi fissava attento come una leonessa, che aveva individualizzato la sua gazzella. “Ti piace?”, mi disse con un sorriso carnivoro, sedendosi accanto a me.

“Uhm …”, farfugliai, la gola che mi pizzicava a causa dell’abbondante uso, che il giovane aveva fatto del Marsala ed io l’alcol non lo reggevo. “B- buono …” e sorrisi mio malgrado, non volendo offenderlo.

“Ne sono contento!”, esclamò Kanon, allargando il suo ghigno da Gatto del Cheshire “Perché lo finirai tutto!” E per davvero fui costretto a ingurgitarla tutta, giacché il minore dei gemelli mi tenne sotto stretta vigilanza, controllando ogni movimento del cucchiaio, dalla scodella alla mia bocca; dalla mia bocca alla scodella. Nel frattempo, Aiolia ci osservava sconcertato, la fetta di torta bloccata a mezz’aria tra la tazza di latte caldo al miele e la sua bocca, mentre Milo aveva diplomaticamente nascosto il viso dietro alla sua tazza di café au lait.

Una volta terminato il supplizio, Kanon mi presentò sotto il naso un’enorme fetta di dolce alle noci, suggerendomi di assaggiarlo, dato che era molto buono. Ancora, tentai di negoziare l’affare, anche perché la crema mi aveva riempito lo stomaco per una settimana e sinceramente non me la sentivo di prendere qualcos’altro.

Kanon, all’udire ciò, mi sorrise serafico, per poi intimarmi di mangiare e non fare storie e dinanzi all’ennesimo cortese rifiuto, mi piantò il coltello nella fetta di dolce con veemenza, seguito da un imperioso: “Mangia!”, lasciandomi finalmente tranquillo, solo quando si accertò ben bene, che ero arrivato a metà dolce.

Appoggiando la tazza di café au lait, Milo chiese al fratello, guardandosi intorno: “A proposito, Nônon, che fine ha fatto la madre superiora?” e davanti alla mia espressione confusa, Aiolia mi spiegò sottovoce: “Saga!”

“Mah, dorme ancora credo …”, rispose il giovane, servendosi del latte nel the (abitudine senza dubbio acquisita in Inghilterra) e sogghignando leggermente all’epiteto appioppato al fratello maggiore.

“Come?”, fece incredulo Milo, afferrando un croissant alla cannella. “A quest’ora? Non è da lui: di solito si alza al canto del gallo!”

“Ah no, Milou”, intervenne sbuffando Aiolia, spalmando il pane di burro e marmellata ai mirtilli “Non mi parlare di galli, che è tutta la notte, che rompono, anzi, che uno rompe! Pensa Momus, che mi addormento verso l’una con il bastardo, che canta; mi alzo alle cinque e un quarto per fare pipì e canta ancora! Stamane, Nônon mi sveglia e sempre canta! Ma gli hanno infilato una purga su per il cu –”

“B’jour a tutti!”, sbiascicò Saga in pigiama, avanzando con lo stesso entusiasmo di uno zombie sotto morfina.

“Tiens, Lazzaro che emerge dalla tomba!”, lo salutò Milo e aveva ragione nel definirlo così: il primogenito dei Valavitis aveva il volto bianco e tirato come un lenzuolo, due occhiaia da far paura, i capelli più arruffati di un nido d’uccello e due occhietti rossi da coniglio per la mancanza di un adeguato sonno. E con un sonoro tonfo, Saga si lasciò cadere sulla panca, appoggiando la testa sulla tavola, il volto nascosto tra le braccia, ponendo fine alla penosa marcia dalla porta al tavolo.

“Hé, salut frangin! T’as bien dormi?”, gli domandò dolcemente Kanon, passandogli la mano tra i capelli dorati, celando, invece, un’intima ansia nel vedere così malandato il fratello, il quale, alzando leggermente il capo, replicò con la lentezza di chi non riusciva neanche a ricordarsi il suo nome, da quanto era stanco:

“Ben dormito?”, esordì, scandendo incerto ogni parole, quasi si fosse scordato come si parlava. “Ti pare, che io abbia ben dormito, dopo tutto il bordello accaduto stanotte?”

Che bordello?

Sospirando, per nulla incoraggiato dalle nostre facce sperdute, Saga elencò meticolosamente i crimini notturni consumatisi nella notte dell’1 Novembre: “Allora, tra Papa e Corinne, che si dedicavano con ardore alle joies della galipette; tra la nonna, che alle cinque meno un quarto del mattino ascoltava alla radio Edith Piaf; tra Fred, che ululava a Dio sa che; tra te e Aiolia, che sembravate fagotto e controfagotto da quanto russavate; tra Camus, che parlava nel sonno, borbottando: “Al rogo! Bruciatelo!”; tra Milo, che chiamava il gatto e soprattutto tra il gallo, che rompeva di continuo le palle, ti pare che io abbia potuto dormire tranquillo anche solo per un quarto d’ora?” e prendendo fiato, continuò nel suo sfogo: “Riesco miracolosamente ad appisolarmi verso le sei e cosa accade? Che uno spacchi - palli di mia conoscenza incomincia a trafficare in cucina con la grazia di un rinoceronte in calore, mentre un’ora più tardi, una banda di filistei, con troppo fiato nei polmoni, litigano per il possesso della doccia e del bagno in generale, tra dibattiti decisamente cochon! Volendo riassumere in poche parole: non ho dormito un caz – ehm, un cavolo!”

Accidenti, che sonno leggero e soprattutto, che udito fine che aveva!

“Mi dispiace Sasà chéri”, mormorò partecipe Kanon, continuando a massaggiargli la schiena. “Non te la senti, allora, di venire con noi al centro commerciale?”

“Preferirei evitare …”, bofonchiò il gemello più anziano, servendosi il latte caldo con mano piuttosto tremula.

“Bon, tant pis!”, esclamò Milo, alzandosi e appoggiando nel lavabo la sua tazza. “Dormi pure, non ti fa male!”, gli disse, arruffandogli ulteriormente i capelli, gentilezza cui il fratello maggiore rispose con un offeso ululato, prima di rintanarsi in camera sua con la sua tazza di latte caldo e miele.

 

 

***

 

 

“Davvero è successo tutto questo casino? Io manco me n’ero accorto!”, commentò Aiolia in macchina, seduto dietro accanto a Milo, il quale fissava apprensivo Kanon alla guida, temendo che un anno in Inghilterra gli avesse fatto dimenticare come si conduceva nel continente europeo.

“Tu quando dormi, non ti accorgi neppure se ti violentano o no!”, replicò di malumore il terzogenito, gli occhi sempre incollati sul volante, neanche avessimo alla guida un terrorista alcolizzato.

“Milo!”, lo rimproverò il maggiore, per nulla divertito dalla battuta e Aiolia men che meno.

“Non credevo, che Saga avesse un sonno così delicato!”, m’intromisi cambiando discorso, cercando di mantenere l’umore del guidatore il più neutro possibile, onde evitare incidenti di ogni genere, da un frontale al fratricidio.

“E non sai che rompitura di scatole, quando sostituiva Papa la sera durante il fine settimana: alle nove si va a letto e non crediate di fare i furbi, ché vi sento! E flûte se ci sentiva: perfino quando sfogliavamo le pagine di un libro!”, mi raccontò Aiolia, giocherellando con il cordone della sua felpa.

“Immagina un po’, che io dovevo condividere la stanza, con tale individuo! Roba, che finivo in reparto rianimazione!”, scherzò Kanon, decisamente più tranquillo, mantenendo lo stesso stato d’animo fino allo squillo del suo cellulare.

“Iou – Iou, guarda un po’ chi è!”, disse, ma prima che il fratello potesse sporgersi, Milo fu più rapido e sfilò abilmente l’apparecchio telefonico dalla giacca di Kanon; tuttavia, siccome non era egoista, almeno con i fratelli, mise al centro il cellulare, acciocché Aiolia e lui potessero leggerlo in tutta pace.

E il ghigno alla Guy Fawkes, che attraversò entrambi i loro visi, non preannunciò nulla di buono.

“Uh, indovina chi è, Nônon!”

“Non lo so, ma ho come la sensazione, che tu muoia  dalla voglia di dirmelo, Milou!”, sibilò tra i denti il fratello maggiore, l’atmosfera d’un tratto densa ed carica d’elettricità.

“Rhada – chouchou!”, esclamarono in coro i due monelli, allargando il loro sorriso sfottitore, mentre il gemello ghignava più verde di un bicchiere d’assenzio. “Voleva avere tue notizie, poiché è da una settimana, che non ti fai più sentire”, continuò Milo implacabile. “Siamo già alla crisi di coppia?”

Respirando a fondo, Kanon replicò, più calmo che poté: “No, Milou, avevo gli esami!”, con la speranza di chiudere lì l’argomento.

Invano: la bestia si era scatenata e reclamava la sua libbra di carne.

“Sarà, però se vai avanti così, magari Rhada un pensierino se lo fa su Pandora!”, insinuò malignamente il ragazzo, osservando sornione la stretta convulsa di Kanon sul volante, fin quasi a rendergli le nocche bianche; se il suo era un trucco per fargli ritirare la patente, beh, ci stava riuscendo, giacché ancora una parola fuori posto e il fratello maggiore lasciava il volante per il collo di Milo.

“Dai Kanon, non te la prendere”, lo ammansii, maledicendo la lingua ciarliera del Demonio “sono sicuro che non ti possa tradire con questa Pandora, a meno che Rhada non sia lesbica!”

Ora dovevo essere io quello che aveva detto qualcosa, che non andava, perché non feci in tempo a finire la frase, che sbandammo malamente, tanto da far ribaltare Aiolia su di Milo, per essere subito dopo lapidati da stizzite suonate di clacson e insulti fantasiosi.

“Rhada … una femmina?”, chiese lentamente Aiolia, rimettendosi composto sul sedile.

“Sì”, feci io perplesso, ignorando gli sghignazzi divertiti di Milo. “Non è la ragazza di Kanon?”

Altra pericoloso sbandamento.

“No”, rispose flebilmente il diretto interessato, il colorito del volto diviso tra il rosso acceso e il livido. “Non proprio ragazza …”

“Non sarà mica sposata?”, domandai, sapendo quanto andassero di moda relazioni tra giovanotti e donne mature alla Il Laureato. Beh, Kanon non l’era esattamente, però, insomma, era pur sempre un bel ragazzo …

E prima che il fratello maggiore potesse fornirmi adeguate spiegazioni, Milo s’intromise raccontandomi con preoccupante serietà: “Ebbene sì, Ionesco, lei è sposata! Infatti, Rhada è il suo cognome, mentre di nome, lei fa Melvina!”

“Milo … taci …”, ringhiò pericoloso Kanon, il quale, da come stringeva il volante, stava molto probabilmente fantasticando, che si trattasse del collo del fratello.

“Purtroppo Melvina fu data in sposa ad un bruto chiamato Valentine – che non è la versione inglese dello stilista Valentino, eh!-  contro la sua volontà, poiché troppo debole e fragile per opporsi al ferreo volere dei suoi due fratelli: Aiacos e Minos, due scimpanzé beoni, con più forza bruta nelle braccia che cervello! Orbene, sessualmente infelice e confusa, a causa dei continui maltrattamenti del marito, la povera e sconsolata Melvina credette di essere divenuta lesbica, dopo aver incontrato Pandora la popputa …”

“Molto popputa!”, convenne Aiolia semiserio. No, non mi poteva traviare pure lui!

“Molto popputa, anche se, in realtà, era un transessuale, il cui vero nome era Hector! Invece, non appena vide Kanon, che per la cronaca lavora nella sua tenuta in veste di guardiacaccia …”

“Non dire balle! Quella è Lady Chatterley, Milo!”, strillò il maggiore, in ebollizione e rosso fino alle orecchie, i capelli stranamente arricciati o per la rabbia o per l’umidità.

“Macché, è Lady Melvina Rhada, insomma! Comunque” e riprese il suo grottesco racconto “i due, presi dal focoso desiderio very British, si rotolarono per giorni e giorni giù i prati, ballando e facendo l’amore sotto la pioggia scrosciante …”

Ok, ora vedevo quasi del fumo uscire dalle orecchie di Kanon, mentre quest’ultimo faceva lo sforzo sovrumano di non girarsi e tappare personalmente la bocca indiscreta del fratello.

“Finché, tra una galipette e l’altra, Melvina rimase incita di Kanon e a breve, i due avranno il loro primo bébé, che chiameranno … Hades!”

Brusca frenata a qualche centimetro dal retro di una macchina. “Ha!”, esclamò trionfante Kanon, voltandosi, il viso di un porpora acceso. “Rosso: ora ti accoppo!” e sarebbe stato pure uno spettacolo interessante, se il verde non fosse comparso così in fretta. Tuttavia, prima di partire, il gemello ammonì il Demonio, sventolandogli l’indice sotto il naso: “Ti avverto, Milo, una parola in più su Rhada e ti sterilizzo senza anestesia, chiaro? Ti faccio diventare femmina, putain!!”, fu la sua cruda minaccia.

Milo ragazza? Uhm …

“Mila e Shiro, due cuori nella pallavolo …”, canticchiai malignamente, vendicando Kanon, sfoderando subito dopo la linguaccia come risposta al dito medio del terzogenito dei Valavitis.

Poi, finalmente, calò il silenzio della tregua, interrotto dalla filastrocca che Aiolia, fissando annoiato la pioggia fuori dal finestrino, si era messo distrattamente a cantare, battendo a ritmo le dita:

« Yeux bleus, yeux d’amoureux;

yeux verts, yeux de vipère;

yeux noirs, yeux de la soir ;

yeux gris, yeux de souris ;

yeux marrons, yeux de cochon … » [1]

Fornendo inavvertitamente al terribile fratello l’occasione perfetta, per ottenere soddisfazione nei miei confronti e, infatti, Milo terminò la filastrocca con un significativo: “Yeux dorés, yeux de pédé …”

E i miei occhi dorati si spalancarono offesi, non appena udii come il Demonio mi aveva definito: mi aveva dato del …?

“Milou, non dare a Momus del pederasta!”, mi difese Aiolia, colpendo il Demonio al braccio. “Non è gentile!”

“Come hai subito indovinato, allora, che mi riferivo a lui, eh?”, replicò prontamente il ragazzo, mettendo in difficoltà il fratello minore, il quale era arrossito di quel poco.

“Eh”, lo rimbeccai scocciato e rosso com’era Kanon, qualche minuto fa. “Chissà come ha fatto! Ma se è tutta la mattina, che metti in discussione la mia identità sessuale!”

 “Davvero? Non mi dire! Tu hai un’identità sessuale?”

“Certo che sì! Ho anch’io i miei ormoni e le mie … ehm … fantasie …”

“Ma quali? Se neppure ti masturbi!”

“Eh?”, strillai la voce più alta di qualche ottava, tanto da far girare preoccupato Kanon verso di me. “Beh, senti, ci sono tanti modi per esprimere la propria sessualità, senza ricorrere a certe pratiche fai – da – te …”, gli ricordai, voltandomi indietro, crocifiggendolo con lo sguardo.

Ecco cosa intendeva il maledetto con solitari, altro che carte! Merde, che figura da blanc – bec, che dovevo aver fatto!

“Ceeeeerto, come entrare nelle docce altrui, mentre uno vi si sta lavando!” e ancora una volta, il gemello mi guardò al limite dello sconcerto, immaginando Dio solo sapeva che sconcerie combinassi per trastullarmi sessualmente.

“Si è trattato di un malinteso: io non faccio queste cose!”, ci tenni a mettere in chiaro, specie dinanzi a Kanon, poiché ero sicuro, che Aiolia, conoscendomi, non credeva alle insinuazioni di Milo, il quale continuò imperterrito:

“Ed eri nudo! Lo sai Nônon, che Ionesco ha un delizioso neo appena sotto l’ombelico?” e per dimostrare la veridicità delle sue parole, mi alzò la felpa, indicando il suddetto nevo con il dito.

“Kanon non ci tiene a saperlo!”, sbraitai scarlatto, ingaggiando una feroce lotta contro le mani di Milo, che scesero senza pudore alcuno di sotto, verso l’inguine.

“E un altro un poco più verso …”

“L’AUCHAN!”, annunciò gridando Aiolia, come se il nome del supermercato equivalesse a un’oasi di sanità mentale, in quel bordello a quattro ruote, qual era la nostra vettura. E una volta parcheggiati, Kanon lasciò cadere la testa sul volante, sfinito e incominciando a considerare seriamente l’idea di chiamare il Vaticano per avviare un processo di beatificazione di Saga, il quale riusciva a sopportare quella bestia antropomorfa di Milo, resistendo al feroce impulso di legarlo, imbavagliarlo e gettarlo giù per il canale.

 

***

 

E stranamente, contro ogni pronostico pessimista, durante tutta la durata della spesa, Milo si rinchiuse nel silenzio più assoluto, senza più fiatare, quasi quello di prima fosse stato un impellente sfogo di cui spurgarsi – a scapito nostro – per poi ritornare nel suo abitudinale umore saturnino, nel quale una qualsiasi forma di comunicazione era ridotta ad uno scambio di massimo cinque battute, con nostro sommo sollievo, anche perché non era un nostro intimo sogno avere un bis del vaudeville precedentemente offertici dal ragazzo.

E di fatti, il tragitto del ritorno fu caratterizzato da un silenzio ancora più inquietante, tanto che tutti e tre ci chiedevamo, che accidenti gli fosse preso, da cambiare umore da un momento all’altro; preoccupato, Kanon gli domandò se fosse tutto a posto; Milo gli rispose che sì, stava benone e che facesse attenzione al semaforo, ché dava il giallo. Poi, s’inabissò nella lettura di una rivista di cinema, che mi ero comprato, arrivando perfino a chiedermela in prestito con gentilezza.

Bon sang, quel ragazzo era a dir poco lunatico!

Arrivammo infine a casa, sotto quel che pareva essere il nuovo diluvio universale, rendendoci arduo il compito di scaricare la spesa, figurarsi poi, com’erano messi con il trasloco! Dopo aver sistemato alla rinfusa le sporte, Kanon ci chiese di occuparcene noi, mentre lui si recava dal padre e dal fratello a dare una mano.

“Scusami”, mi disse Milo sinceramente contrito, passandomi il barattolo di marmellata, che inavvertitamente stavo facendo cadere. “Non intendevo offenderti stamane!”

Appoggiando un po’ troppo pesantemente l’ultima sporta sul tavolo, guardai incredulo il ragazzo, incapace di credere a quel che avevo appena sentito: si era scusato? Con me? Oddio, domani nevicava! Inoltre, ciò che realmente in quel momento mi stava scombussolando la psiche, era la mia indecisione sul da farsi: che rispondergli? Accettare le sue scuse? Rifiutargliele? Ribattere con sarcasmo? Il mio unico desiderio era di non provocarlo oltre, di tenerlo buono, tranquillo e possibilmente soggiogato, ma come? Era così difficile trattare con lui! Una parola detta giocosamente aveva l’effetto di farlo arrabbiare e viceversa; possedeva un animo più incostante della marea, neanche fosse nato a Mont Saint – Michel! Uffa!

“Ti sei scusato anche con Kanon?”, decisi di prendere tempo, anche per dargli l’impressione, che non volevo essere l’unico privilegiato.

Scuotendo il capo biondo orgogliosamente, Milo ribatté: “Mi sto scusando con te, non con Kanon. Eppoi, lui ci è abituato: lo sfottiamo dal giorno in cui si mise assieme a Rhada, il che fanno circa sette mesi di dileggiamenti!”

Flûte, Kanon doveva essere proprio perduto perso dietro a quella ragazza, da attorcigliarsi ancora come un Bretzel, quando i fratelli scherzavano su di lei.

“Sta bene, Milo. Ti perdono, ma non scocciarmi più!”, sentenziai, percependo d’un tratto un brivido freddo percorrermi la schiena, nell’accorgermi di una mano umida appoggiarsi lievemente sulla mia spalla. Mi girai subito verso il greco, pronto a rimproverargli quel suo gesto indesiderato, ma, con mia somma sorpresa, notai la mia stessa espressione sul suo volto e il brivido divenne una scossa, non appena scoprimmo, a chi appartenevano codeste gelide manine: comodamente sistemato in mezzo a noi c’era Saga, il quale pareva uscito da un film dell’orrore, il viso ancora più stravolto di stamattina e il fatto, che fosse bagnato fradicio non faceva che aumentare l’aria d’ammalato emanata dal suo viso.

“Milo”, disse con dolce pericolosità il primogenito dei Valavitis, stringendo con preoccupante forza la spalla del fratello “ti sei comportato bene con Camus oggi, o lo hai fatto ancora disperare?”

“Si stava giusto scusando!”, risposi velocemente, non desiderando assistere allo spettacolo di Milo preso a sculacciate da Saga o meglio, sì, mi sarebbe piaciuto, tuttavia, un altro giorno: non mi volevo rovinare la gioia di aver appena ricevuto delle scuse da lui! Eh, il troppo stroppia!

“Bene, bene”, mormorò Saga, socchiudendo gli occhi stanchi. “Tienimelo sott’occhio questo minou, eh? Fa troppo il monello, quando lo chaton è via!”, scherzò, accarezzandogli il capo biondo, tocco al quale Milo non solo non si sottrasse, ma parve pure gradirlo a giudicare dal piccolo movimento d’apprezzamento del collo. Poi, alzandosi in piedi, ci domandò stancamente: “Potete dire per favore, che non scendo a pranzo oggi?”

“Non ti senti bene?”, inquisii preoccupato: in effetti, era già un cadavere ambulante la mattina, forse non era stata una saggia decisione da parte sua di aiutare nel trasloco, non sotto a un simile acquazzone.

“Ho un’emicrania, che mi sta torchiando la testa, che è una meraviglia; per non parlare, che ho anche un po’ di nausea, ma non preoccupatevi, per il resto, sto bene!”, disse, uscendo dalla cucina.

“Hai preso qualche medicinale?”, il tono di Milo aveva assunto all’improvviso una punta d’allarme: così male stava suo fratello?

“Sì, sì”, lo congedò distrattamente Saga, le dita sempre premute sulle tempie, ma il fratello gli bloccò il passaggio imponendosi.

“Non dire balle: tu non ti sei neppure avvicinato ad una medicina! Hai dormito almeno? Hai la febbre? Hai fatto colazione?”

“Milo, spostati per favore: non sono moribondo, ho un banale mal di testa, sai che roba! Eppoi, dovevo aiutare Papa nel trasloco!”, tentò di persuaderlo il fratello maggiore, la cui pazienza, osservando il nervoso e continuo spostamento di peso da una gamba all’altra, si stava assottigliando sempre di più.

“Au diable il trasloco!”, imprecò Milo, il volto livido. “Perché non hai detto a Papa, che non avevi chiuso occhio stanotte, eh? Ti avrebbe lasciato riposare; lo sai, che non è un tiranno!”

“Conto fino a tre, Milo. O mi lasci passare o passo alle vie di fatto!” e il tono con cui lo disse, mi spaventò sul serio: credevo, che Saga fosse una pasta di persona, dotata della pazienza di Giobbe; non avrei mai immaginato, che potesse assumere toni di comando così inquietanti.

“O cosa? Mi picchi?”, lo sfidò Milo, per nulla intimorito, anzi, piazzandosi ancora più saldamente sulle gambe, le braccia incrociate al petto.

“Tre …”

Niente.

“Due …”

Fermo.

“Uno …”

Immobile.

“Va bene, Milo, l’hai voluto tu … Oplà!”, esclamò caricandosi il fratello sulle spalle, il quale si dimenava come un gatto selvatico, battendo i pugni sulla sua schiena, intimando a quel brutto scimmione bacato, di metterlo giù seduta stante, favore che Saga fu ben lieto d’esaudire, lasciandolo cadere a gambe all’aria sul divano, per poi ritirarsi in camera sua, dalla quale non uscì fino a tardo pomeriggio.

 

***

 

Il trasloco era a buon punto; non avendo i Valavitis un granché da portare a casa nostra, la questione si risolse nel giro di una giornata, anche grazie al valido sopporto dei due gemelli.

Nel frattempo, Aiolia, Milo ed io c’eravamo piazzati in cucina a studiare e a terminare i compiti assegnatici per le vacanze; l’unico rumore udibile era quello delle lancette dell’orologio e delle penne scivolare sulla carta.

Ad un certo punto, mi stufai dell’analisi del testo di Madame Bovary e, appoggiando la penna, mi passai la mano sugli occhi, spiando tra le dita i miei due fratellastri: Aiolia stava continuando lo studio della sua funzione, eppure, dalla linea dura della bocca e dalla veemenza, con la quale digitava i numeri sulla calcolatrice, s’intuiva, che erano ben altre le cose, cui pensava.

Milo, invece, non aveva neanche aperto il libro; il quaderno degli appunti immacolato davanti a sé e lo sguardo fisso sulle lancette dell’orologio appeso alla parete, perso anch’egli nelle sue elucubrazioni, che noi sapevamo essere diretti nella stanza di Saga. Per questo, allora, aveva tenuto quello strano comportamento per tutto il giorno? Perché era in ansia per il fratello? Sì, però, anche lui era un bel tomo: doveva sfogare la sua frustrazione su Kanon e me? Ma che cos’eravamo per lui, due Benjamin Malaussène? [2]

“Tre …”, mormorò piano ad un tratto Milo, il viso inespressivo e distante. Aiolia alzò di scatto la testa dal quaderno preoccupato. “Due …”, continuò il ragazzo e il minore si voltò verso la porta della cucina, gli occhi verde – azzurro dilatati, come quelli di un lemure. “Uno …”, imitando il ragazzo, mi girai anch’io nella stessa direzione, senza però vedere nessuno. Che cosa stava succedendo? Che era preso a Milo, nel fare quel countdown? E Aiolia, perché fissava apprensivo la porta?

Il ruggito di Kanon fu una risposta molto esauriente. “MON OEIL, SAGA, MON OEIL!” ed entrò spalancando la porta, intanto che si asciugava i capelli bagnati fradici. Dietro di lui, fece il suo altrettanto vandalico ingresso Saga, che pareva avere un diavolo per capello, il volto chiazzato di rosso per la collera, come il gemello del resto. “Me l’avevi promesso, Saga, mi avevi giurato, che non saresti mai più scivolato in quell’odioso vizio! E invece, appena ti volto le spalle, subito ci ricaschi: non oso immaginare,  a quale corruzione ti sia lasciato andare in Germania!”

Vizio? Corruzione? Mon Dieu, Saga non si stava mica drogando?

Incrociando le braccia, il maggiore dei gemelli alzò scettico il sopracciglio, replicando con calma: “Kanon, ti pare un vizio, prendere una tazza di caffè?”

Gueh? Caffè?

“Sì, se ad assumerlo è un caffeinomane senza speranza come te!”, sbraitò il gemello minore, allargando le braccia come se crocifisso. “Avevamo stabilito in comune accordo due tazze di caffè al giorno, capito? Due! Invece, ho scoperto che ne hai prese cinque e ti ho pizzicato, che eri in procinto di preparartene una sesta in camera! Espèce de con!” e mostrò il sacchetto colpevole di caffè, come se fosse stata eroina. “Per non parlare delle Red Bulls!”, continuò Kanon nella sua invettiva, causando un furioso rossore nelle guance pallide del gemello, che ribatté offeso:

“Non è vero! Calunnie e maldicenze! Io quella sbobba zuccherosa non la tocco neanche!”

“Sarà; ma non è imbottendoti di caffeina, che rimani in piedi! Ti fa male, Sasà! Dovresti saperlo che porta all’insonnia, al nervosismo e all’irritabilità! E il tuo comportamento ne è la prova lampante!”

Battendo spazientito il piede per terra, il gemello maggiore domandò annoiato: “Hai finito?”

“Non m’ignorare così sfacciatamente, crétin!”, digrignò i denti Kanon, più porpora che mai. Nel frattempo, notai che Milo e Aiolia si erano silenziosamente alzati da tavola; il primo si stava avvicinando a Saga, il secondo a Kanon. “In ogni modo, burlati quanto ti pare del sottoscritto, ma sappi che ormai la mia decisione è presa. Compirò ora ciò che avrei dovuto fare fin dal tuo arrivo: butterò via il caffè!”

“No!”, ruggì scioccato Saga, gelato sul posto, gli occhi stanchi spalancati e increduli.

“Sì e chiuderò sottochiave la caffettiera!”, infierì il gemello, aprendo il cassonetto delle immondizie.

“Io ti rovino, sacré salaud!”, fece Saga per avventarsi su Kanon, anche lui pronto a menare le mani, se il placcaggio preventivo di Milo non glielo avesse impedito. Non che il gemello se la passasse meglio: simile a un anaconda, Aiolia gli impediva qualsiasi movimento, tranne quello della lingua, ché i due incominciarono ad insultarsi, tentando allo stesso tempo di scuotersi di dosso i fratelli minori, come i cani con le pulci.

“Toi, t’es complètement schizo!”

“Ah ouais? Et toi, t’es parano!”

“Psycho, drogué de caféine!”

“Pédé lubrique!”

“La ferme, Kanon! Et surtout, tais – toi!”, imprecò Aiolia, stringendo la presa su di Kanon, che si dimenava come un’anguilla.

“Assez, Saga, j’ai dit assez! P’tain, j’en ai marre de ce merdier, bordel! Camus, muovi il culo e dacci una mano, merde!”, ringhiò Milo, il quale si era stretto ad una colonna della cucina, onde ancorare assieme a lui anche il fratello maggiore.

Osservando apprensivo i due tori inferociti, mi avvicinai a loro lentamente, evitando i pugni a vuoto, che i gemelli si lanciavano a vicenda. Valutai veloce, quale dei contendenti fosse il più incline ad ascoltarmi, visto che io non sono mai stato per la violenza fisica, anche perché proprio ero io quello che finiva sempre K.O. Dovevo distrarli, ma come? Uhm …

Eureka!

“Saga! Saga! È Camus che sta parlando alla tua coscienza!”, esordii piazzandomi in mezzo ai gemelli, rivolgendomi al maggiore dei due. “Se vuoi maciullare Kanon, fa’ pure, non abbiamo nulla in contrario, ma ricordati, che prima devi terminare la trattazione per l’università e dopo, ti puoi trastullare con simili facezie,no? Citando Dickens: Business first, pleasure afterwards, as King Richard III said, while he stabbed the other King in the Tower, before he smothered the Babies! [3] Capito? Prima il dovere e poi il piacere! Eh!”

Saga si morse pensieroso il labbro inferiore, valutando attentamente le mie parole, che sperai essere state abbastanza convincenti per persuaderlo a desistere dalla sua smania di vendetta nei confronti del gemello.  “Sam Weller, Il Circolo Pickwick …”, mormorò a nessuno in particolare. “Mouais, hai ragione … adesso ho altro da fare, che pestare a sangue Nônon …”, disse liberandosi dalla presa di Milo e dirigendosi come in trance fuori dalla cucina.

Dopo un silenzio imbarazzante di ben cinque minuti, Aiolia fu il primo a parlare, domandomi tra l’ammirato e l’incredulo: “Come diavolo hai fatto?”

“He – he”, ridacchiai di compiaciuto imbarazzo, attorcigliandomi una ciocca di capelli. “Sai, tra secchioni ci s’intende …”

“In ogni modo”, s’intromise Kanon, sedendosi pesantemente sulla panca “qui si mette male, les gars. Se si è ridotto a sei caffè al giorno, vuol dire che è più di una notte, che non dorme!”

“Cosa?”, la bocca di Milo era più spalancata dell’Urlo di Munch, mentre chiudeva la porta della cucina, onde non essere ascoltati da orecchie indiscrete. “Sasà passa le notti in bianco e tu non ce lo dici? Non ti rendi conto delle conseguenze?”

“Perché, che succede se Saga non dorme?”, chiesi incuriosito ad Aiolia, che scosse il capo avvilito:

“Meglio non saperlo, Momus!”

“Gli ho dato tanti di quei sonniferi, che dovrebbe essere ormai una mummia!”, replicò Kanon, massaggiandosi le tempie, sull’orlo di una crisi di nervi.

“Morto?”, feci io seriamente: insomma, non si scherza con i medicinali! Invece, i fratelli Valavitis dovettero interpretare la mia perplessità come una battuta, altrimenti non mi spiegavo il motivo per il quale Milo mi pizzicò il braccio, intimandomi di tacere.

“Mettetela come volete, ma Sasà deve dormire, con le buone o con le cattive, ma deve dormire!”, concluse Aiolia, terribilmente serio. “Ho ancora gli incubi di quel che ha combinato l’ultima volta, che ha passato delle notti insonni!” e con sincronismo perfetto, i tre fratelli si segnarono, facendo lo scongiuro, aumentando la sensazione di disagio, che mi attanagliava le viscere, da quando quel vaudeville era incominciato.

E, afferrandomi ad un tratto lo stesso braccio, che mi aveva precedentemente pizzicato, Milo mi domandò, gli occhi turchesi brillanti di birberia machiavellica: “In casa tua, qual è il liquore con la più alta gradazione di alcol?”

 

***

 

Dopo aver consumato la cena in fretta e furia – tanto che Kanon non ebbe nulla da ridire sul fatto, che avessi lasciato metà pieno il piatto – mi offrii volontario di portare da mangiare a Saga in camera sua. Arrivato lì, bussai piano alla porta e solo al terzo tentativo mi fu concesso di entrare.

Trovai il gemello maggiore in bilico sulla sedia, intento ad afferrare un dizionario dei sinonimi e contrari in tedesco. Sposando un poco i suoi libri e quaderni  dalla scrivania, vi appoggiai il vassoio dando una sbirciatina al suo computer accesso, sul cui schermo appariva un documento word lungo quindici pagine. Alla faccia della trattazione!

“Non saranno un po’ troppe?”, domandai incuriosito, afferrando il libro che Saga mi porgeva, sistemandolo sulla scrivania.

“Scherzi? Sono a metà: esigono trenta pagine come minimo!”, protestò il giovane, imprecando tra i denti, poiché il dizionario si era ben incastrato infondo allo scaffale. “Enfin, la scadenza è il 4 Dicembre, tuttavia, voglio prendermi in anticipo; ho tante altre questioni da regolare …”, borbottò, sospirando soddisfatto, quando la sua mano pigliò il libro agognato, tornando a sedersi sulla sedia.  Poi, rivolgendomi gli occhi sempre più rossi dalla stanchezza: “Grazie, Camus, per il disturbo!”

“Figurati!”, esclamai a disagio, roso dal senso di colpa, per quello che i fratelli gli stavano preparando e al cui piano partecipavo attivamente. E, prendendo coraggio, urlai: “Ora!”

“Cos- …?”, balbettò Saga disorientato dall’invasione barbarica dei suoi fratelli nella stanza. In un balzo, Kanon e Aiolia gli furono addosso, trascinandolo sul letto a viva forza; ignoravo il motivo esatto, ma l’intera scena aveva un che di stupro, forse perché Milo, entrando con il liquore alle ciliege, domandò ai fratelli:

“Su, avanti, tenetelo fermo e legategli i polsi alla sadomaso! Eddai, Kanon, non guardarmi così: ormai, tu dovresti essere un esperto!”, commentò, notando l’espressione scioccata del giovane uomo.

“Vai a fatti fottere, Milou!”, imprecò il gemello minore, imbrigliando con difficoltà il polso prigioniero alla sbarra del letto.

“He – he, non da te!”, gongolò il terzogenito, montando a cavalcioni sul primogenito dei Valavitis, il quale soffiava e si dimenava peggio di un  gattaccio selvatico, offeso a morte da quell’aggressione sulla sua persona, specie da parte dei fratelli minori. “Mi dispiace, grand frère, ma credimi, farà più male a me, che a te, visto che quando la nonna scoprirà, che fine ha fatto il suo adorato liquore, mi riempirà di sberle fino alla nausea! Ma sopporterò volentieri questa punizione, se riuscirà ad addormentarti!” , disse con trasporto, stappando la bottiglia e ignorando le proteste di Saga, circa un 55% di gradazione alcolica. “E ora … bevi e dormi!”, gli intimò, cacciandogli di malagrazia il collo della bottiglia in bocca, tenendola in posizione tale, da costringere il gemello maggiore a bere spudoratamente a canna, tipo biberon, favore che il giovane parve non gradire, non almeno da come storceva il capo, sbrodolandosi di ciliegia dappertutto.

Uhm … preoccupante issue per la lavatrice …

“Allora”, gli chiese Milo, levandogli la ciuccia, per fargli riprendere fiato. “Hai sonno?”

“Ho voglia d’ammazzarti, bon sang!”, ruggì Saga sputacchiando, impossibilitato a muoversi a causa dei tre fratelli e del laccio alla sadomaso.

“Boff, tant pis! Altro giro!”, replicò con nonchalance il Demonio, infilandogli di nuovo l’alcolico biberon in bocca.

Scuotendo il capo scettico, Kanon dichiarò: “Non sta funzionando, Milou! Non si sta addormentando affatto!”

“Anzi”, continuò Aiolia, evitando agilmente una gomitata del gemello maggiore “È sempre più incazzato!”

“Uf! E va bene, piano B, come Botta in testa!”, grugnì il ragazzo, staccando la bottiglia dalle labbra “A estremi mali, estremi rimedi! A nanna, Sasà! Dodo!”, disse, levando pericolosamente la bottiglia mezza vuota in aria. Oddio, mica voleva spaccargliela in testa, vero?

E lo stesso pensiero dovette aver attraversato il cervello di Saga, poiché i suoi occhi si spalancarono tra l’incredulo e il terrorizzato alla vista dell’arma improvvisata calargli contro, pronto a ricevere il colpo, che però non arrivò, anzi, la bottiglia si fermò a qualche centimetro dal suo naso.

“Uh, paura eh?”, lo canzonò Milo, ridendosela alla grossa, appoggiando per terra il liquore. Quand’ecco che il suo sorriso si tramutò nel ghigno assassino, da me assai conosciuto e con un’incredibile velocità il ragazzo elargì un pugno ben assestato al gemello maggiore, spendendolo nel mondo dell’incoscienza.

“Beh, almeno ora ha gli occhi chiusi …”

“Che dite, lo sleghiamo?”

“Nah, penso che gli piaccia, in fin dei conti!”

“Comunque”, dichiarò serio Kanon, una volta usciti dalla stanza del gemello, “credo sia meglio chiuderlo a chiave, sapete, giusto per sicurezza!” e attuò immediatamente la sua proposta, girando ben bene la chiave nella serratura.

“Eh già Ionesco”, sospirò Milo, massaggiandosi le nocche sanguinanti. “Si preannuncia una notte lunga … sei hai bisogni di me, urla!”, mi provocò maligno, pizzicandomi il sedere, provocando così il sopracitato grido.

“Giù le chele, petit scorpion lubrique!”, sibilai indignato, ignorando le risatine di Kanon e Aiolia alle mie spalle, rintanandomi stizzito in camera mia, sbattendola teatralmente.

No, tutto andrà per il meglio, che cos’ho da preoccuparmi?, pensai, scivolando sfinito sotto le coperte, dopo essermi velocemente cambiato – la giornata era stata davvero lunga! - Insomma, vabbè che la forza nervosa di una persona è il doppio, di quella normale, però quelle pesti hanno mezzo ubriacato Saga, l’hanno legato alla sadomaso al letto, l’hanno tramortito con un pugno e pure chiuso a chiave in camera sua! Eddai, dovrebbe essere sul serio Lazzaro, se riuscisse a rialzarsi, dopo simile trattamento …

E arrovellandomi con simili pensieri la testa fin quasi a mezzanotte, mi addormentai come un sasso, dopo aver mandato al diavolo per l’ennesima volta in cinque anni il gallo Jean – François, augurandogli una morte dolorosa.

Et maintenant, dodo!

O forse no?

 

 

To be continued …

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 Uf! E anche questo capitolo postato! Temo di essere un po’ come Saga (gemella malvagia a parte): quando scrivo, non riesco mai a rimanere entro le dieci pagine, è più forte di me!

Bien, che avverrà? Avrà funzionato il piano drastico di Milo?

Alla prossima, ciao!

P.S. Dodo, significa “nanna” e lubrique, “lascivo”.

 

Un po’ di noticine:

[1] Traduzione dal francese:

“ Occhi azzurri / blu, occhi d’innamorato;

occhi verdi, occhi di vipera;

occhi neri, occhi della sera;

occhi grigi, occhi di topolino;

occhi marroni, occhi di maialino.”

E l’aggiunta di Milo: “Occhi dorati, occhi di pederasta (gay)”

 

 [2] Benjamin Malaussène è il personaggio principale del Ciclo di Malaussène dello scrittore francese Daniel Pennac e la sua professione è di capro espiatorio. Singolare eh?

 

[3] Traduzione dall’inglese: “Prima il dovere, poi il piacere, come disse Riccardo III mentre pugnalava l’altro re (Enrico VI) nella Torre (di Londra), prima di soffocare i bambini (i due principi e suoi nipoti, Edoardo V e Riccardo, duca di York)”, questa battuta è tratta da  Il Circolo Pickwick  di Charles Dickens ed è pronunciata da Sam Weller, il servitore del protagonista – Mr. Pickwick, appunto.

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Capitolo 4
*** Opa, Saga! seconda parte ***



B’jour à tous!

Come va?

He – he, rieccomi qua con un maxi lungo capitolo per seconda parte! Yeah, sempre più lunghi: ho battuto il record di 22 pagine, ora sono a 24! (risata della gemella malvagia)

Ringrazio tutti i miei lettori e i miei recensori!

 

A Kiki May: grazie per l’incoraggiamento! Sai, non a tutti piacciono capitoli lunghi ed io, purtroppo, quando m’immergo nella storia scrivo e scrivo, senza fermarmi! Ehm, neppure io so come fanno quei due poveracci a non impazzire, anche se Saga è, alas, caduto nel tunnel della caffeina e non sai quant’è difficile uscirne, parola di caffeinomane senza speranza! Quanto a Camus, dovrà fare appello a tutto il suo sangue freddo per non pigliare l’ascia e farli tutti a fette! Anche se, in fin dei conti, non deve essere così male, insomma, fanno solo un casino atomico, che vuoi che sia? ;- ) Grazie ancora per la recensione!

A Diane924:  vero, una tempesta sta oscurando l’orizzonte, l’uragano Gold Saints, sta arrivando! Dici che i tre siano stati un po’ drastici? Uhm … aspetta di leggere la seconda parte, dove si spiegherà finalmente la loro urgenza di vedere Saga a dodo! Sì, Kanon nascondi la caffettiera, altrimenti la casa salta in aria; quanto ai sonniferi a quei due, temo che ci vorrà più sedativo! Grazie ancora per la recensione!

A Sagitta72: ciao! Rieccomi qua come promesso! Uffa è stato un lavoraccio, per poco non scrivevo in automatica mentre dormivo! Povero Saga, umiliato e offeso dai fratelli minori! No, non credo che più di tanto se la sia presa … forse … certo, che se però s’arrabbia, meglio scavarsi una fosse e non uscirne fino alla fine dell’esplosione. A proposito, siccome si è aperto il comitato WWF “Salviamo Sagittarius Aiolos” la mia gemella malvagia ed io ci siamo consultate, abbiamo consultato le tue recensioni e le altre;  decidendo infine di concedere al centauro l’amnistia e salvarlo! E se leggi con attenzione … un primo accenno a lui lo trovi … gheeeee … Grazie per la recensione! P.S. la gemella sadica ti saluta!

A Clayre: anch’io, come Camus, sono Acquario e preferisco sinceramente il freddo al caldo, MA alla mattina, non sia mai, che qualcuno mi privi del mio piumotto, anche perché la mia stanza era, guarda caso, proprio la meno riscaldata di tutta casa, quindi immagina te, che bellezza, svegliarsi con un freddo boia e lasciare il calduccio del letto! W il paguro! Sì, sì fai in fretta a prenotare il biglietto, ché sennò finiscono i posti! In alternativa, puoi sempre prendere la corriera, sai, sono solo 20 ore di viaggio (parlo per esperienza). Inoltre, credo che sia il sogno proibito di tutte, legare il proprio Gold Saint al letto … Grazie ancora per la recensione!

 

 

Bien, credo che possiamo incominciare: mettetevi comodi, assicuratevi di avere sottomano una bella bibita fresca e un gelato o qualcosa di dolce e godetevi la seconda parte!

Buona lettura!

 

H.

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Uno dei tanti effetti collaterali nel condividere la stanza con un camarade per quasi sette anni era di aver sviluppato una sorta di sesto senso, nel percepire movimenti estranei all’interno di essa e specialmente vicino alla propria persona.

Ebbene, in quell’esatto momento, nonostante fossi intontito alla grossa dal sonno, sentii i capelli dietro alla nuca rizzarsi, segno che qualcuno aveva violato l’intimità della mia camera.  Seppur confusamente, il mio subconscio pensò subito a Milo – eredità dovuta ad un trauma scolastico? – maledicendolo per la sua notturna indiscrezione e pregando qualche santo del Paradiso di convincerlo a non combinarmi a tradimento qualche marachella, dato che ero troppo stanco per alzarmi e fronteggiarlo. Tuttavia, intanto che il mio sistema nervoso si stava riattivando, il mio sesto senso non captava l’aurea scorpionesca di Milo (tradotto: compare all’improvviso; combina la birbonata e si dilegua più rapido di una pantegana), bensì una più tranquilla, certo, e allo stesso tempo più minacciosa della sua.

Uhm … forse era meglio, che mi decidessi ad aprire gli occhi …

Sollevando con uno sforzo disumano le palpebre, mi guardai attorno da sotto il piumino, cercando di discernere i contorni delle figure alla tenue luce mattutina; quand’ecco che il mio sguardo distrattamente inquisitore si posò su di una sagoma, che se ne stava a qualche passo dal mio letto e che, in apparenza, mi stava fissando.

Strinsi gli occhi, focalizzandola e uno sbuffo scocciato mi sfuggì dalle labbra nel vedere Kanon ai bordi del mio letto, frustrazione aumentata dopo aver controllato l’orologio: le sei e un quarto del mattino. “Enfin, Kanon”, borbottai, la voce ancora impastata dal sonno, ignorando la penosa stretta allo stomaco, che mi affliggeva, ogni volta che stava per accadermi qualcosa di brutto “non vorrai mica andare a fare la spesa all’alba e di domenica, per giunta?”, lo rimbrottai, affondando la testa sul cuscino, desideroso di riprendere il sonno perduto.

Invece, i miei occhi si spalancarono all’improvviso, quando una serie di piccoli e trascurabili dettagli (prego di notare l’ironia) mi affiorarono dolorosamente in testa: primo, per quel che ne sapevo, Kanon non si era coricato in jeans, maglietta e felpa; secondo, il gemello minore pareva odiare i colori scuri, quindi come mai indossava, allora, proprio una felpa viola scuro? E terzo, Kanon ieri sera non aveva decisamente l’indumento sporco di liquore alle ciliegie!

“S – Saga?”, mormorai, mettendomi a sedere di scatto, d’un colpo ben sveglio. Sporgendomi dal letto, scostai lentamente la tenda, onde illuminare meglio l’intruso, confermando così i miei sospetti.

Da una parte, ero sollevato nell’apprendere che si trattasse di lui e non di uno dei suoi tre, uhm, due (Kanon mi sembra sulla via della redenzione) pestiferi fratelli; ciononostante, qualcosa mi diceva di non gioirne troppo, ché l’acqua cheta rovinava sempre i  ponti e anche la persona più placida e mansueta di questo mondo poteva trasformarsi in una belva, quando gli giravano i cinque minuti. E Saga, benché in odore di santità, aveva molto da rimproverarci, come un tentativo – fallito – di sbronzarlo; un assalto fisico con espliciti sottotesti osé; un bel cazzotto al posto del bacino della buona notte ed infine un sequestro di persona, dopo averlo rinchiuso incosciente in camera sua. Tenendo, poi, conto che lui condivideva, alla fine della fiera, lo stesso sangue del Demonio, non mi pareva così impensabile da parte sua un tentativo di giustizia poetica – volgarmente nota come vendetta – nei nostri confronti.

Inoltre, non riuscivo a spiegarmi come Saga si trovasse nella mia stanza, in seguito a tutti gli ostacoli postigli dai fratelli; insomma, neanche fosse Harry Houdini, il grande mago dell’escapologia!

“Saga?”, ripetei piano, incominciando ad avvertire una spiacevole sensazione di disagio. Quel che la luce mi aveva rivelato, non mi piaceva per niente; il giovane davanti a me era e non era allo stesso tempo Saga Valavitis: il suo sguardo appariva vacuo, perso sotto le lunghe ciglia bionde semi abbassate, come se coscientemente lui non fosse lì; in aggiunta, le sue labbra si muovevano in automatica, senza proferire, tuttavia alcun suono. Il suo respiro, poi, era pesante e profondo, non come quello di una persona, che fiatava normalmente.

Stavo per ripetere di nuovo il nome, quand’ecco che qualcosa di metallico luccicò sinistramente, quasi … quasi … un coltello da cucina …

Un momento: avevo detto un coltello da cucina?

Un coltello da cucina?!?

Gesù, Giuseppe e Maria!!!

Fu il mio unico disperato pensiero, mentre mi appiattivo come una zanzara contro il muro accanto al letto, completamente gelato dal terrore, incapace di proferire parola! L’unico neurone, rimastomi attivo dopo lo choc, mi suggeriva di chiamare soccorso o di scivolare via come un’anguilla, dato che Saga pareva assai indeciso sul da farsi, limitandosi a fissarmi assente. Beh, in teoria la questione sembrava risolta, ma tra il dire e il fare c’era di mezzo e il mare e in quell’occasione, c’era di mezzo l’oceano Atlantico, anche perché non capitava tutti i giorni di svegliarsi con il proprio fratellastro vicino al vostro letto con un coltello da cucina in mano.

 E se una parte di me si sforzava di credere, che si trattasse di uno scherzo di pessimo gusto – neanche Milo in piena crisi sadica arrivava a tanto – le parole borbottate da Saga spazzarono via definitivamente quella piccola speranza: “Io … io … ti ammazzo … maledetto … hai finito di vivere …”, mormorò, il tono di voce basso e gutturale, distante anni luce da quello più dolce e tenorile, che lo caratterizzava solitamente.

Inutile dire, che la frase aiutò il mio cuore a smettere di battere per cinque lunghi secondi, per poi riprendere rumorosamente la sua attività a ritmo di cancan. Tutti i rumori, del resto, mi arrivavano amplificati, dalle lancette dell’orologio, al canto del gallo Jean – François.

Mi vuole sul serio uccidere? Ma ce l’hanno tutti con il sottoscritto? Eddai, manco fossi una ricca ereditiera! Oddio, si avvicina! No, non voglio morire, non pugnalato, ché farà male di sicuro! E soprattutto, non prima d’essermi vendicato di Milo!

Uhm, chissà perché penso ora a lui …

Forse perché sto per essere accoppato dal di lui completamente schizzato fratello?

O forse perché è appena comparso alla porta assieme ad Aiolia?

“Camus!”, fu il serio, per una volta, appello di Milo, il quale era ritto e attento sull’uscio, il braccio teso in avanti, come per zittirmi. “Non muoverti e soprattutto non gridare, farai peggio: è sonnambulo, non si rende conto di quel che sta facendo!”

Sarà, ma intanto ha un dannatissimo coltello in mano, bon sang!

“Resta fermo, Camus, resta lì dove sei …”, mi ordinò Aiolia, mentre il terzogenito avanzava lentamente verso il sottoscritto, il quale per la cronaca s’era rannicchiato in un angolo del muro, le ginocchia portate al petto, specie quando Saga aveva mosso un passo nella mia direzione. “Non dire una parola … respira a fondo …”, fu il suo consiglio del ragazzo, che cercai di mettere al meglio in pratica, stringendo nel frattempo i pugni convulsivamente, imponendomi di mantenere il sangue freddo, senza lasciarmi andare alla lusinga del panico più nero.

E il leggero e delicato tocco della mano di Milo, ebbe l’effetto contrario delle sue aspettative: se, infatti, era inteso con lo scopo di calmarmi, beh, per poco non ululavo come un lupo in calore. Il ragazzo dovette comprenderlo, in quanto afferrò la mia nuca, spingendomi il viso sull’incavo della sua spalla, che m’incitò perfino a mordere, pur di tacere. Ed io, con il cervello così in oca anche solo per giudicare assurda tale richiesta, vi affondai senza tanti rimpianti i denti, mentre mi stringevo convulsivamente a lui, piantandogli le unghie sulla schiena.

Sopportando stoicamente il dolore, che mio malgrado gli stavo infliggendo – non mi era sfuggito il piccolo spasimo dei suoi muscoli – Milo mi sistemò le gambe acciocché gli stringessi con esse il bacino, per poi mettersi su in piedi in un unico fluido movimento, tenendomi in braccio come un infante, lo sguardo sempre fisso e attento ai movimenti del fratello sonnambulo. Silenziosamente, scivolammo via dalla camera, mentre Aiolia chiudeva piano la porta, per raggiungere quella di Milo.

“Merde!”, imprecò il fratello minore, appoggiandosi al muro. “Non aveva mai avuto crisi indirizzate sul violento! Eppoi, come accidenti ha fatto a liberarsi dai nodi? Ad uscire da una stanza chiusa a chiave?”

Milo non disse nulla, continuando, invece, ad accarezzarmi dolcemente la testa e a massaggiarmi la schiena, onde calmare la massa tremante, qual era divenuta il mio corpo. Pian piano, sentendo il panico fluire via, mi sciolsi dal suo abbraccio, osservando preoccupato la macchia rossa, che gli lordava la maglietta bianca.

“Da quanto?”, chiesi flebilmente, la voce roca. Cauto, il ragazzo mi chiese, che intendessi di preciso con quella domanda. “Da quanto Saga è sonnambulo?”

“Da … da quel giorno …”, rispose incerto Aiolia, mordendosi il labbro inferiore a disagio. Ovvio, che stupido, si riferiva alla morte della madre. “Ma mai ha … ha tentato di … mai questa violenza …”, balbettò confuso.

“Qualcosa o qualcuno deve averlo infastidito a tal punto, da desiderare la sua morte anche nella fase rem”, ragionai ad alta voce, cercando mentalmente la vittima designata dal sonnambulo assassino.

Silenzio.

“Kanon!”, esclamammo tutti e tre all’unisono, scattando veloci in piedi e scendendo come invasati dalle scale. Che idioti! Come ci era potuto sfuggire di mente  la lite del pomeriggio scorso? Saga era un caffeinomane impenitente e Kanon non solo gli aveva buttato nell’immondizia la riserva segreta di caffè sotto il naso, ma gli aveva pure minacciato di nascondere la caffettiera. Quindi, il subconscio del giovane doveva aver elaborato una sanguinolenta punizione verso lo sfrontato fratello e il fatto che fosse sonnambulo lo aiutava inconsciamente a portarla a termine.

“Aiolia, vai a controllare le stanze di Papa e Corinne e della nonna, giusto per essere sicuri!”, gli disse Milo e il fratello sparì senza esitazione. “Quanto a te”, continuò stringendomi forte il polso, “vieni con me nella stanza di Kanon” e mi trascinò via con lui.

Arrivati lì, il ragazzo bussò piano alla porta del gemello minore, chiamandolo.

Nessuna risposta.

“Kanon!”, insistette Milo, la voce incrinata dall’angoscia. Che strano vederlo così … “Kanon! Bon sang, apri la porta, Kanon!”

Sempre nessuna risposta.

Con un sordo ringhio di frustrazione, il ragazzo aprì la porta di malagrazia e dopo un istante d’esitazione entrammo insieme nella camera, la quale era impregnata del silenzio più pesante, non un solo suono era percettibile, niente si muoveva, neppure il bozzolo tra lenzuola e piumino qual era il letto dove Kanon – a Dio piacendo – dormiva. Lentamente, ci accostammo a lui, il cuore in gola a causa del terribile dubbio, di essere stati anticipati da Saga.

 E se fosse stato così? Se davvero avesse ucciso il fratello? Quale sorte gli sarebbe toccata? Al processo gli avrebbero dato l’attenuante, che era al momento del delitto incapace di intendere e di volere?

“Kanon”, sussurrò Milo, allungando cauto la mano per scostare le coperte, quasi avesse paura di ritrovare il fratello ridotto come Mary Kelly [1]. Inconsciamente, mi sporsi in avanti anch’io, trattenendo entrambi il respiro, il battito del nostro cuore impazzito.

Le lenzuola scivolarono via dal viso di Kanon, rivelando …

“Uhm … Pandora … brutta zoccola …”, lo sentimmo grugnire, mentre si rigirava sul fianco, stringendo forte il suo cuscino, affondandoci contro il viso e dormendo alla grossa; un filo di bavette, che gli colava pure dalla bocca leggermente dischiusa.

La nostra prima e istintiva reazione, fu di balzare indietro con un poco dignitoso urletto, più dovuto alla tensione accumulata, che di vera e propria paura.  E mentre io continuavo a tenermi la mano stretta al petto, là dove il mio cuore cantava la Marseillaise a squarciagola, Milo stringeva convulsivamente i pugni, i capelli arricciati fin quasi a formare un paio di diavolesche corna e la sua aurea assassina a mille volt.

Di conseguenza, non mi stupii tanto nel vederlo artigliare il materasso e ribaltarlo assieme al dormiente senza tante cerimonie, imprecando furioso: “Va te foutre, Kanon, espèce de con! Ed io che mi preoccupavo pure per te! P’tain de merde!”, tirando pure un calcio al letto, il viso porpora dalla collera.

“Gnéé?”, farfugliò spaesato il poveraccio, riemergendo dalle macerie del suo giaciglio; se non ci avesse spaventato così tanto, mi avrebbe fatto anche un po’ pena per simile brusco risveglio. “Dov’è il terremoto?”, disse, guardandosi intorno e, non appena ci vide, puntò sibilando il dito contro il fratello. “Tu sei la mia colazione! Che cosa ti è saltato in mente, di svegliarmi così, petit sadique? Io ti schiappo!”

Prima che Milo si avventasse contro il gemello minore per il suo scalpo, m’intromisi diplomaticamente, spiegando: “Vedi Kanon, eravamo in ansia per te, temevamo che ti fosse accaduto qualche cosa di male!”

“A me?”, chiese scettico il giovane, alzandosi a fatica dal casino generato dal fratello. “È successo qualcosa?”, aggiunse, questa volta con tono apprensivo; la sua mente, che forse già formulava la sua ipotesi per spiegarsi la nostra irruzione.

“No guarda, tutto a posto, c’è solo Saga che sta girando sonnambulo per casa con un coltello in mano, proferendo intenti omicida a tutto allé! No, credo che possiamo decisamente dormire tranquilli!”, sbuffò sarcastico Milo, le mani poste bellicosamente sui fianchi.

“Pensavamo fosse venuto da te per vendicarsi, poiché fosti tu ad averlo privato del suo preziosissimo caffè!”, aggiunsi concitatamente.

Kanon, più smarrito che mai, tentò di replicare qualcosa, quand’ecco che un trafelato Aiolia fece la sua comparsa nella stanza. “Ah, Nônon, sei ancora vivo!”, fu il suo saluto e continuò, ignorando il commento poco elegante del gemello. “Ragazzi, ho due notizie: una bella e una brutta. La bella è che Sasà non si è avvicinato né alla stanza di Papa e Corinne, né a quella della nonna” e respirammo di sollievo a tale notizia. “La brutta è che Sasà è sparito.”

“Come, è sparito?”, strillò Kanon, al limite dello sconcerto, rendendosi ora conto della gravità della situazione, che il suo gemello aveva inavvertitamente provocato.  

“Non è più in casa!”

“Oh mon Dieu, non di nuovo!”, ululò sconsolato Milo, coprendosi esasperato il volto con le mani. “L’ultima volta, che è uscito di casa sonnambulo, l’abbiamo ritrovato, che faceva l’autostop all’inizio dell’autostrada!”

Cercando di scacciare l’inopportuna immagine di Saga autostoppista dalla mia mente, diedi timidamente la mia opinione: “Scusate, però, c’è qualcosa che non capisco: se il subconscio di Saga ha elaborato istinti omicida verso qualcuno, ma lui stesso non ha accoppato nessuno in questa casa, anzi, è perfino uscito da essa, allora, verso chi è rivolata tutta questa violenza?”

Pausa riflessione.

E il gallo cantò.

“No, non lui!”, gridammo in coro, fiondandoci in giardino dalla porta finestra – che guarda caso, trovammo già aperta – e correndo perdifiato verso il pollaio.

“Tutto questo bazar, per un dannatissimo gallo?”, brontolò Milo, rabbrividendo per il freddo: sfido, eravamo usciti mezzi svestiti a novembre! “Ma l’ammazzo io, Saga!”

“Ta gueule, Milou!”, lo rimbeccò Kanon, “pensa a correre, che se non fermiamo Sasà, ci ritroviamo per pranzo galletto allo spiedo!”

“Quasi, quasi, però, io lo lascerei fare …”

“Aiolia, tu quoque?”

E come sospettavamo, scorgemmo Saga davanti al recinto dei polli, occupato in un intenso scambio di sguardi con il gallo Jean – François; il primo con odio totale, seppur annacquato dallo stordimento del sonno, mentre l’altro lo fissava … beh, lo fissava da gallo.

“Saga!”, lo chiamammo piano, tentando di attirare la sua attenzione, ma ormai il giovane era troppo risoluto nella sua follia sonnambulistica per rinunciare al suo intento. “Non farlo! Non sei così cattivo, sei buono! Il tuo santo preferito è perfino San Francesco d’Assisi!”

“Quello che fece la predica ai polli!”, gli ricordò Aiolia.

“Eh, veramente erano degli uccelli”, lo corressi, sovvenendomi delle lezioni di catechismo sulle vite dei santi.

“Embé, cos’è questa discriminazione da parte tua? Cos’hai contro i polli?”, difese Milo il fratello, pizzicandomi di nuovo il sedere.

“Personalmente niente, ma Saga sembra avere qualcosina da chiarire con uno di loro …”, mi giustificai, massaggiandomi il posteriore offeso da quelle lascive chele.

Passandosi una mano sulla tempia, Kanon si avvicinò un poco al fratello, il quale osservava famelico il gallo dritto nei suoi inespressivi occhietti neri. “Dai, Sasà, molla il coltello e vieni a fare dodo con me!”, lo ammansì, quasi stesse parlando a una bestia selvatica da addomesticare.

“Maledetto … bastardo … ti odio …”, mormorò come in un mantra il gemello maggiore, la stretta al manico sempre più forte. “Mi hai esasperato … mi hai distrutto …”

“Sasà …”

“Basta!”, gridò il giovane per la prima volta, gli occhi d’un tratto spalancati. “Io devo dormire!”, dichiarò con decisione, sporgendosi ulteriormente verso l’animale.

“Non lo mettiamo in dubbio, Sasà, però potresti non accoppare il gallo?”

Una cupa risata gutturale – cattivo sangue non mente – sfuggì dalle labbra del gemello maggiore. “E adesso …”

“Oddio, che vuole fare?”, esclamò sconcertato Aiolia, gli occhi incollati – come i nostri, del resto – sulla lama levata in alto con veemenza in traiettoria perfetta per dividere a metà il gallo.

“ … muori!” e calò il coltello. Chissà in quel momento, che passava per la testa dell’animale … uhm … che si rendesse conto, di essere ormai destinato al forno con le patate?

“No, Sasà! Non uccidere Jean – François!”, urlammo e avvenne il miracolo: la punta della lama si fermò a qualche centimetro dalle penne dell’animale, mentre il piccolo fremito delle spalle del gemello maggiore ci segnalò che, finalmente, era ritornato nel mondo dei coscienti. E il gallo ne approfittò per svolazzarsene via. Apparentemente, il non aver associato la parola “gallo” al suo nome pressoché cristiano, doveva essere stato inteso dalla labirintica mente di Saga come un tentato omicidio di una vera persona.

“C- che è successo?”, domandò confuso il giovane, guardandoci con occhioni da cerbiatto orfano. “C- che ci faccio q- qui?”, balbettò rabbrividendo. “Non ditemi, che ci sono ricascato …”

“Ehm … ti spieghiamo tutto in camera tua, va bene?”, disse Kanon in tono più conciliante e, indicando l’arma dello scampato delitto, aggiunse: “Però lascia quel coltello, eh? Fa una certa impressione, non so se mi spiego …”

Osservando come una bestia rara la lama brillare alla luce del mattino, Saga chiese conferma e dinanzi al nostro violento e frustrato ruggito affermativo lasciò sul serio cadere il coltello, che si conficcò ai suoi piedi con un sordo …

Chicchirichìgleuahglueaguurrrrr

Silenzio di tomba.

“Jean – François?”, domandai come rintronato, osservando a bocca aperta la figura immobile del gallo, con la lama, che lo attraversava in tutta la sua lunghezza.

“Oh mon Dieu!”, esclamò Kanon, inginocchiandosi accanto a me, la mano appoggiata sulla mia spalla.

“È … è morto?”, chiese piano Aiolia, indicando l’animale con mano tremante.

“Nah, sta benone; non vedi che è il ritratto della salute?”, replicò serafico Milo, l’unico che pareva divertito dalla situazione. “Morto sul colpo; però Sasà, hai del talento, sai?”

E solo in quell’istante Saga si riebbe dalla trance nella quale era caduto, dopo aver udito il gorgoglio agonizzante di Jean – François. “Ho ammazzato il gallo!”, ululò, portandosi le mani sui capelli, letteralmente sconvolto dal suo gesto.

“Eddai, quante storie! Mica è colpa tua, se quel cretino ti è passato accanto, proprio mentre avevi lasciato cadere il coltello. È stato un incidente!”, lo consolò il gemello, accarezzandogli la schiena, gli occhi sempre puntati sul cadavere.

“Ma quale incidente!”, replicò Aiolia, incrociando le braccia “quel fottuto gallo voleva suicidarsi, altroché! Ha provocato Sasà, privandolo del sonno e nonostante grand frère avesse desistito nel suo intento, quell’animale si è piazzato giusto giusto nella traiettoria del coltello! Insomma, più suicidio di così!”

“Saga, era una questione ormai di vita e di morte per te: il gallo non ti faceva dormire e il tuo cervello ha elaborato un meccanismo di autodifesa per preservarti da un esaurimento nervoso! O tu o il gallo!”, aggiunsi alla sequela di astruse giustificazioni, per non farlo sentire in colpa. Poveraccio, non sapeva quante volte anch’io avessi tentato di sbarazzarmi di Jean – François!

“Grand frère, non ti preoccupare; senza saperlo, hai reso un enorme servizio all’umanità: credimi, nessuno sentirà la mancanza di quello spacchi – palli”, lo rincuorò Milo, “io non di certo.”

Dopo un lungo e profondo sospiro, Saga disse lentamente: “Non è il fatto d’aver ucciso il gallo di per sé, che mi tormenta, bensì le varie implicazioni affettive a lui legate: era o non era l’animale preferito della nonna?”

Ahia, piccolo dettaglio del quale ci eravamo completamente dimenticati!

“Beh, se non glielo diciamo … crederà sia stata una volpe …”, suggerì Aiolia, subito fustigato dal terzogenito:

“Ah ouais? Da quando in qua una volpe scorazza con un coltello per i boschi? Oh beh, sempre che non si tratti della Volpe Rambo, ben inteso!”

“Ovvio, che togliamo il coltello, non sono così idiota, sai?”, ribatté piccato il fratello minore.

“E come la mettiamo con l’autopsia?”

“Se invece lo buttassimo nel cassonetto delle immondizie a inizio strada?”, propose Kanon. Poi, rivolto al gemello: “Pensi che vada nell’umido o nel secco?” e si stava già avviando a prendere il sacchetto di nylon.

“No”, m’intromisi io, fermandolo. “Non ci conviene: nel caso il gallo scompaia, quello sarebbe il primo posto, nel quale Mamie andrebbe a controllare!”

“E perché?”

Attorcigliandomi imbarazzato una ciocca di capelli rossi, confessai borbottando: “Perché ho tentato di sbarazzarmi di Jean – François proprio gettandolo nelle immondizie!”

“Ha, le coquin!”, esclamò deliziato Milo, passandomi un braccio sulle spalle. “Piccolo pirata dalla faccia d’angelo! Incominci proprio a piacermi, sai?”

“Resta solo l’opzione di seppellirlo nel bosco”, concluse Saga, appoggiando sconsolato il mento sulla spalla del gemello. “Avremo bisogno di un sacco di nylon; del nastro adesivo e una pala per scavare …”, fece la lista ad alta voce, mentre ci dirigevamo nel gabbiotto degli attrezzi.

“Cos’è tutta questa professionalità, Saga? L’hai già fatto per caso?”, lo canzonò Milo, che indietreggiò quando il gemello maggiore gli puntò contro al petto la pala.

“Se non vuoi andare a fare compagnia a Jean – François, ti conviene tacere, che ho già di mio le palle girate per questa storia assurda!”

“Mai quanto te!”, dichiarò flemmatico il ragazzo, abbassando l’attrezzo.

“State zitti e muovete le chiappe, che abbiamo perso fin troppo tempo!”, li rimbrottò Kanon, spingendoli via dal gabbiotto. “Alle sette e mezza la nonna si alza!”

“E che ore sono?”, chiese Aiolia, che faceva da apri fila.

“Le sette meno cinque …”

“BORDEL!”, imprecammo all’unisono, infilandoci nella macchia come scimmie ubriache. Se in quel momento, una lepre fosse passata lì per caso, si sarebbe goduta il grottesco spettacolo di cinque bipedi correre mezzi svestiti per il bosco, degni emuli dell’Homus Erectus. E più precisamente, Aiolia farci strada con la torcia – era più buio nel bosco –  e il nastro adesivo; seguito da Saga con la pala in mano; con dietro Kanon con il coltello insanguinato; poi io con il sacchetto svolazzante delle immondizie appresso ed infine Milo che teneva il gallo per il collo.

Ci fermammo in un punto ben nascosto da sguardi indiscreti e, dopo aver sondato ben bene il terreno, Saga si mise a scavare la fossa per il cadavere, intanto che noi lo ficcavamo dentro la sua bara di plastica, assieme al fazzoletto con il quale avevamo pulito il coltello, sigillandola con lo scotch. Infine, quando il gemello maggiore ci annunciò che aveva finito, vi gettammo dentro le spoglie mortali del fu gallo Jean – François.

“Credi che dovremmo dire qualche parolina di congedo?”, propose Kanon, osservando il sacco infondo alla buca.

“Beh, sì dai. Momus, tu eri quello che lo conoscevi meglio!”, fu d’accordo Aiolia e, sospirando, accettai.

“Seigneur, Vierge Marie e Arcange Michel, oggi entrerà in Paradiso l’anima del gallo Jean – François a farVi compagnia: spero vivamente che non vi disturbi, sennò buttatelo pure a calci in culo all’inferno. Amen!”

“Amen!”, risposero in coro i quattro fratelli, segnandosi, dopodiché Saga incominciò a riempire di terra la fossa.

“Bel sermone, Momus, davvero!”

“Grazie, Kanon: ogni parola era davvero sentita col cuore!”

“A proposito”, s’intromise Saga, notando la macchia di sangue sulla maglietta di Milo “come te la sei procurata?”

“Oh, questa?”, fece con nonchalance il ragazzo, stringendomi malizioso per la vita. “Niente di che, solo un appassionato succhiotto. Non è vero Momus chéri?”, disse mieloso, baciandomi sulla guancia, favore, che ricambiai balzandogli via come una lepre, nascondendomi dietro a Saga, che ci guardava incerto se ridere o piangere e stranamente, optò alla fine per la prima, lanciando un’occhiata significativa al fratello, che ricambiò altrettanto furbetto, strizzandomi l’occhio.

Oddio, in che razza di combriccola di matti ero capitato?

 

***

 

Quella domenica del 3 novembre, la mia nuova famiglia ed io fummo l’attrazione principale nella chiesa del paesino a dieci kilometri da casa nostra; infatti, oltre ad occupare un banco intero solo per sederci tutti, le beghine della parrocchia osservavano tra l’accigliato e il compiaciuto l’intero nostro clan, contente di aver appurato che finalmente Corinne Molinier era rientrata sulla retta via, trovandosi un marito.

“Allora, qual è la condanna?”, chiese Milo in un sussurro, una volta che Saga ritornò dalla confessione.

“Tre Ave Maria e un Atto di dolore”, ribatté neutro il gemello maggiore, mentre le recitava a mente, inginocchiato.

“Solo per aver ammazzato fratello gallo?”

“No, avevo altre faccende delle quali chiedere perdono. Ora fai il bravo bimbo e lasciami pregare!”, lo invitò con calma e il terzogenito rispettò la sua volontà, sistemandosi tra me e Aiolia.

“Saga sembrerebbe essere molto devoto …”, sussurrai al fratello minore.

“Sì è molto devoto.”

Schifosamente devoto”, lo corresse Kanon con insolita veemenza, seppur sottovoce. “Ce lo hanno plagiato, ecco. Ho scoperto poi, che in Germania fa da assistente al catechista della parrocchia! E quando era qui, il prete della nostra lo aveva quasi convinto a entrare in seminario! Roba da matti!”

“Che c’è, Nônon, avevi paura che Sasà diventasse il prossimo Pontefice?”, lo canzonò sarcastico Milo, puntandogli contro gli occhi turchesi.

“Spiritoso. Mi dava semplicemente fastidio, che quel furbastro se ne approfittasse del suo smarrimento spirituale dopo la morte di Maman e …”

Il suono della campanella e il canto del coro, che annunciavano l’inizio della Messa, interruppero bruscamente il discorso del gemello minore.

Finalmente, poco a poco, incominciavo a intravedere l’anima dei fratelli Valavitis, tra le crepe dell’armatura dietro alla quale si proteggevano e che avevano costruito attentamente in otto anni senza madre. All’apparenza, infatti, sembravano indistruttibili e temprati dal lutto e forse lo erano; tuttavia, a quale prezzo? Sotto, vi era invece una terribile fragilità da parte di ciascuno di loro, una strisciante insicurezza di non essere abbastanza utile ai propri fratelli. Ora lo vedevo, seppur confusamente, anche perché mi mancavano troppi tasselli di quell’intricato puzzle, qual era il loro rapporto e speravo di poterlo comprendere, non per morbosa curiosità, bensì per essere da loro considerato qualcosa di più, che un neutro parente acquisito. 

Bah, vaneggi belli e buoni!, pensai, affondando depresso il viso sotto la sciarpa, che mi venne scostata dal dito inquisitore di Milo, il quale mi scrutava indecifrabile. “Che cos’hai?”, mi chiese piano, ponderando con attenzione le parole.

“Sono nella fase paguro!”, ribattei sarcastico, desideroso solo di rintanarmi di nuovo nell’indumento dal quale ero stato arditamente denudato e giurai d’aver visto le labbra del ragazzo incrinarsi in una sottile piega divertita.

“Come desideri!”, disse, rimettendomi a posto la sciarpa e ritornando a fissare il foglietto della Messa.

Decisamente lunatico e contraddittorio questo ragazzo, sì.

“A che pensi?”, mi domandò Milo ad un tratto sottovoce.

“A nulla”, risposi incolore, chiedendomi il motivo di simile loquacità nei miei confronti e soprattutto meravigliandomi della sua personale iniziativa nel rivolgermi la parola.

“Menteur!”, mi definì scherzosamente il ragazzo, alla cui provocazione ribattei con trasporto un sentito:

“Arrogant!”

Sogghignando tra sé e sé, lui riprese imperterrito: “Allora, a che pensavi?”

“Non mi avevi proibito di parlarti?”, gli ricordai scocciato, abbassando il foglietto della Messa, sperando di chiudere lì l’argomento e che mi lasciasse in pace per qualche secondo.

No, era proprio intenzionato a infastidirmi, perfino in chiesa. “A scuola, a casa mai”, sottolineò pragmatico.

“Ovvio, di certo non contemplavi di avermi in famiglia un giorno”, dissi, scrollando le spalle.

“Chi te lo dice?”, replicò Milo d’un tratto malizioso, gli occhi illuminati dalla sua usuale e innata birberia. Che cosa intendeva con quella frase?

Uhm … sentivo che il masnadiere mi stava preparando con cura un bel campo minato, onde farmi saltare in aria alla prima occasione; per questo motivo, optai per un neutro: “Non farmi ridere, Valavitis!”

“Non è appunto quella la mia intenzione. Ho notato, che hai la brutta tendenza a rispondere ad una mia domanda con un’altra domanda, Ionesco”, mi rinfacciò con lo stesso tono di rimprovero semiserio, quando aveva scoperto sotto il mio letto il barattolo di Nutella.

Volevo rispondergli se la cosa lo turbava; tuttavia, era consigliabile per me non avventurarsi nel suo contorto mondo emozionale, giacché lo avrei provocato ed era esattamente ciò che lui desiderava. No, dovevo restare sul neutrale e allo stesso tempo fargli capire, che non era mia intenzione continuare oltre la conversazione. “Lode al tuo spirito d’osservazione!”, dissi, accorgendomi troppo tardi di aver calcato un po’ troppo le parole.

E come immaginato, Milo colse al volo l’occasione. “Ho sentito del sarcasmo nella tua voce?”, domandò, falsamente dispiaciuto, quando in realtà stava godendo come un riccio.

“Ho avuto un buon maestro”, risposi vago, tentando lo scaccomatto a quella partita a scacchi, qual era diventata la nostra conversazione e che, inspiegabilmente, mi stava divertendo. Oddio, la Fauve mica mi aveva contagiato?

“Davvero? E cos’altro ti ha insegnato”, mi soffiò all’orecchio, sorridendo birbante “questo maestro?”, chiese, lasciandomi interdetto e a corto di repliche, anche perché il disgraziato aveva benissimo capito, a chi mi stavo riferendo. Il Demonio intuì il mio imbarazzo e la mia indecisione e rise gutturalmente, gustandosi soddisfatto il rossore delle mie guance.

Dannato.

“Lo sai, dicono che dove ci sia più odore d’incenso, più sotto si senta quello dello zolfo; che più una persona sia buona e pura, più siano i suoi demoni contro i quali lottare”, riprese con tono più serio, lo sguardo posato su di un punto indefinito della navata centrale.

Lo osservai confuso: perché ora mi diceva questo?

“Vedo, che osservi con occhi nuovi mio fratello e non proprio al positivo …”, rivelò infine il motivo di quel suo repentino cambiamento d’umore. “Lo stai forse giudicando? Tu, che non sai nulla?”, mi accusò, gli occhi turchesi d’un tratto più scuri e cupi.

“L’hai detto, io non so nulla: per questo non lo giudico”, replicai semplicemente, che altro potevo dire? Era la verità del resto; certo, ero rimasto stupito su quanto era avvenuto, però, volevo avere più indizi, prima di definire una volta per il tutte il carattere non solo di Saga, ma di tutti i Valavitis.

“E ti conviene!”, fu il secco commento del ragazzo, che mi fece trasalire un poco, per l’aggressività ivi celata. Umettandosi a disagio le labbra, conscio di avere esagerato, Milo si corresse subito, spiegandomi: “Detesto le persone, che sparano sentenze, solo dopo la prima impressione e mi dispiacerebbe davvero includerti in quella triste cerchia!” e dal tono con cui affermava ciò, sembrava che avesse in più occasioni avuto modo di sperimentare la sua teoria.

Adesso, percepivo, che non stavamo più giocando; il nostro dibattito aveva preso una piega dolorosamente seria e capivo che non era il Milo il Demonio a conversare con me, bensì Milo il Ragazzo, il quale stava allo stesso tempo difendendo l’onore del fratello e, stranamente, cercando di preservarmi tra le persone da lui odiate. Replicai dunque, anch’io sincero: “Non si possono evitare i giudizi della gente, Milo, anche perché noi viviamo attraverso essi!”

“Purtroppo!”, convenne sbuffando con vivacità.

“Purtroppo”, ripetei più pacatamente.

“Saresti pronto a mettere in discussione i tuoi giudizi?”, mi domandò d’impulso, avvicinando il suo viso, onde scrutare i miei occhi in profondità, come se volesse leggermi i pensieri o peggio l’anima. Erano i momenti nei quali raggiungevo lo zenit del disagio; preferivo che m’ignorasse, che mi combinasse qualche dispetto, piuttosto che indagare in me qualcosa di cui io stesso ignoravo l’esistenza, con quei suoi infernali occhiacci.

“Forniscimi l’occasione e lo farò”, affermai senza accorgermene, la rotta della mia lingua totalmente smarrita, ogniqualvolta Milo mi sbatteva con le spalle al muro.

“È un ricatto, Camus?”, riecco quell’ingiustificata aggressività nei miei confronti. O forse, no?

“È una promessa, Milo”, mormorai piano, alzandomi poi per ricevere la Comunione, imitato da lui dopo qualche istante.

Quando ritornai al mio posto, il ragazzo non si sedette più accanto a me, preferendo, invece, stare vicino a Saga, il suo braccio stretto a quello del fratello maggiore, la testa bionda appoggiata stancamente sulla sua spalla.  Poi, ad un tratto, accostò la sua bocca all’orecchio del gemello più anziano, sussurrandogli qualcosa, che dovette impressionare positivamente Saga, dato che i lineamenti del suo volto si rilassarono in un’espressione più pacifica, mentre con la mano destra accarezzava silenzioso la zazzera bionda di Milo.

Decisamente strano, già.

***

 

Fu Aiolia a lanciare la proposta bomba, evidentemente desideroso di sfuggire alla tortura della passeggiata domenicale al parco di Mont –de- Marsan; infatti, per nostra sfortuna, la giornata era discreta e così ci ritrovammo imbrigliati in quel sadico rituale, che si perpetuava d’autunno in autunno. Inoltre, le ansie, che Mamie sfogava con Maman e M. Christophe circa l’improvvisa scomparsa del suo adorato Jean – François, non ci mettevano proprio a nostro agio, Saga in particolare.

“Ho sentito, che nella sala giochi hanno aggiunto una nuova attrazione”, riferì al padre con voce suadente, sfruttando, almeno per una volta, il vantaggio di essere l’ultimogenito. Infatti, avevo compreso che era una tattica tra fratelli: siccome Aiolia era lo chouchou di Papa, quando i maggiori avevano una richiesta d’avanzare al capoclan, essi mandavano avanti il minore, al quale raramente veniva negato qualcosa. Ammirai davvero quello spirito di squadra e soprattutto, quanto poco egoista fosse Aiolia, da non approfittare mai della predilezione del padre, se non in rare occasioni – infondo, anche lui era umano. “Però è solo temporanea, non dura tanto …”, aggiunse, con il sottotesto Carpe Diem! Carpe Horas!  “Eppoi, non saresti più costretto a sopportare i musoni lunghi la Parigi – Dakar della tua prole, dei quali non hai fatto altro che lamentarti per tutto il pomeriggio!”

Ottimo punto, il ragazzo prometteva bene.

“Ci dai il tuo permesso, Papinou?”

M. Christophe sarebbe stato più che contento di esaudire la richiesta di Aiolia, ché tra guerre di castagne; imprecazioni dei feriti; sbuffi annoiati dei coinvolti e i patemi della futura suocera, gli stava venendo un furioso mal di testa. Ciononostante, doveva pur mantenere una qualche parvenza di autorità di pater familias, quindi sentenziò con giocosa solennità: “Solo se anche i tuoi fratelli sono d’accordo!”

“D’accordo!”, disse Milo, prima ancora che il padre terminasse la frase.

“Ci sto!”, si aggiunse Kanon, massaggiandosi il braccio dopo l’ultima castagna, che l’aveva colpito a tradimento.

“Se vi va …”, fu la meno euforica risposta di Saga, subito lapidato di castagne dai due fratelli, che gli sibilarono: “Più entusiasmo, bon sang!”

E anticipando la scarica fatale di castagne a me esclusivamente riservata, dichiarai veloce: “D’accordissimo!”, tuttavia intrigato dall’idea di entrare in quella gigantesca sala giochi, nella quale, per un motivo o l’altro, non avevo mai messo piede.

M. Christophe mormorò qualcosa ad Aiolia, il quale si voltò verso di noi e, con un sorriso birbante, ci fece il segno dell’OK.

I Valavitis Brothers avevano colpito ancora.

 

***

 

Prima di recarci nella nuova attrazione al terzo piano – accidenti, quella sala giochi era gigantesca, sebbene fuori città - Aiolia insistette di provare il labirinto di specchi e solo una volta dentro capii il perché: era l’unica attrazione dentro alla quale si potevano scattare delle foto e il demonietto si era immediatamente messo all’opera, immortalandoci nelle posizioni più assurde, tra invettive e minacce di morte da parte dei fratelli.

Non resistette nemmeno alla tentazione di acquistare le foto scattate al momento della nostra uscita, in ordine di arrivo, e che ci mostrò in un momento di pausa, seduti al bar. Il primo a essere uscito era Saga, che avanzava nella foto sornione come un gatto, che aveva appena mangiato il suo paffuto canarino, il capo leggermente inclinato, quasi stesse pensando: “Troppo facile!”

Il secondo era Kanon, che si stava tenendo la pancia dalle risate, il viso porpora e qualche lacrima agli occhi. Il mistero di tale inattesa ilarità venne sciolto nella terza foto, con Milo -  che per la cronaca si stava stoicamente auto imponendo di non ridere –  che trascinava il sottoscritto per il braccio, mentre mi tenevo la mano aperta sulla fronte, celando all’obiettivo della macchina fotografica un regale bernoccolo. Ebbene sì: avevo sbattuto contro uno specchio, l’ultimo, maledizione!

Infine, si vide uscire Aiolia, mentre controllava soddisfatto la foto o peggio il video, che di sicuro il delinquente doveva avermi fatto a tradimento, intanto che immolavo la mia fronte sulla superficie liscia dello specchio.

“Allora, Iou – Iou, dov’è questa nuova attrazione?”, chiese Kanon, sistemandosi ben bene sulle ginocchia del gemello, poiché non c’erano abbastanza sedie nel nostro tavolo.

Aiolia tirò fuori dalla tasca un piccolo depliant rosso e nero e lo cedette al fratello, che lo lesse assieme a Milo e a Saga. “Vampiri?”, fece un poco scettico.

“No, solo su Dracula! A scuola mi hanno detto, che fa veramente paura come giostra!”

“Ci credo, magari hanno visto Pattinson e la Stewart che ci davano dentro in un French kiss!”, scherzò Kanon, ridendosela alla grossa, voltandosi poi rapido verso il fratello. “Ecco, tu sei esattamente la mia qualità preferita di eroina …”, citò melenso a Saga, che roteò svenevole gli occhi, per poi correggersi maligno “Anzi, nel tuo caso, direi piuttosto di caffè!” ed entrambi i gemelli condivisero di gusto la battuta, sghignazzando in perfetta sincronia.

 

“Argh, per favore non mi parlate di Twilight, ché Shaina m’ha costretto ad andarlo a vedere al cinema e a momenti svenivo per iperglicemia!”, grugnì Milo, rabbrividendo al ricordo e affondando il naso nella panna montata della sua cioccolata.

“Beh, così impari ad uscire con una ragazza!”, lo rimproverò velatamente Kanon e il tono con il quale aveva pronunciato l’ultima parola, m’incuriosì parecchio: ovvio, che quando si era in compagnia degli amici, si vedevano film di tutt’altro genere, però la sfumatura, che il gemello minore aveva dato alla frase, la rielaborava in modo tale da lasciar trasparire un altro tipo di messaggio, che non era Così impari a non uscire con i tuoi amici!, bensì, Così impari a non frequentare un ragazzo!

Kanon stava quindi incitando Milo a correre dietro ai maschi?

Nah, ma a che conneries pensavo ora!

“Se Edward Cullen è un vampiro doc, ma di quelli doc che dico io”, fece semi serio Aiolia, sventolando il depliant  con aria da grande oratore, “allora Kanon aspetta un bambino!” e sogghignò monello.

“Uhm … allora, qualche chance c’è!”, commentò Saga malizioso, accarezzando mollemente il ventre del fratello. “Quand’è che mi renderai zio, uh?”, lo canzonò, ricevendo uno scappellotto e un Sacré idiot!  da parte di un gemello color porpora.

Una peculiare teoria incominciava finalmente a formarsi nella mia testa …

“Enfin, ci rechiamo o no a questa giostra?”, disse Milo, alzandosi dalla sedia, coprendosi la bocca con la manica del maglione, onde celare anch’egli un ghigno divertito.

 

***

 

“Uffa, Sasà, sono due ore, che stai leggendo la vita di Bram Stoker, hai finito una buona volta?”, si lagnò Aiolia, seduto per terra nel corridoio in stile retrò della giostra.

“Ionesco, idem con patate per te!”, si aggiunse Milo, appoggiato al muro, osservando annoiato il poster del film Nosferatu, del quale doveva ormai aver imparato a memoria tutti i nomi lì scritti, dagli attori, all’ultimo membro della crew cinematografica.

“Sasà, smettilaaaaaaa!”, sospirò esasperato Kanon, posandogli il mento sulla spalla, aumentando di proposito la pressione su di essa.

La giostra era divisa in due parti: la prima era composta da un lungo corridoio in stile anni Venti, molto polveroso e dai colori scuri, onde sottolineare l’aria della lasciva decadenza del vampiro. Sui muri tappezzati di finto velluto, erano appese delle interessanti schede sulla vita dell’autore, con gustosi aneddoti sulla sua opera. La seconda era la giostra vera e propria, dentro alla quale i tre dell’Ave Maria scalpitavano per entrarci, rimanendo, invece, bloccati dalla nostra curiosità di saperne di più sullo scrittore irlandese.

“Ta gueule, che mi muovo! Tanto, l’omino alla cassa ha detto, che non c’è un limite di tempo, ergo, leggo quanto mi pare!”, ribattei incavolato. Detesto, quando mi s’interrompe la lettura!

Staccandosi con un colpo di reni dal muro, Milo avanzò verso di me con un sorriso carnivoro. Che fosse l’effetto vampiresco della giostra?

“Sul serio? E invece scommetto, che ti convinco a smettere!”

“Tzé! Non ci riuscirai!”, lo sfidai scettico.

“Speravo, che lo dicessi”, mi sussurrò dolcemente il ragazzo, roteando in maniera inquietante l’indice destro. No, non aveva mica intenzione di …

Rapido, Milo mi colpì al fianco con l’indice, quasi volesse pungermi, ma, al posto della bua, scoppiai a ridere, non dopo un acrobatico salto all’indietro con doppio avvitamento. “Ah – ha! Ma allora, soffriamo il solletico sui fianchi, eh?”, esclamò, continuando a roteare quel dannato indice. “Che dici? Secondo giro?” e riprese il punzecchiamento –solletico, da lui battezzato piripicchio , spingendomi via a balzi dalla scheda, in direzione dell’entrata effettiva della giostra.

“Saga, fermalo! Mi fa il piripicchio!”, mi lamentai metà ridendo al gemello maggiore, aggrappandomi a lui, specie quando il Demonio aggiunse l’indice sinistro, tormentandomi entrambi i fianchi e costringendomi a salterellare come una cavalletta.

“Dai, Sasà, molla quella dannata scheda!”, lo tirò Aiolia per un braccio.

“Datti una mossa, lumaca!”, lo tirò il gemello per l’altro.

La coppia di fidanzatini, che ci passò davanti, guardò tra il divertito e lo scioccato il giocondo quadretto, in particolar modo Saga, il quale, più che davanti ad una scheda, sembrava davanti al Muro del Pianto, almeno a giudicare dallo sguardo fissa davanti a sé e dagli ondeggiamenti in avanti e indietro della sua testa. [2]

“E VA BENE, ANDIAMO!”, sbottò alla fine spazientito il giovane, girandosi di scatto e trascinandoci da dietro in un unico blocco compatto. “Ma non rompetemi più le palle, d’accord?”

“Oh là là, che bello!”, giubilò euforico Aiolia, aprendo la tanto desiderata porta, infilando la testa tra le pesanti tende rosse, poste dietro di essa.

“Che vedi?”, chiedemmo incuriositi alle sue spalle, seguendolo oltre la soglia.

Sembrava di essere entrati dentro ad una lavatrice: il cielo stellato sopra di noi ruotava vertiginosamente attorno alla passerella, che conduceva ad una seconda porta, dando un’elevata sensazione d’instabilità. Barcollando, nonostante il ponte fosse ben saldo, arrivammo all’entrata, la quale conduceva a un’ampia sala, decorata come l’ingresso del castello del conte Dracula, nebbia inclusa.

“Però!”, fischiò Kanon, sinceramente impressionato “Davvero curata nei minimi dettagli! Pare il set del film di Coppola!”

“E adesso?”

“Prova a bussare, Aiolia, magari Igor ti apre!”

“Quello è Frankenstein, babiosha!”, ribatté offeso il ragazzo, balzando all’indietro, quando il portone venne aperto da un attore mascherato, che ci invitò ad entrare.

“Accettiamo l’invito?”, mi domandò Milo dietro alle spalle, il cui sogghigno m’indusse a pensare, che ne stesse escogitando un’altra delle sue.

“Chele in tasca, scorpion lubrique!”, lo ammonii, avviandomi veloce dietro ad Aiolia, seguito da Milo, Kanon e Saga.

Percorremmo un corridoio appena illuminato, il quale terminava all’imboccatura di una scala chiocciola, che saliva verso l’alto. Inutile dire, che non appena l’apri fila, Aiolia, mise un piede sul primo gradino, dal soffitto calò un fantoccio, molto grottesco nei suoi dettagli perfetti, a qualche centimetro dal naso del ragazzo, che strillò all’assassinio, trascinandoci ad effetto domino nelle sue sonore proteste. E solo dopo esserci accertati, che ci fossimo sgolati ben bene, il pupazzo si ritirò nella sua tana.

“Dai Iou – Iou, non fare quella faccia: voleva solo darti un bacino!”, lo canzonarono i fratelli, mentre salivamo le strette scale, arrivando in un pianerottolo altrettanto angusto, che ricordava un laboratorio.

“Che schifo!”, fu il primo involontario commento di Aiolia, alla vista di un fantoccio – cadavere decapitato, dentro alla cui aorta era stata ficcata una pompa, che, tramite impulsi elettrici che scuotevano il corpo in convulse e rumorose scosse, spillava il liquido rosso, il quale rifluiva in un complicato gioco di tubature per tutta la parete della stanza, terminando in un’unica gigantesca botte di vetro, dalla quale due medici estraevano il sangue, neanche fosse vino.

“Chi sono quei due?”

“Il Dr. Abraham Van Helsing e il Dr. John Seward”, risposi prontamente, memore delle professioni dei due personaggi del romanzo, che mi ero letto tutto d’un fiato in due giorni al mare.

“Macché Ionesco, sono il Dr. Saga e il suo amichetto, il Dr. Bogenschütze! [3]”, scherzò Milo, osservando tuttavia schifato i manichini.

“Milou, se non vuoi finire al posto del cadavere con la pompa su per l’aorta, ti conviene tacere!”, sibilò velenoso il gemello maggiore, leggendo il cartello appeso al muro.

“Lui e Bogenschütze sono acerrimi rivali all’università!”, mi spiegò sottovoce Kanon. Poi, rivolto al gemello: “Allora, genio, che c’è scritto?”

“Dice che i dottori Van Helsing e Seward hanno dato a Draculino una riserva di sangue per circa un’ora e che scaduto il tempo, cavoli nostri!”

“Possiamo sempre dargli Milo in cambio del nostro collo!”

“Nah, morirebbe avvelenato: il suo sangue è troppo tossico!”

Salimmo ancora per le scale, entrando ora in un ambiente simile al manicomio di Seward, vicino a Carfax, la prima casa inglese di Dracula. Rannicchiato in un angolo e circondato da ragni, vi era un manichino semicoperto da un lenzuolo, dal quale faceva capolino il viso grigiastro e stravolto dalla paura di un uomo, le cui pupille dilatate fissavano follemente la sedia, che si muoveva a balzi per la stanza.

“E quello deve essere Renfield!”, lo presentò Saga, sporgendosi leggermente in avanti, per meglio osservarlo, non aiutando la semi oscurità la sua vista sofferente.

“No”, lo corresse il gemello “quello sono io, dopo che mi hai sadicamente torturato con l’ennesimo ripasso sulle teorie di Freud!”

“Ehi, Ionesco, vieni a vedere qui!”, m’invitarono Milo e Aiolia, davanti ad una porta di ferro, la mano del primo posata sulla feritoia, che, quando fui più presso, il Demonio aprì all’improvviso, rivelando un viso urlante di dolore, contorto in un’orribile maschera di carne bianca e rossa.

“Gyah!”, urlai, inciampando all’indietro e fortunatamente acchiappato da Kanon, che fulminò con lo sguardo i due monelli patentati.

Imboccammo poi un altro corridoio, subendo attacchi di ogni genere, tra matti, vampiri, licantropi e piripicchio a tradimento, per sbucare infine in un’elegante camera da letto, in mezzo alla quale troneggiava un lussuoso baldacchino, sul quale giacevano lascivamente quattro persone, tre donne e un uomo.

“Mi ricordo di questa scena nel film”, disse Aiolia, osservando i manichini raffiguranti Jonathan Harker e le tre spose di Dracula “Keanu Reeves che si spupazza la Bellucci e company … ah, come mi sarebbe piaciuto essere stato Keanu …”

“Come mi sarebbe piaciuto essere stata la Bellucci …”, dichiarò con mia somma sorpresa Kanon, avvicinandosi alla sbarra, che separava i visitatori dal letto.

“Ma non ti piaceva Dracula / Gary Oldman?”, chiese confuso Saga, portandosi dietro all’orecchio una ciocca bionda.

“Certo, anche lui! Sempre meglio abbondare, no? Però solo quando era ringiovanito, non da vecchiaccio pervertito, con una parrucca a forma di chiappe in testaaahahahah!”, urlò, trovandosi all’improvviso sotto al naso il suddetto matusa vampiro, comparso da una botola sul pavimento.

“Temo che non abbia molto apprezzato il tuo commento, frangin!”, commentò il gemello maggiore, contro il quale il minore si era aggrappato come una bertuccia.

La mia teoria su Kanon si evolveva pericolosamente …

Abbandonata l’alcova del vampiro, piombammo senza preavviso nel buio più assoluto, neanche una mezza luce, nisba. Nero totale.

“Qui non si vede un pippio, flûte!”, annunciò scocciato Aiolia, rallentandoci tutti, poiché proseguiva a passetti lenti e cauti.

“Questo lo avevamo capito anche da soli, merci petit frère!”, commentò sarcastico Milo, pressato tra Kanon e Saga. “Perché non succede niente?”

“Non so … forse … MA CHE SCHIFO!”, gridò disgustato il minore dei gemelli alzando il capo, non appena il lampo di un fulmine illuminò il corridoio, il cui soffitto scoprimmo essere pieno di vampiri, attaccati come pipistrelli a testa in giù e pendere allegramente sopra alle nostre teste. “Chi è che dice, che sono fighi?”

“Bleah, pantegane antropomorfe con le ali!”, diede Milo gentilmente il loro nome scientifico al gruppo.

 E neanche questi vampiri dovettero gradire il commento del ragazzo, poiché il soffitto incominciò a calare, avvicinandoci a loro e causando un fuggi fuggi generale tra di noi, onde trovare un angolo per evitare il contatto con quelle rivoltanti figure. Guarda caso, l’unico era proprio addosso al muro, che non appena vi sbattei contro la schiena, esso s’illuminò, rivelando un licantropo, che ci teneva ad avermi per spuntino, ringhio incluso, per rioscurarsi di nuovo. Tuttavia, fu sufficiente a farmi balzare in avanti dallo spavento, ma di troppo, visto che colpii con la testa una di quelle vischiose schifezze, ribalzando quindi indietro e toccandone un’altra e poi un’altra e un’altra ancora, come una pallina di flipper.

Finché, non cascai in qualcosa di più morbido, che mi serrò contro di sé non appena avvenne il contatto. Un paio di braccia? Con il cuore in gola, cercai di far leva su di esse per sciogliermi dall’abbraccio, ma più mi dimenavo, più quelle mani mi stringevano i polsi, immobilizzandomi nella sua morsa. Poi, sentii un respiro caldo pizzicarmi la pelle nuda del collo, seguito da qualcosa di umido scivolarle sopra.  Infine, una piccola puntura di denti.

E il soprano Maria Callas cantò.

“Gyahayahayahayayahyahay!”, gorgheggiai saltando via dalla stretta indesiderata e correndo come una furia verso l’uscita del corridoio, sbracciando a tutt’allé, accompagnato da commenti tipo: “Chi è che ha urlato, così?”; “Ma c’era una ragazza dietro di noi?”, riuscendo ad evitare – tale era il mio malessere – perfino i pavimenti mobili.

Giunsi, quindi, galoppando nella penultima sala, la quale era spaziosissima, dovendo, infatti, rappresentare un cimitero, e mi appoggiai a una sbarra del cancello, mandando esasperato a quel paese la vampira, che mi sbucò da dietro alla siepe.

Uno per volta, venni poi raggiunto dai fratelli Valavitis. Il primo fu Aiolia, che mi venne incontro incespicando, l’equilibrio compromesso dall’ultimo gradino, evitando di vedere il manichino tanto era impegnato a rimanere in piedi.

“Oplà!”, si annunciò giocosamente Milo, saltando giù ed elargendo un bacio a distanza alla vampira, che gli comparve dalla vegetazione, unendosi sorridente a noi, seguito dagli sghignazzi divertiti di Saga, che scese con nonchalance dal gradino, ignorando il fantoccio e, girandosi dietro, gridò:

“Tutto a posto, Nônon?”

“Mon oeil, tutto a posto! Non vedo niente! Si muove tutto! E tu fai il figo e mi abbandoni!”, fu la sdegnata replica di Kanon, rimasto indietro nell’infernale corridoio.

“Ti avevo avvertito di fare attenzione …”

“Grazie mille, all’ultimo minuto me l’hai detto, quando ormai ero già col culo sul pavimento mobile! Ti rendi conto, che rischiavo di diventare un eunuco?”

“Colpa tua: a vent’anni, ancora non ti sai allacciare bene le scarpe, vergogna!”, lo rimproverò scherzosamente Saga. “E guarda l’ultimo gradino!”, aggiunse sottovoce.

“Uhm?”, fece interrogativamente Kanon, apparendo con il jeans al ginocchio stracciato e sporco di sangue e con la scarpa in mano, procedendo in avanti senza notare l’ultimo ostacolo, riducendosi conseguentemente a ballare la danza del tacchino per non cadere per terra, sbattendo contro le sbarre del cancello, che afferrò con entrambe le mani, onde tenersi in piedi, urlando in faccia alla vampira, che gli si presentò davanti: “Ma vai a cagare, salope!”

E staccandosi da esso, raccolse la scarpa della disgrazia: “Espèce de canard en sauce agro-douce, l’hai fatto apposta, brutto bastardo!”

“He – he mi dispiace, Nônon, allora siamo in due!”, replicò serafico Saga, colpito di striscio dalla scarpa vendicatrice del gemello.

“Era una figura retorica, con!”, ruggì il giovane, infilandosi la calzatura, tra un’imprecazione e l’altra.

Silenzio per riprendere il fiato.

“Non trovate, che assomigli al cimitero del film Dracula morto e contento?”, ragionai ad alta voce, rimirando a naso all’aria la sala.

“Vero!”, convenne Milo, sorridendo al ricordo della geniale parodia di Mel Brooks. “Però voglio Luuuuuuucy!”, ululò in un sogghigno malizioso.

Lucy, io sono fidanzato con Mina e tu sei morta!”, citò Aiolia ridendo tra i baffi, saltando una tomba con agilità.

“Aspetta, aspetta, come faceva poi quella … uh … ah sì: Ma Lucy, io sono inglese!”, riprese Milo, scoccando una rapida occhiata a Kanon, ancora piegato in avanti, per controllare i lacci dell’altra scarpa.

Avvicinandosi a tradimento alle sue spalle, Saga terminò la citazione con solennità: “Ma anche queste!” e sculacciò sonoramente il posteriore del gemello, in mancanza del seno (com’era da copione).

“Ehi, metti le manacce sul tuo deretano, cochon! Il mio è di proprietà privata!”, protestò vivacemente il giovane, dirigendosi spedito verso l’ultima sala. “Solo una persona può toccarmi il sedere e di certo quella non sei tu!”

“Boff! Palpo quanto mi pare: chi è che ti cambiava le mutande alle elementari, quando ti facevi la pipì addosso? Uhm?”, gli ricordò il gemello maggiore, abbracciando stretto il minore, che si dimenava come un’anguilla.

“Sei un po’ troppo su di giri per i miei gusti, sai?”, replicò Kanon, interrotto dal suono delle campane a morto, seguito dal cigolio delle tombe che si aprivano.

“Complimenti!”, sghignazzò Milo maligno, sorpassandoli, “Li avete svegliati con le vostre schifezze! Ora vedrete, che chiameranno i flics per rumori molesti viranti al disturbo della quiete ultraterrena e atti osceni in pubblico!”

“Ha incominciato lui!”, gridò Kanon, avanzando come un unico essere assieme al gemello, sempre attaccatogli addosso come una patella.

La mia teoria proseguiva inesorabile, prendendo forma …

Finalmente, dopo quasi un’ora di vagabondaggi vari, con i suoi incidenti annessi e connessi e discussioni ad alto contenuto filosofico, salutammo felici l’ultima stanza, piena di macabri esempi in loco, su come eliminare un vampiro, uno più schifoso e sanguinolento dell’altro, finché non c’imbattemmo in cartello finale, sul quale vi era scritto:

[…]  e quando il gallo foriero del mattino canterà l’imminente arrivo salvifico del sole, il vampiro, demoniaca creatura della notte, urlerà con voce proveniente dalle viscere stesse dell’inferno da cui proviene, ardendo vivo ai raggi del giorno.

“Chicchirichì!” fece da sottofondo il canto del gallo, accompagnato da un acuto e tormentato “GYAH!” e un sordo tonfo.

“Wow! Che effetti speciali! Quello sì, che era un signor grido!”

“Sembra quasi Jean – François, vero Saga? Saga?”

“Oddio Saga!”

Dietro di noi giaceva svenuto il gemello maggiore, traumatizzato dal verso dell’animale e riuscendo in un colpo solo a far arrestare l’intera giostra, a chiamare il cassiere per darci una mano a trascinarlo via, mentre l’uomo borbottava sull’incoscienza di certi giovani, che andavano lo stesso su giostre paurose, nonostante fossero deboli di cuore, ignorando che Saga era stato, fino a quel momento, l’unico a non essersi spaventato in nessun modo.

In ogni caso, il cassiere, mosso a pietà dal viso cinereo del gemello maggiore, ci fece un abbondante sconto sull’intero set di fotografie, che guardammo divertiti, intanto, che Kanon costringeva Saga a bere un frappé alla fragola.

Una in particolare, però, Milo si rifiutò di mostrarmela e a nulla valsero le mie proteste e l’inseguimento per l’intera sala giochi per un bel quarto d’ora tondo tondo – nel frattempo Aiolia ci riprendeva con la macchina digitale – ignorando, che il ragazzo l’avesse lasciata sul tavolo e soprattutto ignorando i rossori compiaciuti imporporare le gote dei gemelli, mentre commentavano sornioni l’immagine scattata.

 

***

 

Ritornare a casa fu dura, poiché significava ricordare l’imminente partenza dei gemelli verso le rispettive università il giorno successivo. Fu dunque per questo motivo, che i due fratelli minori fecero doppiamente casino quella sera, la loro masnada interrotta ora dai rimproveri di M. Christophe, ora di Saga, che si vedeva impossibilitato di terminare in santa pace la sua valigia.

Quanto a Kanon e al sottoscritto, ci ritirammo nel bagno, il primo per mettere sulla ferita al ginocchio della polvere cicatrizzante, mentre io osservavo infelice una macchia scura formatasi sul mio collo. E quando chiesi spiegazioni sulla sua natura al gemello minore, lui trattenne a stento un risolino, gli occhi brillanti di malizia.

Il giorno dopo, ci alzammo per ritornare a scuola e, dopo un’appassionata guerra per il possesso della doccia, fummo tutti e tre contenti nel ritrovare già svegli i gemelli, i quali ci spiegarono, che si erano svegliati apposta per salutarci, prima di partire.

E in quel momento desiderai, che la colazione potesse durare altre due ore.

“Quand’è, che tornate?”, chiese Aiolia, mogio mogio.

“L’ultimo esame ce l’ho il 16 Dicembre”, disse Kanon, versandogli il latte caldo nella tazza “mentre Saga … il 20 o il 21?”

“20 Dicembre”, confermò il gemello, il volto fresco e riposato: he – he, si vedeva, che finalmente aveva dormito, come Dio comandava!

“E se venissi a casa tua, finiti gli esami? Così torniamo assieme!”, gli propose Kanon, sorridendo.

“Non ti azzardare!”, replicò Saga, fulminandolo con lo sguardo, memore di chissà quale guaio combinato dal fratello, in una sua visita a Münster.

E come tutte le cose più piacevoli, dovemmo purtroppo congedarci da loro per salire in macchina, non prima che Milo e Aiolia avessero abbracciato e riabbracciato, baciato e ribaciato i fratelli maggiori, che più per l’università, parevano partire per il fronte.

 Stavo per scivolare via silenziosamente – non volevo disturbarli – quando venni acchiappato da Saga, che mi stritolò in un forte abbraccio, sussurrandomi: “Mi raccomando, controllami il mio minou, quando sono via e poi riferiscimi, ché lo sistemo io, se non ha fatto il bravo!” e mi schioccò un bacio sulla fronte, là dove il bernoccolo si stava sgonfiando. Commosso, ricambiai sincero l’abbraccio. Fui poi ceduto a Kanon, che rincarò la dose con altrettanto trasporto – le mie ossa erano andate a farsi benedire, ma ormai la cosa non mi toccava più. E, approfittandone della nostra vicinanza, gli chiesi sottovoce, onde confermare la mia teoria:

“Enfin, chi è Rhada?”

Sorridendo e arrossendo leggermente imbarazzato, Kanon dichiarò orgoglioso: “C’est mon mec!” e mi elargì anche lui un bacio sulla fronte.

No, Rhada è dunque il fidanzato di Kanon?, pensai ancora intontito in macchina: beh, in effetti, tutti gli indizi sparsi dai fratelli e da lui stesso lo confermavano! Quella sì, che era una novità! Un ghigno malvagio mi sfiorò le labbra, nell’immaginarmi Mamie, se avesse mai scoperto – il che sarebbe accaduto prima o poi, era questione di tempo – che uno dei suoi nipoti acquisiti era omosessuale.

Giunti infine davanti a scuola, mi avvicinai a Milo e ad Aiolia, rimbrottandoli entrambi: “Siete due bei tomi: perché non mi avevate detto, che a Kanon piacciono i maschi? Mi avete fatto fare la figura del blanc- bec per tutte le vacanze!”

“Non sarebbe la prima volta, Ionesco!”, affermò maligno il terzogenito, cui replicai con il dito medio e solo in quel momento, mi accorsi con mio sommo orrore, che avevo l’unghia dipinta di rosso.

No, non una: tutte! Quel dannato doveva avermele pitturate di notte, mentre ronfavo di brutto, sfinito dalla domenica piena di emozioni. Inoltre, dove avevo avuto la testa per accorgermene solo ora?

“MILO! DISGRAZIATO!”, ruggii incollerito. Adesso, avevo solo due opzioni: o tenermi le unghie rosse per una settimana o umiliarmi davanti al dormitorio delle ragazze, elemosinando l’acetone per levarmi lo smalto.

Uffa, non potevo rilassarmi mai con lui, che diavolo d’un bon sang!

“Però”, aggiunsi vendicativo, rimirando il suo capolavoro allargando ben bene le falangi -  anni di pianoforte, che tornavano utili. “Un po’ mi piacciono!”, dichiarai con serietà e risi di gusto alla vista degli sguardi scioccati di Milo e Aiolia, raggiungendo poi trotterellando Shaka, pronto a raccontargli tutti i dettagli del ponte più folle di tutta la mia vita .

 

To be continued …

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Fiuhhhh!!!!!!!! E anche questo parto portato a termine!

Spero che vi sia piaciuto!

A proposito, spero di non aver urtato la sensibilità di qualche fan di Twilight! Dovete considerare, che sono maschi, i nostri protagonisti; inoltre, i commenti uditi al cinema dai poveri fidanzati, quando andai a vedere il film, confermano quanto scritto. Forse non avranno mai il coraggio di dirlo ad alta voce davanti alle rispettive morose, ma tra di loro non si fanno di certo questi problemi!

Al prossimo capitolo, ciao!

P.S. Special Thanks al film “Dracula morto e contento” di Mel Brooks!

 

Un po’ di noticine:

[1] Mary Kelly  = è l’ultima vittima di Jack lo Squartatore, rinvenuta nel suo letto l’8 novembre 1888, il corpo orribilmente mutilato e pressoché irriconoscibile.

[2] Il Muro del Pianto = è un muro di cinta, risalente all’epoca del Primo Tempio di Gerusalemme; è inoltre un importante luogo di culto per gli Ebrei, i quali pregano davanti ad esso oscillando avanti e indietro la testa, il libro di preghiere sotto mano.

[3] Bogenschütze = dal tedesco, significa “arciere”. Qualche idea?

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Capitolo 5
*** L'8 Novembre: Malheureux Anniversaire! ***





Koukou tous le monde!

Rieccomi qua con un nuovo capitolo! He- he, il titolo è già un programma, chissà di che cosa si tratterà …

A proposito, due piccole chicche per la storia: la prima, che i voti in Francia vanno a percentuali e la sufficienza, se non mi ricordo male, dev’essere proprio la metà, 50%.  La seconda, riguarda il rugby, per chi non lo pratichi o che comunque non ha famigliarità, ricordo che in questo sport non si può passare la palla ai compagni davanti, bensì a quelli dietro! Inoltre, più del calcio, questo gioco è in genere molto amato dai francesi e ogni città, che possa considerarsi tale ha la sua squadra. Infatti, anche Mont-de-Marsan ha la sua! Perché vi tampino con questa notizia? Ma perché fra poco si disputerà un piccolo match, che domande!

Ringrazio i miei lettori e i miei recensori, tutte sane scariche d’endorfina e d’entusiasmo!

A Kiki May: grazie per il consiglio culinario! Beh, forse un’idea simile era passata per la testa a Kanon, ma alas come faceva a spennare in tempo record il gallo, senza destar sospetti? Poveraccio, credo che abbia sofferto nel vederlo così sprecato. Sai, il seppellimento del gallo è un pochino ispirato ad un episodio della mia infanzia, quando mia cugina ed io facemmo morire d’infarto una quaglia, dopo averla rincorsa per tutto il giardino. Sinceramente fu traumatico: un attimo prima la quaglia correva, quello dopo era caduta stecchita. Senza che il nonno ci vedesse, buttammo il cadavere nel campo di mais. Mah, misteri. Intanto, il dolce ricordo mi diede lo spunto per la scena, solo in circostanze più divertenti e più sanguinolente! Sono poi contenta, che ti piaccia come stia evolvendo la relazione tra i due! Sai, cerco di entrare primo, il più possibile nella psiche dei maschi  e secondo, di rimanere un poco fedele a quello dei personaggi! Inoltre, temo di non essere tanto per il melenso, non ci riesco e non so se gioirne o strapparmi i capelli! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Clayre:  *si nasconde dal dito accusatore dietro alla gemella malvagia* uccidi lei, uccidi lei! È tutta colpa sua! È lei, che mi sussurra queste stramberie la notte, incitandomi poi di giorno a scriverle! Uh, mi fai arrossire, che sei divenuta dipendente dalla mia “famiglia” e figurati se ti darò la cura! Muahauhahauah! (gemella malvagia mode on)! E sì, credo che a Saga per Natale, gli dovremmo proprio regalare un set nuovo di coltelli, anche se temo, che non li utilizzerà per scopi culinari, come Kanon. Galli, la vostra ora e suonata! Quanto a Jean –François, lui era già destinato a morire, ma non ci abbandonerà del tutto, in avanti si scopriranno alcuni retroscena sul suo passato … (nota, sono seria, non sto scherzando) Tranquilla, Saga non va in seminario e Bogenschütze farà la sua comparsa molto presto! E per quel che riguarda Camus, beh, come al solito, è la vittima di quasi ogni complotto in questa storia e quello ordito dai fratelli è il più terribile di tutti! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Diane924:  Amen. *un minuto di silenzio* Sì, davvero leggi Dracula! Vale più di cento libri d’oggigiorno sui vampiri! L’avrò letto più di tre volte, ma ancora mi dà i brividi, come se fosse la prima! È semplicemente geniale! E già, Camus, dal punto di vista osé, non è un mostro d’intuizione, eh? Quanto alle sue unghie, la colpa è nuovamente di Milo, il delinquente! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Shiryu_ Shunrei: ciao! Benvenuta! Sono contentissima, che la storia di abbia divertito! Vuol dire, che ho fatto un buon lavoro, no? he – he, la verità su Rhada è finalmente saltata fuori, ma i casini sono appena incominciati! Infatti, dubito che la nonna sarà contenta, per motivi oscuri, che vedremo nei capitoli a venire! Grazie ancora per la recensione e continua a seguirmi! Ciao!

A Sagitta72: ehilàààààà! Uhm, già anch’io, sai, avrei un bel repertorio di cosette da fare, se mi trovassi Saga di notte vicino al letto, ma ovviamente senza il coltello! Sulla scena del salvataggio di Camus ci ho molto ragionato sopra, cercando un modo dolce e allo stesso tempo realistico di rappresentarlo. Sigh, lo so, sono una maniaca con un senso del romantico pari ad un bradipo in overdose di sonniferi … Saga, aspettami in manicomio, che ci consoliamo assieme! Ti piace allora come ho reso il loro rapporto tra fratelli? Ne sono contenta e grazie per i complimenti per la mia cura dei dettagli: è una delle mie – tante- manie, in quanto cerco di rendere attraverso essi, quello che le parole non dicono; infatti, mentre una frase può rispecchiare molto ambiguamente un concetto *sguardo complice fra noi due* i gesti, invece, sono spiazzanti nella loro sincerità: ad esempio, uno brusco può contraddire un’affermazione in apparenza dolcissima di un personaggio e via dicendo. Adoro creare queste piccole spie, anche per anticipare piccoli avvenimenti futuri. (La gemella malvagia si patpatta il petto, dichiarando fiera: “Tutta opera mia! Io l’ho plagiata!”)Però, Bogenschütze ha avuto un solo piccolo cameo  nella storia e tutti già a fantasticare su di lui! Oddio, il peso delle aspettative! Gemella malvagia, help! (Ouiiiiiiiiii! Vengo!) Grazie ancora per la recensione! Ciao!

Ad Eno: ciao! Benvenuta! Bene, bene, mi fa piacere apprendere che ti garba la mia storia e soprattutto, che ti abbia dato spunto per rivedere il francese! Mi raccomando, eh? Studiare una lingua è una fatica, ma una passeggiata nel dimenticarla! Grazie ancora per la recensione e continua a seguirmi! Ciao!

 

 Bien, non ho altro, per il momento, da dichiarare, solo buona lettura e buon – si spera – divertimento!

 

H.

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Nei ricordi lontani della mia infanzia, c’era una canzone in italiano, che Marin mi cantava sempre, intanto che si divertiva a travestirmi da principessa - trecce, pizzi e chiffon inclusi, senza dimenticarsi della coroncina kitch. Sebbene non soffrissi ancora d’arteriosclerosi, avevo decisamente (e forse volontariamente) rimosso il titolo di codesta canzone; tuttavia, mi sovvenne, nel preciso istante nel quale misi piede in classe, un suo passaggio, che faceva più o meno così:

Ma una notizia un po’ originale

non ha bisogno d’alcun giornale

come una freccia dall’arco scocca

vola veloce di bocca in bocca. [1]

 

E di fatti, prima ancora, che avessi avuto modo di finire di narrare a Shaka il racconto dell’incredibile e inaspettato fidanzamento di Maman, l’intera classe del lunedì m’investì dapprincipio con sguardi sorpresi e mascelle pendenti, per poi sciogliersi in piacevoli commenti pieni di maliziosa compassione, tipo che se avevo Valavitis in casa, avrei visto notte e giorno i sorci verdi. Beh, per quel che ne sapevo io, ancora questa peculiare specie d’animale non l’avevo notata dal vivo, però vero era, che ebbi l’immenso onore di assistere allo spettacolo di un fratello sonnambulo con tendenze omicida verso galli rompipalle.

Un po’ come Batman in stile Jack lo Squartatore, ecco.

Inoltre, non capivo il motivo, per il quale Shaka si ostinava a farmi indossare la sciarpa perfino in classe, dopo essersi assicurato più volte, che la macchia del giorno prima fosse ben celata dal fondotinta, abilmente soffiato alle ragazze in una clamorosa e ardita incursione nel loro bagno, dove sapevamo, da fonti attendibili, che le pulzelle tenevano i trucchi in comune.

A parte, quindi, il caloroso benvenuto di lunedì – quasi i miei compagni mi vedessero per la prima volta in tre anni di liceo – la mia vita scolastica non era cambiata più di tanto: i professori m’interrogavano; i camerades m’ignoravano, per poi pestarmi, come al solito, ad educazione fisica. Per fortuna, Shaka mi era spesso accanto, pronto a raccogliere con scopa e paletta i cocci del sottoscritto.

Gli unici due significativi mutamenti furono innanzitutto, la scheda finalmente piena della mensa e ci mettevo la mano sul fuoco che, in un modo o nell’altro, c’era sotto lo zampino di Kanon, il quale, prima di partire, si doveva essersi ben accertato, che consumassi almeno tre pasti al giorno. In secondo luogo, le continue e incessanti irruzioni di Aiolia in camera mia e di Shaka, con somma iniziale preoccupazione di quest’ultimo, ché non riusciva ancora a concepire l’idea, come una persona amante del silenzio cistercense, quale il sottoscritto, potesse sopravvivere anche solo a un giorno con quello scatenato in giro per casa, figurarsi ogni weekend. Gentilmente, gli ricordai che avevo in riserva altri tre caballeros, uno più fuori dell’altro.

 Non si stupì, stranamente, quando gli raccontai dell’episodio di Saga sonnambulo, anzi, mi rivelò, che, nel periodo in cui suo fratello Dhiren frequentava lo stesso anno dei gemelli, lui gli aveva rivelato di certe notti insonni, che toccavano sia a Kanon, che ai guardiani notturni, nel rincorrere per tutto il dormitorio il fuggitivo dormiente e che in un’occasione, l’avevano addirittura trovato nelle docce del bagno delle ragazze. Shaka sosteneva, però, che si trattava certamente di una leggenda metropolitana bella e buona; quanto a me, dopo aver assistito dal vivo alla visione di un Saga sonnambulo, armato di coltello e alla volta di galli da squartare, ecco, forse non avrei scartato tanto presto la possibilità, che quanto narrato fosse del tutto falso …

Così, fino a giovedì, i giorni trascorsero via nel loro usuale tram tram, senza grandi novità, finché non arrivarono  le fatidiche due ore d’inglese, durante le quali avrei rivisto Milo, dopo che quest’ultimo si era dileguato per quasi quattro giorni, peggio di un ninja. Il che mi pareva strano, in quanto suo fratello a momenti faceva fagotto e s’installava nella mia stanza: doveva essere un vizio di famiglia, quello d’insidiare le camere altrui …

Presi possesso del mio banco in ultima fila (dov’era scritto, che i secchioni debbano per forza essere relegati al primo?) e tirai fuori il libro e il quaderno, appuntandomi giù per iscritto, quale regalo avrei potuto fare l’indomani a Milo, visto che era il suo compleanno.

Un momento, prima che incominciate a bombardarmi di strane domande: no, non eravamo all’improvviso, per dono dello Spirito Santo, diventati pappa e ciccia, Qui e Quo! Solo che, tra i vertiginosi e sconclusionati monologhi interiori alla Molly Bloom [2] di Qua (a.k.a Aiolia), ero riuscito ad estrapolare l’informazione, che Quo compiva gli anni l’8 novembre -  che cadeva esattamente domani – di conseguenza, mi pareva carino, uhm no, meglio giusto, sì ecco, giusto presentargli un pensierino.

 Anche perché quando Maman – prima di partire per un viaggio in Italia di due settimane per conto del tour operator, con sommo dispiacere del povero M. Christophe - saputo che il  suo compleanno era di venerdì, gli aveva concesso di usare la casa per un’eventuale festa, Milo, stranamente, aveva rifiutato cortesemente, eppure con risolutezza allo stesso tempo.

“Hé, Ionesco, che scrivi? Le tue memorie?”, fu il saluto del sopracitato ragazzo, mentre appoggiava per terra la sua borsa a tracolla. Velocemente, chiusi il quaderno; non desideravo, che capisse che stavo pensando per iscritto quale regalo comprargli. “Respira normalmente: di qualsiasi cosa si tratti, non è mia intenzione leggerla!”, aggiunse, sedendosi accanto a me e compilando rapido gli esercizi d’inglese.

“Non hai terminato i compiti per le vacanze?”, gli domandai piano, rimproverandolo velatamente. “Avevi detto a Saga, che li avevi fatti tutti!”, ecco il vero motivo del mio tono scandalizzato.

“Embé? Gli ho mentito! Eddai Ionesco, via quella faccia da agente della buon costume in un club sadomaso di travestiti! Sono solo due esercizi, sai che roba!”, si giustificò Milo, appoggiando la matita, osservando soddisfatto il suo lavoro. Curioso, sbirciai le risposte: tutte corrette, però, le coquin!

 Boff, paresseux d’un scorpion! Pigrone!, sbuffai, ficcandomi il tappo della penna in bocca, masticandolo come antistress.

“Adesso, sei tu quello che soffre di flatulenze mattutine”, mi ricordò maligno il giovane, utilizzando le stesse parole, con le quali lo avevo definito una settimana fa.

E siccome non era mio desiderio discutere sulle mie funzioni digestive – specie a qualche ora dal prossimo pasto – decisi di cambiare in fretta discorso, domandandogli con neutra curiosità: “Senti … uhm … per domani … ehm … c-cheprogettihai?”, sbrodolai ignobilmente; il mio volto rosso acceso che si mimetizzava a meraviglia con i miei capelli, tanto da formare un tutt’uno.

Nonostante il sorriso carnivoro sfiorasse le labbra di Milo, com’era suo solito, quando si apprestava a ribattere, non mi sfuggì il leggero spasmo alla mano, che gli fece cadere la matita, che stava precedentemente roteando tra le lunghe dita. “Mi stai chiedendo un appuntamento, Ionesco?”

“Cosa?”, chiesi violaceo, enfatizzando le vocali, fino a slogarmi la mandibola. “Certo che no!”

“Ovvio!”, dichiarò lui, fissandomi furbescamente di sottecchi. “La Vierge Marie Camus non può permettersi di perdere la sua virtù prima dell’arrivo dello Spirito Santo!”

“Blasfemo!”, lo rimbrottai, mentre trascrivevo le note dalla lavagna; le gote così bollenti, che potevo cucinarvi sopra un uovo all’occhio di bue. “Eppoi, dubito che un démon lubrique come te, possa avere delle …”, m’interruppi bruscamente, quando percepii la mano di Milo sulla mia, mentre lui me la guidava sornione, correggendomi un vocabolo d’inglese.

Accommodation, va con due “m”! Flûte, sei un bel testardo, sai? Tre anni e ancora lo stesso errore!”, soffiò divertito, intrecciando le nostre dita e provocandomi a momenti una panne totale, per aver osato ricordarmi il mio unico tallone d’Achille in inglese: come le anatre di Lorenz, avevo avuto il cattivo imprinting della parola con una sola “m” e cavolo se era difficile liberarsene! Uffa anche a lui, non occorreva infierire! “E in quasi dodici anni di scuola, ancora non hai imparato a caricare correttamente la penna stilografica! Mai sentito parlare della biro?”, aggiunse, accarezzandomi leggermente la pelle perennemente sporca d’inchiostro. A mia discolpa, andava detto, che non era imbranataggine da parte mia, bensì un piccolo feticismo: ebbene sì, adoravo sentire l’inchiostro macchiarmi la cute.

“Vuoi sentire la lista di tutte le cose, che tu non hai imparato a scuola?”, replicai gelido, fuggendo stizzito il contatto tra le nostre mani appena in tempo, ché la campanella – sempre il leitmotiv dell’Esorcista, perché? – suonò, annunciando il prossimo arrivo della lettrice.

Confidando che ci avrebbe lasciati assieme come coppia, feci per riprendere il discorso interrotto, quand’ecco che l’ombra funesta di Ms. Power ci oscurò il sole, intimando a Milo di levare l’ancora, per andare a discutere con un altro compagno. Se la donna avesse proposto tale cambiamento una settimana fa, sarei corso a piedi a Lourdes a gridare al miracolo; invece, una sconosciuta malinconia mi assalì nel vedere Milo alzarsi e sedersi accanto a un camarade.

E un sordo ringhio attorcigliò il mio stomaco, nell’osservarlo ridere con il detto morto – che – camminava.

 

***

 

Il nodo al ventre non si sciolse neppure a pranzo, costringendomi a servirmi – abbondantemente - di solo purè, essendo, infatti, schifato dall’idea di prendere qualcos’altro. Tanto Kanon e Saga – il primo soprattutto - non c’erano a controllarmi; Milo se ne fregava; l’unico che poteva costituire un problema era Aiolia, ma lui non lo vedevo in circolazione …

Sfido, perché era già seduto al tavolo con Shaka, tormentandolo con Dio sapeva quali discorsi, che però il mio amico non sembrava sgradire, o forse era più bravo di me nella raffinata arte della dissimulazione.

“Namasté Momus!”, mi salutò gioviale come al solito e delle volte mi chiedevo, se il latte di suo madre fosse stato alterato con un tasso eccessivo d’endorfine. O d’ouzo.“Stavo giusto raccontando a Shaka, che oggi a educazione fisica, invece dello sport, abbiamo provato lo yoga e che il sadico professore, ci ha pure valutato per ogni posizione!”

Ah, ecco dunque il motivo del saluto in hindi! Ed anche per il quale Shaka lo stava ascoltando, quasi divertito, oserei dire.

“Davvero?”

“Sì e per poco non rimanevo secco, quando mi hanno costretto  ad eseguire la … la Shirsasana? Insomma, a testa in giù, col peso tutto su di un triangolo formato dalla testa e dalle braccia! Flûte, il professore doveva darmi minimo 80% solo per essermi sottoposto a quella follia!”, si sfogò il ragazzo, artigliando una patatina dal piatto di Shaka con una rattezza invidiabile alla lingua di un’iguana.

“Non ti è andata bene?”, chiesi piano, memore della vecchia legge dello studente: se un alunno si lamentava di un professore, era perché quest’ultimo gli aveva appioppato un voto non del tutto gradito.

Invece, Aiolia strinse le spalle, per nulla toccato. “Nah, in totale ho preso una media del 77,5%. Avrei avuto di più, ma mi son fregato proprio in quella diavolo d’una Shirsasana: 63% , guarda un po’ te. Par contre, il professore mi ha dato 100% nell’ultima posizione, la Shavasana!”

“Che sarebbe?”

“La posizione del cadavere!”, tradusse Shaka, nascondendo il viso dietro il bicchiere per impedirmi di vedere, che se la stava ridendo alla grossa, atteggiamento che cozzava con la sua proverbiale imperturbabilità.

 O menefreghismo, chissà.

“E ci credo!”, convenne Aiolia con vivacità “dopo aver sopportato l’intera serie Rishikesh, mi sentivo come un istrice investito da una jeep!”

“Appunto cadavere!”

“Esatto! Ma la parte più divertente”, proseguì, arruffandosi ulteriormente i capelli indiavolati dai vari esercizi in palestra nell’ora prima “è stata, quando abbiamo provato – Shaka non volermene – il Pratyahara!”

“Sarebbe una sorta di meditazione distesi, durante la quale tu distacchi la tua attenzione dall’esterno, verso l’interno!”, mi venne in soccorso l’indiano, congedandosi accigliato dall’ennesima patatina soffiatagli da Aiolia l’iguana.

“Capisco. Perché?”

“Mi sono addormentato di brutto …”, confessò ridendo il ragazzo, continuando a mo’ di scusa, dopo aver intravisto di sfuggita l’occhiata assassina di uno scandalizzato Shaka. “Non so come sia potuto accadere: il prof stava parlando del colore viola del mio ventre, quando … puff! Sognavo Eva Green in vasca da bagno!” e ci sciogliemmo tutti e tre in una grassa risata – Shaka un po’ meno -  immaginando un ronfante Aiolia sul materassino in palestra, lingua fuori e bavette inclusa.

“Beh, sempre meglio lo yoga, che il rugby …”, riprese tossicchiando il mio amico,  un poco  sconsolato di essere forse l’unico dell’intero istituto a pensarla in quel modo. “Inoltre è fondamentale per … La vuoi smettere di fregarmi le patatine?”, sbuffò, appoggiando il bicchiere bruscamente sul tavolo.

“Uhm?”, fece il mio fratellastro innocentino. “Guarda che lo sto facendo per il tuo bene, sai? Il prof di religione ci ha spiegato, che se un indiano mangia una patatina fritta, nella prossima vita si reincarnerà in uno stercoraro!  E Shaka, io ti voglio troppo bene, per permettere tale atrocità!” e gli sfoderò il suo sorriso più seducente, cui il mio amico replicò per nulla ammansito, controllando l’orologio:

“Sono quasi le tre: non hai lezione, fra poco?”, gli ricordò, sapendo che la professoressa di chimica mal tollerava i ritardatari. Eh, fortuna, che non avevo quella materia! E quell’insegnante: voci indiscrete la descrivevano come una belva sanguinaria, incattivita dalla menopausa e dalla cellulite.

“Eh no!”, annunciò il ragazzo, gongolando, le mani dietro alla nuca. “Alla fine la malattia è riuscita a colpire anche quella specie geneticamente modificata, altresì nota come professori! La mia di chimica è moribonda e ho il pomeriggio libero!”

“Che spero sfrutterai per prenderti avanti con le lezioni!”

“Hey, Momus, non parlare come Sasà, lui mi è bastato!”, fischiò Aiolia, per nulla intrigato dall’idea di passare un pomeriggio assolato – miracolo! - di novembre rintanato in biblioteca. “Invece, mi piacerebbe assistere a una vostra lezione di educazione fisica!”

Per poco la cucchiaiata di purè non mi andò di traverso: cosa? Aiolia voleva seriamente presenziare al mio pubblico e umiliante massacro? “Nah, non ti perdi niente … è … è solo una stupida partita a rugby!”, tentai di scoraggiarlo: meno testimoni avevo del mio martirio, più mi sentivo contento.

“Tanto meglio! Anch’io gioco a rugby, ricordi?”

No, me l’ero completamente scordato!

“Ehm, no davvero … non ti disturbare, non c’è niente d’interessante da vedere …”, provai a contrattare, anche se ormai dovevo arrendermi all’evidenza, che tutti i fratelli Valavitis possedevano un’invidiabile testa dura, peggio delle statue di Egina.

“Sì Aiolia, nulla da vedere, a parte Momus ridotto a crêpe suzette!”

“Invece”, cambiai bruscamente discorso, non sentendomela di descrivere al mio giovane fratellastro le mie imbarazzanti performance sportive “hai per caso una vaga idea, di dove possa essere Milo?” , chiesi con sincera apprensione (non era da lui saltare i pasti) e rimasi sorpreso, nel vedere all’improvviso il sorriso morire sulle labbra di Aiolia, che il ragazzo tentò di riprendere, non senza, però, un certo sforzo da parte sua, tra un colpetto di tosse e l’altro.

“Non ti preoccupare per lui”, rispose lentamente, troppo lentamente per quel vivace chiacchierone qual era “il giorno prima del suo compleanno, Milo diventa più insopportabile e bisbetico di una suocera vergine!”

“Ma è impossibile!”, commentò interdetto Shaka, mentre sistemava i vassoi, per riporli sul carrello.

“Già, come Milo!”, convenne Aiolia, annuendo, ficcandosi in bocca l’ultima patatina fritta. Poi, ritornò al suo solito umore pestifero e mi chiese euforico: “Allora, posso venire?”

***

 

Se c’era una cosa, che avevo imparato nel corso della mia giovane esistenza, era che non si poteva avere la botte piena e la moglie ubriaca, così come non si poteva avere una media di 9cough, cough% senza una media altrettanto notevole in educazione fisica.

Quindi, in base alla dura legge del do ut des, toccava sacrificarmi all’altare di un buon curriculum, giocando spossanti partite al massacr- ehm di rugby, durante le quali tutta la frustrazione dei miei compagni veniva sfogata in dolorosi placcaggi e seppellimenti del sottoscritto, che ormai aveva l’abbonamento annuale all’infermeria e un the gratis con l’infermiera, la fonte primaria di tutti i gossip dell’istituto: se si desiderava avere qualche informazione su qualsiasi cosa o persona legata ad esso, una buona chiacchieratina con Madame Bonnet valeva più di tutti i pettegolezzi dell’intero dormitorio femminile.

He, mi era proprio indigesto il rugby, specie quando si univano al nostro gioco anche le altre classi (oltre al campo, l’istituto possedeva una vasta palestra, la quale poteva raccogliere due classi con comodo, anche tre volendo). In quel frangente, i professori se la raccontavano serafici, mentre i rispettivi alunni si pestavano tranquillamente, peggio dei gosses dell’asilo.

Quel giorno non fu da meno: la professoressa di un’altra classe, ci propose un’amichevole, ottima occasione per i meno entusiasti della nostra di ritirarsi in piacevoli conversazioni, lasciando liberi di sfogarsi i più bravi, i più competitivi, i più kamikaze.

E come nessuno se la sentiva di fare l’arbitro e rinunciare alla sua chiacchieratina, Aiolia sbucò dal nulla come una margherita, offrendosi volontario e alle proteste di favoreggiamento – Milo quel giorno si era degnato di scendere in campo – il ragazzo sfoderò il sorriso carnivoro dei Valavitis, dichiarando: “Ah, non vi preoccupate: sarò intransigente … come Robespierre!”, e una certa ansia s’insinuò tra i giocatori, non sapendo se lui si riferiva al lato eroico del giacobino – altresì noto appunto come l’Intransigente - o alla sua fama di spietato tagliatore di teste.

Il ruggito del fischietto fendette l’aria autunnale e si scatenò un inferno tra urla concitate, lamenti, imprecazioni e incoraggiamenti da parte degli spettatori, inferno cui assistetti in panchina per tutto il “primo tempo”, ovvero finché un povero disgraziato si metteva a supplicare di essere sostituito, dopo un placcaggio di troppo. E poiché nessuno dava la sua disponibilità di propria spontanea iniziativa, il professore – sadicamente – mi disse: “Forza Molinier, esci fuori volontario!”, appello cui dovetti rispondere, scendendo in campo come un martire cristiano nell’arena.

Sentii un grugnito di disapprovazione tra i miei compagni: il nostro vantaggio era di appena due mete e non se la sentivano di perdere la faccia con una classe di seconda liceo, noi che eravamo la terminal, a causa mia, nonostante m’impegnassi seriamente.

L’inaspettato abbraccio di Milo alle spalle mi distrasse dalle occhiate non proprio amichevoli degli altri giocatori della nostra squadra. “Ionesco”, mi sussurrò all’orecchio, la mano dalle nocche sbucciate ben stretta sul mio arto, “ti voglio a discreta distanza da me, capito? Abbastanza vicino da prendere un passaggio, ma allo stesso tempo lontano quel giusto solo dall’idea di un tuo eventuale placcaggio. Perché alla prima occasione, che ti passo lo palla, tu ti metti a correre a tutt’allé, come se avessi alle calcagna un demonio infoiato, bramoso della tua verginità!”

Wow, poetico!

Annuii piano, consolato almeno in parte dalla prospettiva di non essere nell’occhio del ciclone, per il momento. Quindi, come suggeritomi pittorescamente da Milo, gli stetti buono buono dietro senza dare troppo nell’occhio, il che era la mia specialità, anche perché la praticavo quasi ventiquattr’ore su ventiquattro. E mentre rimanevo pressoché in disparte dall’azione, con la scusa di seguirlo ebbi modo di osservare un’insolita aggressività nel gioco di Milo, lui che, almeno nel contesto sportivo, era sempre stato per il fair play. Quasi si stesse sfogando a causa di un qualche suo intimo cruccio …

Un brutto fallaccio contro un nostro compagno interruppe l’azione, buttando la palla fuori dall’area di gioco e nacque un’accesa discussione tra l’arbitro e i giocatori, su quale delle due squadre avrebbe dovuto battere la rimessa in gioco. Stufo di sentirsi dare – ingiustamente – del venduto, Aiolia descrisse senza mezzi termini ai contestatori, che uso raffinato, avrebbe fatto dell’ovale pallone sulla loro persona, se avessero protestato oltre. Dopo aver, quindi, calmato i bollenti spiriti, ci disponemmo in fila davanti alla squadra avversaria  e non mi piacque, che Milo si mise accanto a me e i miei sospetti vennero confermati, quando, lanciata la palla in mezzo ai due schieramenti, il ragazzo mi sollevò in alto come un bébé, per permettermi d’afferrarla, il che avvenne, solo che mi ritrovai in un nanosecondo pressato contro i miei avversari, intenti a spingermi indietro e a sfilarmi il pallone, che stringevo a dir poco possessivamente.

Cessai d’un tratto d’indietreggiare, scoprendo che Milo mi aveva bloccato con le braccia, per poi ricambiare la spinta degli avversari, facendomi invece avanzare. In soccorso, vennero Shura e i compagni, pigiando con forza alla pressione dell’altra squadra, come se fossimo due cervi in un combattimento. Quanto al sottoscritto, eletto ad ariete per sfondare la difesa avversaria, mi trovavo in precario equilibrio, anche perché non ero esattamente imponente dal punto di vista fisico; così, prima di finire a terra con dieci e più persone sul groppo, pian piano mi voltai, in modo da poter guardare in faccia Milo, i cui occhi turchesi brillarono terribili, non appena afferrò l’intenzione del mio gesto e di fatti, gli cedetti alla prima occasione la palla, che lui passò indietro a Shura, che la diede al compagno più lontano, onde sfruttare il corridoio liberato da quella massiccia mischia, che avevamo creato e che si sciolse rapidamente, lasciandoci liberi per rincorrere il nostro giocatore.

 Ma prima che potessero placcarlo, mollò il pallone a Shura, che abilmente non solo riuscì a guadagnare notevole terreno, ma anche di sbarazzarsi correndo del proprio placcatore, prima di passare dietro la palla a Milo, il quale, anticipò l’avversario liberandosi di essa, che finì nelle mani del sottoscritto.

Quasi avessi le ali ai piedi, complice la massa di bovini scatenati alle calcagna, incominciai a correre a tutto spiano, terrorizzato dall’idea di essere bloccato da quei bruti, com’era di routine. Allora, cercai con lo sguardo dei compagni dietro di me cui passare la palla, ma erano tutti davanti e non ebbi altra scelta, che avanzare mio malgrado. Tuttavia, l’appropinquarsi della meta m’investì di un’inebriante scarica d’adrenalina e la prospettiva di segnare per la prima volta in tre anni di liceo si delineò nettamente nella mia mente.

Sì, avrei fatto punto, il professore mi avrebbe elargito un bel voto e nessuno mi avrebbe più ridotto a crêpe suzette! Vaffanculo, devo fare meta! Addio, stupido 79,99%! Evviva 80! Prends ça!, pensai gasato, mentre mi tuffavo per terra, riuscendo finalmente nell’impresa!

Prima però, che potessi gioire assieme ai miei compagni dei punti appena conquistati, sentii l’allarmato ululato di Aiolia: “Momuuuuuuuuuuusssssss!” e poi il sole si oscurò, diventando tutto nero e orribilmente pesante.

 No, l’avevano fatto ancora!

“Via, via, ché lo spiaccicate! Via ho detto!”, ringhiava Milo, tirando i miei oppressori – nel vero senso fisico della parola – per la maglietta, rimettendoli in piedi poco elegantemente. “Hey, Ionesco, Ionesco!”, mi chiamava schiaffeggiandomi leggermente, dopo avermi rigirato in posizione supina.

“Gueh …”

“Come va?”, mi chiese, aiutandomi ad alzarmi, operazione non facile, visto che i muscoli delle mie gambe mi avevano disertato. “Visto, che significa pesare un kilo e uno sputo?”, mi rimproverò, riacchiappandomi appena in tempo, prima che ripiombassi col sedere sull’erba.

“Non incominciare anche tu …”, borbottai, aggrappandomi forte al suo braccio e seguendolo docilmente. “Hey, ma dove mi porti?”, chiesi ad un tratto, notando che non stavamo affatto camminando in direzione dello spogliatoio.

“In infermeria!”, rispose laconico Milo, stringendo la stretta, anticipando forse il mio successivo rifiuto e quando esso avvenne puntualmente, mi ordinò secco: “Stai zitto, Ionesco: è la cosa che sai fare meglio!”

“Boff, se lo dici tu …”, replicai imbronciato, mandandolo a mente a quel paese con grande trasporto, mentre Milo mi portava imperterrito in suddetto luogo come una mamma gatto, che prendeva il proprio cucciolo per la pelle del collo.

 

Arrivati in infermeria e salutata la Madame, Milo mi buttò poco cerimoniosamente sul letto, alzandomi con la stessa eleganza la maglietta, nonostante le mie vivaci proteste e solo alla vista del cotone e del disinfettante nelle sue mani, capii che i fini del ragazzo erano curativi e non lubrique.

“Ti sei lanciato male e, cadendo, ti sei procurato un bello sbrego al fianco”, mi spiegò incolore, gli occhi fissi sulla sua occupazione e la mano libera ben salda sul mio addome, onde tenermi fermo. Terminato di torturarmi con il disinfettante, mi applicò sopra un cerottone, coprendomi poi con la maglietta.

“Grazie”, feci riconoscente, mettendomi seduto sul lettino e rimanendo un poco deluso, quando il ragazzo non rispose, rimanendosene, invece, in silenzio, lo sguardo posato sull’indumento sporco di terra. Umettandomi le labbra, ripresi l’argomento interrotto dalla lettrice d’inglese, sperando che un luogo più appartato come l’infermeria lo incoraggiasse a parlare. “Allora … ehm … che fai domani?”

“Sei peggio del Piccolo Principe, non rinunci mai ad una domanda una volta postala, eh?”, replicò Milo sorridendo tra sé e sé.  “Vado a lezione”, aggiunse più docilmente, stringendo le spalle, sempre senza guardarmi in faccia.

“E al pomeriggio?”

“Niente.”

“Sicuro?”

“Sì, non festeggio mai il mio compleanno” e si morse il labbro inferiore, temendo di aver rivelato troppo.

Decisamente il suo umore era peggiorato rispetto alla mattina e le laconiche risposte m’indussero a zittirmi, rispettando il suo silenzio, stupito inoltre da quella sua eccentricità: non festeggiava mai il suo compleanno? Perché? Neppure un semi- asociale come il sottoscritto arrivava a tanto, insomma, uscivo con Shaka e gli offrivo una cioccolata calda con dolci. “Tu invece?”, domandò inaspettatamente il ragazzo, puntandomi contro i suoi occhi turchesi.

“Questo pomeriggio esco”, dissi vagamente, insomma non potevo certo spifferargli la mia intenzione di comprargli un regalo, o no? Anche se non faceva la festa, comunque gli avrebbe recato piacere un presente, giusto?

“Con chi?”, proseguì e giurai d’aver sentito un’inflessione d’aggressività nella sua voce, ma non ci badai più di tanto, essendo, alas, abituato ai suoi toni scontrosi nei miei confronti.

“Mais enfin, con nessuno! Devo solo … comprare un po’ di cancelleria, ecco!”, nicchiai, fissandomi colpevole le unghie ancora sporche di smalto rosso e nascondendo così il mio volto dalla sua occhiata inquisitrice.

“Vuoi che ti accompagni?”, fu la sua proposta choc: da quando tutta quella disponibilità?

“No!”, risposi fin troppo in fretta, attorcigliandomi a disagio le dita, e, pregando che il ragazzo non avesse mangiato la foglia, aggiunsi in uno sbrodolo di scuse: “Non disturbarti … ehm, vado e …”

“Come vuoi, ho capito!”, m’interruppe bruscamente Milo, alzandosi con veemenza dalla sedia. “Vai pure, non ti trattengo. Bada solo di ritornare prima del coprifuoco!” e se ne uscì sbattendo la porta, ché pareva volerla buttare giù.

Ma che gli prendeva?

***

 

Il giorno successivo, l’8 novembre, presi il pacchettino del regalo e, dopo due o tre profondi respiri, mi diressi nella camera di Milo, ripetendo mentalmente il mini discorso, che la sera precedente mi ero accuratamente preparato.

Bussai piano alla porta, in caso stesse ancora dormendo – dalle informazioni di Aiolia, avevo capito, che Milo il venerdì non aveva lezione fino alle 10 – e solo al terzo battito, sentii la sua voce accordarmi il permesso di entrare.

Trovai il ragazzo di spalle e seduto alla scrivania, intento a ripassare la lezione del giorno e quando si voltò, notai che aveva lo stesso volto pallido e tirato del fratello maggiore, dopo una nottata in bianco per colpa del gallo. Inoltre, sul suo comodino, accanto ad una copia ben vissuta di 1984 di Orwell, vidi un elaborato mazzo di fiori, il cui profumo riempiva delicatamente la stanza.

“Me li ha dati Shura: sua madre è fioraia, me li porta ogni anno”, rispose meccanicamente Milo, quando si accorse dove avevo posato lo sguardo.

“Sono molto belli”, commentai sinceramente, un poco sorpreso sia dalla grandezza del mazzo – a mio parere un po’ esagerato, comunque – e dal genere di regalo: enfin, anche a me i fiori piacevano, però, li associavo sempre al cimitero, portavano un po’ di tristezza. “Sono per il tuo compleanno, vero?”

“No”, fu la secca replica di Milo, alzandosi in piedi e avvicinandosi a me con un paio di chiavi in mano. “Stamane mon Papa mi ha chiamato, avvertendomi di un congresso per i prossimi tre giorni a Bordeaux e siccome il venerdì finiamo tutti a mezzogiorno e tua nonna non può venirci a prendere prima delle sei, lui ha messo a disposizione la vecchia casa, per lì recarci e aspettare la nonna.”

“Non andiamo assieme?”, chiesi a bruciapelo senza riflettere, intuendo il significato recondito dietro alla cessione della chiave: a che serviva darmi un doppione, se entravamo tutti e tre?

“No, ho da fare questo pomeriggio”, altra risposta breve e laconica. A quanto pareva, oggi Milo non era di umore festaiolo, nonostante fosse il suo compleanno e sinceramente era la prima volta, che assistevo a così poco entusiasmo per tal evento in una persona! Neppure Mamie, che soffriva nel vedersi ricordare annualmente di aver superato gli – anta. “E Aiolia viene con me”, aggiunse, anticipando la mia prossima domanda.

Un fastidioso groppo in gola m’impedì di formulare una qualsiasi forma di replica, limitandomi ad abbassare il capo e rigirare stupidamente la chiave tra le dita.  E fu da una parte una fortuna, ché mi fermò dal rinfacciargli la scortesia, di lasciarmi tutto il pomeriggio in casa, solo come un cane e io in primis mi stupii di questa mia reazione, io, che da sempre intrattenevo un’ottima relazione con la solitudine, peggio di marito e moglie.

“Camus?”, mi chiamò piano Milo, la testa leggermente inclinata, onde cogliere gli occhi, che gli celavo gelosamente.

Respirando a fondo, alzai di scatto il capo e, sorridendogli meglio che potei, gli dissi: “Ho capito, grazie di avermi avvertito! Allora, ci … ci vediamo a casa …”

Milo non sembrò molto convinto della mia performance d’attore, tuttavia non replicò, girandosi invece verso la scrivania e raccogliendo le sue cose nella borsa e mentre era impegnato nella sua occupazione, ne approfittai per appoggiare nell’angolino più nascosto del comodino il mio regalo, in una sorta di masochistica ordalia: se l’avesse trovato, allora un pochino a me ci teneva; al contrario, avrei avuto la certezza di essergli del tutto indifferente. Ragionamento un po’ strano, però, ora che eravamo fratellastri non riuscivo a digerire l’idea, che gli fossi invisibile; a scuola, potevo sopportarlo, ma a casa?

“Che eri venuto a fare qui, Ionesco?”, mi domandò Milo, sempre dandomi le spalle.

Trasalii violentemente e la scatolina mi scivolò dalle mani, cadendo non proprio silenziosa ai piedi del mobile. Mi apprestai a raccoglierla, ma il ragazzo si voltò – forse attirato dal rumore – prevenendomi dal portare a termine il mio gesto. “N – niente …”, risposi a disagio, scivolando verso la porta. “Ero solo venuto ad augurarti …”

“Cosa?”, la voce del greco era ridotta a un impercettibile sussurro.

“Buon …”, deglutii incerto, aggrappandomi alla maniglia della porta, come se fosse la mia ancora di salvezza. “Buon lavoro …” e uscii con la coda tra le gambe, filando dritto nella sicurezza della mia camera.

 

Irruppi rumoroso nella stanza e lode al self - control di Shaka, il quale non batté ciglio, benché in piena immersione nella sua meditazione mattutina – sarà, ma avevo come l’impressione, che stesse invece ripassando mentalmente le formule di fisica.

Mi buttai supino sul letto, coprendomi il volto con ambedue le mani, applicando con zelo gli esercizi sulla respirazione insegnatimi dal mio amico. Quando giudicai di essermi calmato a sufficienza per parlare con voce stabile, domandai a Shaka: “Oggi non mi sento bene: credo che non verrò a lezione.”

L’indiano non rispose subito e, rimettendosi lentamente in piedi, si sedette ai bordi del mio letto, il suo viso sopra il mio, a giudicare dalle ciocche dei suoi capelli, che mi solleticavano il dorso delle mani. “Che cosa ti ha combinato stavolta, Valavitis il Demonio?”, inquisì, facendomi allargare le dita, stupefatto dalla sua perspicacia.

“Mi lusinghi, mērē dōsta”, continuò sornione il ragazzo, quasi mi avesse letto nei pensieri - forse, a furia di connettersi e disconnettersi con la sua mente, aveva imparato anche a far l’hacker in quelle altrui, “tuttavia, non ci vuole un genio per comprendere il motivo del tuo cruccio! Enfin, sono sette anni, che ci conosciamo e il 99, 9% ,di tutte le volte che ti ho visto in qualche modo turbato, era attribuibile a quel Dānava in terra.”

“Uhm …”, feci raggomitolandomi sotto la copertina di emergenza, che tenevo sopra al piumino. “In ogni caso, oggi non me la sento di andare in classe … Se qualcuno te lo domanda – anche se ne dubito – puoi per favore dirgli, che sto poco bene?”

“D’accord Momus, lo farò!”, accettò Shaka, rimettendosi in piedi. “Anche perché così guadagno punti per la mia prossima reincarnazione!”, aggiunse scherzando.

“Ah ouais? Ancora non mi hai rivelato, in che cosa vorresti rinascere!”

“Hé, nell’uomo più vicino a Dio, che domande!”

“Mi pare un po’ relativa come reincarnazione …”, commentai, conoscendo il gran numero di religioni sparse in giro per il mondo. Ne aveva Shaka di strada da fare!

“Relativo come il tuo senso dell’umorismo!”, replicò serafico il ragazzo, infilandosi la borsa a tracolla. “Ora riposati e non ti arrovellare quella tua testolina. E per quanto riguarda il Dānava, ti dirò questo, Momus. Non ne conosco il motivo certo, ma ho come l’impressione, che lui abbia eretto attorno al suo cuore un alto cerchio di fuoco: avvicinati troppo e ti bruci!”, mi confessò, aprendo la porta. “Et maintenant dodo!”

“Dhan’yavāda, mērē dōsta!”, lo ringraziai da sotto la coperta, nelle poche parole di hindi, che avevo appreso con lui, ricevendo, prima che uscisse per recarsi in classe, uno dei suoi rari sorrisi.

 

Mi ero appisolato un pochino, quando le campane della chiesa della Madeleine suonarono mezzogiorno, risvegliandomi. Meccanicamente, mi alzai e preparai la valigia, lasciando un biglietto di buon finesettimana a Shaka, dirigendomi quatto quatto verso il cancello dell’istituto.

Camminai come in trance fino al semaforo, attraversando tranquillamente le strisce, quando sentii all’improvviso due cose: il suono di un clacson e qualcosa tirarmi con violenza all’indietro, sbilanciandomi di quel poco e solo allora, capii che per un soffio avevo rischiato di essere investito da una macchina.

E che il mio salvatore era un Milo livido di collera.

“Idiot!!!”, ruggì, afferrandomi per le  braccia e scuotendomi come un milk shake, “Non guardi, quando attraversi la strada? Poteva investirti, lo capisci? Eh? Dove avevi la testa, imbécile?!? E guardami quando ti parlo, putain de bordel de merde d’une foutue vache en chaleur!”, imprecò, continuando a sbatacchiarmi con crescente forza, che per un istante temetti che la mia testa stesse per prendere il volo.

Ad un tratto, si fermò bruscamente e le sue mani si spostarono leggere come piume sul mio petto, scosse e tremanti in maniera a dir poco preoccupante, quale del resto il viso del ragazzo, che, nonostante la terribile sfuriata, era rimasto sul grigio cadaverico, quasi avessero tentato d’investire lui al mio posto.

“Milo …”

“Vai via … vai a casa …”, mormorò meccanicamente il greco, affondando le dita nel mio cappotto, il respiro, che usciva irregolare dalle labbra cineree.

“Scusami … io non …”, boccheggiai, sinceramente contrito che la mia sbadataggine lo avesse scosso a tal punto.

“VA T’EN!”, urlò fuori di sé Milo, spingendomi indietro, gli occhi spalancati e malsanamente cupi e torbidi, che continuarono a fissarmi insistenti, finché non svoltai l’angolo, infilandomi nel dedalo di viuzze del centro città e solo allora, mi permisi il lusso d’appoggiarmi a un muro, tirando un respiro così profondo e doloroso, che pareva stessi espellendo la mia anima.

***

 

 

La vecchia abitazione della famiglia Valavitis giaceva nell’innaturale ordine delle case disabitate. Non un solo oggetto appariva fuoriposto, niente suggeriva una qualsiasi forma d’attività lì dentro. Solo silenzio; solo un pesante e poco confortevole silenzio.

Aprii la saracinesca del salotto e un poco la finestra, onde liberarmi del fastidioso odore di chiuso, che impestava l’aria; dopodiché, mi sedetti sul divano coperto da un lenzuolo bianco, fissando imbambolato il muro, ignorando i gorgoglii del mio stomaco, conscio che avrei vomitato, se solo avessi mangiato qualcosa.

Mi sentivo oppresso da quella casa, schiacciato: vi era al suo interno una sottile aurea angosciosa, aumentata dal silenzio, che mi faceva venir voglia di urlare e strapparmi i capelli. Per prevenirmi da simile gesto illogico e nocivo alla mia capigliatura, strinsi le mani tra di loro, battendo nervosamente il piede per creare un po’ di confortante rumore.

Stufo, mi alzai e mi misi alla ricerca di qualcosa da leggere, onde ingannare l’attesa, chiedendomi quale sorta d’impegno stesse trattenendo i due fratelli. Mi diressi nello studio di M. Christophe e presi dalla sua libreria un libro a caso, che scoprii, dopo aver letto distrattamente una decina di pagine, essere Il Rosso e il Nero di Stendhal. Uffa, già letto! Vabbè, almeno, mi tenne la mente occupata fino al crepuscolo, che incominciava ad arrivare sempre prima, il che si presentò un problema non da poco, in quanto il generatore doveva essere spento ed io ignoravo, dove fosse allocato nel condominio.

Beh, un’esplorazione mi avrebbe certamente distratto, però …

 E se Milo e Aiolia fossero tornati all’improvviso e, non vedendomi, avessero deciso di andare via e lasciarmi qui da solo, dimenticandosi di me?

Fu quest’ipotesi a fermarmi; sapete, al mondo c’erano due tipi di solitudine: quella che si cerca e quella imposta dall’abbandono. Io appartenevo alla prima, quando volevo starmene solo, mi rintanavo come un orso in me stesso, indisturbato da chicchessia; ciononostante, mal sopportavo la seconda, specie, dopo essere stato sbattuto fuori di casa assieme a Maman da quell’uomo.

Certo, ero spesso ignorato da tutto e tutti, però la cosa non mi toccava, giacché non ero in confidenza con loro: come potevo soffrire la mancanza di gente, che non conoscevo? Ma, se una persona entrava nel mio cerchio, vivevo costantemente nell’ansia di perderla un giorno.

Vai via! Va t’en!, le parole di Milo mi martellavano il cranio senza pietà, così simili a quelle lanciate da quell’uomo a Maman e a me, eppure allo stesso tempo così diverse …

Non c’era cattiveria in esse, no, una piccola parte di me – forse la più sveglia – percepiva che non le aveva pronunciate per ferirmi. Ormai, avevo imparato a cogliere ogni sfumatura della sua voce, anche se non mi ero mai spiegato il motivo di questo mio studio. O meglio, sì, una ragione all’inizio c’era, quella di evitare di prendersele (verbalmente). Ma ora?

Va t’en!, il suo tono era pieno d’angoscia, sì e di … di … vergogna? Per cosa? Per me? Ma se non ero neppure un suo amic-

Mi bloccai di colpo, fulminato dalla parola. Amico.

Amico.

Compleanno.

Pomeriggio.

Via da quasi tre ore.

Compleanno.

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Bastardo!, fu la prima parola della mia indignata soluzione appena raggiunta. Come si era permesso di mentirmi così spudoratamente? Di ingannarmi in maniera così meschina e subdola? Se non mi voleva attorno, perché non dirmelo chiaro e tondo, invece di ricorrere a quei vili sotterfugi?

E parli del diavolo e spuntano le corna, ma in quel caso spuntò Milo, il cui arrivo fu annunciato dal rumore della chiave nella serratura. Rapido, spalancai feroce la porta, schiaffeggiandolo con tutta la forza di cui ero capace, prima ancora che potesse fiatare, per poi farmi largo con una spallata, scendendo inferocito le scale, diretto alla stazione delle corriere: al diavolo, sarei ritornato da solo nella mia casa e alla malora tutti!

Il mio brillante piano, tuttavia, non contemplava di certo uno scorpione incavolato nero rincorrermi per le scale e per tutta la strada, che conduceva alla stazione, senza perdermi di vista neppure per un secondo e ciò significava una sola cosa: se mi acchiappava, mi avrebbe menato fino a farmi divenire femmina.

Sempre di corsa, tirai fuori dalla tasca dei pantaloni la tessera e zumpettai come una cavalletta su per la corriera, sedendomi o meglio nascondendomi nell’ultima fila di sedili, il fiato corto per l’inaspettata maratona, sperando di aver seminato Milo. Ma a quanto pareva, dovevo avere un addosso odore particolarmente caro al naso del ragazzo, ché non feci in tempo a regolarizzare il mio respiro, che intravidi la bionda zazzera comparire davanti al conducente, per pagarsi il biglietto. Rapido, tirai fuori il cappuccio della mia felpa dal cappotto, con l’intenzione di camuffarmi un poco, specie, quando notai lo sguardo inquisitore di Milo, che spaziava come uno scanner tra i sedili, cercandomi.

Fortunatamente, l’autista accese il motore e la corriera partì, costringendo Milo a sedersi e neppure troppo vicino al sottoscritto. Meglio! Così mi avrebbe lasciato in pace per tutto il tragitto e figurarsi se mi degnavo pure di dirgli qual era la mia fermata, tzé! Per quel che mi riguardava, dopo un tiro mancino del genere, poteva anche perdersi nelle Landes e non avrei versato una lacrima.

“Hai finito di fare l’idiota, Ionesco?”, sbucò Milo all’improvviso dal sedile davanti al mio, facendomi balzare dal mio, urletto incluso. Come diavolo era riuscito a strisciare da metà corriera fin qui, senza che me ne accorgessi?  E come aveva intuito, che io mi trovavo lì?

D’istinto, mi alzai per sfuggirgli via, ma il ragazzo mi afferrò rapido per il polso, intimandomi di rimanere seduto, tacito ordine cui mi ribellai, mordendogli la mano, approfittando dell’occasione, per chiudermi a chiave dentro la toilette della corriera.

“Esci da lì, Ionesco!”, sentii sibilare minaccioso il greco, evidentemente al limite della pazienza, tra un battito alla porta, uno più forte dell’altro.

“Fossi scemo!”, replicai dal gabinetto, tenendomi in equilibrio a fatica.

“Ma se lo sei già!”

“Mettila come  vuoi! Tanto io non esco di qui!”

“Dovrai pur uscire prima o poi, Ionesco, anche se la fermata è il capolinea”, sottolineò il ragazzo malizioso. Merde, come lo sapeva? Certo che aveva un futuro tra i servizi segreti! “E allora, vedrai che sarò giusto qui dietro ad aspettarti a chele aperte!”

“Aspetta e spera!”

“Non ti preoccupare per me, tesoro. Piuttosto, pensa al tuo bel sederino, che riempirò di sculacciate fino a dipingerlo di rosso scarlatto, non appena ti acchiappo!”, mi promise dolcemente, quasi volesse comprarmi dello zucchero filato.

 E mantenne la parola, finché non mi chiese ad un certo punto con tono sinceramente apprensivo, da dietro alla porta: “Senti … sei sicuro, che sia la corriera giusta? Non mi pare la strada per andare a casa …”

“Ma sì! Non è la …” e la voce mi morì in gola. Un momento … “Milo, hai per caso letto l’A o la C sullo schermo?”

“Uhm … la C! Hey, non dirmi che …”, rispose sicuro il greco, che spinsi in avanti con forza non appena spalancai la porta del gabinetto.

“Bordel!”, esclamai ad alta voce, attirando l’attenzione degli altri passeggeri. Suonai frenetico il campanello per prenotare la fermata, calcolando mentalmente, che avevamo ancora qualche chance di prendere la corriera giusta.

“Non dirmi, che hai sbagliato bus!”, mi accusò finalmente Milo scandalizzato, mentre scendevamo in un’anonima fermata, nel mezzo del bel nulla delle Landes. Ignorandolo, controllai le linee che passavano per di lì e appurai sollevato, che la nostra passava tra un’ora; inoltre, la lettura m’impediva di guardarlo in faccia: mi vergognavo troppo, dopo quell’atroce gaffe.

“Merde!”, lo sentii imprecare. “Mi mancava solo questa: perso in culo al mondo, con un babbeo cieco, che non sa neppure distinguere una A da una C! E pure piove, p’tain d’un canard sodomisé!”, terminò elegantemente, portandosi sotto alla cabina della fermata.

“Colpa tua!”, mi difesi, per nulla disposto ad assumermi la responsabilità dell’abnorme sbaglio. “Se tu non mi avessi rincorso come un pazzo, io non avrei sbagliato la lettera! Mi hai distratto, animal stupide!”

“Tzé, blanc-bec! Se tu non mi avessi mollato una sberla senza spiegazioni, io non ti avrei seguito, tiens!”, replicò il ragazzo con lo stesso trasporto, crocifiggendomi con lo sguardo, che ricambiai.

“E se tu non mi avessi mentito sulla tua festa di compleanno, io non ti avrei schiaffeggiato, sale menteur!”, mi sfuggì dalla bocca, che tappai di riflesso, rendendomi conto solo ora di aver portato con successo a termine la terza cazzata del secolo.

“Io … cosa? Festa?”, ripeté piano Milo, gli occhi che mi fissavo increduli. “Ionesco, hai detto festa?”

“Ehm … bestia, ho detto, bestia …”, mi corressi con scarsa convinzione, scivolandogli nel frattempo lontano: insomma, quale cretino avrebbe creduto nell’esistenza di una bestia di compleanno?

“Festa?”, continuò dolcemente minaccioso il greco, appropinquandosi.

“Milo, basta ricorrere subito alla violenza: prima ne discutiamo e poi – forse – ci meniamo!”, gli puntai contro il palmo della mano, per persuaderlo a desistere dall’idea di picchiarmi in una fermata dell’autobus nelle sperdute Landes. Era troppo volgare.

“Ionesco, pensi davvero che nelle ultime ore, io sia stato ad una festa? Ti rendi conto della colossale cavolata, che stai sparando?”

Eh no Ciccio, fino a prova contraria non ero esattamente nato ieri! “Cavolata?”, ripetei sarcastico. “Cavolata sarebbe credere alla tua scusa! Oggi è il tuo compleanno, sparisci per tutto il pomeriggio con un mazzo di fiori in mano, che vuoi che pensi? Che fossi andato al cimitero?”, mi sfogai, alzandomi di scatto dalla panchina e fronteggiandolo bellicosamente.

Per un folle istante, pensai d’aver scorto una smorfia di dolore sul volto di Milo, che venne immediatamente sostituita da una maschera altrettanto combattiva. “Sì”, rispose semplicemente, sfidandomi a contraddirlo con i fiammeggianti occhi turchesi.

“Sì, cosa?”, infierii, sadicamente contento di aver ribaltato, per una volta, i ruoli, in altre parole io l’inquisitore e lui l’interrogato. “Che mi hai rifilato una cavolata? O che sei andato sul serio al cimitero?”

Un sorrisetto crudele deformò il volto di Milo, mentre incrociava le braccia con studiata lentezza. “Che risposta vorresti avere, Camus? Vuoi sentirti dire la verità o la tua verità?”

Shaka aveva ragione: c’era un malefico fuoco nel cuore di quel ragazzo e qualunque spiegazione mi avrebbe fornito, sapevo che alla fine sarei stato io quello a rimanerne ustionato, come sempre. Sospirai a fondo, calmandomi per gestire la faccenda razionalmente senza perdere la testa. “Non sono arrabbiato nei tuoi confronti a causa della festa di per sé”, esordii piano, tentando di spiegargli, che non ero un gosse capriccioso e viziato del nido, “tu hai la tua vita ed io non voglio immischiarmi in alcun modo. Tuttavia, poiché siamo fratellastri e condividiamo gli stessi genitori e lo stesso tetto, una certa sincerità da parte tua non mi dispiacerebbe, sai? Mi addolora sapere che mi hai mentito! Anche a scuola, prima che diventassimo parenti, eri un bastardo con me, vero, però almeno eri un bastardo sincero! Puoi continuare a esserlo? Mi puoi dire, per favore, se è vero che mi hai mentito per non invitarmi alla festa?”

Milo non disse nulla; abbassò lo sguardo, sospirando leggermente. “Sono andato al cimitero”, rispose infine con voce spenta, alzandosi di scatto. Il fuoco dei suoi occhi, al contrario, era più guizzante che mai. “E se non mi credi, cavoli tuoi. Bel discorso, sai? Hai sostenuto, che fino ad ora sono stato sincero con te, che cosa allora ti ha spinto a pensare, che avessi cambiato di costume all’improvviso, uh?” e dinanzi alla mancanza di una mia replica, continuò feroce. “Vuoi che io sia sincero con te, ma tu? Tu? Perché questo tuo immeritato rancore nei miei confronti? Di che cosa hai paura?”, mi provocò sornione.

“Io non ho paura di nulla, Valavitis!”, dichiarai gelido, appoggiando contro la parete di plastica della cabina. “E men che meno di un bastardo come te!”

“Vero, tu non mi temi …”, concesse ambiguo, intrappolandomi con la sua persona. “Ma paventi la possibilità, che io un giorno perda interesse nei tuoi confronti e che ti abbandoni, come ha fatto quella sale charogne  di tuo padre!”

“Non è vero!”, digrignai i denti, sforzandomi di non lasciarmi manovrare da lui, simile a un Guignol. Come faceva a conoscermi così  a fondo? Come?

“Oh sì, lo so bene, che tu sei un masochista represso, Camus; che ti piace farti maltrattare dal sottoscritto, visto che si tratta, anche se un po’ perversamente, di una qualche forma d’attenzione verso una persona da tutti ignorata, come se neanche esistesse! Questa, almeno, è la mia teoria …”

“Taci!”

“Taci? E perché? Non affermavi poco fa di voler conoscere la verità sul mio conto? Come puoi pretendere ciò, se neppure accetti quella che ti concerne, ipocrita!”

Non seppi come avvenne esattamente; l’unica cosa, di cui ero certo, era che un sinistro crac echeggiò nella mia testa, annebbiandomi la vista per un istante e quando l’ebbi recuperata, tutte le gamme dei colori si erano riassunte in un unico rosso accesso. Anni e anni di frecciate da parte di Milo avevano temprato le mura della mia difesa, ma quell’ultima cannonata, le aveva distrutte in mille frammenti. Non avevo più alcuna argomentazione con la quale ribattere, non dopo aver citato quell’uomo. Quindi, con l’istinto suicida di un animale messo all’angolo, ringhiai, la mia voce alterata dalla collera: “Vai all’inferno demonio!”, e gli saltai addosso, desiderandogli far sentire sulla propria pelle, il dolore, che percepivo al cuore.

Milo non si sottrasse a nessuno dei miei colpi, si limitò solo a difendersi da quelli destinati al viso; per il resto mi lasciò fare e quella sua reazione mi riempiva d’ulteriore sdegno, ché mi sentivo da lui deriso per quel mio puerile sfogo. Non si oppose neppure quando lo buttai per terra, mettendomi a cavalcioni sopra di lui e riempiendolo di schiaffi, pugni e morsi. Infine, lo afferrai per il bavero, levando in alto il pugno di grazia, che gli avrebbe lasciato un bell’occhio nero come ricordino. Tuttavia, un flebile rumore metallico attirò la mia attenzione, bloccandomi: mescolato tra i capelli biondo oro di Milo, intravidi la medaglietta con sopra inciso il simbolo dello scorpione, la stessa che gli avevo regalato per il suo compleanno. Com’era possibile? Allora, aveva trovato il mio pacchettino! E … e stava pure indossando il mio regalo!

“Che c’è ora, Ionesco? Non mi vuoi più colpire?”, mi provocò Milo, gli occhi turchesi puntati sui miei dorati. Come da un sogno, trasalii, rendendomi solo ora lucidamente conto, che mi trovavo sopra al ragazzo, il pugno fermo a qualche centimetro dal suo viso. Oddio, che follia mi aveva mai preso? “Avanti, Ionesco, vedi di concludere”, proseguì annoiato il greco, “non mi è mai piaciuto star sotto!”, aggiunse maliziosamente e dinanzi alla mia mancanza di collaborazione, mi lanciò un ultimatum: “Allora, o mi colpisci …”, fece lentamente, umettandosi le labbra “ … oppure tu stai zitto e mi ascolti una buona volta!”, scelse lui per me, invertendo le nostre posizioni con un rapido scatto di reni.

Bravo, Camus, ti eri lasciato fregare per la milionesima volta!

“Adesso mi lasci parlare?”, mi sussurrò Milo tra la cortina d’oro dei suoi capelli, che mi si mescolavano ai miei.

“Ta gueule!”, gli inveii contro, dimenandomi come un’anguilla. “Hai parlato fin troppo!”

“Per favore ascoltami!”

“Sono stufo di ascoltare le tue scuse! E i tuoi insulti!”, aggiunsi, dopo una breve pausa di riflessione.

“Seriamente … è importante …”

“Ma quando mai!”

“Ma vuoi star zitto?”

“Figurati, se lo faccio per il tuo bel musetto!”

“Mi trovi bello?”

“Va te foutre!”

“Turlututu, Camus!”

“Turlututu mon c …”

“Linguaggio!  E invece di sparare fesserie, cosa che non ti fa onore, ascoltami: non ti ho mentito, quando di ho detto che sono andato al cimitero, perché …”

“Non – lo – voglio – sapere!”, lo interruppi per l’ennesima volta, sbuffando scocciato nel vedermi imprigionati i polsi.

“Argh! Au diable!”, imprecò ringhiando Milo e prima che potessi replicare, sentii qualcosa di umido e di caldo tapparmi la bocca, riscaldandomela sia all’esterno che … gueh, all’interno.

Bastardo! Cochon! Pervers scorpion lubrique! Che accidenti ti prende ora?, protestai mentalmente - avendo la lingua al momento impegnata in altre attività - quando mi resi conto, che quella buona lana, pur ti costringermi al silenzio, aveva sfacciatamente violato il mio pudore, fregandosi senza tanti complimenti il mio primo bacio, bon sang! Tuttavia, più Milo approfondiva le sue loquaci argomentazioni, più io passavo in tutta velocità dalla fase iniziale Che schifo! alla mediana Mmmhh sì,te lo concedo, continua pure … alla finale Se ti fermi, t’accoppo! E il gorgoglio soddisfatto della mia gola dovette lusingare il ragazzo, che trasmise maggior fervore al nostro dibattito, aggiungendo ogni tanto qualche interessante dimostrazione extra tra le pieghe del mio cappotto, sotto la felpa.

“Allora, bambino impossibile, ti sei calmato?”, soffiò Milo, gli occhi due pozze turchesi di pura lascivia. E tenerezza.

“Mouais …”, bofonchiai, il respiro leggermente irregolare e le gote porpora e bollenti. “Ma tapparmi semplicemente la bocca con la mano, no, eh?”, lo rimbeccai con poca convinzione, le mie iridi puntate fameliche sulle sue labbra.  Tornate un po’ qui …

Non, pas bien! Mi stava trasformando in un pervers lubrique, come lui, merde!

“Ho le mani sporche, Momus, non te le potevo mettere sulla bocca: i germi non sono un’opinione!”, mi sorrise sornione Milo, arricciando la sua, mentre pronunciava divertito il mio nomignolo ufficiale.

Sì, sì come no, germi! Ma  a passarmi quelli tuoi lubriques non ci hai pensato più di tanto, eh?

Lo sguardo di Milo ritornò d’un tratto terribilmente serio, nel frattempo, che mi aiutava a rimettermi in piedi, scrollandomi via dalla schiena il terriccio con potenti zampate. “Bien, ora che ti sei tranquillizzato, per favore, ascoltami. Questa mattina, quando ti dissi, che avevo qualcos’altro da fare, intendevo …” e s’interruppe, questa volta non  a causa del sottoscritto, bensì da due fari puntatici contro, appartenenti ad una macchina, che non riuscii a distinguere bene a causa del buio e che si accostò a noi.

Il suo finestrino destro si abbassò, sotto la pioggia scrosciante, illuminando i suoi passeggeri all’interno. “Koukou! Vi sono mancato?”, ci salutò Aiolia con la stessa dolcezza del boia al condannato sul patibolo. Evidentemente, la nostra fuga romantica doveva averlo fatto preoccupare e anche tanto, a giudicare da come stringeva le mani, trattenendosi dal saltar fuori e strangolarci entrambi.

“Momus!”, chiamò bellicosa Mamie, sporgendosi accanto al ragazzo. “Et Milo, toi aussi!”

“Mamie?”

“Oui, dall’inferno!”, ringhiò mia nonna, trafiggendoci con lo sguardo, tanto da farci inconsciamente arretrare. “Delinquenti! Ci avete fatto morire! Che vi era saltato in quelle teste bacate di sparire così? Specie te” e m’indicò implacabile, come il Cristo Giudice, “che so,  quanto tu sia imbranato con le corriere!”

“Mi avete travolto sulle scale; sono cascato giù e ora per colpa vostra ho un livido sul didietro più vasto dell’Atlantico!”, rincarò la dose Aiolia umiliato e offeso. “Vi abbiamo cercato per ogni fermata, bordel!”

“Per fortuna, che mi ricordavo di un tuo simile errore in passato, sennò da che parte incominciavo a cercarti? Eh? Da che parte? Me lo puoi dire, furbone?”, riprese la nonna con veemenza, continuando ad agitarci -  a me in particolare – il pugno sotto il naso.

Era ovviamente la domanda retorica del predicozzo ai nipoti discoli; una delle tante, che mai avrebbe avuto una risposta, se i detti criminali in erba desideravano sul serio ottenere l’amnistia dall’augusto grand- parent.

Quindi, Milo ed io ascoltammo falsamente contriti il sermone, cospargendoci il capo di cenere, tra un Oui, Mamie; Sûrement, Mamie; T’as raison, Mamie; On ne le fera plus, Mamie … e via scusandoci.

“Très bien!”, terminò nonna Séraphine, la quale, nonostante avesse tendenze sanculotte, come tutte le nonne non riusciva mai a tenere più di tanto il broncio al suo nipote; enfin, ai suoi nipoti. La vidi, però, ad un tratto sporgersi di più dal finestrino, gli occhi puntati verso …

“Come mai hai la bottega aperta, Momus?”, inquisì lentamente, scoccando un dardo velenoso a Milo, che rispose con nonchalance al posto del sottoscritto, il quale era già partito per il Mondo delle Idee.

“Colpa mia, nonna!”, replicò il ragazzo sornione, ficcandomi dentro la macchina, prima che Mamie potesse anche notare, che entrambi avevamo le labbra più gonfie di un gommone Zodiac. “Temo di avergli attaccato l’incontinenza! Brutta storia!” , commentò, per poi ridersela alla grossa, sedendosi dietro accanto a me.

“Ouais, brutta storia …”, ripetei sconsolato, alzandomi vergognoso la zip, sotto lo sguardo divertito di Milo.

“Brutta storia …”, convenne Aiolia, il volto paonazzo dallo sforzo di non sganasciare dalle risate: figurati, se non aveva capito, a cosa suo fratello mi aveva sottoposto! Sperai solo, che avesse la discrezione di tenersi la cosa per sé e di non divulgarla a chicchessia, i gemelli inclusi.

“Brutta storia …”, concluse la catena una pensierosa Mamie, accendendo il motore e, dopo aver messo la freccia, immettendosi nel traffico per riportarci finalmente a casa.

Parole sante.

 

To be continued …

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Et voilà, il 5° capitolo!  Il suo titolo è un gioco di parole con l'augurio francese "Joyeux Anniversaire!", che corrisponde al nostro Tanti Auguri! o Buon Compleanno! Lo so, meno comico degli altri, ma nella vita, momenti felici e tristi si alternano come su di un’altalena! Comunque, nei prossimi, prometto di mettere meno spleen e più brio!

E per quanto riguarda il primo (evvai) bacio, chiedo venia, se non sono stata tanto romantica! Purtroppo, il mio lato pagliaccio ha prevalso sulla tenerezza dell’atto! (Ha – ha, pagliaccia!, indica ridendo la gemella malvagia; Hoel le lancia la bottiglia – vuota – di the alla pesca).

Spero di guarire da questa malattia …

(se, sogna, sogna! Ridi, pagliaccio …)

Vogliate scusarmi? (Hoel si assenta dal computer, rinchiude a chiave la gemella nel gabinetto e ritorna)

Dunque, questo era il capitolo, spero che vi sia piaciuto e che le parti più malinconiche non vi abbiamo, beh, rattristato troppo!

Alla prossima, ciao!

(Hoel, fammi uscire, brutta bastarda!, la suddetta risponde gentilmente con il gesto dell’ombrello)

 

Un po’ di noticine:

[1] Strofa della celebre canzone Bocca di Rosa, di Fabrizio De Andrè.

[2] Molly Bloom è un personaggio dell’Ulisse di James Joyce. La donna è la moglie di Leopold Bloom, l’Ulisse del titolo, ma, contrariamente alla fedele Penelope, lei è più sul menage à trois, ecco. Famosissimo è il suo monologo interiore finale, uno sproloquio di pensieri, posti così come saltano in testa, senza ordine, senza logica, senza punteggiatura! In lingua originale, poi, una vera bomba!

 

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Capitolo 6
*** Il Malato Immaginario, ma anche no - prima parte ***



B’jour a tutti! Rieccomi qua!

Chiedo immensamente venia, se vi ho fatto troppo aspettare, ma Hoel si è trovata suo malgrado negli artigli della burocrazia inglese per quasi tutta la settimana! Tuttavia, ogni promessa è debito e pian piano ho finito la prima parte del capitolo!

Ringrazio di tutto cuore i miei lettori e i miei recensori (inchino profondo)!

A Diana924:  Non credo che ci sarà una festa di compleanno, a quanto pare Milo si è intestardito di non voler festeggiare il suo compleanno … Mah, per quanto riguarda la sua gita al cimitero, Camus è un po’ sospettoso e solo il diretto interessato potrà sciogliere l’enigma. Ma il pinguino gli crederà o no? Eh sì, qui bene di certo non finisce, quei due hanno un talento naturale per cacciarsi nelle situazioni più strambe! Sì, viva il primo bacio! Anche se poco tenero … ma c’è tempo per le coccole! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Kiki May: thank you! Thank you! *si asciuga commossa una lacrima* non per vanità, sai, ma il gesto d’avermi fatto pubblicità l’ho interpretato come un altissimo segno di fiducia, che hai nella mia storia e per questo ti ringrazio! Ritornando alla ff, mi rincuora sapere che il bacio lo hai trovato confacente alla situazione, sai, sono sempre stata rimproverata di poco sentimentalismo nelle mie storie e di tanta “cerebralità affettiva” … Comunque, la partita di rugby è stato il mio omaggio ad un gioco amatissimo dai francesi e anche da me! Ti dirò, mondiali a parte, il calcio proprio non m’interessa! Viva il rugby! E ancora non hai visto Aiolia in azione come ala! Grazie ancora per la recensione e per esserti disturbata di segnalarla nel forum! Ciao!

A Clayre:  oh beh, se siamo due geni, di sicuro del male! In effetti, una storia troppo comica era poco convincente, nella vita ci sono sempre alti e bassi anche con quella banda di masnadieri dei Valavitis Brothers! E sì, pure gli scorpioni soffrono! E per questo i pinguini servono: a consolarli! Vabbè, pazzia zoologica a parte, il signore dei ghiacci si è trovato un bell’incendio da domare ed entrambi i contendenti sono terribilmente orgogliosi e testardi! Chi cederà per primo? Oh, sono sicura che prima o poi – lasciamolo riprendersi dallo choc – Camus vorrà delle spiegazioni da parte di Milo, ma lo scorpioncino gliele fornirà? O ancora gli tapperà la bocca? Uh … Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Sagitta72: e certo, che Milo si è dato da fare! Se voleva baciare bene il suo pinguino, doveva prima fare pratica o no? Povera Shaina, preparate un letto al reparto rianimazione! (la gemella malvagia gongola all’immagine) Camus nel rugby è un caso senza speranza: per quanto s’impegni, lo spiaccicano sempre! Mi fa un po’ pietà … (Bugiarda!, grida la gemella malvagia) Per quanto riguarda Aiolia, aspetta a fare già previsioni, ché ho in serbo un cataclisma naturale per quel ragazzo, che lo costringerà letteralmente a nascondersi in cima ad un albero! E Shaka … pure a lui, giusto per parcondicio … (risata maligna al cubo della gemella sadica) Grazie ancora per la recensione! Ciao!

Ad Eno: wow! La quarta? Tranquilla, ti credo! Anch’io, quando una storia mi garba la rileggo più di una volta, per coglierne ogni singola sfumatura! Il mio record fu undici volte (ma non tutte di seguito)! Ecco, per quanto riguarda gli insulti, sai, sono per i fantasiosi! È troppo divertente crearne di nuovi e poi quelli francesi mi piacciono particolarmente! Ritornando alla ff, sono contenta d’averti fatto passare per matta davanti allo schermo! Pensa, che io queste cose le scrivo e me la rido da sola, roba che il mio vicino penserà chissà che stramberie sul mio conto! No, la Maman di Milo non è morta di parto, perché c’è Aiolia a chiudere la fila dei fratelli e dubito che quella pasta d’uomo del Papa abbia mai osato fare le corna alla moglie o a mettersi con un’altra appena un anno dopo la sua morte! Nessuno è così cinico! Tranquilla, non ti dilunghi troppo, anzi, compensa il duro lavoro! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A JackoSaint94: Ciao, benvenuta! Allora, incominciando dalla prima recensione, me ne rallegro che la mia storia abbia attirato la tua attenzione! Bien, bien … T’as de la chance, ma chérie! Avere dei parenti in Borgogna è una fortuna non da poco! La mia bisnonna era di Montecarlo, ma hélas, non è esattamente annoverabile come Francia! Mi raccomando, eh, sfruttali per la lingua! Quanto alla storia, è frutto della follia euforica post-esami! Il tutto, però, cercando sempre di restare un poco in IC! Sì, un’invasione greca ha invaso casa Molinier e non una da poco! Povero Camus, costretto ad accomiatarsi dai suoi giorni tranquilli e paciosi! Meno male, che Saga lo difende un poco! Anche dalla Germania! Riguardo al bacio, non è romantico, c’est vrai, ma dovremmo saperlo, che il Romanticismo non è nato in Francia, bensì in Germania con lo Sturm und Drang! Grazie ancora per la recensione! Ciao!

A Tifawow: Ciao, benvenuta! Non ti preoccupare, dall’1 alle 24 non è mai troppo tardi per recensire! Uh, mi fai arrossire *blush, blush*  eh, non sai quanto esercizio, per giungere ad un livello decente di scrittura! E ancora sento, che ho molto da imparare! Tornando alla storia, sì concordo che i miei personaggi, essendo molto … ehm … esuberanti e infantili ancora non conosco appieno il significato della parola “romanticismo”, anzi, temo che per un maschio sia il sinonimo di “tortura”, ma potrei anche sbagliarmi. Chissà, magari crescendo, sia come persone che come coppia, Milo e Camus diverranno meno bruschi tra di loro: infatti, in questo momento sono borderline tra il cameratismo, non sopportazione e allo stesso tempo un reciproco interesse, per motivi diversi. Hé, Jean – François ormai è il prossimo presidente della Francia! Accidenti, non credevo che un personaggio di così poco rilievo avesse occupato la scena! Tzé, che primadonna di gallo! Comunque, spero vivamente, che tu non ti riduca come Saga …  Grazie ancora per la recensione! Ciao!

 

Bien, eccoci pronti per il capitolo. Attenzione! Warning! Achtung! Attention! Atenciòn! In questo capitolo verrà trattato un tema molto delicato allo stomaco: Hoel consiglia vivamente di non leggerlo subito dopo mangiato! Sennò, procedete pure a vostro rischio e pericolo, ma non dite, che non vi avevo avvertite/i!

Detto questo …

Buona lettura e buon divertimento!

 

H.

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L’imbarazzo, per essere stato pizzicato da Mamie con la patta aperta, mi aveva inibito il cervello da ogni sua funzione durante tutto il tragitto dalla fermata della corriera fino a casa, impedendomi sia di pensare razionalmente a quel che mi era capitato qualche minuto fa, sia di fuggire a tutt’allé la presenza di Milo, il pericoloso scorpion lubrique, che aveva avuto l’ardire di attentare alla mia virtù.

Tuttavia, l’istinto di conservazione da avances scorpionesche mi suggeriva saggiamente di restare accanto a Mamie, confinando nel fatto che il ragazzo non avrebbe avuto la faccia così tosta – o impellenze suicide – di toccarmi sotto l’occhio inquisitore dell’augusta avia. Per questo e altri motivi mi lavai nel bagno di sotto, approfittandone dell’assenza di Maman e M. Christophe e godendomi finalmente in santa pace una doccia come Dio comandava.

Pulito, profumato e ben asciugato, mi recai in cucina, dove trovai Aiolia in piena disputa della sua civetta peluche con Fred, il quale aveva provato per lei un forte sentimento mangereccio sin dal primo istante, in cui l’aveva vista, con sommo chagrin del suo proprietario, che doveva assistere all’orrendo spettacolo del suo pupazzo masticato e sbavato dalle potenti mandibole del cane.

Milo, invece, era occupato ad osservare piuttosto attentamente l’oca morta e spennata, che mia nonna aveva preparato durante la settimana per cucinarla domani a pranzo. Afferrando la mannaia, Mamie mi salutò gioviale, mentre il greco rimaneva, come il sottoscritto del resto, in muta contemplazione della lama tesa a mezz’aria dal collo tirato del cadavere.

“Saluta Marie – Antoinette, Momus!”, gongolò grand – mère, appoggiando lievemente la punta della mannaia sulla sua vittima, onde cogliere il punto esatto per decapitarla.

“Ciao, ciao Marie – Antoinette …”, mi congedai stralunato, aggiungendo pure la manina, intanto che la lama cadeva inesorabile in un sordo tunc sul tagliere e la testa saltava qualche centimetro più avanti. Yuk, macabre!

Con l’indice piegato davanti alla bocca, Milo si avvicinò a me, mormorandomi compiaciuto: “L’avevo sempre detto, che infondo Marie – Antoinette non era nient’altro che un’oca …” e prendendo la metà pensante della decapita, dopo il previo permesso di Mamie, la lanciò a Fred, che mollò la presa sul masticato peluche, ridotto ormai ad un’amorfa palla bavosa. “Come mai tua nonna ha l’abitudine di chiamare per nome ogni animale?”, chiese poi incuriosito, gli occhi attaccati con interesse su Mamie, che infilava il ripieno dentro l’oca. “Fa tanto cannibalismo … Il nome dell’oca, poi, era tutto un programma …”

“Se ti può consolare, quella di tre settimane fa si chiamava Anne Boleyn”, sospirai, osservando Fred deglutire contento il suo spuntino. “Vedi, siccome …”, incominciai a spiegare, ma venni interrotto bruscamente dalla zampata di mia nonna, la quale m’acchiappò come il gatto con la mosca, spingendomi verso il suo petto e stringendomi a mo’ di boa constrictor.

 E con mio sommo orrore si mise ad annusarmi, sotto lo sguardo di un Milo diviso tra lo sconcertato e il divertito. “Uhm … lo sapevo io … quest’odore …”, borbottò pensierosa “He – he, lo conosco io, l’odore della libido e della corruzione, altroché! La settimana scorsa, avevi un olezzo più virgineo: che ti è successo, Momus? Sei entrato forse nella pubertà?”, mi chiese, il naso ancora immerso nei miei capelli, come un cane da caccia sulla pista della sua preda.

Ritagliandomi una fessura d’aria dal suo abbraccio strangolatore, protestai vivacemente, contento in parte di dare le spalle ai due fratelli – Aiolia nel frattempo si era girato – acciocché non vedessero il mio rossore imbarazzato: “Mamie! Ho quasi diciotto anni! Eppoi, che odore vuoi che abbia? Uso sempre lo stesso shampoo alla lavanda, dai!”

“Davvero? Uf, come passa il tempo: mi pare solo ieri, quando correvi dodicenne nudo per la piscina!”, ricordò estasiata la nonna, ritornando a soffocarmi e ignorando che il suo adorato nipotino non desiderava altro in quell’istante, che affogarsi di persona nella suddetta piscina. Dopo aver ammazzato lei, ben inteso.

“Grand- mère, hai qualche foto per caso?”, domandò con nonchalance Milo, strizzandomi malizioso l’occhio, prima di dirigersi verso la credenza per prendere le stoviglie e apparecchiare. Ripensando a quel che era successo alla fermata della corriera, riuscii con successo ad arrossire fino alle orecchie.

“Beh oui, una! Se vuoi, dopo te la mostro!”, rispose tranquillamente Mamie, rilasciandomi  e sistemando l’oca nel forno. Poi, afferrando un barattolo di vetro, m’intimò con tono più serio: “A proposito, questo è il pâté del fegato di Marie – Antoinette, mettilo a tavola vicino al pane e al burro, va’, renditi utile!” e lo cedette senza tante cerimonie sulle mie mani, che all’ultimo artigliò, rischiando di farmi cadere il fragile contenitore. Gonfiandosi all’improvviso come un tacchino, la nonna inquisì alla Torquemada: “Unghie rosse alla Marilyn Monroe? Cos’è codesta novità?”

“Mamie, ti posso spiegare tutto!”, dichiarai velocemente, scuotendo il capo, quasi volessi auto – decollarmi. Bien, maintenant j’suis foutu dans la merde!

“Tzé! Le stesse parole, che mi rifilò quella gran carogna di tuo nonno Dégel  - que le diable puisse le dévorer! – quando lo pizzicai con l’amante, sacré bordel!”, imprecò pesantemente, per poi calmarsi un poco, quando Aiolia, allontanandomi per precauzione dalla furia della traumatizzata nonna acquisita, domandò piano:

“E che accadde, poi?”

“Oh beh, gli sedussi l’amante, che volevate che facessi? Che restassi a guardare, mentre mi decorava la testa? Jamais,  moi vivante, jamais ! E ciò spezzò in due il cuore del fedifrago, così: Crrrrriiiiiick!”, confessò sinistramente, imitando alla perfezione il suono di tale tragico evento. Infatti, quella era stata la prima volta, che la nonna si vedeva cornuta per un uomo; amoretto, cui pose fine con la conversione da omo a etero dell’amante tentatore. La seconda, pestò a sangue l’oggetto dei desideri del nonno e la terza si dovette arrendere all’evidenza, che suo marito era irrecuperabilmente perso, ma in ogni senso: tornata a casa, non lo trovò più, solo un biglietto d’addio e la promessa di provvedere con un assegno mensile alle necessità della famiglia abbandonata. Secondo Maman, prima di afferrare il fucile da caccia, Mamie avrebbe commentato: “E vorrei ben vedere, se non mi avesse lasciato dei soldi, bon sang!” e poi, dopo che si fu calmata: “Almeno, non avremo tanta gente contro la quale litigare, per dividere l’eredità!”

Insomma, se non si era capito, si volevano molto bene.

“Ma se la mette così”, mi sussurrò Milo all’orecchio, una volta sedutici a tavola “significa, che tua nonna o è bi o era tuo nonno, quello cui interessavano altre anatomie …”

“Milo, se mi vuoi bene, lascia perdere e più non dimandare!”, farfugliai, il viso porpora nascosto tra le mani dall’imbarazzo creatosi a causa delle rimembranze di Mamie; fortuna che Kanon non era qui con noi, ché altrimenti non avrei saputo affermare a che dotti livelli sarebbe arrivata la conversazione riguardo a temi come il matrimonio, le corna e metodi vendicativi per ogni credo sessuale. Brrr …

 E stranamente, Milo esaudì la mia richiesta e non mi pose altre domande. Che finalmente il suo unico neurone solitario avesse incominciato a girare?

O forse perché Mamie era giunta appena in tempo con la cena, impegnando così le ganasce di tutti i commensali – Fred sotto il tavolo incluso - al loro uso primario, con piglio molto canino?

“Momus, ti vedo un po’ giù!”, commentò mia nonna, notando che ero ancora fermo alla zuppa, mentre gli altri due attaccavano già la seconda braciola e lei stessa era alla terza. In effetti, nonostante avessi – ancora- saltato il pranzo, non riuscivo a ingoiare niente e delle piccole fitte di brividi, che ogni tanto mi attraversavano la schiena, non aiutavano di certo il mio appetito.  “Dai, bevi un po’ d’Armagnac e tirati su, ché con quella faccia da Violetta Valery mi fai sentire vecchia!”, disse solennemente, alzandosi, per poi ritornare con una delle sue preziose bottiglie, riempiendomi il bicchiere con il forte liquore.

Sapete, Mamie era persuasa, che tutti i maux d’ésprit alla Chateaubriand [1] fossero curabili con del véritable Armagnac e sfido! Soprattutto, quando dopo il primo bicchiere s’indugiava in un secondo, poi in un terzo, un quarto e via bevendo, fino a cantare la Marseillaise all’incontrario.

“Uf, che ti preoccupi, Mamie,  di sembrare anziana: hai solo cinquantasei anni …”, dissi senza pensare e fu un male: più rapida d’un ladro, mia nonna afferrò il cucchiaio di legno, riscaldandomelo in testa  e sibilando feroce:

“Quanti anni ho, Momus?!?”

“Non lo so, non lo so …”, pigolai, massaggiandomi il cranio offeso e osservando attento lo strumento della mia sofferenza, nascondendo vergognoso il viso tra le mie ciocche di capelli.  Oggi stavo decisamente collezionando una connerie dietro l’altra e non solo con Milo, veh! Mi mancava Aiolia e avevo fatto tombola! Beh, la serata era lunga e siccome non c’era due senza tre …

“Bravo!”,mi ammonì, prendendo il mio piatto finalmente vuoto e riponendolo assieme agli altri sul lavello. “E ti conviene non saperla, né tanto meno divulgarla, ché se t’azzardi ancora a ripetere ad alta voce la mia età, giuro che eseguirò sulla tua persona un’operazione chirurgica, la quale cambierà per sempre il tuo apparato riproduttore e le funzioni ad esso connesse! Uomo avvisato, pirulo mezzo salvato!”

Mon Dieu, perché mezzo? Che fine ha fatto l’altra metà?

Con un’avia familias del genere, a volte rimpiangevo di non essere nato femmina; non fu facile, sapete, crescere in un ambiente domestico, dove si veniva minacciati di castrazione sauvage come minimo tre volte al giorno, anche solo per scherzo (spero)!

“Certo che tua nonna all’occasione mi fa paura!”, mormorò piano Aiolia, tossicchiando un poco, dopo aver assaggiato l’Armagnac, che gli avevo ceduto più che volentieri, visto che l’alcol non lo reggevo, come la nuora con la suocera.

“Fai bene ad averne!”, commentai, spezzando la baguette e rabbrividendo nuovamente. Ma cosa avevo, ragni su per la schiena?

“Hé, tra Saga, la nonna e oggetti appuntiti, qui sembra di essere nel film Freddy vs Jason!”, dichiarò divertito Milo, alzandosi per aiutare Mamie a sparecchiare - così per filarsela velocemente in salotto, mica per carità cristiana. “Grand – mère, non è che hai pure un machete in casa?”

“Non in casa, ma nel gabbiotto degli attrezzi sì. Perché?”

All’udire quella sconcertante rivelazione, Aiolia ed io sentimmo l’impellente bisogno di lasciare seduta stante la cucina.

 

***

Terminate le corvè di pulizia, Mamie e Milo ci raggiunsero in salotto, la prima sistemandosi nella sua personale vacca sacra di poltrona; il secondo tra il fratello e me, ingaggiando una spietata lotta per il possesso della copertina, che terminò con un nulla di fatto, tranne noi tre pressati come sardine sotto di essa; il fratello maggiore in mezzo come mamma gatto e noi due rimanenti appoggiati su di una spalla ciascuno.

Si optò, data la scarsità di film e programmi decenti il venerdì sera, di vedere il film Mamma mia!, lungometraggio, che mi aveva sempre lasciato perplesso: ma se il titolo era un’esclamazione italiana, come mai avevano ambientato le vicende in Grecia? Vabbè, che per i nordici Italia, Grecia, Spagna, Portogallo e altre nazioni mediterranee formavano tutte un’unica e indistinta popolazione, però, sinceramente, un minimo d’accuratezza linguistica, bon sang, ci voleva!

 E a proposito di lingua greca …

“Milo”, gli domandai a metà film, sogghignando leggermente davanti a un dormiente Aiolia, il quale si era raggomitolato felino attorno al fratello, facendo pure delle piccole fusa. “Tu sei nato in Grecia o in Francia?”, feci, mentre una nuova scarica di brividi mi sconquassava i muscoli. Il ragazzo dovette accorgersene, ché, senza dire niente, si sistemò veloce in una posizione tale da permettere al fratello di dormire comodo e a me di essere più riparato dalla copertina, anche se ciò significava rimanere imprigionato supino tra le sue gambe. Eh, cosa non si faceva per un po’ di tepore … E sempre parlando di calore, accidenti come scaldava il ragazzo, pareva una stufetta umana!

“In Francia”, rispose infine Milo, artigliandomi prima che scivolassi giù dal divano, per poi passarmi un braccio attorno alla vita, onde impedirmi nuove cadute.

“E i tuoi fratelli?”

“In Francia: nous sommes tous citoyens français, monsieur Molinier!”, dichiarò con un misto d’orgoglio e irriverenza.

“Scommetto, che ti mancano i tuoi nonni!”, dissi, immaginando quanto potesse essere difficile trovarsi a kilometri di distanza da dei parenti cari, vedendosi raramente. Tuttavia, mi pareva strano, che nessuno della famiglia di M. Christophe si fosse fatto sentire dopo l’annuncio choc del suo prossimo matrimonio.

“Non saprei”, affermò piano il ragazzo, reclinando il capo in modo da sfiorarmi la testa con la guancia. “Non li abbiamo mai conosciuti, o meglio, loro non hanno mai voluto conoscere noi. Ti suonerà strano, ma noi siamo il ramo diseredato del clan, la vergogna dei Valavitis!” , aggiunse ridendo, quasi trovasse la cosa divertente.

“E come mai? Che avete combinato?”, quella sì, che era una novità ed io che credevo d’essere l’unico con una famiglia borderline dalla normalità.

“Noi, niente! Papa fu la causa di tutto! Vedi, ora lui ti appare come un distinto e posato signore, ma da giovane era un esplosivo miscuglio di ambizione intellettuale e sfacciata intraprendenza, vizi e virtù mal rimunerate in un budello di paesuncolo di Karpathos!”, e il ghigno birbante di Milo s’allargò a dismisura. “È spudoratamente scappato di casa e i suoi genitori non gliel’hanno perdonata!”

E dimentichi completamente del film, che ormai nessuno stava più seguendo, Milo mi raccontò l’odissea di suo padre, dalla sperduta isola di Karpathos a Mont-de-Marsan.

La famiglia di M. Christophe era una alla Die Hard, una dura e pura nella tradizione greca, con uno sciame di figli e un orgoglio nazionalista più grande della Parigi – Dakar. Vivevano a Olimbos, un paese di 300 e passa anime, isolato da tutto e tutti, dove gli abitanti parlavano un dialetto greco incomprensibile e vestivano ancora con gli abiti tradizionali.  Ma quel ristretto e ottuso ambiente contadino non garbava a M. Christophe, settimo di dodici figli, brillante e ambizioso a sufficienza per riuscire a convincere il padre a mandarlo al liceo nella capitale Pigadia, la quale si trovava a più di 63 kilometri dal villaggio, vantando una popolazione di 2500 abitanti. Non era di certo ai livelli delle altre capitali europee; tuttavia, la sua aria più mondana, dovuta al flusso dei turisti, aveva alimentato nella mente del ragazzo la pericolosa idea di frequentare l’università una volta terminato il liceo, come ebbe modo d’appurare suo padre, quando lo vide ritornare a casa l’estate del primo anno, gli occhi brillanti di sogni e una brochure dell’ateneo della capitale della Grecia, Atene, ben stretta tra le mani.

“Ti sei rimbambito, Chris?”, gli aveva detto orribilmente severo il padre, accigliato davanti alla stravagante idea di quel buono a nulla di suo figlio, giacché nella sua logica pragmatica, studiare oltre lo stretto necessario per non rimanere fregati nella vita di tutti i giorni, non solo era una perdita di tempo, ma anche segno di pigrizia, ché di certo i dilemmi filosofici di Socrate, Platone e Aristotele non portavano il pane a tavola!  “Eppoi, sai quanto ci costa mantenerti laggiù ad Atene?”

“Patéras”, gli aveva spiegato dolcemente ineffabile quel buono a nulla di suo figlio, “non ti sto chiedendo di darmi i soldi per andare ad Atene, bensì il tuo permesso! Me la caverò, vedrai!”

 Ah, l’entusiasmo della gioventù!

“Uhm …”, fece pensieroso l’uomo, prendendo tempo, conoscendo la testardaggine della sua stramba creatura “è ancora presto per parlarne, no? Hai appena finito il primo anno di liceo; aspettiamo come vanno i prossimi e vedremo!”

Il signor Valavitis sperava, infatti, che il suo figliolo si scoraggiasse col proseguire degli anni scolastici, ritornando così al paesello con la coda tra le gambe, conscio finalmente del suo ruolo nella chiusa realtà di Olimbos e incline a sottomettersi alla sua monotona routine.

Figurarsi! Quella canaglia patentata proseguiva a testa alta gli studi, eccellendo spudoratamente in ogni materia, vincendo così piccole borse di studio per gli allievi meritevoli, ma economicamente disagiati, nonché fiumi di lodi da parte dei professori, i quali erano più che disposti a fornire buone referenze al ragazzo e ciò fece ghignare verde il genitore, specie quando il briccone  a sedici anni gli annunciò bellicoso, che aveva trovato un lavoretto part-time al principale hotel di Pigadia, così da mettere da parte qualche soldo. Quanto all’alloggio, un suo amico gli aveva messo a disposizione una cameretta a casa sua.

Per tre giorni, padre e figlio non si parlarono più.

Tuttavia, la vera tragedia avvenne l’estate successiva, l’ultima prima dell’esame finale.

Lavorare in un albergo aveva permesso a M. Christophe di migliorare la sua conoscenza delle lingue, tanto da poter scambiare qualche interessante chiacchieratina con i turisti sul mondo oltre l’isola e furono in queste circostanze, che lui ebbe modo di conoscere la sua futura moglie, Madame Anaïs Valavitis, née Lamarque, durante un soggiorno di quest’ultima a Karpathos. All’epoca, lei frequentava la facoltà di giurisprudenza a Parigi e lo superava di tre anni in età.

I due si videro, si piacquero, si amarono.

E al momento della sua partenza, dopo che si furono scambiati i rispettivi indirizzi, il progetto Università ad Atene, portato caparbiamente avanti da M. Christophe per quattro anni, prese il largo per lasciar posto a uno ancora più ambizioso e folle: Parigi, là dove viveva Anaïs!

Suo padre per poco non schiattò soffocato dall’ouzo alla notizia che quel figlio degenere, non pago di averlo tarmato fino ad allora con l’assurda idea di frequentare l’ateneo, ora si era pure messo in testa di levare l’ancora alla volta della capitale francese, lui, che neppure conosceva la lingua! (Tzé! La sapeva, la sapeva eccome se la sapeva! O come avrebbe coccolato la sua bella gonzesse?)

Era un ingrato, uno sfaticato, una peste, una sanguisuga, un piantagrane, un mangiapane a ufo! Che male aveva combinato quel pover’uomo di suo padre, per meritarsi un simile mascalzone in casa? Perché il ragazzo si divertiva a recargli questi crucci? Già una volta un suo zio era emigrato a Parigi, ora pure lui? Ma dai, Chris, figliolo mio, resta con noi, non ci lasciare! Parigi non è posto per te, ché sei cresciuto in un’isola! Abbiamo già accontento un tuo capriccio mandandoti al liceo, ora pure all’università? Non ci sei solo tu, ci sono anche i tuoi fratelli e le tue sorelle e bla e bla e bla e bla, bla, bla …

Infatti, mentre il patéras si prodigava in un infinito sermone - composto di elogi alla sua magnanimità di capofamiglia; d’invettive verso l’ingratitudine del figlio masnadiere e di ricatti psico – affettivi da crisi di abbandono – il giovane Christophe era ormai partito per il Mondo delle Idee, il cuore in subbuglio a causa di una piccola notizia captata dalla sua mente d’Odisseo: uno zio a Parigi, significava dunque un aggancio!

Ironico come il signor Valavitis avesse inavvertitamente fornito al figlio un motivo in più per insistere nella sua decisione, no?

 Sfoggiando i suoi migliori numeri d’ipocrisia, il ragazzo si cosparse il capo di ceneri, chiedendo venia all’augusto genitore, ammettendo le sue colpe e promettendogli di ravvedersi una volta terminato il liceo. Nel frattempo, però, aveva spedito una lettera a quel famoso zio – la yiayia era particolarmente loquace dopo qualche bicchiere di ouzo e spillarle l’indirizzo fu abbastanza una passeggiata – e ottenuta la maggiore età, si prodigò a regolare tutti i suoi documenti, pronto per un espatrio d’emergenza – contro – padri – padroni. Il tutto, senza dimenticare di prepararsi all’imminente esame, che avrebbe superato poi col massimo dei voti.

Ma la notizia più bella fu l’epistola di conferma dello zio – Cardia era il suo nome – nella quale egli scriveva tutta la sua contentezza nel prenderlo in casa, semmai avesse persistito nella sua decisione.

Inutile dire, che M. Christophe era più che intenzionato a continuare e, sistemate le ultime incombenze prima di partire, scrisse una lettera ai genitori, che dovette suonare più o meno così:

Patéras e Mitéra,

quel buono a nulla di vostro figlio se ne va a Parigi e non c’è niente, che voi possiate fare per convincermi a ritornare indietro, anche perché vi costerebbe troppo ripigliarmi! Mettetevi dunque il cuore in pace e consolatevi con gli altri vostri undici perfetti figli! Quanto a me, ho intenzione di frequentare l’università a Parigi e ho trovato i mezzi per farlo! Inoltre, ho deciso di chiedere il prima possibile la cittadinanza francese e semmai avrò dei figli, mi adopererò con tutto me stesso ad estirpare ogni traccia di grecità in loro, cosicché, voi non possiate mai avvicinarli un giorno!

Non mi cercate, non contattatemi! Sappiate solo che sto da Dio,

un tempo vostro

Christophe

P.S.  E mi convertirò pure al cattolicesimo, tié!

 

Paroloni decisamente esagerati, frutto della frustrazione di un ambizioso diciottenne, che si vedeva imbrigliato in una realtà, che non era quella che lui desiderava per sé e tuttavia a sua discolpa andava detto, che non c’era niente di peggio di castrare un giovane nei suoi progetti, specie se si era dimostrato meritevole e determinato nel proseguirli.

Partito, quindi, alla volta di Parigi, M. Christophe venne accolto dallo zio, il quale ebbe il suo iniziale d’affare ad aiutare il nipote ad orientarsi in quella capitale, che agli occhi del ragazzo pareva non finire più: al confronto, Pigadia era un misero quartiere della banlieue, la periferia! Ma il giovane non si scoraggiò e entrato a medicina, si mise diligentemente in riga con i suoi studi, sperando sempre di poter rivedere Anaïs alla pari e non come rispettivamente turista lei e cameriere dell’hotel lui.

Ci vollero tre anni, affinché M. Christophe potesse sentirsi abbastanza degno da presentarsi sotto casa sua, offrendole chiaro e tondo tutto ciò che possedeva, ovvero il suo amore, la sua bravura negli studi e qualche franco messo da parte. E Madame Anaïs, che aveva intuito la buona e ferrea volontà del giovanotto, gli concesse di buon grado la sua mano, sposandosi con lui tre mesi dopo.

Alla di lei famiglia venne un colpo: credeva, infatti, che la loro figliola fosse caduta nelle mani di un mangiapane a ufo, pronto a spillarle soldi – all’epoca era  Madame Valavitis, quella che già lavorava - per poi svanire nel nulla. Beh, niente di tutto ciò accadde: M. Christophe si laureò puntualissimo, fece senza problemi il suo tirocinio e venne assunto con un ottimo CV a Bordeaux, preferendo tuttavia come luogo di residenza la più tranquilla Mont-de-Marsan.

“L’unico chagrin dei miei nonni francesi”, terminò Milo, stiracchiando piano la gamba intorpidita, “era che Maman rimaneva incinta una volta su tre, nonostante i notevoli aiuti del bonus bébé. Coi gemelli, poi, fu colpo grosso …”

Risi sommessamente, portandomi la coperta fino al mento: quell’orribile sensazione di freddo sulla schiena non mi aveva ancora abbandonato. “Allora, tuo papà mantenne quanto scritto nella lettera?”

“In parte: tranne Saga, per motivi di lessico in medicina, noi in famiglia non parliamo mai greco e se lo sappiamo, è poco e male. Inoltre, siamo tutti battezzati cattolici e possediamo passaporto francese. Quindi, l’unica cosa che ci lega alla Grecia è il nostro cognome e un poco in nostri stessi nomi, sai a Maman piacevano tanto …”, aggiunse, dopo qualche ripensamento.

“E non gli dispiace di non poter più rivedere i suoi genitori, la sua famiglia e il suo paese? Enfin, era comunque la sua patria!”, protestai, non riuscendo ad afferrare del tutto il desiderio di M. Christophe di voler ad ogni costo tagliare i ponti col suo passato.

“Bizarre, una volta gli posi la stessa domanda …”

“E che ti rispose?”, chiesi incuriosito, voltandomi verso di lui e incrociando il suo sguardo azzurro, il quale brillava d’immenso orgoglio, mentre riferiva il discorso del padre:

“Mi disse, che se Karpathos era la sua Vaterland, la Francia era la sua Heimat. Allora, non afferrai il significato di tale affermazione e dovetti ripiegare su Saga, il quale mi spiegò, che in tedesco esistono due parole per descrivere il concetto di patria: il primo, Vaterland, è la madre patria, dove si nasce, che si può amare o meno. La seconda, Heimat, è invece la patria d’elezione, la terra dove ci si sente veramente a casa e che può anche non essere il luogo di nascita. Così è stato per Papa.”

“E voi? Avete mai provato qualche rimpianto, di non aver mai visitato Karpathos e di non aver mai incontrato i vostri nonni?”

“Come posso rimpiangere, ciò che non ho mai conosciuto?”, mormorò più a se stesso, che a me, mentre mi accarezzava distrattamente i capelli. “Eppoi, questa è la mia realtà, non desidero perdermi in sciocche divagazioni d’ipotetici What if …? E se anche volessi indugiare un poco in essi, dubito che i miei nonni greci possano essere in qualche modo contenti di vederci; noi siamo la prova tangibile del tradimento di Papa verso di loro. La famiglia, lì, credo sia tutto un altro mondo, rispetto alla nostra concezione più liberale …”

“Per questo tuo Papa ha desiderato tanti figli? Per colmare un poco la sua solitudine?”

“Uhm …”, fece pensieroso Milo, fissando le mie ciocche arrotolarsi tra le sue dita. Mi pareva di essere una scimmietta, cui mamma scimmia controllava se avesse le pulci in testa; tuttavia, la cosa non mi dispiaceva, anzi, lo lasciai fare, bastava che non me li tirasse. “Sinceramente non lo so … Però, suppongo che Aiolia fosse inaspettato!”

“Perché?”

“Coito interrotto fallito!”

“Gueh?”

“Uf, ma dov’eri al corso di educazione sessuale?”, sbuffò spazientito il ragazzo, ripigliandomi veloce, quando accennai ad alzarmi, per corrermene via offeso. A casa con l’influenza, ecco dov’ero, avrei voluto rispondergli, ma non desideravo dargli quella soddisfazione. “Non ha fatto in tempo il salto della quaglia, ecco”, spiegò con la più pittoresca e conosciuta metafora. Lui sì che sembrava essere stato, invece, molto attento alla lezione; figurarsi, poi, con dei fratelli maggiori, che si saranno senza dubbio subito adoperati a smaliziare il minore! Ah, l’amorevole premura fraterna!

“Oh!”, fu l’unica cosa, che riuscii a dire e che altro, poi? Scusa Milo, ma sai, sono vissuto per tredici anni in un gineceo e non ho mai avuto un decente modello virile durante la mia adolescenza, tranne che per il mio maestro di pianoforte, che per la cronaca vedevo solo due volte alla settimana! Quindi, immagina un po’ te, quante occasioni avessi avuto d’approfondire les joies de la galipette dal punto di vista maschile, però!

“Già, oh!”, ripeté Milo con irriverenza, elargendomi un piccolo assaggio del suo tremendo piripicchio sul mio povero ombelico. No, quello no! Non incominciare, p’tit scorpion lubrique!

“Chi è che sparla di me mentre dormo, che lo schiappo?”, la minacciosa voce impastata dal sonno di Aiolia ci fece sobbalzare all’improvviso, costringendo il fratello maggiore a tenermi per il bordo dei pantaloni, onde evitare che finissi violentemente col sedere sul pavimento.

“Tiens, tiens, s’è finalmente risvegliata la Bella Addormentata ed io che volevo destarti con un bacino!”, lo canzonò Milo, arricciando le labbra apposta, favore sdegnosamente rifiutato dal minore, che si mise seduto sotto la coperta, strizzandosi con vigore gli occhi ancora gonfi dal sonno.

“Spiritoso! Invece, com’è finito il film? Chi era il padre della bionda?”, domandò tra uno sbadiglio e l’altro.

“Mah, non si è saputo alla fine!”, rispose il maggiore, muovendo la spalla indolenzita, sulla quale Aiolia aveva gustosamente ronfato per quasi due ore.

“Tzé, che merda di film …”, fu il commento entusiasta del ragazzo, che, sistemandosi sulle ginocchia, incominciò a massaggiare l’arto dolorante del suo ex-cuscino Milo, con sommo piacere di quest’ultimo. “Grand - mère, possiamo girare, ora che è finito?”

Per tutta risposta, Mamie gli lanciò il telecomando.

Evidentemente, dopo il sonnellino, Aiolia si sentiva bello e pimpante e anche Milo non dava segni di stanchezza; al contrario, io mi sentivo letteralmente uno straccio e un fastidioso mal di testa incominciava a pressarmi le tempie, unendosi ai brividi freddi sulla schiena. Forse avevo beccato qualcosa, oppure era solo un sintomo d’enorme spossatezza: la giornata era stata, infatti, lunga e snervante, in particolar modo dopo il …

“Mamie, col tuo permesso vorrei ritirarmi in camera mia!”, annunciai, senza neanche pensare per una singola frazione di secondo e sinceramente, non sapevo da dove venisse poi quella frase così pomposa. Nah, brutta cosa l’emicrania! Quando mi veniva, incominciavo a sparlare come un idiota.

La detta Mamie abbassò sconcertata le parole crociate, che stava compilando; Milo e Aiolia si voltarono con la lentezza di un automa verso il sottoscritto e il cane Fred alzò la testa, puntandomi contro i suoi occhi marroni.

Silenzio.

Poi, un’esplosione di risate sfottitrici riempì l’aria e pure il cane volle dire la sua, abbaiando forte. Voilà, terza connerie della giornata, evvai, champagne per tutti!

“Mon Dieu, Momus, ma che ti prende?”, chiese Mamie, scuotendo il capo e ritornando alla sua occupazione interrotta dalla mia normalissima  e raffinatissima richiesta. “Fila a letto anche senza il mio permesso, se ti va!”

“Ionesco, cos’era quell’anticaglia? Quei modi d’aristo?”, mi rimproverò scherzosamente Milo, dalla cui presa mi liberai stizzito, nonostante il mio corpo rimpiangesse il calduccio creatosi tra la sua persona e la coperta. Chissenefrega, il mio onore innanzitutto!

“Un aristo?!? Sacrée poule autrichienne, s’è salvato dal rasoio nazionale!”, esclamò divertito Aiolia, balzando in piedi. “Ha – ha, credevi di sfuggire a Madame la Veuve eh, sacré aristo? Oh là là, non scappare! Sanculotti a me!”, gridò, mettendosi alla rincorsa del sottoscritto per tutto il salotto, finché non venni acchiappato a tradimento da Milo, che mi caricò alla barbara su di una spalla, dirigendoci tutti e tre al secondo piano. Tuttavia, quando fummo ai piedi delle scale, Aiolia lo fermò: “Milou, dove sono le tue buone maniere? Abbandoni la stanza senza salutare Madame notre grand- mère?” Il fratello maggiore si batté teatralmente la fronte, imprecando sulla sua sbadataggine, per poi inchinarsi assieme ad Aiolia in una riverenza, che avrebbe riempito d’invidia la stessa marchesa di Pompadour.

“Bonne nuit, Madame!”, dissero con vocine acute, rese apposta il più grottescamente effeminate possibile e, girando i tacchi alla volta della mia camera, cantarono a squarciagola, mentre salivamo le scale: 

Ah ça ira ça ira ça ira

Les aristocrates à la lanterne

Ah ça ira ça ira ça ira

Les aristocrates on les pendra

Et quand on les aura tous pendus,

On les fichera la pelle au cul !

 

E alla parola cul, i due sanculotti mi buttarono sul letto, per poi tuffarsi anche loro, torturandomi con uno spietato solletico. Soddisfatti d’aver punito lo sfacciato aristo, i fratelli si scostarono da me, lasciandomi l’aria necessaria per respirare, intanto che smaltivo le poderose risate, che ancora mi sconquassavano il petto.

“Et bien, t’es maint’ nant l’un des nôtres? Parlez, citoyen Molinier! J’attends!”, mi apostrofò falsamente severo Milo, l’indice pronto a un piripicchio sauvage nei confronti dei miei fianchi, che alla fine calò inesorabile, davanti alla mia mancanza di collaborazione.

“Oui, ha – ha je le ha- ha suis ha- ha - ha!”, risposi mezzo soffocato dalle risate, dimenandomi come in preda ad una crisi epilettica e scalciando a gogò.

“Pas compris! Plus fort!”, rincarò la dose Aiolia, che in realtà rideva più forte di me, le lacrime agli occhi.

“Je le ha- ha- ha suis!!!”

“T’es quoi donc?”, domandarono all’unisono i due bricconi, continuando impietosi nella mia conversione da aristo sanguisuga a devoto sanculotto, servitore zelante della patrie .

“Un citoyen!”, riuscii ad articolare alla fine, senza infiocchettarmi la lingua in un nodo di risa sguaiate.

“Ouiiiiiii!”, giubilarono, felici della mia redenzione e, saltandomi addosso, mi schioccarono, uno per guancia, un bacio della buona notte, allontanandosi infine dalla mia camera, cantando stavolta con lo stesso entusiasmo:

Dansons la Carmagnole,

Vive le son, vive le son,

Dansons la Carmagnole,

Vive le son du canon ! [2]

 

Con un bel bum finale, imitato alla perfezione da Aiolia, tra gli sghignazzi divertiti del fratello.

 

***

 

Quella notte dormii poco e male, un vero inferno! A parte un’insopportabile alternanza nel mio corpo dal caldo più atroce a un freddo da farmi a momenti battere i denti, avevo i muscoli schifosamente doloranti, specie quelli della schiena e del collo, neanche fossi stato sottoposto ai tratti di corda. Per non parlare della mia povera testa, costretta ad un cerchio uncinato d’emicrania.

Come un’anima in pena mi rigirai nel letto, cercando avidamente una posizione confortevole per addormentarmi, ma il sonno mi aveva disertato ormai da un bel pezzo, lasciandomi solo in balia di questi mali congiunti, ai quali si aggiunse una fastidiosa nausea, tanto per assicurarsi che passassi una notte in bianco coi fiocchi.

E, infatti, verso le cinque meno dieci del mattino, il mio cardias dichiarò la resa incondizionata, obbligandomi a balzare giù dal letto e a correre alla volta del primo bagno disponibile, ergo quello dopo la camera di Milo. Facendo attenzione – il ragazzo stava comunque dormendo – scivolai nel mio posticino, aggrappandomi poi al gabinetto, come un naufrago su di un pezzo di legno salvifico. Dopodiché, vomitai senza tanti complimenti tripes et boyaux.

Gluah!

A fatica, mi rialzai, raggiungendo quasi a tentoni il lavandino per risciacquarmi la bocca, bon sang si c’était dégoûtant! E la mia faccia, poi? Ne volevamo parlare? Parevo la bandiera italiana: verde, per la nausea; bianca, per il dodo mancato e rossa per lo sforzo di … vabbè, ci siamo intesi!

Respirai bene a fondo, applicandomi a calmare il mio respiro molto irregolare e, una volta reputatomi pronto a rientrare in camera mia, mi staccai dal lavandino per uscire; sennonché un’improvvisa vertigine mi costrinse a indietreggiare, appoggiandomi velocemente al mobile. Presi coraggio e ritentai l’impresa di avanzare, ma avevo, hélas, le gambe en coton e non ci volle molto che un altro giramento di testa mi spedisse fuori gioco, planando a papera su di Milo, il quale mi aveva tempestivamente afferrato, impedendomi di fracassarmi il cranio contro il pavimento.

 E lode al suo intuito, ché appena gli fui addosso, il ragazzo mi trascinò verso il gabinetto, dove nuovamente vomitai tutto quello che potevo vomitare, roba che mi accomiatavo dal mio stomaco stesso. Quanto a quello sfaticato del mio cardias, se lo sognava l’aumento, briccone d’uno sfintere!

“Bravo, butta tutto!”, m’incoraggiava Milo, tenendomi con una mano i capelli e con l’altra la fronte. “Certo, che non hai digerito niente: flûte, vedo ancora le carote della minestra …”

“Milo, per favouogluahblueah ...”, fui interrotto da un conato a tradimento. Riemergendo con la faccia dal gabinetto, gli domandai in fretta, prima di capitolare a un’altra scarica: “Ma che ci fai … gluahblueahglueah … qui?”

“Hé, sai la tua leggerezza elefantiaca fa miracoli al sonno altrui! Eppoi, tranquillo, non mi dà fastidio, ho già visto i miei fratelli rimettere l’anima e non immagini che grottesco spettacolo!”

“Sb- sbronzi?”

“Nah, sfigati! Saga e Kanon avevano scoperto, una volta ritornati dal ristorante, di essere leggermente allergici alle cozze e non ti dico poi in che condizioni era il bagno di casa! Invece, Aiolia era intollerante alla vista del vomito dei fratelli e fornì anche lui il suo piccolo contributo, specie quando i gemelli diedero la loro prima performance in perfetto sincronismo sul tappeto di casa!”

“E tuougluahbleahuuuoua?”

“E io a pulire! Chut, mon bébé! Meno chiacchiere e più vomito! E non girarti, ché sporchi dappertutto!”, m’intimò il ragazzo, reindirizzandomi verso il luogo del mio supplizio, dentro al quale mi sfogai per bene nei cinque minuti che seguirono.

Assicuratosi, poi, che non avessi altro da elargire al mondo, Milo mi aiutò a mettermi in piedi e insistette pure di assistermi al lavaggio della bocca. Infine, in piena crisi mistica da buon samaritano, mi strascicò via come un sacco di patate fino al suo letto e tale era la mia spossatezza dopo il duro lavoro, che neppure protestai, quando il ragazzo mi sistemò sotto le coperte del detto giaciglio, stringendomi contro di sé come se fossi il suo personale peluche. (Sinceramente, sperai che non avesse l’abitudine di sbavarci sopra)

 E siccome anche il vomito era annoverabile tra le attività fisiche, le quali sono tutte equamente stancanti, mi addormentai quindi di brutto, quasi Mamie mi avesse randellato di nuovo con il suo cucchiaio di legno.  

 

Appena riemersi dal mondo di Morfeo e meno metaforicamente dalle coperte, mi accorsi che avevo Milo sopra di me, le sue labbra premute sulla mia fronte e a completare il quadretto c’era pure suo fratello, il quale mi fissava a dir poco intensamente.

Cos’era codesta novità? C’era per caso l’Orgia Day e nessuno mi aveva avvertito?

No, per fortuna della mia virtù non lo era, ma mica tanto per la mia salute: infatti, il maggiore spedì il minore a pigliare seduta stante un termometro, dato che bruciavo più di Giordano Bruno a Campo dei Fiori. E non feci neppure in tempo a domandare, che accidenti stesse accadendo, che mi ritrovai sotto l’ascella un termometro e i due fratelli davanti a me con delle facce, che sembrava stessi eseguendo un test della gravidanza e non misurandomi la …

Biripipì … biripipì …

Lentamente, Milo mi sfilò il termometro, osservandolo assieme ad Aiolia, che ruppe il teso silenzio con uno scioccato: “P’tain! 38 .47°C??? Mince, vai a fuoco, Camus!”

“Gueh?”, replicai molto intelligentemente, fissando imbambolato i numeri digitali sullo schermo. Avevo sul serio la febbre? Merde, era da una vita che non mi veniva! Ma tutte a me dovevano capitare?

“Già svegli?”, chiese Mamie, entrando nella camera da letto, sorpresa di vedere dell’attività il sabato mattina alle sette e mezza. Notando, poi, che i suoi nipoti acquisiti erano mogi attorno al mio capezzale, neanche fossi moribondo, effettuò un rapido calcolo mentale, il quale terminò con la sua mano sulla mia fronte. “Oh là là, Momus! Tu brûles comme une sorcière au bûcher! Hai incontrato uno dell’Inquisizione, par hasard?”, scherzò levandosi la vestaglia e cedendola a Milo, ignorando completamente le mie proteste che non ero una strega al rogo. “Milo, coprilo con la vestaglia e portalo nella camera matrimoniale. Quanto a te, Aiolia, fila a telefonare il medico di base per una visita”, diede le istruzioni alla ciurma, che diligentemente si mise all’opera e prima che potessi dire al ragazzo: “Giù le chele!”, mi ritrovai strappato dal letto e condotto alla stanza di Maman e M. Christophe.

Il motivo della mia reticenza di finire nel lettone dei genitori era riconducibile al fatto, che trascorsi lì tutte le malattie capitatemi nel corso della mia giovane vita, da un banale raffreddore ad un’insidiosa colica addominale. Quindi, giacere tra quelle coperte mi ricordava proustianamente quelle tristi esperienze, passate quasi sempre in solitudine, se non ci fosse stata quella buon’anima di Marin, che ogni tanto veniva a trovarmi. Quanto a Maman e Mamie, entrambe lavoravano e non potevano assistermi come desideravano.

Hélas, ora si ripeteva di nuovo quel seccante teatrino e con i miei fratellastri, guarda un po’! Meno male, che M. Christophe era via per qualche giorno a causa del congresso, altrimenti mi sarei vergognato moltissimo a scacciarlo dalla sua camera, perché avevo pigliato una brutta febbre! Beh, me la meritavo, in fin dei conti: così imparavo ad andare in giro senza l’ombrello sotto la pioggia battente!

Adagiato con sorprendente cautela da parte  di Milo, che pure mi sistemò con cura le coperte, venni nuovamente sottoposto al rituale della misurazione della febbre, appurando a disagio, che era salita di qualche grado.  E solo alle dieci meno venti, il dottore fece la sua comparsa, trattenendosi per mezz’ora, ma assicurandosi di avermi rivoltato ben bene come un calzino. Quando ebbe finito, prese in disparte Mamie e le sussurrò qualcosa, lanciandomi ogni tanto qualche occhiata obliqua, quasi avesse timore che saltassi giù dal letto pronto a sbranare il mondo. Inoltre, le facce maliziosamente divertite dei due fratelli, i quali origliavano da sopra le scale, non mi preannunciavano nulla di buono.

“Momus”, sospirò Mamie, dopo aver accompagnato il dottore alla porta. Milo e Aiolia la raggiunsero in camera, sistemandosi ai suoi lati come Cristo in mezzo ai due ladroni. “Purtroppo hai una brutta febbre …”

Un febbrone!”, citò in italiano il terzogenito dei Valavitis. Ma guarda, aveva pure letto i Promessi Sposi! Cosa non s’imparava ogni giorno …

“Già. La febbre ha allegramente superato i 38.5°C …”, proseguì la nonna melodrammatica.

“Febbre legata ad altri sintomi”, s’intromise Aiolia da dietro di lei. “Quali affaticamento …”

“… malessere …”

“… cefalea, ergo dolori alla testa associati a dolorosità del collo …”

“In poche parole, sei una gallina lessa!”, concluse Milo il duetto delle malattie abilmente eseguito da nonna e fratello minore, i quali l’infilzarono con lo sguardo; impalamento cui diedi il mio contributo, non gradendo, infatti, la culinaria metafora.

“Quindi”, riprese piano Mamie, sporgendosi verso di me, movimento accompagnato anche dai due ragazzi. “Oltre a restare a casa finché non sarai guarito e ad assumere pietanze perlopiù liquide onde non disidratarti, il dottore ci ha prescritto, per abbassarti la febbre, il Doliprane …”[3]

“Il che?”, chiesi flebilmente, sperando di aver capito male: no, non poteva costringermi ad assumere quella dannata medicina …

“Il Doliprane!”, ripeté semiserio Aiolia, coprendosi poi la bocca con la mano, per nascondere sicuramente un riso maligno da far invidia al Gatto del Cheshire. “Altresì noto come …”

Avvicinando il suo viso al mio e spalancando gli occhi come una civetta, Milo terminò in un inquietante sogghigno: “ … la supposta!”

No, la supposta, no!!!, urlò completamente terrorizzato il mio cervello, mentre m’inabissavo sotto le coperte, come se potessi fuggire da quei tre pazzi furiosi, che con la scusa della mia salute si stavano, invece, facendo una bella e grassa risata alle mie spalle: eh sì, chi non guardava mai con una certa aria ambigua la supposta, tra un commentino uno più cochon dell’altro, specie se era un garçon ad assumerla, eh? Su le mani!

“Non mi metto la suppo!”, protestai borbottando, come un gosse dell’asilo, nascondendomi dietro il piumino. “Non la voglio!”

“Turlututu Momus ! Il dottore mi ha vivamente consigliato il Doliprane! Non possiamo rischiare con la febbre quasi a 40°C, tu comprends p’tit pingouin, n’est-ce pas?”, mi ricordò veneficamente mielosa Mamie, causando una fitta di risate represse ai miei fratellastri, che a momenti andavano in iperventilazione al sentirmi definire pinguino.

Mon Dieu, come odiavo quel vezzeggiativo! Mi faceva sentire schifosamente morbidoso.

E mi ricordava poi Pingu.

Ba –bak bak! Gnu Gnuuu!

Brrr … orribile immagine …

 “Mouais”, ammisi sconfitto, conscio che Mamie agiva solo per il mio bene, nonostante la vena derisoria della sua voce. “Mais enfin, dois-je forcement prendre la suppo, Mamie?”, pigolai, sfoderando la mia arma segreta: occhioni da Bambi molestato sessualmente. E credetemi, mi ha salvato più di una volta da rimproveri; note sul registro e sberle di troppo.

Come previsto dal sottoscritto, Aiolia si commosse e Mamie vacillò nella sua intenzione; tuttavia, avevo dimenticato che tra di noi c’era un aracnide munito di dura corazza. Infatti, sempre senza distogliere lo sguardo da me, Milo suggerì suadente come il diavolo Mefistofele all’orecchio della nonna: “Grand – mère, non ascoltare i capricci di Camus: è ovvio, che adesso non voglia prendere la supposta, è troppo stanco e turbato a causa della malattia e della visita medica. Sono sicuro che dopo un bel sonnellino, sarà di certo più incline ad applicarsela su per il …”, pausa d’effetto, volta anche a trovare un termine moralmente decente “… tergum”, concluse sornionamente innocentino, mentre mi si sedeva accanto. Involontariamente, mi spostai di qualche centimetro. “Lasciamolo dunque riposare e, nel frattempo, rechiamoci in farmacia, ça va?”

“Oui grand- mère!”, dichiarò con entusiasmo Aiolia, il quale aveva colto al volo la strana occhiata rivoltagli dal fratello. “Possiamo lasciare a casa Milo a badare a Camus! I due s’intendono così bene!”, disse, trascinando via mia nonna dalla stanza, non senza aver prima strizzato l’occhio al maggiore, che ricambiò entusiasta.

P’tit vaurien d’un lionceau! Piccolo delinquente di un leoncino!

“À toute l’heure, frangin et grand- mère!”, salutò Milo il duo, che partiva,  sul volto un’espressione soddisfatta da pantera in fase digestiva sotto il sole.

“Tchao!”, replicò dall’entrata la voce di Aiolia, seguita dallo scatto della serratura.

Poi, silenzio.

“Bien, credo che siamo rimasti solo tu ed io!”, annunciò con nonchalance il ragazzo, accoccolandosi sulla poltroncina accanto al letto e fissandomi attento, quasi stesse giudicando mentalmente con quale salsa cucinarmi.  “Hai sete? Vuoi da bere?”, fu la sua inaspettata domanda retorica, ché si era già alzato per dirigersi in cucina, dalla quale tornò con una caraffa d’acqua ripiena fino all’orlo in una mano e un bicchiere dall’altra.

Abbassando un poco la coperta, che per sicurezza avevo tenuto fin sopra il naso, allungai la mano per ricevere l’agognato liquido, rendendomi conto solo ora di quanta sete avessi e mentre bevevo, spiai di sottecchi Milo, notando che non si perdeva un solo movimento della mia gola, quasi si volesse accertare che lo stessi bevendo tutto. Per quel che mi riguardava, non avevo alcuna intenzione di rifiutare l’acqua, anzi, ne reclamai un secondo bicchiere, che il giovane fu più che contento d’accordarmi. “Mieux ça? Meglio? Vuoi mangiare?”

“Non merci, ça va …”, mormorai piano, sorpreso dalla sua premura nei miei confronti. Ovvio, d’ammalato non c’era gusto a tormentarmi, ecco la ragione. Ciononostante, sarebbe stato bello illudersi che il suo era mero disinteresse e che agiva così perché, in qualche modo, ci teneva a me.

Quello era un dubbio, che mi dilaniava dallo stesso istante in cui mi baciò; un atto molto facile da compiere, anche senza sentimento, senza cuore. Anche con cattiveria, giusto per illudere e schernire il malcapitato o la malcapitata di turno. Una parte di me era persuasa, che ci fosse un'altra ragione dietro a quel gesto impulsivo di Milo, ma io la ignoravo: non avevo mai avuto relazioni intime con l’altro o con lo stesso sesso, ero un novizio totale sull’argomento e di conseguenza facilmente malleabile alle carezzevoli lusinghe di chiunque con un briciolo di esperienza.  E le vere intenzioni di Milo, che aveva l’anima tricheuese di Ulisse, non riuscivo a decifrarle come desideravo, il che era strano, giacché il ragazzo era tutto, tranne che silenzioso, anzi, maledettamente loquace all’occasione! Eppure, nonostante il fiume di parole, non si aveva mai la certezza di quanta verità vi fosse celata dietro di esse; come un abile toreador, lui giocava con la sua vittima, la stordiva con strani ragionamenti, per poi … zac! infliggerle il colpo di grazia con una battuta finale, che la lasciava letteralmente spiazzata.

Non parlavo solo per me – esperienza diretta - bensì anche per tutti quei poveretti caduti nelle sue chele; tuttavia, le mie armi di difesa, fino ad allora, erano state l’indifferenza e l’attenta analisi della sua voce, l’unica cosa che lo tradiva; infatti, benché attore nato, bisognava essere veramente schizo per auto convincersi delle proprie menzogne. Ma non sempre questo studio vocale funzionava, a volte Milo era così convincente, che non potevo fare a meno di credergli, rimanendoci puntualmente fregato.

E adesso? Era la stessa situazione che si ripeteva? Mi aveva baciato per pigliarmi in giro o per autentico affetto? Figurarsi, se ci cascavo alla balla, che si era così comportato per tapparmi la bocca! Tzé! Sarò pure stato la Vierge Marie Camus, ma naif fino a quel punto, no!

“Non pensare troppo, Ionesco, altrimenti perderai i capelli!”, mi distrasse all’improvviso Milo, sempre appollaiato sulla poltrona, le braccia pigramente incrociate davanti al petto.

“Almeno io tengo in esercizio i neuroni”, replicai velenoso, tamponandomi la fronte bollente con la fredda superficie del bicchiere. “Quanto ai tuoi, si sono ormai atrofizzati da tempo!”

La risatina sarcastica da parte del ragazzo riempì la stanza, fendendo l’aria come un affilato coltello. “Sarà. Intanto, la tua amigdala è più congelata di un baccalà!”

Avvampando, ribattei con lo stesso tono: “Oh, e infilandomi una lumaca in bocca speravi di risvegliarmela?”

Notai con soddisfazione l’espressione confusa di Milo, il quale ripeteva sommessamente le mie parole, onde decifrarne il messaggio ivi contenuto, spiazzandomi poi al limite dello sconcerto, quando, una volta afferrato il senso della mia metafora, si mise a ridere a crepapelle, fin quasi alle lacrime. Oddio, lo avevo fatto uscire fuori di banana?

“Eh bien, che ti prende ora?”, gli chiesi accigliato, leggermente in ansia per quel violento scatto d’ilarità.

“La lumaca in bocca!”, dichiarò il ragazzo tra una risata e l’altra, asciugandosi una lacrima dall’occhio destro. “Hai il tatto dell’iceberg del Titanic, Ionesco! Non ti pare un po’ cattivello ammettere queste cose proprio davanti alla persona, che ti ha baciato?” e, ignorando i miei bofonchiamenti di scusa, proseguì allegramente: “Ti posso confessare una segreto, Ionesco?”

“Vas-y!”

“Anch’io ho avuto la stessa tua impressione al mio primo French Kiss!”

“Davvero? E con chi?”, sparai senza neppure accorgermi, artigliando in maniera un poco convulsa le coperte. Non capivo il motivo, ma non mi piaceva immaginarmi Milo impegnato nella lumaca dance con un altro o un’altra …

Sfoderandomi una scorpionesca linguaccia, il giovane rispose birbante: “Ah no, non te lo dico! Hé, tu non mi racconti mai niente su di te ed io dovrei spiattellarti ogni mio vissuto? Non lo trovo assolutamente  equo!”

“Ma …”

“Tu mi hai confessato la tua sensazione al bacio e giustamente io la mia, ergo siamo pari. Avrai quindi compreso, che se tu vuoi sapere qualcos’altro su di me, a tuo turno tu mi dovrai parlare di te! T’es d’accord ou pas?”, mi provocò Milo subdolamente, spingendomi pian piano a stipulare con lui un ulteriore patto faustiano.

Eh no, stavolta non m’infinocchiava!

“E quali garanzie ho, che tu non mi rifili un’altra panzana delle tue?”, temporeggiai, evitando di finire nella sua tela d’inganni.

“Oh bella, potrei affermare la stessa cosa su di te: chi mi assicura, che tu parli spontaneamente, senza rintanarti nei tuoi soliti cistercensi silenzi?”, ribatté il ragazzo, posandosi monello il mento sul palmo della mano.

“Meglio tacere, che mentire!”, sentenziai gelido, alzando il sopracciglio.

“Ah ouais? E dove sarebbe allora il divertimento?”, ridacchiò Milo uscendo dalla stanza per rispondere al telefono, che nel frattempo si era messo a squillare. Seigneur, se aveva un cervello all’incontrario quel tipo!

“Hé salut, grand frère!”, cinguettò contento il giovane rientrando con la cornetta del telefono. “Dove sei? che fai di bello a Münster?”

“Sono in libreria, lo sai che ci lavoro part time … Ma non badare a me! Piuttosto, come sta Camus?”, la voce di Saga dall’altra parte della cornetta era seriamente incrinata dall’angoscia. Oddio, mi faceva piacere, che volesse informarsi sulla mia salute, ma addirittura così preoccupato per una banale febbre! Tuttavia, fui costretto a ricredermi, origliando il resto della conversazione.

“Mah, un po’ morticcio …”

“Siete all’ospedale?”

“Prego? Siamo a casa! Bon sang, tocchiamo legno!”, protestò il fratello minore, sfregando con vigore il comodino di sì fatto materiale.  Ed io mi unii a lui nello stesso gesto.

“Ma … ma …”, Saga pareva boccheggiare tra il confuso e l’imbarazzato. “H-ho … ho appena ricevuto un inquietante messaggio da Iou – Iou, nel quale scriveva che Camus è in reparto rianimazione, dopo una lavanda gastrica d’emergenza, per aver scambiato il bicarbonato di sodio con il detersivo in polvere!”

Io … cosa?!?

“Eh? No, ha la febbre! Enfin, un po’ altina – quasi 40°C – ma ricoverarlo …”, lo rincuorò Milo, trattenendo a stento una risata per non infierire sul malessere del gemello maggiore, il cui eloquente silenzio e qualche sconsolato sospiro ci aiutavano ad intuire il suo profondo disagio sia per l’ansia, che per la vergogna, senza poi escludere promesse di vendetta nei confronti del leoncino di famiglia, almeno a giudicare dai ringhiosi borbottii trapelati dalla cornetta del telefono.

 “Sono contento, che sia solo febbre!”, fu infine capace di dire, dopo qualche istante volto a calmarsi. “Gli avete dato la Doliprane?”, uffa anche lui con la supposta!

“Iou – Iou e grand – mère sono andati in farmacia a comprarla!”

“Sei quindi solo in casa con Camus? Bada di comportarti bene con lui, altrimenti …” e lasciò cadere a metà la frase. Notai che il fratello spostò il peso da una gamba all’altra non proprio a suo agio; evidentemente, pure per un demonio come Milo doveva essere dura affrontare Saga incavolato nero. “Invece, mi potresti passare l’ammalato? Merci!”

E mentre il terzogenito dei fratelli mi cedeva la cornetta, il suo cellulare si mise a suonare, costringendolo a correre rapido come una lepre su per la sua stanza. “Hé Kanon, ma che sorpresa!”, lo sentii rispondere allegramente, intanto che scendeva le scale. “Che mi racconti da Oxford? Sei con Rhada?”

“Ouais. Ma dimmi, com’è che il telefono è occupato? Siete in casa?”, la voce del gemello minore era esattamente apprensiva come quella del fratello. Non avrà anche lui creduto alla frottola di Aiolia sul detersivo in polvere?

“Oui, siamo in casa. Il fatto è che c’è già Sasà al telefono! E no, non siamo all’ospedale!”, aggiunse all’ultimo il terzogenito, anticipando la replica del fratello, il quale sospirò d’enorme sollievo, per poi replicare smarrito:

“Ma come? Iou – Iou mi ha detto, che a Camus è stata diagnosticata la SIDA (AIDS, ndr), oltre che a essere in coma! E … e che gli hanno pure dovuto amputare una gamba in cancrena!”

Gueh? Non era possibile, se n’era inventata un’altra, bordel!

Schiarendosi la gola, Milo lo rassicurò: “Tranquillo, frangin! Ha solo la febbre, anche se a 40°C circa!”

“COSA?!?”, si sentì un ruggito da drago, mentre l’artefice di tale mostruosità imprecava in un misto d’inglese e francese, proferendo intenti omicida verso l’ultimogenito a tutt’allé. E ciò dovette attirare l’attenzione del suo mec, che gli domandò preoccupato:

“Kanon, what’s the matter? Why are yelling like a banshee?”

La voce di Kanon divenne più ovattata: evidentemente, il giovane si era girato verso il suo ragazzo. “Nothing, Rhada, just my stupid little bro, who told me a fib about Camus. My stepbrother, you know. Well, he’s ill: Milo’s presently informed me he’s got a temperature of nearly forty degrees!”

“Bloody hell! Poor thing! Give him a suppository!” e che! Ora pure il fidanzato di Kanon mi consigliava di prendere la supposta? Era una congiura?

“Esatto, dagli una Doliprane, dovrebbe rimetterlo in sesto! E che se la metta lui, capito?”, Milo fece ipocritamente spallucce, approfittando del fatto che il fratello era ben lontano a Oxford. “A proposito, posso parlare con Camus?”

“Be my guest!”, accordò il ragazzo, lanciandomi il cellulare, che afferrai con la mano rimastami libera. E siccome non c’era due senza tre, fu il turno del mio a squillare, spedendo Milo in un’altra corsa perdifiato al secondo piano.

Per un istante, temetti che il mio cuore avesse smesso di battere – e forse fu pure così – non appena il mio fratellastro esclamò contento: “Oh mère! Come va in Italia? Noi? Hé, si tira avanti! P’tit pingouin Momus? È a panza all’aria nell’Antartico con il suo grande amore Pingu!”

Milo, io ti …

“Allora”, riprese Maman, che pareva sull’orlo di una crisi isterica “Momus non è all’ospedale? Per favore Milo, non farmi morire d’angoscia! Aiolia mi ha riferito, che ha fatto del bungee jumping senza elastico dal tetto, vestito come Marie – Antoinette!”

E il ragazzo sarà pure stato una gran carogna, ma davanti al malessere di Maman cambiò immediatamente tono, per rassicurarla con dolcezza: “Non t’angustiare, mère, il tuo pingouin ha un po’ di febbre, ma abbiamo già chiamato il medico, il quale gli ha prescritto le Doliprane!”

“Oh Dieu merci! Avete fatto bene! Se c’è bisogno che ritorni, io …”

“No, non preoccuparti! Grand- mère è peggio dell’ammiraglio Nelson, alla sua frusta qui non si scappa! Ti passo Momus?”, cambiò  rapidamente discorso, divertendosi come un matto a vedermi giostrare con tre conversazioni simultanee, neanche fossimo in una centralina telefonica.

Fine delle comunicazioni? Macché! Si era messa di mezzo pure la segreteria!

Primo messaggio: Sono Papa. Siete all’ospedale? Per favore Milo, rispondi appena puoi, ché non vi trovo né al cellulare tuo, né a quello di Camus, né a casa! Aiolia mi ha inviato un sms, nel quale mi comunica che a Camus è caduta accidentalmente una tegola in testa, la quale l’ha sbilanciato, facendolo cadere in piscina, rischiando d’affogare! Milo chiama o altro!

Secondo messaggio: Salut Momus, sono Shaka. Cos’è questa storia, che hai tentato il suicidio in vasca da bagno nella posizione dell’aratro, dopo un cocktail di Red Bull, chinotto, Armagnac e sciroppo alle fragole? Spiegamelo un po’ che non lo comprendo! Chiamami appena te la senti, eh?

Terzo messaggio: Hé Milo, sono Shura! Ma davvero a casa tua c’è un prete, che sta esorcizzando Molinier? Ricordati di fare il video! O almeno una registrazione! L’ho sempre saputo che era posseduto, altrimenti come riesce a parlare sei lingue? Mah! Ci vediamo a scuola!

Il tutto condito dal botto finale del campanello, ovviamente!

“Marin! Che t’ha detto Aiolia?”, fu il saluto gioviale di Milo, mentre accompagnava la figlia del mio vicino di casa nella camera matrimoniale.

“Mi raccontava, che Momus era moribondo in letto e che stava dettando le sue ultime volontà!”, riferì angustiata la ragazza, sospirando sollevata nel vedermi, invece, se non vispo e pimpante, almeno a tre miglia lontano dalla fossa. Quanto a me, avevo la mano ormai incollata sul comodino per gli scongiuri.

“Nah, moribondo, no. Però, in punto d’ebollizione, quello sì!”, commentò Milo, lasciandole cavallerescamente il posto sulla poltroncina, onde permetterle di sedersi.

“Gli avete comprato la Doliprane? Sai, Momus con la febbre non va d’accordo, impiega molto tempo a guarire …”

“Ah ouais? Merci per l’informazione!”, la ringraziò cortesemente il mio fratellastro, sfoderando un sorriso radioso, la sua mente già al lavoro per elaborare chissà quale burla ai miei danni. Hé, che volete, quando si trattava di lui, divenivo paranoico, era ormai un riflesso automatico!

Scuotendo sconsolato il capo, cedetti il cellulare e il telefono al suo proprietario, onde rassicurasse suo padre e il suo amico, che non mi era capitata nessuna di quelle disgrazie descritte da Aiolia, ma che avevo la febbre, mentre io mi apprestavo a consolare Shaka. E tutti e tre furono fortemente d’accordo nel consigliarmi a gran voce l’unico rimedio ai miei tormenti: dategli la supposta!

No, crocifiggetemi piuttosto, ma la supposta, no!

“Marin!”, la chiamò Mamie, entrando all’improvviso in camera senza che noi ce ne accorgessimo. Aveva per caso seguito un corso per ninja? Ultimamente, compariva troppo spesso in maniera silenziosa … “Che bella improvvisata! Saputo che Momus ha la febbre?”

“Oui”, rispose lentamente la ragazza, lanciandoci una rapida occhiata obliqua, specie a quel mascalzone di Aiolia, comparso alle spalle della nonna e con una gran faccia da gnorri dipinta sul volto. “L’ho appena scoperto adesso …”

“Brutta storia, eh?”, disse l’avia, tirando fuori dalla sporta la scatolina di Doliprane, che fissai impaurito, quasi dovessi assumerle tutte in un colpo solo. “Ti fermi a pranzo, chérie?”, la invitò; tuttavia Marin rifiutò cortesemente, ricordandole che doveva rientrare per preparare quello a casa sua, però promise che sarebbe certamente venuta al pomeriggio per vedere come stavo.

Finalmente liberi da telefoni, cellulari, segreterie e vicini di casa, potei sfogarmi ben bene con Aiolia, rimproverandolo severamente per le panzane inquietanti, che aveva elargito ad amici e parenti. Insomma, c’era un limite a tutto! Li aveva fatti preoccupare inutilmente! Senza contare le vesciche, che mi erano venute ai polpastrelli a  furia di sfregare il legno contro la iettatura!

“Appunto!”, fu la candida replica del ragazzo, che spiazzò sia Milo che me. “Se avessi loro comunicato, che avevi solo la febbre, di certo mi avrebbero risposto con un sms, nel quale ti consigliavano di prendere la suppo! Invece, non sei più contento così? Non ti hanno tutti chiamato per sentire come stavi?”

Oh beh, se la metteva così … forse potevo anche considerare di assolverlo dai suoi crimini …

“Uf e va bene, sei perdonato!”, capitolai davanti a quegli occhioni da leoncino orfano. “La prossima volta, però, bada di essere meno … tragico, eh?”

“Ouiiiiii!”, giubilò contento Aiolia, stritolandomi a mo’ d’anaconda, felice di essere stato graziato. “E queste sono per te!”, aggiunse poi dello stesso umore, cedendomi la scatola di Doliprane. “Così guarirai più in fretta, vedrai!”, dichiarò speranzoso, sorridendo a trentadue denti.

“Ehm … se lo dici tu …”, commentai poco convinto, osservando infelice il pacchetto, rigirandolo tra le dita.

“Beh, che fai, non te la metti?”, mi spronò Milo con un gesto impaziente della mano.

Sbuffando, mi alzai dal letto e mi diressi verso il bagno, non desiderando certo dar loro lo spettacolino del giorno; una volta lì, chiusi a chiave la porta e respirai a fondo, preparandomi per l’ardua prova.

Va bene, ce la puoi fare, è solo una dannatissima suppo, c’è di peggio! Ora, al tre la mettiamo: tre … due e mezzo … due … uno e tre quarti … uno e mezzo … un e un quarto … uhm, ho perso il conto, devo ricominciare daccapo … allora, tre … due … uno e mezzo … uno e … arrrgghh, non ci arrivo! Aspetta, forse se mi posizionassi così … ahahaha, sono bloccato! … Aiutoooooh … Ah no no, mi muovo … fiuh, pensavo fosse il colpo della strega … che figure … eh-ehm, dai … riproviamo … eh no, in questo modo proprio non ci riesco, ma come cavolo si fa? … Uffa, voglio uno specchio retrovisore, come nelle macchine! … Non vedo niente! … Ma che vadano a quel paese quei sadici inventori della suppo … aspetta un po’, che  leggo le istruzioni … inumidirla? Ah! … Umphf, cosa bussano alla porta quei due? Pussa via! … Acqua fredda o calda?… No, non mi serve una mano! … Guarda te, che lubrique quel Milo, non risparmia neanche gli ammalati … una mano? Tzé! Figurati se glielo lascio fare! … maniaco … Vabbè … vada per l’acqua calda, non voglio prendere freddo al sedere … uhm … ahia! Bollente!  …. No! La suppo! No, fermati! No! No! No! Non giù per il lavandino! No! Nooooooo! Sto bene, sto bene quasi fatto! E adesso, come me la sbrigo? Tento con un’altra? Ma … ma se dovessero vedere, che ne ho usate due, mi sfotterebbero fino a Natale … però, va anche detto che mi posso avvalere della facoltà di malato e quindi non rispondere … uhm … potrei riprovare più tardi, quando i due spacchi – palli, si saranno ritirati nelle loro cucce … Milo, non ti azzardare! … il doppione? E come lo ha avuto? Quel ragazzo m’inquieta … Oddio la porta si apre! Milo, sono … desnudo! Aspetta! … Via, via veloce, su le mutande! Su il pigiama e …

“Non potevi attendere cinque minuti?”, lo accolsi gelido in bagno, dopo essermi ricomposto in tempo record, incrociando bellicosamente le braccia davanti al petto. “Mi ritieni così imbranato da non sapermi mettere una supposta da solo, forse?”, lo provocai maligno, alzando il sopracciglio.

“Oh no!”, dichiarò innocentino Milo, spalancando falsamente scioccato gli occhi turchesi. “Non oserei mai dubitare della tua bravura in qualsiasi cosa. Volevo, in realtà, solamente accertarmi che non fossi svenuto o che avessi ripreso a vomitare. Forse l’ignori, ma la tua salute mi è cara …”, fece le fusa, catturando la ciocca di capelli più vicina al mio viso e arrotolandola come placido gattone. Ogni occasione era buona per sgranchire quelle chele arrapate o mi sbagliavo?

Sorridendogli melenso, replicai con velenosa dolcezza: “Allora, incomincia dal lasciarmi tranquillo a riposare, ché sono molto, molto, ma molto stanco!” e pure sbadigliai sonoramente, onde sottolineare il mio affaticamento.

Milo abbandonò la presa dalla mia capigliatura come scottato, alzando veloce le mani in avanti e indietreggiando per permettermi di passare. “Comme Sa Majesté des Glaces désire!”, mi canzonò, inchinandosi al mio passaggio, per poi chiudere la porta. “Car sa volonté est la mienne!”

Ignorandolo completamente, m’infilai sotto le coperte e, contro ogni prognostico, crollai sfinito in un sonno senza sogni fino alle sei circa della sera. Ne approfittai immediatamente per ritentare l’impresa della supposta in gran segreto, visto che i due caballeros erano a studiare e quanto a Mamie, Dio solo sapeva dov’era finita.

La febbre doveva essere aumentata, ché alzarmi fu più faticoso del previsto, per non  parlare poi di recarmi al bagno sulle mie gambe, una faticaccia! Strinsi i denti e mi rinchiusi nella stanza, scartando il medicinale e imponendomi di centrare una buona volta. Ma come la sua compagna, neppure questa riuscì nel suo scopo e, dopo sei tentativi falliti, gettai io stesso stizzito la supposta nel gabinetto, pentendomi subito dopo tra ululati di sconforto, i quali attirarono i miei parenti, ritrovandomeli in un battito di ciglia nel bagno.

“Momus, che hai?”, mi tartassò le guance Mamie, fino a levarmi la loro sensibilità. “Seigneur, ma sei più caldo di prima! Torna subito a letto, espèce de vaurien!”, mi rimproverò, trascinandomi nella camera delle torture come una bambola di pezza.

Relegato nuovamente nel mio giaciglio, fui soggetto a un terzo controllo della temperatura, la quale era ancora salita, giungendo ai 39.54°C, una vera bomba!

“Mais comment ça?”, chiese preoccupato Aiolia, gli increduli occhi verde acqua incollati sullo schermo digitale del termometro. “Con una Doliprane in corpo poi, mica niente!”

“Febbre del sabato sera?”, bofonchiai, raggomitolandomi sotto le coperte, troppo nauseato anche solo per accettare il brodo di gallina offertomi da Mamie, la quale mi promise però una sua prossima visita, ché qualcosa dovevo pur mangiare.

Scrollando mentalmente le spalle – troppo spossato per farlo sul serio – chiusi infine gli occhi, pronto ad addormentarmi, intanto che i tre uscivano dalla stanza, spegnendo la luce e socchiudendo la porta.

Forse, con il senno di poi, avrei dovuto tenerli aperti  per un attimo di più, onde verificare il motivo per il quale un crucciato Milo aveva portato via con sé la scatola di Doliprane, prima di seguire suo fratello e Mamie.

 

 

To be continued …

 

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Mamma mia, che stanchezza! Per la cronaca, “vomir tripes et boyaux” è un modo di dire francese per “vomitare anche l’anima” e letteralmente è traducibile con “vomitare trippe e budella” (Hoel sconsiglia di leggere questa nota durante la fase digestiva!)

E un altro capitolo portato a termine! Bordel, spero di non avervi sconvolte/i con la scena del vomito e della supposta … sapete, il soggiorno forzato nel gabinetto non ha agito bene sulla mente bacata della mia gemella malvagia … Ho poi reso la scena di Camus che armeggia con la supposta in un monologo, ché non avevo il cuore di renderla descrittiva … sigh …

Quanto alle chiamate, siccome sentivo reclamare i gemelli a gran voce, beh, mi sono sentita in dovere di chiamarli come guest stars nel capitolo! He – he, crede Milo di fare il furbo, ma I Big Brothers are watching him! Lo controllano, anche se lui non lo sa!

Bien, al prossimo capitolo! Spero di postare il prima possibile, ché ora come ora mi sto preparando per il rientro in Italia! E finalmente ne approfitto per sguinzagliare al mare la gemella malvagia …

Ciao!

 

Un po’ di noticine:

[1a] = Violetta Valery è la tisica protagonista dell’opera lirica La Traviata di Giuseppe Verdi e, come tutte le donne che si redimono dopo una vita di scandalosi divertimenti, lei alla fine muore. Morale della favola: ragazze, sollazzate quanto volete, ché se vi pentite per una vita più morigerata, finite male!

[1b] = François – René de Chateaubriand (1768 – 1848), fu uno scrittore, politico e diplomatico francese; è il fondatore del Romanticismo francese e il primo ad aver coniato il tòpos romantico delle vague des passions, o onda di passioni. Tra le sue opere più importanti ricordiamo: René (1801); Le Génie du Christianisme (1802) e Mémoires d’outre-tombe (pubblicate dal 1849 al 1850).

[2] = Il “ça ira” e la “carmagnole”, sono due canti rivoluzionari, il primo improvvisato il 14 luglio 1790 durante il primo anniversario della presa della Bastiglia (cantato per la prima volta, secondo la tradizione, proprio dalle donne); il secondo, invece, è del 1792, anno in cui l’Assembla nazionale decide di decretare l’arresto del re Luigi XVI.

Voilà la traduzione (libera per favorire la rima in italiano) del ça ira:

Sì, sì che va, sì che va, sì che va

Questi nobilastri a un lampione,

Sì, sì che va, sì che va, sì che va,

A un lampione li si impiccherà.

E quando li avremo tutti impiccati

Una pala nel cul si vedran ficcati

(lett. una pala nel cul gli si ficcherà)

Non molto raffinata, ma il concetto passa! E ora vorrei ancora sentire quelli che sostengono, che i francesi sono una banda di melensi romanticoni!

E ora la carmagnole:

Danziamo la Carmagnola,

Viva il fragore, viva il fragore.

Danziamo la Carmagnola,

Viva il fragore del cannone!

(lett. son = suono)

[3] = la Doliprane francese corrisponde alla nostra italiana Tachipirina.

 

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Capitolo 7
*** Il Malato Immaginario, ma anche no - seconda parte ***




Koukou à tous!

Ben trovate! Finalmente ho finito il 7° capitolo, un’epopea degna dei Mulini del Po. Essendo ora al mare, uso il computer che c’è lì per internet, ma quella possiede Word 2003 e io scrivo con il 2007.

Una vera tragedia.

 Mi compro la chiavetta ed ecco che mi salta il grillo di modificare all’infinito questo capitolo; una faticaccia! Per fortuna che lo posto, così potrò dedicarmi con calma al prossimo!

Un profondissimo ringraziamento ai miei lettori, che mi seguono numerosi nonostante le vacanze!

Un grandissimo un bacione ai miei recensori: Sagitta72; Kiki May; Clayre; Diana924; Tifawow; JackoSaint94; Eno; Aurora; Shiryu_Shunrei e Winnie343! Grazie di seguire questa storia e soprattutto di aver avuto ancora la forza di recensire, dopo essere sopravvissute ai miei capitoli fiume!

Merci!

E ora, buona lettura e buon divertimento!

H.

 

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In totale, quella notte dormii sì e no tre ore e mezza.

Un po’ perché il giorno precedente avevo ronfato come un ghiro per tutto il tempo, quindi ero già riposato; un po’ a causa di quell’altalena infernale di caldo e freddo, che mi costringeva ora a levarmi sbuffando le coperte, ora a rimettermele frettolosamente addosso.

Inoltre, non pago di soffrire già di mio, avevo coinvolto nel mio dolore anche Mamie, Milo e Aiolia, i quali si alternavano per assistermi allo svuotamento forzato dello stomaco e a controllarmi costantemente la febbre, che continuava a salire pian pianino, grado dopo grado.  Solo verso le quattro e quaranta circa del mattino mi calmai, lasciando quei poveri cristi appisolarsi per almeno qualche oretta.

Fu una mostruosa sete a strapparmi dal sonno, unita a una vampata di calore, che per una frazione di secondi mi costrinse a boccheggiare in cerca di aria fresca; dopodiché, al contrario, dovetti nascondermi sotto il piumino, battendo furiosamente i denti per il freddo.

Mi guardai intorno, inumidendomi le labbra secche mentre cercavo avido con gli occhi dell’acqua. Invece, questi ultimi si posarono sulla figura dormiente di Milo, il quale si era raggomitolato sulla poltrona, offrendosi volontario di vegliarmi, dopo aver trascinato via un Aiolia-zombie alle tre del mattino, portandolo in camera sua.

D’istinto, aprii la bocca per chiamarlo e domandargli da bere, ma all’ultimo mi fermai, ritenendo scortese da parte mia svegliarlo, specie in seguito ad una notte passata pressoché in bianco.

Ma la sete, la sete!

Avevo la gola arida come il deserto, rendendomi ogni respiro un supplizio; figurarsi poi deglutire la saliva, o quel che ne restava: l’acido sarebbe stato più gradevole. A completare il giocondo quadretto si erano aggiunte le mie labbra, la cui pelle secca tirava a mo’ di corda di violino, costringendomi a bagnarle continuamente con la lingua, pizzicandomi con un fastidioso prurito.

E più che la premura poté la sete, mi decisi infine ad appellarmi al mio fratellastro. “Milo …”, gracchiai sussurrando. “Milo …”, ripetei un pochino più forte, notando la testa bionda ancora pesantemente appoggiata sull’avambraccio sinistro. Un suo leggero fremito, però, tradì il ritorno del ragazzo dal mondo dei sogni e lo sguardo turchese che brillò alla flebile luce del mattino confermò il suo completo risveglio.

“Milo … j’ai soif …”, gli domandai quasi supplice: il desiderio di sentire l’acqua gelida inumidirmi l’esofago mi tormentava crudelmente, senza fine. Fui grato, quindi, non appena vidi il giovane alzarsi silenzioso e dirigersi verso la cucina, tragitto accompagnato da un sonoro sbadiglio e da vigorose stropicciate agli occhi. E quando ritornò con il prezioso liquido, quasi glielo strappai di mano, ingollando grosse e dolorose sorsate, incurante sia dei rivoletti d’acqua che mi scivolavano dagli angoli della bocca, sia della mano di Milo, la quale vagava attenta sulla mia fronte, saggiandone la temperatura, mentre l’altra mi asciugava il mento e il collo.

 E tale era il mio appagamento, che neppure fiatai durante il rituale del termometro. “Si è fermata …”, mormorò tra sé e sé Milo, fissando accigliato lo schermo digitale. “C’est bien, eppure … eppure dovrebbe scendere …”, disse a voce più alta e non mi sfuggì una certa nota di rimprovero in essa.

Scossi con veemenza il capo, dandomi mentalmente del paranoico. Che aveva Milo da rimbeccarmi? Vero, non avevo preso la supposta, ma lui non lo sapeva. Absolument pas!  Altrimenti, sul serio incominciavo a prendere in considerazione l’ipotesi, che lui lavorasse nei servizi segreti.

Sedendosi accanto a me, il ragazzo mi sfilò il bicchiere vuoto dalle mani, appoggiandolo con studiata lentezza sul comodino; allo stesso modo, si girò, sorridendomi dolcemente o almeno quella fu la mia ingannevole impressione, giacché il riso si deformò in una bellicosa smorfia, che non preannunciava nulla di buono per il sottoscritto.

“Hai qualcosa da confessarmi, Camus?”, mi provocò soavemente, inclinando un poco il capo biondo, gli occhi due mandorle turchesi di pura furfanteria.

Aggrottai la fronte, chiamando a raccolta tutte le grinze della pelle, fingendo il mio stupore e smarrimento dinanzi a tale richiesta. “Moi? Io? No, niente!”, mentii senza pudore alcuno, tamburellando a disagio le dita sul materasso.

“Sicuro?”, fece le fusa il giovane, mentre afferrava una mia mano, schiudendola piano e infilando qualcosa nel suo palmo, per poi richiuderla e portarla al mio petto. Solo allora distolsi il mio sguardo dal suo per avventurarmi alla scoperta dell’oggetto misterioso, cercando d’ignorare l’insistenza di quello di Milo, che seguiva tra l’apprensivo e il divertito ogni mio gesto.

Umettandomi le labbra, aprii la mano e il cuore mi sussultò in petto, quando i miei occhi si posarono sull’innocua Doliprane cedutami dal mio premuroso fratellastro. Che intenzioni aveva?

“Ebbene?”, chiesi con nonchalance, sporgendomi per appoggiare il medicinale sul comodino. Peccato che Milo me l’impedì, bloccando a mezz’aria il mio polso in una dolorosa morsa, ricordandomi che le sue chele erano atte ad ogni attività, dalle lubriques alle inquisitrici stile Torquemada.  “Milo, ho già preso la Doliprane …”, aggiunsi lentamente, intanto che dimenavo il braccio per liberarmi della presa sgradita. Invano: più tiravo, più il ragazzo stringeva sadico.

“Sì, sì, come no. Ed io sono un macaco albino!”, sbottò Milo per la prima volta, le labbra piegate in una linea dura e severa. “Solo perché ho una media di qualche decimo inferiore alla tua non significa che sia un idiota!”

“Non oserei mai paragonarti al principe Myskin!”, dichiarai con tono falsamente scandalizzato, appoggiando la mano al petto e strabuzzando gli occhi con la medesima energia. “Equivarrebbe ad una bestemmia!”

“Non tirare in ballo Dostoevskij, couard!”, mi rimproverò vivacemente Milo, elargendomi un buffetto sulla guancia. [1]

 “T’as raison …”, mormorai contrito, scivolando nel frattempo sotto le coperte, nonostante il mio polso fosse ancora ostaggio delle chele di Valavitis, il quale, con un vago e nervoso gesto della mano, riprese imperterrito:

“Comunque, infilati la suppo, ché ieri non te la sei messa!”, rivelò infine senza tanti giri di parole, dirottando a viva forza il povero arto prigioniero al mio torace.

Credo che la mia faccia in quel momento assunse tutte le tonalità di rosso, dal più slavato al più sfacciatamente brillante. Merde, ma come diavolo lo aveva intuito? Avevo forse stampato a caratteri cubitali la frase: Non ho assunto la suppo?

Evidentemente sì, ché Milo si degnò di spiegarmi  il suo ragionamento-  non per compassione, bensì per farsi beffe del mio imbarazzo. “Sai, mi pare strano che una persona normale abbia ancora la febbre alta con due Doliprane in corpo!  A meno che …”

“Cosa?”

“Speravo avessi la bontà di terminare tu stesso, Camus!”, affermò tranquillo il ragazzo, estraendo dalla tasca il blister delle supposte, il quale era spoglio di due medicinali senza contare il terzo estratto gentilmente da Milo.

Foutu. J’suis foutu.

“Beh … ecco …”, farfugliai in difficoltà, evitando di guardarlo dritto negli occhi. “A dire il vero … una mi era scivolata giù per il … ehm … lavandino …”

“E l’altra, Momus chéri?”, m’incalzò il mio inquisitore soavemente ostinato, acchiappando l’altro polso e imprigionandomi al letto come la bambina dell’Esorcista.

“Gabinetto …”, cedetti disonorevolmente, desiderando restringermi fino a scomparire sotto il piumino. Non c’era niente da fare: per Milo dovevo essere un libro apertissimo, ché altrimenti non riuscivo a spiegarmi la sua bravura nel pigliarmi sempre in castagna. Era pressoché inquietante, una sorta di Big Brother in carne ed ossa! Inoltre, era bravissimo nel causarmi atroci sensi di colpa, i quali m’impedivano puntualmente di continuare oltre la farsa, specie davanti a lui.

Uffa, perché non mi lasciava in pace?

“Ti rendi conto, che il tuo atteggiamento ha messo in grave pericolo la tua salute? Lo so che una suppo non è esattamente il tuo sogno proibito, però far finta di prenderla … hélas, mi deludi Camus … ed io che avevo una sì gran stima di te …”, sospirò profondamente, scuotendo mesto il capo biondo da quel gran attore qual era. Mancava solo una qualche lacrimuccia di circostanza e messieurs, les jeux sont faits!

Tuttavia, il sottoscritto, ancora giovane e ingenuo, si esibì tartagliando nel miglior sbrodolamento di scuse e giustificazioni, scandite dal continuo ritornello: la suppo, j’ai des problèmes à me l’enfiler! Ce n’est pas ma faute, je te le jure!

“E chiedere aiuto no?”, la buttò lì Milo con indifferenza, rigirando tra le lunghe dita il medicinale. “Lo sai che io farei qualsiasi cosa per te …”

Ah ouais? Incomincia dall’uscire da questa camera …

Uno strano silenzio seguì la scioccante dichiarazione, durante il quale nessuno dei due osò proferire parola, limitandoci a fissarci lungamente negli occhi e a cercare ciascuno la propria riposta alle nostre tacite domande.

“Milo, non avrai mica intenzione di …”, incominciai in un flebile sussurro, augurandomi che la sua follia lubrique non arrivasse  a quei livelli: insomma, un bacio era un bacio, ma la suppo?!? Che, voleva che mi calassi i pantaloni e le mutande davanti a lui?

Ma era dunque impazzito?

“Hé, non mi hai lasciato molte opzioni … eppoi, dato che sei così imbranato …”

“No, non se ne parla neppure! A cuccia!”

“Turlututu, Momus!”, mi zittì Milo, battendo l’indice sulla punta del mio naso. “Avresti dovuto pensarci prima! Tuttavia … mi sento generoso, ti proporrò due alternative: o ti lasci mettere la supposta, o …”

“O …?”

“O ti faccio un clistere e fidati, è tutta un’altra storia!”, finì solenne il giovane, tirando fuori dall’altra tasca il panciuto affarino per detta operazione. Da dove lo aveva pescato?

“Mi pigli per i fondelli?”, replicai con tremula freddezza, allontanandomi in maniera istintiva nel frattempo dall’oggetto del ricatto, i miei occhi increduli spalancati come una civetta.  

“Non fare lo spiritoso. Decidi: o la suppo o il clistere!”, mi ricattò Milo, sventolandomi entrambi sotto il naso o meglio sotto le ginocchia, visto che mi ero riparato dietro di esse.

“Ehm … c’è per caso qualcosa che non preveda strani inserimenti corporali?”, presi tempo, mentre scivolavo via con successo dalle chele del ragazzo. Ancora un piccolo sforzo …

“Uhm … ceretta sull’inguine?”, suggerì Milo malizioso e solo allora mi resi conto, che lui aveva allentato la presa non per aiutare la mia compromessa circolazione sanguigna, bensì per intrecciare le sue dita sul nodo della cintura del mio pigiama.

Sacré bordel se glielo permettevo! E che io fossi dannato, se gli avessi concesso di mettermi la suppo! Tanto lo sapevo, che la sua era solo una scusa per combinarmi un altro tiro birbone! Ma non questa volta, no no!

“Et bien Milo, se vuoi offendere il mio pudore, vas-y, non ti fermo. Tuttavia, spero che tu non voglia accomplir à tes devoirs fraternels davanti a Mamie?”, bluffai, indicando con lieve cenno del capo alla porta.

Come morso da una tarantola, Milo si girò di scatto ed io ne approfittai per saltar giù dal letto e correre verso il bagno - l’unico santuario rimastomi in casa- e pareva che delle ali mi fossero improvvisamente cresciute ai piedi, nascita facilitata da un furioso fratellastro, che mi rincorreva con la Doliprane in mano, offeso a morte di essere raggirato dal sottoscritto e bramoso del suo scalpo.

Scavalcando con un abile – per un bradipo come me- balzo la poltroncina, riuscii a raggiungere l’agognata porta, quando all’ultimo momento essa si spalancò, venendomi incontro sulla faccia, che colpì dolorosamente in pieno.

“Tutto a posto?”, sentii domandare l’assonnata voce di Aiolia, prima di sprofondare nel buio pece dell’incoscienza.

 

***

 

Riemersi dal mare color inchiostro con un acuto dolore alla fronte, molestamente accompagnato da un lieve fastidio al fondoschiena. A fatica, riaprii gli occhi, gelando alla vista di Milo, che mi rinfilava furtivo i pantaloni del pigiama, subito seguito dalle coperte.

Balzai seduto di scatto, le ginocchia portate sotto il mento, gonfiandomi come un pinguino in procinto di deporre l’uovo, pieno di una rabbia che non riuscivo a esprimere, limitandomi a lanciare pugnali a un Milo gnorri, il quale ricambiava con un’espressione da martire.

Ora lo ammazzo; ora davvero lo ammazzo! P’tain d’une vache lesbienne, mi ha infilato a tradimento la suppo!

“Oh Momus, ti sei svegliato?”, mi salutò gioviale Aiolia, entrando in camera con un enorme impacco di ghiaccio, che mi applicò sul regale bernoccolo cresciutomi grazie al suo scenico spalancamento della porta, aiutando così il fratello a mettermi la Doliprane.

Borbottai oltraggiato qualcosa alla Pingu, bocca a trombetta inclusa, umiliato e offeso dall’ignoranza che i due ragazzi portavano nei confronti della parola privacy.  Vabbè essere solerti  e disponibili; vabbè essere apprensivi; vabbè cercare di aiutarmi, tuttavia, un certo limite alla decenza esisteva!

“Lascialo perdere, Iou – Iou. Sa Majesté des Glaces è di cattivo umore, perché mi sono preoccupato di farle assumere la Doliprane, l’ingrata!”, gli spiegò Milo con solenne semiserietà.

“Tzé! Chissà che sconcerie mi hai combinato, mentre ero svenuto, p’tit scorpion lubrique!”, sbottai visibilmente alterato, tirandomi vergognoso le coperte fin sopra il naso. “Mettiti le chele sulle tue fesses, invece!”

“Guarda che Milou è stato molto delicato!”, mi rassicurò Aiolia con sconcertante sincerità e due occhioni da Simba costretto a una dieta a base di tofu. Che?!? Aveva pure assistito all’operazione? “Eppoi, lui non si azzarderebbe mai a violentare una persona svenuta, non è mica così infoiato!”, aggiunse e sinceramente impallidii al solo pensiero di un Milo enfoiré, specie se la vittima designata per i suoi sfoghi era il sottoscritto.

Perché poi dovevo essere per forza io, con tutte quelle che gli sbavavano dietro?

“E anche se l’avessi fatto, avrei usato il condom!”, s’intromise il presunto Tarquinio, posando una mano sul cuore a mo’ di giuramento. E davanti alla mia espressione disorientata – più per lo shock della sua confessione, che per ignoranza –chiarì volonteroso alla sua Lucrezia: “Sai cos’è, vero? La capotte anglaise, il preservativo! Esso è un affare”, descrisse vivacemente, muovendo le dita come se stesse giocando con un elastico “che mi preserva da dei pirlotti come te! Eh ouais, la stupidità oggigiorno è molto contagiosa, peggio della SIDA!”, concluse la sua lezione di vita ed io mi chiesi se non fosse il caso di comprare via Amazon una cintura di castità anti- Milo.

“Cos’è contagiosa?”, s’intromise sbadigliando Mamie, recando seco il vassoio con la colazione per tutti.

“Mamie!”, esclamai con tono piagnucoloso, indicando il fratello maggiore “Milo mi ha –”, tentai di accusarlo, ma veloce come un ladro, il reo m’infilò bruscamente una ciuccia di latte e miele in bocca, impedendomi così di continuare la mia invettiva.

Scrutandomi attentamente, la nonna mi domandò: “Allora Momus, come stai?”, quesito cui Milo rispose al mio posto con un ineffabile “Oh, se la cava!” mentre con una mano mi accarezzava i capelli, l’altra ferma sulla ciuccia, bloccando ogni mio tentativo di replica.

“Ne sono contenta! Mandarti all’ospedale sarebbe stata tragica!”, sospirò sollevata Mamie, “Eppoi, vederti mangiare con gusto mi rincuora!”, affermò, ficcandomi una mezza brioche intera in bocca, non appena essa fu libera dal biberon improvvisato.

“Eh ouais, grand- mère, noi al nostro pingouin ci teniamo!”, aggiunse serio Aiolia, costringendomi a ingollare un cucchiaione di miele, nonostante stessi ancora masticando il dolce.

“Altrimenti, che ne sarà di noi?”, terminò Milo melodrammatico, inserendo un corno del croissant nell’unico angolo rimasto libero nella mia bocca, della serie: tentato omicidio per soffocamento.

“Ba- baak!”, protestai. Tradotto: basta!

“Mangia e taci!”, fu la solenne sentenza della nonna, che già mi preparava la prossima tartine con burro e marmellata. “Piuttosto, tornando a discorsi più seri, domani come ce la caviamo? Di certo, Momus non può andare a scuola ed io devo lavorare …”

“Grand- mère, lavori? E che fai?”

“La segretaria del direttore di una distilleria d’Armagnac!”, rivelò fiera l’ava, gonfiando il petto come un tacchino; tuttavia, le risatine dei suoi nipoti acquisiti la smontarono subito e una pronta, acida e orrorifica replica non si fece tanto attendere: “Embé? Che cosa sono quei sghignazzi, espèce de guignols? Solo perché non indosso una minigonna, tacchi a spillo e una camicetta con la scollatura a V e non la do al capo, non significa certo che io non possa fare la segretaria,  vero?”

Vidi il sorriso svanire dai volti dei due fratelli, in particolar modo notai quanto gli occhi di Aiolia si fossero dilatati a dismisura. “Milou”, sussurrò piano “mi si è formata in testa un’orribile immagine!”

“Fai finta di niente e annuisci!”, fu il rapido consiglio di Milo, anch’egli visibilmente scosso.

Seigneur, non è che sono stato adottato? La cosa mi consolerebbe …

“In ogni modo”, riprese Mamie con un vago gesto della mano “qualcuno dovrebbe restare a casa con lui … tu”, disse indicando Milo, che sussultò lievemente davanti a quella posa accusatrice o all’unghia rossa laccata lunga due centimetri della nonna “che sembri il meno psicopatico ... ehm, il più normale … vabbè, saresti d’accordo di restare a casa con Momus?”

“Oui!”, dichiarò entusiasta Milo prima ancora che Mamie ebbe terminato la frase, mentre scuoteva con vigore la zazzera bionda.

“Non!”, ribattei io terrorizzato all’idea di rimanere solo in casa col pestifero e lubrique terzogenito. Senza il controllo di un adulto, Dio solo sapeva che cosa mi poteva combinare quel p’tit diable.

“Et moi?”, pigolò Aiolia, anzi, sbiascicò dato che aveva la bocca piena di pane e marmellata di mirtilli, la quali gli aveva macchiato di viola tutta la parte inferiore del volto. “Posso restare anch’io a vegliare su Momus?”

Oddio, non mica sono moribondo!

“No, tu domani te ne vai a scuola!”, fu la secca replica di Mamie, mentre portava via il vassoio. E approfittandone del fatto che era girata, non si accorse del gesto dell’ombrello che Milo elargì al fratello minore, il quale ricambiò con un appassionato dito medio.

Ancora una volta, la mia opinione era valsa meno dello zero assoluto e volendo aggiungere ingiuria a ingiuria, il mio infermiere sarebbe stato uno scorpion lubrique, la cui domanda esistenziale era:

Oggi, come mi cucino Ionesco? Cotto o al sangue?

 

***

 

 

L’unico vantaggio dell’essere malato era di poter licenziare le visite al proprio capezzale, quando si era troppo stanchi. E con la scusa che morivo di sonno, mi liberai dei parenti per un bel pezzo. Sennonché, stufi di essere allontanati come lebbrosi, i miei due fratellastri irruppero verso le cinque del pomeriggio in camera mia, balzando su nel lettone e come i due ladroni della Crocifissione si misero seduti, o meglio spaparanzati, uno alla mia destra e uno alla mia sinistra.

Fortunatamente, però, restarono silenziosi e tranquilli, avendo Aiolia il naso immerso nel libro di geografia, mentre suo fratello era dedito agli esercizi di biologia. Sentendomi allora un pelandrone, chiesi gentilmente a Milo di prendermi il libro di letteratura tedesca per terminare gli esercizi su Die schlesischen Weber di Heine.

Continuammo, quindi, a studiare pacifici per un’oretta buona, quand’ecco che il cellulare di Aiolia annunciò l’arrivo di un messaggio, stagliandosi in maniera imbarazzante nel silenzio fino ad allora vigente.

“Ohé, Iou – Iou! Sempre con quel cellulare sul sedere!”, lo sgridò Milo, lanciandogli la gomma in testa; forse era solo una mia opinione, però, il ragazzo mi pareva leggermente piccato dalla pronta estrazione del telefonino da parte del fratello, quasi quest’ultimo si aspettasse un sms …

E l’espressione delusa di Aiolia non fece che aumentare il malumore del terzogenito dei Valavitis, il quale domandò urticante come un’ortica: “Chi è?”

“Un numero sconosciuto …”, incominciò piano il giovane, aprendo il messaggio. E i suoi occhi verde acqua brillarono di pura malizia. “Ed è in tedesco …”

Come punto da una vespa, Milo balzò in ginocchio, allungando il collo per leggere lo strano sms. “Dev’essere uno cui Saga ha dato il numero di cellulare, dimenticandosi di avvertire che lo aveva in seguito cambiato …”

“Sì, ma tre anni fa me l’ha ceduto! Questo tizio non è molto aggiornato …”, precisò Aiolia, porgendomi il telefonino con la domanda implicita di tradurgli il testo.

“Non sarebbe corretto leggere la posta degli altri …”, nicchiai, cercando di sottrarmi all’incarico affidatomi dal piccolo Valavitis. Non sapevo perché, ma avevo una brutta sensazione a riguardo …

“Stai zitto e traduci o altro!”, mi minacciò Milo, l’indice già pronto per il piripicchio.

Sbuffando, esaudii le loro richieste.

Ciao! Lo so che è da tanto che non ci sentiamo, ma volevo comunque ringraziarti per aver portato a casa mia sorella. Grazie ancora!

“E chi è questo fesso? Insomma, Saga esce con sua sorella e lui lo ringrazia? Da dove salta fuori? Dal manicomio?”, fu lo sgomentato commento di Aiolia.

“Peggio! Da un Harmony!”, ribatté solennemente Milo. “E tu guarda Sasà! Fa tanto il prete, ma poi si trastulla con le teutoniche sorelle! Fossi stato al posto del fratello, l’avrei accoppato altro che ringraziarlo!”

E venne d’improvviso la proposta indecente.

“Gli rispondiamo?”, suggerì Aiolia con fare birbante, sorprendendoci tutti. Pazientemente glielo sconsigliai, ancora memore del casino da lui combinato il giorno prima con false e tragiche notizie sulla mia malattia. “Ma sì, dai! Altrimenti si offende!”, insistette il ragazzo, facendomi spudoratamente gli occhioni tristi alla Oliver Twist.

“Niente di compromettente, veh!”

“Va bene … uhm … senti Momus, traduci un po’ qui …”

Risposta: Figurati, siamo amici no?

Beh sì, in effetti era abbastanza innocente come messaggio, non avrebbe dovuto crearci dei problemi.

Tzé! Poveri illusi che eravamo!

Replica: Amici? Credevo non lo fossimo più!

“No, Santo Saga ha litigato con qualcuno? Oddio arriva l’Apocalisse!”, esclamò stupefatto Milo, i cui occhi rilucevano tuttavia della stessa malizia di quando ne escogitava una delle sue.

“E ora che gli scrivo?”

“Non gli scrivi affatto!”

“Uf, Ionesco quanto sei noioso. Iou – Iou, dammi qua …”

Risposta: Non ti preoccupare, ormai è acqua passata!

Replica lampo: Sono contento che tu la pensi così! Però, all’uni dai un’impressione diversa …

Scuotendo rassegnato il capo, Aiolia commentò: “Lo sapevo che Sasà era completamente schizo … a proposito! Scrivi qua …”

Risposta: Sono un po’ lunatico, lo riconosco, ma sotto sotto sono un orsacchiotto …

“No, mi rifiuto di tradurre orsacchiotto!”, protestai vivacemente, nonostante una costola mi si fosse incrinata dallo sforzo di non ridere all’idea di un Saga – teddy bear.

“Chut, o ti costringo ad aggiungere morbido e coccoloso!”

“Va bene, va bene! Tanto alla fine, Saga ammazza voi due e non me …”

Replica: Non ne dubito … mi piacerebbe però poter chiarire quel malinteso … ti va?

Risposta: Sicuro! Quando?

“No, Milo sei matto?”, gridai scandalizzato, anche se troppo tardi: già l’immagine della bustina che partiva era comparsa sullo schermo, segno che l’sms era stato inviato.  Un conto conversare via cellulare, un conto organizzare un appuntamento! Specie se non si conosceva l’identità del messaggiatore!

“Voglio solo vedere come risponde!”, si difese quello, alzando le spalle. “Magari non dice niente …”

Replica della smentita: Io sono in centro. Tu?

“E adesso?”

Rapido come il vento, Milo uscì dalla stanza alla volta della sua, ritornando con il cellulare all’orecchio e un’espressione delusa in volto. “Non risponde”, fu la sua spiegazione, mentre arricciava scontento il naso.

“Aspetta, chiamo Hilda …”, disse Aiolia, componendo il numero sulla tastiera.

“Hilda?”, chiesi incuriosito, sbirciando sullo schermo. “Chi è Hilda?”

“Una ragazza con la quale Saga divide la casa e no, non è la sua morosa! Anche se … ogni tanto … d’inverno, quando fa freddo … che gelida manina …”, mi raccontò Aiolia con nonchalance, intanto che aspettavamo. Ciò tuttavia non parve soddisfare il fratello, il quale domandò indispettito, le braccia piegate al petto e le labbra storte in una bellicosa smorfia:

“E tu come hai avuto il suo numero?”

“Moi? Oh, ecco … non è importante …”

“Come non è importante?”, ruggì il terzogenito, pigliandolo per l’orecchio “Lo voglio sapere! Le hai parlato? La conosci? Sputa il rospo, p’tit cafard mal élevé!”

“E se anche fosse, che te ne importa? Non l’ho mai vista, te lo giuro!”

“Non sparare fesserie, ci hai combinato assieme qualcosa e lo voglio sapere!”

“E che cosa, sentiamo? Ho solo sedici anni, bon sang! T’es parano, Milou!”

“Sé, sé ceeeeerto, Iou – Iou, certo. Confessa! Sono geloso e mi devi dire come mai sei così in confidenza con lei!”

Per fortuna o sfortuna, la giovane della discordia rispose all’apparecchio, salvando Aiolia – che nel frattempo si era nascosto dietro di me, usandomi come scudo - da un interrogatorio alla Milo Torquemada.

“Hallo?”

“Hallo Hilda! Wie geht’s dir? Ist Saga mit dir?”

“Ach, Aiolia! Sto bene, grazie!”, il tono di Hilda era così espansivo e confidenziale, che ebbi il mio bel daffare a trattenere un Milo preda di gelosie fraterne dal saltare addosso al leoncino della casa, colpevole solo di suscitare tenerezza nelle amiche dei fratelli maggiori a causa della sua giovane età e non per attività cochon, come invece aveva elaborato la perversa mente del terzogenito della masnada franco- greca.   “Cerchi tuo fratello? È uscito in centro, credo sia andato alla cioccolateria come suo solito, sai quella sulla Salzstraβe. Non riesci a raggiungerlo?” , gentilmente, la ragazza aveva smesso di parlare tedesco per un francese dalle erre molto forti.

“Oh grazie! No, non riesco purtroppo. Tuttavia, ora sono sollevato nel saperlo in una cioccolateria in centro … ma ora raccontami un po’ di te: tutto a posto lì a Münster?”

“CHIUDI LA CONVERSAZIONE!”

“Uf, ti richiamo più tardi … sì, mio fratello Milo … oh, mi raccomando su questa chiamata, eh, lingua in bocca con Saga, ehm, acqua in bocca con Saga!”, si corresse velocemente Aiolia dal suo lapsus, il quale riuscì a sconvolgerci la psiche. Dura era la lotta contro l’ormone!

“Ionesco, dammi il cellulare, và, renditi utile …”

Risposta: Scusa, ero impegnato … sì mi sto dirigendo anch’io verso il centro. Sto andando alla cioccolateria sulla Salzstraβe. Ci vediamo lì?

Replica entusiasta: D’accordo. Non ti disturbo? Sei sicuro di volermi parlare?

Risposta di congedo: Ma sì! Dai che ti aspetto! Ciao, Saga.

Ultimo messaggio: Allora a presto. Aiolos.

Silenzio di tomba tra i due fratelli, che impallidirono fino a divenire quasi trasparenti. Aiolia appoggiò con la mano leggermente tremante il cellulare sul comodino e, girandosi, dichiarò sottovoce con un tono più alto di qualche ottava: “Milou … temo che abbiamo fatto la cazzata … se era Aiolos per davvero, questa Sasà ce la fa pagare cara, più gli interessi, senza fattura e senza la possibilità di scaricare dalle tasse!”

“Scusate, chi è Aiolos?”, domandai, incuriosito di saperne di più sull’unica persona del creato, che poteva infastidire quel San Francesco di Saga.

“Uno che se solo Sasà potesse, gli mangerebbe il cuore!”, me lo presentò concisamente il piccolo Valavitis, imitando alla perfezione l’estrazione dell’organo.

“Oh, è dunque lui quel Bogenschütze, il rivale all’università?”

“Esatto. Anche se noi ignoriamo il motivo esatto, nostro fratello non lo può soffrire; tutto quel che conosciamo è che dev’essere un tipo sgobbone, studioso ed estremamente puntiglioso.”

“Ergo un ritratto spiccicato di Sasà, solo in versione teutonica!”, riassunse Milo, della serie due cariche uguali si respingono.

“A dire il vero, a me ha fatto una buona impressione! Del resto, non voleva riconciliarsi con Saga?”, gli feci notare, indicando con il capo il telefonino. Insomma, nonostante ci fosse dell’astio tra i due, quest’ Aiolos comunque aveva ringraziato il gemello maggiore per il disturbo preso e si era inoltre mostrato più che entusiasta di chiarire quel famoso malinteso. “Già … però mi stupisco che gli abbia dato il suo vecchio numero di cellulare!”, aggiunsi dubbioso. Una semplice svista da parte di Big Brother n°1?

“Forse non voleva essere raggiunto …”

“O forse i due si sono conosciuti quando Sasà è andato per un anno in Germania. Hanno litigato et voilà, non si vogliono più vedere! Un complotto!”, esclamò contento Aiolia, gli occhi che gli brillavano di curiosità. Certo che quel ragazzo ne aveva di fantasia …

Lo squillo del cellulare di Milo interruppe le nostre ardite congetture e ci gelò all’istante. Lentamente, il ragazzo estrasse dalla tasca dei pantaloni l’apparecchio, ma lo bloccai di colpo. “Leggi prima chi è!”, gli consigliai, non tanto per sottrarlo dalla lavata di capo da parte di Saga, bensì per salvare me stesso, visto che ero stato mio malgrado loro complice nel misfatto.

“Merde, c’est Sasà!”

“Rifiuta la chiamata, rifiuta la chiamata!”

“Anzi, no! Spegni definitivamente il cellulare!”

Rapido, il giovane esaudì le nostre richieste, gettando lontano l’infernale aggeggio. Respirammo poi a fondo per qualche minuto, sperando di aver evitato l’uragano Saga; invece, il telefonino di Aiolia prese a squillare e il ragazzo- dopo un acrobatico sobbalzo- si affrettò immediatamente a chiuderlo, mentre suo fratello era volato in camera mia a spegnere il mio cellulare, tanto per essere più sicuri.

“La segreteria!”, mi venne in mente all’improvviso, indicandola convulsamente. “Mettete la segreteria al telefono di casa!”

“Bordeeeeeel!”, imprecò Aiolia, correndo come una lepre. Non ebbe neppure il tempo di ritornare a sedersi, che immediatamente venne registrato un messaggio:

Questa è la segreteria telefonica di casa Molinier – Valavitis, udimmo la voce imperiosamente minacciosa di Mamie dite chi siete e che cosa volete.

Beep.

Salut Milou, Iou – Iou e Momus, sono Nônon. Tanto lo so che siete lì, vi conviene rispondermi. Sapete, giusto qualche minuto fa mi ha telefonato Sasà chiuso nella toilette della cioccolateria con Bogenschütze che lo cingeva d’assedio da dietro alla porta. In parole povere, mi ha detto di riferirvi, che è molto meglio per voi due (Camus sono sicuro che lo avete costretto) incominciare a scavarvi una fossa, così da seppellirvi tutti al suo ritorno, dopo avervi ammazzati. Chiamatemi e tenterò di persuadere Sasà ad aspettare almeno dopo Natale. Bisous a tutti!

Afferrando febbrilmente la cornetta del telefono, Aiolia compose il numero del gemello minore, desideroso di spiegare come si erano svolti i fatti. Saga incavolato doveva veramente essere uno spettacolo indimenticabile.

“Allô? Oh Iou – Iou, enfin!”, esclamò Kanon, la cui voce suonava un po’ troppo forte per una normale conversazione, quasi stesse parlando sopra a una confusione vigente dall’altra parte della cornetta.

“Nônon, non volevamo creare questo casino, te lo giuriamo! Il numero non era registrato, che ne sapevamo? Abbiamo rischiato grosso! Poteva essere un maniaco pedofilo! Poteva finire in tragedia, con i tuoi poveri fratelli costretti a video pornografici su internet!”, si giustificò il piccolo Valavitis, sbracciando come uno che non sapeva nuotare e che stava per affogare.

E per la prima volta, vidi Milo nascondersi il viso tra le mani.

“Aiolos aveva ringraziato così gentilmente Sasà per il disturbo preso nell’accompagnare a casa sua sorella, che ci pareva molto cafone da parte sua non rispondere, così l’abbiamo fatto per lui!”, spiegò il terzogenito dei Valavitis, dopo aver sottratto al fratello la cornetta con uno dei suoi micidiali pizzicotti.

“No, Sasà ha riportato a casa la sorella di Aiolos? Uh, le coquin! Questa qua me la deve spiegare …”, mormorò malizioso il gemello minore, appuntandosi mentalmente l’informazione. Nonostante le minacce di morte, già piangevo il povero Saga.

“A proposito, come faceva Bogenschütze ad avere il numero del Boss? Tu lo sai?”

“Moi? Ti pare che Sua Santità si confidi con me? Seulement avec Dieu!”, dichiarò sarcastico Kanon, evidentemente scocciato dall’atteggiamento del gemello.  Strano, mi sembravano così complici …

“Uhm, fagli comunque il sesto grado …”, gli ricordò premuroso Milo. E, notando un sordo borbottio di sottofondo da parte di Kanon, chiese curioso: “ In ogni  modo, come va in Inghilterra?”

“Uf, non me ne parlare, c’est la merde ici! Oggi visita dei parenti, Rhada ha un diavolo per capello! La belva che state sentendo ringhiare è lui!”

“Oh Vierge Marie!”

“L’hai detto! Fosse solo quello, però. Oltre che a Mother e Father, è venuta pure sua sorella Alcmena con i nipoti Sasha e Aaron”, raccontò il giovane uomo assai poco entusiasta. Evidentemente, le riunioni di famiglia dovevano essere per entrambi più indigeste del pudding.

“Che allegria!”

“Ma no, i nipoti sono abbastanza sopportabili …” sospirò sconsolato, seguito da altre lamentazioni del fidanzato. Seigneur, che era successo? “Ecco, il problema è il più piccolo, Aaron, il chouchou di Rhada. Ultimamente, sta esprimendo fisicamente le sue velleità artistiche …” e l’ultima frase, più che a noi, venne rivolta al moroso, il quale dovette essersi fermato dal suo andirivieni, per rispondere con uno scocciato:

“Kanon, this is not funny, not funny at all!”

“Oh please, Rhadamanthys, don’t be ridiculous! He’s just a boy; he’ll grow out of it! Aaron’s just a little bit depressed ...”, fu la logica spiegazione del giovane; facile parlare per lui, che non era suo parente di sangue, ché la replica furiosa e tuttavia sempre contenuta nei toni di voce rivelò quanto il suo inglese ci tenesse alla salute del nipote.

“I beg you pardon? Me, ridiculous? My nephew has become a bloody Emo and you say that I am ridiculous? He talks about death and redemption and I am ridiculous? Are you insane, Kanon? He coloured his hairs! He was blond, now he is black, for God’s sake! And by the way, he is not depressed, he is only a little spoiled brat, who needs a good kick on his ...”

“Perhaps I am, but now you’re the one acting like a fool!”, lo interruppe velocemente Kanon, prima che Rhada esponesse i suoi metodi educativi verso nipoti Emo. “Besides, with a nymphomaniac sister ...”

“Enough, Kanon, enough if you please!”, fu ora il turno dell’inglese di chiudere in fretta il discorso. Wow, che nipoti: un Emo e una ninfomane! Questo Rhada doveva avere la pazienza di Giobbe! (In effetti, non doveva essere facile essere il drudo di Kanon Valavitis, se poi ci si mettevano pure i pargoli …) “Bloody hell, I have lost count of Sasha’s boyfriends ...”

“Sixteen last month, sweetheart!”, gli ricordò malignamente il suo fidanzato, sogghignando compiaciuto al grugnito frustrato di Rhada.

“Thank you, my dear, for reminding me; you really made my day!”

“Anytime, my love, anytime!” , ribatté serafico Kanon. Poi, ritornando a noi: “Come avete udito da Rhada, suo nipote Aaron è depresso e si veste da Emo, vagheggiando poi di cose così tetre, che a momenti prendevo l’ascia e ponevo fine io stesso alle sofferenze del ragazzo!”

“A Rhada non avrà fatto piacere …”

“Schiumava peggio di un detersivo! E quante gliene ha dette a sua sorella! Essere divorziata non significa lavarsi le mani dei tuoi figli! Sasha cambia fidanzato come le mutande, sempre che le porti ben inteso, giacché stamattina l’ho pizzicata in sacrestia con il chierichetto! E Aaron, che mi ha regalato un suo disegno nel quale mi raffigurava morto? E sai su Face book come si fa chiamare? Hades! E me l’ha detto lui stesso! E così via discutendo fin quasi all’ora di pranzo. Poveraccio, non se la deve prendere così, gli fa male alla pressione! Del resto, con una testa da bigoli come sua sorella, che poteva aspettarsi? Pensate che …”

“Oh my God! Oh my God! Not again!”, sentimmo un ululato provenire dal fidanzato di Kanon, seguito da una porta sbattuta con veemenza e rumori di grosse falcate scendere dalle scale. “Aaron, do not you dare!”

“Che succede?”

“Nulla, vi richiamo più tardi: Aaron sta tentando il suicidio per la terza volta in un giorno. Ci sentiamo, eh?” e riattaccò velocemente, forse per dar manforte al fidanzato. Ciononostante, avevo come l’impressione, che la situazione divertisse un mondo Kanon, il quale già me lo immaginavo a incitare Aaron a buttarsi giù, piuttosto che a scendere.

“Avete mai avuto modo di conoscere Rhada e la sua famiglia?”, chiesi ai due fratelli.

“No, mai! Però ora mi piacerebbe andare a trovarli, specie SashAHIA! Milou, pourquoi ça?”, frignottò Aiolia, massaggiandosi lo scalpo offeso dallo scappellotto del fratello maggiore.

“Zitto, vicelard, che ancora non mi hai detto come hai avuto il numero di Hilda!”, lo rimproverò Milo; poi, ricordandosi d’un tratto della precedente discussione, aggiunse: “A proposito di Hilda, vieni qua e confessa!”

“Non mi avrai mai vivo, bruto!”, furono le ultime parole del ragazzo, prima d’incominciare a correre, per sfuggire dalle chele di un gelosissimo scorpione.

 

***

 

Stranamente, lunedì trascorse tranquillo senza troppe discussioni con il mio infermiere, tranne un’iniziale circa la Doliprane, che lui insisteva di mettermela personalmente. A nulla valsero i miei pianti e scongiuri circa il lasciarmi una parvenza di dignità; in un battibaleno mi ritrovai col sedere all’aria sulle ginocchia di Milo e la suppo in corpo.

Per il resto, fu una giornata piuttosto pacifica; il giovane riuscì addirittura a prepararmi un pranzo decente senza combinare disastri. Infatti, mi spiegò che in tempi di carestia, ovvero quando Kanon non poteva cucinare per questo o quel motivo, qualcuno in famiglia doveva pur sobbarcarsi dell’approvvigionamento del gregge, l’unica mansione nella quale Saga falliva. Eh sì, mi spiegava Milo, l’equazione era semplice: Saga + fornelli = Esplosione Galattica. L’ultima volta che il maggiore si era cimentato nell’arte culinaria, ne risultò un tragico bollettino di guerra: cena bruciata; padelle bruciate; ciappini bruciati; canovacci bruciati e … mano di Saga con tre brutte ustioni sui polpastrelli. Quindi, per non morire di fame o peggio avvelenati, il terzogenito della masnada franco – greca imparò a cucinare, non senza aver prima tirato giù tutti i santi del Paradiso, con gli angeli, arcangeli, Virtù, Potestà, Troni e Dominazioni; senza escludere i cherubini e serafini.

E le cicatrici sulle dita testimoniavano l’effettivo scontro tra fornello ed essere umano di sesso maschile.

Arrivarono poi martedì e mercoledì e anche in quel frangente, Milo si comportò egregiamente nel suo ruolo d’infermiere, viziandomi senza pudore alcuno ed esaudendo ogni richiesta da me avanzata. Una parte di me era piacevolmente sorpresa nel vederlo così disponibile e più di una volta pensai egoista, che sarebbe stato bello rimanere ammalato ancora per tanto tempo. Poco a poco, incominciavo ad abituarmi alla presenza del ragazzo, il quale, quando non mi assisteva ai pasti, se ne restava calmo sulla poltrona a leggere un libro. Hélas, la febbre invece scendeva vertiginosamente e ogni giorno miglioravo sempre di più, fino a poter uscire dal letto. Presto la nostra tregua sarebbe finita e avremmo ricominciato daccapo.

Fu in quell’occasione, il giovedì pomeriggio, che avvenne qualcosa di bizzarro.

Come al solito, eravamo in camera dei miei genitori e Milo mi stava commentando ad alta voce i brani di Fahrenheit 451 che lo avevano colpito di più, rimanendo sorpreso nell’apprendere, che Truffaut  ne aveva tratto un film, esprimendo immediatamente il desiderio di vederlo, una volta terminato il romanzo.

Il che accadde puntualmente, verso le quattro meno un quarto.

Seduti comodamente sul lettone, mettemmo su il film sul lettore dvd, interrompendo ogni tanto la visione del lungometraggio con commenti vari, in particolar modo quelli circa la trasposizione dal libro allo schermo.

Non ci accorgemmo, purtroppo, che Fred era sgattaiolato fuori di casa; fu solo a causa del leggero refolo d’aria fredda che scoprimmo tale sgradita novità. Dapprincipio, pensammo apprensivi che si trattassero di ladri; tuttavia il fatto che il cane – di solito ipersensibile- non avesse abbaiato, impiantò in noi il dubbio che forse era proprio Fred il problema. E infatti, quando Milo andò in cucina per accertarsi della penosa situazione, la sonora imprecazione che fuoriuscì dalle sue labbra confermò il mio sospetto, che il cane fosse uscito dalla casa.

Per carità, lui era abituato a restare fuori, ma mai quando non c’era Mamie, perché allora si allontanava dalla nostra proprietà per cercarla sia nel bosco e sia, hélas, in strada. Quest’ultima era la nostra principale paura: da come correvano le macchine, temevamo che investissero Fred.

Vidi Milo infilarsi le scarpe e correre verso la parte del bosco, che sfociava nell’autostrada. Rapido lo imitai, indossando alla buona di Dio un giaccone di Mamie sopra la tuta e sperando di raggiungerli in tempo, poiché entrambi erano stati incredibilmente veloci nella loro corsa. Ma il rumore di una brusca frenata mi spronò ad accelerare il passo,  mentre un brutto presentimento m’invadeva l’animo.

Sbucai all’uscita per immettersi nell’autostrada, guardandomi febbrilmente a destra e a manca, finché non scorsi le figure di Milo e Fred, il primo per terra sul ciglio della strada; il secondo tenuto fermamente per il collare dal ragazzo, il quale mi pareva inebetito, quasi non si rendesse conto di dove fosse.

Lo raggiunsi celere, parlando al suo posto con il conducente preoccupato, il quale mi spiegò come sia il cane che il giovane fossero sbucati all’improvviso dal bosco. Fortunatamente, l’uomo aveva buoni riflessi e non correva troppo forte; ciononostante, poteva terminare in un tragico incidente. 

Ringraziai con trasporto l’uomo e riportai a casa i due fuggiaschi, un poco in ansia per lo sguardo ancora disorientato che alleggiava negli occhi turchesi di Milo. Arrivati in cucina, sculacciai ben bene Fred, dandogli cento volte del cattivaccio.

Poi mi girai verso il mio fratellastro e fui costretto ad arretrare spaventato.

Milo si stava reggendo a una colonna della stanza, la mano libera stretta convulsamente nella parte sinistra del petto, là dove batteva impazzito il suo cuore. Aveva il volto cinereo, le labbra violacee come il giorno in cui mi sottrasse dalla macchina che mi stava per investire; i suoi occhi erano dilatati e spenti, vuoti, morti. Rivoli di sudore gli solcavano la pelle livida, tesa nello sforzo supremo di respirare normalmente e non in sconnessi rantoli, uno più roco e irregolare dell’altro.

“Milo …”, dissi piano, avvicinandomi a lui. La frenata doveva averlo scosso, eppure non capivo perché fino a quel punto, come non comprendevo tutta quella foga nel rimproverarmi venerdì scorso. “Milo, che ti succ-…”

Non riuscii a terminare la frase; un urlo terribile, agonizzante d’animale ferito si levò nella stanza, mentre il suo proprietario si accasciava sul pavimento, entrambe le mani serrate tra i capelli quasi volesse strapparseli.

Nonostante la paura provata per tale ululato, vinsi ogni ritrosia e mi accucciai davanti a lui nel tentativo di calmarlo: altro che nervi scossi, quella era la reazione a un trauma subito e anche terribile, a giudicare lo stato di shock del mio fratellastro.

Lentamente, lo abbracciai forte, accarezzandogli i capelli biondi e la schiena scossa da preoccupanti brividi e solo allora udii l’inquietante litania proferita da Milo contro il mio petto, la voce acuta in maniera sconvolgente, quasi il ragazzo non avesse mai conosciuto la pubertà. Tra le mie braccia non singhiozzava un adolescente, bensì un bambino.

Je ne veux plus le jouet … Non, non plus … Pardonnez – moi … Je serai bon, j’vous le promets ! Restez … je ne demanderai plus rien à vous … Maman … Isabelle … j’vous en prie … restez ! Sinon, que dira Papa ? Et Sasà ? Nônon ? Iou – Iou ? Je serai bon, je serai bon, je serai bon …”, prometteva con voce infantile, stringendomi sempre più forte, fin quasi a sentire le sue unghie nella mia carne, nonostante lo spesso strato di vestiti.

Non ne seppi il motivo, eppure avvertii l’urgenza di posare lievi baci sulla sua fronte, sulle sue guance e sugli occhi umidi, sussurrandogli nel frattempo tenere parole di conforto, senza mai interrompere il contatto fisico instauratosi fra noi. “Chut, Milou, chut! Je suis là, mon cœur, je suis là … tu ne dois pas pleurer ainsi, je suis là … là …”, mormorai tra un bacio all’altro, accarezzandogli le tempie bagnate.

“Pourquoi? Pourquoi Maman? Et tu, Isabelle?”

Che dirgli ? Come consolarlo ? Eppoi, chi era Isabelle ?

No, non era il momento di porsi domande, non ora. Lo strinsi con maggior trasporto, mormorandogli parole sentite dal cuore: “Dieu seul connaît la réponse, mon cœur. Ne pleure pas, on ne te laisse pas …” e lo cullai dolcemente, accompagnandolo nella camera matrimoniale, dove lo adagiai piano continuando il massaggio alla schiena, finché non sentii i muscoli rilassarsi nel sonno ristoratore. All’ultimo, prima di addormentarsi, mi catturò la mano, stringendola forte e portandosela al cuore ancora sofferente. 

Rimasi a fissarlo perplesso, mentre gli scostavo le ciocche bionde dalla fronte aggrottata, assillandomi la mente con mille quesiti e dubbi: come mai quella reazione? Che collegamento c’era tra la madre di Milo e …

Seigneur! Era dunque morta in un incidente stradale? Era dunque quello il motivo per il quale il ragazzo si era arrabbiato così tanto con me? Temeva che condividessi la stessa sorte?

E Isabelle, chi era? Una zia, una cugina, un’amica?

“Mi dispiace … ti ho spaventato inutilmente …”, mi distrasse dai miei pensieri la flebile voce di Milo, il quale si era appena destato. “Sono davvero patetico …”

“No, invece”, dichiarai con convinzione, appoggiando cauto il mio mento sull’incavo della sua spalla e rimasi stupito, che il ragazzo non mi scacciò dalla sua persona, accogliendo al contrario docilmente la mia iniziativa. “Hai rischiato di essere investito; è quindi normale avere paura, non hai nulla di cui rimproverati.”

“Perché mi hai consolato?”, chiese di punto in bianco il mio fratellastro, girandosi di scatto e puntandomi contro i suoi occhi turchesi.

Già, perché? Tempo addietro, avrei dato una gamba per vedere Valavitis in quelle condizioni, per assistere alla sua pubblica dimostrazione di debolezza. Cos’era cambiato? Come mai non riuscivo più a portargli la stessa indifferenza di prima, quando mi sedeva accanto? Lo stesso rancore, quando mi combinava uno dei suoi tiri birboni? “Andava fatto, non potevo lasciarti in quelle condizioni, ti pare?”, affermai diplomaticamente, cercando di non sbilanciarmi troppo.

“Nonostante tutto quello ti ho costretto a patire fin dal collège?”, continuò imperterrito Milo, sfiorandomi con la punta delle dita le due sottili cicatrici sotto il mento da lui procuratemi. Che Iddio mi perdoni, ma non fui capace di trattenere un sottile sospiro di gradimento per simile carezza e tuttavia sperai che il giovane accanto a me lo interpretasse come uno di rassegnazione.

“Hé, ora siamo fratelli, no? E tra fratelli ci si perdonano i battibecchi …”

Vidi una sottile vena di delusione negli occhi del ragazzo; subito entrai in paranoia, domandandomi che avessi detto di così sconveniente da provocare tale reazione. “È dunque questo il vero motivo? Nient’altro?”, volle sapere Milo, puntellandosi in avanti coi gomiti, sfuggendo ora a quel contatto prima accettato.

Ancora una volta, non seppi cosa replicare; ultimamente, succedeva troppo spesso. Odiavo quando Milo mi poneva simili quesiti, non perché li trovassi indiscreti o stupidi, no, la vera ragione era che io intuivo in essi la volontà di costringermi ad ammettere verità su me stesso che io o non avevo considerato o che volevo a tutti i costi celare agli occhi del mondo.

E ora, rieccoci qua. Perché lo avevo consolato, abbracciato e baciato di mia spontanea iniziativa? Io, che in più occasioni avevo proclamato con estrema convinzione il mio disprezzo per Milo, la mia ripugnanza nel solo sedersi nella stessa stanza, godendo dei suoi imbarazzi, delle sue difficoltà? Che mi stava accadendo?

E lui? Come mai per anni mi tormentava con scherzi crudeli, mi umiliava, mi evitava come un lebbroso e ora, invece, ricercava la mia presenza ai limiti del decoro? Cosa voleva da me? Era un suo nuovo gioco per divertirsi a mie spese? Cosicché una volta abbassate le mie difese, lui potesse ancora ferirmi e burlarsi di me?

“Ho capito!”, dichiarò all’improvviso Milo, scendendo dal letto in un agile balzo. Che cosa aveva compreso? “Ma avrò pazienza, sì sì …”, aggiunse convinto, tendendomi la mano. “Vieni?”

La guardai dubbioso, l’animo roso dall’indecisione. “Chi mi assicura, che tu non mi freghi come tuo solito?”, dissi piano, senza però la mia usuale acidità.

“Nessuno”, rispose semplicemente il ragazzo, altrettanto pacato. “Dovrai fidarti di me.”

Ecco ciò che più temevo: fidarsi di lui, abbandonare le mie difese e lasciarmi guidare. In passato, lo avevo provato con quell’uomo, per poi rimanerne puntualmente ingannato. Potevo arrischiarmi una seconda volta?

Afferrai lentamente la mano offerta, quasi avessi timore che mi mordesse. In effetti, essa si strinse in una rapida morsa e con la stessa rattezza, prima di rendermene conto, mi ritrovai in piedi a qualche centimetro dal naso di Milo, le cui iridi cerule brillavano di genuina contentezza. “Vieni”, ripeté in un soffio, conducendomi nella sua stanza. “Je ne te ferai pas de mal. Fais-moi confiance!”

Ed io, come uno dei 130 bambini vittime delle incantate melodie del Pifferaio di Hamelin, lo seguii senza pormi alcuna domanda.

 

Giunti in camera da letto, Milo si ficcò sotto il letto, mentre io mi accomodavo per terra a gambe incrociate, osservandolo confuso nel vederlo riemergere con un largo baule, non dissimile a quelli un tempo usati dai miei bisnonni. “Era di Papa”, mi spiegò il ragazzo tra uno sbuffo e l’altro “quando venne in Francia dalla Grecia.”

“E che contiene?”

“Memorie di una vita. Enfin, di molte vite”, affermò sibillino Milo, aprendo la cassa e incominciando a rovistare. Incuriosito, allungai il collo: dentro il baule notai pacchi interi di fotografie o legate coll’elastico o contenute in buste di carte; libri di ogni genere letterario; biglietti del cinema, del teatro e di musei; fiori secchi; cartoline da ogni parte del mondo; ritagli di giornale; conchiglie; vecchi giocattoli; disegni; diplomi scolastici di tutta la famiglia, perfino i quaderni dei fratelli maggiori. “Utili per il futuro …”, commentò assente il giovane, sfilando nel frattempo un’enorme fotografia da una busta rossa, che mi porse risoluto.

In essa vi erano raffigurate un gruppetto di otto persone elegantemente vestite davanti ad una chiesa, molto probabilmente quella della Madeleine. Al centro, riconobbi i due gemelli, i quali dovevano avere all’incirca dodici anni ed erano sorridenti e raggianti di felicità come mai li avevo visti; Kanon teneva stretta la mano del maggiore, il quale pareva ricambiare con altrettanto entusiasmo, anche se in maniera più composta.

23 maggio: Cresima di Sasà e Nônon”, lessi sul retro della foto.

“Risale a circa otto anni fa, sei mesi prima dell’incidente …”, mormorò Milo, stringendosi a me. “Questo è Papa con Iou – Iou”, mi descrisse, indicando i due con la punta del dito, onde evitare di sporcare la liscia superficie. Un risolino soffocato mi scappò nel vedere M. Christophe – meno stempiato del solito - tenere fermo uno scatenato Aiolia di otto anni e due incisivi di meno, il quale, dopo due ore di Messa, doveva essere sul punto di esplodere in tutta la sua esuberanza a fatica repressa. Accanto ai due, il Milo bambino ridacchiava contento, mentre dava la mano ad un uomo che gli assomigliava in maniera impressionante.

“Il mio prozio Cardia. Un tipo po’ strambo, ma simpatico. È il mio padrino”, me lo presentò il ragazzo, sistemandosi una ciocca dietro all’orecchio. Accidenti, avevano ragione a chiamarlo Milou: da bambino, Milo sul serio assomigliava a un gattino, piccolo e fragile con quella sua zazzera bionda che gli scendeva a boccoli su di un visetto troppo pallido. Hé, di certo l’adolescenza ne aveva tratto fuori una persona totalmente diversa.

Infine, posai lo sguardo sulle uniche donne presenti nella foto. “Maman”, disse atono il ragazzo con lieve cenno del capo. Eccola dunque, Madame Anaïs Valavitis née Lamarque, la madre strappata precocemente dalla sua famiglia.

Era una donna piccolina – i gemelli l’avevano già superata in altezza - e anche un po’ in carne per via delle numerose gravidanze, eppure il suo viso esprimeva un inesauribile entusiasmo verso la vita difficile da sradicare. Di tutti i suoi maschi, Aiolia era forse quello che le assomigliava di più, prendendo i suoi occhi verde acqua e i capelli di un biondo – castano.

Ma c’era un’altra persona, che le era ancora più rassomigliante: una fanciulla sui sedici anni, alta e mingherlina, la quale posava entrambe le mani sulle spalle dei gemelli, la gioia chiaramente viva negli occhi verde acqua.

“Isabelle”, mi rivelò Milo la sua identità, passandosi stancamente una mano sulle tempie.

“Tua cugina?”

“Mia sorella.”

Girai di scatto la testa verso il giovane, fulminato dalla rivelazione. Come? Una sorella? Perché nessuno dei Valavitis me ne aveva parlato?

Un momento … ora che ci ripensavo … cosa si era lasciato sfuggire Milo qualche settimana fa?

“In casa vostra, la parola privacy rientra nel vostro vocabolario?”

“Con quattro fratelli, che mi ritrovo? Ma dai!”

“Però … però avevi detto fratelli …”, ragionai ad alta voce, rievocando il frammento di dialogo davanti ad un mio fratellastro quasi compiaciuto del fatto che me lo fossi ricordato.

“Hé, potenza della lingua! Fratelli non indica solo maschi, in senso generale contiene anche le femmine!”, esclamò falsamente divertito il ragazzo, mordicchiandosi un’unghia. “Eravamo in cinque: Isabelle nacque per prima; poi Saga e Kanon; moi e contro ogni prognostico Aiolia, la cui gestazione fu molto difficoltosa, tanto che Maman partorì ben due mesi prima del tempo dovuto. Una vera carovana di figli e ciononostante, non ci mancò nulla, sia dal punto di vista affettivo, che pecuniario”, incominciò a raccontare, gli occhi abbassati sulle dita. Dopo una lunga pausa di silenzio, riprese lentamente, scandendo con accortezza ogni parola:

“Isabelle era la maggiore e come tale ci accudiva quando Papa e Maman erano al lavoro; la chiamavamo la p’tite Maman. Era il nostro faro, a volte dipendevamo più da lei che dai nostri stessi genitori; Saga le era attaccatissimo, la guardava perfino respirare … Kanon, invece, ne era un poco geloso, poiché si vedeva sottratto l’adorato fratello; Aiolia, beh, le stava sempre appiccicato alle cottole e io … io non ero da meno …”, narrò Milo con nostalgica dolcezza, un mesto sorriso che gli venava il volto ancora pallido per la crisi da poco passata.

All’improvviso, si rimise in piedi bruscamente, percorrendo a grandi falcate la stanza, il tono d’un tratto duro: “Poi … poi avvenne l’incidente e tutto andò a puttane!”

“Che cos’è successo?”

“Io … io non lo so … non ricordo niente …”

“Eri lì?”

“Così mi dissero … ti parrà grottesco, ma ho perso tre settimane della mia vita” e rise forzatamente. Io non lo imitai: non vi era nulla di comico in ciò che il ragazzo era in procinto di confessare. “Tre settimane, che furono sufficienti a rovinarmela, però.  Davvero bizzarro! Rammento solo che eravamo in cucina a preparare il dolce … doveva essere il mio compleanno … dopo … dopo il buio … infine, mi risveglio e mi ritrovo nel letto dell’ospedale, la spalla fasciata e attorniato dal medico, dagli infermieri , da Papa  Saga e Kanon … avevano una tale espressione nel viso … chiesi di Maman e Isabelle … nessuno rispose, non subito … e quando me lo comunicarono non potei, non volli crederci … presi Saga per il bavero e lo scossi … lui mi diceva sempre la verità, lui non poteva mentirmi … invece, no … confermò … Menteur, ti odio!, gli gridai … lui non replicò … e il suo silenzio fu più pesante di qualsiasi parola …”, concluse il doloroso monologo, ancorandosi ai bordi del cassettone, le sue nocche livide per la forza impiegata, quasi temesse di cadere se solo avesse lasciato la presa e la voce d’un tratto roca per un pianto, che stava stoicamente trattenendo.

“Fu orribile il dopo. Papa dovette farsi forza per tutti, non pianse al funerale per non scoraggiarci, per evitare che cadessimo nella più cupa disperazione. Per non dividerci. Ma aveva anche il suo lavoro, cui pensare e il peso delle ore che non trascorreva con noi se lo prese Saga, senza mai lamentarsi, nonostante gli costasse moltissimo: non dormiva bene, saltava troppo spesso i pasti e in certi giorni era di un’irritabilità mostruosa. Lui e Kanon, che prima erano pappa e ciccia, incominciarono a litigare, a insultarsi a vicenda. La smetti di remarmi contro? Che ti costa aiutarmi ogni tanto? Sei inutile, sei un parassita!, gridava uno. E tu la pianti di dirmi cosa devo e cosa non devo fare? Chi sei tu? Mio padre forse?, gli rinfacciava l’altro. A volte finiva lì; a volte arrivavano alle mani. Il fatto, poi, che Kanon avesse incominciato a bigiare la scuola per andare Dio solo sapeva dove, faceva incazzare doppiamente Saga. E via coi litigi. Un vero circolo vizioso.

Aiolia, dal canto suo, era come intontito, non capiva bene cosa fosse successo. Mi ricordo che quel Natale scrisse nella sua letterina a Père Noël se gli poteva riportare Maman e Isabelle. Si metteva in entrata il venerdì verso le cinque e mezza, l’ora in cui Maman tornava dal lavoro e l’aspettava per ore e ore; la notte piangeva in continuazione e solo nel lettone di Papa riusciva ad addormentarsi. Questo almeno verso i primi mesi, poi smise. Si calmò. Tutti ci calmammo. Tzé! La quiete prima della tempesta.

Per quel che mi riguardava, ero disgustato nei miei confronti. Vedevo come pian piano la mia famiglia, il mio unico rifugio si stesse inesorabilmente sgretolando e mi persuasi che io fossi la causa, anche se non ne ricordavo il motivo. Io ero con Maman e Isabelle al momento dell’incidente; io ero sopravvissuto e loro no; io ero colpevole di vivere al posto loro. Mi convinsi, quindi, che fosse la mia presenza a inquinare la mia famiglia e decisi di sparire, compiendo a dieci anni e mezzo la mia prima colossale cavolata: scappai di casa. Oh, non era raro che mi fermassi spesso a casa di Shura, evitando come la peste la mia, ma quella volta programmai  con cura una mia fuga verso Parigi dal mio prozio. Beh, non durò a lungo, eppure fu sufficiente a preoccupare il mondo. Umphf, rammento ancora le facce di tutti quando il brigadier mi riportò a casa verso mezzanotte, dopo che la mia famiglia mi aveva ricercato furiosamente per Mont-de-Marsan. Mi soffocarono tra baci e abbracci; mi sculacciarono a sangue e mi ribaciarono.

Ciononostante, fu il pizzicotto che ci riscosse. Non potevamo andare avanti così, nossignore, ci stavamo distruggendo a vicenda. Ognuno s’imbarcò di un compito e cercammo di vivere anche per Maman e Isabelle, o almeno provarci.

Ma il peso, Camus, il peso di tale perdita ancora grava sul nostro animo! È come se una sottile e infida crepa si fosse istaurata in noi, alterando la nostra percezione di noi stessi davanti agli altri; fu solo allora, che tutti nostri complessi fuoriuscirono con la potenza di un uragano. Le nostre paure; i nostri segreti rancori. Superammo quel momento, vero, ma a che prezzo? A volte, vorrei tanto risvegliarmi la mattina, scendere le scale e ritrovarmi gosse di nove anni, con i miei fratelli e i miei genitori”, Milo sospirò, asciugandosi nervosamente una lacrima scivolatagli a tradimento sulla guancia, ancora rifiutandosi di guardami dritto in faccia.

Lo lasciai fare, non dissi nulla per interromperlo: se voleva terminare lì, per me andava bene.

“Quando Papa ci annunciò che intendeva risposarsi con tua madre, la sera stessa scoppiò il finimondo: un po’ per egoismo e un po’ per vera apprensione, temevamo che Papa intendesse rimpiazzare Maman con un’altra donna. Inaccettabile! Il fatto, poi, che anch’ella avesse appresso un figlio ci imbestialì, ché vedemmo minato il posto di quinto fratello usurpato da un estraneo.

Saga fu l’unico a difendere le idee di Papa, guarda un po’, lui che era gelosissimo di Maman. Inoltre, sei subito risultato simpatico agli altri; chissà, forse è la tua aria da pinguino smarrito”, Milo sorrise piano, lasciando i bordi del mobile per tamburellare nervosamente le dita sulla superficie di legno e girandosi finalmente verso di me.

“Ogni tanto mi domando come sarebbe stata la mia vita, se l’incidente non fosse mai avvenuto … Sarei stata una persona diversa, meno stronza, aggressiva e arrogante …”

“… e non avresti dovuto sorbirti la mia famiglia, me compreso …”

“Sorbire? E perché mai? Mi piace la tua famiglia e mi piace averti tra le scatole, come diresti tu …”, affermò con tono più gioviale, afferrando la mia mano e intrecciando le nostre dita, contatto cui non sfuggii. “Venerdì … ti urlai cose orribili ...”, mi ricordò all’improvviso.

“Non fa niente, non importa …”, nicchiai a disagio, cercando di ritirare la mano e allontanarmi da lui; invece Milo la strinse più forte, impedendomi la fuga.

“Sì che importa. Perché le pensavo sul serio; tuttavia, voglio scusarmi per averti dato dell’ipocrita. Tu non lo sei e non te lo meritavi.”

“E che sono allora?”, chiesi d’impulso, fermandomi tuttavia appena in tempo per omettere le compromettenti per te.

“Un paguro, ché ti chiudi sempre dentro te stesso. Per il momento. Ora tu sai la mia storia, ma presto mi dovrai dire la tua. Equo, no?”, dichiarò Milo con grande convinzione e conoscendo la sua testardaggine, già mi vedevo confessargli aspetti del mio passato che avevo taciuto a tutti, perfino al mio amico Shaka. Eppure, dopo aver ascoltato la croce portata da lui e dalla sua famiglia, mi pareva giusto che lui sapesse la mia, era l’unico modo per dimostrargli che io comprendevo sul serio cosa significasse perdere una figura, che si considerava una propria guida. Per questo non l’interruppi mai: un banale mi dispiace sarebbe anzi stato quasi offensivo nei suoi confronti.

“È un ricatto, Milo?”, fu la mia risposta, memore del nostro previo scontro verbale in chiesa.

“È una promessa, Camus”, fece lui, mentre scendeva dalle scale per andare incontro al suo Papa, appena tornato dal lavoro, accogliendolo come un gatto, con fusa e carezze e M. Christophe ricambiò con un bacio sulla testa del figlio. Vedendomi poi in disparte nell’angolino, mi acchiappò in stile iguana e me ne elargì uno anche a me.

Un tempo avrei dato qualsiasi cosa per un simile gesto da parte di mio padre …

 

 

***

 

Dopo aver lisciato Mamie per tutta la serata con moine varie, riuscii finalmente ad ottenere il permesso di ritornare a scuola l’indomani. A dire il vero, avrei avuto sia la possibilità che la voglia di rimanere a casa pure il venerdì; tuttavia, preferii accorciare la durata della mia convalescenza per Milo, poiché i suoi giorni a casa senza certificato medico stavano per scadere e siccome lui prendeva molto seriamente il suo ruolo d’infermiere, avrebbe preferito attaccarsi ai bordi di legno del letto, piuttosto che lasciarmi solo in casa, neanche fossi un invalido.  A nulla valsero le sue giustificazioni col padre, il quale gli disse chiaro e tondo di tornarsene ai corsi, altrimenti ce lo avrebbe mandato lui a furia di spinte di Diomede.

Seigneur, quanta pazienza!

Così vinse il senso di carità cristiana e decisi di riprendere le mie lezioni bruscamente interrotte, contento soprattutto di non assumere più la Doliprane.

Portati dunque in macchina da una borbottante Mamie, la quale si stava giusto chiedendo che fine avesse fatto l’intera scorta di caffè, Milo ed io non ci parlammo mai per tutto il tragitto e solo a metà strada mi accorsi che si era addormentato di brutto, nonostante la scomodissima posizione nella quale si era attorcigliato.

Fu strano ritornare a scuola: avevo come l’impressione di essere capitato in un ambiente totalmente nuovo, sensazione dovuta al mio arrivo di venerdì e non il lunedì, quando il piazzale era gremito di studenti che rientravano dal weekend.

E fu strano trovarsi all’entrata della scuola, degno emulo della piccola vedetta lombarda, Aiolia, il quale ci venne incontro correndo con un’espressione angosciata dipinta in volto. Milo ed io non facemmo neppure in tempo a domandargli che cosa fosse accaduto, che il ragazzo esclamò afflitto: “È successo l’irreparabile, Momus! Una tragedia … un casino … è orribile …”

“Iou – Iou, calmati!”

“Mon oeil, calmati! Tu non hai visto! Momus, devi venire … devi parlargli … Shaka ti ascolterà …”

Appena udii il nome del mio amico, subito scattai in avanti, correndo in direzione dei dormitori, il cuore in gola per la sorte dell’indiano. Oddio, che gli era capitato?

O meglio, che cosa poteva aver combinato uno che afferma che lo yoga è uno sport movimentato?

Salii le scale a due a due, con Aiolia e Milo dietro, e finalmente raggiunsi la porta della mia camera. La spalancai.

Fu come ricevere un pugno in faccia, tanto che restai come inebetito lì davanti, la mascella poco pendente in maniera poco dignitosa e senza accorgermi che lo zaino mi era nel frattempo scivolato dalla spalla, cadendo in un sordo tonfo.

“S- Shaka?”, balbettai, incapace di credere all’orrore cui i miei poveri occhi erano costretti ad assistere.

 

 

 

To be continued …

 

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Piaciuta? Spero di sì!

Alla prossima! Ciao!

 

Un po’ di noticine:

[1] Il principe Myskin è il protagonista de “L’idiota” dello scrittore russo Fëdor Dostoevskij. Tra Milo e Camus c’è un gioco di parole: il primo dice di non essere idiota, ma nel senso di stupido; Camus, invece, l’assicura che lui non è idiota come il principe Myskin, questa volta nel senso di  candido.

 

 

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Capitolo 8
*** Romanzo Bollywoodiano ***




Koukou! Ben ritrovate! Approfitto dell’acquazzone per annoiarvi un poco con la mia storia! E per la cronaca in questo momento è pure saltata la luce, siamo nel buio totale. Avete rischiato grosso: metà capitolo poteva venir cancellato …

Ringrazio i miei numerosi lettori (merci!) e i miei recensori: Sagitta72; Kiki May; Clayre; Diana924; Tifawow; JackoSaint94; Eno; Winnie343 e Charm_Strange! Grazie mille a tutte voi, rendete felice una povera fanciulla!

Bien, spero che questo capitolo vi piaccia e buon divertimento!

Tchao!

H.

 

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“S- Shaka?”, balbettai, incapace di credere all’orrore cui i miei poveri occhi erano costretti ad assistere. “Shaka mi fai paura …”, aggiunsi arretrando d’istinto, sbattendo contro Milo, il quale mi aveva appena raggiunto.

“Che cosa succede qui?”, chiese il giovane guardandosi intorno e, alla vista di ciò che era diventato Shaka, proruppe disgustato: “Oh la la, quelle horreur! Shaka … pourquoi?”

“Oh, che bordello sta accadendo qui? Avete svegliato tutto il dormitorio!”, s’informò sbadigliando Shura, comparendo dal corridoio, il quale si stava lentamente riempiendo di studenti curiosi. Senza parole, gli indicammo la stanza dove risiedevamo Shaka ed io, spostandoci pure per permettergli una miglior visuale del dramma appena consumatosi. “Oh Virgen del Cielo!”, lo shock che colpì il ragazzo fu così potente, che quest’ultimo aveva esclamato nel suo natale spagnolo, lingua da lui tuttavia poco usata.

“Ve l’ho detto, ve l’ho detto!”, si lagnava Aiolia, appoggiandosi sconsolato al muro. “Shaka è uscito fuori di banana!”

“E ben gli sta!”, ruppe all’improvviso il silenzio Milo, incrociando sbuffando le braccia al petto. “Era ora che si decidesse!”

“Sì, però ... a questi livelli ... sarà stato lo yoga, sai con tutte quelle strane posizioni il sangue non va correttamente al cervello …”

“La ferme, voialtri, la ferme!”, sbottò infine il diretto interessato, battendo spazientito il piede per terra.  A disagio, ci fissammo negli occhi: da quando in qua Shaka Kumar perdeva la pazienza? Che fosse dovuto al suo drastico cambiamento? O allo sfottò sul suo adorato yoga? Seigneur, se pure il mio amico si lasciava trasportare dalle lusinghe della dea Follia, l’Apocalisse era davvero vicina! “Uffa, smettetela di guardarmi come delle triglie al vapore! Che cosa vi prende? Mi sono solo dipinto i capelli di biondo!”

“E ti sei messo le lenti a contatto blu!”, gli ricordò Shura al limite dello sconcerto.

“Sembro Legolas, vero?”, fece speranzoso l’indiano, saltellando da un piede all’altro.

 Shaka ... tu quoque ... anche tu mi hai tradito, lasciandomi solo tra questi pazzi?

“Sembri un elfico coglione!”, sentenziò secco Milo, il quale possedeva il raro dono di riassumere le varie e assurde situazioni della vita.

“Shaka, non è che ti rimproveriamo nulla ... figurati ... solo ... solo che così conciato appari diverso, strano; enfin, in realtà tu hai i capelli neri, gli occhi neri e la pelle scura ... non sei molto nordico ...”, cercai di blandirlo diplomatico, fissando molto scettico la chioma tinta del mio miglior amico, la quale cozzava violentemente con il colorito dorato della sua pelle. “É una questione estetica, sai? Mi ci vedi tu con i capelli scuri?”

“Camus! Basta con gli orrori!”

“Nah, Momus, non ti preoccupare! Vedrai che nessuno se ne accorgerà! Mica sono il Johnny Depp della scuola!”, mi rassicurò Shaka, battendomi ottimista la mano sulla spalla.

“No, con quei capelli sembri Madonna!”, sghignazzò Aiolia, evitando per un soffio il rosario buddista lanciatogli contro da parte di un incavolatissimo Shaka, il quale ci sbatté senza complimenti fuori dalla porta, chiudendola di malagrazia. Poi, ricordandosi all’ultimo che io ero il suo coinquilino, la riaprì, mi afferrò per il cappotto e mi trascinò dentro, il tutto sotto lo sguardo attonito dei miei fratellastri e del loro amico.

 

Verso la pausa delle undici Milo, Aiolia, Shura ed io ci riunimmo nella toilette e nello specifico per quella riservata ai disabili – più larga e comoda – con la chiara intenzione di scoprire, che diavolo stesse accadendo a Shaka, Guinness dei primati per l’ineffabilità e la compostezza. Inoltre, il preoccupante resoconto delle prime ore da parte di un incredulo Shura ci indusse a proseguire nel nostro intento, più per curiosità che per vero altruismo.

Eh sì, il povero spagnolo era stato costretto a sopportare due ore di disegno tecnico in banco con Shaka, che ammazzava il tempo canticchiando stonatissimo una versione piuttosto bollywoodiana di Like a Virgin, di Madonna.  E quando il professore lo aveva richiamato, lui gli aveva sorriso trasognato, causando brividi freddi all’intera classe e all’insegnante stesso.

“Da quand’è che Kumar è in quelle condizioni?”, volle informarsi Milo, da troppo tempo digiuno dei gossip del dormitorio maschile. “Non è normale da parte sua quest’atteggiamento …”

Aiolia sospirò a lungo, mentre tormentava il rubinetto, aprendolo e chiudendolo senza requie. “Due giorni fa. Non vi ho chiamato, perché pensavo fosse un momento di sconforto, di confusione … Invece … disastro … ha incominciato con l’orecchino di diamante, in seguito con le collanine, infine con gli anelli. E fin qui, era abbastanza sopportabile. Ieri, però, è uscito verso le cinque e qualcosa, ritornando ben tre minuti dopo il coprifuoco, lui, il campione imbattuto della puntualità. Dopodiché, s’è chiuso in bagno e solo stamattina, quando sono andato a salutarlo, ho visto il mostro partorito! Manca solo che si metta le gonne!”

“Kumar … un drag-queen?”, chiese perplesso Shura, massaggiandosi le tempie, le orecchie ancora traumatizzate dalla performance canora del mio amico.

“No, non credo!”, difesi con vivacità Shaka, battendo il piede per terra. “Non si è mica truccato! Niente mascara, niente cipria niente rossetto! Eppoi, non si fa mica la ceretta! Né indossa biancheria femminile! Shaka non è assolutamente un drag-queen!”, sbottai, arrabbiato che si pensassero cattiverie sull’orientamento del mio amico, che io sapevo essere benissimo Buddhasessuale.

Siccome, però, le mie uscite erano sottoposte a libera interpretazione, sortendo di conseguenza sempre l’effetto opposto da quello da me desiderato, la mia difesa causò un inquietante silenzio tra i miei compagni, accompagnato da occhiate terribilmente oblique.

“Quoi?”, domandai smarrito, guardandomi nervosamente attorno.

“Com’è che sei così informato sui drag-queen?”, rispose Milo, ergendosi a portavoce del quesito, che in quel momento turbava la psiche di tutti e tre.

Rigirandomi a disagio una ciocca rossa tra i capelli, borbottai: “Mah, leggo … m’informo …”, non vedevo la necessità di rivelare le mie fonti molto accurate sull’argomento e neppure Aiolia e Shura parevano tanto bramosi di saperle, ma l’espressione malandrina di Milo m’avvertì, che lui se l’era legata al dito e che prima o poi gli avrei dovuto delle spiegazioni più accurate. Dopo la confessione sulla sua famiglia, ero decisamente io quello nella posizione di svantaggio.

“In ogni modo”, riprese Aiolia, “mi stupisco che Momus non ne sappia niente! Enfin, siete in confidenza, no?”

“Sono il suo amico, non il suo confessore!”, replicai velocemente, grato per quel repentino cambiamento di discorso. “Che volete, a volte Shaka è più chiuso di una cappasanta!”

“Hé, similis cum similibus!”, commentò Milo con nonchalance, mordicchiandosi una nocca. “Ne conosco un altro compagno …”, aggiunse, accennando ad un rapido occhiolino diretto a me.

“Forse sta male … o avrà problemi in famiglia!”, suggerì Shura scrollando le spalle.

“O è innamorato … no, questa è troppo ardita!”, si corresse in fretta Aiolia e per affermare ciò lui stesso – campione in carica delle supposizioni più fantasiose dell’Aquitania – il fatto che Shaka stesse patendo pene d’amore era davvero assurdo! E su questo punto, tuttavia, non mi espressi, giacché il mio titolo di Vierge Marie Camus l’avevo ottenuto per qualcosa, o no?

“Speriamo solo che non combini cavolate, non ora che viene il weekend!”

“Shaka, cavolate?”

“Ben oui, Ionesco, le stupidaggini dei perfettini sono le più dannose, rispetto a quelle dei professionisti!”, sentenziò solenne Milo, incrociando le braccia.

“Parli per esperienza personale?”, ribattei sarcastico, alzando il sopracciglio.

“Hé, per me è finito il tempo delle confessioni!”, replicò sibillino il ragazzo. Prima però che gli altri due gli chiedessero delucidazioni, il leitmotiv dell’Esorcista risuonò per il corridoio, segno che la ricreazione era terminata.

Dieu merci, ora potevo scappare dall’imbarazzante situazione senza compromettermi ulteriormente!

E mai in vita mia ero andato sorridendo ad un compito di letteratura latina! Non come quelli preparatici da Madame Charogne Dubois, che prevedevano domande generali sull’autore e le sue opere; traduzione di un suo brano; analisi di quest’ultimo nei contenuti e nella forma ed infine, una domanda aperta nella quale ci veniva chiesto di confrontare l’autore con un altro affrontato in passato. Il tutto, in un’ora, guarda un po’! Ci credevo che la sua materia non fosse la più amata, dopo simili prove si usciva dalla classe con le gambe ridotte a crème caramel.

Perfino Shaka l’imperturbabile consegnava con mane tremante il compito, quasi fosse affetto dal morbo di Parkinson. Ed infatti, non mi stupii di trovarlo davanti alla classe – aspettando che la professoressa ci chiamasse dentro – con gli occhi chiusi e borbottando qualcosa tra sé e sé. Per curiosità, mi avvicinai a lui e udii una preghiera un po’ scandalosa per un buddista convinto come lui.

“Oh grande Sarasvati”, diceva, invocando la dea indù protettrice degli studenti e della conoscenza e sapienza in generale; della serie, la religione dell’infanzia è dura da sradicare completamente “lo so che ultimamente non siamo stati nei termini più amichevoli, però se questo compito sul Satyricon non è bastardo come quello su Seneca, prometto che ritornerò a più miti consigli con te!”

E Shaka fece bene a pregare, ché la verifica fu una sadica tortura medievale, quella su Seneca a confronto era stata una passeggiata di piacere. Se la Madame continuava con questo andazzo, sul serio a fine anno non si salvava dai gavettoni estivi di studenti particolarmente vendicativi.

Sottolinea e analizza tutte le parole che si discostano dal latino colto e spiega il motivo del loro impiego da parte dell’autore.

Seigneur, non si rendeva conto quella donna, che ci voleva un’ora solo per rispondere a quella domanda?

“Allora, Shaka? Sei stato esaudito?”, chiesi a fine compito, mentre il mio amico ed io ci dirigevamo barcollando verso il nostro dormitorio per preparare la valigia, avendo infatti il venerdì il pomeriggio libero.

“Uhm …”, fece quello pensieroso, sedendosi sul puff a gambe incrociate e, inforcando il suo sitar, incominciò a strimpellare un’ipnotica melodia. Cogliendo il messaggio subliminale di quel gesto, lo imitai celere: quando Shaka suonava, non c’erano mai buone notizie.

“È andato bene? L’hai trovato difficile?”

“Uhm …”

“Non stai pensando al compito, vero?”

“Uhm …”

“Uhm …”, ripetei scocciato, ricredendomi sulle parole dette da Milo, circa la difficoltà di conversare con un paguro umano. Eppure con lui finivo per cantare come un canarino, come mai? Scossi deciso il capo: no, non era il momento di pensare al mio fratellastro, non con Shaka in piena crisi mistica.

E sempre parlando del mio amico, quest’ultimo si alzò per un istante dal suo puff, ritornando con una lettera previamente estratta dal comodino. “Per te, è arrivata ieri”, disse porgendomela, per poi ritornare alla sua occupazione. Hé, le coquin, era bravo a distrarmi, quando non voleva parlarmi!

Avido, aprii la lettera e il mio cuore ebbe un tuffo nel riconoscere la calligrafia aggraziata e precisa da me tanto amata.

Carissimo,

sono contento di apprendere che la tua salute sia migliorata. Ti avrei scritto una mail, solo che all’ultimo mi sono ricordato che Séraphine ti controlla la posta attraverso metodi discutibili. Spero vivamente che fare l’hacker non sia divenuto il suo ultimo hobby. In ogni modo, mi fa poi piacere sapere che ti trovi bene con i tuoi fratellastri, da come mi sono stati descritti mi sembrano dei ragazzi un po’ particolari, ma simpatici e mi piacerebbe un giorno conoscerli! E Milo? Ti tormenta ancora? Dalla tua ultima lettera parrebbe di no, al contrario! Non è che adesso diventate pappa e ciccia?

 La tua Maman come sta? È ancora in Italia per lavoro? Mi avverti quando ritorna? Dal giorno del suo fidanzamento, è un po’ che non la sento. Ti ringrazio in anticipo!

Se mai dovessi aver bisogno di qualcosa o di sfogarti, per favore non farti scrupoli!

Ti voglio bene

Papie

“Buone notizie dal nonno?”, s’informò Shaka, sollevando gli occhi dalle corde del sitar, un sorriso appena abbozzato sulle labbra sottili.

Annuii vigorosamente, ficcando in tasca la lettera e ripromettendomi di rileggerla con calma a casa, nella sicurezza del mio bagno. (La camera da letto era ormai  fuori questione). Nonostante gli screzi tra Mamie e Papie, Maman era rimasta in buoni rapporti con il padre, il quale l’andava a trovare al lavoro a Bordeaux, non potendo avvicinarsi alla casa della consorte abbandonata. Quanto a me, non ebbi molte opportunità di vederlo, solo qualche volta quand’ero piccolo, tutto qui. Eppure, non perdevo occasione di inviargli lettere o meglio, vere e proprie pagine di diario nelle quali mi sfogavo con lui riguardo tutto ciò che mi capitava, fosse esso bello o brutto.

“Mi fa piacere”, commentò il mio amico sommessamente, riprendendo i suoi esercizi musicali. Poi, inaspettatamente, ruppe il silenzio con un profondo sospiro. Ecco, ci siamo: confession time!  “Ho ricevuto una notizia da Jaipur, sai, dove abita il resto del mio clan. Mi si annuncia che è arrivato il momento”, affermò tutto d’un fiato in una composta smorfia, mentre riponeva con delicatezza il sitar dentro la sua custodia.

“Quale momento?”, chiesi dapprincipio smarrito, sbattendo le palpebre. Subito dopo, l’illuminazione. “Oh, quel momento!”

“Ouais, quel momento!”

“Di già? Hai solo diciassette anni!”

“Embé? Sai che gliene importa a loro? Mi inguaiano, si aspetta per un anno e poi a diciotto sono sul serio fregato! Hé, la dura legge dei matrimoni combinati dalle famiglie!”, confessò alla fine Shaka il suo intimo cruccio, lasciandosi cadere supino sul letto. “Ho fatto il matto per convincerli della mia poca idoneità alle nozze, ma mia madre è irremovibile: questo matrimonio s’ha da fare!” e sospirò ancora. Forse sarebbe dovuto andare a ripetizioni da Aiolia, se voleva veramente passare per fuori di testa …

Hélas, povero Shaka! Non era facile la vita delle seconde generazioni! Benché la sua famiglia vivesse in Francia da quasi trent’anni, essa si sentiva ancora molto legata alla loro India. Pensare, che organizzavano tutto in famiglia, come fidanzamenti e matrimoni … solo con indiani! Perfino i fratelli maggiori di Shaka – che sinceramente mi erano parsi piuttosto integrati – erano stati inguaiati in un matrimonio con delle conterranee del Rajasthan! Ovvio che l’ultimogenito non desiderasse condividerne la sorte.

“E lei chi è?”

“Una mia cugina … ehm … Lalita … no, Lahka! Euh, ora che mi ci fai pensare, credo Chandra …!”

“Non sai neppure il suo nome?!?”

“Senti Momus, lei abita a Jaipur, ci siamo sentiti sì e no due volte via mail! E perlopiù in inglese, visto che lei non conosce il francese! Peggio di un appuntamento al buio!”, sbottò Shaka, balzando seduto di scatto.

“Hai provato a parlarne coi tuoi?”

“Nah, sono granitici nella loro decisione. Quanto a mio zio Asmita – il Papa di mia cugina Chandra – quello là, oltre che ad essere cieco è pure sordo! Non ha voluto sapere ragioni! Per la proboscide di Ganesha, non vorrai mica compiere questo sgarbo nei confronti di una verginea fanciulla, spero?, disse l’ipocritone, che si sposò la donna che volle lui.”

“E tu nel frattempo ti ritrovi fidanzato con sua figlia …”

“Bah, preferirei gettarmi nelle fauci del leone della dea Durga piuttosto!”

“E Buddha? Che mi dici di lui?”, inquisii, notando quanto ultimamente il mio amico stesse rievocando le divinità indù da lui tanto rinnegate.

“Ribellione adolescenziale”, fu la sue secca replica. “Enfin, un tempo avevo contemplato di divenire un bonzo buddista per sfuggire alle grinfie di mia madre, ma …”

“Ma …”

“Ma poi ho scoperto che ci si doveva rapare a zero e tiò che sacrifico le mia bella e fluente chioma!”, mi spiegò con spiazzante serietà, mentre rigirava possessivo tra le dita una ciocca tinta di biondo ed io dovetti trattenere una risatina, conoscendo quanto Shaka fosse in realtà estremamente vanitoso della sua capigliatura, che curava in modo quasi maniacale, tra una meditazione e l’altra. Ah sì, e i ripassi per le verifiche. “Comunque, ho trovato la soluzione, Momus.”

“E sarebbe?”, domandai preoccupato: ultimamente, avevo assistito a troppe manifestazioni della dea Follia per sentirmi tranquillo perfino con Shaka il Bonzo (mancato)- dalla – chioma- fluente.

“Niente di che, protesterò un po’ …”, mi rassicurò l’indiano, raccogliendo la sua valigia. “Ci vediamo stasera alla festa, ça va?”, mi salutò, avviandosi alla porta.

“Ouais … aspetta, quale festa?”, domandai perplesso, afferrando solo in quel momento l’ultima parola.

“Quella di stasera a casa mia! Eddai non guardarmi così, Momus, posso dare anch’io una festa ogni tanto o no?”

“Shaka … stai scherzando, vero?”, feci speranzoso, deprimendomi dinanzi alla replica dell’indiano.

“Ti pare che io abbia una faccia da burlone?”, disse schifosamente serio, prima di sparire nel corridoio. “E ricordati di portare le carte per lo strip-poker!”

Frustrato, emisi uno sconsolato ululato.

 

***

 

 

“Tiens, tiens così vogliono far sposare il Bonzo? Credi che ci inviteranno al rinfresco?”

Sbuffai, roteando esasperato gli occhi, alzandomi nel frattempo il bavero del cappotto, onde proteggermi le guance dallo sferzante vento autunnale. Se non fossero state le occhiate supplici di Aiolia e quelle minacciose del fratello, col cavolo che mi sarei ritrovato seduto in una panchina ad assistere agli allenamenti del piccolo Valavitis, affrontando le intemperie assieme a Milo, il quale aveva avuto la geniale idea di portare seco un termos di caffè bollente, preparato dopo pranzo nell’appartamento in centro. Inoltre, l’infaticabile scorpion si era adoperato di imbottirmi di maglioni e sciarpe prima di uscire, ricordandomi che ero ancora convalescente, nonostante le  mie proteste circa un’impressionante somiglianza con l’omino Michelin.  E mentre noi sedavamo intirizziti uno appiccicato all’altro, Aiolia correva  in maglietta e braghette corte in mezzo al fango, felice come Heidi sulle Alpi.

Così, ne approfittai per discutere con Milo su ciò che Shaka mi aveva rivelato e m’irritava il fatto che lui l’avesse presa alla leggera: sfido, il ragazzo non aveva avuto il privilegio di possedere una famiglia attaccata come una patella alle tradizioni del loro paese natale. Tuttavia, dopo un calmante colpetto di tosse, Milo ritornò serio:

“Allora la famiglia di Kumar l’ha imbrigliato in un fidanzamento?”

“Già.”

“E non si è opposto all’idea?”

“Al contrario! A quanto parrebbe il suo bizzarro comportamento, il suo nuovo look e il buddismo non sono altro che una forma di ribellione nei confronti della sua famiglia!”

Milo aggrottò le scettico la fronte. “Beh, non si è dato tanto da fare … A proposito, cos’è che stasera Kumar dà una festa?”

“Ne so quanto te, giuro!”

“Mah, spero solo che Kumar non abbia intenzione di fare come Petronio Arbitrio, ovvero leggerci all’improvviso il suo testamento e poi svenarsi davanti a noi!”, scherzò il ragazzo, ridacchiando all’immagine di uno Shaka in toga disteso sul triclinio e con una corona d’edera in testa, intento a bere una coppa di vino rosso, mentre dai polsi colava liberamente il sangue vitale.

E chissà perché, venne anche a me da ridere.

“Hai letto gli Annales Tacito, per caso?”, chiesi tra un risolino e l’altro, ricordandomi della descrizione da parte dell’autore della morte dell’arbiter elegantiarum di Nerone.

“No, Quo Vadis? E comunque, non sei molto silenzioso quando ripassi per i compiti, caro il mio Ionesco! Oggi avevi la verifica su Petronio, se non sbaglio …”

“Mah!”, sospirai, ritornando serio e calandomi il bonnet di lana fin quasi a nascondermi gli occhi. “In ogni modo, sono preoccupato per Shaka: capelli tinti, lenti a contatto, feste … non è da lui! Dio solo sa che cos’altro potrebbe portarlo la disperazione! Mi ha promesso di non combinare casini, eppure quando mi ha detto che avrebbe protestato coi suoi, chissà perché non ho avuto un buon presentimento!”

“Forse perché stai diventando paranoico! Vedi guai dappertutto!”

“E questo grazie a chi?”

“Eddai Ionesco! Che vuoi che faccia quel Santone?”

“Non sottovalutarlo, potrebbe sorprenderti!”

“Non merci, sono già impegnato nello studio di un paguro - pinguino e non vorrei ulteriormente incasinarmi la psiche nel decifrarne un altro!”, dichiarò Milo gioviale, solleticandomi il setto nasale, l’unica parte del mio viso rimasta nuda. E fu un bene, ché non gli diedi la soddisfazione di vedermi arrossire fino alla punta delle orecchie. Poi, alzandosi di scatto, gridò a pieni polmoni al fratello da dietro la rete metallica, che ci separava dal campo di rugby: “Hey, pelandrone d’uno Spelacchiato! Fai ‘sta cavolo di meta o stasera cucini tu!”

“Jamais! Maaaaaaiiiiiiiiiii!”, ruggì il lionceau di casa, correndo come un invasato e segnando un magnifico punto, anche se questo significò un tuffo acrobatico nella melma, dalla quale Aiolia riemerse alla Ursula Andress, solo senza bikini, senza coltello allacciato alla gamba e soprattutto, senza ispirare voglie di abbracciarlo.

 

 

***

 

“4 euro e 10”, dichiarò senza troppo entusiasmo la giovane commessa, di certo già provata da mille e più scenette analoghe e desiderosa di terminare il suo turno, tornare a casa  e mandare tutti al diavolo.

Infilai la mano nella tasca e cercai frettolosamente le infide monetine incastrate nelle pieghe dei miei calzoni. Ne estrassi una disordinata manciata, cedendole la cifra esatta. Dopodiché, preso con una mano lo scontrino e con l’altra la sporta, lasciai la livida e fredda luce del supermercato per immergermi nel buio pesto di una serata di metà novembre.

Il motivo di quella mia spedizione era dovuto alle sbucciature, ematomi, tagli e altre piccole ferite riportate da Aiolia dopo l’allenamento sauvage di rugby (ed era solo un’esercitazione, figurarsi una vera partita) e siccome la vecchia casa era sprovvista di disinfettate e cerotti, i quali erano stati trasferititi nella mia, mi ero diretto alla volta del supermercato, ignorando l’offerta di Milo di accompagnarmi.

Non sono mica imbranato fino a questo punto, eh!

Va bene, Ionesco, se ci tieni vai pure, ma non passare per il parco, di sera non è sicuro!

 Uffa, chi ti credi di essere?

E così ero partito.

Nel preciso istante in cui uscii dall’edificio mi sovvenni di questo dialogo, specie quando la scura silhouette del cancello del detto parco si stagliò dall’oscurità, grazie alla fioca luce del lampione lì accanto.

Mi umettai le labbra, attirato dalle cupe sbarre come una falena. Che male poteva accadermi, se lo attraversavo? Inoltre, sarei tornato a casa prima, eh sì, il nostro quartiere era proprio dietro ad esso! Altrimenti, sarei stato costretto a compiere un giro assurdo e sinceramente non ne avevo voglia, anche perché fra due ore saremmo dovuti essere a casa di Shaka per la sua misteriosa festa. A quanto pareva, il mio amico non solo aveva invitato le sue conoscenze più intime, bensì tutti compagni del suo corso! Una vera invasione barbarica!

Valicai dunque il cancello e camminai a passo spedito per i vialetti poco illuminati, trattenendo quasi il fiato e i nervi a fior di pelle, soprattutto quando le mie orecchie percepivano qualche bizzarro fruscio tra le foglie – è il vento, Camus, è il vento! – strani scricchiolii – espèce de trouillard, è la ghiaia sotto le tue scarpe! – e versi molto discutibili – gufi, nient’altro che gufi! Sei un fifone, Camus! Vergogna, non crederai mica a tutto ciò che ti rifila Milo, spero? Voleva solo metterti paura, per poi farti fare la figura della chochotte!,  mi rimproverava severa la parte più fredda e razionale del mio cervello.  Peccato che, al contrario, in quel momento fosse la più irrazionale a guidare il mio corpo, il quale galoppava quasi, scrutando con insolita intensità davanti a sé, onde cogliere la sagoma dell’agognato cancello d’uscita.

E quando lo vidi, mi misi a correre poco dignitosamente e tuttavia fiero di me per aver attraversato il parco, a discapito di quel che mi aveva detto Milo. Uscii contento dal cancello, respirando con maggior calma. Visto? Non era successo niente, assolutamente niente! Per che cosa mi dovevo preoccupar- …

Una dolorosa collisione con un’altra persona mi sbilanciò per un attimo, impedendomi di continuare. “Oh mi scusi tanto, non l’avevo vista, pardon … pardon …”, mi scusai, mentre mi massaggiavo il braccio dolorante per il colpo ricevuto, avviandomi poi verso casa.

Ma un’improvvisa stretta ai capelli mi bloccò; un violento tiro mi costrinse ad arretrare, fino a giungere sotto al naso del mio aguzzino, ché di sicuro bene non  mi stava facendo, non tenendomi per lo scalpo, il quale per la cronaca mi bruciava da morire, inumidendomi gli occhi.

“Olà, che maleducati che siamo! Cos’è, spintoniamo la gente ora?”, sibilò una voce roca dal fumo, trascinandomi sotto la luce del lampione. Alla sua battuta, udii un diverso numero di risolini commentarla.

Merde, non era solo.

La mano impietosa lasciò con mio grande sollievo la mia capigliatura, per ripiegare purtroppo alla spalla, che artigliò peggio di un’aquila, mentre mi sbatteva di schiena contro il palo del lampione. Per un istante, credetti di aver dimenticato come si respirasse e i personaggi che mi si presentarono davanti non mi aiutarono di certo.

Camus, mon cher, maintenant t’es dans la merde jusqu’au cou!

He –he, me l’ero proprio cercata! Davanti a me c’erano quelli che a scuola definivamo Les Poings Volants, o i pugni volanti, ovvero quel gruppo di bons à rien con i quali era meglio evitare ogni rapporto umano a meno che non si desiderava un bel cazzotto sullo stomaco. La loro banda era una bella parata di teppisti da ogni angolo di Mont-de-Marsan, nella quale erano presenti all’appello anche alcuni studenti del mio liceo.

Fortunatamente, riuscii ad evitarli per tutta la mia carriera scolastica e per questo ringraziavo Dio, la Madonna e tutti i santi del Paradiso: innanzitutto, perché dovevo già sopportare Milo; in secondo luogo, perché a confronto di quelli là, il detto scorpion era Madre Teresa di Calcutta. Infatti, gli sventurati che avevano avuto l’onore di subire le attenzioni dei Poings Volants erano stati costretti a due settimane in ospedale e un rapido trasferimento in un’altra scuola a causa del trauma subito. Eh sì, perché se stavi sul gozzo ad uno, i suoi compagni te la facevano pagare e siccome la banda aveva “agenti” un po’ ovunque, eri sicuro che prima o poi ti avrebbero messo le zampe addosso.

E ora io stavo per subire una lavata di capo piuttosto fisica da uno di loro, poiché avevo inavvertitamente urtato contro quell’energumeno grande e grosso dalla cresta biondo albino. Mi ricordava molto Jean – François … solo che non c’era Saga con il coltello e quello sarebbe stato rassicurante …

“Mi dispiace …”, mormorai lentamente, cercando di non apparire più spaventato del dovuto. “Non ti ho colpito apposta: stavo camminando e …”

Un inaspettato manrovescio mi fece girare la testa di 180° gradi. Dopo lo choc iniziale, percepii assieme al bruciore della guancia un sapore ferroso scivolarmi sulla lingua. Guardai i polpastrelli della mano, che era corsa a tamponare la guancia offesa e mi accorsi preoccupato che si trattava di sangue: urrà, mi aveva spaccato il labbro inferiore!

“Non parlare, se non ti do il permesso, p’tite gueuse!”, mi ringhiò contro quel bruto, come se avessi bisogno dell’autorizzazione di quel cervello da gallina per aprire la bocca! Ma chi si credeva di essere? E insultarmi, poi! Espèce de con!

“Hé, la p’tite poule è davvero maleducata …”, convennero i suoi compagni e non mi piacque affatto il modo con il quale si sgranchivano le nocche e stringevano qualcosa di lungo e metallico … “Forse ha bisogno di una lezione di buone maniere …”

… spranghe?!?

Con la forza della disperazione, dichiarai con voce insolitamente ferma: “Tzé, che bravi! In cinque contro uno, siete dei gran fighi per davvero!” Battuta kamikaze, ma se dovevo finire maciullato all’ospedale, almeno ci sarei andato con onore e non piangente e supplicante ai suoi piedi.

I cinque teppisti fecero un passo in avanti per subissarmi di botte, quand’ecco che un fascio di luce abbagliante, seguito da una brusca frenata, s’intromise nel nostro dibattito. Portandomi una mano sugli occhi a mo’ di scudo, riuscii a distinguere il motociclista, dopo che quest’ultimo si levò il casco.

“Cerchi rogne, Martìn?”, lo provocò il gigante, sempre tenendomi sempre ben stretto per la spalla, impedendomi di muovermi.

“No”, rispose con nonchalance Shura, facendo spallucce. “Tu?”, ributtò la questione il ragazzo, sorridendo maligno. “Rilassati, Magilla, non ho nessunissima intenzione di azzuffarmi con te, sono solo venuto a prelevare il pinguino, che tieni tra le zampe!”

La mascella dell’energumeno si contrasse pericolosamente, quanto la sua morsa sul mio povero arto martoriato. “Non credo proprio, Martìn, questo sgorbio ha un appuntamento per una plastica facciale completa”, affermò minaccioso e lui e i suoi compagni mulinarono le loro sbarre “Conti di unirti a lui, Martìn?”

Shura rise sommessamente e capii il motivo per il quale era così amico con Milo. “Belle spranghe … sì, sì … hé, ma io …”, disse, afferrando la sacca che teneva appresso e aprendola. “Io … ho Excalibur!”, dichiarò convito e il rombo di una motosega – sulla quale era sul serio scritto “Excalibur” in lettere argentate - risuonò nella fredda aria autunnale. “E ora vi faccio a fette!”, promise, scendendo dalla moto e mulinando come un maniaco l’attrezzo.

Come galvanizzati, i teppisti svanirono nel parco; l’ultimo ad andarsene fu proprio il bruto, cui Shura si premurò di gridargli dietro a pieni polmoni: “A proposito, Cassios, Aiolia ti manda i suoi saluti!” e giurai d’aver visto della seria preoccupazione nei suoi occhiacci da rettile.

Poi, fummo soli.

“M- ma vai in giro con una motosega?”, chiesi dopo un po’, intanto che il ragazzo la deponeva nella sua borsa. Temevo, infatti, di essere passato da un matto all’altro e ancora mi domandavo che diavolo Simba avesse combinato per aver causato simile reazione a quel gorilla malnato.

“Di norma no”, rispose Shura girandosi. “L’ho fatta appena riparare e proprio ora sono andato a ritirarla! E la mia contentezza era tale, che ho voluto mostrarla a quei babbuini! Se aspettavano ancora un poco, li avrei pure mostrato Tenseiga e Tessaiga!”, dichiarò sornione, dando un colpetto al gonfio borsone. Degno amico di Milo, sì sì …

“Spero che non ti creino fastidi con la polizia …”, mormorai flebilmente, tamponandomi nel frattempo il labbro gonfio e sanguinante con la manica.

Una risata simile ad un latrato fu la replica dello spagnolo. “Loro, la polizia? Tzé, con tutti i casini che hanno combinato e che tuttora combinano, è meglio che non si avvicinino alla centrale, se vogliono ancora vedere la luce del sole!” e montò sulla moto, accendendo il motore. “Yo, Molinier! Raccogli tutto e vieni, ti porto a casa!”

In fretta, raccattai la sporta della spesa caduta e mi posizionai dietro al ragazzo, infilandomi il casco che mi porgeva. “Comunque … merci, Martìn!”, lo ringraziai, rimproverandomi di non averlo fatto subito. Insomma mi aveva salvato da legnate certe o no?

“Umphf, non ringraziarmi, Molinier; non ti ho aiutato per il tuo bel musetto, bensì per il mio, che Milo mi avrebbe di sicuro strappato a morsi, se non ti avessi riportato integro!”

E con un poderoso rombo, partimmo alla volta dell’appartamento dei Valavitis. 

 

Il viaggio durò qualche manciata di minuti e mi dispiacque, ché mi stavo proprio divertendo: non ero mai salito su di una moto – una vera – e zigzagare tra le strette stradine del centro città mi riempiva di endorfina, facendomi quasi dimenticare che neanche dieci minuti fa rischiavo una visitina all’ospedale.

 E soprattutto, mi si strinse colpevole il cuore nello scorgere i miei fratellastri sugli scalini dell’entrata dell’appartamento, Milo seduto che batteva nervosamente il piede, martoriandosi  a sangue le nocche, mentre Aiolia camminava avanti e indietro con lo stesso incedere di un leone in gabbia, chiamandomi al cellulare che io sapevo benissimo essere nel mio zaino al piano di sopra.

Il primo a scorgerci fu il maggiore, il quale si mise velocemente in piedi, venendoci incontro a grosse falcate prima ancora che Shura frenasse. Inconsciamente mi strinsi alla schiena del ragazzo: Milo aveva la bocca piegata nella stessa severa smorfia assunta da Mamie, quando si preparava a sculacciarmi per una marachella compiuta.

“Hé, salut Milo!”, lo salutò Shura, spegnendo il motore. Aiolia ci raggiunse subito e si apprestò ad aiutarmi a scendere dalla moto, ma uno spintone del fratello lo ricacciò malamente indietro.

“Salut!”, replicò atono il giovane, tenendo sempre gli occhi puntati verso di me. “Et bien?”

“Ho trovato questo pinguino sperduto davanti all’ingresso del parco e ho pensato che vi appartenesse; così ve l’ho riportato!”, raccontò brevemente lo spagnolo, cedendomi alle chele del mio fratellastro, che ringraziò con un po’ più di sentimento, chiedendogli se desiderava fermarsi a casa loro per la cena. Con cortesia, Shura declinò l’offerta, spiegandoci che i genitori lo aspettavano. In ogni modo, ci saremmo rivisti a casa di Shaka. Poi, accese il motore e ripartì, inghiottito velocemente nella notte.

Rientrammo in casa e una volta lì, cedetti il disinfettante e i cerotti ad Aiolia per eclissarmi in seguito nella camera dei gemelli con la scusa che dovevo prendere qualcosa dallo zaino. In realtà, desideravo tamponarmi di nascosto il labbro spaccato, prima che i miei fratellastri se ne accorgessero.

Non ebbi fortuna.

“Siediti!”, mi comandò secco Milo, irrompendo nella stanza con una bacinella riempita d’acqua fino all’orlo e un asciugamano umido appresso. Dall’odore che proveniva da essa, intuii che il giovane l’aveva corretta con del disinfettante.

“Pardon?”

“Zitto e siediti, Ionesco! Niente storie, capito?”, ribadì con lo stesso tono, spingendomi giù per terra e, afferrandomi brusco il mento, mi premette l’asciugamano senza tanta delicatezza sulla ferita, causandomi un miagolio di dolore. “Brucia, eh? E questo è niente paragonato a quello che quei porci avevano in serbo per te! Tzé, non mi guardare con quella faccia, Ionesco! Tanto lo so che sei passato per il parco, che credi, che sia cieco par hazard? O stupido? Hai una vaga idea di quel che ti avrebbero combinato? Ce l’hai? Umphf, ti avremmo raccolto col cucchiaino da caffè! Sì, hai capito bene! Prima ti avrebbero estratto la colonna vertebrale a randellate, seguita dal resto delle ossa, il tutto divertendosi a turno tra le tue cosce! E questo a nostra insaputa, perché Sa Majesté des Glaces non si abbassa a portare seco il cellulare, oh no, solo i popolani, i plebei lo fanno!”, ormai Milo era partito per la tangente e non pareva incline a voler tornare subito indietro. Da pallido, il suo viso si era macchiato di larghe chiazze purpuree , una vena gli pulsava sulla tempia e non mi piacque il modo in cui i suoi occhi avessero assunto una cupa sfumatura rossastra, esattamente compagna a quella di Saga, quand’era alterato. “Perché sei passato attraverso il parco, me lo spieghi? Ti avevo detto di no, che non dovevi, che era pericoloso a quest’ora! Perché non mi hai ascoltato? Pensavi che ti stessi pigliando per i fondelli? Eh? O quel che dico per te è solo merda? O sei così ottuso da non capire che lo dicevo solo per il tuo bene? Mi hai fatto morire, bastardo, morire! Ti odio, ti odio immensamente Camus! Je t’hais!”, sibilò, artigliando il mio volto tra le sue mani tremanti per la collera, il suo respiro bollente che sferzava impietoso la mia pelle.

Ora mi picchia, oh se mi picchia!, pensai apprensivo, allargando gli occhi come un gatto sorpreso dalla luce. Evidentemente, suscitavo istinti sadici nelle persone …

“Je t’hais …”, ripeté, calando febbrile le sue labbra sulle mie, accarezzandole, adulandole e corteggiandole con la punta della lingua, nonostante mi ostinassi caparbiamente a tenerle serrate. Intrigato dalla sfida, Milo, maligno, mi pizzicò leggermente al fianco, là dove sapeva ch’ero sensibile al piripicchio, approfittandone della mia esclamazione di sorpresa per approfondire il bacio.

 Cercai di liberarmi da quell’abbraccio, ma il mio corpo stesso fu il primo a disertare la mia volontà: invece di storcere il viso, lo portavo ancora di più verso quello di Milo e le mie mani, posate sul suo petto, al posto di spingerlo via si erano artigliate alla sua felpa, trascinandolo quasi verso di me.

Cedetti, che altro potevo fare? Non dovevo, non potevo lasciarmi andare così, senza ritegno alcuno! Eppure, eppure … ne avevo tanta voglia …

Abbandonai la lotta, permisi alla lingua libertina di Milo di giocare liberamente con la mia, ripagandolo poi con un languido gemito, quando percepii la sua mano accarezzarmi la sensibile pelle della nuca.

Fu allora che il ragazzo interruppe il bacio, spiandomi ora intenso ora ambiguo attraverso le ciglia dorate. “Finisci di disinfettarti, la cena è pronta!”, mi disse in tono perentorio, sciogliendosi veloce da me e dirigendosi fuori dalla stanza. Non riuscì a fare tuttavia un passo, che sbatté contro Aiolia, il quale – pover’anima – dovette subirsi una lavata di capo con tutti i crismi da parte del fratello e solo quando Milo si fu sfogato ben bene gli fu concesso di giustificarsi, affermando candido che era venuto a farsi mettere sulla scapola il cerottone, ché gli risultava ostico da solo. Con una sonora manata, il fratello l’accontentò.

“Oh, ma che gli è preso?”, si lagnò Aiolia, massaggiandosi l’omoplata dolorante. E davanti alla mia espressione disorientata, continuò: “A volte darei il braccio destro per sapere che gli passa in testa: è più schizzato di Saga e ce ne vuole, ce ne vuole …”

E mentre mi tamponavo nervosamente il labbro inferiore, non potei essere più d’accordo con lui.

 

***

 

Che Shaka Kumar fosse un tipo con della grana, era un postulato, una verità fondamentale e indiscutibile. Come con il vecchio Euclide e le sue rette parallele.  E che Shaka fosse l’unico studente di tutto il Collège d’Etat et Lycée Victor Duruy di Mont-de-Marsan ad organizzare una festa in casa contenendo una cinquantina di persone evitando furti e danni, beh, anche quello era un fatto assodato.

Infatti, la sua maison possedeva un’ala tutta particolare, riservata a feste e raduni per ogni genere d’occasione il tutto, però, lasciando gli ospiti isolati dall’edificio principale, impedendo loro di vagabondare nelle stanze private dei padroni di casa.

Quand’ero ancora un gosse di sesta collegio e conobbi per la prima volta il mio amico, quella villa mi aveva sempre ispirato una certa soggezione, più che altro per la sua ampiezza: fornita di quasi venti stanze e un dedalo di scale e corridoi, ancora oggi mi è difficile ricordare quante volte mi persi lì dentro. Inoltre, tutte le mie conoscenze sulla religione induista le acquisii lì, raccontatemi da un entusiasta Shaka, prima che il buddismo lo rimbambisse irrimediabilmente.

Non fu difficile riconoscere l’entrata per la sala adibita apposta per la festa: bastò seguire l’infernale baccano proveniente da essa, accompagnato da fasci di luci multicolori, che fendevano l’inchiostro della notte. E una volta dentro, notando il carnaio di gente danzante, mi chiesi quanto la notizia del prossimo matrimonio avesse in realtà sconvolto Shaka, da spingerlo a dare feste-masnade, lui che era un amante del silenzio e della tranquillità.

“Vedete Shaka, par hazard?”, domandai a Milo, mentre salivo in punta dei piedi per distinguerlo dalla mandria. Accidenti, aveva sul serio invitato tutti quelli del suo corso …

“Cosa?”, fece lui, avvicinandomi l’orecchio, essendo state le mie parole inghiottite dalla musica, anzi no, dal rumore rimbombante per la sala.

Shaka, lo vedi?”, mi sgolai, amplificando con le mani la mia voce.

Allungando il collo, Milo scosse sconfitto il capo. “No! Credo che dobbiamo andare al centro della sala!”, urlò, sottolineando il suo intento con un significativo puntare l’indice dove la massa danzante era più concentrata.

“Gueh?”, feci disorientato, per nulla entusiasta dell’idea di sfondare quel muro umano.

Al centro della sala!”, ripeté il mio fratellastro con maggior veemenza, spolmonandosi ad ogni parola. Hé, tra lui e me, di questo passo rischiavamo di rimanere senza voce il giorno dopo!

“Non ti sento!”

“Muovi le fesses e seguimi!”, sbottò frustrato il ragazzo, pigliandomi per il polso e trascinandomi tra la folla, facendosi spazio con il braccio, il tutto saltellando a ritmo di musica. Della serie, uniamo l’utile al dilettevole. E solo in quel momento, girandomi indietro, mi accorsi di un piccolo dettaglio che mi era precedentemente sfuggito.

“Milo! Abbiamo perso Aiolia!”, lo informai, evitando per un soffio un regale pestone al piede.

“Che?”, domandò assordato il giovane, abbassando lievemente il capo, onde sottrarsi ad una frustata di capelli diritta in faccia.

Aiolia!”, gridai forte, eludendo con un agile balzo una gomitata riservatami allo stomaco.

“Che ha combinato?”

“Non c’è più!”

“Bah, sarà andato a trastullarsi con qualche ragazza … a quanto parrebbe, molte nanas del liceo gli corrono dietro e lui non si risparmia di certo …”, mi riferì cupamente geloso il di lui fratello, mentre afferrava al volo una giovane ballerina, che, avendo perduto l’equilibrio, gli era cascata accidentalmente addosso. E forse neanche troppo per caso, giacché prima che Milo ed io potessimo rendercene conto, il primo si ritrovò accalappiato da lei, svanendo sotto i miei occhi in un battibaleno e lasciandomi solo come un cretino, senza sapere dove andare e come uscire da quel tritacarne ballante.

Ok, Camus, ce la puoi fare! Sgomita a gogò e vedrai che da qualche parte ti liberi!

Presi fiato e quasi dovessi immergermi, mi buttai a capofitto nella mischia a mo’ di partita di rugby, sbracciando di qua e di là assieme ai “Permesso! Permesso!” di cortesia, ricambiati con sonore imprecazioni e qualche maligno spintone. Ciononostante, venni espulso dalla massa amorfa, planando in una seconda saletta più appartata e dove la musica giungeva più soffusa.

In altre parole, il bar.

Zoppicando – non mi ero salvato dall’ultimo pestone– raggiunsi il bancone, sedendomi esausto e con un piede gonfio e dolorante che era una meraviglia, senza dimenticarsi dell’ematoma grande come il Pacifico sul braccio.

“Vuoi qualcosa da bere?”, mi domandò il fin troppo zelante barista “E magari un po’ di ghiaccio?”, aggiunse, notando con quanto vigore mi stessi massaggiando l’arto offeso.

Seigneur, che figure …

“Sì, grazie. Qualcosa alla frutta per favore …”, dissi, imbarazzato che mi vedesse in quello stato pietoso. Il barista annuì, mettendosi subito all’opera, intanto che io aspettavo annoiato, tamburellando le dita sulla liscia superficie del tavolo. Non avevo mai amato quel genere di feste, un po’ perché odiavo il baccano della dance elettronica in tutte le sue varianti - techno, house, trance, hardcore, gabber e bla bla -  un po’ perché non essendo abituato ad andare a simili feste, non sapevo come comportarmi e mi sentivo profondamente a disagio.

“Ecco qua”, annunciò il barista, portandomi contemporaneamente un bicchiere d’un blu intenso e un pacco di ghiaccio, che applicai subito al braccio. Incuriosito, assaggiai poi la bevanda e fu come se mi avessero acceso lungo l’esofago un incendio, peggio di quando ero costretto ad assumere il miracoloso Armagnac di Mamie.

D’impulso, sputacchiai tossendo il liquido molesto, cercando allo stesso tempo di non apparire davanti agli altri avventori del bar come un sempliciotto provinciale, il che era vero, ma non era necessario che lo sapessero.

“C-che diavolo è?”, domandai al barista in un filo di voce, pizzicandomi in effetti ancora troppo la gola per parlare normalmente.

Invece dell’uomo, fu una voce femminile a rispondermi. “Hé, vodka orange! Tosto, vero?”

Mi girai di scatto verso la mia interlocutrice, che scoprii essere pressoché una mia coetanea dai lunghi e setosi capelli neri, occhi dello stesso colore e una pelle di un ambrato naturale; gli zigomi e il naso forte denunciavano le sue origini orientali. Era di schiena sul bancone e con i gomiti appoggiati su di esso, battendo a ritmo il piede prigioniero di un grazioso sandaletto nero, dal tacco tuttavia esagerato.

“Ti sei fatto male?”, s’informò, indicando con il capo il pacco di ghiaccio. Annuii e lei mi sorrise, mostrandomi il candore dei suoi denti. E un livido sulla coscia.

“Neanch’io mi sono salvata: detesto, quando c’è troppa gente! Non si riesce a ballare come si vorrebbe! Chiamami nostalgica, ma i balli di gruppo e in coppia restano insuperabili!”

“Per non parlare del casino! La conversazione è un’utopia!”, affermai, sedendomi un po’ più vicino a lei, dato che il rombo della danse elettronica giungeva perfino lì, impedendoci di discorrere normalmente, cioè senza alzare la voce come in pescheria.

“Vero! E il mal di gola del giorno dopo, invece, è una durissima realtà!”

“E la guele de bois!”, aggiunsi ridendo, indicando il bicchiere di vodka orange lasciato mezzo pieno.

La ragazza si unì alla mia risata, gettando indietro il capo corvino. “Sì, ma solo se si esagera!”, dichiarò gioviale. Poi, ricomponendosi sia nello spirito che nella postura, mi porse risoluta la mano. “Shirami Chopra, piacere!”

“Camus Molinier!”, mi presentai, stringendole la mano.

“Il miglior amico di Shaka, giusto? Lui mi ha parlato di te! Finalmente ti conosco!”, affermò con sincero entusiasmo, per nulla adulatrice. Quanto a me, ero onorato e allo stesso tempo imbarazzato da simile novità: Dio solo sapeva che cosa Shaka poteva averle detto sul mio conto …

“Senti, ti va di uscire in giardino? Così, per cicalare un poco …”, mi propose senza peli sulla lingua e, dinanzi al mio attimo di stupore – io, parlare a tu per tu con una ragazza? -  Shirami aggiunse: “Hé, puoi fidarti, mica ti mangio! Il fatto è che non sono di qui e non conosco nessuno, tranne che per Shaka e, purtroppo, mio fratello Kunal. Tu sei qui solo, io sono qui sola, mal comune mezzo gaudio, o mi sbaglio?”

“Sillogismo perfetto!”, mi arresi ridendo e un poco più rilassato, seguendola verso il parco qual era il giardino dei Kumar. Scegliemmo un posto appartato, vicino ad una fontana. Lungo il tragitto, ci imbattemmo in un gruppetto confabulante, il quale, appena ci vide insieme, incominciò a ridacchiare malizioso e a muovere con maggior vigore la lingua. “Oche”, li congedò in fretta la ragazza, sedendosi al bordo della vasca marmorea.

“Allora”, ripresi il discorso, cedendole la mia giacca nel vederla rabbrividire, nonostante il vestito a maniche lunghe. Novembre era novembre e non si sfuggiva al suo freddo e tuttavia la giovane mi pareva molto più sensibile rispetto alle altre ragazze, le quali vagabondavano sbracciate per il giardino senza crucciarsi più di tanto. “Anche tu conosci Shaka?”, chiesi, ricominciando dal punto che avevamo in comune, ergo il mio amico.

Shirami sospirò profondamente sconsolata. “Purtroppo”, ammise. Quando’ecco che la sua bocca s’allargò in un sorriso burlesco e svelò il mistero: “Kasha è mio cugino!”

“Sei dunque sua parente?”, m’informai leggermente stupito: beh, non era una novità che Shaka avesse una famiglia numerosa. Inoltre il nomignolo Kasha era un amore.

“Ben oui! Non ci assomigliamo?”

“Affatto!”

“Sfido! Mica sono così folle da tingermi i capelli di biondo!”, scherzò la ragazza rossa in volto, coprendosi la bocca ridente con la manica della mia giacca.

“E le lenti a contatto blu!”, puntualizzai altrettanto gioviale, asciugandomi una lacrima scappata dal tanto ridere. Mi calmai con un colpetto di tosse e ripresi nel mio interrogatorio, intrigato nell’apprendere che l’indiano possedesse una cugina così briosa. “E dimmi … sei anche parente di Chandra?”, inquisii, ricordandomi il nome della promessa di Shaka. E la risposta di Shirami superò ogni mia aspettativa.

“Sì, quella è mia sorella. Siamo in tre: Kunal, io e Chandra. L’altro ieri siamo giunti qui in Francia dal Rajasthan  e ora i miei sono con gli zii e i miei cugini maggiori a Parigi – sai, per svagarsi in famiglia. Però io mi annoio un sacco con loro -  mi dispiace, ma non ci posso fare nulla - così ho convinto il mio Pita Asmita a lasciarmi venire a trovare Kasha, che per la cronaca ha disertato anche lui la riunione di famiglia. Un vero affronto, ché fra poco lui si fidanza!”, e disse l’ultima frase falsamente scandalizzata, roteando melodrammatica gli occhi.

“Ti ha accompagnato tuo fratello, qui?”

Sporgendosi in avanti, Shirami mi fece cenno con l’indice ad avvicinarmi di più al suo viso, sussurrandomi poi con tono complice: “Ovvio, se non ho un parente maschio che salvaguardi la mia virtù, non mi vorrà più nessuno come moglie!”

“Triste!”

“Eggià!”

“E tua sorella?”

“A Parigi!”

Per sua fortuna, poiché Shaka non la voleva vedere neppure dipinta. Un vero peccato, che la sua famiglia non lo avesse fidanzato con Shirami: lei mi pareva una ragazza davvero socievole e simpatica, una vera scossa di vita per il mio amico …

Chiacchierammo per un bel po’, dimentichi del tempo che passava e della gente, che simile a pallidi spettri ci scivolava accanto mormorante, lanciandoci qualche occhiata distratta e tuttavia sempre con un sorrisetto ebete stampato nelle loro facce. Tzé, discorriamo tanto di esserci emancipati su quel che concerne la nostra vita sentimentale, ma in realtà ancora giochiamo ai puritani con smorfie e sghignazzamenti vari, quando si pizzica un ragazzo cicalare con una ragazza.

Nel frattempo Shirami si era accesa una sigaretta, riuscendo a persuadermi ad imitarla. Era in vena di sfogo e da quel che appresi, suo padre – il famoso zio Asmita – da quando il glaucoma lo aveva privato della vista, era divenuto veramente asfissiante nei confronti delle sue figlie, riempiendole di lezioni austere circa la morale, il decoro e la religione e la giovane aveva avuto il suo bel daffare a mantenere il suo stile di vita very liberal, come mi disse in un inglese pieno di singulti (retaggio della lingua natia; noi ad esempio portiamo la croce della erre). Il fidanzamento del cugino Kasha era giunto davvero inaspettato: il suo Pita aveva davvero superato se stesso! Anche perché la testardaggine granitica del giovane era conosciutissima in famiglia.  Quanto le sue liti con lo zio, del resto.

Da me seppe le solite cose, non sono mai stato un tipo ciarliero e questa è cosa risaputa. O forse, prima dell’arrivo della masnada franco – greca la mia vita non era poi così interessante. Difficile dirlo. Tuttavia, Shirami era ugualmente attenta, in particolar modo quando le raccontai del mio rapporto con lo scorpion terrible di casa (dettagli intimi esclusi). Una volta terminata la mia confessione, lei aprì la bocca per darmi il suo responso, ma fummo preceduti da Shaka, il quale sbucò all’improvviso come le talpe, letteralmente fulminato quando ci  pizzicò a parlottare insieme: mai, mai l’avevo visto così sorpreso in vita mia, beandomi dello spettacolo della sua mascella cascante e dei suoi occhioni blu finto spalancati.

“Oh ciao Kasha”, lo salutò la cugina affatto imbarazzata o estremamente abile nell’arte della dissimulazione. “Stavo chiacchierando con Camus e … oy, Kasha ma che fai? E lasciami, bruto!”, protestò la ragazza, essendo stata prelevata di forza da un cugino fumante di collera (perché arrabbiarsi così, poi?) e trascinata con la delicatezza che solo noi maschi possiamo avere, quando sospettiamo l’esistenza della geometria dei sentimenti più antica del mondo. “Eddai, molla la presa … la giacca … restituirla …”, furono le ultime parole che udii dalla strana coppia – lui che procedeva e lei che arretrava – prima di vederli inghiottiti dalla villa; ciononostante Shirami era comunque riuscita ad inviarmi un ultimo messaggio circa una futura riconsegna della mia giacca, mulinando il braccio rimastole libero.

Sospirai, dispiaciuto di non poter più godere del cicaleccio di Shirami e decisi quindi di vagabondare nel giardino, raggiungendo la seconda fontana leggermente più distante dalla prima.

Forse avrei fatto meglio a ripararmi nell’anonimato offerto dalla folla, invece di isolarmi, poiché venni raggiunto dallo stesso gruppetto che aveva osservato a maliziosa distanza tutto il mio colloquio con la cugina di Shaka. Era un fritto misto di maschi e femmine e tra di loro intravidi una ragazza che avevo l’impressione di averla già notata da qualche parte, anche se non riuscivo a ricordare dove e in che occasione. Il suo viso mi aveva colpito perché sembrava il più partecipe al frenetico dibattito scatenatosi.

“Je ne l’aurais jamais cru!”, mormorava infatti, scuotendo il capo ricciuto. “Jamais!”, pose l’accento con maggior vigore, quasi volesse convincere più se stessa, che i suoi ascoltatori.

“Eh ben, voyons, c’est vrai!”, fu la gentile distruzione delle sue illusioni da parte di un’amica.

“Toujours ensemble! Ils ne querellent même plus!”, rincarò la dose un ragazzo accanto all’amica.  Hé, ora uno non poteva più litigare che diveniva oggetto di pettegolezzo?

Ancora poco convinta, la giovane riprese con vivacità le sue argomentazioni. “Mais lui, avec … avec un gars! Lui, qui courait après les jupes de toutes les nanas du lycée !” Oh Seigneur, a quanto pare, qualcuno era saltato nella barricata opposta della sessualità …

“Et ça, c’est rien ! Il est son frère !”

“Ah non ! Son demi - frère ! De toute façon, ce n’est pas moral !”

Un brivido freddo. Fratellastro ? Mon Dieu, non stavano mica parlando di … no, dai, a questo mondo c’erano tante persone con dei fratellastri …

“Moi, je me demande ce qu’ils font chez eux !”

“T’as raison. Mais je suis sûre, que la faute est toute à Molinier ! C’est lui, qui l’a séduit, avec son visage de Vierge Marie  en porcelaine, quand en réalité  il n’est qu’un pervers lubrique qui aime se faire grimper par derrière comme une vieille jument à la saillie !”

Gelai.

Non seppi cosa esattamente di quell’affermazione mi avesse sconvolto, se l’aver sedotto un ragazzo – incominciavo pure a sospettare chi -  se l’esser stato definito un pervertito; se l’esser stato pure paragonato ad una giumenta vogliosa o se l’essere stato semplicemente nominato. Io, al centro di un sì volgare pettegolezzo?

“Quoi ? Molinier ? Qu’est-ce que tu chantes? Il est un atrophié sentimental!”

“Ouais, un mec frigide, ennuyeux et coincé ! Il ne connaît même pas son propre sexe !”

 Oh, ecco cosa pensavano i miei compagni di me ! Buono a sapersi !  Oddio, era vero che non ero un campione di vivacità, ma … ma … frigido? Noioso? Ingessato? E … e …  cosa aveva detto prima ? Ah sì, l’atrofizzato sentimentalmente !   

“Hé, visage d’ange, cœur de glace, corps de luxure ! Et il n’y a rien de pire pour intriguer les instincts prédateurs d’un coureur des jupes !”, dichiarò saggiamente un altro ragazzo, incrociando le braccia e annuendo pensieroso con il capo, contribuendo così ad accrescere le sofferenze della giovane ricciuta. E le mie. Dunque sul serio si pensava in giro che io stessi seducendo lui, facendo il finto vergine riottoso? Ma per favore!

Spietata come solo un’amica moralista poteva essere, la biondina infierì crudelmente :“ Ouais, coureur des culottes, tu veux dire ! Probablement, il s’agit d’une tare génétique : si tu te souviens, son frère, le mineur des jumeaux … lui aussi avec les mecs … ” Uf, ancora con queste teorie darwiniane sulla tara genetica ! Eppoi, non mi sembrava che tutti e quattro fossero interessati ai maschi … insomma, gli altri due erano ... ehm … a posto … forse …

Inflessibile, la riccioluta riprese con l’insistente litania di chi non aveva più valide argomentazioni da offrire, eppure allo stesso tempo non voleva darla vinta a quelle più convincenti: “Je ne crois pas ! Je ne peux pas y croire ! C’est trop grotesque !”

Tzé, che avrei dovuto dire io, che stavo ascoltando mio malgrado tutte le vostre baggianate, delle quali ne ero il protagonista principale?

“Tu dois, ma chérie, tu dois ! Il y a des preuves !”, sottolineò zelante l’amica, scuotendola leggermente per il braccio.

“Mais pourquoi lui ? Pourquoi mon petit ami ?”

Un momento … fidanzato ? Oh la la, mica era … uhm … come diavolo si chiamava quella ragazza … uh …

“Hé, Molinier n’est pas si dupe comme on le croit ! Il a bien comprit que si il veut qu’on le laisse en paix, enfin, que il le laisse en paix … eh bien, il doit lui accorder de temps en temps une récréation avec ses fesses !”

Io cosa ?!? Non avevo bisogno di prostituirmi per farmi lasciare in pace da chicchessia, men che meno da lui!

“Et il doit vachement bien le satisfaire … maintenant il ne s’approche plus à personne … ”

Il fatto che lui non avesse più relazioni con altre persone, non significava che io ci andassi a letto, no? O che io in qualche modo l’attirassi …

“Hum, il n’est plutôt pas mal …”, ridacchiò uno stupidotto, lanciandomi un’occhiata maliziosa, la quale s’attardò volutamente sul mio posteriore, quasi avessi un cartello di conferma appiccicatovi sopra.

Comme vous êtes vulgaires …

“Hé, Molinier! Come mai senza giacca?”, si decise a gridarmi dietro, con i risolini dei suoi compagni come sottofondo. “Abbiamo caldo?”

“O sei in procinto di farti montare dal tuo focoso stallone greco?”

Altro scoppio di risa sguaiate, venate dall’appassionata protesta della giovane ricciuta. Quanto a me, restai rigidamente seduto ai bordi della fontana, dando loro le spalle e rifiutandomi di rispondere ai loro abbietti insulti. Speravo così di scoraggiarli, ma gli spiriti erano ormai troppo alti per rinunciare allo sfottò ai danni del Malaussène del corso.

“Hey, dì un po’: quanti blow job fai a Valavitis, affinché non ti tormenti, uh?”

Nauseato, mi alzai dal mio posto e mi avviai verso la villa, impaziente di accomiatarmi dai loro osceni lazzi. Non avevo ben capito che cosa fosse esattamente un blow job (e in tutta onestà non ero così ansioso di scoprirlo), eppure il mio settimo senso, quello riservato all’autoconservazione in caso che il sesto fallisca, mi diceva che non era qualcosa di piacevole, anzi, piuttosto sconcio …

“Ma no, ma no, che blow job! Lui è un pianista, gli farà gli hand job! Vero, virtuoso?”, ghignò l’altro babbuino, trattenendomi per un braccio e impedendomi di proseguire verso la mia meta. “Oh Molinier, dove stai andando? Avanti rispondi! Quante volte al giorno ti fai scopare da Milo? Eh?”

Con un gesto secco e violento mi scrollai quella fetida manaccia di dosso; dopodiché, alzando caparbio il mento, dichiarai con fredda dignità: “La tua domanda è così volgare, che non merita alcuna risposta!”

Risa e fischi. Oh, la gattina mostrava le unghie!

“E ti dirò di più. Lo sai che quelli che s’interessano alla vita sessuale degli altri o sono dei pervertiti oppure la loro è così insoddisfacente che traggono un morboso godimento nell’ascoltare quella degli altri?” e fu il mio turno di sogghignare compiaciuto. Hé, i vantaggi di studiare materie umaniste!

“Toi, sacré pédé …”, ringhiò lo scornato, bramoso di lavare l’onta col sangue e per la cronaca col mio. Levò il pugno per colpirmi, ma io fui più veloce e lo scansai, ricambiando con un bel gancio, il quale ebbe solo  l’effetto di farlo indietreggiare ed infatti un secondo pugno non attardò a martoriarmi lo zigomo, costringendomi in una piroetta e poi per terra.

“Tiens, tiens, qui c’è qualcuno che adora il sadomaso! Che dici, Molinier? Un secondo giro? Milo ti picchia anche lui quando ti …” e si preparò a colpirmi di nuovo. Alzai il braccio per difendermi, pronto a parare il pugno che però non giunse mai. Disorientato, mi guardai attorno e capii il motivo per il quale tutti gli astanti – me compreso – stessero trattenendo il fiato.

“Hé, doucement, mon cher, doucement … ”, soffiò sorniona la voce di Milo, il quale teneva ben stretto il polso del mio aggressore, non senza avergli rigirato dietro la schiena il braccio, torcendoglielo dolorosamente. “Non vorrai mica menare il miglior amico del padrone di casa? Dubito che Kumar apprezzerebbe …”, disse mollandogli il braccio e sistemandosi in mezzo a me e al giovinastro, il quale lo fissava malevolo.

 “Ma sì, Valavitis, difendi pure la tua puttana!”, lo provocò quest’ultimo, ignorando il riflesso cremisi degli occhi di Milo, al quale tremava di collera repressa la mano offertami per rialzarmi.  Con lo sguardo, lo supplicai di lasciare perdere, di non cedere alla provocazione. Non ne valeva la pena.

“Puttana?”, ripeté dolcemente il mio fratellastro, girandosi. “Puttana?”, risata gutturale, battendo sulla spalla del ragazzo. “E tua madre?”

“Fils de …”, ringhiò quello, cadendo nel tranello di Milo e attaccandolo, fornendogli il pretesto adatto per rispondere e menarlo come era in suo programma sin dal primo istante in cui mi vide a terra con la guancia bordeaux.

Rapido come il demonio, Milo gli bloccò il pugno, elargendogli a sorpresa una gomitata allo stomaco, costringendo il suo avversario in ginocchio. E con la medesima rattezza, si posizionò dietro al giovane, afferrandogli crudelmente i capelli. “Chiedigli scusa! Avanti, fai il bravo bimbo: chiedi scusa e pace fatta!”, gli consigliò con voce zuccherosa e allo stesso tempo maligna.

Il suo prigioniero oppose resistenza per qualche istante, ma uno strattone lo convinse altrimenti. Rosso di umiliazione, si scusò col sottoscritto. Solo allora Milo gli permise di rialzarsi, ricordandogli di frenare la lingua in mia presenza o altro. In quel momento compresi che in sette anni mi era stato riservato un trattamento di favore da parte dello scorpion: se quello era il suo vero ego aggressivo, di sicuro non me la sarei cavata con sole due cicatrici sotto il mento.

Di nuovo la nausea mi colse e m’inoltrai nella folta macchia del giardino, entrando nel piccolo labirinto e nascondendomi al suo interno, sotto la piccola torre pseudo - medievale. Dopo quella disgustosa scena, non desideravo nient’altro che eclissarmi per i prossimi cinque anni. “Vattene via!”, sbottai alla figura che si stava avvicinando a me, annunciatami dal rumore dei passi sulla ghiaia. “Va t’en!”, brontolai con maggior veemenza, storcendo le labbra come un gosse dell’asilo.

Soprattutto quando mi sentii avvolto dal caldo tessuto della giacca di Milo. “Riprenditela”, feci stizzito, nonostante me la stessi stringendo addosso più che contento. “La puttana non ha bisogno che ti preoccupi di lei!”

“Myskin!”, mi rimbrottò scherzosamente Milo, sedendosi accanto a me sulla panchina, sebbene a debita distanza. “T’es un idiot, tu sais?”

Non gli risposi; continuai a fissare caparbio la punta delle mie dita.

“Ignoravo fossi così bagarreur, attaccabrighe! Hé, non sono passate neppure ventiquattr’ore e già hai collezionato due risse!”, non si scoraggiò il mio fratellastro, guardando speranzoso nella mia direzione.

“E in entrambe ho rischiato di finire polpetta!”, gli ricordai puntiglioso, sempre rifiutandomi di ricambiare il suo sguardo: dopo quel che avevo udito, una strana vergogna si era insinuata in me assieme al dubbio, che forse il tarato fossi proprio io. Milo pareva così contento con quella ragazza … perché lasciarla? No, mi stavo dando troppe arie: dubitavo di possedere una qualche attrattiva per essere la causa primaria della sua rottura con lei.

“Sei arrabbiato con me?”

“Sì.”

“Volevi che quei due coglioni ti picchiassero per lo svago di quelle ragazze?”

“Avrei preferito. Sarebbe finita là. Invece, a scuola cercheranno di rifarsi su di me alla prima occasione.”

“Non oseranno”, dichiarò Milo con cupa confidenza. Fui tentato di voltarmi, ma la vista del cremisi ancora presente nel turchese dei suoi occhi mi inibiva di quel poco.

“Oh sì, dimenticavo che ho il mio magnaccia pronto a difendermi!”, replicai sarcastico, tuttavia in ansia per le intenzioni serissime del mio fratellastro, il quale sbuffò frustrato.

“Ionesco, ora stai esagerando! Non c’è bisogno di sminuirti ulteriormente!”

Senza pensare, mossi la lingua più veloce del mio cervello. “Perché allora mi hai difeso?”, chiesi, rivelando così tutta la mia sorpresa per quel suo gesto inaspettato.

La sua pronta replica non fu per nulla romantica. “Tormentarti è un mio privilegio e non mi piace condividerti con nessuno.”

“Onorato d’apprenderlo!”

Silenzio rancoroso.

Fu Milo – e chi sennò? – a compiere il primo passo. Sospirando a fondo, si sistemò più vicino a me, finché le nostre spalle non si sfiorarono. Si umettò le labbra a disagio e con insolito impaccio, confessò, o almeno questa era la sua intenzione, il vero motivo di quel mio salvataggio. “La verità … la verità è che … che ci tengo a te, sei ormai mio fratello … sei famiglia … m’infastidiva, ecco tutto!”, fu ciò che appresi dallo sbrodolo sconnesso di balbettii e frasi inintelligibili.

Osai alzare allora lo sguardo, puntandolo diritto contro il suo. “E se non fossi stato tuo fratello? Ti saresti unito a loro?”, la mia voce era d’un tratto venata d’ansia, quasi temessi una risposta affermativa o peggio, un tentennamento da parte sua.

“Mai!” e negli occhi color dell’Egeo potei scorgere nient’altro che sincerità. Mi sentii inspiegabilmente sollevato e felice. Rasserenato. E terribilmente curioso.

“Perché?”

“È una domanda cui al momento non posso darti una risposta precisa. Un’altra volta, per favore.”

Ancora un silenzio malsano s’instaurò tra noi. Merde, ogni passo che compivamo in avanti, erano due indietro. Credevo di essere io la trincea introversa, ma anche Milo sapeva tenere i suoi segreti all’occasione e anche molto tenacemente. Una vera guerra di posizione, dove bisognava sudare per un brandello di terra e nel nostro caso di confidenze. “Ti sarò parso patetico …”, ripresi senza rendermene conto. Non sopportavo il silenzio tra noi due. Era nocivo. Eppoi, adoravo sentire cicalare il mio fratellastro, era rassicurante, anche se non l’avrei ammesso neppure sotto tortura.

“Affatto. Hai dimostrato di essere superiore a loro. E a me.”

“Adulatore.” Arrossii violentemente: mai digeriti i complimenti, per quanto sinceri essi potessero essere. “Sai quel che hanno detto su …”

Con un vago gesto della mano, il ragazzo m’interruppe. “Non ci tengo a saperlo, anche se è solo questione di tempo prima che tutta la scuola ne venga a conoscenza.”

“Bien, ancora una volta sarò nella merda!”

“Uhm … significa che saremo in due … ah, stasera Antares si vede che è una meraviglia …”, sospirò, portandosi le mani dietro alla nuca, gli occhi rivolti sognanti alla stella guida del suo segno zodiacale.

“Non sei preoccupato?”, domandai, perplesso di vederlo così tranquillo.

“Non ho detto questo. Intendevo ricordarti, che quando scoppierà la bomba avrai sempre qualcuno su cui contare.”

Abbassai di scatto il capo, impietrito. Quello sì, che era un colpo inaspettato: Milo in veste del buon samaritano! Un miracolo al limite della blasfemia. “Mi concederai questo onore, Camus?”, continuò, cercandomi con gli occhi. Essere aiutato, protetto, capito: era una dolce lusinga, l’ammetto. Tentatrice. Allettante, come il frutto dell’albero della conoscenza. Gli avrei dato il fatidico morso?

“Camus?”, ripeté Milo con dolce insistenza, posando lieve le sue dita sotto il mio mento. “Camus?” Fu un attimo : gli posai un bacio casto e pudico sulle sue labbra, il bacio ansioso e tremante del primo amore, il bacio di cui spesso ci si vergogna, ché denuda la nostra anima. E timoroso di questo, lo interruppi con la stessa velocità con la quale lo avevo cercato.

“Camus?”, con dolcezza Milo mi riprese e gliene fui grato. Oh, non avrei avuto il coraggio di azzardare un secondo approccio!

“Camus?”, avvertii il freddo della panchina sulla schiena, un piccolo momento di disagio. No, era piuttosto quel silenzioso limbo il vero malessere, l’interrogativa sospensione. Milo sopra di me, accarezzava languido le mie ciocche, aspettando. Io, rigido e immobile, attendevo come lui. Nessuno dei due era incline a concedere, ad esporsi. Troppo era l’orgoglio, troppa era la paura. Si gioca agli spacconi, quando si tratta d’amore, agli esperti e ai cinici. Oh, sappiamo tutto, che c’è di nuovo?

No. Se l’amore è stato definito un jeu au charme eternel, altri devono essere i motivi; l’eterno non si basa sul caduco, sulla vanità. Passione, sì, quella è vanità! Ma amore? Cos’è amore?

Era amore quel dolore al petto, che in quel momento mi tormentava? O profonda riconoscenza verso una persona che per la prima volta mi apprezzava per quel che ero, ovvero niente?

Mi appellai alla mia razionalità, chiedendo, no, imponendo l’ordine: sciocco, sciocco ragazzo, di nuovo avevi mal interpretato tutto! Lui ti offriva solo un cameratesco supporto e tu di conseguenza pensavi di piacergli, come le vecchie zitelle della parrocchia, che si credono corteggiate da tutti i parrocchiani solo per una loro distratta occhiata.

Cedi.

No.

Cedi.

Non penso proprio.

Lo vedremo.

“Sei esasperante, Camus Molinier!”, commentò Milo il mio silenzio e forse il mio stesso intimo conflitto. Mi sarebbe piaciuto, così avrei avuto un parere oggettivo. Forse …

Sorrisi, pover’anima, non aveva tutti i torti! Eppure si era intestardita di comprendermi e ascoltarmi, grazie Milo, grazie!

Allungai la mano, colto da una recondita audacia e gli sfiorai delicatamente la guancia. Le nostre dita s’intrecciarono come viti, forti e sicure. Una parola, una richiesta appena sussurrata e le labbra bollenti di Milo tornarono ad onorare le mie.

E lucevan le stelle …

 

***

 

Forse ora ci si aspetterebbe una qualche scena di romantico fare all’amore, il che sarebbe stato perfetto, dato l’ambiente e l’umore adatto. No, non fu così e i motivi sono presto detti.

Primo, un tuono che non aveva nulla a cui invidiare ai cannoni alla Grande Armée napoleonica ci fece sobbalzare violentemente e la scrosciante pioggia che lo seguì ci persuase a correre spediti verso la villa.

Secondo, spendemmo mezz’ora buona a raccattare Aiolia, nonostante Milo proponesse di cederlo a Shaka come regalo di nozze. Trovammo il ragazzo miracolosamente sobrio, anche se mangiato vivo dai succhiotti di fanciulle più inclini alle gioie di Bacco e desiderose di sangue umano, anzi, maschile. Certo, potrebbe suonare come una scusa per giustificare approcci a giovani brille, ma allora qual era il motivo che aveva spinto un giovanotto nel pieno delle scariche ormonali a rinchiudersi nella toilette, con delle Baccanti che gli cingevano d’assedio?

Terzo, una volta a casa catturai il detto giovanotto e lo posi come ostacolo fra Milo e il sottoscritto, onde evitare ambigue visitine notturne. A giudicare le occhiate assassine del fratello maggiore, la cosa parve non essere gradita: evidentemente, Milo intendeva riprendere il discorso là dove si era interrotto. E come al solito, fu Aiolia a farne le spese. Beh, che volete, il destino dei fratelli minori era di sopportare stoicamente le magagne amorose dei maggiori e siccome i Valavitis erano – in quel momento- quattro, il piccolo Aslan era reduce degli stordimenti d’amore di Saga, Kanon e ora Milo.

Onore a lui.

E  onore alla sua fermezza. Dopo un colpo alla porta che pareva volerla buttar giù, Aiolia dichiarò semplice e conciso: “Momus vuole dormire con me, caro il mio Milou! Vedi quindi di non importunarci stanotte o dì addio ai tuoi libri di Maurice Druon!”

Volendo riassumere, fu una notte tranquilla.

L’indomani, fummo svegliati dallo squillo del mio cellulare. Bofonchiando insonnolito – ci eravamo coricati alle tre del mattino – spedii Aiolia a rispondere. La speranza di ronfare ancora un po’ venne però troncata sul nascere, quando il leoncino mi passò il telefonino.

E la voce di un’agitatissima Shirami Chopra fu la doccia fredda necessaria per risvegliarmi.

“Cos’è successo?”, chiese preoccupato Aiolia, notando come i miei capelli incominciassero ad arricciarsi per la rabbia.

“Sì, veniamo subito … non ti preoccupare, stai tranquilla … sì, sì ho capito … tchao …”, la rassicurai, chiudendo la conversazione.

“Shaka …”, esordii piano, cercando di controllare il crescente istinto omicida.

“Kumar?”, s’intromise Milo, il quale era riuscito ad infilarsi nella camera, eludendo la sorveglianza del fratello.

“Avevi ragione, Milo. Shaka ha fatto la cazzata …”

“Seigneur … non sarà mica …”

“… scappato di casa.  E la festa di fidanzamento è questo pomeriggio.”

 

 

To be continued …

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Piaciuto? Spero di sì!

Al prossimo!

Ciao!

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Capitolo 9
*** Lettera dal Fronte: che fine ha fatto Shaka Saintdiego? ***



Koukou à tout le monde!

Pardon per la lunga attesa, (luglio- ottobre), ma altre fic mi ronzavano in testa! In ogni modo, grazie tantissime ai miei pazienti lettori che continuano a leggere questa storia e un sentito ringraziamento anche ai recensori, che si sono presi la cura di lasciare un loro commento, dopo essere sopravvissuti ad ogni capitolo.

Merci donc à (in ordine temporale): Tifawow; Sagitta72; JackoSaint; Diana924; Charm_Strange; ArcadiaLaNotte; Eno; Angel_Dark_Light; NeXial e MilodelloScorpione! Grazie davvero, sentire che questa fic è apprezzata mi riempie di gioia ed entusiasmo e mi scuso ancora per avervi tenuto così tanto sulle spine! Spero che con questo capitolo riuscirò a farmi perdonare! E attenzione: in esso si sfioreranno grandi livelli di demenza, causati dal mancato sonno e colazione! Avvertiti / e!

Inoltre su alcuni personaggi mi sono presa un po’ di libertà. Quali? Leggete e vedrete!

Bien, buona lettura!

 

H.

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Carissimo Papie,

grazie per avermi inviato -  assieme all’adattamento per pianoforte della “Danza delle Ore” – anche qualche brano per violino. Da quando ho scoperto che quel somaro di Milo ha smesso di suonare il detto violino da due anni (dico somaro, perché nonostante non si sia più esercitato è riuscito ad eseguire quasi senza sbavature la Ciaccona di Bach) mi sono appuntato come obiettivo di farlo assolutamente riprendere, ché non vedo l’ora di poterci suonare assieme! Ah, già che ci sei, non potresti spedirmi La Danse Macabre di Saint-Saëns per pianoforte e violino? O magari qualche adattamento dal Carnevale degli Animali, il Leone, credo, così farò una sorpresa ad Aiolia!

Ultimamente lo vedo un poco giù, specie dopo la figuraccia con Marin.

Era la scorsa domenica pomeriggio e lei  e la sua famiglia erano stati invitati a casa nostra per il goûter. Il piccolo Simba si era incaricato di portarle la cioccolata calda con la panna e quel birbone di Milo gli fece a tradimento lo sgambetto e così Aiolia, inciampando, versò  tutta la cioccolata sul vestitino bianco preferito di Marin e più specificatamente sulla sua scollatura; mortificato, il ragazzo prese  lo Scottex e tentò  di ripulirle il petto offeso, ma lei lo scacciò via  come se fosse stato un  maniaco sessuale. Forse la sua reazione fu un poco esagerata (Aiolia mica lo aveva compiuto di proposito), tuttavia ritrovarsi della cioccolata calda sul seno non doveva essere stato tanto divertente. In ogni modo, Aiolia non la prese  bene e per la vergogna si sigillò  nel gabinetto, rifiutandosi di uscire per tre giorni. Pensa che per dargli da mangiare gli calavamo il cibo dalla finestra. Fortunatamente ora è uscito, però ogni volta che Marin compare nel suo raggio d’azione, Aiolia incomincia ad agitarsi come una donna in preda alle doglie. Va letteralmente in apnea, scappando via come una pantegana. Spero che si riprenda il più presto possibile, ritornando normale … ehm … enfin, meno strano del solito.

Per quanto riguarda i gemelli, stanno bene o almeno queste sono le notizie trapelateci dal mio patrigno. Ciononostante, qualche succoso gossip è giunto anche a noi.

Ti ricordi quando ti scrissi del malinteso via sms tra noi, Saga e quell’Aiolos? Beh, dopo due settimane da allora siamo riusciti a scoprire come è finita! (Grazie alla nostra informatrice, la signorina Hilda Morgenstern.)

Allora, Saga – come Kanon ci aveva riferito – si era effettivamente  chiuso nella toilette della cioccolateria, onde evitare una qualsiasi forma di conversazione con il tedesco da lui tanto odiato. Peccato, però, che nella foga di sfuggirgli il gemello maggiore non si fosse accorto che era entrato nel bagno delle signore. E neppure Aiolos dovette essersene reso conto, tranne quando fu troppo tardi, ovvero quando una Frau di mezz’età gli diede urlando del pervertito, sbattendolo fuori a suon di borsettate. Saga, invece, se la svignò uscendo dalla finestra della toilette.

Inoltre, le sue coinquiline – le sorelle Hilda e Freja – hanno recentemente litigato con i loro fidanzati e ognuna ha trovato in Saga una spalla su cui piangere (il che va a loro favore, poiché le spalle sono due). E per la sua carità cristiana, il poveraccio si è ritrovato il bersaglio dei fidanzati gelosi e giusto l’altro ieri  Hilda ci ha scritto via mail che l’ex di Freja – Hagen- e il Boss se le sono date di santa ragione, il primo perché sospettava che la Madre Superiora cercasse nella giovane qualcos’altro oltre alla sua anima, mentre il secondo si era difeso più che per l’infamante accusa, per aver ricevuto l’insulto più spregevole per un greco, anche se solo a metà: ebbene sì, Papie, Hagen gli aveva dato del turco.

“Cosa? Turco a me? Per davvero “turco” non me lo dici, kapiert? Ripetilo e t’accomiati dal tuo colon!”, questa era una delle tante frasi, che sentirono i condomini nel giardinetto dell’appartamento dove vivono in Germania. Uno addirittura ha fatto il video e Hilda gentilmente ce l’ha inviato via posta elettronica.

Per quel che riguarda invece l’ex della sorella maggiore- Siegfried-  beh, lì la faccenda era un poco diversa. Ad essere gelosa era Hilda e a causa di uno spiacevole malinteso, lei credette che il suo meco le decorasse la testa; così, senza dare al poveraccio il tempo di giustificarsi, lo randellò  con la scopa, gettando le sue robe dalla finestra. Il tutto sotto lo sguardo scioccato di Saga e quello compiaciuto di Freja, la quale incitava la sorella con “Dagliele! Dagliele!”

Neanche dall’altra parte della Manica del resto ci sono giunte notizie confortanti. Tranquillo, Aaron è vivo e vegeto, nonostante il tentativo di suicidio, perché sì, Papie, quello si era sul serio gettato giù dal balcone! Ma per sua fortuna – o sfortuna, dipende dal punto di vista – cascò proprio addosso a suo zio Rhada, rimediandogli una bella ingessatura alla gamba destra per due o tre settimane. E dovevi sentire quanto Kanon fosse deliziato nell’interpretare il ruolo di un’amorosa Mamma Viverna, coccolandosi 24 su 24 il suo cucciolotto ammalato incapace di sottrarsi al suo ferreo abbraccio e soprattutto al suo sguardo instancabilmente onnipresente.

Eggià, Kanon era davvero felice. Rhada, invece, non ha lasciato dichiarazioni. Ora si sta rimettendo e non mi pare lamentarsi troppo della sua pronta guarigione.

Come se non bastasse, la cugina di Rhada – Miss Violante DeBeaumont – ha designato Kanon padrino del suo pupetto, il piccolo Regulus. Sai, da quel che ho capito, la ragazza è cattolica, visto che sua madre è di origine italiana, e come il cugino è invece anglicano, ha ripiegato sul di lui fidanzato ed ex coinquilino.

La notizia – giuntaci ieri- deve aver sconvolto dal più profondo Kanon, lui che ama appunto definirsi “pedofobo” (sostiene inoltre di avere reazioni allergiche ai bambini piuttosto pesanti). Rhada come al solito non ha commentato, limitandosi ad uscire dal salotto col suo flemma very british  per rinchiudersi in bagno, dove si sfogò in una serie di ruggiti-risate da far tremare le pareti di casa.

“Non voglio fare da padrino ad un bébé che si chiama come un personaggio di Harry Potter!”, si era lamentato il minore dei gemelli piagnucolando senza ritegno alcuno. Piccata, la ragazza madre gli lanciò il cuscino addosso, spiegandogli che Regulus era la stella più luminosa della costellazione del Leone, sotto il cui segno il bébé era nato (“Leoncino come me!”, fu l’esclamazione entusiasta di Aiolia, prima di venir buttato giù a calci dalla poltrona per aver interrotto il racconto di Kanon).

“Del resto, suo padre si chiama Aiacos, quindi puoi vedere come il mio piccolo honey non caschi proprio bene!”, aggiunse sua madre, ripensando alle parole del gemello. A sentire il nome del genitore della creatura, Rhada dovette sopprimere un gesto molto, molto nervoso: ancora non aveva digerito la sorpresa lasciata a Violante dal suo “amico”.

Non che il fortunato padre se la fosse cavata meglio. Quando Violante annunciò che per agosto un petit lionceau era in arrivo, Mr. Aiacos Ravenswood vide scorrere la vita davanti a sé. Letteralmente. Poiché un furioso Rhadamanthys gli era balzato addosso ruggendo, prendendolo a schiaffoni come un invasato.

“You bloody bastard son of a bitch!”, ringhiava, mentre Kanon cercava di staccarlo da Aiacos (sarebbe stato più facile levare a Cerbero la sua bistecca). “What the hell have you done to my cousin, you asshole?”

“Calmati chouchou, così lo uccidi! Pensi agli alimenti che dovrà passare a Violante e al bambino!”

 “Come ti sei permesso d’impollinare mia cugina? Conti di sposarla ora, vero? Spero che tu voglia almeno riparare, se vuoi continuare a vivere! Te la devi sposare, you sick pervert manky bugger!”

“Ma sono anglicano!”, fu la debole protesta del giovane, tra una sberla e l’altra.

“I don’t bloody care! Ti converti e la sposi! Or else!”

Terrorizzato dall’idea del matrimonio – come ogni bravo esponente maschio della specie umana- Aiacos giocò l’ultima sua carta: il dubbio della paternità. Infatti, all’epoca del concepimento, Kanon ancora condivideva con Violante l’appartamento e quindi … chissà … forse …

Questo ebbe come risultato di far incavolare ulteriormente Rhada, il quale, scuotendo l’amico come un milk-shake, schiumò simil  coca-cola: “What?!? Assumiti le sue responsabilità, you moron, e non t’azzardare a offendere il mio ragazzo dandogli dell’eterosessuale, capito?”

Morale della favola, Aiacos si convertì al cattolicesimo e a fargli da padrino fu un altro cugino di Violante, questa volta di parte materna. Il suo nome è  Angelo Lorenzini, originario di Livorno, ma naturalizzato inglese e  impresario di pompe funebri (DeathMask & Sons) e appunto per il suo mestiere credo sia stato invitato a tale compito: della serie, o ti sposi Violante o suo cugino ti prepara una bella bara di mogano. Poi spediamo il conto alla tua famiglia.

Beh, dal canto suo il pupetto di certo non ha aiutato a chiarire il mistero della sua paternità. È castano e ha gli occhi azzurri. Sua madre è mora con gli occhi neri; il suo presunto padre anch’egli moro e occhi d’un grigio- violetto non meglio identificato. Kanon continua a ripetere che non ne sa niente e che le femmine non l’hanno mai ispirato. Rhada tace e acconsente. Pandora gongola sperando in una crisi tra i due e riprendersi così il suo ex, traviato dalla  bionda Messalina franco-greca.

Sarà quel che Iddio vorrà, Papie. Intanto il battesimo è fissato a gennaio e il matrimonio a febbraio.

E sempre parlando di nozze, ultimo ma non ultimo, Shaka! E con lui, abbiamo detto tutto.

Sinceramente, Papie, quest’anno sto scoprendo aspetti dei miei conoscenti che non mi sarei mai aspettato da loro. Insomma, credevo di conoscerli bene e invece! Hé, come è assurda la vita!

Però, Shaka, Papie, Shaka! L’imperturbabile Buddhasessuale Shaka! Quello che non si scomponeva dinanzi a niente – tranne ad un 19/20  in matematica al posto del suo solito 20/20 - si è rivelato al contrario essere più fuori di testa di Aiolia in piena crisi mistica di demenza!

Ti ricordi che ti avevo accennato la settimana scorsa ad un matrimonio combinato? Ecco, per farla breve dopo il party a casa sua, Shaka ebbe la bell’idea di scappare di casa proprio il giorno del suo fidanzamento ufficiale. La notizia ci fu data da una piangente Shirami, la quale ci domandò di aiutarla nelle ricerche e a dire il vero fu molto difficile persuadere i miei due fratellastri ad unirsi all’impresa, forse perché non era di loro gradimento lanciarsi all’inseguimento di un fidanzato fuggitivo in una fredda mattina di novembre, dopo aver dormito pressocché cinque ore.

Con moine varie, riuscii a convincerli. In seguito a quel che accadde, avrei fatto meglio a spegnere il cellulare quella mattina e a ricoricarmi.

Girammo come tre vagabondi zombie per tutta Mont-de-Marsan, cercando Shaka in ogni possibile buco nel quale un bonzo poco convinto come lui potesse mai nascondersi. Non scartammo nessun’ipotesi, neppure le più assurde, visto che quel genere di teorie erano le uniche che potevano essere prodotte da una mente assonnata. Finché, sconfitti, ritornammo a casa (mia), accingendoci a comunicare a Shirami la triste notizia che suo cugino era svanito a tutti gli effetti.

Uscendo dalla porta della cucina, trovammo Mamie in giardino davanti alla grotta della Madonna di Lourdes intenta a giocare a “Kingdom of Hearts” al computer. La cosa ci parve di per sé assai strana, ma non orrorifica quanto a quello cui fummo costretti ad assistere: in cima alla finta caverna, legato con una catena di ferro, sedeva a gambe incrociate Shaka Kumar vestito da bonzo buddista, finta pelata inclusa.

Nessuno di noi fiatò, non ne avemmo il coraggio. Dopo i primi trenta secondi di choc puro, vidi gli occhi di Aiolia tingersi di un rosso incandescente; i capelli di Milo arricciarsi per la rabbia ed io percepii le mie mani pizzicarmi dalla voglia di strangolare Shaka a mani nude.

“Tiens, tiens, voilà Qui, Quo e Qua che ritornano al nido! Vi siete divertiti ieri sera?”, ci salutò Mamie senza girarsi, uccidendo con gran gusto una decina di Heartless.

“Come mai quell’essere si trova incatenato sopra la grotta di Lourdes?”, sibilai, indicando il mio amico, il quale continuava imperturbabile a fare ciò che più gli riusciva meglio: l’indiano.

“Chi? Lui? L’ho trovato piangente sotto un salice piangente alle cinque del mattino al parco. Così ho pensato di portarlo da noi, visto che – a quanto pare- mi risulti essere un tuo amico! Il tempo di preparagli un caffè e me lo sono ritrovato in queste condizioni”, mi spiegò l’augusta avia, gli occhi ben ancorati sullo schermo. “Tié!  Beccati questo, crepa!”, aggiunse, continuando la sua virtuale strage.

Piccato dalla sua indifferenza (tanto lei non era rimasta in ansia durante tutta la mattina) replicai velenoso: “Ah ouais? E dimmi, Mamie, che ci facevi in giro alle cinque del mattino?”

“E tu? Che ci fanno tre succhiotti sul tuo collo, espèce de pingouin lubrique?”, ribatté impassibile, costringendomi primo a portare di riflesso la mano sul mio collo; secondo a fissare il mio riflesso sul vetro della finestra, per appurare con mio estremo orrore che la nonna diceva il vero. Furioso, mi girai di scatto verso Milo, il quale guardava altrove, fischiettando gnorri alla “Firulì, Firulà”.

Dato che ormai ero fuori combattimento, fu Aiolia a proseguire al posto mio. “Shaka, possiamo capire che forse l’idea  del matrimonio può averti sconvolto, però … però,  lascia che te lo dica: pelato, fai davvero schifo!”

“Aiolia!”

“Embé, è vero!”, si difese il lionceau pigolando dal rimprovero del fratello. “Comunque, il tuo atteggiamento è incomprensibile: vabbè vestirti da bonzo; vabbè incatenarti sul cucuzzolo della grotta di Lourdes; vabbè scappare di casa; ma Shaka! La pelata, perché?”

“BASTA CON QUESTA PELATA!”, ruggimmo Milo ed io, elargendo uno scappellotto ad Aiolia in perfetto sincronismo. Ci voleva tuttavia ben altro per persuaderlo a desistere.

“Ma salta così agli occhi, che è traumatizzante solo a vederla! Shaka, perchéééééééé??????????”

“Non si è rapato, è finta!”, sciogliemmo spazientiti il mistero della nuova acconciatura di Kumar. Prima biondo in stile Lucius Malfoy, poi pelato alla Zizou Zidane. Voleva per caso farci finire tutti al manicomio con un trauma di terzo grado?

“E vaffanculo allora, mi ha fatto prendere uno spavento inutilmente!”, umiliato e offeso, Simba si sedette borbottando a terra, le gambe e le braccia incrociate, gli occhi sempre più rossi.

Passandosi una mano sulla tempia dolorante, il maggiore dei due Valavitis rimasti s’apprestò a divulgare la sua opinione. “Et bien Kumar, è questo dunque il tuo brillante piano per ribellarti alle nozze? Ancorarti su di una caverna in un giardino altrui? Ti paiono cose da fare? Ti rendi conto della gravità della tua stronzata?! È violazione della proprietà privata! Ti sei approfittato della bontà di questa vec-” e s’interruppe bruscamente, notando lo sguardo obliquo di Mamie, che lo sfidava a continuare l’aggettivo riguardante la sua età. “verace fanciulla?” e con un grugnito soddisfatto, la nonna si girò.

Fischiando per lo scampato pericolo, Milo riprese. “Ma lo sai che per colpa tua ho dormito solo tre ore e ciononostante sono stato costretto a cercarti dappertutto dalle sette di mattina fino alle undici e mezza? Ti pare giusto? Inoltre, per aggiungere ingiuria ad ingiuria, a causa tua in questo esatto istante mi sta venendo un atroce mal di testa, altroché! E se mi viene un’emicrania, l’unico modo per aiutarmi a guarire è di scop- …”

“… -rire dove sono le aspirine!”, lo corressi appena in tempo, non desiderando conoscere quale fosse il suo farmaco miracoloso contro i mal di testa. Conoscendolo, doveva essere per forza lubrique.

“Hai ragione, nipote: un rodéo de jambes en  l’air è il miglior rimedio contro l’emicranie !”, concordò Mamie, annuendo con solennità. Credetti che in quell’istante mi si fosse slogata la mascella, Papie. Da quando in qua la grand-mère era d’accordo con quel demonio?

“Vedi che la nonna la sa lunga? Dovresti darle più ascolto, Ionesco!”, disse il mio fratellastro finto serio, posandomi una sua zampa sulla spalla.

“Sicuro, Milo, sicuro. Quando avrò un mal di testa ti farò un fischio!”, feci sarcastico, incrociando le braccia.

Un fischio.

“È stato Aiolia, è stato Aiolia!”, balbettai, arretrando impaurito da come schioccavano le chele lubriques dello scorpione, il quale s’approfittava alla grossa la distrazione di Mamie per pizzicarmi il sedere. “Guarda che lo dico a Mamie!”, piagnucolai come un gosse di cinque anni, cercando di liberami dal suo abbraccio.

“Na na nère, na na nère!”, m’imitò Milo, mostrandomi la linguaccia e ottenendo un bruciante rossore di collera sulle mie guance.

“Mamie!”

“Enfin les gamins!”, sbottò con nostra grande sorpresa Aiolia, il quale, comparendo all’improvviso da sotto, s’impose tra di noi. “ Se voi due la smetteste un poco di comportarvi come due connards, forse vi rendereste conto che Shaka ha bisogno del nostro aiuto. Dopodiché Milou potrà violentare Momus quante volte gli aggrada, ça va?”

“Ci sto!”

“No!”

“Tzé, gosses dell’asilo …”, dichiarò Aiolia con aria di persona navigata, scuotendo rassegnato il capo castano chiaro. Si mise quindi in posa plastica davanti alla grotta, indicando l’indiano meditabondo.“Ora a noi, Shaka. Scendi giù da lì o m’incazzo sul serio! Stamattina stavo facendo un bellissimo sogno su Marin in corsetto e giarrettiere, ma non è questo il punto! Perché il vero issue è che sul più bello, quel dannato cellulare (che Momus chissà come mai tiene sempre aperto, nonostante io mi domando chi mai lo debba chiamare alle 7 del mattino di sabato); insomma, a causa della tua stupida fuga quel coso maligno mi ha destato dalla visione più paradisiaca, che un adolescente di sedici anni possa mai immaginare nel corso della sua scarica ormonale!”

“Su questo argomento, si potrebbe aprire un dibattito …”, s’intromise Milo, subito messo a tacere dal fratellino.

“Silence! Era in corsetto, capito? In corsetto! E nero coi pizzi rossi! Con la sua bella terza in piena vista e io mi sono svegliato! Aveva la terzaaaaaaaaaaaaa!!!!!!!”

“A dire il vero, credo abbia una quarta …”, lo corresse il fratello, grattandosi la testa bionda. “O mi sbaglio, Ionesco?”

“No, no. Ha proprio una quarta”, ribadii con serietà e ciò fece cascare la mascella ad Aiolia, il quale, ripresosi da non so quale choc, emise un ululato acutissimo e insopportabile all’udirlo, come cento unghie striscianti su di una lavagna.

“Buah! Perfino Momus lo sa! Perfino a quel fro- ehm, fesso di Momus è dato sapere le misure del seno di Marin e io no! Neanche nel sogno le ho azzeccate! Perché il mondo è così ingiusto con me?”, guaì, accoccolandosi vicino a Mamie, che l’abbracciò stretto, consolandolo. Da quando in qua Aiolia ci teneva alle misure del seno della mia vicina di casa?

“Allons, Aiolia, ne pleure pas! Ce n’est pas si tragique !”

“Nessuno mi vuole bene !”, si lagnava il piccolo Simba Twist, tirando su con il naso. “Tanto vale che faccia come Sasà e che mi chiuda in convento!”

“Iou – Iou, guarda che Sasà non è entrato in monastero!”

“Per adesso! Che ne sappiamo noi? Le vie del Signore sono imperscrutabili!”

“Già, mentre quelle per il manicomio le vedo benissimo!”

“Enfin, Milo! Tuo fratello sta attraversando la crisi del respinto nei suoi sogni e tu lo deridi? T’es mechant!”

“Lo so, Ionesco, ma Iou – Iou deve capire che il mondo è crudele e che le donne e gli uke lo sono doppiamente!”

Sbattei perplesso le palpebre all’udire quella nuova parola.“Uke? C’est quoi ça?”

Milo mi fece cenno di avvicinarmi a lui, affinché Mamie non sentisse la sua risposta. Dopodiché mi sussurrò all’orecchio con tremenda gravità, per un cacciaballe come lui: “Vieni in camera mia attorno a mezzanotte e te lo spiego …”

Silenzio.

“Non lo so …”, dissi piano, indietreggiando di qualche passo. Non sono in grado di rivelarti il motivo, Papie, ma non mi era piaciuto molto il tono con cui lui aveva pronunciato la frase: per un istante, ebbi come la sensazione di dover temere per la mia persona. “Se dovessi però cambiare idea, te lo dirò, eh?”

“Ih, allora! Faccio in tempo a diventare bisnonno!”, fischiò deluso il ragazzo, allontanandosi bruscamente da me. Come, come? Non si stava mica azzardando a …

“Mi dai del tontolone?”, mugghiai offeso, portandomi bellicoso le mani ai fianchi.

Milo allargò quel suo dannato ghigno derisorio. “No, dell’uke!”

“E che cos’è?”, insistetti spazientito, anche se una cert’idea sul suo significato me l’ero fatta.

“In camera mia a mezzanotte …”

Battei imperioso il piede per terra, stufo marcio dei suoi giochetti. “Un corno! Lo voglio sapere qui, subito!”

“Come! Davanti a tutti? Sei più pervertito di quanto credessi!”, esclamò il mio fratellastro falsamente scandalizzato, quando in realtà potevo ben leggere la malizia nei suoi occhi turchesi.

“Mi vuoi prendere in giro?”

“Certo, che ti voglio prendere!”, mormorò Milo ridendo e pizzicandomi a tradimento il posteriore. “Mon p’tit pingouin uke!”

Avvampai. “CHE ACCIDENTI E’ UN UKE?!?”, sbraitai, rincorrendolo senza tuttavia raggiungerlo. Merde, era veloce quel demonio biondo!

“Uke! Uke!”, mi canzonava, lasciandosi inseguire dal sottoscritto.

“Ritiralo!”, urlavo, conscio che quella strana parolina di sicuro aveva a che fare con la sfera osé. Hé Papie, dopo essere stato definito une vieille jument sono diventato un po’ paranoico su qualsiasi aggettivo riguardante la mia persona.

“Uke, uke, uke!”

“Ti mastico la lingua se non stai zitto!”

“Uuuuuuuuukkkkkkkkkeeeeeeee!!!!!”

“Aiolia”, chiesi allora, raggiungendo l’ultimogenito e sperando che almeno lui potesse illuminarmi.  “Che cos’è un uke?”

“Non ora, Momus. Quando sarai più grande”, mi rassicurò solennemente il ragazzo, battendomi paterno la zampa sulla spalla. “Piuttosto, non per interrompere il vostro interessante dibattito, ma … ma siete sicuri che Shaka sia ancora vivo? No, perché io lo vedo leggermente … rigido!”, ci confessò preoccupato, indicando la figura incatenata dell’indiano.

In effetti, non si poteva dare ad Aiolia tutti i torti. Come una cicogna sotto la pioggia, Shaka era rimasto immobile e impassibile per tutto il tempo in meditazione, senza muovere un sol muscolo. Inoltre, il fatto che non avesse battuto ciglio davanti al nostro vaudeville, non preannunciava nulla di buono. Ora che ci pensavo, non aveva neppure aperto gli occhi, né parlato o accennato ad un sorriso o una smorfia.

“Secondo me, è crepato …”, ripeté il più giovane dei Valavitis, grattandosi il mento e continuando a fissare il mio amico. “Wow, meno male che gli induisti bruciano i morti, sennò come lo ficchiamo in bara conciato in questo modo? A meno che non ordiniamo un cubo!”

“L’idea del matrimonio deve averlo ucciso, peggio di una meningite fulminante!”, aggiunse Milo, scuotendo il capo. “E ora col cadavere come la mettiamo?” e i suoi occhi turchesi terminarono per lui la frase con un “vicino a Jean – François?”

“Ma no, è vivo!”, contestai anche se non troppo convinto. Insomma, non si poteva morire in quell’assurda posizione, no? Eppoi, non avevo voglia di scavare una fossa anche per Shaka. Insomma, un gallo rompipalle era una cosa, un compagno di classe un’altra.

“Ah ouais? E come ce ne accertiamo?”

“Aspetta”, fece Aiolia, afferrando la scopa poco distante, quella utilizzata per rastrellare le foglie secche.  E come il soldato Longino ferì il costato di Gesù Cristo per verificare il suo decesso sulla croce, così il ragazzo punzecchiò Shaka prima al ginocchio, poi al fianco, la spalla ed infine la mascella.

Niente, l’indiano non reagiva.

“Oh p’tain d’un bordel, ci è schiattato in cima alla grotta di Lourdes! E come lo tiriamo giù ora?”

“Nah”, affermò tranquilla Mamie, chiudendo il computer e alzandosi. “Non hai colpito bene. Dagli una randellata sui cavasisi e vedrai come ritorna in vita!”

“Sì, ma dopo vorrà accopparmi!”, puntualizzò Aiolia, che alla sua criniera ci teneva.

“Hé, è un rischio che devi prendere, mon chou!”, disse la nonna e gli strizzò l’occhiolino, rientrando in casa.

Poco convinti, ritornammo a guardare l’imperturbabile pseudo-bonzo considerando i pro e i contro della proposta di Mamie. In fondo, il nostro obiettivo era di salvargli la pellaccia senza rischiare la nostra; inoltre, rimaneva sempre l’issue che un cadavere in giardino rovinava il decoro, specie se era seminudo come al momento lo era Shaka, il quale, si sarebbe certamente ritrovato per stasera uno scagotto di quelli epici: tzé, in quelle condizioni a novembre!

“Ci sono”, annunciò Milo, battendo l’indice sull’incisivo. “Gli diamo una mazzata sulle palle per vedere se è ancora vivo. Tanto lui è legato, no? Se si risveglia, dovrà prima sciogliersi e quando sarà sceso per il nostro scalpo, noi saremo ormai lontani. Giusto?”

“Ouais.”

“Allora al tre tutti insieme? Uno … due … tr- ”

“OM!”

Balzammo all’indietro, fulminati. Oh la la! Il morto aveva parlato! Sembrava quasi una scena del film Rashomon. Veloci, nascondemmo dietro di noi la scopa, sperando che l’indiano non ci avesse né visti, né sentiti.

“OM!”, ripeté un redivivo Shaka, il quale oltretutto aveva incominciato a dondolarsi in avanti e indietro, ripetendo la parola come in un mantra, mentre un’espressione di acuto dolore gli deformava il viso olivastro. “OM … OM … OM … OM … OMmmmmmmmmmerde!”, urlò, spalancando gli occhi con le lenti a contatto blu. “Ho un crampo! Bordel, non riesco a muovere la gamba! Uh- uh!” e tentò invano di sciogliere le gambe dalla posizione della meditazione: parevano incollate tra loro.

“Hai tanto male, Shaka?”, gli domandammo zuccherosi come il miele, ridacchiando mentalmente nel frattempo.

Massaggiandosi l’arto offeso, il giovane si lagnò, storcendo assai la bocca. “Se ho male? Per i rotoli di ciccia dell’Illuminato, ho perso la sensibilità della gamba!” e per sottolineare le sue parole, si diede pure un pizzicotto.

“Visto che succede a meditare sopra le altrui grotte? Se lo facevi sul gabinetto, questo non accadeva!”

“A dire il vero, stare troppo lì ti blocca la circolazione e ti fa venire le vene varicose!”

“Dettagli. Io non ho mai visto uno che medita su di una grotta!”

“Shaka, mando Milo e Aiolia a prendere il gel, ça va?”, gli chiesi seriamente preoccupato, trovando anche in questo modo una scusante per liberarmi dei miei fratellastri e parlare tranquillamente a quattr’occhi con l’indiano, onde farlo ragionare. O almeno provarci.

“Mouais, ça va”, rispose pensieroso il ragazzo, levandosi la finta pelata e scuotendosi i capelli biondi. “Senti Momus, non è che potresti venire qui un secondo, s’il te plaît?”

“In cima alla grotta?”

“No, sulla mia testa. Ovvio! E vedi di sbrigarti!”, m’intimò alquanto scocciato. Con circospezione,  mi aggrappai sulla dura e irregolare superficie, scalando pian piano, fino a raggiungere Shaka, il quale mi offrì una mano, aiutandomi ad issarmi sulla cima della grotta.

“Allora Momus, ora che siamo qui tu ed io faccia a faccia; uomo davanti a uomo; Buddha davanti a Pingu, parliamo di mere corna. Confessa, puttaniere: che hai combinato ieri sera con mia cugina Shirami?”,  mi accusò, stringendo la catena in maniera piuttosto inquietante, ma meno rispetto all’assurda supposizione cui aveva dato voce. Io con Shirami?

“Gueh?”, feci perplesso, indeciso se ridere o preoccuparmi seriamente della sanità mentale del mio amico. Mi devo ricredere Papie: la follia è più contagiosa del raffreddore! “Shaka, stai scherzando, vero?”, anche se neanch’io ci credevo più di tanto. “Non penserai mica che …”

“IO NON PENSO NULLA!”, ruggì l’indiano, tirandomi addosso furioso la finta pelata dritta i faccia. Rabbrividii.  “So solo che ti sei appartato con lei per quasi tutta la serata e che Shirami aveva addirittura indosso la tua giacca! Salaud! Pervers! Putassier! Boule de suif! Come ti sei azzardato a intaccare il suo onore! Ora per colpa tua Shirami è disonorata, intendi? Disonorata! Non sei che un venale; un cochon; un lussurioso bisessuale … uno schifoso!”, ripeteva completamente fuori di banana, incominciando a schiaffeggiarmi di brutto, quasi volesse decollarmi a furia di ceffoni, tirandomi nel frattempo i capelli.

E più io tentavo o di difendermi o di spiegargli che Shirami non l’avevo neppure sfiorata con un dito, più quel cretino di Shaka mi percuoteva con maggior energia, ingiuriandomi a gogò e scuotendomi come una bottiglietta di panna montata.

Me la sono vista molto brutta, Papie. Davvero! Rimanere in equilibrio sul cucuzzolo di una grotta con un Otello  indiano che mi aveva scambiato per Desdemona (solo per l’issue dello strangolamento, però) non fu un’impresa facile, anzi, temevo di cadere da un momento all’altro. Eppoi, mi stava rovinando i miei capelli rossi, l’unica parte della mia anatomia della quale vado fiero!

Tzé, Papie! Quello era solo l’inizio. Il peggio non è mai morto, come la follia non conosce mai limiti.

Ché Otello indiano non aveva fatto i conti con quello mille volte più pericoloso: Otello franco-greco.

“Ma bravo, Kumar!”, ringhiò ai piedi della caverna un Milo, che pareva fuori di sé dalla gelosia. E il luccichio vermiglio brillò nel turchese. Che fosse una particolarità di famiglia? “Che diavolo stai combinando? Osi violentarmi Ionesco alle mie spalle?” e sibilò l’ultima frase come un serpente a sonagli, rimboccandosi le mani, le cui nocche schioccò, pronto a dare battaglia per difendere per il momento il mio onore.

Comunque, per quanto degradante fosse per la mia dignità, decisi di cogliere la palla al balzo. “Sì, Milo! Mi vuole violentareeee!”, strillai scandalizzato simile a  Biancaneve, che pizzica il principe azzurro davanti ad un film porno.  Sapevo che era un cadere dalla padella alla brace, o dalla pancia del Buddha alle chele dello scorpione, però le opzioni non erano molte, specie con Shaka che mi stava legando con le catene, onde pestarmi meglio.

“Sale menteur! Bugiardo!”, protestò Shaka, tirandomi nuovamente i capelli.

“Sì, ha detto che a furia di stuprarmi mi trasforma in una ragazza!”, piagnucolai, rannicchiandomi dai pizzicotti di un furente indiano. Uno in particolare colpì il mio posteriore e fu la miccia che fece saltare la polveriera del Partenone. [1]

“GIU’ LE ZAMPE DALLE FESSES DI CAMUS, VICELARD!”, tuonò Milo, il volto porpora e gli occhi rosso sangue. Simile ad una scimmia, si arrampicò rapido con qualche balzo sulla grotta, portandosi sulla cima e giunto lì si scrocchiò nuovamente le nocche, domandando la sua libbra di carne per l’affronto subito (difficile dire se da me o da lui). “Nessuno, dico nessuno può pizzicare le fesses di Ionesco, capito? Quel privilegio è mio, solo mio! Come il suo posteriore, del resto!”

Beh, su quel punto si poteva discutere – quando mai gli avevo dato il permesso di considerare suo il mio sedere?- tuttavia in quella penosa situazione lo scorpion era il mio unico alleato e tra due mali, era meglio scegliere il minore, sperando di non pentirsene in seguito. Soprattutto per quel che riguardava la mia virtù.

“Tzé, Valavitis! Quello scostumato del tuo fidanzato, approfittando delle tenebre, della confusione e dell’alcol -  senza dimenticare la sua allure di pinguino orfano dagli occhioni alla Bambi, che suscita tante simpatie nel cuore delle ingenue fanciulle – ebbene quel depravato si è permesso di appartarsi in un luogo assai intimo con mia cugina! E le ha ceduto pure la sua giacca!”

“Quoi? Ti sei spogliato davanti a lei?”, mi puntò il biondo feroce i suoi occhi. Merde, Shaka era riuscito ad incanalare la sua gelosia contro di me!

“No!”

“L’hai lasciata allora al freddo e al gelo come il Bambin Gesù?”, m’accusò il ragazzo con maggior veleno, scuotendomi come un milk-shake. Gesù, ancora uno scossone e la mia testa prendeva il volo. E anche il mio stomaco.

“No!”

“E che hai combinato, dunque?”

“Niente te lo giuro!”, pigolai a mani giunte, scuotendo il capo con veemenza, aumentando la piccola venuzza di un crescente mal di testa: senza riposo e senza cibo, che pretendevano da me?

“Ma ti sei comunque spogliato davanti a lei?”

Da disperato, passai alla fase di scocciato. “E come mi levavo la giacca, sentiamo? Evaporavo alla Obi - Wan Kenobi?”

“Sì, sì fai lo spiritoso. Intanto tu da domani porti la cintura di castità, giusto per precauzione semmai avessi voglia di saltare la cavallina con chiunque non sia il sottoscritto”, sentenziò il giovane, sogghignandomi obliquo, della seria che attuava davvero il suo orrido piano. “Quanto a te Kumar, non era Chandra la tua promessa? Perché ti reca così fastidio che questa Vierge Marie frequenti tua cugina?”, domandò accigliato. “Eppoi, scommetto che Ionesco non avrebbe neanche saputo da che parte incominciare …”

Ora fu il turno di Shaka di rimanere interdetto e al centro dell’interrogatorio. Arrossì, balbettò parole incomprensibili, si rigirò i capelli biondo platino tra le dita, si attorcigliò come un Bretzel, ma non ci diede la risposta che volevamo. “Ecco … io … veramente … enfin … Shirami … elle … me …”, farfugliò a disagio, imporporandosi a ciascuna parola.

Oddio, Shaka era forse …?

“Che ne dite di scendere e parlarne da persone civili giù?”, propose all’improvviso, facendoci esalare un grugnito di frustrazione; speravamo, infatti, di saperne qualcosa di più. Forse sul serio ci stavamo trasformando in una banda di pettegole zitelle.

Ci apprestammo a scendere, ma d’un tratto sentimmo una forza opporci resistenza. Tentammo di nuovo e ancora non potemmo muovere un passo di più. Ignorando meglio che potemmo il brivido freddo alla nuca, ci voltammo in direzione della catena e a stento reprimemmo – Milo ed io – il desiderio di masticare vivo Shaka: con la scusa di menarmi, l’indiano aveva ingarbugliato il nodo alla catena e il mio fratellastro, cercando di levarmi dalle sue grinfie, si era anch’egli imprigionato.

Volendo riassumere, eravamo imprigionati sul cucuzzolo della grotta di Lourdes.

“Shaka …”

“Kumar …”, sibilò Milo subito dopo di me, pigliando parte della catena e apprestandosi a  strangolare il mio amico.

“Hey, ma che ci fate tutti lì?”, fu la salvifica domanda di Aiolia, la cui tempestiva comparsa ci aveva distratti momentaneamente dai nostri istinti omicida. “Dai venite giù, che il pranzo fra poco è pronto!”

“E che c’è da mangiare?”, s’informò il fratello, allungando il collo.

“Choucroute alsacienne!”

“Che schifo!”, protestai, piegando disgustato la bocca (scusa Papie, non voglio offendere il piatto della tua regione, ma quello davvero non mi piace!)

“Merde!”, imprecò Milo, al quale apparentemente garbava quell’ammasso di carne e crauti. “Iou – Iou, vieni a darci una mano a scendere!”

“Come? Non potete scendere? Ch’è codesta novità?”, il tono di Aiolia voleva essere preoccupato, ma né al fratello né a me sfuggì la venuzza compiaciuta di vedere finalmente un suo superiore in difficoltà e quindi bisognoso del suo aiuto.

“Il nodo della catena si è ingarbugliato e non riusciamo ad andare via da questa grotta della malora!”

“Ooooooooooooh, ed io che c’entro in tutto ciò?”, chiese zuccheroso il leoncino, sperando di sentire lo scorpione implorare soccorso. Sì, sì come no. Persuadete piuttosto un maiale ad usare coltello e forchetta a tavola.

“Vieni a darci una mano a sbrogliare il nodo!”

Fissando sornione il fratello, Simba nicchiò falsamente dispiaciuto: “Non so … forse … chissà … qual è la parolina magica?”

Milo digrignò i denti, mentre udii chiaro e tondo il suo stomaco ruggire, reclamando a gran voce cibo. Aiuto: King Kong si stava risvegliando … “Che se non vieni, passi un brutto quarto d’ora! Hai tre secondi per portare le tue fesses su questa grotta … trois … deux  …. un!” e acchiappò lesto la catena, agitandola a mo’ di lazo.

Aiolia impallidì, arretrando d’un passo, le intenzioni dell’altro immediatamente chiare nella sua testa.

“Tzé! Piccola puzzola spelacchiata, dove credi di andare?”, ruggì Milo, completamente affamato e fuori di banana, roteando in maniera sinistra il ferro. “Se io soffro, devi soffrire anche tu per parcondicio, capito? Ora tu vieni qui e ci aiuti a sciogliere il nodo!”

“Giammai!”, gridò Aiolia spaventato, ripiegando  in un dietrofront.

“Lo vedremo, gattaccio! Vai catena!”, e neanche fossimo al rodeo, il ragazzo lanciò la catena, la quale si strinse sulla caviglia di Simba, costringendolo a faccia in giù nel fango. E senza misericordia, Milo non gli diede neppure il tempo di riaversi, che già lo trascinava in direzione della grotta, malgrado il fratellino cercasse d’artigliarsi al suolo, strillando nel frattempo in acuti miagolii come un gatto rinchiuso nel trasportino.

Infine, vedendo che non poteva sollevarlo,  Milo smise di tirare, intimando con un nervoso scuotere della catena ad Aiolia di arrampicarsi in cima la grotta, appello cui il minore dei Valavitis rispose, seppure imbronciato e borbottante maledizioni e improperi a gogò.

“Bien, ora che ti sei unito a noi”, fu il discorso di benvenuto del fratello “vediamo di sistemare questa faccenda al più presto … in cucina, c’è una calda Choucroute che mi aspetta …”

“Ouais, sempre a pensare a te stesso … a me mai, eh?”

“Ma di che cosa ti lamenti, procione malnato?”

“Io mi lamento, perché tu ti lamenti!”, fu il logico sillogismo del lionceau di casa.

Girando inviperito il capo biondo, Milo schioccò la lingua. “Non era mia intenzione finire in questa ferrosa matassa, lo sai? Eppoi, mi pare il minimo darmi una mano, visto che sono tuo fratello!”

“E tu che fai per me? Eh? Che fai, se non rompermi i cocomeri i mane e sera?”, ribatté piccato Aiolia.

Seigneur, non avevano mica intenzioni d’incominciare a litigare, vero?

“Oh, questa è bella! E tu? Vogliamo elencare tutte le connerie da te commesse e dalle quali io ti ho dovuto tirare fuori? La colla sulla sedia della maestra alle elementari? Le caramelle di Kanon, che ti sbavasti di nascosto? I fidanzati gelosi? I capelli che tagliasti a Saga?  I compiti che ti correggo?”, e la lista fu portata avanti crudelmente dal ragazzo, facendo imporporare ulteriormente le guance del lionceau, che replicò alterato:

“Mais oui, mais oui! La colpa è sempre mia alla fine! Non ti va bene un compito, la colpa è mia perché la sera prima non ti ho permesso di dormire! Sasà e Nônon litigano per le loro solite cavolate, perché li avevo detto che non riuscivo a trovare il temperino nel cassetto! Il gatto non caga, perché mi sono dimenticato di dargli l’erba gatta! Ieri sera non ti sei scopato Momus, perché dormivo in camera sua! E questo ti brucia da morire!”

“L’hai detto!”, esclamò con veemenza Milo, ignorando che in quel momento Shaka mi stava sventolando un lembo della tunica, in quanto avevo dimenticato come si respirasse, il volto in fiamme e vapori che mi fuoriuscivano dalle orecchie. “Ero tanto così da … e tu … tu, puzzola della malora … hai rovinato tutto!”

“Oui, io ho sempre rovinato tutto! Cosa vuoi aspettarti da un fratello frutto di preservativo bucato?”

Roteando gli occhi spazientiti, il fratello fischiò: “Ih, ancora con questa storia del condom rotto … è da quando hai sei anni, che ti trinceri dietro questa scusa, vedi di crescere!”

Esibendo una leonina linguaccia, Aiolia continuò: “Mi avete sempre a malapena tollerato, tutti e tre! Tranne Isabelle, ché ero il suo cucciolotto! Mai che vi foste preoccupati per me, mentre la vostra sorte mi era ognora a cuore!” e si batté il petto a mo’ di gorilla. “E volendo aggiungere ingiuria ad ingiuria, mi avete pure venduto per un set di dieci pastine!”

Rivelazione choc, seguita da sorprese esclamazioni miei e di Shaka, che volgevamo lo sguardo da Aiolia a Milo e viceversa.

“Venduto per un set di dieci pastine?”, domandò incredulo l’indiano, sbattendo gli occhioni finti blu.

Portando in avanti la mano, Milo ci tenne a mettere i puntini sulle famose i. “Hey, non prendertela con me; avevo un anno, ero giuridicamente incapace d’intendere e di volere!”

“Venduto per un set di dieci pastine?”, chiesi io, condividendo il medesimo sentimento di Shaka.

“Sì, ma la pastina … quella la volevi, vero?”, sogghignò famelico Aiolia, godendo del leggero rossore sulle guance imberbi del fratello.

“Venduto per un set di dieci pastine?”, domandai ancora, sconcertato.

Papie, forse un piccolo siparietto sarebbe necessario per esplicare lo chagrin di Simba. (Versione poi confermatami la sera stessa da un recalcitrante scorpion lubrique.)

 

Era il primo dicembre di Aiolia, all’epoca uno sgambettante ammasso di ciccia con qualche ciuffo di capelli qua e là. Natale si stava avvicinando e la fragranza di tartes, macarons, eclairs al caramello e burro salato,  pan d’epices, la galette des rois, la buche de Noël e quant’altre leccornie si espandevano per le strade, ancorando i bambini sbavanti alle vetrine delle pâtisserie  e delle boulangerie.

I fratelli Valavitis non erano da meno: infatti, fin dalla tenera infanzia si erano dimostrati insaziabili divoratori di dolci di ogni forma e di ogni contenuto calorico, arrivando a saltare il pasto pur di affondare i denti su di un petit four.

Quando c’era solo Isabelle, si avevano a tavola le pastine cinque giorni alla settimana.

Quando arrivarono Saga e Kanon, le pastine diminuirono a tre volte alla settimana.

Quando fu il turno di Milo, esse comparivano solamente la domenica.

Ed infine, quando Aiolia fece il suo improvviso ingresso nel mondo, le pastine si consumavano sì alla domenica, ma due al mese.

Il motivo originale di questo cambiamento era dovuto ad una tattica alimentare: i due genitori avevano convenuto che in effetti troppi dolciumi potevano recare danno alla salute dei bambini e che ora che il clan si era allargato, bisognava irrigidire la disciplina, onde evitare esempi di favoritismo verso uno dei cinque pargoli.

Ma agli occhi di un bambino la situazione era percepita come la più grande ingiustizia della sua vita; peggio della punizione – immeritata – di passare tutta la ricreazione in classe nell’angolino per aver – a ragione – schiaffeggiato le chouchou de la maîtresse, che ancora una volta aveva fatto la spia circa un furto di biscotti al cioccolato nel refettorio, nonostante ci si fosse dichiarati più volte innocenti, anche se non ci si sapeva spiegare come mai gli angoli della bocca e i denti fossero macchiati appunto di cioccolato.

 E gli allora bambini Valavitis la vedevano esattamente alla stessa maniera, scaricando la loro sindrome di astinenza sull’ultimo arrivato – Aiolia – eleggendolo causa principale dell’orribile carestia di pasticcini. Questo rancore zuccheroso si accumulò, si accumulò, si accumulò, finché un giorno la bomba esplose e la miccia fu la festa di compleanno di una compagnuccia di scuola di Isabelle.

Digrignando i denti perché la sorella avrebbe avuto l’occasione di fare una magistrale scorpacciata di torta e loro no, i piccoli gosses dovettero inoltre sopportare un ulteriore affronto, che consisteva di passare l’intero pomeriggio a casa della loro vicina di casa, la vedova Blondel, relegati nel tetro studio del defunto marito (povero Jean – Paul! Se solo si fosse fermato alla quarantesima ostrica!), poiché rischiavano di rompere le statuine di porcellana della signora. Peccato che esse si trovassero ovunque, ma proprio ovunque, dal salotto al bagno. A detta dei frères terribles, nel gabinetto c’era una certa pastorella ghignante proprio sopra il cassetto dello sciacquone, inibendo così i bambini a tirare fuori il loro pirulino e fare tranquillamente pipì.

In ogni modo, i nostri uomini si erano ritrovati nell’austera stanza sulla cui parete centrale troneggiava la foto del fu M. Blondel, un tizio pelato con un paio di mustacchi divisi a metà da un nasone lungo e adunco. Sulla sua scrivania di mogano zitto, buono e soggiogato disegnava Saga il suo primo amore Marie – Laure o almeno quella era l’identità dello spaventapasseri dalla testa abnorme e dalle lunghe trecce nere. Poco distante dal suo raggio d’azione stava comodamente per terra un Milo di un anno, il quale ammazzava il tempo ficcandosi in bocca ogni oggetto reperibile dalle sue chele, sbuffando stizzito quando Saga gli sfilava il suo lecca- lecca di fortuna e opponendo a volte pure una canina resistenza, serrando caparbio le mascelle.

Kanon, appollaiato sulla culla, si trastullava a togliere il ciuccio ad Aiolia, il quale frignottava indispettito, per poi calmarsi non appena il fratello maggiore glielo restituiva. Capito il meccanismo, il minore dei gemelli riprendeva a sottrarre il ciuccio e dopo qualche mué mué lo zittiva con il suo balocco, che l’ultimogenito ciucciava con disperato vigore. Sennonché, al quinto giro Aiolia, fissandolo battagliero nonostante gli occhioni velati di lacrime, gli elargì una zampata vendicativa in fronte. Per nulla divertito dalla ribellione del fratellino, Kanon gli strappò via il prezioso ciuccio, nascondendolo dietro la schiena. Scioccato da simile mostruoso gesto, il bébé rimase interdetto per qualche istante; poi, divenne d’un tratto rosso scarlatto in viso ed infine spalancò le fauci sdentate, elargendo al mondo il suo primo portentoso ruggito, il quale avrebbe risvegliato dalla tomba pure lo stradefunto M. Blondel.

Accomiatandosi dal suo disegno, Saga si alzò, raggiunse la culla, elargì un sonoro scappellotto al gemello e prese in braccio un Aiolia umiliato e offeso, il quale si calmò quasi subito, voltando in automatica il volto verso il petto del gemello maggiore, cercando ciò che l’anatomia maschile di Saga non era in grado offrirgli.

Imbronciato, il bébé si ficcò il pollice in bocca, suggendolo avidamente: piangere metteva appetito.

Dopo un goûter a base di budino al semolino – che i bambini mangiarono con la forza della disperazione – si propose di sgranchirsi le gambe con una bella passeggiata in centro città.

 E lì avvenne il fatto.

Approfittando di un momento di distrazione della vedova Blondel, Kanon deviò il percorso originario per recarsi galoppando rapido con la carrozzina davanti alla pâtisserie, seguito di corsa da Saga, che teneva per mano Milo o meglio lo trascinava, essendo le sue gambette ancora troppo corte per reggere la falcata del gemello maggiore.

“Nônon, che fai là?”, chiese sbuffando e scostandosi un ciuffo ribelle dalla fronte, mentre Milo  aveva per la stanchezza la lingua fuori come un cane.

“Hé bien, frangin, andiamo a comprarci delle paste!”

All’udire l’intenzione del proprio doppio, Saga s’irrigidì, mentre i suoi occhi si spalancarono fin quasi a diventare due perfette circonferenze; sapeva per diretta esperienza, che quando Kanon aveva un’idea, era impossibile persuaderlo a desistere e come al solito a farne le spese sarebbe stato proprio lui, in quanto fratello maggiore e responsabile della condotta di quella canaglia patenta che si era, hélas, ritrovato suo malgrado come gemello.

“Hai qualche sou (spicciolo, ndr.) per pagarle?”, s’informò un po’ troppo tardi, ovvero quando ormai Kanon era entrato con la carrozzina nella pasticceria. Hé, mica li tiravano dietro i dolci: 23 franchi l’uno! (3 euro 50 ca, ndr.)

“Bonjour les enfants!”, li salutò cordialmente il pasticcere, sporgendosi dal bancone per venire incontro ai tre nanerottoli comparsi all’improvviso. “Siete qui pour le goûter?”

“Exactement!”, confermò Kanon con grande convinzione; Saga si limitò a sorridere incerto. Quanto a Milo, aveva già adocchiato un enorme bignè rigonfio di cioccolato, divorandoselo con gli occhi. “Vorremmo dieci pastine, s’il vous plaît!”

“Ah! Una commissione da parte di Papa e Maman?”, inquisì sempre sorridendo l’uomo, riempiendo il vassoio con i succulenti dolci indicati da Kanon, il quale, anticipando il sincero Non del gemello, rispose con un affermativo Oui.

“Alors, les voilà … dix petits gâteaux … ça fait … 230 francs!”, annunciò il pasticcere, allungando la mano per i soldi, ricevendo invece Aiolia come pagamento. Interdetto, l’uomo chiese: “C’est quoi, ça?”

“Hé, per le pastine!”, fu la spiazzante risposta.

Pausa scioccata. “Per le pastine?”

“Non basta per dieci paste? Ma Maman diceva che Iou – Iou era il suo tesoro! Certo che lei è una persona proprio avida!”, protestò Kanon, infilando nel frattempo il pacchetto nella carrozzina al posto del fratellino. “Enfin, quel mostriccio varrà almeno 500 franchi! Si tenga il resto! Bonne journée!”, disse, scappando via dal negozio con il fratello alle calcagna.

Decisamente stordito, l’uomo si riebbe dallo choc solo quando percepì qualcosa di caldo sotto il culetto del bébé che gli riscaldava il braccio. Con estrema lentezza, girò la testa verso Aiolia, che gli elargì un sorrisone senza denti, per poi deliziarlo con un gorgoglio di risate e bollicine. 

Inoltre, il suo sguardo cadde accanto a sé a qualche metro più in sotto e per poco non balzò indietro quando s’accorse che la terza scimmietta bionda era inspiegabilmente riuscita a portarsi dall’altra parte del bancone per raggiungere il suo adorato pasticcino. Fissandolo ineffabile, Milo articolò: “Fre – ga – to!”, ficcandosi poi in un sol boccone l’enorme bignè al cioccolato.

Fortunatamente, la faccenda si risolse bene. Notando, infatti, che Aiolia si era trasformato in un vassoio di dieci pastine (nonostante Kanon sostenesse trattarsi di un miracolo) la vedova Blondel rispedì i due birbanti dal pasticcere con 300 franchi per pagare il maltolto e soprattutto per scusarsi e riscattare i fratellini. Le riportarono indietro il resto di un franco, ché Milo nel frattempo si era sbafato due succulenti macarons, uno sempre al cioccolato e l’altro al lampone.

Così, per un glorioso pomeriggio, ai fratelli Valavitis fu concesso di guardare alla tv un bel film sui cow-boy, accompagnato dai pasticcini e da un bel tazzone di latte e menta ciascuno. Perfino Aiolia poté gioire dei dolciumi, divertendosi troppo a vivisezionare tra le braccia di Saga un gonfio bignè, aprendolo tutto e pasticciando le mani nella morbida crema, per poi portarsele direttamente in bocca.

A cena, nessuno mangiò nulla.

E fu punizione per una settimana intera.

 

Storiella a parte, rimanemmo bloccati sul cucuzzolo della grotta di Lourdes, applicandoci a sciogliere l’infernale nodo, il tutto mentre Milo e Aiolia si beccavano come capponi e Shaka continuava a insinuare ogni sorta di porcheria, che potevo aver combinato con la cugina.

“Niente, non si smuove di un anello, bordel!”

“E ora?”

Lo squillo del telefonino interruppe i nostri foschi pensieri, tra cui quello di rimanere intrappolati per tutto il weekend sulla caverna. “Pronto?”, fece Aiolia, ritagliandosi un angolino nel già esiguo spazio della grotta. La sua espressione delusa ci delucidò, che non era esattamente la persona che desiderava l’avesse chiamato. “Oh, salut Shura! Ça va?”

“Mouais, si sopravvive. Piuttosto, sono qui in moto con la cugina di Shaka; dentro la custodia del dvd del film “Il Giardino delle Vergini Suicide” abbiamo trovato una lettera d’addio di Kumar, la quale diceva che se gli fosse capitato qualcosa, di andare a cercarlo in casa di Molinier. Allora, è lì?”

“Beh, non proprio in casa …”, sospirò Aiolia, sollevato che arrivasse un aiuto esterno. “Siamo in cima la grotta di Lourdes!”

“Come?!?”, fece perplesso Shura, dopo un secondo di silenzio. “Siete a Lourdes? A fare che? Mica si vuole convertire quel tizio? O si vuole affogare nell’acqua santa?”

“No, no. Non siamo a Lourdes: siamo sul cucuzzolo della caverna!”

“Cosa?!? Blasfemi! E nessuno ve l’ha impedito? Tra milioni di fedeli nessuno ha mosso un dito?”

Ora era il turno di Simba ad essere confuso. E scocciato. “Shura, fuma meno! Siamo nel giardino di Momus, sulla finta grotta! Shaka ci ha legati come salami con una catena di ferro, che non ha nulla a che invidiare a quelle medievali!”

“Ricevuto. A proposito, dopo il cartello del ristorante, quanti chilometri?”

“Solo cento metri!”

“CARAJO!”, imprecò lo spagnolo e potemmo ben udire una brusca frenata. Uffa, ma perché tutti sbagliavano strada, quando venivano a casa mia?

Girandosi verso di noi, Simba ci mise al corrente dell’ultima novità. “Shura e tua cugina stanno venendo … hanno trovato la tua lettera nel dvd … mi domando come l’abbiano reperita …” e Shaka evidentemente lo sapeva, visto che borbottò qualcosa di inintelligibile , trincerandosi dietro i suoi strani silenzi.

“Speriamo si sbrighi …”, sbuffò Milo, massaggiandosi gli occhi cerchiati dalle occhiaia. “Mi vien voglia di sbattere la testa contro il muro …”, per non parlare del persistente brontolio allo stomaco, accompagnato da quello del fratello. In effetti, il ragazzo non aveva una bella cera – simile al gemello maggiore i primi di novembre – e quel suo comportarsi fuori di testa doveva essere una conseguenza del poco sonno. Idem per Aiolia. Bien, avevo trovato un’altra regola d’oro per la convivenza: mai svegliare il Valavitis che dorme. Perché altrimenti iniziano a sragionare e anche di brutto.

“Ti duole molto?”, domandai preoccupato, massaggiandogli le tempie.

“Moui …”, ronronò Milo, appoggiando la testa dolorante sull’incavo della mia spalla, senza cessare per un istante le sue spudorate fusa. “Dai Momus … vieni da me stasera, che ti spiego che cos’è un uke …”, continuò, strusciandosi come una marmotta su di me, quasi volesse marcare il territorio col suo odore. “S’il te plaît, rendi felice un povero scorpion solitaire …”, e mi cinse la vita con un forte abbraccio, neanche fossi il suo orsacchiotto. “Mon pingouin tout vierge …”

“Martìn ne avrà ancora per molto?”, chiesi preoccupato a Shaka, che fissava nel frattempo un Aiolia appostato dalla parte opposta, che scrutava intensamente tra i rami degli alberi. “Milo è completamente sbarellato!”  ed ero stato ottimista a definirlo così! Con il cervello scombussolato dal poco sonno, la sua esuberanza lubrique stava lentamente colando come lava e per fortuna, che gli altri due avevano lo sguardo impegnato altrove, risparmiandomi la vergogna di essere pizzicato con Milo che mi … (scarabocchio illeggibile).

“E che mi dici di suo fratello?”, fece scettico l’indiano, indicando Simba in fase vedetta. “Da quando ha scoperto, che dalla grotta si ha una perfetta visuale della camera di Marin … fa’ un po’ i tuoi conti …”

“Però”, ribattei seccato, scrollandomi per un nanosecondo il biondo di dosso, per poi riesserne catturato “la colpa è anche tua! Se non fossi scappato di casa, di certo i miei due fratellastri sarebbero in condizioni migliori!”

“Ah! Adesso li difendi? O è il tuo p’tit scorpion che ti fa parlare così? Allora è vero, quel che si vociferava a scuola …”

Tirando fuori gli artigli, mi avvicinai pericolosamente a lui, bramoso dei suoi occhi. “Tu …”, sibilai, pronto a far strage: io non ero la jument di Milo, no e no! Calunnie e maldicenze! Quanto ai baci … vabbè, sono cose che capitano! Ma oltre a quelli, nisba!

E ancora una volta, Shaka fu salvato in extremis dall’arrivo di Martìn e Shirami, la quale scese veloce dalla moto, mentre il primo la parcheggiava, dirigendosi a grandi falcate verso il cugino. Si fermò ai piedi della grotta senza proferire parola, malgrado il fuoco nei suoi occhi non rivelasse nulla di buono ed infatti, rapida come la morte la ragazza si sfilò la scarpa e con precisione mortale colpì in pieno viso il mio amico.

“CANAGLIA! TI PAIONO SCHERZETTI DA GIOCARMI? MI HAI FATTO VENIRE A MOMENTI I CAPELLI BIANCHI, SPECIE DI RAPERONZOLO BOLLYWOODIANA!”, ruggì alla Tsunami, scuotendo quasi la caverna dalle fondamenta.

“Ma cuginetta …”

“Cuginetta un corno! Primo, ti sei conciato come Lady Gaga, roba da far venire le crisi epilettiche! Secondo, sei sparito di casa, lasciando un messaggio d’addio nella custodia del “Giardino delle Vergini Suicide” ed io dovrei stare qui ad ascoltare le tue patetiche scuse, senza menarti? Eh? Stai zitto e non parlare! Ora tu scendi e vieni a casa: i tuoi e mio papà Asmita saranno qui fra un quarto d’ora …”

“Esattamente, dieci minuti e trentanove secondi”, la corresse Shura, che nel frattempo l’aveva raggiunta.

“Giusto! Quindi, porta qui immediatamente le tue fesses o ti farò molto, ma molto male!” e un ghigno diavolesco le deformò il volto olivastro.

Fischiando scettico, Shaka commentò sarcastico: “Tzé! Vorrei ben vedere! Chi ti credi di essere? Tu, farmi del male?”

“Mai sottovalutare la perfidia di una donna, cuginetto! In ogni caso, i tuoi Buddha sono tutti nel cassonetto delle immondizie! Nel secco!”

“No, come hai potuto?”

“Sì e non solo quello! Il poster del Dalai Lama …”

“No!”

“La biografia del Buddha … l’incenso … i fiori (finti) di loto …”

“Perché? Cattiva! ”

“… e il rosario! Tutto nelle immondizie!”, dichiarò la giovane sadicamente, sussurrando intanto all’orecchio di Shura: “Mica è vero, sai? Ma la faccia del cugino è ogni volta impagabile” e quegli trattenne a stento un’ilare smorfia.

“Noooooooooo!!!!!!!!!”, ululava nel frattempo Shaka battendo senza ritegno alcuno i pugni sulla dura roccia. “Il mio rosario, no! Gli volevo tanto bene … era il mio chouchou …”

Incrociando insensibile le braccia, Shirami infierì: “Beh, questo è il minimo per un fedifrago vigliacco, che scappa il giorno del suo fidanzamento!”

Agitandosi come una gallina rincorsa dalla volpe, Shaka balbettò a disagio: “Cuginetta adorata … Rammy mia … non volevo spaventarti … e solo che … solo che … io … tu …” e tutti pendemmo dalle sue labbra, aspettandoci la sua dichiarazione d’amore. “Che hai fatto ieri sera con Camus?”

Grugnito generale di frustrazione, Shirami in particolare. “Niente, Kasha, solo parlato!”

“E la sua giacca? Come me la spieghi?”

Battendo spazientita il piede per terra, la ragazza  brontolò: “Avevo freddo e lui mi ha cavallerescamente ceduto il suo indumento! Benedetta Parvati, che paranoia, Kasha! Eppoi, cosa vuoi che quel pinguino inoffensivo mi abbia potuto mai combinare? Si vede lontano un miglio, che è un uke, dai, non offendermi!”

Ciò parve rassicurare Shaka, ma non il sottoscritto, che s’intromise, puntualizzando: “Non sono un uke!”

“D’accordo, se non è un uke è impotente … o insomma, poco attivo verso certe anatomie …”

“Sono un uke!”, replicai, meglio quello del sessualmente incapace. Vidi Aiolia bisbigliare qualcosa all’orecchio del fratello e dal ghigno, che si formò sulle labbra di quest’ultimo, già iniziai a pentirmi della mia affermazione.

“Allora davvero non hai fatto nulla con Momus?”, pigolò Shaka, esibendo i suoi occhioni più tondi.

“Uffa, che lagna!”, s’intromise Shura, sostenendo Shirami, che nel frattempo si era appoggiata disperata alla sua spalla. “Es-tu un idiot ou quoi? Tutto il mondo ti sta dicendo, che tra tua cugina  e Molinier non è accaduto nulla e tu ti ostini a credere, che quel Pingu imbranato l’abbia spulzellata? Quando è un fatto universalmente noto, che lui sia ancora pulzello?”

“Per il momento, Shura, per il momento!”

“Milo! … Tais-toi! …”

“Porteremo a Lourdes le lenzuola della prima notte, urlando: “Al miracolo! Momus ha trom- …”

“Aiolia! Tu quoque?”

Grattandosi il capo moro, Shura considerò che forse era davvero l’ora di tirarci giù, altrimenti finivamo per ammazzarci a vicenda. Senza omettere il livello crescente d’oscenità sparate con la naturalezza più raffinata di questo mondo.

“Ah, diablo d’un carajo! E alla fine, tocca sempre a me risolvere la faccenda … ieri sera coi bulli … oggi in cima la caverna … mando una petizione al sindaco, per una medaglia al valore civico … carajo se lo faccio …”, borbottò lo spagnolo, recandosi assieme a Shirami nel gabbiotto degli attrezzi, per ritornare con la scala a pioli sottobraccio, che sistemò davanti alla grotta e, dopo un rapido segno della croce davanti alla Madonna, commentò: “È esattamente in situazioni come queste, che ringrazio i miei genitori di avermi mandato a scout!”

“E il pellegrinaggio a piedi a Santiago di Compostela? Quello  te lo ricordi?”

“Milo, non spargere sale sulle ferite …”

E dopo che i due amici ebbero condiviso quell’intima e dolorosa reminescenza, Shura con certosina pazienza si mise a sciogliere il nodo di ferro, che ci teneva imprigionati lassù, distruggendo poco a poco i nostri nervi.

Non ci accorgemmo, che, nel frattempo, una macchina parcheggiava davanti la mia casa. E neanche a farlo apposta, fummo deliziati della presenza dei genitori e dello zio di Shaka, Monsieur Asmita Chopra, il quale fu accompagnato dalla sorella sotto la grotta, essendo appunto cieco.

Al solo vederli, Shirami impallidì, gelata sul posto; Shaka spalancò le fauci in un sordo: “Oh merde!”; Milo, Aiolia e Shura lo guardarono con espressione: “Ora son cavoli tuoi!” ed io, malgrado le accuse di libertinaggio, provai una genuina compassione per il mio amico. Ah, dimenticavo: e Mamie portò fuori il tavolo e delle sedie, rimproverando il sottoscritto per non averla avvisata della numerosa comitiva, che avevo invitato per il pranzo. Certo, come se l’avessi saputo, che il mio migliore amico si fosse ancorato come un gibbone sulla grotta di Lourdes, dandovi appuntamento a tutto il mondo.

“Shaka!”, urlò sua madre, sventolandogli contro sia il pugno, che la borsetta. “Figlio degenere! Che mai ho combinato nella vita precedente, per meritarmi un delinquente come te?”

Sghignazzando senza più freno alcuno, Aiolia mormorò al fratello: “Qualcosa di molto grave, Madame …”

“Insomma, ho dovuto sopportare tutti i tuoi capricci (Buddha, i capelli in stile Barbie e altre cose che preferisco non nominare); ma questa di scappare di casa, per sfuggire ai tuoi doveri coniugali proprio non dovevi farmela ! Disonore della famiglia!”

“Io non mi voglio sposare, capito?”

“E invece sì, Shaka!”, s’intromise lo zio Asmita, puntandogli contro il bastone con incredibile precisione, pur essendo un non vedente. Forse era una pratica derivante dall’abitudine. “Siccome dopo diciassette anni abbiamo ben appurato il tuo stato mentale molto, ma molto peculiare, allora si è deciso di trovarti una virginea fanciulla che ti stia accanto, impedendoti di commettere fesserie!”

“Papà, stai parlando di una badante o di una moglie?”, s’intromise un’accigliata Shirami, dando voce alla comune perplessità nata da quel discorso. M. Asmita le fece un cenno, che le avrebbe sciolto il nodo della questione più tardi.

“È il tuo destino, nipotastro. Non puoi sfuggire, ciò che gente, con più anni e più rincarnazioni, hanno progettato per il tuo bene: con la testa che hai, non mi sorprenderei di vederti un giorno sposato con una ballerina di lap-dance a Las Vegas!”

Io, al contrario, mi sarei sorpreso eccome.

“O a fare direttamente la lapdancer!”, lo sfotterono i frères terribles, mentre io intimavo a Shura di sbrigarsi, ottenendo un cortese “va’ in malora!” da parte sua.

“Oui, certo! È facile programmare le vite altrui, vero zio? Eppoi, vabbè, finché ci si sposa su di un pezzo di carta la faccenda può anche essere accettabile, però poi … hé … a letto, chi se la deve sbrogliare?”

“Cosa?”

“E i bambini, che nasceranno?”

Rabbrividimmo tutti davanti all’immagine dell’indiano in versione papà, alle prese con biberon e pannolini, attorniato da una massa di strillanti mini- Shaka vestiti da bonzi buddisti. Neanche Edgar A.  Poe poteva arrivare ad un simile livello d’orrore.

Volendo fare breve e decente una storia lunga e indecente, zio e nipote andarono avanti per un bel pezzo a litigare, del tutto ignari che nel frattempo Shura era riuscito a liberarci – e subito ne approfittammo per scendere rapidi come pantegane – Mamie aveva finito di preparare tavola, aiutata da Shirami e che ci sedemmo a tavola per il pranzo, cui si unirono perfino i genitori di Shaka, sfiniti dal tentare di ragionare con quella bestia di figliolo.

Sennonché, prima che Mamie potesse portare l’anelato pasto, i due litiganti trovarono il perverso modo per coinvolgerci di nuovo nella loro bega. E fu quando Shaka, alzandosi in posa epica, urlò: “Io non posso sposarmi con un’altra, poiché il mio cuore è già preso! Sì, zio! Un tenero amore fa vibrare il mio cuore, riempiendolo di lasciva ardente voluttà! Ebbene sì: CAMUS MOLINIER, TI AMO!”

Silenzio di tomba.

“TOI. TU. ES. MORT!!!”

No, non fu Milo ad urlare quella minaccia di morte, visto che con un placcaggio degno di Sébastien Chabal Aiolia e Shura l’avevano immobilizzato appena in tempo, malgrado sbuffassero non poco nel trattenerlo: peggio di un gatto selvatico, il mio fratellastro si dimenava, soffiando e graffiando, utilizzando l’unico genere di vocabolario di greco che conosceva, ergo insulti e anche assai pesanti, a detta della veemenza con la quale li pronunciava.

“Milo, calme-toi! Non vedi, che sta bluffando?”

“Salaud! Enfoiré! Pervers! Sale cochon! Sette anni ha condiviso la stanza avec mon pingouin! Cosa gli ha fatto durante tutto quel tempo? Che gli ha fatto? Se solo s’è azzardato a sfiorarlo io giuro che me lo mangio crudo al curry!”

No, non fu Shirami, che incrociò le braccia, scuotendo affranta il capo e chiedendo alla dea Sarasvati come mai l’avesse punita con un cugino demente.

Non fui nemmeno io, ché in quel momento Papie ero impegnato a correre via da Mamie, la quale m’inseguiva con il mattarello in mano, mentre i genitori di Shaka le davano manforte, tacciandomi di dubbia moralità e di corruzione dei giovani.

E se dunque non si era capito, era stata proprio colei, che un dì appellasti moglie, a sentenziare la mia condanna a morte.

“Disgrazia della mia carne! Delinquente d’un pel di carota! Nonno venale, nipote maiale! Lo sapevo, che tutta quella somiglianza con quella sale charogne di tuo nonno non era un buon segno! Come hai potuto? Ingrato d’un pinguino all’ingrasso! Vieni qua, Pingu, non sfuggire al tuo castigo! Vieni da nonnina, che adesso ti trasforma in Camusina!”

E figurati se lo facevo, anzi correvo ancora più veloce, arrampicandomi in quattro balzi sul ramo di un albero, sistemandomi su di esso comodamente ed eleggendolo a mio rifugio, fintanto che Mamie non sapeva dove avessi nascosto la motosega.

 Intanto, che questa Danse Macabre des Fous continuava in un Allegro molto vivace, la dea bendata per una volta ascoltò le mie preghiere e la macchina di M. Christophe – che era partito qualche ora fa, per prendere Maman all’aeroporto  - fece la sua miracolosa apparizione, anche perché Milo si era liberato con un possente strattone dal fratello e da Shura (che per la cronaca commentò: “Ma sì, accoppalo pure!”) gettandosi su Shaka come un lupo a troppo tempo digiuno.

Quando Maman scese dalla vettura, si chiese il motivo per il quale il suo futuro consorte se ne stesse imbambolato a fissare il giardino al limite dello sconcerto. Specie, nel momento in cui un eccitato Aiolia gli venne incontro, annunciandogli contento, che suo fratello aveva tutta l’intenzione di prendere lo scalpo di Shaka, dopo averlo massacrato di botte, ovviamente. E in quell’istante, M. Christophe considerò sul serio l’opzione di una telefonata al Vaticano, onde aprire il processo di beatificazione di  Saga, che come San Francesco era l’unico che riuscisse a far ragionare le bestie.

Maman, allora, si diresse nella bolgia infernale appellata giardino e lo spettacolo che le si parò davanti la costrinse ad indietreggiare, quasi le avessero elargito un pugno allo stomaco: da una parte, vedeva me in versione gattonesca appollaiato su di un ramo, con Mamie e i signori Kumar che mi ringhiavano dietro con piglio molto canino; dall’altra, Milo e Shaka che se le davano di santa ragione per terra, intanto che Aiolia, Shirami e Shura scommettevano su di loro, incitandoli a menarsi più forte.

Ci volle una seria manciata di minuti, prima che Maman si riprendesse: di solito, quando partiva per di viaggi di lavoro, era certa che in fin dei conti io e la casa eravamo al sicuro, affidati alle cure dell’avia. Ora, osservando il campo di battaglia qual era diventato il nostro giardino, anche quella certezza crollò.

“Penso, che ti possa servire, mon doudou!”, affermò uno sconsolato M. Christophe a Maman, che sbatté disorientata le palpebre, guardando perplessa il megafono che il mio patrigno aveva tirato fuori dal gabbiotto. (Sinceramente, Papie, ma la nonna dove va a comprare tutte quelle cianfrusaglie? Fra poco, possiamo aprire un bazar!)

Sospirando, Maman impugnò il megafono, intimandoci di mollare le nostre occupazioni e di spiegarle che stesse esattamente accadendo. Come fulminati, ci chetammo all’unisono, il solo rumore udibile fu l’ultimo manrovescio di Milo sul viso di Shaka. “Bien, maintenant que nous avons un peu de silence, pourriez-vous tous avoir l’amabilité de me dire qu’est-ce qu’il passe ici ? Dans ma maison ?”

Silenzio imbarazzato.

Poi, simil mandria di bufali, corremmo tutti verso di lei, ognuno esponendole le proprie lamentele.

“Maman, Mamie mi vuole evirare …!”

“Tuo figlio, Corinne! Peggio di suo nonno!”

“Madame, suo figlio … col nostro …”

“Non è vero …”

“Corinne! Quel pervertito d’un indiano!”

“Com’è andata in Italia?”

“Madame, le dispiace se uso il bagno?”

Maman ci lasciò sfogare per ben quindici minuti, ascoltandoci con stoica pazienza o forse più semplicemente aveva già sconnesso la mente, relegando le nostre proteste allo stesso rango di un fastidioso ronzio di mosconi. Dopodiché, una volta calmati, c’invitò a spiegarle daccapo la situazione, evitando ogni siparietto superfluo e cochon. E siccome il nocciolo della questione era appunto Shaka, lei gli domandò gentilmente di rivelare il vero motivo per il quale lui non si voleva sposare. Con nostra somma sorpresa, il mio amico ammise che in effetti, lui la cugina non la voleva sposare, poiché s’era preso già da tempo una cotta per un’altra (femmina, quindi non io!) Ma quando lo spronammo a divulgarne il nome, beh, lì Shaka divenne rosso pomodoro.

“E vabbè”, capitolarono M. Kumar e zio Asmita “abbiamo capito, che sei un caso senza speranza. Vorrà dire che nella prossima rincarnazione sarai una spogliarellista …”

“Però, mon chou”, protestò Madame Kumar “non riesco a capirti: ho chiesto apposta allo zio di concederti la mano di Shirami, perché sapevo quanto ti piacesse!”

“Cosa?!?”, strillò la detta ragazza, sbiancando in viso.

“Ma … ma non può essere!”, balbettò Shaka, rendendosi conto di aver anche lui commesso la cazzata del secolo (che sollievo sapere, che non ero il solo a questo mondo!) “Era Chandra la mia promessa!”

“Deficiente, cos’hai capito?”, lo rimproverò zio Asmita. “Eppoi dicono che sono io il cieco in famiglia. (Il che è vero, comunque) Visto, che significa non esercitarsi più col sanscrito? Hai pigliato fischi per fiaschi, Chandra per Shirami! E ora osa a dirmi, che lei non ti piace!”

Shaka non osò, si limitò ad annuire vergognoso.

“Hai ripreso tutto?”, chiese Milo ad Aiolia, il quale aveva sfoderato il cellulare dalla tasca dei pantaloni.

“Oh yeah, frangin!”, ghignò quegli inquietantemente. “Con questo lo ricattiamo a vita ...”

“Hey, hey!”, s’intromise Shirami, calmando l’euforia generale. “Papà, tu mi avevi detto, che Kasha doveva sposarsi con Chandra!”

“Boff, non mi ricordo d’aver mai affermato tale sciocchezza!”

“Non fare l’indiano!”

“Eddai, bimba mia, anche a te lui piace, vero?”

“Ma avevo dieci anni allora! Se avessi saputo, che razza di sbarellato ne fosse venuto fuori, l’avrei affogato nella fontana dei pesci rossi!”

“Dettagli, Shirami, dettagli!”

“In ogni modo”, ribatté la ragazza, incrociando caparbia le braccia al petto. “Chi vi assicura, che io voglia pigliarmi costui? Quando invece ho trovato un meco assai più … intraprendente?”

Tutti i maschi lì presenti incassarono gelati quell’affermazione, guardandosi nervosamente gli uni con gli altri e sperando, che il meco in questione non si trovasse lì presente. Invece …

“Vero, mi luz?”, arrossì la giovane, stringendosi a Shura.

“Vero!”, rispose lui abbracciandola, un’espressione molto, molto, ma molto sorniona e soddisfatta dipinta in volto. “Kumar, tua cugina è davvero una perla: Venere a confronto è una novizia in un convento di monache di clausura …”

“Cioè voi due …?”, chiese Aiolia, roteando la mano, per lasciar intendere a quali joies i due si fossero abbandonati.

“Tre volte …”

“Quoi?!”, fu l’urlo agonizzante di Shaka, che stramazzò al suolo svenuto, sempre ripreso dall’infaticabile obiettivo di Aiolia.

E il di lui fratello, appoggiandomi il gomito sulla spalla, borbottò scocciato: “Tzé, l’ingiustizia del mondo: tutti pomiciano a questo mondo, tranne me!” Essendo a conoscenza del suo stato alterato di mente, optai per rassicurarlo, promettendogli un bacetto stasera, se si comportava bene per il resto della giornata. Gorgogliando soddisfatto, lo scorpion lubrique pareva essersi ammansito.

In ogni modo, alla fine della fiera, scoprimmo che in realtà tra Shura e Shirami   non era accaduto nulla di compromettente e che anzi, quello era in realtà un sadico piano ideato dalla sadica cugina, per vendicarsi sadicamente del sadico cugino, che in maniera sadica era fuggito dalla sadica casa, lasciandole un sadico messaggio nel sadico contenitore del sadico dvd del “Sadico Giardino delle Sadiche Vergini sadicamente Suicide.”

Enfin, la crudeltà regnava sovrana dai Kumar.

Ciononostante, tutto bene quel che finì in parità, ché non si capì bene se i due si dovessero o meno sposare. L’unica certezza che avemmo, fu che la Choucroute venne bene e che tutti la gradirono moltissimo.

“Ma poi”, chiesi a Shirami, prendendola in disparte, intanto che il resto della sua famiglia prendeva congedo dalla mia, ovvero verso le cinque inoltrate del pomeriggio “davvero non pensi di sposarlo? Non voglio fare il mezzano, però se ha causato tutta questa baraonda, l’ha fatto pensando a te …”

“Ouais, lo so. E chissà, forse un giorno m’impietosirò di lui e lo sposerò. È la nostra condanna: noi donne siamo troppo tenere e abbiamo compassione di voi uomini, quando in realtà non meritereste neanche una nostra lacrima!”, disse, mostrandomi il bianco dei suoi denti in un caldo sorriso. “Eppoi, a maritarmi ora non ci penso. E soprattutto, ne riparleremo quando Kasha sarà uscito dalla sua stupidità adolescenziale. Questo però non significa, che lo respinga del tutto: lo farò soffrire, quello sicuro, e poi … forse …”

“T’es mechant!”, esclamai, d’un tratto abbracciato da Shirami, che mi sussurrò in modo complice:

“Cattiva? È così, che bisogna essere con gli uomini! Devi farli ballare come orsi, se vuoi che ti restino vicino, altrimenti dopo che si sono presi il loro spasso, veleggiano verso altri porti!”

Un discorso molto alla Kanon, pensavo nel frattempo.

“Perché mi dici questo?”, chiesi innocentino.

“Hé … chissà perché …”, roteò gli occhi scuri la ragazza, elargendomi un buffetto sulla guancia. “A proposito”, aggiunse, schioccandomi il bacio di congedo su entrambe le gote. “Consiglio per te e il tuo petit ami: parlargli!”

“Gueh?”

“Hai capito benissimo, non fare lo gnorri: parla a Milo, vedrai che lo farai contento!”, fu il suo suggerimento, salendo intanto in macchina. “Ci sentiamo, eh? Tchao!”

Rimasi interdetto per tutta la sera: che voleva dire con “Parlagli e lo farai contento”? Ma io discorrevo con lui, anche fin troppo all’occasione … Sono confuso, Papie! Cosa significa? Quel ragazzo mi turba, ch’è capace in maniera quasi diabolica d’istillarmi continue contraddizioni! Non lo sopporto, eppure mi piace saperlo accanto; i suoi scherzetti mi fanno girare di continuo i cocomeri e malgrado ciò, li attendo con ansia; vorrei che mi lasciasse di tanto in tanto immerso nella mia privacy, ciononostante, quando lo fa, non vedo l’ora che l’invada al più presto. M’imbarazzo davanti alle sue dichiarazioni cochon, però poi … sotto sotto … mi piacerebbe che lui le attuasse …

Rifuggo i suoi baci e tuttavia sentire le sue labbra sulle mie è  … è … Seigneur …

Papie, ho paura!

Temo … temo … che mi stia innamorando del mio fratellastro … di … di Milo …

Che sia sbagliato? Enfin, che garanzie ho su di lui, tranne che mi ha tormentato di dispetti fin dal collège? Mi potrò fidare di lui? Ho così paura, Papie, paura di rimanerne ustionato! Io non so niente, non ho mai avuto né una ragazza, né un ragazzo; contrariamente a lui, non ho esperienza sulla quale possa fare affidamento! Non sono capace di discernere fino a che punto Milo sia sincero con me, o se si vuole solo divertire a mie spese: a volte, la sua ambiguità mi spaventa. Pensavo di essere io il difficile da comprendere, ma lui è cento volte peggio, poiché non si nasconde dietro un solido e neutro silenzio, bensì in un vaudeville di maschere, una più verosimile dell’altra. Ma qual è l’originale?

E se ammettendo, che Milo davvero voglia avere con me una relazione disinteressata, sarei capace di tenerla in piedi? Oppure, quando lui smetterà di cercarmi, di desiderami, io accetterò la cosa passivamente, senza battere ciglio? Oppure, sarò così inesperto da stufarlo subito?

S’il te plaît, Papie, dammi un consiglio, non so più da che parte sbattere la testa! Quando lasciasti Mamie per quel giovane, lo facesti senza rimpianti? Ti affidasti a lui? Aiuto, un consiglio!

Attendo con ansia la tua risposta, nel frattempo ti auguro ogni bene a te e anche al tuo compagno (spero che stia bene, ultimamente mi racconti che lo ricoverano un po’ troppo spesso all’ospedale …)

Je t’embrasse avec force,

ton petit-fils

Camus

 

Rilessi in fretta la lettera, anzi, il romanzo che avevo scritto, infilandolo rapido i fogli nella busta e attaccandovi sopra i francobolli.

“Hò, Ionesco, ti muovi? Perdiamo la corriera!”, m’intimò Milo, sbuffando impaziente e battendo con la stessa lena il piede per terra. Gli risposi di sì, che avevo finito e dopo un bel respiro profondo imbucai la mia missiva per il nonno. Dopodiché, raggiunsi i miei fratellastri, dirigendoci verso la fermata dell’autobus.

Erano passate tre settimane dall’incidente con Shaka, il quale si assentò subito dopo da scuola per un breve periodo.  Il motivo? Hé, andate voi in giro con un saio buddista a novembre … poi ne riparleremo … Shirami era ritornata nel Rajastan con il padre, però ci sentivamo via mail e in francese, giusto per evitare altri malintesi.

Nulla di nuovo era accaduto nel frattempo, compiti e interrogazioni a parte e qualche sporadico e invitabile litigio tra i due Valavitis rimasti. Per non parlare delle maliziose frecciatine alle mie spalle da parte dei miei compagni. Quanto ai gemelli, erano entrambi sotto esami e di fatti, le chiamate via Skype si facevano sempre più corte, essendo i due o troppo stanchi o troppo carichi di lavoro per concedersi più di mezz’ora di conversazione.

Ciononostante, eravamo tranquilli sulla loro sorte: Kanon aveva Rhada, che lo teneva sott’occhio (con sommo sollievo di M. Christophe); mentre Saga sapevamo essere autosufficiente, sebbene notammo con preoccupazione quanto spesso avesse incominciato a portare gli occhiali, lui che di solito li inforcava solo per leggere o studiare.

Aiolia riuscì a riappacificarsi con Marin o meglio, ad implorarle perdono per la scottante questione della cioccolata calda, uscendo tuttavia da casa Giraud con un viso cadaverico. Mille congetture furono formulate (ormai eravamo ufficialmente dei spettegoloni) tra cui quella, che Iou - Iou avesse scoperto che la mia vicina avesse il ragazzo. (Perché poi avrebbe dovuto sconvolgere Aiolia? Milo e le sue balzane idee …) Invece, il lionceau ci svelò in lacrime e sconvolto, che l’unica condizione, acciocché Marin lo perdonasse, era di andare a vedere con lei al cinema il film New Moon. Battendogli la mano sulla spalla, Milo lo rincuorò, assicurandogli che lui comprendeva benissimo il suo dolore (lo scorpion fu a suo tempo costretto a vedere Twilight con la sua ex), ma che per un fine più grande, sacrifici terribili come quello dovevano essere fatti.

Mamie mi perdonò per la mia fantomatica relazione con Shaka – grazie soprattutto all’intercessione di Maman e del mio patrigno – ma lo stesso volle punirmi, costringendomi a spennare il pollo Thomas More. E sperare di terminare quel lavoro in tempo per cena fu davvero un’Utopia. [2]

Milo … beh … Milo è il solito bastardo scorpion lubrique di sempre. La sera dell’affare “Dov’è finito Shaka Sandiego?”, sebbene la sua emicrania lo avesse privato della facoltà d’intendere e di volere, pretese comunque il bacetto promessogli dal sottoscritto, che costrinse poi a dormire con lui, fino al mattino dopo, quando mi chiese confuso, che cosa fosse accaduto il giorno prima. E soprattutto, se avesse detto o fatto qualcosa di sconveniente. Per la pace sua e mia, gli risposi ch’era stato la virtù personificata. Ma d’allora, ogni notte, aveva preso il brutto vizio d’infilarsi tra le mie lenzuola, stringendomi a sé come se fossi il suo pinguino di peluche. Le mie perplessità erano molte; eppure non mi lamentai neppure una volta, anche perché il ragazzo era una stufetta umana e siccome ormai la temperatura si era notevolmente abbassata … beh, non era del tutto spiacevole …

Riuscimmo a pigliare in tempo la corriera, arrivando puntuali a casa per il goûter. Tuttavia, non appena ci appostammo in cucina, il nostro odorato percepì l’aroma di caffè impregnarla. Ingenuamente, pensammo l’avesse lasciato Mamie per la merenda e di fatti, nonostante sapessimo che lei non rientrava il venerdì pomeriggio, se non tardi, ci chiedemmo come fosse riuscita a trovare il tempo. Comunque, la fame era molta e consumammo lo spuntino in silenzio, sparecchiando una volta terminato e dirigendoci alle rispettive stanze per completare subito i compiti, onde avere poi il weekend libero.

Sennonché, bloccandosi d’un tratto all’inizio delle scale, Aiolia si guardò in giro, quasi stesse annusando l’aria intorno a sé. “Milo, sento un fremito nella Forza … una presenza, che da tanto tempo non percepivo …”

“Iou – Iou, ma che diavolo …”

“IL MIO CAFFE’!!!!!!! CHI HA OSATO!?!?!”, udimmo un inumano ruggito provenire dalla cucina.

Impallidimmo di colpo, pregando che l’autore di quell’urlo di guerra non fosse chi pensavamo fosse che sia. Eppoi, che cosa ci faceva in Francia? Non era in Germania all’università?

“Oh, merde … ora è incazzato di brutto …”

“Ma come …?”

“Risparmia il fiato per scappare!”

“Via! Corri!”

“Ma …?”

“Zitto e scappa!”

E il metallico rumore proveniente dal cassetto, mi persuase a seguire il loro consiglio, salendo a quattro a quattro le scale, rifugiandomi nella sicurezza della mia camera. Seigneur, non era giusto! Perché non potevo avere dei fratellastri che so … normali? Di solito, tra fratelli si litiga, si va in giro, ci si fanno dispetti, ci si sbronza … e invece, che mi ritrovavo? Un sonnambulo caffeinomane, che ammazza i polli e chiunque gli freghi la sua liquida e scura droga; un suo gemello libertinamente omosessuale, che cucinava per tenersi stretto il fidanzato; uno scorpion lubrique, che mi sottoponeva ad ogni genere di avance cochon e l’altro lionceau, che sosteneva di essere violentato dalle ragazze.

“Avanti, les enfants, uscite fuori …”, miagolò melenso Saga, salendo piano le scale, il cui scricchiolio riecheggiava sinistramente nell’aria. “Dai, venite dal vostro Sasà cheri … o vengo io da voi? In quel caso, sapete che vi faccio, per aver avuto la blasfema audacia di bere il mio caffè? Primo, vi taglio le palle; secondo, eseguirò una precisa incisione sui vostri addomi, estraendone l’intestino tenue, che avvolgerò accuratamente ai vostri colli, strangolandovi ma non troppo; dopodiché, mi adopererò a levarvi il colon e la cistifellea, seguito dai bulbi oculari, naso e orecchie. Infine, dopo avervi amputato di mani e piedi, eseguirò una dolorosissima ceretta all’inguine e alle vostre capigliature … allora, nessuno vuole venire a giocare con me?”, chiese la vocetta pericolosamente zuccherina.

E io che credevo, che il gemello maggiore fosse solo … particolare! Seigneur, quello era l’erede schizzato di Jack the Ripper!

“Eh? Dove siete?”

Indietreggiai per precauzione dalla porta, cascando ai bordi del letto. E la mia solita fortuna volle, che planai col posteriore sul telecomando del registratore, che si mise a suonare a piene batterie la Marcia Imperiale di Star Wars. I passi si fermarono bruscamente e Saga in mode assassina si diresse verso la mia camera, commentando deliziato: “Tiens, tiens, chi sarà mai stato?”

Paralizzato, vidi la maniglia della porta abbassarsi e quest’ultima aprirsi lentamente. Insomma, non avrei dovuto essere così spaventato, ma con quella famiglia da manicomio non si sapeva mai cosa corrispondesse a verità, cosa a scherzo.

Ed infine, me lo trovai davanti, in condizioni addirittura peggiori della notte in cui lo scoprii sonnambulo; inoltre, portava gli occhiali, anche se il vermiglio dei suoi occhi era evidentissimo. L’unica differenza dalla volta scorsa, era che contrariamente a un coltello, brandiva la mannaia di Mamie.

“S-sal-u-u-t, Sa-sssa-g-g-aaa … çç-ça v-v-vaaaa?”, articolai a fatica, il mio corpo immobilizzato dal terrore senza fondo. Ora mi accoppava, oh, se stavolta lo faceva! Ad una si scappa, all’altra … come dicono gli inglesi: Second time is the charm.

Stringendo gli occhi arrossati, quasi stentasse a riconoscermi, malgrado le lenti, Saga domandò lentamente: “Camus?”

Emisi un verso simil Pingu, bocca a trombetta inclusa, cercando a tutti i costi di proferire un Oui.

“Oh, pardon”, esclamò mortificato il gemello maggiore, nascondendo la mannaia dietro la schiena e portandosi la mano davanti la bocca aperta ad O. “Pensavo fossi qualcun altro, anzi, due altri …”, si corresse, facendo un rapido calcolo mentale.

Poi, inaspettatamente, mi regalò un sorrisone alla Cheshire Cat. “Allora, Momus, non vieni a salutare il tuo fratellone?” e allargò le braccia, dimentico che nella mano destra teneva la mannaia, che brillò vermiglia ai raggi del morente sole pomeridiano.

Non ressi più. Mi alzai di quel poco, per prendere bene la mira  e senza ritegno svenni, crollando sul letto come un albero abbattuto. Dopo avermi scrutato perplesso per qualche secondo, Saga appoggiò la mannaia sul mio comodino, elargendomi piccoli colpetti al viso:

“Momus? Momus? Sei svenuto? Mah”, sentenziò, facendo spallucce. Poi, frugando tra le tasche, tirò fuori una lunga lattina argentata.

“Tzé!”, disse, aprendosi sornione una RedBull, inghiottendone un poderoso sorso.  Continuando in un ghigno compiaciuto e levandosi gli occhiali, scosse soddisfatto il capo biondo: “Seigneur, adoro fare il bastardo …” e ingollò una seconda sorsata.

“Kanon, che stai facendo in camera di Momus? Guarda, che lo dico a Rhada!”

“Niente di che, Sasà … si parlava solo dei bei vecchi tempi …”

E la Marcia Imperiale continuava a suonare …

 

 

To be continued …

**************************************************************************************

Fiuh! Allora, piaciuto?

Alla prossima!

 

Un po’ di noticine:

[1] Dopo la conquista della Grecia da parte degli Ottomani, il Partenone venne utilizzato come polveriera; nel 1687, durante l’assedio di Atene da parte dei veneziani, una cannonata colpì il tempio, danneggiandolo pesantemente.

[2] Thomas More o Tommaso Moro (1478- 1535), fu un umanista, scrittore e politico inglese. Decapitato per ordine del re Enrico VIII (di cui fu un dì amico) per non essersi sottomesso all’Atto di Supremazia, che riconosceva il re come capo della Chiesa Anglicana e il suo matrimonio con Anne Boleyn valido. More – oltre che ad essere un santo per i cattolici - è conosciuto per la sua opera filosofica “Utopia”, coniando per primo questo termine, per indicare un luogo ove tutto gira saviamente, rispettando la natura, la dignità  e il credo di ogni essere umano.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Pride and Prejudice and Wyvern ***




Koukou! Rieccomi qua!

Mancano quattro giorni ad Halloween … vi ricorda qualcosa? Oui? Non? *affila l’ascia per quelli che rispondono di no*

Uf, finalmente aggiorno la storia, ora mi sento leggera! A proposito, in questo capitolo Kanon, da degna primadonna qual è, la fa da padrone! Però, la tentazione era grande, grossa e  … leggete!

Piccola lezioncina di lingua, giusto per alcuni giochi di parole contenuti nella storia.

Come in italiano, anche i francesi dicono s’enfiler à l’anglaise, filarsela all’inglese. Invece, gli anglosassoni ripiegano su To take a French leave per dire appunto filarsela … alla francese!

Frog, che letteralmente significa rana, per gli inglesi è il sinonimo (dispregiativo, eh!) di francese (mangiarane). Come Roastbeef lo è d’inglese per i francesi.

Mi raccomando, teneteli ben a mente!

Last but not least, un calorosissimo ringraziamento e abbraccio ai miei lettori, che mi hanno fatto superare le 1000 letture totali (ancora stento a crederlo!) e ai miei recensori, sempre entusiasti, sempre pazienti e sempre da me amati per la cortesia che mi dimostrano, prendendosi la briga di recensire i miei infiniti, prolissi e papirici capitoli!

Je vous adore tous!

Merci infiniment à : Tifawow ; Diana924 ; ArcadiaLaNotte; Sagitta72 ; MiloDelloScorpione e Angel_Dark_Light!  Merci, merci vraiment!

 

Bien, vi lascio alla lettura! Buon divertimento!

Bisous,

 

H.

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Nella confusa nebbia, nella quale sguazzavo come un felice pinguino in migrazione da qualche quarto d’ora, potei sentire, seppure impercettibilmente, delle voci distanti confabulare tra di loro e quel che peggio decidere della sorte del sottoscritto, il quale si trovava suo malgrado alla loro mercé.

“Non si sveglia …”, fu la prima voce, che riconobbi e non mi sorprese trattarsi dello scorpion lubrique, anche se in pena.

“Che sia morto? Hé, Jannot è schiattato a causa della sua stessa ombra!”

“Merci Iou – Iou, per avercelo ricordato!”

“E dagli …”

La voce tenorile di Saga s’impose tra quelle dei fratelli minori. “Bravo, Nônon! Ma dovevi proprio fargli quel genere di scherzo? Già io l’ho spaventato quella volta; ora per colpa tua non mi vorrà più guardare in faccia!”

“Ih, quante storie!”, fischiò il suo gemello, che subito aggiunse con studiata malizia: “E dimmi … Cos’è tutta questa premura nei suoi confronti? Non ne sarai mica … che so … innamorato?”

Pericoloso schioccare di chele. “Quoi?!?”

“Milou … giù le forbici … et toi, Nônon tais-toi !”

“Hé, Milou mon doudou, il caro vecchio Sasà ha adocchiato il tuo pingouin …”

“Milou, ce n’est pas vrai! Crois-moi et pas ce crétin d’un cafard mal élevé !”

“Se mi tocchi Ionesco, ti apro in due …”

“Milou, fermati! Non puoi ucciderci Sasà!”, fu il disperato appello del lionceau e dal piccolo trambusto creatosi, Aiolia doveva essersi messo in mezzo tra i due contendenti, facendo da scudo al calunniato col proprio corpo.

“Già me li immagino a guardarsi negli occhioni la sera … tenendosi per manina …”, infierì Kanon, più maligno che mai, provocando ai presenti un cortocircuito cerebrale per questo o quel motivo.

“Seigneur, vomito …”

Schiarendosi la voce, dopo aver domato lo scorpion geloso, e riprendendo il suo ruolo di pater familias in seconda, Saga giocò l’unica carta ormai in suo possesso, che potesse imbrigliare quel cavallo selvaggio del suo gemello: “Nônon, o chiudi quel boccaccia o appena Rhada ritorna gli dico, che ti sei comportato male!”

E apparentemente il maggiore conosceva molto bene il suo pollo, poiché quest’ultimo esclamò tra lo spaventato e il supplice: “No, quello no!”

“Sì!”, infierì sadicamente l’altro, gongolando del potere che ancora deteneva sul suo doppio: “E dormirò nella sua stanza! Quanto a te, ti spedisco dalla nonna!”, e l’ultima frase fu l’apoteosi della crudeltà: credetemi, quelle poche volte, che condivisi la stanza con l’augusta avia, considerai sul serio l’opzione del suicidio.

“Brutto bastardo … Uff, la vince sempre lui alla fine …”

Risatina molto compiaciuta: “Hé, tu ignori il potere del Lato Oscuro …”

“Umphf, abbassa la cresta, schifoso d’un Darth Saga Vader!”

“Bien, ora che voi due Cip e Ciop vi siete sfogati, possiamo ritornare all’issue su come svegliare il Bel Pinguino Addormentato?”, l’interruppe saviamente – alleluia! – l’ultimogenito dei Valavitis.

“Io lo so!”

“Milou, tu sta lontano!”

“Io propongo una bella martellata sui zizì!”

“Iou – Iou, dobbiamo svegliarlo, mica castrarlo … eppoi, dopo Milou come fa?”

“Maschio o femmina, questo pingouin me lo pappo in ogni salsa!”, sentenziò il ragazzo con grande convinzione, costringendomi a virare verso la coscienza, dubitando fino a che punto gli altri tre fratelli m’avrebbero protetto da lui. Già Aiolia si era dichiarato contentissimo di considerarmi più come cognato, che come fratellastro; Kanon per motivi di gusti era pienamente dalla parte di Milo e Saga si limitava a frenare il tasso crescente di testosteroni e decrescente di moralità vigente in quella maison. Ciononostante, era una lotta impari contro tre belve e si sa, l’unione fa la forza e anche il miglior domatore del mondo primo o poi si becca un’appuntita carezza da parte dei suoi felini.

“Merci per avermi rassicurato , ora mi sento meglio. In ogni modo, se bagnassimo un asciugamano e glielo tamponassimo sulle tempie?”, propose il detto ammaestratore.

“I Sali! Ce li abbiamo?”, suggerì il suo ferino fratello.

“Non credo …”

“Possiamo fargli sentire la maglietta di Iou – Iou … oggi aveva allenamenti a rugby, giusto?”

“Mais oui! Così l’accoppiamo definitivamente!”

Sordo ringhio di Simba, lo stesso che poteva riecheggiare nella Rupe dei Re, quando la sua compagna Nala lo costringeva a lunghe e solitarie notti in bianco, negandoli la sua serale oretta di feline coccole. “Ho sudato et alors? Perché tu olezzi di rose, quando fai sport sauvage per due ore?”

“Ma Iou –Iou, tu non lo sai che ti trovi davanti alla prossima Bernadette?”, lo schernì il gemello di tale miracolato; che tipo di deodorante utilizzava? No, perché lo volevo anch’io …

“Nônon …”

“Diamogli un pizzicotto …”

“Nah, non funziona … Dai les gars, concedetemi la vostra fiducia! So io come farlo resuscitare!”, tagliò corto Milo, battendosi fieramente il petto ed io incominciai a vedermela brutta, soprattutto quando Saga, dopo un lungo e affranto sospiro, capitolò alle richieste del pestifero fratello:

“E va bene Milou …”

“Ho carta bianca?”, chiese speranzosissimo il ragazzo, gli occhi luccicanti e lo stesso sorriso del serpente tentatore, nell’istante in cui Eva afferrò il frutto proibito.

“Bianchissima …”

“Ouiiiiii!”, giubilò quegli. Se solo il mio corpo non fosse stato così intorpidito, sarei scappato a gambe levate; ma la spavento fu tale, che sentivo i muscoli en coton. E lo divennero ulteriormente, non appena percepii un peso gravitare sopra di me, senza dimenticarsi di un piccolo refolo d’aria calda, che mi solleticò l’orecchio: “Allora Momus chéri …”, mi sussurrò roco lo scorpion tout feu, toute flamme “Che ne dici, se ora eseguissi un bel bocca a bocca, aggiungendo poi una caliente lumaca dance?”

Se Kanon non mi avesse spaventato a morte col suo scherzetto di cattivo gusto, non sarei di certo cascato nel tranello di Milo: infatti, per quanto lubrique, dubitavo che avesse la faccia tosta da baciarmi davanti ai suoi fratelli (o forse sì?). Comunque, verità o menzogna, balzai giù dal letto come una cavalletta, fiondandomi nel bagno, che chiusi a chiave con doppia mandata, urlando nel frattempo:

“Nooouuuuuuhhhhh!!!”

“Visto? Più vispo di prima!”, si vantò spudoratamente Milo e il rumore pressoché mandriaco, che accompagnò la sua voce, mi fece capire che mi avevano seguito fino al mio rifugio, ponendolo sotto assedio.

“Riconosco, che hai delle potenzialità …”, ridacchiò Saga sottovoce. No, pure lui traviato! Che ne sarebbe stato ora di me?

“Alors, les gars! Ça va?”, s’informò Maman, la quale appena tornata a casa, si era domandata primo, come mai la colonna sonora del film Star Wars batteva bandiera corsara nell’oceano di silenzio della casa e secondo, il motivo per il quale tutta la nuova generazione si trovava davanti la porta del bagno della camera di Milo. “Tutto a posto?”

I quattro dell’Ave Maria fecero un salto di 180 gradi nel sentire la voce della loro matrigna e subito le loro menti perverse incominciarono a tramare una scusa convincente, onde spiegarle la scelta di quell’insolito rendezvous. Essendo il più giovane e con la mente meno esaurita dagli esami, fu Aiolia il primo a trovarla:

“Corinne!”, piagnucolò, zumpettando da un piede all’altro, “Momus non mi vuole far entrare nel bagno e mi scappa tanta, tanta pipì!”

Spalancando la porta, berciai indignato: “Ce n’est pas vrai! Sale menteur d’un vaurien! Te la sei inventata!”

“Visto? Visto? Non mi lascia, le mechant!”

“E dagli Aiolia, sei peggio dei bambini: e ho fame e ho sete e cacca e pipì!”

“Invece di sfottere, porta rispetto al mio dolore! Ho una vescica talmente gonfia, che pare una mongolfiera!”

“Aiolia ha ragione, Momus! È davvero maleducato da parte tua impedirgli di andare al gabinetto!”

“Mais …”

“Mon oeil! Certi atteggiamenti così infantili da parte tua proprio non me li aspettavo! Vergogna, Momus, vergogna!”

“Già, vergogna!”, si unì Kanon alla mia pubblica fustigazione.

“Sei veramente meschino …”, rincarò la dose Aiolia, scuotendo severo il capo.

“Ma dai, non esageriamo!”, sdrammatizzò conciliante Saga, provando a far venire incontro le due parti. “Si è solo un po’ attardato … ecco tutto … Hé, che colpa ne ha, se Milou ha passato la sua incontinenza a Iou – Iou?”

“Mouais, certo, come no!”, replicò sarcastico il detto incontinente, incrociando scettico le braccia al petto. “Attardato … Tzé! Chissà quali porcherie stava combinando chiuso in bagno a nostra insaputa, mentre qui Iou – Iou si rotolava in preda alle convulsioni …”

“C’est exact!”, convenne Kanon con serietà. “Ed infatti, poco prima ho visto un certo giornaletto accanto al …”

“NON E’ VERO NIENTE!”, ruggii, ma la mia protesta non fu ascoltata da Maman, che in quell’istante aveva spostato l’attenzione verso la finestra.

“Tiens, tiens, credo che siano arrivati …” e non fece neppure in tempo a terminare la frase, che Kanon a momenti la travolgeva nella sua corsa verso le scale, dalle quali pareva quasi volersi buttare giù a giudicare dai balzi cangureschi da lui eseguiti. E di conseguenza …

“Kanon, tu t’as fait mal?”, lo raggiunse subito Maman, preoccupata dal sordo capitombolone udito. Subito, Saga si unì a lei, lasciando Milo, Aiolia e me soli nella stanza.

“Gran bella panzana davvero!”, rimproverai il fautore, che replicò innocentemente:

“Sul serio mi scappa!”, e sottolineò la veridicità delle sue parole chiudendosi in bagno, dal quale udimmo provenire un lungo sospiro di sollievo. Mentre io mi coprivo sconsolato il volto con la mano, il fratello rimasto bussò alla porta, ricordando al minore in un largo sogghigno: “Vedi di centrare, eh?”, ricambiato da un improperio non ben definito. Infine, dopo essersi ben sfogato e lavato, Aiolia uscì, il viso decisamente più rilassato.

“Oulà! Ora che mi son liberato, il mondo mi sorride!”

“Tzé, come sei venale …”, commentò Milo, scuotendo il capo dorato e precedendoci verso l’entrata. Approfittandone, quindi, della situazione favorevole, il lionceau mi cinse per le spalle, sussurrandomi complice all’orecchio:

“Milou fa tanto il figo, ma dopo averti trovato K.O. e soprattutto dopo che Sasà è arrivato a vedere, che cosa stesse accadendo, se l’è svignata anche lui in bagno …”

E all’udire questa piccola confessione, non potei non trattenere un sorriso compiaciuto.

 

***

 

Intrigati dal misterioso arrivo, che per poco avrebbe spinto Kanon al suicidio, scendemmo in fretta le scale, onde aggiungerci a Maman e ai due gemelli, i quali fissavano curiosi la porta, le orecchie  ben drizzate alla conversazione che si svolgeva dietro di essa.

“Fiuh …”, fece la voce un pochino ansante di M. Christophe. “Per un attimo, sul serio credevo che quel traffico della malora non si smuovesse più …  e ancora grazie, per l’aiuto: tra il ritorno di uno e dell’altro, sono stati due giorni infernali …”

Una voce più giovane e leggermente baritonale gli rispose subito: “Si figuri, era il minimo che potessi fare. Sul serio, non la disturba, se alloggio in casa sua? Insomma, non vorrei essere motivo di disagio tra i ragazzi …”

Curioso, davvero, curioso: non vi erano accenti nella sua parlata, né tantomeno abbreviazioni o termini colloquiali, dimostrando di conseguenza  la tipica proprietà di linguaggio, di chi non aveva avuto altre occasioni per esercitarsi se non tra i banchi di scuola o università. Uno straniero, dunque. E piuttosto bravo, ché non era percepibile alcun’inflessione del suo paese d’origine.

“Come? Disturbo? Disagio? Tzé! Quei masnadieri, più c’è casino e più godono! Eppoi, ormai sei famiglia; anche perché conoscendo quello screanzato di mio figlio, ci scommetto la mano destra, che ti ha costretto a pagargli il biglietto dell’aereo!”

L’ospite non confermò, limitandosi a ridacchiare cortesemente.

E dopo quel che parve un’eternità, alla fine la porta si aprì e noi tutti trattenemmo il fiato, la nostra curiosità tesa allo spasimo. Quanto a Kanon, pareva un tarantolato, gli occhi brillanti di febbrile eccitazione e Saga aveva il suo bel daffare a trattenerlo dallo sfondare a calci la porta.

Fu M. Christophe il primo a comparire, spingendo davanti a sé una valigia argentata.

“L’avete ritrovata alla fine?”, gli chiese Maman, vendendogli incontro e schioccandogli un casto bacio sulle labbra. Noi tutti roteammo gli occhi, essendoci ancora ardua da digerire l’idea che i nostri genitori – come gli altri più in generale – avessero anche loro una propria vita intima nel segreto dell’alcova. Benché smaliziati, nell’immaginario dei figli padre e madre erano due entità moralmente esenti da ogni forma di desiderio erotico, rendendo molto verosimile la favoletta della cicogna.

“Oui, fortunatamente, l’avevano sistemata sul nastro sbagliato, ma intanto, ci hanno fatto lo stesso attendere un bel po’ …”, fu la sua spiegazione, lasciando che un giovanotto biondo  entrasse in casa. Allungai il mio collo fino al suo limite massimo, pur di avere una miglior visuale del nuovo arrivato, il quale era seminascosto da Maman e M. Christophe.  E dando una rapida sbirciatina attorno, notai che non ero il solo a condividere tale curiosità. “Eddai … levatevi …”, sentii borbottare Kanon, ancora prigioniero delle zampe del gemello.

“B’soir Papa!”, esclamarono i pargoli in coro, sfoderando il loro sorriso più accattivante: ergo, che nuovo giocattolino ci hai portato?

“Ah, b’soir tout le monde!”, ricambiò il saluto M. Christophe. “Riesci a passare?”, domandò al giovane accanto a lui, il quale annuì, esponendosi finalmente ai nostri sguardi avidi. “Allora, questi sono i miei ragazzi: Milo, Aiolia, Saga (Kanon lo conosci già) e Camus, il nostro nuovo arrivato. E lei è Corinne, la madre di Camus e ad aprile mia consorte (ufficiale).” E il biondo ospite porse i suoi cortesi rispetti alla Madame della casa, esibendosi in una goffa bise (bacio di saluto in Francia, ndr.), che ci strappò qualche sorrisetto divertito: oh là là, ora incominciavamo a capire di chi si trattava … “E lui è Rhadamanthys o Rhada!”

“Salut à tous”, ci salutò Rhada gentilmente.

Silenzio.

Poi, la bomba.

“Rhadaaaahhh!!!”, giubilarono in coro Milo ed Aiolia, saltandogli pressoché addosso, anticipando il gemello minore, il quale si dimenava a mo’ di anguilla tra la ferrea presa del suo maggiore. Evidentemente, quella era una forma di castigo, per avermi accorciato la vita di dieci anni. Hé, certo che nelle punizioni fraterne Saga era un tantino sadico!

Intanto che Kanon anelava al suo inglese, i due minori gli si erano attaccati addosso come patelle, baciandolo e abbracciandolo con lo stesso trasporto di Marta e Maria alla vista del redivivo fratello Lazzaro, se non con maggior indecenza, ché vidi dei segni rossi macchiare la pelle lattea del giovane uomo.

“Finalmente ci conosciamo di persona!”

“Ti tocco! Ti tocco!”

“Lasciati baciare! Mi son messo il rossetto per l’occasione!” Ah, ora si spiega.

“Vieni qua, non sottrarti all’abbraccio della famiglia!” e una mossa di judo aveva prontamente bloccato un tentativo di liberazione di Rhada, da quelle due anaconde antropomorfe, le quali persistevano nelle loro asfissianti profusioni, tocchignando ovunque la persona dell’inglese, dai capelli alle gambe, quasi gli stessero spalmando la crema solare.

Sbarazzandosi di un piangente Kanon con una veloce e brusca spinta, Saga li raggiunse e, pigliando i due birboni per il coppino, li staccò da Rhada, il quale vacillò un secondo, d’un tratto leggero. E i suoi occhi dorati si allargarono  come due biglie nel vedersi comparire davanti il gemello maggiore, un sorrisone allo stesso tempo dolce e carnivoro stampato sulle labbra. Forse, per lui che aveva sempre e solo avuto Kanon come modello di riferimento, il trovarsi a tu per tu con una sua versione meno piratesca, poteva essere fonte di grande turbamento. “Rhada!”, esclamò Saga, mostrandogli ulteriormente il candore dei suoi denti. “Non immagini, quanto sia una gioia per me poter conoscere la persona che finalmente ha domato quell’impiastro del mio gemello! Merci, merci infiniment! Vieni qua, abbracciami!” e lo stritolò commosso, baciandogli con fervore prima entrambe le gote, poi elargendogli un rapido bacetto sulla bocca, causando un pericoloso attorcigliamento di Kanon alla Bretzel.  Infine, staccandosi da lui, dichiarò a momenti in lacrime: “Cognato!” e tornò a cingerlo con le braccia.

“Cognato!”, si unirono gli altri due all’abbraccio, imprimendo il loro odore al nuovo membro del clan, sorta di ferino battesimo. Quanto al sottoscritto, se ne stava in disparte a sorreggere Kanon, il quale era andato in iperventilazione alla vista del suo meco così “maltrattato” dai suoi fratelli.

“Cognato?”, chiese perplessa Maman a M. Christophe. “Vuoi dire che lui …? Con Kanon …?”

Il pover’uomo allargò impotente le braccia, della serie Hé, così è andata; anche questo calice mi è capitato! Ciononostante, da come conversava tranquillamente col fidanzato del figlio, non pareva molto contrario alla relazione: in effetti, doveva aver capito – il pragmatico! - che quel giovanotto aveva un buon ascendente sul minore dei suoi gemelli, il quale in sua presenza avevamo tutti avuto modo di appurare, quanto si calmasse in un essere più trattabile. Inoltre, intuii che l’affetto che li univa doveva essere molto profondo; benché separati e l’inglese mezzo macinato, non mi era sfuggito il saluto con lo sguardo, che quest’ultimo aveva rivolto al suo meco, che ricambiò in un timido sorriso.

“Oh … je vois …”

“Ouais … Mais sa homosexualité était même pour moi une surprise. Enfin, c’était une surprise quand mon Nônon avait 12 ans. Désormais, on est habitués … J’espère, que ça ne sera pas un problème pour toi ou pour Momus …”

 Scuotendo il capo, Maman l’assicurò: “Ah non! Pas du tout! Sul serio, la cosa non mi crea alcun disagio o fastidio. E neanche a Momus, ne sono sicura …” e mi lanciò una rapida occhiata obliqua. “L’unica che però possa avere qualcosa da ridire temo sia …”

“Oulà!”, sentimmo esclamare da dietro le nostre spalle, facendoci tutti sobbalzare in perfetto sincronismo. “Mi sono persa qualcosa? È ritornato il sesto figliol prodigo? Devo ammazzare dunque il vitello grasso?”

“Mamie!”, le corsi incontro assieme a Maman, traendola in disparte e risparmiandole lo spettacolo di Kanon, che si gettava con un urlo di guerra nella mischia, contendendosi il meco come i leoni si contendono una succulenta gazzella.

“Et bien? Che bordello sta accadendo in casa mia?”, chiese la nonna in tono perentorio, non immaginando quanto la parola bordello fosse ben azzeccata; due mechi riuniti sotto lo stesso tetto, umphf! Un’invasione in piena regola di testosteroni, altroché!

“Ti ricordi, quando ti dissi del ritorno dei due gemelli?”, incominciò Maman, scegliendo accoratamente le parole, onde non rivelare nulla di compromettente alle orecchie paranoiche della madre.

“Ovvero, quando mi annunciasti l’Apocalisse? Oui, ho un vago ricordo …”

“Bien, Kanon ha portato seco un suo amico dall’Inghilterra.”

“Et pourquoi ça?”, inquisì Mamie, per nulla contenta di condividere l’abitazione con un roastbeef.

“Per motivi di … di … l’aereo, ecco!”, mentì velocemente Maman, e anche con molta convinzione. “Il fatto è che ultimamente Kanon è stato molto male …”

“Gastriti … coliche … aveva lo stomaco a pezzi …”, m’aggiunsi, guadagnandomi da Maman un’occhiata di sincera approvazione, da Mamie una tra il perplesso e il diffidente.

“Quindi, non se la sentiva di intraprendere da solo il viaggio. Magari poteva accadere una brutta ricaduta. Eppoi, non si tratterrà molto: martedì mattina partirà assieme a Kanon; non lo sentirai neppure!”

“Sembrano molto intimi …”, commentò Mamie, allungando il collo e alzando accigliata il sopracciglio nel vedere la foga impiegata dal nipote acquisito nella disperata lotta per liberare Rhada dalle grinfie fraterne.

“Nah, Rhada ha la ragazza: si chiama Pandora!”, la rassicurai, sperando di non dovermene pentire in seguito: infatti, inspiegabilmente notai le orecchie di Kanon drizzarsi all’erta.  Tuttavia, la mia dichiarazione risolse al momento la situazione, ché Mamie non contestò più, tranne forse per qualche brontolamento tra sé e sé.

“Beh, almeno questo mi rassicura - un poco - ma mi rassicura. Però … però …”, disse, battendosi l’indice sull’incisivo.

“Però cosa, Mamie?”

“Non so … ho una strana sensazione … c’è qualcosa di peculiare in lui … uhm … già … quel monosopracciglio è decisamente sospetto …”, concluse la nonna il suo intricato ragionamento mentale, avvicinandosi a Rhada, che nel frattempo giaceva ansante tra le sicure zampe del suo battagliero meco. Notando l’arrivo dell’avia familias, l’inglese si sciolse da Kanon, ripulendosi intanto le guance imbrattate di rossetto con il polso della camicia e preparandosi a salutare la figura più anziana e, nell’immaginario comune, più savia del clan. 

“Et bien”, disse Mamie, portandosi le mani ai fianchi, scrutandolo attenta. “Sappi innanzitutto, che a dispetto di quel che sentirai dire da questi briganti, io non sono Mamie, bensì la Tante, la zia. Capito? Très bien … secondo, ho messo all’ingrasso una nuova oca; mi suggeriresti un nome?”

“Ehm … Katherine Howard?”, rispose disorientato Rhada, domandandosi a che pro fosse quella bizzarra richiesta. E il sorrisone compiaciuto di Mamie ci sconvolse nel più profondo, non sapendo, infatti, se rilassarci ad esso o temere per l’incolumità fisica del nostro ospite.

“Bravo ragazzo! Facciamo la bise, mon enfant?”, gli chiese dolcemente, portandogli le mani al volto, che assai titubante il giovane uomo avvicinò.

E all’improvviso, simile ad una letale tagliola, Mamie gli passò il braccio attorno al collo, costringendo Rhada a piegarsi in avanti e, una volta che ebbe la sua testa sottobraccio, dalla tasca estrasse una pinzetta, che schioccò minacciosamente. “Via il monosopracciglio! Ha - ha, benvenuto all’inferno, mon cher!”

“NO!”, ruggì Kanon, strappandosi quasi i capelli e fiondandosi sulla nonna, onde bloccare la profanazione facciale del suo meco. “Per favore, lo lasci! Va bene così com’è!”

“Non posso!”, si divincolava nel frattempo la nonna, la sua presa sul collo del malcapitato ferrea. “Non riesco a vederlo, senza che mi danneggi il sistema nervoso! Il monosopracciglio deve sparire!”

“Mamie, fermati!”, venimmo a dare manforte al gemello minore; Maman, M. Christophe ed io, cercavano di sottrarre la pinzetta alla nonna, che si divincolava peggio dell’Idra, mentre Milo, Saga e Aiolia tentavamo di sfilarle Rhada, senza che quest’ultimo si facesse troppo male.

“Iou - Iou, o ti rendi utile o ti levi dai zizì!”, sbuffò uno scocciato Milo, pigliandosi l’ennesimo ceffone da una mano non meglio identificata in quel confuso ammasso di corpi.

“Hey, calma, Milou, calma!”, ringhiò il lionceau indignato, arretrando leggermente, onde evitare una gomitata. “Per chi mi hai preso? Per una bestia da soma? Per il tuo lacchè? Per Cenerentola? Basta con questi toni da generale prussiano, ne ho i cocomeri pieni! Rispetta un poco la mia dignità di fratello minore! O m’incazzo seriamente e ti giuro che non è un bello spettacolo! Oh, e che ca - … -CTUS!”, ululò, reggendosi il polso della mano impallinata dagli spini del cactus vicino alla porta d’ingresso. Infatti, mentre cercava di non prendersi una gomitata sul naso, il ragazzo si era pericolosamente portato vicino alla pianta e nella foga della sua protesta, non si era accorto di aver spinto il braccio troppo in là.

In ogni modo, fu la doccia fredda per calmarci tutti e Mamie lasciò la presa su Rhada, che fu portato via convenientemente da Kanon in un luogo più sicuro.

“Iou – Iou!”, esclamò preoccupato il padre, facendosi largo tra gli altri figli. “Mon bébé, t’as mal?”

“Moui!”, piagnucolò Aiolia, stringendosi al petto del genitore. “Ho tanta bua! La mia bella manina! La mia preziosa manina! Sono menomato, ormai: di una ragazza, non potrò più accarezzarne le fes- …”

“La faccia!”, l’anticipò veloce Saga, desiderando risparmiare al padre un colloquio privato cogli ormoni dell’ultimogenito.

Avvicinandomi a Milo, che fissava impudentemente divertito la scena, gli sussurrai all’orecchio: “Scommetto, che tu non ne sai niente …”

E il ghigno obliquo del ragazzo fu la smentita che cercavo.

 

***

 

Mentre M. Christophe si prodigava a levare le spine dalla zampa di Aiolia, come San Girolamo con il leone [1], Kanon aveva portato il suo meco nella sicurezza della sua stanza, prodigandosi in un’infinita sequela di scuse, per averlo costretto a venire in una  famiglia di cons. E a nulla valevano le argomentazioni di Rhada, onde rassicurarlo: il gemello minore continuava a scuotere caparbiamente il capo, battendosi il petto in desolati mea culpa.

“Non avrei dovuto insistere nel portarti qui. Ho commesso una fesseria, me ne rendo conto solo ora …”, dichiarò avvilito il giovane, sprofondando nel materasso. Evitando di ricordargli, che le cavolate erano proprio la sua specialità, Rhada appoggiò il maglione, che stava sistemando nell’armadio, accomodandosi accanto al suo fidanzato, che cinse per il fianco.

“Non è che tu mi abbia lasciato molta scelta: ti sei appollaiato su di una colonna in giardino per quasi tre ore, imitando la statua di Nelson a Trafalgar Square, urlando come un invasato, che  … bah, lasciamo perdere quel che gridavi …”, sospirò il giovane uomo, ricordando il modo in cui il fidanzato – alla notizia dell’imminente visita medica – gli fosse sfuggito dal sotto al naso più rapido di un furetto drogato di caffeina, per poi voltarsi  e ritrovarselo in piedi in cima la colonna del giardino romantico, le braccia caparbiamente incrociate tra loro e un’espressione d’infantile dispetto. E quel che era peggio, era che M. Valavitis si era messo ad urlare ai quattro venti, che quella era solo una scusa, affinché Rhada potesse saltare comodamente la cavallina con Pandora, mentre lui era in Francia. Per persuaderlo a scendere, l’inglese gli promise, che l’avrebbe accompagnato, ritrovandosi così dans la merde jusqu’au cou o meglio, entre les Valavitis jusqu’au cou! (nella merda fino al collo/ tra i Valavitis fino al collo)

“I know, I know! Ma che vuoi farci, ho il terrore degli ospedali! Mi mettono ansia …”, protestò Kanon, appoggiando la testa sull’incavo della spalla dell’inglese, aggiungendo. “Può sembrare strano, lo so, però anch’io sono tanto sensibile …” E forse era pure vero, sennonché l’espressione di velato scetticismo esibita da Rhada confermò tutt’altra versione.

Del resto, dopo tutto il carosello che avevano sopportato entrambi durante il processo di fidanzamento, hé, non c’era da stupirsi di quella reazione da parte del franco-greco: avrebbe traumatizzato chiunque; ciononostante Rhada non poteva non essere in fondo grato per l’esperienza, primo affinché gli servisse di lezione sulle conseguenze del comportarsi come un cretino; secondo, di avergli regalato quell’adorabile impiastro guascone.

Troppo mieloso? Uhm … non dopo aver ascoltato la loro storia …

 

***

 

It is a truth universally acknowledged, that a single man in possession of a good fortune, must be in want of a wife, come scrisse saggiamente Jane Austen nel suo romanzo Pride and Prejudice.

Or a boyfriend, come invece affermò più di due secoli dopo Kanon nel suo romanzo venatorio La Chasse à la Vouivre. (La caccia alla Viverna, ndr.)

Come degno membro del clan dei Valavitis, anche al gemello minore intrigavano gli amori difficili e impegnativi, soprattutto se il concupito/a in questione era restio a cadere preda delle avances ai limiti del pudore e più la vittima appariva seria e compassata, più les instincts prédateurs si acutizzavano, eccitate dal momentaneo rifiuto e dalla sfida da esso contenuto. Eh sì, momentaneo, ché nel DNA della masnada franco- greca doveva esserci un particolare nucleotide, che le permetteva di captare il genuino e recondito interesse della preda nei suoi confronti, attrazione che l’avrebbe inesorabilmente portata al traviamento.

Niente a questo mondo avrebbe dato a pensare che Kanon e Rhadamanthys si sarebbero messi insieme e la notizia era ancora fonte di gravi turbamenti sia per l’entourage del franco-greco che dell’inglese. Perché mentre la famiglia di Kanon ancora non riusciva a capacitarsi  che il  gemello minore stesse ufficialmente con un ragazzo per sette mesi senza cornificarlo alle spalle;  la cerchia di Rhada era sconvolta dal suo improvviso cambio di sponda, avendo il giovane sempre frequentato ragazze (Pandora docet).

Gli uni sostenevano che l’inglese doveva essere terribilmente bravo a letto, soddisfacendo appieno quella bionda, lussuriosa e insaziabile belva che aveva come petit ami, persuadendola a desistere da altre avventure. Inoltre, asserivano che quel horrible bourrin mono-souricil (come lo definì suo “suocero” la prima volta che apprese della sua esistenza nel cuore del suo p’tit bébé Nônon) fosse dotato di un portentoso machiavellismo: per tenersi stretto il suo chaton aveva ben pensato di tenerlo costantemente sulle spine, adombrando l’ipotesi di un suo probabile ritorno da Pandora.

Gli altri, al contrario, sostenevano che la vera carogna della situazione era quell’immorale sirena venuta da oltremanica, la quale, con il suo corpo lascivo e un corteggiamento, che ricordava la Presa della Bastiglia (inclusa la testa sulla picca del marchese Bernard de Launay) aveva portato alla perdizione il loro amico, approfittandone subdolamente di un momento di crisi di coppia tra Rhada e Pandora per iniziarlo alle joies de la sodomie.

Forse, però, a nessuno era passato per l’anticamera del cervello, che i due si fossero seriamente innamorati. Certo, la componente del sesso c’era ed era ben salda nel loro rapporto (Rhada era pur sempre uno Scorpione e tra le mille sfaccettature dei Gemelli, vi era una tendenza alla prostituzione, per quel che concerneva la sfera osé); tuttavia, dopo i primi mesi di sfrenati rodéo de jambes en l’air, i due avevano serenamente raggiunto il loro equilibrio dei sensi, dove certe sere la massima forma di erotismo consisteva nello stravaccarsi assieme sul divano, sgranocchiando succulenti cookies al triplo cioccolato davanti ad una puntata di Lost.

Uno dei numerosi colpevoli di tale felice unione era Miss Violante DeBeaumont, la cugina di Rhada. Lei e Kanon si erano conosciuti per caso nel club The Bridge di Oxford: a causa della baraonda, dei fumi alcolici e delle tre del mattino, la ragazza si era trovata separata dai suoi amici; così, cavallerescamente, Kanon le aveva offerto un passaggio nel taxi, che aveva chiamato, pagandole la sua quota. Il giorno dopo, Violante si presentò sotto la porta del suo appartamento nel campus – all’epoca il gemello minore era un fresher, o matricola – offrendosi di portarlo al pub, onde sdebitarsi della gentilezza della notte precedente. Godettero della reciproca compagnia per tutto il pomeriggio, cicalando del più e del meno e apprendendo diverse cose sul rispettivo background personale. Fu l’inizio, quindi, di una sospettosa amicizia, ché entrambi ancora non sapevano dove l’uno volesse andare a parare; nel senso, il rischio di simile rapporto tra maschio e femmina era quello di formare alla fine una coppia, fatto impossibilitato dall’amore di Kanon verso altre anatomie e dalla sbarellata di Violante per quel complete git of Aiacos, come soleva nominarlo quando lui batteva bandiera corsara. Di conseguenza, i primi mesi furono un po’ tesi e imbarazzati, finché Violante, con piglio molto mascolino, confessò chiaro e tondo a Kanon, che lui non le piaceva come amante, ma che come amico gli era davvero caro. Sollevato, il gemello minore le rivelò la sua omosessualità. Da allora, i due furono inseparabili e neanche quando Violante si laureò in architettura, le cose cambiarono anzi, invitò il franco-greco a casa sua, all’inizio del secondo anno di quest’ultimo.

Ma Rhada, egli non ebbe occasione di vederlo fino al nuovo term, ovvero quando il cugino della giovane donna sarebbe ritornato dal suo stage. E ancora una volta, fu il caso a favorire l’incontro, anche se il quell’occasione ebbe un piccolo input da parte di Violante, la quale, infatti, era ansiosa di presentare a Rhada il suo migliore amico, del quale aveva sempre parole entusiaste al limite del sospetto. (Specie per Aiacos … ) Non sapeva, poverina, che con la scusa di andare a prendere una boccata d’aria al parco il pomeriggio prima del suo trasloco a casa sua, lei ne avrebbe accelerato il processo.  E il fatale incontro tra i due ragazzi avvenne nel momento in cui, mentre Kanon e la sua coinquilina passeggiavano tranquilli quasi a braccetto, due enormi cani – uno nero, uno bianco – li vennero incontro, riempiendo di feste Violante, la quale li riconobbe subito come i due labrador retriever gemelli Hypnos e Thanatos.  E i due cagnoloni si apprestarono a sbavare pure Kanon, sennonché quegli arretrò un poco, non del tutto entusiasta dall’idea.

Prendendo la sua reazione come un nuovo gioco, i due cani perseguirono nell’allontanarlo dalla sua coinquilina fino alla riva del fiume, nel frattempo che una terza persona si univa a loro, richiamando invano le sue bestiolone, raggiungendo il gemello posto sotto assedio da umide e gocciolanti  linguone. E tale era il suo spleen per simile battesimo, che incominciò ad agitarsi convulsamente come una faraona, schifato all’inverosimile da simile trattamento. E tanto sbracciò e tanto si dimenò, che non si era accorto dell’arrivo del padrone dei due cani, al quale si serrò d’istinto da sotto le ascelle,  attaccandosi a lui quasi fosse la sua boa di salvataggio. Per nulla a suo agio per la posizione dai dubbi significati,  anche l’interessato prese a contorcersi, facendo così perdere definitivamente l’equilibrio al ragazzo, che, cadendo all’indietro, lo trascinò con sé dell’acqua in un sonoro pluff! , invitandolo al the pomeridiano delle paperelle.

I due riemersero a fatica dall’acqua non proprio calda, ritrovandosi loro malgrado al centro dell’attenzione di tutti gli avventori del parco oxoniano, i quali li osservavano tra il preoccupato, divertito e rassegnato.

“Well”, esordì Kanon, strizzandosi con nonchalance i capelli, “that was refreshing!”, dichiarò, riuscendo persino a strappare una risata alla piccola folla riunitasi a dargli il benvenuto sulla terraferma.  Contrariamente a lui, però, uno sputacchiante Rhada non la pensava allo stesso modo e una livida occhiata lo confermò.

“You’re mad!”, sibilò, soffiando via dal naso l’acqua entratagli a tradimento. “What the hell do you think you were doing? You twat!”

“Ih … per un bagnetto …”

“Potevi annegarmi!”

“E tu”, replicò velenoso Kanon, sbattendo la sciarpa zuppa “potevi tenere al guinzaglio quelle bestiacce!”

“Non scaricare sugli altri la colpa di essere fuori di testa!”

“E tu non ti nascondere dietro al fatto, che hai il monosopracciglio per giustificare i tuoi errori!”, ribatté il gemello per nulla intimorito dallo scontro dialettico impostosi tra loro. Hé, con tre fratelli uno più lingua lunga dell’altro, affilare la propria era una necessità indispensabile per la sopravvivenza nella Jumanji della maison Valavitis. Inoltre, Kanon gongolava come un riccio nel vedere il giovane davanti a lui completamente fradicio e indignato; soprattutto, il modo in cui le sue pallide guance si tingevano di un adorabile scarlatto alla Heidi. I boccoli bagnati arricciati poi sulle tempie; le labbra leggermente schiuse dal fiato da poco ritrovato e le furtive occhiate lanciate alla folla di curiosi – con quegli occhi d’un oro puro – lo rendevano troppo mimichoupi, troppo desiderabile all’animo ognora lascivamente esuberante del franco-greco, il quale si leccò la bocca capricciosa, d’un tratto voglioso del corpo di quel pulcino bagnato. E l’averlo stretto tra le braccia di certo non aveva aiutato, anzi, Kanon poteva ancora sentire il posteriore dell’inglese sfregargli l’inguine, mentre tentava di liberarsi dalla sua presa …

“Che cosa c’entra ora il monosopracciglio?”, lo riportò l’inglese alla realtà dalle sue rêveries cochonnes.

“Che cosa c’entra la mia testa?”, ricambiò il gemello, che, nonostante la breve pausa mentis, quando c’era da polemizzare era il primo in linea.

Avvicinandosi a lui, onde non dare ulteriore spettacolo agli spettatori, Rhada gli sussurrò un velenoso consiglio: “Vai da uno psicologo!” e Kanon non chiedeva di meglio: no, non di sottoporsi all’analisi di uno strizzacervelli, bensì d’avere il viso del giovane a qualche centimetro dal suo, solleticandogli la pelle umida dell’orecchio con il suo respiro bollente.

Fu un bene, che il franco-greco fosse bagnato: almeno, aveva una scusa per il brivido provocatogli dall’inconsapevole inglese. “Vai dall’estetista!”, sogghignò compiaciuto, notando, come rapide quelle belle mani alabastrine e aristocratiche si fossero portate quasi inconsciamente sulla fronte aggrottata. Il veleno maligno del desiderio gli scorreva instancabile nelle vene, alimentando il cuore in una perversa chamade di battiti. Tu es à moi et à moi seul!, possibile quella repentina infatuazione? Et bien, Kanon non si era mai tirato indietro davanti a nessuna cotta o avventura (e prima di partire per l’Inghilterra si era ben adoperato, affinché suo fratello Milo avesse ben appreso la lezione, raccogliendone l’eredità) ; tuttavia, non gli era mai capitato un interessamento così vivo a causa di un semplice tocco. Oh beh, di un semplice tuffo, volendo essere più pignoli.

E infierendo, quello sguardo dorato adorabilmente interrogativo (e indiavolato, ma Kanon era troppo nel mondo dell’Idee per accorgersene) lo estasiava; se il gemello fosse stato una gazza ladra, di sicuro gli avrebbe strappato i bulbi oculari, in modo tale che l’inglese non potesse rivolgerne uno simile a chicchessia.

“Rhadamanthys!”

Entrambi sobbalzarono all’udire una voce femminile gridare in un disperato appello il biondo anglosassone, il quale si voltò verso una ragazza dai lunghi e dritti capelli neri e d’un pallore, che al franco-greco ricordò una di quelle gothic lolita di Victoria Francés, costringendolo a storcere divertito le labbra, sforzandosi di non ridere davanti alla pupetta, la quale cinse per il braccio Rhada, trascinandolo via con sé.

E questa volta, a Kanon non venne più da ridere.

“Non t’intromettere, Pandora!”, si ribellò l’inglese, evidentemente scocciato da quella sgradita interruzione; insomma, mica aveva bisogno di lei per regolare i conti con quel biondo sanculotto scavezzacollo! Tzé!

“Kanon!”, lo bloccò appena in tempo la cugina di Rhada, pigliandolo per la vita e impedendogli di seguire l’altra coppia.

“Non mi trattenere, Violante!”, berciò il gemello, all’improvviso tutto fuoco e tutte fiamme. Je veux le violer, bon sang! Lo voglio violentare!

Sentendo il nome dell’assatanato, la ragazza cadavericamente burtoniana si voltò verso i due coinquilini, aggrottando quasi canzonatoria il sopracciglio corvino. “Kanon, hai detto? Violante, è uno scherzo questo, vero? Ci avevi descritto una persona totalmente diversa, esuberante, certo, ma civile! Costui pare uno scimmione fuggito dallo zoo! E bagnato, pure!”

Solo da una persona, Kanon accettava simili epiteti e di certo, non si trattava di quella Corpse Bride. “Sure, Pandoro, sure!”, ridacchiò indulgente, sebbene volesse raparla a zero. “E dimmi, stai per caso andando ad una cosplay? Con quell’abitino alla Morticia Addams, ma foi!, farai strage!”

“Ti pregherei di non offendere la mia ragazza!”, gli ricordò Rhada in una velata minaccia, stringendo gli occhi fino a due fessure; le nocche delle mani livide dalla pressione esercita dal pugno.

“O che? Mi butterai al tappeto con un gancio? Mi sculaccerai fino a farmi perdere i sensi?”, lo provocò Kanon, sfoderandogli la sua arma letale per il sistema nervoso del nemico: gli occhioni tondi e languidi alla Occhidolci. E fidatevi, dinanzi a quel grottesco orrore, nessuno a memoria d’uomo si era mai salvato da una crisi epilettica ed infatti, Pandora arretrò in un felino balzo, incespicando quasi sulla gonna, mentre Rhada rimase come paralizzato davanti al gemello, incapace di muovere alcun muscolo.

“Mi sembra il minimo, per uno screanzato che si burla di una ragazza!”

“Fu lei ad incominciare, non io! Chi d’insulto ferisce, d’insulto perisce!”

“Oh e dimmi: ti consideri alla stregua di una fanciulla?”

“E se fosse?”

Osservando come l’aria andava via, via scaldandosi, Violante decise d’intromettersi tra i due litiganti, prima che saltassero ognuno sulla giugulare dell’altro. Anche perché, ora che il cugino era ritornato dallo stage, lui avrebbe alloggiato in casa sua, avendo Rhada messo molto gentilmente la sua vecchia stanza a disposizione delle disorientate matricole (l’accommodation era l’incubo del primo anno …). La giovane sospirò, passandosi una mano tra boccoli neri, preannunciando una lunga e difficoltosa convivenza.

E le sue teorie ebbero sin dalla sera stessa modo di confermare la loro veridicità.

Dopo una rapida cena – l’alterco pomeridiano aveva creato una sgradevole acidità di stomaco – nessuno dei due maschietti se la sentiva di uscire, preferendo rimanere nel tepore del salotto, in particolar modo, quando una bella nevicata notturna imbiancò le strade della città of the dreaming spires.

Ebbene, in quell’ameno ambiente alla Christmas Carol avvenne il fattaccio, che aiutò Rhada a rendersi conto, con che razza di Grinch si fosse ritrovato per coinquilino. E amico di sua cugina, poi! Cosa poteva esserci di peggio? Linguaccia lunga, selvaggio, senza freni, senza pudore, senza senso della misura … and Kanon here … and Kanon there … and Kanon everywhere … tutta la serata a lagnarsi con Violante, mentre pulivano stoviglie, pentole e  piatti, prima di ficcarli nella lavastoviglie. La giovane donna annuiva distrattamente, avendo già innescato il pilota automatico, ignara che non era intenzione del cugino fermarsi tanto presto nella sua invettiva contro l’altro ragazzo, aggiungendo continuamente scandalosi (e veri) dettagli che lo riguardavano. E trasse un sospiro di sollievo, quando un borbottante Rhada le comunicò che andava a dormire.

A grandi linee, questi erano i pensieri di un’indignata Vouivre, dopo che il gemello giunto dalla Francia lo aveva costretto a quella pubblica figuraccia! Davanti a Pandora, che diavolo! Di sicuro, doveva aver pensato che fosse in difficoltà con lui, tzé! Ma per chi l’aveva preso? Per un debosciato? Manco male, che la ragazza era ritornata a casa! No, un momento! Che cosa aveva appena pensato?

Bloody hell! Bloody frigging hell! , berciava mentalmente l’inglese, preparandosi per la doccia serale e dirigendosi torvo verso il bagno. Entrandovi dentro, fu colto come da una strana sensazione: un piccolo brivido, niente di che, eppure eccolo lì …

“C’è qualcuno?”, chiese istintivamente, dandosi poi dello sciocco: chi mai sarebbe stato così pervertito da nascondersi in bagno? Eddai, adesso stava diventando pure paranoico! Oh sweet Jesus, quanta pazienza …, sospirò, sfilandosi i vestiti e rifugiandosi nella cabina della doccia, del tutto ignaro che nell’armadio, dov’erano risposti gli asciugamani e i teli, stava contorto e pigiato come una sardina Kanon, il quale aveva sacrificato la momentanea sensibilità delle gambe per una visuale molto più appagante.

Tuttavia, prima di bollare il gemello come irrimediabilmente maniaco arrapato, lasciamolo almeno giustificare le sue ragioni: a onor del vero, lui non era entrato nel bagno con la precisa intenzione di spiare Rhada occupato in un improvvisato e casalingo stiptease. Anzi, non sapeva esattamente, perché fosse finito lì; ricordava solo un suo vagabondare come un’anima in pena per la casa, sballottato in maniera preoccupante dal temibile stordimento amoroso, la pazzia che colpisce tutti, dal ricco al povero, dal santo al peccatore. Si risvegliò dalla sua trance, nel momento in cui percepì dei passi dirigersi nella sua direzione; riavendosi, il ragazzo panicò, saltellando di qua e di là, cercando un posto dove nascondersi: aveva intuito dall’incedere, che si trattava di Rhada, ma Kanon ignorava in che modo gli si sarebbe parato davanti in vestaglia? In accappatoio? In mutande? Senza mutande? Spinto quindi da un sospettoso spirito cristiano, il gemello volle risparmiargli la sorpresa di trovarselo davanti; poverino, era inglese, troppe emozioni l’avrebbero ucciso! Così, optò per quell’angusto armadio, attorcigliandosi all’inverosimile e considerando per la prima volta sul serio il consiglio di Saga, ovvero di lavorare nel circo di Moira Orfei. Se poi come pagliaccio o professionista, hé, quello era ancora da chiarire.

Restò bloccato alla santone indiano per quel che a lui parvero cinque secondi, troppo godeva dello spettacolo donatogli dal cielo, mentre per Rhada fu un’eternità, giudicando il suo stato alterato di nervi, causato dall’esposizione alle radiazioni valavitisiane. Quando finalmente, l’inglese si decise ad uscire, Kanon aveva raggiunto il suo personale Nirvana spiandolo en nature al completo. Fu però costretto a ritornare tra i comuni mortali, quando l’altro giovane s’apprestò a cercare un telo pulito per asciugarsi nell’armadio, anticipato miracolosamente da una misteriosa mano, che glielo offriva.

“Thank you …”, ringraziò distrattamente Rhada, cingendosi con l’asciugamano i fianchi. Fece un passo, due passi. Poi, di colpo, si fermò, gelato sul posto, voltandosi in direzione dell’armadio, gli occhi dorati simili a due pozze di lava bollente. Lentamente, il biondo anglosassone ritornò davanti l’armadio e aprì l’anta, trovandovi dentro un Kanon-fachiro, il quale, dopo qualche imbarazzante minuto di silenzio, si esibì in un timido sorrisetto:

“Peekaboo?”

Il labbro inferiore di Rhada ebbe un lieve tremito, che subito dominò stringendolo assieme all’altro in una linea dura, intanto, che i muscoli della mascella si contraevano e gli occhi si dilatavano a mo’ di lemure. E malgrado questi evidenti segni di nervosismo e di vergogna per essere stato sorpreso nel momento più intimo della giornata, il giovane non azzardò parola, limitandosi a fissare quella bestia antropomorfa, capitatagli tra capo e collo.

“Hai visto tutto, vero?”, gli domandò incolore.

“Sì”, ammise contrito – forse – Kanon, sfoderando un’espressione da Maria Maddalena.

“Ma … tutto, tutto?”

“Sì.”

“E ti sarai voltato qualche volta?”

“No.”

“Ah!”, esclamò pensoso Rhada, volgendo lo sguardo in un punto indefinito della stanza. “I see … so, if you would excuse me, I had very much like to return to my room. Thank you. Good night, sleep well”, gli augurò, congedandosi da lui, recandosi quasi in uno stato di sonnambulismo nella sua camera da letto.

Buttandosi giù dal largo scaffale, Kanon si liberò dalla sua prigione di legno, pensando nel frattempo perplesso: “Non si è arrabbiato?” Uhm … no, non andava bene … doveva menarlo, perché se lo trattava con quel tono paziente, senza scomporsi e quasi rassicurante, allora … allora … era davvero  la fine del franco-greco, al quale tutto ciò ricordava il suo primo (platonico) amore  verso il gemello, quando ancora era un mocciosetto con i pantaloncini corti!  E se dunque quello era il vero carattere di Rhada …

“Oh Seigneur … il suo modo di parlare … quella calma, quella compostezza da vero gentlemen …”, sospirava languidamente, portandosi davanti la porta dell’inglese, il quale si era prodigato di chiuderla ben bene a chiave. “Oulà … mi eccita le vibrisse (baffi del gatto, ndr.) … mi stordisce … m’intriga …”, e, appoggiando le unghie sul legno, le lasciò scendere verso il basso sornione. “Mi fa venire voglia di seguire quest’uomo in capo al mondo!”

 

Kanon Valavitis fu di parola. All’oscuro di Rhada, che credeva di avere con lui un contatto pressoché minimo (incontrarsi a colazione, al the e per la cena); quando, al contrario, il gemello aveva attuato una vera e propria campagna di stalking nei suoi confronti, avido di apprendere la sua personalità, il suo stile di vita, insomma, ogni informazione, che potesse girargli contro nel momento in cui la vera caccia sarebbe incominciata. Perché come giustamente il filosofo Sir Francis Bacon sosteneva: Scientia potentia est; il sapere è potere. Aggiungendo, poi, l’ereditario guscio di timidezza e diffidenza vigente nel Dna inglese – specie se l’individuo apparteneva alla upper o middle class – la faccenda era ancora più delicata. Parrebbe strano, ma era così: osservandolo da vicino per quasi un mese, Kanon aveva notato, che l’oggetto dei suoi desideri era letteralmente trincerato nella sua riservatezza, rendendo arduo al gemello ogni forma di conversazione con lui, che superasse i dieci minuti. Non che Rhada non avesse nulla d’interessante da dire o che fosse timido o impacciato, solo che era laconico di natura e agli occhi molto polite degli inglesi delle classi dabbene, l’atteggiamento di Kanon equivaleva quasi ad una molestia al suo pudore.  Inoltre, era di una correttezza  e cortesia esasperante, per i gusti più diretti ed espansivi del franco-greco! (Vabbè che tra gli antenati di Kanon si potevano annoverare da parte greca i pirati; da parte materna le tricoteuses della Rivoluzione, che sferruzzavano in attesa che il Rasoio Nazionale compisse il suo tagliente dovere).

Dalla parte opposta della barricata, Kanon però ignorava di essere anche lui a sua insaputa motivo di studio da parte di Rhada, il quale, con la scusa di riposarsi gli occhi dai voluminosi libri di diritto, osservava discretamente il gemello, domandandosi come mai si ostinasse a tampinarlo senza requie, pedinandolo pure. Ebbene sì, sia Kanon che Violante si erano dimenticati di rivelare al giovane un piccolo dettaglio riguardante i gusti sessuali del franco-greco, cui, di primo acchito, non si darebbe dell’omosessuale.

Non conoscendo, dunque, quel piccolo e trascurabile particolare, al biondo anglosassone quel comportamento risultava alquanto bizzarro; ciononostante, col passare del tempo vi si abituò, incominciando a ricercare di spontanea iniziativa la compagnia del ragazzo (e non come quando quest’ultimo irrompeva nella sua mea) mandando di conseguenza in panne Kanon, il cui magma di amore e desiderio represso pulsava inferocito, esigendo di esplodere in tutto il suo voluttuoso ardore. Presto, i tre coinquilini crearono una routine piuttosto tranquilla, specie verso fine di febbraio, periodo non molto felice per il cugino di Violante: crisi di coppia, signori miei, cappelli al petto, if you please, e condoglianze.

Pandora, se non lo si era capito, era la fidanzata storica di Rhada e così storica, che manco lui si ricordava con precisione quando e perché si misero assieme. Doveva trattarsi di un amoretto adolescenziale, portato inspiegabilmente avanti, divenendo per lui, fonte di una regolare quotidianità; per lei, noia allo stato puro.

Perplessi, signori miei?

Per il mercato femminile mediterraneo, l’esemplare di maschio nordico da sempre era ed è tuttora il suo sogno proibito: mariti molto dolci e fedeli, a momenti soggiogati dalla compagna. Certo, dal punto di vista passionale, lasciavano molto a desiderare, però, per una vita di tranquillità coniugale, la cavallina la si poteva fare anche quattro volte al mese.

Contrariamente, per le nordiche era il maschio mediterraneo l’oggetto del loro desiderio: sensuale e accattivante, fantasioso nell’ars amatoria. Piccolo svantaggio, una buona percentuale di corna di qua e di là, ma per qualche caliente avventura sentimentale, le femmes du Nord erano più che ben disposte a correre il rischio.

Vecchia rifilatura di stereotipi risalenti a Matusalemme? Forse; tuttavia, che ci volete fare signori miei, l’erba del vicino è sempre più verde e ognuno sogna e crea la propria terra della cuccagna, immaginando il partner ideale, senza considerare il piccolo dettaglio che ormai il mondo è globalizzato e che nordici, mediterranei, asiatici, africani e quant’altro si siano tutti mescolati in un multietnico minestrone, pigliando vizi e virtù di questa o quella nazionalità.

Tralasciando ora il trip genetico e ritornando a Pandora, ebbene, ella si lamentava appunto della poca intraprendenza di Rhada nella vita intima; per carità, lo amava, eppure sentiva nella sua ansia di frustrata paranoia, che il comportamento di quest’ultimo era dovuto o al fatto che la considerasse come scontata o peggio, perché avesse un’altra gonzesse.

Verità o menzogna che fosse, la ragazza tampinò il poveraccio del suo meco con le congetture più ardite, ignorando che così contribuiva all’abbassamento dell’autostima di quest’ultimo nei suoi confronti: Rhada, infatti, iniziò a dubitare di essere abbastanza per lei, chiedendosi il motivo della sua infelicità, cercando di rimediare nella goffa e ingenua maniera tipica inglese.

E, in the midst to these great perplexities, fu inaspettatamente Violante quella ad uscirne peggio, con la camicetta bagnata di lacrime, poiché Rhada aveva preso a confessare tutti i suoi dubbi e chagrin a Kanon (l’orgoglio maschile non avrebbe permesso di rivelare certe insicurezze ad una donna, malgrado si trattasse della stessa cugina; quanto ad Aiacos e Minos per motivi oscuri, preferiva tacere). Kanon a sua volta piangeva sulla spalla della ragazza, affermando che lui non voleva essere così infame da approfittarne per acchiappare il suo tanto agognato passerotto e che tuttavia la tentazione era molto forte per un povero peccatore come lui. E la poverina si ritrovò due maschi adulti e vaccinati da consolare a causa di pene d’amore non proprio perdute, bensì ritrovate.

Il giorno, poi, in cui Pandora, particolarmente di cattivo umore (il ciclo …?), gli dichiarò chiaro e tondo: “Pausa di Riflessione”, il povero Rhada ci restò così male, che la sera stessa invitò Kanon al pub The Crown, divorando preda del nervosismo e dal dolore una steak and ale pie; un large fish and chips; onions rings; salsicce con mashed potatoes e Yorkshire pudding, lamb ribs … il tutto sotto lo sguardo incredulo del gemello e del cameriere, i quali si chiedevano attoniti se il biondo anglosassone avesse in mente di suicidarsi tramite indigestione. Per non dire coma etilico. Ora, Kanon poteva vantarsi di aver battuto suo fratello in una gara di resistenza di birra all’Octoberfest, ma la quantità ingurgitata da Rhada era mostruosa, neppure Kanon in quell’occasione aveva ciucciato così tanto! Beh, con tutto quel che l’inglese aveva ingurgitato, forse un po’ di liquidi erano necessari per non rimanerne inciucciati.

In ogni modo, non volendo essere da meno, anche il gemello s’impegnò nella competizione ed entrambi continuarono di quest’andazzo, fino al suono della campanella dell’ultimo giro di pinte – The Last Call Bell -  alla faccia del premier Tony Blair, che l’abolì sette anni fa[2].  Alzandosi incerti in piedi, i due traballarono fuori dal pub verso il club The Purple Turtle, dove si sfogarono ben bene a ritmo di musica indiavolata e a caraffe di Sex On The Beach; The Winter Lust (vodka e Red Bull )e altri cocktail e drinks che per il pudore dei minorenni preferiamo non nominare.

Soddisfatti e completamente sbronzi, Kanon e Rhada ritornarono miracolosamente a piedi dal centro fino a Lakeside (una camminata epica!), reggendosi a vicenda e cantando a squarciagola canzoni sconce metà in inglese, francese e per l’occasione in greco, insegnate al gemello dal suo prozio. E quando finalmente varcarono la soglia di casa – per loro fortuna, Violante era altrove con Aiacos – decisero di sottoporsi al colpo di grazia, aprendo un Jack Daniels e bevendo da esso a canna in salotto.

“Non capisco, perché mi abbia voluto lasciare …”, fu la traduzione dello sbiascicato ritornello di Rhada, mentre tentava d’affogare se stesso – oltre che alle sue pene – nel whisky. “Cosa ho fatto di male? Perché non sono riuscito a rimediare? Sono un irrecuperabile coglione …”, commentò cupamente sconsolato, affondando la testa nel cuscino del divano.

“Ma no!”, lo rassicurò ottimista Kanon, sfilandogli la bottiglia e portandone il collo alle labbra. “Eppoi, non vi siete lasciati, siete in pausa di riflessione!”

“E’ appunto quella che porta alla separazione!”, ululò l’inglese affranto. “E’ una forma più diplomatica per dirmi: “Va’ in malora, non voglio più saperne di te!” E oggi in centro l’ho vista con un altro! Neppure ventiquattrore e già sono nel dimenticatoio!” e si mise a piangere senza vergogna, contagiando il gemello, che singhiozzò tra le lacrime:

“Non piangere, Rhada, ché altrimenti piango anch’io!”

“Quanto sei buono, Kanon! Piangi con me!”, esclamò in un ruggito la Vouivre, abbracciandolo improvvisamente; sopraffatto dall’inaspettato gesto d’espansività, il franco-greco pigolò in maniera infantile, ricambiando la stretta con trasporto:

“Sì, è vero! Tutti mi dipingono come cattivo, però io sono tanto, tanto buono! Ma tanto, tanto in fondo, però …”  e, avendolo reso l’alcol più audace, rivelò con ubriaca sincerità: “Sai, sei io fossi stata Pandoro, non ti avrei mai scaricato né ti avrei relegato in pausa pranzo … ehm … riflessione neanche se mi avessero torturato!” e gli regalò il sorriso leggermente ebete ed entusiasta dell’ubriaco: “Crois- moi mon chou, sei un portento: sei affidabile, serio, responsabile, onesto e puntuale, tagliando corto sei inglese.  Non sei contento?”

“Dovrei?”

“Io sì!”, ribadì con vivacità Kanon “Io sono un buono a nulla: già mi vedo barbone sotto i ponti di Oxford … malato e moribondo … tu invece, farai più strada di me … come mio fratello …” e nascose il viso tra le braccia. “Merde … stasera ho la sbornia triste …”

“Non è vero! Sei … sei …” e Rhada annaspò per cercare la parola, che potesse meglio descrivere il gemello. Scese in un morbido tonfo dal divano, sistemandosi davanti al ragazzo e tentando di far arrivare il messaggio alle sue dure orecchie. “Contorto … eccentrico … rompiscatole quanto vuoi, ma … ma …  mi piaci … e … e … se tu fossi stato una ragazza … allora …”

All’udire la piccola confessione, le orecchie di Kanon si drizzarono sull’attenti e un sorrisone malizioso gli deformò il volto. “Mon chou! Davvero, mi ameresti?”, esclamò battendo contento le mani, quasi fosse venuta Pasqua anzitempo, cambiando così repentinamente d’umore.

“Oh well, non ho detto questo …”

“Però lo pensi …”

Silenzio.

“Sono ubriaco. Vado a letto!”, tagliò corto Rhada, mettendosi in piedi. Rapido, il franco-greco lo bloccò per le gambe, costringendolo a cadere per terra in un sonoro tonfo. Dopodiché, approfittando della confusa e lenta reazione del borbottante inglese, si portò a cavalcioni sopra di lui, avvicinando quanto possibile il viso dell’altro al suo, solleticandogli la sensibile pelle dell’orecchio. Ormai, vittima dei furori etilici, Kanon si era liberato di ogni inibizione, morale e filtro mentis, lasciando il suo lato animale completamente libero di sfamarsi sulla sua preda appena catturata.

“Oui, mon coeur. Andiamo a letto!”, lo corresse sogghignando monello, posandogli un lieve bacio sulle labbra. “Andiam, mio bene, andiam le pene a ristorar di un innocente amor!” [3], canticchiò, prima di posargliene un secondo meno pudico. Un terzo non s’attardò, istillando ufficialmente un tenero e appassionato languore nei loro cuori, infiammandoli con il tizzone ognora ardente del desiderio insoddisfatto, che per la pace del loro spirito urgeva di pronto sollievo.

Ad un tratto, Rhada posò piano la mano sulla bocca di Kanon, allontanandola un poco dalla sua. “Sei … sei …?”, lasciò a metà la domanda, tanto la ragione era addormentata dai fumi alcolici. E, come giustamente affermò Goya, Il sonno della ragione genera mostri …

Inarcando a disagio il sopracciglio, il gemello annuì, temendo una reazione scortese da parte dell’altro giovane: ne aveva tutto il diritto, del resto, non era stato lui per primo ad essergli saltato addosso? E invece …

“Oh, adesso si spiega … how stupid, I … I should have known …”

“Chut! Enough talking! Assez parlé!”, lo interruppe Kanon, nel frattempo, che lo trascinava nella camera da letto di sopra, stringendolo forte a sé, come se temesse, che quello non fosse altro che un fantasma generato dalla sua mente; al contrario, l’oggetto del suo amore era in carne ed ossa  e ben stretto a lui.

E quando Violante tornò a casa verso le tre e mezza del mattino, malgrado la stanchezza delle cajoles udì perfettamente il gemello proclamare la sua contentezza a tutta la casa e la ragazza non riuscì a trattenere un sorrisetto soddisfatto, nell’apprendere che finalmente quei due si fossero decisi: tra quell’ingessato di suo cugino e l’arrapato del franco-greco, ultimamente l’abitazione era stata pervasa da una densa aurea di frustrato erotismo, costringendo Violante a correre da Aiacos, stuprandolo quasi dalla foga ispiratale.

Oh,ora avrebbero avuto alla fine la tanto sospirata tranquillità.

“Oh oui, Rhada! Continue! Aaaaaaahhhhhhh ouiiiiiiiiiiiiiiiiiiii … ne t’arrête pas! C’est trop boooonnnnnnn!!!”

Forse …

 

Il giorno dopo, un urlo indignato echeggiò per la casa, costringendo Violante a distogliere lo sguardo dalla lettura del giornale, intanto che beveva tranquillamente – fino a qualche attimo fa – il suo caffè mattutino. “Umphf, ci risiamo …”, sospirò, appoggiando la tazza in un lungo e scocciato sbuffo.

“Oh, buon mattino cugino!”, salutò il cadavere vivente, che gli si presentò davanti. Viso grigiastro e tirato; occhiaia blu e occhi semi aperti, questi era il Rhada che fece la sua comparsa in un cucina. Barcollando, raggiunse a tentoni il tavolo, lasciandosi pesantemente cadere sulla sedia, prima di posare le tempie doloranti sulla liscia e fredda superficie. “The o caffè?”, mormorò piano la cugina e malgrado la sua premura, Rhada non riuscì a reprimere un piccolo sobbalzo di fastidio, dovuto ai sintomi dell’hangover.

“Non avresti dell’arsenico?”

“Uhm … non so … dovrò controllare nella dispensa … oh ciao, Kanon? The o caffè?”, fu il suo saluto alla Samara Morgan franco-greca appena scesa dalle scale (più comodo, che dalla televisione). Accomodatosi sulla sua sedia, lasciò cadere la testa in un sonoro tonfo sul tavolo.

“Buongiorno, eh?”, disse falsamente seccata la ragazza, dirigendosi verso le padelle sfrigolanti la tosta colazione all’inglese. Di solito, pigliavano qualcosa di leggero la mattina; poiché tuttavia era domenica, quel piccolo lusso se lo potevano permettere. “Allora”, tentò Violante una conversazione, mentre i due continuavano la loro posa da belle statuine. “Che abbiamo fatto di bello ieri sera?”, chiese senza pensarci troppo, essendo di solito quella la domanda di cortesia tra coinquilini. Solo all’ultimo si rese conto di aver premuto il tasto dolente, ma ormai il danno era compiuto.

“Niente!”, esclamò Rhada, riavendosi per primo dal suo stupor spiritis. Kanon si limitò ad alzare la testa dolorante, sbuffare e riportarla al suo posto. “No ho fame, torno a letto …” e si rialzò, riprendendo la sua instabile marcia.

“Are you sure, cousin?”, gli domandò sorniona Violante dalla cucina. “Cammini un po’ a gambe larghe stamane …”

Un sordo ringhio le intimò di non inquisire oltre.

“Coffee, sweetheart?”, fece invece a Kanon, riempiendogli la tazza e accarezzandogli amorevolmente la zazzera dorata. Solo allora, si accorse che il gemello si era addormentato. Pity, perché si era perso lo spettacolo del cugino scappare via in camera, come una damigella rincorsa dal maniaco di turno e Violante era sicura, che il franco-greco avrebbe apprezzato, specie se, alla fine, era stato proprio lui a causare quel fastidio all’imperturbabile cugino.

 

Ma hélas, neppure l’aver condiviso lo stesso letto per una notte – sebbene in condizioni mentali poco chiare – fu il vero collante tra quei due, ché Rhada rifuggiva a tutt’allé la compagnia di Kanon, il quale aveva ripreso a sfogarsi con Violante, confessandole quanto si sentisse misero: di sicuro, il suo chouchou aveva pensato a lui come una facile prostituta, per non dire uno stupratore seriale. Una prostituta stupratrice seriale, ecco!

Ovviamente, la notizia era dilagata e Aiacos e Minos se la risero alla grossa – dopo però dieci minuti di choc puro - del nuovo cambio di sponda di Rhada, il quale minacciò al primo di impedirgli di frequentare la cugina – oh, la Viverna conosceva ottime argomentazioni onde convincere Violante -  nel caso, si fosse intestardito con lo sfottò. Fortunatamente, i suoi due amici, dopo l’ilarità iniziale, non parvero prenderla male, o almeno, ritenevano l’episodio il giusto castigo per quella banderuola di Pandora.

“Mah, sì”, lo rassicurava Minos, versandogli il the nella caffetteria della Oxford Union, “Lei ti ha lasciato e si è messa con un altro e tu ti sei vendicato di lei con un ragazzo! Io lo trovo magnifico! Chissà che faccia, quando lo saprà!”, gongolò, costringendo Rhada a domandarsi sulla reale natura del suo amico. “Eppoi, dai, eri sbronzo, quel maniaco arrapato ti è saltato addosso, tu come potevi difenderti? In quelle condizioni, perfino Gollum ti sarebbe andato bene …”

“Insomma, fare sesso per una volta con un uomo non fa di te un gay; anche se, a dire il vero, la tua eterosessualità l’avevi abbandonata alla porta, quando hai ceduto al suo abbraccio! Ma citando Minos, eri incapace d’intendere e di volere …”

“Spero per te, che il preservativo l’abbia messo … quel tizio mi pare un po’ troppo esuberante …”

“Ma certo, che l’abbiamo messo; ero ubriaco, mica cretino …”

“Oh!”, esclamò Aiacos, stringendosi a Rhada, il quale, resosi conto della piccola informazione trapelata dal verbo, nascose ulteriormente il viso dietro la panciuta tazza da the. “Questo significa, che non solo Riccioli d’Oro ne è uscita arricchita dall’esperienza …”

“Non farei tanto lo spiritoso, Aiacos”, replicò sornione Rhada, avendogli l’imbarazzo aiutatolo a ritrovare la sua bellicosità. “Sai, dopo aver provato carne maschile, chi t’assicura che non ne voglia fare il bis, in particolare con la tua?” e, alla vista del moro che s’appiattiva contro lo schienale del comodo divano, il giovane riconcentrò gongolando la sua attenzione sul suo the.

“E ora? Che intenzioni hai?”, inquisì serio Minos, spezzando il suo scone e portandolo alla bocca. “Non puoi tenergli il broncio per sempre; inoltre, è il tuo coinquilino, prima o poi dovrai affrontarlo …”

“Non ne ho la più pallida idea, Minos! Temo di aver in qualche modo commesso uno sgarbo nei suoi confronti: insomma, ero sbronzo, avevo voglia di sfogarmi e lui era lì … e guarda caso era gay … e … e l’inghippo è accaduto!”

“Ah! Dunque sei tu il colpevole! La mia opinione è che al monello non sia dispiaciuto …”

“Anzi, secondo me, l’hai pure reso felice!”

“In base a quali prove, puoi affermare questo?”, domandò accigliato Rhada, fissando sospettoso Aiacos, il quale fischiettò con nonchalance.

“La questione è semplice Rhada: se ti è piaciuto, sei gay. Se non ti è piaciuto, non sei gay, fine della storia. Però lascia che te lo dica: da come quel Kanon “sgonnella”, si vede lontano un miglio che il suo lavoro lo sa fare bene …”

E alzando sconsolato gli occhi dorati al cielo, Rhada si domandò in che razza di Sodoma di pervertiti fosse capitato.

 

“Buh-hoo, Rhada non mi parla più! Penserà che sono uno facile, pronto a farmi chiunque e pure gratis!”, si lagnava Kanon via Skype con Saga, il quale per tutta la serata era stato costretto a sorbirsi la confessione del piangente gemello.

“Ma se è quel che sei …”, sospirò il maggiore, sbadigliando: erano le tre del mattino continentali.

“BUAHHHH!!!”, ululò il minore, tirandosi i capelli e facendo sobbalzare spaventato Saga dalla sedia, sollecitandolo a rassicurare il fratello del contrario, porgendogli le sue scuse. “Ih-ih!!! Io soffro e il mio unico (per fortuna) gemello si burla di me!”

“Dai Nônon, non fare così … è stato un momento di debolezza …”

“Oh Sasà! Ai suoi occhi non sono che un viscido verme maniaco! Di sicuro, mi considera alla stregua di un violentatore! Di un essere amorale e lascivo! Non avrò mai più chance di conquistare il suo amore! Né la sua verge né le sue fesses!”

“Nônon, non c’è bisogno d’essere così prosaici!”

“Ma se è la verità! Avrei dovuto fermarmi al mio ruolo passivo e invece … invece … buh-hooo …”

Fosse l’ora tarda, fosse il fatto d’avere altri due masnadieri nel pieno dell’onda ormonale, Saga non si scompose dinanzi alla rivelazione. Anzi, ebbe pure la forza di fornire la sua opinione: “In vino veritas, frangin! Se da ubriaco non si è sottratto alle tue avances, significa che gli piaci! Da come me l’hai descritto, mi sembra una persona molto rigida verso se stessa, compressa, anche se molto responsabile e onesta. Quindi, immagino che finora si sia represso, per compiacere famiglia, amici, società …” e sbadigliò a lungo, fissando il tasto rosso di fine chiamata con grande avidità. Si stropicciò gli occhi e accoccolò la testa pericolosamente sugli avambracci.

“Davvero, Sasà?”, chiese Kanon speranzoso, gli occhi brillanti di fiducia. “Davvero credi che lui potrebbe … oy! Che fai? Ti sei addormentato? Sveglia! Oy, non puoi dormire ora, devi ascoltarmi; ho ancora tante cose da raccontarti! Saga! SAGAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHH!!!”, ruggiva invano, graffiando la liscia superficie del portatile, quasi sperasse di destare il dormiente e sfinito gemello.

 

“Ehm, Rhada?”

Il detto interpellato alzò lentamente il capo dal quaderno dei suoi appunti, domandandosi in quale perverso modo Kanon fosse riuscito a penetrare nel sorvegliato edificio della Oxford Union, senza la membership card.

Chiudendo il quaderno e facendo spazio al gemello, onde potesse sedersi, l’inglese gli chiese che cosa potesse fare per lui, rimanendo sorpreso del delicato rossore tingere le guance del franco-greco, il quale si guardava vergognoso la punta delle dita. Pareva per la prima volta seriamente in difficoltà e Rhada temette, che il discorso che stava per affrontare, riguardasse l’unico vero motivo d’imbarazzo vigente tra di loro. E quale altrimenti?

“Rhada …”, esordì a disagio Kanon, il suo tamburellare le dita sul tavolo sempre più forte. “Ehm … I know that lately we aren’t in speaking terms anymore, however… ecco … mi chiedevo … se tu … se io … ehm … se tu potresti … uh … accompagnarmidallandrologo!”, finì in un ingarbugliato sbrodolo.

“I beg you pardon?”

“Mi accompagneresti questo pomeriggio dall’andrologo, per favore?”, gli domandò quasi sottovoce il gemello, infossandosi nella sua sciarpa di lana. Attese un bel po’ la sua risposta, ché il cervello di Rhada ancora doveva registrare la richiesta avanzatagli; quando finalmente ciò accadde, quest’ultimo inquisì con pochissimo tatto:

“Non sei abbastanza grande d’andarci da solo?”

“I know, però il Dr. Kelly mi fa troppo paura!”, spiegò Kanon. “E’ una donna! E mi deve controllare …” e lasciò intendere con un vago e rapido gesto le regioni più intime della sua anatomia, dopo essersi ben assicurato, che nessuno li stesse né a guardare, né ad ascoltare.

“But aren’t you gay? How could this ever affect you?”, fu la logica spiegazione del biondo anglosassone, il quale – malgrado la sua intelligenza -  ancora non aveva capito, che “logica” e “Kanon” non facevano rima, figurarsi andare a braccetto!

Please, Rhada, I beg you! Please, would you come with me? Pretty please? Uhm?” e gli sfonderò lo sguardo assassino di Occhidolci, costringendo l’inglese a celare rapido con la mano le sue iridi pericolosamente esposte.

“Non farlo mai più!”, sbottò, ottenendo qualche occhiata malevola dagli altri avventori della biblioteca. “Alright, you’ve won! I’ll come, I’ll come as long as you leave me alone!”

E sogghignando trionfante, Kanon lo lasciò studiare in pace fino all’ora dell’appuntamento dall’andrologo: he- he, nessuno resisteva a quell’espressione, che costrinse in un pianto isterico il suo gemello alla tenera età di sei anni.

Puntualissimi, i due si presentarono davanti la porta dello studio della dottoressa Lyn Kelly. Dopo neppure cinque minuti di attesa, ella pregò Kanon d’entrare, coinvolgendo nella visita anche Rhada, il quale, malgrado il suo tentativo di zittire il gemello, le era stato presentato come il suo boyfriend. Non che fosse stato costretto ad assistere a chissà che – il paravento copriva ogni attività - solo che la Vouivre temeva che, una volta terminato con Kanon, la dottoressa lo visitasse, giusto per pigliare due piccioni con una fava.

Invece, quando la visita terminò, ella non gli disse nulla, tranne la sua contentezza, poiché finalmente il suo paziente avesse trovato un ragazzo fisso: già da tempo, lei aveva notato quanto disordinata fosse la sessualità del gemello e temeva per eventuali malattie veneree, sebbene Kanon si prodigasse sempre nelle precauzioni. E stranamente, Rhada ascoltò molto interessato, provocando la pronta reazione del franco-greco, che asserì rapido, che la cosa non lo turbava più, giacché si stavano lasciando.

Involontariamente, avevano scatenato l’inferno. “Ma no! Perché troncare? Siete così carini voi due assieme! Non avete pensato ad una terapia di coppia?”

Silenzio.

“Ehm, dubito che nel nostro caso possa mai funzionare … Insomma, siamo troppo incompatibili …”

“Suvvia! Proprio adesso, una mia collega sta dirigendo una terapia di gruppo per coppie omosessuali! Se volete vi ci accompagno!”

“No, no guardi non è necessario!”, la rassicurò con veemenza Kanon, maledicendosi per la prima volta in vita sua della propria linguaccia lunga. “Ormai è finita, quasi, ma finita! Morta e sepolta!”

“Già, perché dissotterrare un cadavere?”, ribadì Rhada. “Lasciamolo pure decomporsi in pace, giusto?”

“Hé, direi! R. I. P.  vorrà dire qualcosa, o no?”

“Sicuro!”, convenne la dottoressa, trascinandoli quasi a viva forza nella stanza della sua collega. “Riesumiamo I Problemi! E solo così riuscirete a risolverli! Buona cura!” e li spinse dentro.

Subito, cinque coppie e la psicologa assieme a loro puntarono lo sguardo verso i due giovani, i quali se ne stavano imbambolati fermi alla porta, incerti se scappare o scappare: tutta la situazione aveva un che di surreale, insomma, come potevano essere una coppia in crisi, se neppure lo erano mai stati? Fino a qualche settimana fa, Rhada stava con Pandora e Kanon neanche conosceva il vero significato di “coppia”. Riassumendo, erano davvero in big nasty troubles.

“Prego, sedetevi!”, li invitò la psicologa, Dr.  Hawkins, e dal nulla comparvero due sedie, che rimpinguarono il cerchio di disperati in cerca di riappacificarsi con la loro dolce omo metà. “Allora, che ne dite di presentarci?”, chiese, cercando di persuadere i nuovi arrivati ad uscire dal cocciuto mutismo dietro i quali si erano trincerati sin dalla loro comparsa. “Partendo dalla mia sinistra, abbiamo Sarah e Liz …”

“Hello!”, le salutò Kanon, muovendo la manina. Rhada si limitò ad un cenno del capo, le braccia le conserte.

“Jesse e Charles … Magda e Ruth … James e Richard e Henry e Matthew! Ed io, sono la vostra dottoressa, Judith Hawkins. Se avete qualsiasi domanda da pormi, non siate timidi!”

“Yes, Dr.  Hawkins”, si decise Rhada a parlare per primo. “Ci dispiace molto, ma temo che la mia “dolce” metà ed io non parteciperemo a questo pubblico teatrino. Insomma, personalmente non ne capisco l’utilità: non ne abbiamo bisogno, noi due stiamo bene così, giusto?” e Kanon annuì convinto, apprestandosi ad alzarsi e fuggire lontano.

“Oh, Rhada, non fare così! Vedi, il diniego è la prima spia, che voi due necessitate d’aiuto! Il malato finge sempre d’essere in salute, quando poi un cancro lo rode dall’interno!”

“Sì, però noi non abbiamo un cancro! Non abbiamo niente! Siamo il ritratto della salute fisica e psichica! Oddio, forse il mio honey un po’ meno, comunque!, il suo aiuto, lo vada ad elargire ai veri bisognosi!” e indicò le altre cinque coppie, le quali li osservavano tra lo scioccato e il divertito.

“Rhada, Rhada, Rhada, non capisci che la mia era una semplice metafora? Il vostro è il cancro dell’amore morente!”, disse e alla presunta coppia d’ammalati cadde la mascella all’udire simile obbrobrio; quanto alla povera Vouivre, si passò sconsolata una mano sugli occhi: altro che sedute terapeutiche, era prigioniero in una gabbia di matti!  E il loro dottore era il più fuori di testa di tutti!

“Dunque …”, inquisì piano, cercando di trattenere a fatica la rabbia montante: voleva sangue, dear Lord, se lo voleva! Che male aveva fatto, per meritarsi quella valanga d’indecente follia? “In teoria, quanto dovrebbero  durare queste sedute?”

“Oh well, fintanto che non vi sentirete di nuovo una coppia!”

“E’ quindi un ergastolo?”

La donna sbatté stordita le palpebre, molto incerta sul da farsi. Optò, dunque, per un sorriso di circostanza e inquisì con faticosa nonchalance:“Altre domande? Sì … ehm … Kanon giusto?” e già si mordeva a disagio il labbro inferiore: se quello strambo col monosopracciglio era il suo fidanzato, quest’altro com’era?

Contento dell’attenzione ricevuta, il gemello abbassò la mano. “Esatto. Ma lei è omosessuale?”

“Pardon?”, ripeté la dottoressa, inebetita quasi avesse ricevuto un poderoso manrovescio: che razza di coppia di matti le era capitata?

“Sì, è lesbica? No, perché sa, mi metterebbe a disagio confessare i miei casini gay ad un’etero, insomma, temo che non sia molto efficace, che non riesca a comprendere appieno il mio dolore…” e le iridi del franco-greco presero un’inquietante tinta scarlatta, la stessa, quando Kanon si apprestava al colpo Occhidolci.

“Kanon, Kanon, Kanon, non sei qui per sentire quel che io ho da dire, bensì l’incontrario!”, tentò di evadere Dr. Hawkins, preoccupata dal pericoloso arricciamento dei capelli del gemello, il quale infierì lievemente scocciato:

“Tutto quel che vuole, ma lei è lesbica o etero? Eddai, è questione di un sì o di un no!”

“Le consiglio di rispondere, il mio  … ehm … boyfriend se alterato può essere vittima di repentini e violenti scatti di nervi, per non aggiungere l’utilizzo di un vocabolario molto sui generis …”, le suggerì Rhada in uno slancio da buon samaritano, tenendo seduto Kanon attraverso una ferma pressione sulla coscia, mandandolo così in brodo di giuggiole.

Alzando gli occhi al cielo, la dottoressa capitolò: “E sia: sì, sono lesbica. Contento?”

Kanon sospirò soddisfatto, accomodandosi meglio sulla sedia. “Funziona sempre! Vedrai che così saremo l’ultima coppia ad essere interrogata!”, sussurrò all’orecchio dell’inglese, il quale non poté trattenere un ghigno dinanzi alla tattica del gemello: mostrandosi i più rompiscatole, sarebbero stati relegati nell’angolino, esattamente quello che i due chiedevano, non gradendo avere tutta quell’attenzione per loro.

“In ogni modo”, riprese Rhada sottovoce, mentre Magda e Ruth inscenavano il loro psicodramma “dovevi proprio dire a quella tonta dell’andrologo, che ero il tuo boyfriend? La parola “silenzio” rientra nel tuo vocabolario di cacciaballe?”

“Mon chou, è stato uno spontaneo gesto di autodifesa! Quella donna mi tampinava ad ogni visita: “C’è l’hai il boyfriend, Kanon?”; “Come? Ancora niente?”; “Questo sesso sregolato non ti fa bene!” etc … Uffa,  recentemente ho avuto anch’io le mie noie e l’ultima cosa, che desideravo, era di sorbirmi un suo ulteriore svarione!”

“Va bene, va bene! Spero però che tu ti sia reso conto, che dalla padella sei cascato alla brace, trascinando una terza ignara persona con te, che, guarda caso, sono proprio io! Hai sentito, quel che ha appena detto l’arpia? Ci terrà qui in ostaggio, finché non ti proclamerò alla Edward Cullen il mio eterno e inestinguibile amore per te!”

“Bon sang, quello no!”, si portò Kanon le mani ai capelli, terrorizzato alla sola idea.

“Hé, invece questo è il suo perfido programma!”

“Bien, allora faremo così: fingiamo di collaborare; le rifiliamo le panzane più assurde che ci vengono in mente; giochiamo ai piccioncini e poi dopo un tot di sedute, dichiariamo d’amarci alla follia e ce la filiamo all’inglese!”

“Alla francese, volevi dire!”

“No! All’inglese ho detto!”

“Se in questo momento stessi parlando in francese, darling … Ma come ora t’esprimi in inglese …”

“Toi, sacré roastbeef! Moi, je te …”

“Kanon! Rhada! È il vostro turno, ora!”, la voce squillante della dottoressa distrasse i due giovani dal loro appassionato dibattito, costringendoli a sobbalzare violentemente all’udire i loro nomi. Mince! Era già il loro turno? “Allora … che ne dite d’incominciare raccontando come vi siete conosciuti?”

“Ehm … that’s a very good question …”, fece Rhada, umettandosi le labbra per temporeggiare, cercando nel frattempo furiosamente una risposta soddisfacente. “Dunque … la prima volta, che ci siamo visti … noi due … uhm …”

“ … ci siamo menati!”, concluse Kanon con sicurezza. L’inglese volse lui uno sguardo un po’ perplesso, ma decise di fidarsi di quel maestro delle panzane qual era il gemello. “Yup! Al nostro primo incontro, ce le siamo date di santa ragione. Sa, all’epoca tiravamo di boxe – niente di che, roba amatoriale – e così, un giorno, ho visto questo bel ragazzone sul ring e gli ho detto: “Hey ciccio, ti va di scazzottarci un pochino?” E quello mi risponde: “Pirla, non vedi che sono impegnato con … con …”  e annaspò in cerca di un nome.

  … Rune …”, lo soccorse Rhada, fornendogli quello del vicino di stanza di Aiacos.

“Giusto, Rune! Thank you, sweetheart!” e gli rivolse un sorrisone melenso.

“E poi?”, lo incoraggiò la donna, malgrado poco convinta: i suoi sospetti sull’instabilità mentale di quei due si rafforzava ad ogni parola del discorso del franco-greco.

“E poi … poi cosa? … ehm … Ah sì! Ho steso Rune col mio pugno inossidabile!”

“Macché avevi usato la frusta!”, lo corresse Rhada, muovendo avanti e indietro l’indice e schioccando la lingua, imitandone il secco sibilo.

La dottoressa sbatté disorientata le palpebre. “La frusta nella boxe?”

“Hé infatti ha barato!”, spiegò sornione l’inglese, mentre il complice sbuffava sonoramente.

“Ma non è questo il punto!”, riprese Kanon, falsamente irritato.  “Dunque, levato lo scarafaggio dai zizì, mi concentrai su Rhada, il quale tutto arrabbiato perché gli avevo rotto il suo punching ball preferito, mi mandò al tappeto con un solo pugno!”

“E che hai fatto?”

“Ho ricambiato!”, rispose il franco-greco, come se quel genere di corteggiamento rientrasse nella norma. Forse nel suo astruso mondo, non di certo in quello dei comuni - e sani di mente-  mortali.

“Per quanto andaste avanti così?”

“Finché Kanon non utilizzò a tradimento la mossa “Lo schiaccia zanzare!”, ergo saltarmi addosso con tutto il suo peso, spiaccicandomi!” e Rhada batté sonoramente le mani, fornendo una mini dimostrazione pratica dell’arma segreta del gemello, utilizzata onde impedire a restii concupiti la salvifica fuga.

“Sicuri che fosse boxe e non un gioco al massacro?”

“Uhm … chissà … Comunque, in tutto questo, c’è una morale: Prima di riempirmi di pugni, dammi il tuo numero di cellulare!”, dichiarò Kanon con scioccante serietà, annuendo perfino col capo.

“Come mai?”

“Perché una volta tornati dal pronto soccorso, abbiamo incominciato – per così dire – a frequentarci, o meglio, io presi a corteggiare questo puritano serioso ingessato!”

“A wooing almost embarrassing!”, sottolineò l’inglese.

“You weren’t so embarrassed in bed, honey!”, replicò sornione Kanon, arcuando malizioso il sopracciglio e causando un piccolo sbuffo da parte del presunto meco. “However, despite all the perplexities involved, Bob’s your uncle, Fanny’s your aunt, we ended up together, enjoying our life as a happy fluffy couple!”

“Oh ... I see ... e dimmi Rhada, come descriveresti, riassumendo, l’entrata di Kanon nella tua vita?”

“Come un Panzer della Wermacht!”

“Really?”

“Beh, era un modo più delicato e alternativamente meno cliché rispetto all’originale, ovvero l’atomica su Hiroshima e Nagasaki  … Vede, il mio boyfriend è un po’ restio a parlare di sé … del tutto, ben inteso …” e si girò verso Kanon, che curvò le spalle finto verginello timido e innocente, arricciando a trombetta le labbra. “Il suo racconto purtroppo, omette tanti particolari e …”

“Quel che il mio meco vuole comunicarle goffamente, è che la nostra storia fu molto dura e contrastata … Romeo e Giulietta fanno una magra figura a confronto, vero? Suvvia, mon chou, confessale quanto tutto congiurava contro di noi, impedendoci di amarci liberamente!”

“Avete tanto sofferto, voi due?”

Lanciandole un’occhiata mesta, malgrado la costola incrinata dal riso represso, Rhada confermò: “You have no idea!”

 

Seconda seduta

“Parlando ora di temi più intimi, la vostra vita sessuale è abbastanza soddisfacente?”

Seduti nel cerchio infernale, i due complici rimasero assai interdetti davanti la domanda. In totale, avevano condiviso una sola notte d’amore ed erano così ubriachi, che neppure si ricordavano a momenti il loro nome, se non fosse stato per il rispettivo partner, che molto gentilmente glieli ricordava durante la galipette d’amour.

Con un rapido tocco alla spalla, Rhada indicò a Kanon di procedere, poiché quella domanda equivaleva per lui – come per Enea – ad un  Infandum, regina, jubes renovarem dolorem.

“Ecco”, esordì il gemello, scegliendo accuratamente le parole (era pur sempre una terapia di gruppo) “Noi … noi siamo sempre stati per le pari opportunità!”e si voltò verso l’inglese, onde ottenere la conferma alla sua versione; purtroppo non la trovò, visto che Rhada aveva lo sguardo altrove, sebbene il rossore alle orecchie confermasse tutto.

“Quindi, non ci sono posizioni tra voi due?”

“Assolutamente no! C’mon, we’re both men; we’ve both got dicks, why should one of us be forced to play always the woman?”, protestò Kanon, notando che la sua filosofia sul sesso riscuoteva qualche perplessità. E interesse. “Personalmente, ascoltando anche i racconti delle altre coppie, salta sempre l’annosa questione delle posizioni! Eddai! Quando Rhada mi vuole montare, glielo permetto senza tante storie e quando io voglio contraccambiare, lui agisce allo stesso modo!”

“Purché chieda per favore!”, specificò l’inglese, scarlatto in volto fino alla punta dei capelli.

“Ovviamente!”, concordò il gemello. Poi, riprese: “Lo so che può sembrare stupido, ma sono fermamente convinto, che in questa maniera si crei un legame più stabile, più equo; che si instauri una reciproca fiducia: dare e ricevere spontaneamente! Per non parlare di una migliore conoscenza delle reciproche fantasie …”

Asciugandosi  a momenti una lacrimuccia per l’emozione procuratale da simile appassionato discorso, la dottoressa continuò nel suo indecente e spietato interrogatorio: “Allora, Rhada, puoi dirci cos’è che a Kanon piace nell’intimità della vostra alcova?”

Il biondo anglosassone boccheggiò disorientato, fissando rapido il gemello, che altrettanto imitava con rara maestria un pesce fuor d’acqua, le guance color porpora scuro.

“Ehm … è qualcosa di abbastanza privato … ecco … non credo, che il mio Nonny possa gradire …”, ma il cenno positivo col capo del franco-greco lo rassicurò, invitandolo a procedere, intanto che affondava il viso nella sciarpa di lana. Sospirando a fondo, Rhada si preparò alla divulgazione del segreto del presunto meco: “Allora … va bene, a Kanon … a Kanon piace … piace lo spank!”, disse tutt’in un fiato, arrossendo anch’egli. Quanto al gemello, lui era nel mondo delle Idee.

“Ti piace essere sculacciato, Kanon?”

“Yesssssss ...”, strascicò la parola il ragazzo, infossandosi ulteriormente.

“Perché questo?”

“Uhm … temo sia un retaggio dell’infanzia …”, ammise il franco-greco, rigirandosi a disagio i pollici. “Vede, mio fratello maggiore, quando eravamo piccoli, mi sculacciava nelle occasioni in cui mi comportavo da monello … verso i dodici anni ha smesso … suppongo perché io sia maturato …”, disse, omettendo che la vera versione dei fatti era un’altra: fin da gamin, invece  di provare dolore,  lui traeva al contrario piacere dall’essere sculacciato, specie se era la mano di Saga a martoriare le sue fesses. E fu così che a dodici anni Kanon  ebbe la sua prima erezione sulla coscia del gemello, mentre quegli lo batteva, per aver rapato a zero Aiolia nel frattempo che faceva il suo pisolino pomeridiano. E l’immagine dell’espressione traumatizzata di Saga l’avrebbe accompagnato fino alla morte, tanto l’aveva trovata mimichoupi nella sua virginea innocenza. In ogni modo, Saga smise da allora di sculacciarlo, ripiegando agli scappellotti.

“Oh … I see …”, commentò incolore la dottoressa, scribacchiando qualcosa di sinistro sul suo note book.

 

Terza seduta

“Allora, Rhada, che cosa vedi?”, chiese Dr. Hawkings, mostrandogli un foglio di carta con una grande e promiscua macchia nera.

“E’ un semplice e indefinito schizzo d’inchiostro utile per il test di Rorschach!”, rispose Rhada realista e pragmatico come sempre,  domandandosi che altro potesse essere quello schifo presentatogli sotto il naso.

“Giusto, ma che immagine puoi distinguere?”

“Glielo ho detto: è un plate per il test di Rorschach!”, continuava a ripetere disorientato l’inglese, girandosi verso Kanon, il quale gli pose la mano sulla spalla, spiegandogli paziente:

“Vero, mon chou, lo sappiamo! Però, lo scopo di questo test è di comprendere la tua personalità attraverso le immagini, che la tua mente elabora osservandole! Dunque, mon doudou, che cosa ti suggerisce?”

“Il test di Rorschach?”

“Mais non! Devi dire un’immagine fissa, che so, un coniglio!”

“Kanon, ma tu vedi sul serio un coniglio in quello schitto di piccione? Sei sicuro di non necessitare di un paio di occhiali?”

“Era un esempio! Può essere una casa; un albero; Babbo Natale; tua nonna … Devi guardarla e rivelare quel che ti viene in mente!”

“E’ quel che ho appena fatto! L’unica cosa che sto vedendo – la tua idiozia a parte – è uno stupido test di Rorschach! Cosa vuoi che veda, altrimenti?”

“Your butt!”, esplose infine il gemello, il capo tormentato da un montante mal di testa.

“You don’t have to be so vulgar, Nonny!”

“You don’t’ have to be so thick-head, Rhada! And since when can you call me Nonny?”

“And you? Did I ever give you my permission to call me Rhada?”

“Firstly, everyone calls you Rhada and secondly, it’s not my fault if your name sucks!”

“Suuuure, and Kanon is a fancy name, isn’t it?”

“That’s right, you twat!”

“Mongrel!”

“Bookworm!”

“Plague!”

“Shrimp!”

“Nancy!”

“Geek!”

“Frog!”

“Roastbeef!”

“Cow!”

“Rhada!”

“ ...”

Roteando rassegnata gli occhi, la donna scribacchiò sul suo taccuino, lasciando i due insultarsi a vicenda con comodo:

Rhadamanthys de Wyvern- Hargreaves, anni 22: pragmatico e serio fino alla paranoia. Possibile trauma infantile derivato dall’assenza dei suoi genitori durante la fase della crescita; stress da aspettative; tendenze autolesionistiche e alla gastrite; lievemente permaloso; monosopracciglio sospetto.

Quand’ebbe finito, invitò cortesemente Kanon a lasciare la presa al colletto della camicia del meco e di dirle, ciò che le macchie del test di Rorschach gli suggerivano.

“Il bonnet di Saga!”

Altra immagine.

“Il peluche preferito di Saga!”

Altro plate.

“La bicicletta di Saga!”

Mostrandogli la terza tavola, la dottoressa chiese lievemente disperata: “Ehm, Kanon, non vedi nient’altro, che non sia di Saga?”

“Uhm … un pullover nuovo …”, disse il ragazzo, aggrottando la fronte “… che mi ha regalato Saga per il mio ultimo compleanno!”

Lungo e profondo sospiro della donna.

Kanon Valavitis, anni 19: a suo modo immaturamente maturo. Ossessionato in maniera compulsiva dal gemello Saga, sospetto di un amore platonico non corrisposto; tendenze al travestitismo e ai giochi di ruolo; manipolatore (specie coi fratelli minori); dubbia moralità  e completamente sbarellato per Rhada.

 

Quarta seduta

“No, no, no, no, no e no! Non mi fido! Quello fa il furbo e io cado col sedere per terra!”, protestava Rhada, controllandosi onde non battere capriccioso il piede per terra, come un gosse dell’asilo. Vabbè aver raccontato ad undici persone il fatidico (e inventato) incontro tra Kanon e lui; vabbè, aver spifferato piccoli dettagli sulla sua vita sentimentale; vabbè essere stato sottoposto ad un test con macchie strambe, ma questa prova propostagli dalla dottoressa era a dir poco indecente!

“Coraggio, Rhada! Ti devi girare e lasciare cadere, acciocché Kanon ti possa afferrare! Non è così difficile!”, lo rincuorò Dr. Hawkins, battendogli la mano sulla spalla.

“But …”

“Tut tut, Rhada, questo esercizio è per rinnovare la fiducia nel vostro rapporto; la fiducia che concedesti al tuo ragazzo, quando uscisti dalla tua orbita, per unirti a quella di Kanon!”

“Well, about that, I can explain everything!”

“Dai mon doudou!”, lo incoraggiò il gemello, spalancando le braccia e sfoderandogli un sorriso birbante e allo stesso tempo dolce. “Vieni da me! Lasciati cadere tra le mie braccia!” e allargò il suo inquietante ghigno.

Quale divinità ho adirato, per meritarmi tutto questo vaudeville?, pensava scocciato l’inglese, voltandosi di spalle e preparandosi al tuffo acrobatico.

“Più rilassato, Rhada, più sciolto! Percepisci la tua Fiducia verso Kanon scorrere possente nelle tue vene!”

“Non la sento!”

“Hé, chiamala più forte!”, gli consigliò sornione il franco-greco.

Rhada lo fulminò con lo sguardo, sibilandogli velenoso come una vipera ceraste: “Tu stai zitto e vedi di prendermi!”

Il sorriso del gemello divenne ancora più largo.

 E va bene. Beviamo anche questo amaro calice!, sospirò sconfitto il biondo anglosassone, chiudendo gli occhi. Trasse un lungo respiro d’incoraggiamento; liberò la mente dai pensieri negativi e, al terzo tentativo, si sbilanciò di proposito all’indietro, cadendo rigido come un tronco appena abbattuto. Nel buio delle pupille ben serrate, si aspettò la caduta, il tonfo, il dolore e il risolino compiaciuto di Kanon, quando gli combinava qualche tiro birbone.

E invece, percepì una forte e delicata presa sorreggerlo, stringendolo quasi a sé; allora, Rhada si azzardò a dischiudere le palpebre sorpreso, trovandosi il naso del franco-greco a qualche distanza dal suo, mentre le sue bionde ciocche disordinate gli lambivano il volto, solleticandone la sensibile pelle.

“Alors, ça va, mon cœur?”, gli sussurrò piano Kanon, parlando in francese, onde non essere capiti dagli altri presenti nella stanza.  Prima, però, che l’altro giovane potesse rispondergli, la dottoressa li si avvicinò, complimentandosi con il franco-greco:

“Very good, Kanon, very good indeed! Visto? Non ti ha permesso, che cadessi per terra!”, esclamò soddisfatta, battendo a momenti le mani. “Si però ora mollalo, eh Kanon?”, aggiunse notando preoccupata il modo leggermente possessivo in cui il gemello serrava l’inglese, soffocandolo simil anaconda.

A malincuore, il ragazzo obbedì, lasciando che uno scosso Rhada si sedesse tranquillo sulla sua sedia.

“Good!”, riprese Dr. Hawkins, estraendo dal nulla il suo famigerato block notes. “Dunque Rhada, vedi la morale in questo esercizio? Che cosa hai appreso?”

“Che Nonny ha buoni riflessi?”

“No, che tu tendi ad essere molto diffidente verso il tuo prossimo. Che non sei capace di rilassarti, stringendo i nodi della tua anima in un serrato e soffocante corsetto! Come mai questo, caro?”

“Forse perché nelle rare occasioni in cui sono caduto, non ho trovato nessuno che mi sorreggesse, né mi tendesse la mano, onde rialzarmi” e Kanon giurò d’aver visto una vena di tristezza e solitudine profonda increspare l’oro puro degli occhi della Vouivre. Non poté non frenare un’onda di pena e sincera compassione per lui: non conosceva nei minimi dettagli le sue vicende di famiglia, ma da come Violante accennava agli zii, costoro non dovettero essere stati né molto affettuosi, né indulgenti verso il loro unico maschio ed erede, subissandolo fin da piccolo con le loro aspettative per un brillante “cursus honorum” degno di ogni esponente dell’upper class. Eppure, mai un lamento da parte del ragazzo, né segni di ribellione. Sempre in prima fila.

Involontariamente, il gemello cercò la mano di Rhada con la sua.

“Fino a questo momento …”

E l’inglese ricambiò la stretta.

 

Quinta seduta

“So, Kanon tra i vari personaggi della letteratura, o dell’opera, o del balletto o del cinema, in quale ti riconosci?”

“Nello Schiaccianoci …”, gli sussurrò sottovoce Rhada, arricciando malizioso le labbra. A stento, il gemello represse una regale linguaccia. Ciononostante gliene fu grato, ché la domanda non gli era risultata molto gradita. Dalle bugie colossali con le quali erano partiti all’inizio, dopo neppure cinque sedute i due pazienti avevano incominciato a rivelare più del dovuto, arrivando a conversazioni su argomenti privati e delicati, cui mai prima di allora avevano accennato.

Già, le terapie di gruppo sono la fonte del male.

Tamburellando a disagio le dita sulle cosce, Kanon ammise, seppure in seguito a qualche attimo d’esitazione: “Ad Odile, il cigno nero.”

“Come mai lei?”

“Ecco, nel Lago dei cigni, due sono i cigni principali: il bianco, Odette e il nero, Odile. Queste due fanciulle-cigno sono identiche tra loro, eppure come la prima è pura e dolce, l’altra al contrario è sensuale e calcolatrice. Per colpa del tranello ordito dal mago Rothbart - e dalla ragazza stessa – il principe Siegfried presenta come sposa alla sua corte la fanciulla sbagliata, spezzando il cuore ad Odette. E fu così, che l’inganno del cigno nero provocò la morte di quello bianco”, sorrise mestamente, umettandosi a mo’ di scusa le labbra. “Eppoi, ho sempre pensato, che il  nero fosse più sexy del bianco!”, scherzò, guardandosi nervosamente attorno e sospirando intimamente di sollievo nell’appurare, che la battuta aveva sortito.

Solamente Rhada non si era unito alla collettiva risata, osservando di sottecchi il ragazzo: dopo mesi di convivenza e terapia forzata, l’inglese aveva imparato a distinguere quando lui mentiva e quando al contrario era sincero. E ora,  poteva vedere la sincerità nelle iridi zaffiro, velata da una leggera malinconia e sì, di una profonda devozione verso quel suo gemello – quel Saga! – la croce e delizia di Kanon. Un legame profondo.

Per la prima volta in vita sua, Rhada sperimentò il freddo brivido della gelosia. Oh, ovvio che l’amore fraterno era diverso da quello d’amante, ma il giovane non poté provare l’ardente desiderio di percepire quello sguardo di tenero affetto posarsi sopra il suo volto, anche solo per un istante. Che quei capricciosi occhi di fanciulla nel guardarlo s’illuminassero come quando il franco-greco accennava al fratello.

“I’m so sorry”, esordì all’improvviso l’inglese, interrompendo il discorso di Kanon, il quale si chetò subito, fissandolo incuriosito.

Il silenzio calò tra i pazienti; non una sola persona poteva essere udita fiatare.

“I’m so sorry, Kanon. It’s all my fault”, continuò il giovane terribilmente serio.

“But, Rhada … what are you tal- …”

Con un lieve cenno della mano, il biondo anglosassone lo bloccò. “Sì, la colpa è mia se siamo finiti in terapia di coppia. Vedete, io … io ho tradito Kanon con una donna!”

Degli scioccati gasp! riecheggiarono nella stanza; dodici paia di occhi fissavano increduli Rhada, tra cui Kanon, il quale rapido ribatté:

“Si, ma … ma eravamo già in crisi … allontanati …”, e lanciò una minacciosa occhiata all’anglosassone, fulminandolo: Che diavolo stai dicendo? Non rovinare tutto, non ora che siamo vicini ad essere assolti!

“Vero. Ciononostante, ti ho cornificato. E sai perché? Perché mi turbavi!”

“I-io?”, chiese disorientato il ragazzo, scuotendo confuso il capo dorato.

“Sì, tu. Sin dal primo istante in cui ti vidi, non ho mai capito con chi mi stessi rapportando. Non dico, che sei schizofrenico, no, ma che soffri della sindrome del Mattia Pascal: non riesci a vivere con l’identità impostati dalla vita e allora ti nascondi coscientemente dietro una, cento, mille, diecimila, centomila maschere! E questo lo compi sempre col tuo gemello in testa, verso il quale provi una forte ammirazione e allo stesso tempo, un feroce bisogno di competere contro di lui, per la tua personale affermazione nel mondo.

Il tuo atteggiamento mi scombussolò notevolmente all’inizio, tanto che mi chiedevo quale fosse la tua vera natura. Lo scoprii poco a poco, osservandoti e studiandoti nei momenti in cui credevi di essere solo, in cui ti rilassavi, non avendo nessuno da impressionare. Fu in quelle rare occasioni, che mi mostravi il tuo vero volto e fu allora, che in me nacque il desiderio di vederlo più spesso, anche a costo di strappare via le tue innumerevoli maschere! Umphf! Mi hai sempre rimproverato di essere un muro silenzioso e riservato, però neanche tu sei tanto atto a rivelare cose personali: della tua famiglia so tutto, di te non so in realtà niente di concreto.

Mi interessavi, mi hai sempre interessato e la notte in cui tornammo a casa ubriachi,  ti levasti per un istante – inibito poi ai fumi dell’alcol – la tua quotidiana maschera; quella notte, non fosti Nônon, o Nonny o Valavitis n°2 o il Gemello Minore, no, fosti per me solo Kanon e mi sentii un privilegiato. Quei preziosi attimi da allora li ho sempre conservati nel cuore; gli unici testimoni della nostra breve relazione. Grazie a loro, ho capito quanto mi fossi entrato nell’anima, malgrado avessi più volte cercato di impedirlo con mille e più valide e logiche spiegazioni. Eppure, sul serio al cuore non si comanda! Mi scuserai se ti confesso, che t’amo?”

Kanon aprì la bocca, chiudendola poi subito, incapace di trovare una sola parola, figurarsi una adatta all’occasione: era come se il suo cervello fosse andato in cortocircuito, lasciando il suo corpo in balia degli aventi, ma la sua razionalità prigioniera nella catena forgiatasi dal quell’inaspettato discorso.

T’amo? T’amo? Quante volte il gemello aveva immaginato sentirlo proferire dalle labbra di Rhada? Quante volte aveva sognato di poter un giorno ricambiare quell’augurio d’amore? E ora, che accadeva sul serio, Kanon era indeciso sul da farsi, ché nelle nostre fantasie noi siamo gli onniscienti signori e padroni, mentre nella realtà non siamo altro che le docili marionette del Gran Burattinaio.

“Thank you …”, mormorò roco, incapace di dire oltre. Intrecciò il suo braccio a quello dell’anglosassone, appoggiandogli la testa sull’incavo della spalla, rimanendo in silenzio fino alla fine della seduta.

“Bene, è sufficiente …”, li comunicò la dottoressa al suo termine, mentre Rhada portava via con sé un inebetito Kanon, il quale, avendo ancora le gambe en coton, non si reggeva da solo in piedi, trovando nella ferrea stretta della Vouivre un valido appiglio.

“Come sufficiente?”

“Sì, a mio giudizio, non avete veramente più bisogno di continuare la terapia!”

“Are you sure?”

“Oh yes!”, esclamò convinta la donna, sistemandosi gli occhiali. “E il verdetto è positivo! Stento pure io a crederlo, ma dopo appena cinque sessioni, wow! La vostra crisi si è sciolta come neve al sole!” e sospirò melodrammaticamente.

Rhada l’imitò: “Hé, sarebbe stato stupido da parte mia perdere questo prezioso chicchibio!” ed elargì  un leggero buffetto alla guancia del comatoso gemello.

“Già!”, convenne con vivacità Dr. Hawkins, “Soprattutto, nel vostro caso: pare impossibile, eppure voi due vi completate a vicenda!”

“Hé, our Lord works in mysterious ways …”

 E l’espressione incredula della dottoressa esibì, quanto ella fosse d’accordo con lui. “In ogni caso, vi auguro buona fortuna e per favore non permettete, che insignificanti facezie incrinino la vostra splendida relazione, mettendovi l’uno contro l’altro!”

“Non si preoccupi, Dr. Hawkings”, la rassicurò Rhada, fiducioso. “Kanon ed io semplicemente moriamo dal desiderio di intrecciare costruttive conversazioni!” e detto questo, si congedò dalla dottoressa – dopo aver ovviamente chiarito la questione della parcella -  galoppando fuori dall’ospedale alla volta della fermata dell’autobus.

Una volta lì, appoggiò sulla panca Kanon, scuotendolo leggermente. “Sorgi e cammina, Dolly Daydream!”

“Siamo ben distanti dall’arpia?”

“Yup!”

“Hurray!”, giubilò Kanon, saltando giù  e saltellando da manicomio di qua e di là, battendo le mani contento. “I’m free! I’m free! Mi pare un sogno! Basta, mai più interrogatori al limite del pudore e della sanità mentale! Ouiiiiiiiiiii!!!! J’suis libre comme l’air!!”

Incrociando le braccia e appoggiando la schiena alla cabina, Rhada ridacchiò soddisfatto: “Hé, ne sono contento! Così la smetterai di piombare all’una del mattino in camera mia, strillando che avevi ancora gli incubi a causa della precedente seduta …”

Il gemello ignorò l’ultimo commento – difficile giudicare se di proposito o involontariamente -  e si sedette accanto all’inglese, dichiarando eccitato: “E tu sei stato magnifico! Giuro, che all’inizio ero un po’ scettico circa la tua mossa, ma poi, visti i risultati! Si sono messi tutti a piangere come scemi!”

“In effetti, ammetto che si è trattata di un’ardita improvvisazione”, concesse l’anglosassone, il concetto di modestia sotto lo zero assoluto. “E questo ti sia di lezione, Nonny: mai e poi mai sottovalutare la dialettica di uno studente oxoniano di giurisprudenza!”

“Gosh, per poco non ci credevo anch’io …”

“Uhm?”

In perfetto sincronismo, i due si voltarono, fronteggiandosi, gli occhi ben puntati uno contro l’altro, oro contro zaffiro. In una tacita ed intima domanda, scrutarono reciprocamente la propria risposta. Che cosa intendeva Kanon con quell’affermazione?, si chiedeva Rhada perplesso. Davvero pensava, che lui stesse bluffando? Per carità, aveva avuto un eccellente maestro; tuttavia, dietro a quel discorso, vi  era celato il suo cuore, sperando intimamente che il gemello afferrasse la sincera e recondita dichiarazione. Ne rimase rattristato; forse, per lui non si era trattato che di una cotta passeggera. Qualunque fosse stata la sua scelta, Rhada l’avrebbe rispettata.

Perché l’inglese non lo contraddiceva? si tormentava invece Kanon, innervosendosi man mano che i secondi scivolavano via come un vivace zampillo di sorgente. Che la sua non fosse stata, che una confessione di circostanza? Un astuto modo, per liberarsi da quel pubblico psicodramma? Non vi era neppure un refolo di verità in essa? Ah! Ciò bruciava maggiormente, poiché aveva intaccato la barriera del ragazzo, illudendolo per un folle ed euforico istante di aver finalmente trovato qualcuno, che l’apprezzasse sul serio, non solo per qualche oretta di coccole. Si sentì smarrito; tutta la sua sfacciataggine e intraprendenza scomparse in uno schiocco di dita. Se solo Rhada fosse stato più impulsivo! Avrebbe potuto venirgli incontro e aiutarlo a sciogliere il dilemma; invece, l’inglese continuava a fissarlo enigmatico e attento, simile ad un gatto a caccia.

“Hai progetti per il weekend?”, domanda d’emergenza in caso di panne della massa grigia pensante.

“Sì.”

“Oh”, ci rimase male Kanon: di sicuro l’anglosassone aveva un’amichetta nascosta da qualche parte. Hé, mica poteva sorvegliarlo 24 ore su 24! Prima doveva diventare il suo meco e solo allora, ne avrebbe avuto il pieno diritto.

“Vado a vedere la Turandot al Covent Garden Opera House.”

“Oh” e il gemello ci rimase doppiamente male. Quel genere di attività, decisamente le si facevano in coppia.

“Non ti piace?”

“Uhm? Perché?”

“Non ti va d’accompagnarmi?”

“Devo farti d’autista?”

“Zuccone!”

“Come la tua escort, allora?”

“Doppiamente zuccone!”, scherzò Rhada, ridendo di cuore, facendo così imbestialire il franco-greco, che sbottò davvero scocciato dalla contorta burla mossagli contro (figurati se ci credeva, che l’altro giovane lo invitava al Covent, una prima teatrale, poi! Tzé!):

“Don’t pull my leg! In quale veste ti dovrei accompagnare?”

Rhada non rispose subito, continuando a sorridere segretamente tra sé e sé. Certo che per essere una versione moderna d’Odisseo, Kanon a volte era di un’ingenuità disarmante! Evidentemente, non doveva essere abituato a relazioni troppo lunghe, omettendo così quelle piccole gentilezze scambiate tra compagni. E a pensarci bene, in effetti i due avevano condiviso una sorta di relazione e anche segreta, dato che nessuno aveva rivelato al rispettivo entourage dove sparissero per tutto il giovedì sera.  Questa loro improvvisata complicità, unita all’abitudine di passare molto tempo assieme e ad un pizzico di sana passione fisica, inconsapevolmente li avevano avvicinati in maniera pericolosa, gettando le basi per un rapporto più serio, duraturo e alla luce del sole.

Ma qualcuno doveva dare il via.

“Allora?”

“Uhm …”, fece d’un tratto birbante Rhada, scostando una bionda ciocca sbattuta dal primo vento primaverile sul viso di Kanon, che aggrottò la fronte, incuriosito. “Come … come …”, lo provocò l’inglese, tenendolo sulla corda, mentre si avvicinava a lui, gli occhi luccicanti di un poco raccomandabile lascivo riflesso. “Come …”, gli accarezzò la guancia con la punta del dito, scendendo fino alle labbra del ragazzo.

“Come?”, gli chiese Kanon bellicoso, mordicchiandogli a mo’ di avvertimento il polpastrello, della serie scegli con cura le tue prossime parole o altro. Eppure, non si trattenne dal ronronnare, quando percepì la mano di Rhada proteggergli la gota dal vento serale; vi si rifugiò, reclinando un poco il viso, posando un lieve bacio sul fresco palmo. Allo stesso modo, uno delicato fu  donato dall’anglosassone sulla tempia del gemello.

“Come …”, le loro labbra pizzicavano d’ansia, aspettativa e frustrazione, mentre il fumo dei loro respiri si mescolavano tra di loro, quasi fuoriuscissero dalle mortifere fauci di due draghi e non da bocche d’innamorati. “Come …”, Kanon non si lagnò del suo mento prigioniero dagli artigli della Vouivre, anzi, portò indietro il capo, acciocché l’altro giovane fosse costretto ad avvicinarglisi, se desiderava il suo bacio. “Come il mio … AUTOBUS!!!!! NO!!!!!!” e rapido come la morte, Rhada si sciolse bruscamente da un interdetto Kanon, correndo in direzione del mezzo di trasporto, che cercava di fare il furbo, lasciandoli all’agghiaccio.

Scuotendosi dall’iniziale trance, il franco-greco si rese d’un tratto conto della gravità della situazione, unendosi al compagno nella rincorsa del bus, sbracciando ed imprecando come una lavandaia e con maggior foga dell’inglese, ché quella sgradita interruzione lo aveva mandato in bestia. Come aveva osato? Era a tanto così da baciare il suo diletto, ma noooooooooo! Deve arrivare l’autobus!

Mondo crudele e beffardo.

Dopo una corsa perdifiato, i due riuscirono a salire – complice l’autista, che s’era un poco impietosito – crollando sfiniti sui comodi sedili infondo del deserto bus.

“Allora”, riprese Rhada, ansimando leggermente. “Vieni con me per la Turandot?

“Non lo so … mi dovrai convincere …”, rispose malizioso Kanon, passandosi birbante la punta della lingua sulle labbra, che l’inglese non si attardò ad onorare with the most passionate and joyful kiss, which could have torn his lover’s very soul apart, if not even its own.

“So?”

“Nope!”

E si ricercarono nuovamente con la bocca e la lingua, approfittandone come ladri della totale assenza di passeggeri nell’autobus (le gioie dell’ultima corsa …); o forse no, ecco a onor del vero, un’accigliata vecchietta li stava osservando con infastidito cipiglio, guadagnandosi da Kanon -  che la spiava di sottecchi, malgrado la piacevole occupazione – un molto continentale e irriverente dito medio per la sua moralista indiscrezione.

O padre augusto … Ora conosco il nome

dello straniero …

Il suo nome è … Amore! [4]

 

***

 

“Pensi che Mamie la prenderà bene? Intendo, di Kanon e Rhada …”, chiesi a Maman, mentre lei era intenta a controllare come procedesse la cottura del bollito. Dopo l’attentato al viso del meco del gemello minore da parte di Mamie, la piccola folla – qual era la mia famiglia – si era dispersa ognuna nel suo cantuccio: i due morosi in camera di Kanon; M. Christophe con Aiolia in bagno per via delle spine del cactus; Maman, Saga, Milo ed io in cucina e Mamie che scorazzava libera e felice nel bosco con Fred, per la sua serale pipì (del cane, eh!).

Rigirando col forcone la carne, Maman commentò cupa: “Mia madre è meglio che lo sappia il più tardi possibile …”

Ignorai l’occhiata interrogativa dei miei due fratellastri, sbuffando sarcastico: “Oulà! E quando di grazia? Dopo il mio matrimonio?”

“Alle calende greche, allora”, sussurrò Milo al gemello maggiore, che increspò divertito le labbra. Ciononostante, lo udii perfettamente, e, voltandomi verso di lui di scatto, sibilai minaccioso: “Prego, Milo? Dicevi?”, domanda, cui lo scorpion rispose con tragica solennità:

“Hélas, esprimevo a mio fratello le mie perplessità, circa la futura celebrazione di un imeneo in questa casa …”

“Dubiti forse, che io mi possa un giorno sposare?”

“Carissimo Camus, questo è una nazione libera; di conseguenza, dico tutto quello che mi pare  e piace, come e quando mi aggrada! L’impedirmelo sarebbe molto dispotico e infantile da parte tua …” e mi regalò un sorrisone carnivoro. Avvampai nel sentirmi così definito e il divertimento negli occhi di Maman e Saga non aiutarono di certo il mio rinnovato spleen.

“Ci sono certi argomenti, verso i quali bisogna avere la bontà di tenerli per sé!”, replicai stizzito, giocherellando con la mollica della baguette. Sbuffai pieno di fastidio, quando Milo me la sottrasse dalle dita in un celere retaggio.

“E se le divulgassi comunque? Che faresti? Mi taglieresti la lingua?”

Arcuai ambiguo il sopracciglio. “Beh, stasera siamo in tanti a tavola e se dovesse mancare della carne nel bollito …”

Il ragazzo gettò indietro il capo, ridendo gutturalmente. “Tzé, p’tit cannibale d’un pingouin!”, affermò gioviale, passandosi l’organo a rischio sulle labbra. “D’accordo! Solo però se mi prometti, che sarai tu a mangiarla!” e si mise giocosamente bellicoso in bocca il pezzo di pane, che mi aveva in precedenza sottratto.

Ora comprendevo da dove derivava tutta quella passione di Saga verso i coltelli ed infatti, guardai con insano interesse quello accanto alla mia destra …

“Visto che voi due siete così pieni d’energie”, s’intromise Maman, impedendomi di sbudellare il mio fratellastro, “che ne direste di mettere un po’ di tavola? E Saga, per favore, potresti aiutarmi a svuotare la lavastoviglie?”

Chi di malavoglia, chi con cortesia e chi ridendosela, ci applicammo a portare a termine il rispettivo incarico affidatoci da Maman. E com’era ovvio prevedere, Milo ed io ingaggiammo una gara di velocità, su chi apparecchiava più posti, gridando al baro per qualche stoviglia tralasciata ed  ebbi il mio bel daffare dall’impedire al mio fratellastro, di rubarmi a tradimento un o due oggetti, accusandomi così di negligenza.

Intanto che noi eravamo impegnati in questa interessantissima competizione, Maman passava i vari piatti al gemello maggiore, che li riponeva con accuratezza certosina nella credenza. Sennonché, nel pieno del nostro duello …

CRASH!

“Mon Dieu, Saga!”, esclamò  Maman preoccupata, girandosi allarmata verso il giovane. “Ti sei fatto male?”, inquisì, ispezionandogli rapida le mani, che però trovò intatte da ogni taglio.  Era strana la posizione di Saga; prima dell’arrivo di Maman era restato come imbambolato, le mani tese per ricevere il piatto che sì era venuto, ma di qualche centimetro più in sotto. Conseguentemente, esso era caduto frantumandosi in mille pezzi. Neppure dopo il rumoroso suono di ceramica infranta si era mosso.

“L’avevi visto il piatto, mon coeur?”, gli domandò Maman, chinandosi a raccogliere i frammenti. Volonterosi, Milo ed io l’aiutammo.

Fu allora che Saga si scosse, imitandoci e farfugliando nel frattempo: “No … cioè sì. Sì l’avevo visto, ma ero distratto … avevo la mente altrove … scusami, non accadrà più!”

“Ma figurati, per un piatto!”, lo consolò Maman. “Momus, da piccolo, mi ha distrutto in un colpo solo tutto il servizio da the!”

Eh, ovvio che alla fine mi mettevano sempre in mezzo, come il prezzemolo! (Eravamo in cucina, poi, quindi il contesto era ancora più appropriato!) Inoltre, sempre per esempi negativi! Uffa!

“E Milo la zuppiera di porcellana!”, aggiunse ridendo Saga e l’espressione di sorniona soddisfazione del minore espresse con spavaldo orgoglio: Embé? Credevi forse, che la zuppiera si potesse salvare dalle mie chele? Figurati! Non scherziamo!

“Piuttosto, Momus, andresti a chiamare Kanon? Abbiamo assolutamente bisogno di aiuto qui col bollito! E la zuppa!”

“E il dolce!”, conclusi io, desideroso di vendicarmi su di lei, per avermi sfruttato come exemplum di amoralità distruttrice. “Perché non lo ammetti, che in cucina faresti piangere persino un usuraio?”

Imperturbabile, Maman sfilò il coltello dalla sua fodera di legno, dichiarando sognante: “Lo sai, fin dalla tua prima ecografia ho sempre sperato di avere una femmina … Tant pis, posso porvi subito rimedio …” e il ghigno che m’elargì, ricordò in maniera troppo inquietante quello a me più conosciuto di Mamie. E terrorizzato, scappai via.

Mince, avevo dimenticato che,  alla fine della fiera, M.lle Corinne era pur sempre la figlia di M. me Séraphine, sebbene stemperata dai geni di Papie.

Però cattivo sangue non mente, specie se ci si chiamava Molinier e se si era una femmina.

 

***

Partito alla ricerca del gemello perduto, mi diressi senza tante cerimonie verso la sua camera, che trovai aperta. Meglio! Così non sarei passato per impiccione, nel caso i due fossero impegnati in qualcosa di più serio e personale. Mi apprestai, quindi, a battere alla porta, per annunciare il mio arrivo; ciononostante, non avanzai di un sol passo, limitandomi a contemplarli quasi rapito, domandandomi come due creature così diverse si fossero mai potute appaiare.

Anche fisicamente: monosopracciglio a parte, Rhada aveva la carnagione d’un pallore quasi anemico; lineamenti severi e spigolosi, addolciti però da un naso e da una bocca delicati. Invece, Kanon era pressoché il contrario: pelle lievemente olivastra; lineamenti regolari e dolci, virilizzati dal forte naso mediterraneo. Perfino il biondo dei loro capelli li divideva: quelli corti dell’inglese viravano al paglia; quelli più lunghi del gemello minore all’oro.

Due cariche quindi opposte e apparentemente incompatibili, eppure era così dirompente l’affetto e la devozione che trasparivano dai loro occhi ogni volta che s’incrociavano, quasi si sussurrassero con instancabile esuberanza la loro reciproca promessa: Salut, io sono qui per te! Ora e per sempre!

“Finished, sweetheart?”, sentii chiedere Kanon a Rhada. Il rumore della cerniera della valigia che si chiudeva, confermò la fine del lavoro svolto.

Obviously!”, esclamò il giovane anglosassone, tirandosi su in piedi. “And as usual, you didn’t help me!”, lo rimproverò velatamente, mentre sistemava diligente il bagaglio in un angolo della stanza, onde non intrigasse.

“Why should I? You’re so big, so strong, so smart …”, ronronnò Kanon, cingendogli da dietro la vita. Poi, mormorandogli birbante all’orecchio: “So damn sexy … my proud and fiery  Wyvern …” e gli mordicchiò il tenero lobo provocatoriamente. Rhada sorrise, scuotendo tra il divertito e l’intrigato il biondo capo.

Certo che vedere in quelle condizioni il gemello minore, era piuttosto conturbante …

Non, pas bien!

Forzandomj ad uno spietato mind control, mi risolsi a levare l’ancora, prima di trasformarmi mio malgrado in un voyeur pervertito. E che si esercitassero poi in tutte le galipettes, che volevano.

Feci quindi per ritornare tranquillamente in cucina, quando notai Mamie puntare diretta verso la stanza di Kanon, portandogli i suoi asciugamani puliti. In quel momento, oltre che a sbiancare, mi si fermò il cuore: di tutte le disgrazie, che potevano capitare, quella era la bomba da evitare in assoluto! Dopo la fuga di Papie con un uomo, la nonna non era molto indulgente verso gli omosessuali. Per la serenità della famiglia, decisi allora  d’intervenire, sebbene sapessi che non mi avrebbe comunque portato a nulla di buono.

Comme toujours …

E infervorato da simile spirito di fraterno sacrificio, corsi come un indemoniato, anticipando Mamie e irrompendo per primo nella stanza del gemello minore, simile ad un toro nelle strade di Pamplona. 

“Momus, ma che diavolo …?”

“Perdonami Rhada!”, gridai sinceramente contrito, gettandomi contro di lui e rotolandoci assieme dall’altra parte del letto, sciogliendoli a forza dal loro abbraccio.

Qualche secondo dopo, Mamie fece la sua comparsa.

“Kanon, ti ho portato gli asciugamani puliti e … ma che stai facendo qui tutto solo e imbambolato con quella faccia da ebete? Mah … gioventù …” e uscì con la stessa flemma, con la quale era entrata.

Ma per me, i  guai erano appena iniziati, ché dopo il primo attimo di smarrimento, udii un sordo ringhio provenire dalla gola di Kanon, il quale prima ancora di rendermene conto, mi aveva trascinato via da Rhada, pigliandomi per il bordo dei pantaloni, mettendosi poi a sculacciarmi come un assatanato.

“Toi! Foutu pingouin! Come ti sei permesso di gettarti sul mio chouchou? Gli hai fatto male! Non era sufficiente l’assalto mossogli in entrata? Ora pure in camera? Per colpa tua ha un bernoccolo in fronte grande come il rosone di Notre Dame de Paris! Non t’azzardare a ripeterlo mai più, capito? Altrimenti io questo tuo culo te lo faccio più rosso dei tuoi capelli!”, berciava come impazzito, calando i colpi sempre più in rapida sequenza. Nel disperato tentativo di sottrarmi a quel supplizio, morsi d’istinto la mano di Kanon, il cui ululato all’assassinio mi preannunciava sinistramente, che per una settimana non sarei più riuscito a sedermi come si deve.

“Kanon, that’s enough!”, gli intimò Rhada, bloccandogli le braccia e fornendo l’occasione ad una quarta persona di sfilarmi via dalle grinfie del gemello, tirandomi per la gamba. Poi, un secondo urlo di guerra -  ancora più animalesco del primo -  e fu Kanon quello sotto assedio da parte di un Milo incollerito e paonazzo in volto, il quale gli elargiva sberle talmente violente, che pareva quasi volesse staccargli la testa.

“Toi, pervers d’un salaud! Pensi forse che, essendo mio fratello, tu possa toccarlo? Eh? È questo quello che credi? Cochon!” e giù ceffoni.

“Ah ouais? Dì al tuo pingouin enfoiré di saltare addosso a te, non hai mechi altrui!”, e via con altri manrovesci.

“Smettetela voi due!”, cercava di separali l’inglese, evitando allo stesso tempo gli schiaffoni che volavano come le mosche sul latte. “Si è trattato sicuramente di un malinteso: sono certo che Camus aveva le sue ragioni!”

“C’est vrai! C’est vrai!”, annuii con vivacità, massaggiandomi nel frattempo il posteriore offeso. Oh, Dieu merci che qualcuno di sano in questo manicomio l’ho trovato!

“Milou! Nônon! Assez!”, ruggì imperioso Saga, comparendo all’improvviso – antenne di fratello maggiore? O il baccano creatosi era giunto perfino in cucina? – e strattonando via Milo dal gemello o almeno provandoci: i due parevano incollati con l’attaccatutto.

“Non metterti in mezzo, Sasà!”, s’oppose il ragazzo, soffiando come un gatto.

“Già, chi t’ha chiamato? Fatti gli affari tuoi! Quest’insetto ed io abbiamo un conticino da regolare …”, rincarò la dose Kanon, muovendo convulsamente il braccio, onde innanzitutto acchiappare l’aracnide, eludendo la barriera dell’arto del gemello maggiore, che lo proteggeva; in secondo luogo, evitare che Rhada glielo afferrasse, come era successo a quello sinistro.

“E ora al tre! Uno … due … e tre!” In perfetta sincronia -  Saga con Milo e Rhada con Kanon ben stretti tra le braccia - i due maschi più anziani riuscirono  a staccare via l’uno dall’altro grazie ad un violento strattone, finendo tutti allegramente con le gambe in aria.

Ma almeno, il bollettino di guerra non dichiarava alcun morto.

“Oy, che bordello sta succedendo?”, domandò tranquillamente Aiolia, mangiucchiando un pezzo di pane. E la sua flemma non accennò a diminuire, neppure quando vide i quattro dell’Apocalisse per terra uno sopra l’altro. “Ebbene?”

Scrollandosi Milo di dosso e grugnendo irritato, Saga si mise in piedi. “Puntuale come sempre, eh Iou - Iou?”

“Ah, non guardarmi così di traverso, Sasà!”, esclamò il ragazzo, alzando la mano bendata. “Sono in malattia!” e si sedette sbuffando accanto a me. “Ma te guarda! Per colpa di quel cactus della malora, sarò costretto a farmi i solitari con la mano sinistra!”, mi confessò scocciato. Annuii incerto, dandogli ragione a priori, sentendomi troppo scosso per ogni qualsiasi forma di conversazione, specie se cochon.

“Bien!”, sospirò il gemello maggiore, sistemandosi gli occhiali andatigli di traverso e miracolosamente intatti. “Ora che ci siamo tutti ben sfogati, facciamo un bel respirone profondo e per favore, senza urlare né tentare di strapparvi gli occhi a vicenda, chiariteci  che cos’è successo tra voi tre!”

“Questo salaud d’un pingouin enfoiré si è scaraventato contro Rhada, buttandolo per terra e procurandogli un gigantesco bernoccolo!”, m’accusò con veemenza Kanon, indicando la fronte del suo ragazzo. In effetti, avevo calcato un po’ troppo la mano: il livido era davvero brutto e sanguinava leggermente.

“E’ vero, Momus?”

“Oui”, ammisi con sincero rammarico, precisando subito dopo: “Ma l’ho fatto per il bene sia di Nônon, che di Rhada!” e, ignorando lo scettico sbuffo del gemello minore, che imbeveva intanto un asciugamano con l’acqua della bottiglia, continuai: “Vedete, il problema è che … che …”

“Che …?”, m’incoraggiarono a continuare, pendendo dalle mie labbra, cinque paia d’occhi puntati contro di me con impaziente insistenza.

“ … che Mamie è omofoba!”, terminai in un vergognoso pigolio, nascondendomi il volto coi capelli, temendo lo scoppio della bomba.

Silenzio.

Uhm? Non reagiscono?

“CHE COSA?!?”

Ah! Eccola qua!

Per lo choc, a Kanon era caduto l’asciugamano di mano, prontamente afferrato da un altrettanto sorpreso Rhada. Aiolia a momenti si soffocava col boccone di pane, che stava masticando; Saga si era levato di scatto gli occhiali, incredulo, e Milo sembrava aver ricevuto un pugno allo stomaco. “Mamie è omo-fo-ba?”, articolò lentamente lo scorpion, gli occhi spalancati come quelli di una civetta.

“S- stai, cough, s-sch- ch -cherzando, cough, vero?”, s’informò l’ultimogenito - seppure poco convinto lui per primo -  tra un colpo di tosse e l’altro, immediatamente soccorso dalle zampate di Saga alla schiena.

“Non sopporta i gay?”, mi domandò accigliato Rhada.

“Esatto”, confermai sinceramente dispiaciuto, quasi fosse stata colpa mia. Forse avrei dovuto informarli prima, se solo l’avessi intuito in tempo! Ripensandoci, ero davvero stato un cretino a non comprendere tutti quei piccoli indizi, riguardanti l’omosessualità del gemello minore, disseminati di continuo sia da parte sua, che dei suoi fratelli. Su certi argomenti sul serio ero più ignorante di un ignorante!

“Merde, ça c’est grave!”, commentò Saga, ripulendo le lenti degli occhiali con il bordo del maglione nero. “Et maintenait qu’est-ce qu’on fait? Non possiamo certo separarli solo per questo motivo!”

“Oh, p’tain d’un canard sodomisé!”, si lagnava Kanon, le mani sui capelli e girando senza requie avanti e indietro per la stanza. “C’est la merde! C’est la merde pour tous!”

“Lo so, lo so! Non ne vado fiero neanch’io, ma è così!”, replicai in fretta: desideravo avere i miei fratellastri ancora coscienti per un po’, onde sentire il motivo di tale astio. “Mamie è omofoba … per trauma!”

“Trauma?”

Sospirai a lungo. Questa gliela dovevo; se eravamo destinati a convivere assieme come famiglia per il resto dei nostri giorni – o finché divorzio non ci separi –  era giusto che conoscessero la vicenda dei miei nonni.

“Mio nonno Jean – François, o soprannominato da tutti Dégel, quando mia madre aveva diciannove anni circa, scappò di casa …”, sospirai di nuovo “ … con un uomo. Da allora, Mamie è schizzata completamente e non può più vedere un omosessuale neanche dipinto! Ma prima dell’incidente era al contrario molto tollerante, anzi: il mio prozio Uriel lavorava in un nightclub di Saint Tropez! Si faceva chiama Unity ed era un Drag …” terzo lungo sospiro “ … Queen!”

Ruggito di risate. E vabbè, me l’aspettavo: del resto, fu la stessa mia reazione quando a quindici anni finalmente Maman mi rivelò, in che cosa consistesse esattamente il mestiere di suo zio. Peccato, che eravamo al suo funerale e mi sentirono tutti; solo Mamie non mi guardò storto, tutt’altro, si mise in piedi sulla panca e gridò: “Bravo Momus, così si fa! Quel pagliaccio non merita altro!”

“Un Drag Queen?!?”, ripeterono in coro Kanon e Milo, asciugandosi le lacrime agli occhi. Anche Aiolia li imitò, sussurrando tra il dispiaciuto e il divertito: “Povero Momus: certo, che da parte materna è cascato proprio male!”

L’unico che però non rideva – Rhada a parte, ma perché si stava controllando spietatamente a non farlo – era Saga, il quale, levandosi di nuovo gli occhiali, mi chiese con una voce più acuta di qualche ottava: “Io  … io ho dunque ammazzato il gallo col nome di tuo nonno?!?”

“Non ti preoccupare, ormai nessuno in casa lo chiamava più così!”, lo rassicurai, battendogli con cautela la spalla. Il gemello ululò rammaricato, coprendosi il volto con le mani.

“Ritornando a tua nonna”, disse Rhada, elargendo un piccolo buffetto al braccio di Kanon, tacito invito a smetterla di sghignazzare come una iena. Il gemello minore si calmò subito. “Non c’è modo di farla rinsavire? Di parlarle?”

Scossi scettico il capo. Hé, sperare di comunicare con mia nonna, era sperare di trovare parcheggio a Bordeaux al primo tentativo: impossibile! “Nah, ne dubito: solo uno choc altrettanto forte potrebbe persuaderla a cambiare idea!”

Tamburellando le dita sul tappeto, Aiolia domandò seriamente preoccupato: “E ora? Come la mettiamo con loro due? Se ne accorgerà, figurati! Ha l’homo-detector incorporato, dopo simile trauma!”

“Già, se vi vede troppo appiccicati, lo farà di sicuro!”, convenni con il lionceau .“Anzi, già aveva i suoi sospetti appena vi ha intravisti in entrata; per mandarla fuori pista le ho rifilato la panzana, che Rhada aveva la ragazza”, confessai, guadagnandomi un gesto molto irritato da parte di Kanon, che si mise bruscamente in piedi. “Lo so che ti dà fastidio, ma era l’unica soluzione disponibile: figurarsi se ci credeva, che siete amici e basta!”

“In ogni modo non digerisco questo suo rancore nei miei confronti, solo perché sono gay!”, sbottò il gemello minore, battendo seccato il piede per terra. “Non sono stato di certo io, quello a portarsi a letto tuo nonno!”

“Oddio, Nônon, se tu fossi stato più vecchio e lui più giovane … la cosa non ci avrebbe sorpreso più di tanto …” , gli ricordò Aiolia, inarcando il sopracciglio e l’inglese annuì solennemente.

“Riassumendo, se Mamie vede Kanon e Rhada assieme nous sommes tous foutus?”

“C’est exact!”

Se vedrà Nônon, vuoi dire Ionesco …”, s’intromise Milo, facendoci lievemente sobbalzare per la sorpresa: in effetti, quel suo lungo silenzio era strano per un chiacchierone come lui.

“Milou?”

Inumidendosi le labbra, il ragazzo espose l’idea covata nel frattempo dal suo strambo cervello: “Oui: se vedrà Nônon. Abbiamo due gemelli, no? Allora, perché non sfruttare questo punto a nostro favore?”

“Vuoi dire …?”

“Précisément! Mamie – come giustamente detto da Ionesco -  potrebbe insospettirsi, se fosse Nônon vicino a Rhada, ma se invece fosse Sasà? I due in teoria non si conoscono molto bene e quindi, anche se stessero uno accanto all’altro, che male ci sarebbe? Tanto poi lo sanno tutti, che alla fine Saga è frigido …”dichiarò imperturbabile, ignaro del colpo di scure che calava sulla sua testa. Celere, l’afferrai per il braccio, sottraendolo alla zampata di un gemello maggiore scarlatto in viso.

“Scambiare l’uno con l’altro? Milou, questa è una follia! Mère e Mamie a parte, Papa di sicuro mangerà la foglia! Hé! Li ha cambiato pure il pannolino quand’erano due bébé, vuoi che non se ne accorga?”, protestò Aiolia, nonostante il luccichio sinistro negli occhi verde acqua tradiva un sincero interesse verso l’esperimento. “Eppoi, malgrado siano due gemelli hanno un modo d’atteggiarsi completamente diverso: insomma, guardali!” e indicò i due colpevoli, che lo fissarono perplessi.

“Fossi in te, non sottovaluterei le doti di recitazione di Kanon”, gli suggerì Rhada con sicurezza ed io mi ritrovai perfettamente d’accordo con lui: lo spavento di poco fa, ancora mi causava la pelle d’oca solo a pensarci.

“Appunto! E si può addurre come scusa la fatica dovuta al viaggio per qualsiasi comportamento fuori dalla loro norma!”, concordò Milo, annuendo con il capo. “Eppoi, stasera basta che Nônon stia un po’ zitto e che Sasà parli un po’ di più et voilà! Les jeux sont faits!”

Ci fu un minuto o due di silenzio per la pausa riflessione.

“Mah, in fin dei conti, non è malvagia come idea!”, dichiarò il piccolo Simba con convinzione e lo scorpion gli batté la spalla, come se volesse dirgli: Lo sapevo, che saresti stato d’accordo con me nel creare un po’ di casino stasera!

Kanon, invece, non pareva molto persuaso; fatto forse dovuto alla sua gelosia nei confronti del biondo anglosassone: “Ma io non voglio che ce puritain prenda il mio posto!”, protestò e il detto puritano storse indispettito la bocca, invitando il gemello a scegliere per il suo bene un altro aggettivo.

“E’ l’unico modo per restare vicini, senza destare sospetti; inoltre, sarai tu Saga …”, gli ricordò l’inglese con calma, quasi stesse convincendo un p’tit gamin a prendere la medicina amara.

“Visto? Ascolta il buon vecchio Rhada!”

“Uffa e va bene! Solo per stasera, eh?”, volle mettere in chiaro Kanon, balzando giù dal letto e accingendosi a levarsi il pullover per scambiarlo con quello del gemello, che nel frattempo si stava anch’egli spogliando. “Quanto a te”, sibilò, afferrando il capo d’abbigliamento offertogli con malagrazia. “Non prenderci troppo gusto ad imitarmi, eh? Che non ti venga magari qualche strana voglia … anche se conoscendoti ne dubito …”

Alzando ineffabile il sopracciglio, Saga replicò gelido: “E tu bada a non essere troppo smielato con lui! Altrimenti, l’unica voglia che mi verrebbe, è quella di vomitarti sui tuoi jeans preferiti!” e s’infilò il maglione celeste del fratello.

“Che cos’hai sul fianco?”, chiesi all’improvviso, bloccando bruscamente la sua vestizione. Mentre Saga aveva sollevato le braccia, onde indossare l’indumento, avevo scorto sul suo fianco destro una lunga cicatrice.

Smarrito, il giovane posò lo sguardo là dove il mio indice stava puntando e un sorriso s’increspò sulle sue labbra, quando s’accorse a cosa mi stessi riferendo. “Oh, questa! E’ l’unica componente fisica che ci differenzia!”

“Comment?”, domandai perplesso.

Ridendo, Kanon si portò accanto a Saga, mostrandomene una simile per natura e lunghezza, solo sul fianco sinistro. “Perché noi nella pancia di Maman eravamo così!” e s’incastrarono come un’unica persona.

“Siamesi?”

“Boff, qualche centimetro di pelle! Niente di che, un taglietto e via!”, scrollò le spalle il minore, calandosi i jeans e cedendoli al gemello. “Oy, Sasà! Ma fai anche tu la dieta alle mie spalle? Flûte, mi fanno sembrare un gelato alla salsiccia!”, disse non appena li provò, sdraiandosi sul letto per chiudere la cerniera.

“E tu?”, ribatté Saga, mostrandogli maligno i centimetri extra che abbondavano dai suoi fianchi, “Quanto sei ingrassato? Oppure il mio nipotino è già in viaggio?”

“Nipotino?”, ripeté sornione Rhada, “Ma come! Non lo sai, che aspettiamo una tripletta?”

“Noooooo!!! Non è vero! Non sono grasso!”, piagnucolò indispettito Kanon, mentre Aiolia tentava di pettinargli la zazzera disordinata con la stessa acconciatura del fratello maggiore. “Sei tu l’anoressico!”, borbottò inforcando gli occhiali di Saga. “E la talpa! Bordel, quante diottrie mancano all’appello?”

“Parecchie, frangin, parecchie …”, rispose ambiguo il giovane, sbattendo più volte le palpebre, tentando di focalizzare bene le immagini davanti a sé.

“Ipermetropia?”, chiesi curioso, notando come Saga si tenesse quasi ad un metro di distanza per controllarsi la pettinatura davanti allo specchio. Il gemello annuì distrattamente, sbuffando irritato, quando Milo gli arruffò i capelli con un’energica zampata, sostenendo che quelli di Kanon non erano così domati.

“Et voilà! Qua abbiamo finito!”, esclamò Simba, presentandoci il gemello minore: se non fosse stata l’allure briccona dei suoi occhi, di certo l’avrei scambiato per il maggiore! Due cloni viventi!

“E noi pure!”, disse Milo, alzando le maniche del fratello, il quale le tirò giù, protestando che aveva freddo. “Sasà … Nônon d’estate o inverno tiene sempre le braccia scoperte! Non incominciare a fare storie!”

“Nônon, rimettiti gli occhiali!”

“Sasà, quel ciuffo lascialo lì dove sta!”

“Nônon, mettiti una cintura! Su con la vita!”

Oh beh, incominciavamo bene: come farli passare l’uno per l’altro, se neppure nel vestire erano d’accordo? Seigneur, che idea ci era venuta in mente, che idea super balzana ci aveva sconvolto la psiche, anzi la psiche di Milo?

“Les gars! La cena è pronta!”, arrivò all’improvviso il richiamo di Maman, chetandoci tutti in un colpo solo. “Stasera c’è la Baeckeoffe!”

“Ouiiiiiiiiii!!!!”, giubilò Kanon-Saga, correndo via entusiasta dalla camera, sbracciando in maniera non dissimile a Jack Sparrow. “J’adore la Baeckeoffeeeeeeeeeee!!!!!!! Ouiiiiiiiiii!!!!!!!!”

Silenzio.

“Sasà, dai, non te la prendere …”, lo consolò Aiolia, vedendo lo stato di puro choc nel quale Saga-Kanon era caduto. “E’ solo per stasera (si spera)! Courage grand- frère! Allons-y!” e ci dirigemmo trepidanti verso la cucina, come quando gli attori si preparano ad entrare in scena al momento dell’apertura del sipario.

Bum!

“Mon Dieu, Sasà!”, esclamammo preoccupati: neanche tre passi e già il gemello aveva sbattuto la faccia contro il muro, mancando la porta di qualche sfortunato centimetro. Quanto soffriva in realtà alla vista? “Dammi la mano, eh?”, si offrì premuroso Milo, accompagnandolo.

“Sarà davvero una lunga serata …”, sentii commentare tra sé e sé Aiolia.

Ma no, infondo sono gemelli,  se la caveranno: è una cena, non riusciranno a combinare disastri nell’arco di un’ora e qualche minuto!, pensai ottimista, entrando in cucina e prendendo il mio solito posto. Nel frattempo, mi domandavo il motivo per il quale d’un tratto Rhada si fosse coperto sconsolato il viso con la mano destra.  E Milo e Aiolia con lui.

“Saga, da quando in qua ti piace cucinare?”, chiedeva Maman sorpresa a Kanon-Saga, il quale stava in quel momento infornando il dolce gongolando simil il gatto Silvestro e causando il congelamento totale dei complici alla messinscena.

Ecco, come non detto …

Devo decisamente imparare a starmene zitto … anche con la mente!

 

 

 

To be continued …

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Record! Record! Record! 46 pagine di storia, escludendo le note iniziali e finali! Hé, la storia di Kanon e Rhada ha preso molto spazio, però era tutta l’estate che la progettavo e nulla al mondo mi avrebbe impedito di scriverla! Muahahahahaha!

Ma secondo voi, chi  tra i due è il seme e chi l’uke? Io non riesco mai a definirlo! Per questo, ho optato in un 1 ad 1 pari!

Allora, pubblicità progresso: quale nome – più cristiano - secondo voi potrebbe andare bene allo zio Cardia? Piccola sfida a voi lettori … rispondetemi anche per mail, se non ve la sentite via recensione!

Alla prossima ! Ciao !

 

Un po’ di noticine :

[1] Narra la leggenda, che San Girolamo, quando si ritirò come eremita nel deserto, tolse una spina dalla zampa di un leone, il quale, per riconoscenza, divenne il suo personale gattone, seguendolo ovunque fino al giorno della sua morte (di S. Girolamo, ovviamente).

[2] Nei pub inglesi verso le 11 pm è tradizione, che il barista suoni una campanella, annunciando l’ultimo giro di pinte di birra. Nel 2002 quest’usanza venne soppressa dall’allora Primo Ministro Tony Blair. Tuttavia, vi sono alcuni pub nostalgici, che continuano questa tradizione.

[3] Dall’aria “Là ci darem la mano” del Don Giovanni di W. A. Mozart. Quale aria più appropriata …

[4] Turandot, Atto V, finale. Emozione allo stato puro …

 

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** À la recherche du Yaoi perdu! - prima parte ***




B’jour à tous!

Mi perdonerete, se sarò parca di parole, ma il capitolo l’ho postato molto, molto, ma molto tardi … Ho innescato il pilota automatico, quindi è probabile, che non mi stia rendendo conto neanche di ciò che scrivo.

Comunque, un grazie enorme a tutti i miei lettori vecchi e nuovi! A coloro che hanno inserito questa fic tra le preferite; tra le ricordate e tra le seguite! E soprattutto grazie ai miei infaticabili recensori, che hanno davvero una bella memoria, io non so come farei dopo quasi 40 pagine di storia. Una sentito abbraccio di ringraziamento a: Tifawow ; Diana924 ; Angel_Dark_Light; Charm_ Strange; Titania76 (benvenuta!) Sagitta72 ; ArcadiaLaNotte e Eno! La gemella malvagia ed io vi vogliamo tanto bene! Kissus! Kissus!

Bien, vi lascio alla storia (mentre me la filo all’inglese …)

Godetevi la prima parte del capitolo e buona lettura,

Bisous,

 

H.

P.S. Merci à toi, Proust! T’es le meilleur !

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Nella nebbia della mia prima infanzia, una delle poche cose che la mia memoria ancora conservava gelosamente erano le mani alabastrine di Papie Dégel scivolare agili sui tasti d’avorio del pianoforte, nel salotto del suo appartamento a Rue du Vieux Marché aux Poissons, a destra della Place Gutenberg.

Puntuale come un orologio, egli a mezzogiorno apriva lo strumento, scorrendo via il morbido panno dai tasti e rispondendo con melodie ora tristi, ora allegre al carillon dell’orologio astronomico, che certamente stava suonando in quello stesso istante nella cattedrale di Notre Dame di Strasburgo, la cui unica e imponente torre campanaria era visibile dalla nostra finestra. In quell’occasione, gli zampettavo vicino, alzandomi in punta dei piedi per meglio contemplare quell’ipnotico spettacolo; allora, Papie interrompeva la catena di note, sollevandomi da terra e accomodandomi tra le due ginocchia. Poi, riprendeva a suonare. Rapito, lo ascoltavo fremente, mangiucchiando nel frattempo il mio pinguino di peluche e rannicchiandomi nella caverna naturale formata dalle braccia del nonno, i cui ritmici battiti del cuore fungevano da naturali percussioni d’accompagnamento.

Per il mio animo di bambino, quello era il Paradiso.

Eppure, le occasioni di visitarlo erano rare, anzi, rarissime e sempre caratterizzate da feroci litigi tra Maman e Mamie: non ne capivo il motivo, sapevo solo che la nonna serbava un nero rancore nei confronti del coniuge; quanto a Maman, con caparbia risolutezza insisteva nel mantenere vivi a tutti i costi i rapporti col padre.

Il lavoro fu il paciere tra questi taciti conflitti: essendo Mamie una nonna molto giovane (appena quarantunenne) e Maman di conseguenza una ragazza madre, entrambe lavoravano perlopiù a tempo pieno ed io ero troppo piccolo per essere lasciato da solo; Maman del resto non si fidava di affidarmi né alle cure di una bambinaia, né del suo compagno – mio padre. Anche lui, lo vedevo poco e mai le sue visite mi recavano piacere, poiché erano ognora accompagnate da reciproche accuse, ripicche e continui rimbrotti. Ma era sempre lui ad alzare la voce, Maman rispondeva con virile compostezza, trincerandosi dietro un glaciale silenzio e domandandogli mediante gli altezzosi fulmini dei suoi occhi dorati: “Ti vergogni dunque di noi?”, così finiva il dibattito, terribile alle miei orecchie di bambino, costretto a subire pressoché ogni giorno quel teatrino, quando invece l’unico suono, che volevo udire, era quello armonioso e rassicurante della musica.

E tra le braccia di Papie, trovai la mia piccola oasi di serenità. Peccato, che man mano che crescevo, i nostri incontri si facessero sempre più sporadici. Ciononostante, anche in quel posto esisteva un’entità, o meglio, una persona, che mi riempiva d’immotivata ansia ogniqualvolta comparisse in casa. Ed infatti, non appena percepii dei passi felpati farsi strada nella stanza, mi strinsi con maggior trasporto al petto di Papie, il quale s’interruppe di nuovo, voltandosi. Un lieve sorriso increspò le sue labbra, mentre si alzava per andare incontro al nuovo arrivato. Intanto, io ne approfittavo per scivolare sotto il pianoforte a coda.

Tre sono le cose, che intimamente spaventano l’animo dell’uomo: la vecchiaia, la malattia e la morte.  Eppure, a nessuna di queste all’uomo è dato scampare. Come disse il principe Siddharta - prima di divenire il Buddha - al padre, che lo supplicava di rimanere accanto a sé nel suo palazzo: “Padre, io non me ne andrò, se voi mi promettete, che non invecchierò, né mi ammalerò, né morirò!” e non potendo il re mantenere alcuna di queste promesse, il giovane partì. 

Ma agli occhi di un bambino, codesti concetti risultano ostici alla sua mente ancora acerba e ogni cosa, animale o persona che appaia brutta nella malattia o nella vecchiaia, è oggetto per lui sia di paura, che di schifo.

Così fu anche per me; non ne fui esente. Ben nascosto col mio pinguino sotto l’imponente strumento musicale, mi domandavo esterrefatto il motivo per il quale Papie fosse invece contento di rapportarsi con quell’uomo.

I devastanti segni della malattia erano ben visibili sul suo corpo e ancor più nel volto d’un pallore cadaverico: la pelle grigiastra era infatti tesa e opaca, risaltando le ossa del teschio ad ogni movimento facciale, soprattutto negli occasionali sorrisi da lui elargiti, nei quali mostrava una fila di candidi denti. Le scarne guance erano nascoste da quella che in tempi migliori dovette essere una magnifica capigliatura d’un biondo oro, ma che ora scendeva malsana e maltrattata in una stopposa cascata di paglia bruciata. L’uomo si appoggiò stancamente al muro, gli occhi semichiusi. Indossava un pigiama e una vestaglia; tuttavia, ben si notava quanto vi navigasse dentro. Gli ossuti artigli, che fungevano da mani, erano l’eclatante spia della sua reale magrezza.

Per me, egli personificava uno di quegli scheletri danzanti raffigurati nelle vetrate della cattedrale: una creatura ancora in piedi per miracolo. E il mio cuoricino batteva ogni volta la chamade quando Papie gli si avvicinava, temendo che lui potesse sottrarmelo da questo mondo, portandolo via seco. Invece, quegli occhi grandi e leggermente a mandorla s’illuminavano di febbrile vivacità, nonostante per pochi secondi, quasi anche quel benvenuto gli costasse una notevole fatica, sottolineata dalle scure e profonde occhiaia.

Tale scena si ripeteva spesso: a mezzogiorno, Papie suonava e dopo un’oretta, la creatura sfiorita precocemente faceva il suo ingresso in salotto. Allora, Papie le veniva incontro, l’abbracciava, schioccandole lievi baci sulla fronte. Poi, l’aiutava a sedersi, con la stessa cura di un marito con la moglie gravida, sistemandogli il cuscino sotto la schiena e mormorandogli inintelligibili parole, o meglio rassicurazioni, ché Papie aveva il suo bel daffare, acciocché il malato cessasse di scuotere tristemente il capo. Una volta appurato, che lui si fosse in qualche modo tranquillizzato, Papie si recava in cucina, onde preparare il pranzo, lasciandomi solo con l’uomo, il quale, dopo un paio di minuti, nascondeva il volto tra le ossute dita, piangendo in silenzio.

 

***

 

Mi svegliai di soprassalto, processo facilitato dalle timide note di un violino. Involontariamente, cercai a tastoni il corpo di Milo, il quale ben mi ricordavo si fosse addormentato ieri sera con me. Fui sorpreso di trovare il suo posto vuoto, costringendomi così a girarmi sul fianco, strizzando gli occhi gonfi di sonno verso la fonte del suono. E dovetti essere davvero scombussolato dal repentino risveglio, se sorrisi alla vista del mio fratellastro seduto in maglietta e calzoncini da notte, le gambe distese mollemente sulla scrivania. In quel momento, si stava esercitando  con dei piccoli brani preparatori e scale, tra cui il pizzicato, che, dopo averne eseguiti quattro, al quinto levò di scatto l’indice destro dallo strumento quasi se lo fosse scottato, soffiandovi sopra con un’espressione scocciata dipinta sul volto.

“Maledette vesciche”, imprecò infastidito, rivoluzionando l’ordine della  mia scrivania, onde trovare la scatola dei cerotti. Malgrado i lunghi anni di studio di violino, la pelle dei suoi polpastrelli ancora non si era del tutto indurita dai calli; figurarsi poi riprendere, dopo aver smesso per un bel pezzo, quanto l’epidermide fosse entusiasta all’idea di risottoporsi a quella tortura!

Osservando che la ricerca del ragazzo si stava rivelando inutile, decisi di correre in suo soccorso, prelevando dal mio comodino il piccolo kit di prima emergenza. (Non si sapeva mai …) Scivolai quindi dal letto – ormai troppo freddo per i miei gusti -  e mi avvicinai a lui, posandogli piano la mano sulla spalla, onde non spaventarlo, facendogli di conseguenza perdere la sua presa dal violino.

“Ah, b’jour, Ionesco!”, mi salutò gioviale Milo, voltandosi prima ancora che avvenisse il contatto. “T’as bien dormi?”, s’informò, appoggiando il prezioso strumento nella sua custodia con estrema cura.

“Presque”, risposi piatto, catturandogli le mani martoriate da vesciche e cerotti, la sinistra soprattutto. “Avrei dormito di più, se uno stridulo rantolo di gallina morente non mi avesse turbato il sonno!”, aggiunsi dispettoso, mentre disinfettavo le piccole piaghe, coprendole poi con della polvere cicatrizzante e i cerotti nuovi. Milo non si scompose dinanzi la mia frecciatina, sorridendomi al contrario sornione e replicando indulgente:

“Hé, Ionesco! Cosa vuoi saperne tu, che da pianista l’unica menomazione fisica che subisci è il taglio delle unghie?”

Pigliai un pasciuto biscotto dal piattino sul tavolo, dandogli un veloce morsetto.“Boff! Un paio di vesciche la chiami menomazione fisica?”, replicai senza scompormi, addentandone subito un pezzo più grosso. Rapido, Milo morse la parte opposta scoperta dalle mie dita, avvicinando così i nostri visi per un fuggevole attimo. Riprendendomi dalla sorpresa, scostai con un piccolo buffetto di rimprovero la sfrontata faccia, mentre il biondo sogghignava, masticando compiaciuto il suo croccante trofeo.

“Vuoi sapere quanta pelle ho perso tra una bolla e l’altra?”, rise poi ancora più forte  e senza vergogna il ragazzo, afferrandomi per il braccio e costringendomi a cadere sulle sue ginocchia. D’istinto, mi accoccolai più vicino a lui, raggomitolandomi nel piacevole tepore da lui emanato, continuando a sgranocchiare il mio dolce.

“Frignone”, borbottai, sistemandomi meglio sulla mia sedia di fortuna, la quale mi passò il braccio attorno alla vita, appoggiando con un sonoro sbadiglio la testa sull’incavo della mia spalla. “Gli altri sono già in piedi?”, domandai, fissando accigliato l’ora dalla sveglia elettronica: le nove e un quarto.

“Direi, Ionesco!”

“Saga zoppica ancora?”, mi ricordai all’improvviso, memore della serata passata in bagno a tamponargli del ghiaccio sul ginocchio, che pareva il doppio dell’altro, tanto era gonfio.

“Temo che dovremmo dargli l’invalidità …”

Sospirai, giocherellando distrattamente con le ciocche bionde del mio fratellastro; ero infatti ancora indeciso, se giudicare la cena della sera precedente l’apoteosi del vaudeville …

 

 

***

 

Venerdì sera, ora di cena.

Il piccolo incidente – Saga che mostrava una qualche forma di vago interesse verso le nobili arti culinarie -  fu risolta dall’abile escamotage del di lui gemello e interprete, avanzando come scusa il suo desiderio di rimediare alla vergognosa mancanza di poco fa, ergo spaccare un piatto. Dopodiché, si sedette convenientemente accanto a Rhada, preparandosi ad un certosino silenzio per tutta la cena.

In altre parole, Mission Impossible V.

E sempre trincerandoci dietro la stanchezza del viaggio, persuademmo Maman a lasciare che Saga-Kanon si sedesse a tavola davanti al fratello, il suo fidanzato e Aiolia, mentre noi lo imitammo poco dopo, Milo ed io accomodati alla sinistra del fratello maggiore. Fortunatamente, Mamie rifece la sua comparsa dalla sua passeggiata con Fred, prodigandosi subito a soccorrere Maman con la Baeckeoffe e il dolce, malgrado il modo in cui piegasse le labbra non mi suggerì alcuna buona impressione circa il suo stato d’animo. La novità, poi, che lei avesse concesso alla figlia di preparare un piatto alsaziano (il mio Papie era dell’Alsazia) senza fare una piega, mi aveva insospettito. Infatti, quando Mamie cucinava pietanze alsaziane voleva dire ch’era di umore molto, molto, ma molto nero.

“Voilà!”, esclamò la nonna, estraendo la pentola di coccio dal forno come un prestigiatore. “Più fluida del mio nipote acquisito!”, gongolò sorniona, rivolgendo un’occhiatina di sfida a Saga-Kanon, che invece ricambiò con uno sguardo ebete, di chi non sapeva manco la natura dell’argomento discusso. Imbronciata, Mamie portò la pietanza a tavola, sedendosi accanto a M. Christophe. “Qua!”, esclamò all’improvviso, facendoci sobbalzare tutti. Ci guardammo disorientati, domandandoci chi fosse l’infelice cui si stesse riferendo. E sfortuna volle, che l’interessato in questione fosse proprio Rhada, che inquisì con perplessa cortesia:

“Moi, Madame?”

“Oui, toi! A casa nostra l’ospite si siede sempre a capotavola!”, disse e indicò imperiosa il posto alla sua sinistra, vicino a lei. “Vieni, mon enfant, accomodati qui accanto a nonnina!”

“No!”, gridò allarmato Kanon-Saga, ergendosi a barriera umana del suo meco e allargando le mani a mo’ di scudo. “Va bene così, non fissiamoci su certe antiquate tradizioni!”

“Osi dunque contestare le regole vigenti in questa casa?”, volle sapere Mamie, allungando tutte le vocali. Ignorava, che Kanon per propria natura non conoscesse appieno il significato della parola regola, ma al momento era meglio posticipare quella questione per un’altra volta. “Tu, proprio tu, capellone quattr’occhi alla Lady Oscar?” e a Saga, quello vero, cascò per un breve istante la mandibola, intanto che Milo gli accarezzava a mo’ di sostegno il braccio, coprendo la risatina a fatica repressa con l’altra mano. E con mia sorpresa vidi anche gli altri suoi fratelli sogghignare dietro il tovagliolo.

Che banda di filistei!

“Mais non!”, la rassicurò Kanon-Saga, regalandole la sua espressione più innocente (o almeno quella che si avvicinasse di più al concetto di innocenza) “E’ solo che vorremmo stare qui, tutti assieme tra ragazzi; altrimenti, sai come si annoierebbe Rhada tra dei matusaAAAAHHHHIAAA!!”, mugolò, portandosi celere la mano sul fianco colpito appena in tempo da una poderosa gomitata da parte di Aiolia, costringendolo a tacere sulla parola tabù: Maman e M. Christophe di sicuro non se la sarebbero presa, ma Mamie …

“C’est bien, c’est bien, fate pure come volete e mangiatevi ‘sto schifo!”, brontolò la nonna, sedendosi e infilzando rancorosa un pezzo di bollito. Seppur poco convinti dall’ultimo commento (Maman men che meno) ci servimmo ciascuno di Baeckeoffe, anche se io mi limitai solo alla verdura.

“Non hai fame?”, mi chiese preoccupato Milo, il cui piatto era il doppio del mio e, dalla posizione della sua forchetta, egli pareva più che disponibile a condividere con me il suo bottino. Scossi il capo con vivacità, ringraziandolo per la sua premura e rassicurandolo allo stesso tempo:

“Oh non merci, ça va!”, esclamai, facendogli cenno coll’indice di avvicinarsi di più a me e di porgermi il suo orecchio. Poi, gli confessai sottovoce: “Sai, ho scoperto di recente una grande verità sul mio conto!”

“Davvero?”, fece Milo, il volto d’un tratto illuminato da una singolare speranza. Accidenti, che entusiasmo!

“Oui, qualcosa che non credevo potesse mai capitarmi e invece, le voilà! Pensavo di comunicartelo per primo, insomma, per il Trattato delle Pari Confidenze e bla, bla …”

Il ragazzo annuì con energia. “Fai bene, fai bene! Ne sono contento!” e il suo sorrisone si allargava ogni secondo sempre di più.

“Oh merci! Sapevo, che tu mi avresti capito! Allora, Milo io … ecco … hé … è un po’ complicato da dire …”

“Prenditi tutto il tempo che vuoi!”, si offrì il  mio fratellastro magnanimamente, malgrado il luccichio dei suoi occhi tradisse quanto fremesse per apprenderlo e come il suo grottesco ghigno avesse quasi raggiunto le sue orecchie, tanto era largo.

“Oh, ecco … io … credo di … credo di essere …”

“Ouiiiiiiii??????”, m’incoraggiò, sbilanciandosi così tanto su di me, ché a momenti appoggiava il suo gomito nel mio piatto.

Rassicurato dalla sua disponibilità, mi decisi e gli sussurrai all’orecchio tutto contento: “… vegetariano!”

Silenzio, seguito da una pericolosa frana di mandibola. Vidi la faccia di Milo afflosciarsi come un fiore appassito, per poi ripiegare in una di quelle smorfie burlesche o inquietanti delle varie Bocche della Verità. Il ragazzo sbatté più volte le palpebre stralunato, quasi la mia dichiarazione fosse equivalsa ad un potente manrovescio a tradimento. Che l’essere vegetariano l’avesse a tal punto sconvolto?

“Ma porc - …”, digrignò i denti, all’improvviso prendendo di malagrazia il suo piatto e mettendosi in piedi rumorosamente, attirando di conseguenza l’attenzione generale. “Cosa ci sto a perdere tempo con te?”, continuava a borbottare scocciato, recandosi al posto di Aiolia, cui intimò secco e perentorio: “Tu, gattaccio, muovi les fesses e va’ a sederti accanto a Ionesco!”

“Pourquoi moi?”, s’informò non proprio entusiasta il lionceau, di suo già di cattivo umore per la menomazione fisica alla mano destra, quindi impossibilitato a tagliarsi decentemente la carne. Strano, poiché pensavo fosse ambidestro … forse era solo per fare un po’ di scena …

“Vuoi che ci vada Sasà?”, replicò dolcemente velenoso il fratello, pigliandolo in una dolorosa morsa il suo coppino, costringendolo a lanciare un miagolio di protesta.

“D’accord, d’accord, j’y vais … mince …”, borbottò Aiolia, apprestandosi ad arditi equilibrismi col suo piatto che appoggiò malamente accanto al mio, sbrodolando un po’ di pietanza sul tavolo. “E tu che hai da guardare? Mai visto un piede di maiale sul tavolo?!”, mi sibilò astioso. “E non dire niente, ché quando parli scateni un casino dietro l’altro! Espèce de pingouin en sauce agro-douce!”, mi apostrofò severamente, puntandomi contro la forchetta con la mano sinistra. “Tu scocci Milou, lui se la prende con me ed io con mi sfogo, eh? Con te? Ceeeerto, giacché sei la pinguinesca fonte del male! Visto, che triangolo vizioso abbiamo creato? Neanche Rosamund Pilcher se ne inventa una così: pinguino-scorpione-leone! È da Harmony zoologico!”

Di tutto quello svarione mentale, capii solo una cosa – sbagliata- e ci tenni a correggere il mio fratellastro: “Casomai si dice Circolo vizioso!”

“Casomai non stessi zitto …” e mi sussurrò una brutta minaccia, che però venne udita anche da Saga-Kanon, il quale lo vedevo combattuto se venire o meno in mio soccorso: se avesse ripreso Aiolia, gli adulti, suo padre in particolare, si sarebbero insospettiti, poiché era fatto risaputo, che Kanon adorava infastidire il suo prossimo con scherzi di dubbia natura; se non l’avesse invece rimproverato, lui sarebbe certamente passato per il suo gemello, lasciandomi però in balia dei suoi schizzati fratelli e andando così contro la sua personale missione di buon samaritano.

Già brutto dubbio amletico: Lo salvo o non lo salvo? Questo è il problema!

Siccome, tuttavia, Saga col tempo aveva raffinato il suo ingegno di domatore, rapido e invisibile come la morte colpì con un doloroso pizzicotto il fratellino al fianco, sotto il tavolo. Peccato, che non avesse calcolato il balzo acrobatico di Aiolia, il quale mi elargì una gomitata proprio nel momento in cui avevo appena afferrato la terrina ricolma di purè bollente, versandomene una cospicua porzione sulla coscia destra.

Vidi tutta la costellazione dell’Acquario nel suo insieme, serrando con la forza della disperazione le labbra, cercando di non gorgheggiare come Farinelli. E a proposito di lui, hò, ancora qualche centimetro e il purè colpiva un obiettivo più sensibile … e importante …

“Muahahaha!”, sentii una risata estremamente divertita. Mi girai verso Milo o Aiolia, notando accigliato i loro sguardi scioccati fissare apprensivi Kanon-Saga, il quale aveva portato entrambe le mani alla bocca, un’espressione plus-que-coupable sul volto. Quanto all’altro gemello, era così livido in volto, che temetti sul serio per la vita del giovane.

“Saga?”, inquisì lentamente M. Christophe, alzando sospettoso il sopracciglio. “Ti senti bene?”

Riprendendosi in fretta, lo sfacciato replicò con nonchalance: “Moui, Papinou! Non si vede?” e chissà come mai, la faccia del padre urlava Non credo proprio. “Rhada mi ha appena raccontato una divertentissima barzelletta, vero Rhada? Eh Rhada? Su con la vita, Rhada!”, giubilò il gemello minore contento, battendo una violenta zampata sulla schiena del meco, facendogli scivolare di mano la coscia di pollo, la quale stranamente colpì Saga-Kanon in pieno petto.

“Whoops! Pardon, Kanon …”, si scusò l’inglese, sinceramente contrito. Il gemello maggiore rimase interdetto per qualche istante, per poi sciogliersi in un inquietante sorriso, giustificando a ragione il lieve brivido freddo che attraversò la schiena della Vouivre. Infatti, afferrando la coscia di pollo con la stessa espressione di uno che stava tirando su un calzino sporco, Saga-Kanon lo cedette con un aggraziato lancio a Rhada, contro il cui viso, guarda caso, atterrò.

“Kanon!”, lo richiamò subito M. Christophe, sventolandogli la forchetta in modo minaccioso, sebbene lui per primo fosse rimasto sorpreso da quel gesto: insomma, non erano fidanzati quei due? Perché dunque quella malagrazia? Che fosse un’usanza anglosassone per esternare il reciproco affetto tra amorosi? “Cos’era quella villania? Chiedi immediatamente scusa!”

“No, dai non importa … Succede tutte le volte …”, tentò Rhada di calmare le acque, intanto che si ripuliva il viso imbrattato dall’unto del pollo.

Sbattendo innocentino le palpebre, il maggiore sotto copertura accettò, cospargendosi il capo di ceneri. “Scusami Rhada, che vuoi farci, sono nato cretino … abbi pazienza …”

“Cosa?”, fu l’acuta protesta di un Kanon-Saga scarlatto in volto e pronto a dare feroce battaglia. “Toi, sacré animal frigide! Comment oses –tu …” e il brusco movimento di anche indicò il possente calcione diretto all’impertinente gemello.

“AHUA!”, fu il conseguente urlo, che stranamente non fu lanciato da Saga-Kanon, bensì da …

“Milou?”, domandò perplesso Kanon-Saga, chinandosi. “Ma che diavolo stai combinando lì sotto?”

“Hé, davo noia ai piccioni, guarda un po’!”, fu la piccata risposta del gemente ragazzo.

“Sotto il tavolo?”

Spuntando fuori simile allo scorpione dalla sabbia infuocata del Giardino di Allah, (ergo il Sahara), Milo replicò serafico: “Qualcosa in contrario? Proprio tu, che sei un esperto?” e l’occhiata strabordante di malizia m’insospettì, circa le possibili attività del gemello minore sotto i tavoli. E di fatti, le gote rosse, Kanon-Saga inquisì con altezzosa freddezza:

“Che vorresti dire con ciò?”

Il di lui fratello nicchiò soavemente, abbassando colpevole (per finta) lo sguardo come una novizia rimproverata dalla madre superiora. “Uh … niente, niente frangin … non m’azzarderei mai ad insinuare nefandezze sul tuo conto …”, mormorò contrito, chiamando all’appello pure un delicato rossore di falsa vergogna sulle guance imberbi. Emise poi un donzellesco urletto, quando Kanon-Saga lo prodigò di un piccolo, ma malefico, buffetto al viso.

“Flûte, che dolore … povere le mie fesses … tu n’es pas allé de main morte, hein? (non ci sei andato leggero, ndr)”, lo sentii mormorare tra sé e sé, la mano corsa a tastare gli eventuali danni al posteriore, i quali dovettero essere notevoli, a giudicare dalla smorfia del ragazzo, quando sfiorò il livido dolente.

“Piuttosto, da quanto tempo eri lì?”, volle sapere Saga-Kanon, deviando la conversazione da ogni doppio senso cochon. E di salvare anche la sua reputazione agli occhi del padre, il quale in quell’esatto momento si stava chiedendo se il suo primogenito maschio non si fosse dato ultimamente alle joies de la cannabis in Germania al posto di studiare.

“E che hai fatto?”, gli diede manforte Aiolia, arcuando ambiguo il sopracciglio.

“Mi è caduto il cucchiaio!”, si difese stizzito Milo, alzando la posata colpevole come prova del suo alibi.

“E tu mangi il bollito col cucchiaio?”, feci scettico, finendo proprio in quell’istante di pulirmi il jeans dalla patatosa poltiglia.

“Hé, Ionesco, sapessi quante cose si possono fare con un cucchiaio …”, ribatté lo scorpion, rigirando la posata tra le agili dita in maniera molto equivoca. Non volendo indagare oltre sui vari utilizzi del cucchiaio, mi trincerai dietro il mio sicuro silenzio, riempiendomi diplomaticamente la bocca di carote bollite al prezzemolo e aglio.

Forse Aiolia non aveva tutti i torti, quando affermava che una mia parola o gesto fosse la miccia dell’esplosione, ché appena appoggiai la terrina dell’ortaggio, subito essa venne sequestrata da Kanon-Saga, il quale la offrì al gemello, domandandogli con ipocrita gentilezza: “Vuoi una carota, Nônon chéri? Ho sentito che è la tua passione …”, insinuò maligno, provocando un feroce porpora sulle guance di solito pallide del fratello maggiore, che mugghiò con tono quasi da basso:

“A me piace la patata …” e Aiolia dovette soffocare a forza un portentoso riso, portandosi alla bocca il primo oggetto reperibile, ergo il bicchiere ricolmo d’acqua. Embé? Che cosa c’era di male a preferire la patata alla carota? Era questione di gusti! Un momento …

Sogghignando anch’egli, Milo indicò tranquillamente il suo ortaggio preferito, che fu … “Io, invece, adoro il finocchio! Al latte, poi … una vera delicatessen!” e non mi piacque il fatto, che guardò proprio il sottoscritto, quando lo disse.

“Nah, meglio l’oca!”, contestò Aiolia, scuotendo il capo con vivacità. “Semplicemente impazzisco per il petto … e la coscia …”, aggiunse sornione, strizzandomi complice l’occhio.

“Rhada?”, inquisì attento Kanon-Saga, aggrottando la fronte in modo poco rassicurante.

Sospirando, l’inglese roteò gli occhi, compiacendo il suo paranoico e geloso fidanzato: “La banana …”, rispose docilmente e il suo meco grugnì soddisfatto, lasciando M. Christophe – che lo teneva di continuo sottocchio dopo l’oscena risata – ancora più confuso. E sospettoso.

Credete, che scampai al perverso ping pong? No, e di fatti Rhada mi chiese: “E a te Camus, che cosa piace?”

Percepii tutti gli occhi dei miei fratellastri puntatimi contro con impudica insistenza. Panicai, notando la crescente vena di nervosismo montare in piccoli tic, specie Milo, che pareva aver smesso di respirare pur di ben udire la mia replica.

Seigneur, e adesso che rispondevo?

Che rispondevo?

Che rispondevooooooooo?

Va bene, innescai il mind control hanno parlato di verdura, di frutta e di volatili. Optiamo per qualcosa che non rientri in nessuna di queste categorie, così non desto sospetti e li frego. “Ehm … il pesce?”, dissi timidamente, sperando di averla azzeccata giusta. E fu così – almeno in apparenza – giacché vidi i volti dei miei fratellastri distendersi di sollievo e quello dello scorpion addirittura sciogliersi in un timido sorriso.

“Dai Milou!”, gli sussurrò Kanon-Saga all’orecchio, battendogli partecipe la mano sulla spalla. “C’è ancora speranza!”

Che avevo detto di così incoraggiante?

“Merci …”, fece quegli commosso, soffiandosi il naso – se per davvero o per finta non saprei. Invece, mi preoccupai per la piccola constatazione che Maman riportò a M. Christophe sottovoce:

“Ma stanno parlando di sesso o di mangiare?”

“Non porti domande pericolose, chérie …”, scosse avvilito il capo il suo futuro marito, il quale lanciò una rapida occhiata a Mamie, sorprendendosi di trovarla così tranquilla e rilassata. “Sta bene tua madre?”, le domandò, indicandola con il capo “La vedo un po’ troppo … docile …”, disse, scegliendo accuratamente la parola, visto che Mamie sarebbe stata la malefica entità – altresì nota con il nome di suocera – che, una volta attraversata la fatidica porta dell’imeneo, si sarebbe trovato tra le scatole vita natural durante e costretto ad aver sempre torto nei suoi confronti, giacché era appunto la madre della consorte. 

“E’ a posto …”, rispose Maman, seppure lei per prima non sembrasse tanto convinta. “Sai Christophe, in questo periodo lei non è di umore molto accomodante: dopodomani sarà l’anniversario della …” e la sua attenzione fu deviata dalla proposta indecente del suo figliastro più piccolo:

“Rhada, qual è il tuo nome per intero?”

“Rhadamanthys”, rispose il giovane, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Tuttavia, notai il cupo rossore delle sue orecchie, spia che non era quella la vera risposta alla domanda di Aiolia, il quale infatti chiarì il malinteso:

“No, no! Il tuo nome per esteso! Il tuo primo e secondo nome!”

“Ehm … preferirei evitare”, nicchiò a disagio Rhada, martoriando nel frattempo la sua patata al forno.

“Eddai, non sarà mica Tony?”

“No, però non è niente d’importante!”

“Mon oeil!”, ribatté Kanon-Saga, infiammandosi. “Tu non me l’hai mai detto!”, l’accusò col sottotesto Ma a Pandora sicuramente sì!

“Che motivo avrei avuto per farlo?”, replicò secco l’inglese, ricordando però con una severa occhiata al fidanzato, che lui ora era l’altro gemello e non se stesso, ergo di porre attenzione ad ogni sua parola. Ma più che la ragione fu la gelosia, e di fatti, Kanon-Saga sbottò irato:

“Come? Come? Mince, perché sono …”

“ … un fratellone spacchipalli!”, intervenne appena in tempo Saga-Kanon con sommo sollievo generale dei complici alla messinscena. “Enfin, Sasà! Cosa te ne importa? A me l’ha rivelato!”

“A te sì e a me no?”, boccheggiò il gemello minore, bevendo appieno la panzana del fratello, che, notando quanto di legno fosse la testa del suo doppio, tentò di farlo rinsavire: “Beh, mi pare ovvio, siamo amici! Eppoi, se vuoi saperlo, dovresti prima avere la bontà di comunicargli il tuo secondo nome!”

“D’accord!”, sospirò Kanon-Saga, sistemandosi meglio sulla sedia. “Il mio nome per intero è Saga Cosmas Valavitis. Quello del mio detestabile gemello è Kanon Damian Valavitis!”

“Maman li ha appellati come i santi gemelli Cosma e Damiano!”, mi spiegò prontamente Aiolia sottovoce, decidendo poi di rivelare tutto orgoglioso anche il suo:

“Il mio è Aiolia Alexios Valavitis! Digli il tuo, Milou!”, incoraggiò lo scorpion, che neppure lui mi sembrava molto entusiasta all’idea.

“Il mio fa schifo: Milo Theodoros!”, sentenziò imbronciato il ragazzo, appoggiando il mento sul palmo della mano e continuando a pasticciare con la mostarda di Dijon.

“Mais non! È il nome – vero – del tuo prozio e padrino!”, protestò suo padre con vivacità. Forse fu per omaggiare la generosità di suo zio, se affibbiò quell’appellativo al terzogenito dei suoi maschi? Oh, quindi il famoso zio Cardia si chiamava in realtà Theodoros!

“Fa schifo comunque …”

“Oulà, che coincidenza!”, esclamai, ricordandomi all’improvviso di un piccolo particolare associato al secondo nome di Milo. “Il giorno in cui sono nato – il 7 febbraio - è San Teodoro!”

Come riscuotendosi da un repentino colpo di sonno, lo scorpion cambiò idea e umore alla velocità della luce: “T’as raison, Papa: infondo, Theodoros non è un nome poi così brutto …” e, guardandomi attentamente, mi domandò semiserio: “E il tuo? Immagino non sia Albert, spero? Altrimenti saresti sul serio una barzelletta vivente!”

Arcuai indispettito il sopracciglio. “Mamie non è arrivata a tanta follia!” E sì, perché la prova lampante del suo stato di mente gravemente alterato giaceva nel mio nominativo: Camus! Eddai, che cosa aveva bevuto il giorno in cui nacqui? Non poteva al contrario appellarmi Albert? Sempre dello stesso scrittore si parlava!

“Oh”, fece sorpreso Aiolia “Te l’ha scelto Grand-mère?”

“Ouais, come quello di battesimo, del resto …”, affermai sconsolato, infilzando varie foglie d’insalata con qualche pomodoro in mezzo.

Accarezzandomi la schiena, Simba mi elargì un sorriso di sincera comprensione. “Dai, poteva andarti peggio: poteva chiamarti Chateaubriand!”, mi consolò, buttandola sul ridere.

“O Sartre!”

“O Baudelaire!”

“O Stendhal!”

“O Rousseau! No, Voltaire!”

“Oppure Verlaine!”

“No, Rimbaud! Mince, è più figo!”

“Macché, meglio Flaubert!”

“Vuoi mettere con Apollinaire?”

“Maupassant! Maupassant!”

“Nah, Zola! E t poi ti chiamavamo Zaza!”

“… Napoli!”, fu la stilettata finale da parte di Kanon-Saga, citando il nome della famosa Drag Queen del film “La Cage aux Folles”, con Ugo Tognazzi e Michel Serrault (alle masse italiane il film fu presentato con il nome “Il Vizietto” ndr.) Beh, considerando ora le varie opzioni generosamente offertemi dai miei  fratellastri, in effetti fui costretto ad ammettere, che non mi fosse andata poi così male, certi cognomi-nomi davvero mi avrebbero rovinato l’esistenza. Infondo Camus non sfigurava, era abbastanza portabile.

“Dai, rivelaci il tuo secondo nome, non fare il misterioso!”, insistettero i miei fratellastri, curiosi come un’intera gatteria di una banlieue.

E va bene, compiamo la nostra buona azione quotidiana!

“E’ Eugène”, dichiarai con l’entusiasmo di un morto in coma. “Camus Eugène Molinier. E SMETTILA DI RIDERE, MILO, NON E’ DIVERTENTE!”, ruggii, incapace di sostenere la vista dello scorpion lubrique piegato in due dalle risate, il volto scarlatto e le lacrime agli occhi.

“Eugène Ionesco! Eugène Ionesco!”, ripeteva in un mantra tra un singhiozzo e l’altro, battendo il palmo della mano sul tavolo come un demente. “E io manco lo sapevo! Muahahaha! Eugène! E battezzato Camus!”

“Sì, faccio Eugène di secondo nome, e allora?”, replicai con un’indecorosa vocetta acuta, incrociando indignato le braccia. Milo si contentò di ridere ancora più forte, alzandosi perfino da tavola per qualche attimo, onde correre al bagno e risciacquarsi il viso umido di lacrime.

“Piuttosto”, riprese il discorso Saga-Kanon, mentre il sottoscritto era intento a flagellare col tovagliolo Aiolia, anch’egli di umore molto festaiolo, dopo la rivelazione del mio secondo nome e la sua associazione al nickname donatomi dal fratello.  “Ora che tutti abbiamo rivelato il nostro nome per esteso, puoi dirci il tuo Rhada, per favore?”

“Hai detto per favore, Kanon?”

“Hé, Papa, dovevo pure incominciare a dirlo un giorno, no?”, replicò sornione il gemello maggiore, guadagnandosi uno stizzito grugnito da parte del vero Kanon.

Dopo un lungo sospiro, Rhada esaudì la comune richiesta. Ne andava la pace dell’intera tavolata. “Ebbene: Alexander Rhadamanthys Edward Miles de Wyvern-Hargreaves. Ma chiamatemi pure Rhada …”

O Ismaele … [1]

Silenzio di tomba, nessun sopravvissuto alla granata.

“Mi sono perso …”, confessò dispiaciuto Aiolia ed io mi unii a lui nella sua confusione. Come gli altri due miei fratellastri, se era per quello.

“Cioè tu … tu avevi questa catena di Sant’Antonio per …”, articolò a fatica Kanon-Saga sull’orlo di una crisi epilettica. “Non ti preoccupare! Sarai sempre Rhada nei nostri cuori!”, dichiarò infine, martoriandosi il petto con possenti zampate là dove batteva il suo cuore.

“Giusto!”, convenne Saga-Kanon, portando a tavola la caraffa riempita con nuova acqua e versandone nel bicchiere del gemello, che la finì in un sol fiato, reclamandone un secondo giro.

Una volta dunque terminati i nostri diverbi su gusti culinari, secondi nomi e strani comportamenti a tavola, parve che una certa tranquillità si fosse finalmente instaurata nella nostra mensa; infatti, tra Mamie che fissava come assente il piatto davanti a sé e il finto Saga, che sembrava aver preso molto gusto ad ingurgitare acqua su acqua,  la cena poteva veleggiare abbastanza serena verso il dolce.

Sennonché …

“Saga”, domandò ad un certo punto M. Christophe al gemello sbagliato “Va tutto bene all’università? Ultimamente sei stato quello a chiamarmi di meno …”

Kanon- Saga si voltò verso il padre, sorridendo ebete. O almeno quella era la smorfia disegnata sulle labbra d’un colpo cremisi, come pure le gote e gli occhi dalle iridi dilatate e luccicanti. Dondolò un poco il capo, come se gli pesasse, socchiudendo le palpebre e parlando in modo tale, che sembrava aver dimenticato d’un colpo la lingua francese. “Oh que oui, trèès bien, trèèès bien!”, sbiascicò, allungando tutte le vocali. “Lo sai che mi castrerei pur di farti contento, Papinou!”, confessò con sincero trasporto.

“Non lo metto in dubbio, Saga …”

“Comunque”, riprese il gemello con un vago gesto della mano, che per poco non accecò Milo di un occhio. “Non mi lamento, alles in Ordnung, non preoccuparti! Oddio, se quell’Aiolos la smettesse di molestarmi sessualmente …”

“Cosa?”, inquisì il gemello maggiore, lasciando cadere in un fastidioso tintinnio il cucchiaino sul piatto di ceramica. 

“Chi è Aiolos?”, fece Maman perplessa e allo stesso tempo curiosa, esaudendo così il recondito desiderio del falso Saga di calunniare alla sua maniera il poveraccio teutonico.

“E’uno sporco depravato!”, esclamò deliziato a voce alta, battendo il pugno sul tavolo “Un lurido viscido verme; uno stronzo maniaco; un puttaniere senza creanza, pronto a violentare persino sua nonna! È la feccia più schifosa dell’università! Basta guardarlo negli occhi per vedergli la cattiveria dipinta in volto!”

“Non è vero!”, protestò Saga-Kanon, le gote scarlatte. Un momento! Ma i due non si sopportavano? Perché ora difendeva Aiolos? “Non … non lo frequenti abbastanza da poter affermare simili … ehm … sciocchezze sul suo conto!”

Il vero Kanon gli mostrò una dispettosa linguaccia. “Uhm? E tu che vuoi saperne? Fatti gli affaracci tuoi! Oppure sotto, sotto speri che lui ti metta le mani sulle fesses? Uh? Pensate”, continuò rivolto a noi, ignorando le tacite minacce di morte del gemello per sgozzamento “che una volta ha tentato di spulzellarmi nelle toilette di una cioccolateria! Avete compreso? In una toilette! Di una cioccolateria! Che pessimo gusto! Vi rendente quindi conto che razza di burino sia?”, fu la sua dichiarazione choc. Vidi tutti i maschi presenti a tavola coprirsi il volto disperati, Maman trasalire per la sorpresa e Mamie continuare a scrutare inebetita il suo bollito ancora non toccato dall’azione devastatrice della sua forchetta.

“Ce n’est pas vrai!!!”

“Insomma, mi ha trascinato lì con la forza …”

“Sale menteur!!!”

“ … mi ha abbassato i pantaloni …”

“T’es fou ou quoi?!?”

“ … ma quando era sul punto di costringermi a fargli un blow-job, io gli ho dato un pugno ben assestato prima sullo stomaco e poi sui zizì …”

“Toi, sale chien … io ti … giuro che …”

“… salvando così la mia verginità!”, concluse Kanon-Saga il suo terrifico racconto, lottando poi accanitamente contro Rhada, che nel frattempo gli aveva sottratto il bicchiere, al quale il suo meco si era aggrappato con estrema violenza. Annusandolo accigliato, l’inglese sbiancò d’un colpo, lanciandoci un’occhiata allarmata, che tradotta significava: Non è acqua, questa! È grappa! Bisogna fermare Saga prima che lo massacri di botte!

Trop tard …

“IO TI ROVINO, BRUTTO COGLIONE!”, ruggì Saga-Kanon, alzandosi bruscamente dalla sedia e pronto a reclamare lo scalpo del fratello inebetito dai fumi dell’alcool. Tuttavia, come ultimo gesto estremo onde evitare un gemellicidio, Aiolia gli elargì a tradimento un malefico sgambetto, facendolo planare prima col ginocchio, poi con tutto il resto sul pavimento, prono. Ovviamente, non senza essersi assicurato che il vero Saga si portasse seco - e più nello specifico addosso -  il resto della Baeckeoffe, tra le risate sguaiate del suo ubriaco doppio.

“Pirla! Pirla! Pirla!”, cantilenava incessante Kanon-Saga, trascinato via da Milo in bagno, mentre Aiolia si occupava dell’altro gemello, lasciando il resto della compagnia traumatizzata in cucina.

“Mon fils a perdu sa boule !” (la testa, ndr.) , piangeva a momenti M. Christophe, imbarazzato oltre ogni dire per la figuraccia esibita con tanta nonchalance da colui che credeva un suo alleato, per il controllo delle bestie antropomorfe, ritrovatesi come figli.

“Sarà la stanchezza del viaggio … lo stress degli esami …”, cercai di consolarlo, dispiacendomi per lui.

“Vero! Eppoi, temo che abbia un po’ bevuto stasera … sono cose che capitano …”, lo rassicurò con sincerità Rhada, aiutando Maman a ripulire il macello combinato da Saga. Hé, trattandosi di Kanon, evidentemente il giovane anglosassone parlava tramite una dolorosa esperienza personale.

“Mamie?”, domandavo intanto alla nonna, preoccupato di quanto rigida, composta e silenziosa se ne fosse stata durante tutta la scenata di poco prima, per non dire il resto della cena. Non si poteva certo dire, che i due gemelli si fossero comportati come il loro solito ed era strano che l’animo ognora sospettoso della nonna non si fosse mai attivato in alcuna maniera. “Come stai?” e le posai delicatamente la mano sulla spalla, evitando movimenti bruschi e conseguenti randellate sul capo.

E simile ad un pero, Mamie cadde dalla sedia in un sonoro tonfo.

“Mamie!”, gridammo allarmati, correndo al suo fianco e tastandole il polso, temendo per il peggio. Respirammo, però, subito di sollievo non appena udimmo un forte russare da parte sua. Fiuh, almeno non era qualcosa di grave! Tuttavia perché mai …

Prendendole il suo bicchiere d’acqua, M. Christophe lo portò al naso, essendo stato attirato da un peculiare odore. Improvvisamente, divenne porpora in volto, mugghiando in direzione della porta, dalla quale i suoi figli se l’erano svignata all’inglese. “Chi ha messo il sonnifero nel bicchiere della nonna?”

Ma i pirati erano ormai molto lontani …

 

***

 

L’implacabile sibilo del fischietto interruppe bruscamente la nostra comune reminiscenza, forzandoci a voltare il capo in direzione dello stridulo e fastidioso suono, che si ripeté per tre volte, provocando un preoccupato arcuare del sopracciglio di Milo. E l’“Oh merde!”, che udii provenire dalla stanza di Aiolia, mi svelò il vero significato dell’inquietante richiamo.

E di fatti, come stregato dalle magiche melodie del Pifferaio di Hamelin, il mio fratellastro si alzò, scendendo senza particolare entusiasmo per le scale assieme al lionceau. Incuriosito, decisi di seguirli, giusto per vedere a quale macabro rituale sarebbero stati sottoposti.

Trovai i due gemelli già allineanti uno accanto all’altro in salotto, avviluppati da comode vestaglie – Saga di un rosso cremisi e Kanon di un blu oltremare. Ciononostante, quando fui più prossimo a loro, notai come il gemello minore portasse tutto il suo peso sulla gamba destra, sfiorando appena il soffice tappeto con la punta del piede sinistro, svelandomi che in realtà era il maggiore; il modo, poi, in cui guardava assente davanti a sé, quasi stesse fissando il vuoto, fu la prova ultima che confermò la vera identità del giovane: evidentemente, si erano di nuovo scambiati i ruoli. Ma perché?

Una volta sistematici accanto a loro, fummo deliziati dalla comparsa di un livido M. Christophe, il quale passò come in rassegna dei suoi figlioli – me incluso – prima di ordinarci adirato: “Bene, ci siete tutti! E adesso … fianco destr, tutti in studio! Op, un … deux … trois …! Un … deux … trois …!” e con Kanon-Saga come apri fila, marciammo verso lo studio, con il mio patrigno a fare da chiudi fila e gli sguardi tra il divertito e l’apprensivo di Maman e Rhada, che ci auguravano tacitamente: “Buona lavata di capo!”

Arrivati nello studio, M. Christophe chiuse ben bene la porta, berciando perentorio: “Tutti in riga! Petto in fuori! Pancia in dentro!E vedete di non fare troppo rumore, ché stamattina sono scazzato!”

“Non si era visto …”, mormorò Milo, guadagnandosi un celere e dolente scappellotto da parte del padre, il quale, rivolgendosi a me con tono più dolce, mi spiegò il motivo della mia presenza fra quei masnadieri:

“Vedi Camus, mi dispiace includerti tra questi filistei, ma sono costretto ad interrogare anche te. Come si suol dire, il pinguino che canta ha fatto l’uovo: chi trova la vittima o è il colpevole o un complice!” e dovetti ammettere, che una qualche sua logica quel discorso la possedeva. Maledetti racconti gialli!

Invece, Aiolia colse un’altra sfumatura del discorso del pater familias. “Pingu fa le uova?”, domandò sottovoce a Milo, che, ridacchiando, replicò sfottitore:

“L’ho sempre detto, che era un  trans …”

“Silenzio, banda di Kleftes!”[2], s’intromise la voce dura di M. Christophe, chetandoli all’istante. “Non una sola parola di più o …” e un brusco suo gesto ci fece trasalire tutti, ognuno immaginando orribili punizioni nella sua testa.

“Allora”, riprese soddisfatto l’uomo, passeggiando davanti a noi avanti e indietro, “mi risulta, che ieri sera uno di voi cinque abbia somministrato a tradimento il sonnifero alla nonna, versandolo nel di lei bicchiere d’acqua”, e ci lanciò un’unica significativa e alterata occhiata, cui i suoi figli si limitarono a rispondere con l’espressioni più neutre di questa terra.

“Ora, voglio che il colpevole venga fuori o vi costringerò tutti e cinque a spalare per il resto del weekend i resti organici dei suini, altresì noti come merda! Poi, per quanto riguarda voi Qui Quo e Qua, a fare il bucato per tutto il mese, stirare e rammendare i calzini incluso nel prezzo! Voi due Cip e Ciop, invece, a mangiare solo budino di semolino per tutta la durata delle vacanze di Natale!”

Sbiancammo tutti dinanzi a quell’orribile aut aut: tra ripulire il piccolo porcile – che era poi in comune con quello dei vicini – e il mènage della biancheria, fui indeciso quale dei due temere di più. Perché infondo, il primo castigo sarebbe durato solo un giorno, ma quell’altro … per un mese … nouh!

“Ebbene? Nessuno sente il rimorso della coscienza?”, domandò, osservandoci tutti attentamente in viso. “Tu!” e si fermò davanti a Kanon-Saga, che, con sopraffine maestria, imitò il modo lieve ed educato di trasalire del gemello, quando quest’ultimo non aveva ben compreso la natura dell’argomento chiestogli. “Hai niente da confessare?”

“Ho già detto il mio Confiteor stamattina, Papinou, te lo giuro!”, si difese il minore, alzando due dita con la mano destra e incrociandone altrettante con la sinistra, dietro la schiena.

Con la faccia di uno che stava pensando Perché la sera del loro concepimento non mi sono divertito, invece, con le parole crociate? M. Christophe strinse gli occhi, sbuffando simil drago. (Fumo incluso) “Ne sono contento, Saga, però sul serio non hai nulla da raccontare al tuo carissimo Papa?”

“Una barzelletta, forse?”, nicchiò il giovane, sorridendo incerto.

“C’était moi, Papa!”, confessò Saga-Kanon, prendendo coraggiosamente voce. Il padre si diresse verso di lui, scrutandolo serio e invitandolo a continuare. “Mi sono alzato a prendere la caraffa d’acqua e lì …”

“Il ment!”, esclamò d’un tratto Milo con sicurezza. “Mente!”, ripeté, attirando su di sé l’attenzione del padre;  fu allora, che intercettai il rapido gesto di Aiolia, il quale intimava ai due gemelli di scambiarsi i ruoli e la vestaglia, processo che i due compirono alla velocità della luce.

“Perché secondo te, Milo, Kanon starebbe mentendo?”, inquisì M. Christophe.

“Uhm …”, prese tempo lo scorpion, attendendo il segnale dal fratellino, che lo scambio era terminato. “Perché … Perché … Perché vuole fare il figo e vantarsi di aver addormentato la nonna!”

“Vero!”, convenne Aiolia, annuendo con vivacità il capo. Osservando di sottecchi il secondogenito maschio – e soprattutto il sorrisetto da lui lanciatogli spudoratamente-  l’uomo giudicò la spiegazione non malvagia. Però, ancora aveva i suoi dubbi.

“Allora, Kanon, sei stato tu o no?”

“No”, rispose il gemello, finalmente nei suoi panni.

“Chi allora?”

“Hé, Papa! Tutti in questa casa avevano un movente molto valido, per volere la nonna K.O.”, girò in tondo Kanon, “Perfino tu!”, disse, sorridendo a mo’ di scusa. Poi, d’un tratto, divenne mortalmente serio. “Oui, Papa, sono stato io …” e il modo, in cui pronunciò quelle parole, assomigliava in maniera inquietante a quello di Saga, tanto che il padre arcuò perplesso il sopracciglio, reputando strano quel comportamento nel gemello minore.

Come durante la cena di ieri sera.

“Ammetti, dunque, di aver somministrato alla nonna il sonnifero?”

“Oui.”

“Da solo?”

“Oui.”

“Senza complici? All’insaputa dei tuoi fratelli?”

“Oui”, sussurrò flebile il giovane, abbassando colpevole il capo biondo. “Però si è trattato di un errore! Io … io …”

“Tu …?”, lo incoraggiò il padre a continuare.

“Ho confuso la … oplà!”, si corresse Kanon in fretta, quasi fosse scivolato su qualcosa che non doveva assolutamente rivelare. Vidi Milo ed Aiolia storcere il viso in desolate smorfie, mentre Saga roteò sconsolato gli occhi. Quanto al minore dei gemelli, pareva volere infossare a mo’ di tartaruga il collo nel busto.

“Ah ouais? E dimmi, Kanon, quante sono queste?”, fu la richiesta del padre, esibendogli sotto il naso tre dita con la mano destra e quattro con la sinistra. “Uhm?”

Il gemello minore aprì la bocca disorientato, chiudendola subito dopo. Si masticò il labbro inferiore; strinse gli occhi; deglutì a disagio; tartagliò la sillaba di qualche numero a casaccio e l’Oscar per la migliore imitazione va a M. Kanon Damian Valavitis!

“Sept …”, tentò Aiolia di suggerirgli, sennonché uno scappellotto di M. Christophe fu più rapido della sua lingua.

“Uh, ecco … io … credo … Seigneur …” , ansimava a momenti il giovane, respirando affannosamente, quasi stesse per svenire. “Non … io non …”

“Continui ad affermare di essere ancora tu il colpevole?”, disse lentamente il padre, avvicinandoglisi “Saga?”, concluse sornione e lode alle doti d’interpretazione di Kanon, che sbatté le palpebre scandalizzato; se avesse poi avuto un ventaglio come le damine del secolo scorso, ero sicuro che l’avrebbe sventolato fino a prendere il volo, tanta era la sua indignazione.

“Mais Papinou!”, gridò il giovane fuori di sé dallo choc, “Je ne suis pas Sasà! J’suis ton bébé Nônon, t’as oublié ou quoi ? Est-ce que tu ne nous nous reconnais plus, espèce de vieillard?” , protestò, battendo indispettito il piede per terra come un gosse dell’asilo.

“Oui, oui, come no ! Sei Saga, altroché : Kanon pronto a difendere a spada tratta i suoi fratelli? Ma tu vuoi vedere l’Apocalisse!”

“Mais j’suis plus bon maintenaient!”, pigolò il gemello minore, tirando su col naso.

“C’est vrai, Papa, écoute-le ! C’est Nônon !”, sostenne Aiolia con veemenza.

“C’est ton jumeau cadet ! Ton pire cauchemar!” (Il tuo peggior incubo!, ndr.), rincarò Milo la dose, incrociando le braccia al petto.

“Crois-tu vraiment, que cet abruti me ressemble ? Allez, c’est impossible : Saga, c’est moi !”, s’indicò Saga sdegnato il volto, incredulo che dopo vent’anni e infinti pannolini M. Christophe ancora li confondesse. E con sincronia corale, i quattro dell’Ave Maria intonarono tutti assieme le loro proteste con il preciso obiettivo di far prendere il volo alla testa del padre, grazie ad un’epica emicrania.

Tagliando la testa al toro, prima che a cadere fosse la sua, l’uomo aprì in un celere movimento le vestaglie dei gemelli, alzando bruscamente la maglietta del pigiama. Sbiancò non appena vide, che le rispettive cicatrici erano là al loro posto: sul fianco sinistro per Kanon, su quello destro per Saga. Volendo infierire, la sorpresa di ritrovarsi i giusti gemelli, dopo tutto il vaudeville creatosi onde persuaderlo del contrario, essa agì in maniera letale sul sistema nervoso del povero M. Christophe, che barcollò un passo o due indietro, portandosi veloce la mano alla tempia, massaggiandola. Subito i suoi figlioli s’inginocchiarono ai suoi piedi, abbracciandogli le ginocchia, supplicandolo di perdonarli dopo essersi accusati in gruppo alla “Io sono Spartaco”. Non potendo però crocifiggerli e dovendo poi decidere se o indagare a fondo sulla questione, rischiando allo stesso tempo la sua sanità mentale, o se perdonarli, M. Christophe optò per una via di mezzo, cresimando di nuovo e alla vecchia maniera i suoi chatons – ergo una sberla ciascuno – congedandoli esausto con un “E ora rompete le righe, ma non le palle!” e lasciandosi cadere sfinito sulla poltrona. Tuttavia, rivolgendosi a Kanon – il penultimo ad uscire – inquisì enigmatico:

“Tutto a posto il ginocchio?”, domanda cui il gemello minore rispose con un distratto cenno affermativo. Ma al sottoscritto, che fungeva da chiudi fila, non sfuggì l’obliquo sorriso dell’uomo – così simile a quello dei figli, quando ne architettavano una delle loro – inducendomi a pensare, che primo forse lui la scenetta non se l’era proprio bevuta appieno.

Secondo, che neanche a lui era poi così tanto dispiaciuto sapere Mamie rintronata dal sonnifero.

 

***

 

“Ti pregoooooo, Momuuusssss!!!! Solo 5 eurooooo!!!!!”

Roteai gli occhi, domandando a San Michele Arcangelo di concedermi la forza, onde sopportare senza svenire gli occhioni tondi, languidi e supplicanti di Aiolia, il quale mi porgeva a qualche centimetro dal naso il nuovo numero di Murena, vol. 5: La déesse noire, di Jean Dufeaux e di Philippe Delaby, una graphic novel ambientata nella Roma di Nerone.

Sospirai, aprendo il portafoglio e cedendo la somma richiesta al mio fratellastro, che trionfante andò alla cassa, pagando così la parte mancante.

Dopo la paternale di M. Christophe – scampata grazie ad un raggiro degno del teatro di Feydeau -  ci fu concesso di passare in centro a Mont-de-Marsan il resto della giornata, ovvero il pranzo fino a rientrare alle sei a casa, come eravamo in comune accordo con le autorità familiari. Prendemmo dunque la corriera e non appena scendemmo alla nostra fermata, magicamente la masnada franco-greca si separò, ognuno dileguandosi in direzioni diverse. Fu così che mi ritrovai appaiato con Aiolia, il quale si diresse come un treno verso la libreria, trascinandomi seco. Una volta lì, setacciammo ogni reparto, dalla narrativa ai libri scolastici, onde rimpinguare i nostri scaffali alleggerendo il nostro portafoglio. Verso le undici e venti, noi due avevamo all’incirca un carrello della spesa tra libri e cartoleria varia – sebbene tre quarti fosse destinata al sottoscritto – quando il piccolo Simba all’ultimo momento volle controllare il reparto fumetti al terzo piano, su di cui una poltroncina mi stravaccai, lasciando che il lionceau zampettasse tranquillo tra i vari scaffali, mentre io incominciavo contento la lettura de A Portrait of the Artist as a Young Men di James Joyce. Di lui avevo già affrontato i Dubliners; il mio obiettivo finale era di poter poi affrontare in inglese la lettura dell’Ulysses per le vacanze di Natale.

Aiolia, invece, era ritornato dalla sua ricerca con sottobraccio il volume del detto Murena e col primo de Sang Real: Noces Sacriléges di Alejandro Jodorowsky. In seguito alla sua richiesta monetaria e al conseguente pagamento delle due graphic novels, il ragazzo si sedette infine a gambe incrociate per terra accanto a me, scorrendo con delicatezza le pagine e, dopo aver furtivamente estratto una matita e il block notes, si mise a ricopiare con accurata precisione i personaggi lì rappresentati. Ah, l’avevo detto io, ch’era ambidestro!

“Mais tu dessines très bien!”, esclamai con sincerità, allungando nel frattempo il collo per meglio contemplare il lavoro del lionceau, il quale sussultando eseguì un acrobatico numero con la matita, che malgrado gli sforzi del ragazzo cadde per terra, spezzandosi la punta. “Pardon, non volevo spaventarti!”, mi scusai in fretta, rendendomi conto del danno compiuto. Aiolia fece spallucce, infilando il block notes nella sua borsa a tracolla.

“Basta che tu non lo dica a nessuno!”, mi pose la sua condizione, fissandomi attentamente negli occhi. Era serissimo.

“Mais pourquoi?”, domandai confuso. “Disegni benissimo, di che ti dovresti vergognare?” Perché anche lui si vergognava della propria vena artistica?

Aiolia scosse il capo, facendomi cenno col dito di avvicinarmi a lui. “Il fatto è che al posto di andare a ripetizioni di latino, frequento i corsi di disegno. Se Papa dovesse saperlo, quello mi ghigliottina prima che io abbia il tempo di confessare tutti i miei peccati! Dopo il rugby, disegnare è il mio passatempo preferito … ho pure un account su Deviantart … Papa teme che io trascuri i miei studi per questo mio hobby e il rugby soprattutto! Devo migliorare sai? Farmi notare! Così magari riuscirò ad entrare come professionista in una vera squadra! E pagato! Non sarebbe meraviglioso?”

Annuii convinto, augurandogli con tutto il cuore di riuscire nel suo progetto. Aiolia era il meno intellettuale dei quattro; la sua bravura stava nelle cose pratiche, concrete ed ero sicuro che infondo ne soffrisse, poiché si sentiva inferiore ai fratelli e non solo per età. E ciononostante, non notavo in lui alcuna manifestazione d’invidia, anzi, per quanto gli costasse ammetteva con timido orgoglio il suo pragmatismo, riconoscendo le capacità più letterate degli altri tre. Anche se, mi si stringeva ogni volta il cuore nel vederlo quasi alle lacrime quando dopo il decimo ripasso con Milo, ancora non aveva la più vaga idea di quale fosse il pensiero filosofico di Pascal. “J’suis un idiot, Milou! Fiche-moi la paix, tu perds ton temps avec moi! J’suis un idiot, je n’arriverais jamais!”, si lagnava, stropicciandosi gli occhi umidi e arrossati. Allora, il fratello chiudeva il libro e gli accarezzava con dolcezza il capo, consolandolo in quel momento di scoraggiamento  e chiedendomi poi gentilmente, se volevo sostituirlo, poiché a suo avviso sarei stato più competente come insegnante al posto suo. Beh, potevo vantarmi di averlo aiutato ad ottenere una discreta sufficienza in tutti i compiti di filosofia, mentre dovetti inchinarmi dinanzi ai suoi pieni voti in matematica, fisica, chimica e biologia. (Odio ammetterlo, ma in nessuna delle sopra citate materie ho  mai preso 20/20, il massimo fu 19.5/20 … mannaggia …)

“Tzé!”, esclamò birbante Simba, osservando lievemente dispiaciuto la sua matita mutilata. “Credevi sul serio, che temessi d’essere sfottuto perché mi piace disegnare? Che mi dessero dell’uke?”

All’udire l’infame parolina, le mie orecchie si drizzarono attente, rinfocolando la fiamma della mia curiosità. Forse Milo non aveva tutti i torti, quando affermava che sotto certi aspetti assomigliavo al Piccolo Principe: in effetti, ero prono a tormentare il mio prossimo, fintanto che la mia curiosità non fosse stata appieno appagata.

E appunto …

“Che cos’è un uke?”, domandai senza troppo riflettere ad Aiolia, che si voltò di scatto, incerto se ridere o preoccuparsi sul serio.

“Ancora non lo sai?”, inquisì Simba perplesso; chissà perché, lessi come sottotesto nella sua espressione la frase Milou non te l’ha ancora detto? Qu’il est con!

“J’sais, j’sais!”, mi giustificai flemmatico, avendomi reso la mia curiosità insensibile ad ogni forma di frecciatina e allusioni. “E’ passato tanto tempo da allora: è che non ci ho più pensato! Ho avuto altre magagne sulle quali cogitare!  Alors, dimmi: che cos’è un uke?”

Appoggiando il dito sul mento, il lionceau mi osservò dubbioso: “Non saprei, Momus. Se anche te lo dicessi, dubito che mi crederesti, giudicandolo un mio scherzo di cattivo gusto … Però, flûte, siamo in una libreria, no? Et donc, perché non cercare la nostra risposta attraverso i libri?”

“Giusto!”, convenni con lui vivacemente, già intrigato all’idea di quella ricerca.  “Al reparto dizionari, allora?”, suggerii, indicandolo col dito. Il mio fratellastro minore scosse il capo, indirizzandomi a tutt’altro settore.

“No, Momus. Al reparto Yaoi!” e pronunciò l’ultima parola con timore reverenziale, quasi stesse nominando uno dei diavoli dell’inferno. E per dissipare ogni possibile dubbio mi fosse rimasto in testa, aggiunse: “Il reparto del boyxboy … ma quello hot …”

Rabbrividii, affondando le unghie nei braccioli della poltroncina. Per i maschi, quel reparto equivaleva alla Siberia: tutti sapevano dove si trovasse, ma nessuno voleva mai andarci di propria spontanea iniziativa. Le uniche persone, che mi ricordavo avervi mai scorto erano tutte ragazze, quasi mai un ragazzo.

“Sei sicuro che sia una buona idea?”, domandai poco convinto al micione, che, dopo un lungo sospirò, decretò:

“Il le faut, Momus, bisogna! Altrimenti, sarai condannato a vagare per questa terra senza conoscere il significato di uke! Inoltre, meglio che tu lo sappia così: ora come ora, dubito che se lo chiedessi a chi-so-io ti sarebbe risparmiata la dimostrazione pratica!”

Meditai accuratamente sull’ultima affermazione di Aiolia, soffermandomi con attenzione sull’identità del possibile candidato al nickname chi-so-io e chissà come mai, lo trovai in un baleno. Giudicai quindi inopportuno testare empiricamente il significato di uke, specie conoscendo che razza di “professori” mi ritrovavo in famiglia; di conseguenza, la proposta del lionceau di scoprirlo attraverso i manga Yaoi pareva la più affrontabile e soprattutto la meno traumatica. Ciononostante, i dubbi erano ancora molti …

“Devi ampliare i tuoi orizzonti, Momus, devi avere il coraggio di tuffarti dal tuo iceberg solitario e di raggiungere quello di fronte a te, dove risiedono gli altri pinguini!”, m’incoraggiò il piccolo Simba grazie alla sua zoologica metafora, facendomi intendere con lo sguardo che sarebbe venuto con me, onde non lasciarmi solo nell’impresa.

“Ma sì, dai!”, esclamai d’un tratto, alzandomi tutto gasato dalla poltroncina. “Acculturiamoci! Scopriamo che cosa significhi uke!”

“Bravo, Momus! Questo è lo spirito!”, giubilò Aiolia, imitandomi con il medesimo trasporto.

“Cosa vuoi che sia un manga Yaoi? Potrebbe anche essere interessante!”

“Giusto! Perché lo Yaoi fa bene dalla mattina alla sera e a tutte le età!”

E dopo aver affermato con forza il sopra citato commento, ci dirigemmo carichi di adrenalina ed entusiasmo verso il famigerato reparto Yaoi; tuttavia, più ci avvicinavamo, più la nostra risolutezza vacillava ad ogni passo e il dubbio di stare commettendo in quel momento una grande cavolata s’insinuava gradualmente nei nostri cuori, portandoci ad appiattirci alla parete dello scaffale prima  della terribile sezione, guardando con accuratezza che non vi fosse qualcuno in essa.

“Via libera!”, mi fece cenno Aiolia, dopo aver lanciato una rapida occhiata nel reparto. Scivolammo come ladri tra gli scaffali, scorrendo rapidamente i titoli, il cuore in gola per la paura di essere pizzicati da qualcuno, in particolare un nostro conoscente. Certo, che  questi manga dalle copertine sembravano molto innocui, mi domandai quindi il motivo di tutto quell’imbarazzo da parte dei maschi anche solo a menzionarli, figurarsi prenderli in mano e leggerli.

“Uhm”, mi disse Simba, porgendomi un esemplare dei sopracitati fumetti. Incuriosito, allungai il collo per meglio osservarlo. “Ho sentito dire, che Maiden Rose sia il più esplicito tra i nuovi titoli!”, dichiarò, seppur dubbioso, intanto che rigirava il libricino tra le forti dita.

Rozen Maiden è un manga Yaoi?”, esclamai stupefatto: Seigneur, in questo modo mi distruggevano un mito!

“Ma no, Momus, che capisci! Maiden Rose!”, mi corresse il lionceau pazientemente. Poi, fissando il manga, storse stizzito le labbra: “Merde, è incellofanato!” e si mise a frugare tra le varie copie nello scaffale, sperando di trovarne una aperta.

E ci credo: vietato ai minori di 18 anni!, pensai, leggendo nel frattempo il bollino sulla copertina. Eddai, che mai avrebbero disegnato di così sconveniente? Ormai, con tutti i film sugli omosessuali, come speravano di sconvolgere ulteriormente l’umana psiche?

“Tiens, tiens, ne ho trovato uno libero!”, annunciò trionfante Aiolia, sventolandomi contento la copia disponibile agli occhi del mondo non pagante e minorenne. “Lo sfogliamo assieme?”, mi propose, sistemandolo in mezzo a noi due, onde avere una migliore visuale.

“Dall’inizio?”

“Di solito la parte interessante si trova sempre a metà volume …”

“E  allora vada per il mezzo.”

Prendemmo tutti e due un lungo e profondo respiro d’incoraggiamento; poi, Aiolia calcolò mentalmente dove si trovasse la parte mediana del libricino, infilando due pollici al suo interno e aprendolo con estrema lentezza.

Ricordo solo di aver posato per un istante lo sguardo sulla candita pagina, per poi ritrovarmi in un nanosecondo dall’altra parte del reparto, girato di fronte lo scaffale e il volto ben nascosto tra le mani. Quanto ad Aiolia, se ne stava a qualche metro dal sottoscritto, la schiena ben appoggiata al ripiano, artigliandosi quasi ad esso e gli occhi spalancati come quelli di un lemure.

“C-cosa … c-che c-cosa ho visto?”, balbettò il ragazzo, la voce tremula e il respiro irregolare.

“Cosa NON ho visto!”, dissi io, desideroso di strapparmi gli occhi, incapace di levarmi dalla testa l’immagine appena sbirciata nel fumetto. E quel che era peggio, era che essa si stava malignamente associando ad altre formulate in gran segreto all’interno del mio cervello durante le ultime settimane, provocandomi una vampata di calore in tutto il corpo e il fuoco sulle gote. “Un’altra occhiata?”, domandai poco convinto al mio fratellastro, che rispose lentamente:

“Dammi altri cinque minuti per riprendermi, d’accord?”

“Ouais!”

Restammo dunque in quella posizione per un tempo indeterminato, senza neppure riuscire a guardarci negli occhi; poi, prendendo coraggio, ci riavvicinammo al manga della discordia – anzi, del triplo salto acrobatico con avvitamento – imponendoci di continuare fino alla fine.

Sennonché …

“Oh merde!”, sussurrò preoccupato Aiolia, arretrando di un passo. “Merde, merde, merde de pingouin!”

“Che c’è?”, gli chiesi perplesso e preoccupato per il lieve tremore, che lo sconquassava da capo a piedi. Mi girai verso la direzione del suo sguardo appurando che in quell’istante stava facendo la ronda tra gli scaffali … “Oh merde!”, mi unii al mio fratellastro e se non avessi avuto il fumetto tra le mani, mi sarei pure messo le mani tra i capelli.

“Andiamo via! Andiamo via!”, m’intimò Simba, spingendomi a momenti, “Non posso permettere, che Marin mi veda nel reparto Yaoi! O penserà ch’io sia una tapette!”

“Ma non è detto …”

“Momus! Secondo i dati del mercato dei manga, due sono i generi di lettori che di solito amano lo Yaoi: le ragazze e i gay! E se Marin mi vedesse? Beh, potrei dire che sei stato tu ad insistere …”

“Non osare!”

“P’tain, mi ero dimenticato, che lei era di turno il sabato per tutto il giorno!”, si lamentava il lionceau, mentre tentavamo di sgattaiolare inosservati nel reparto accanto. Ma tutte le nostre speranze vennero troncate sul nascere dall’improvviso cambio di marcia di Marin, che ci tagliò la strada, incontrandoci dalla parte opposta.

“Salut Momus!”, mi salutò gioviale la ragazza; il suo sorriso si alterò un secondo alla vista del mio fratellastro, il quale nel frattempo si era trincerato dietro la mia schiena, sperando che una voragine si aprisse sul pavimento, inghiottendolo fino all’ultima doppia punta dei capelli. “Aiolia …”

Il lionceau miagolò qualcosa d’incomprensibile, nascondendosi ulteriormente.

“Che ci fate nel reparto Yaoi?”, inquisì curiosa Marin, sistemando sugli scaffali i nuovi arrivi. “Non sapevo, che quel genere vi interessasse …”, aggiunse, fissando ambigua il piccolo Simba, che riavendosi dallo choc iniziale, cercò affannosamente  e a casaccio un manga “normale”. La sua zampa ne afferrò uno, che subito presentò come il motivo della nostra ricerca.

“Ah ouais? Mi fa piacere, che leggi Doremì!”, insinuò maligna la ragazza, davanti l’espressione al limite dello sconcerto del lionceau, quando appurò che titolo avesse pescato. E con voce tremula, ebbe il disperato coraggio d’affermare:

“Moui … Doremì è sempre stato il manga della mia vita … non me ne perdo un numero …”

“E lo leggi nel reparto Yaoi?”

“Hé, alla fine si scopre che Doremì è in realtà un trans, che se la faceva con il suo grande amore Lullaby; il tutto, con la complicità della Drag Queen Melody, mentre Symphony riprendeva nel frattempo le loro galipette col cellulare; infatti, più avanti salterà fuori che l’occhialuta non era nient’altro che una spia della buon costume!”, disse simile ad un automa, costringendomi a sorreggerlo per il braccio, temendo che mi svenisse sotto il naso.

“Quel che Aiolia voleva dire, è che cerchiamo un manga Yaoi per una sua cugina come regalo di compleanno!”, mentii spudoratamente, cercando di salvare il nostro comune onore.

“Mia cugina!”

“Molto cugina!”

“Molto femmina!”

“Oh”, fece impassibile Marin, sfogliando pensosa la copia aperta di Maiden Rose “Allora, avete scelto molto bene: ultimamente, questo è il più apprezzato tra le ragazze …” e mi porse una copia incellofanata, che rifiutai con cortesia, sennonché Marin insistette energicamente:

“Dai, offre la casa!”, mi disse, raccogliendo lo scatolone con gli altri manga da sistemare. “A proposito, Aiolia, ricordati sabato prossimo alle quattro … New Moon …”, ricordò al lionceau con sorriso obliquo, mentre quegli s’afflosciava sconsolato per terra, coprendosi il volto violaceo con le mani.

“Basta! La faccio finita: divento Emo!”, annunciò melodrammatico non appena lei se ne fu andata, appoggiando imbronciato il mento sul palmo della mano. “Momus, tirami fuori la piastra, ché questo pomeriggio mi stiro il ciuffo! E non dimenticarti il mascara!”, piagnucolò, per poi sciogliersi  subito dopo in una contagiosa risata, molto probabilmente immaginandosi nella sua testa moro, depresso e con una frangia alla Emily the Strange.

E a tale ardita fantasia, non potei fare a meno d’unirmi a lui, ridendo entrambi fino alle lacrime agli occhi.

 

***

 

Raggiungemmo gli altri frères terribles ad un Bistro vicino a Place Rouge, trovandoli già ai posti di combattimento per il pasto del meriggio, scacciando simil mucche il moscone del cameriere, aspettandoci prima di fare le ordinazioni. Essendo, infatti, quella l’ora clou degli avventori, vedere quattro persone sedute senza prendere niente, incominciava dopo mezz’ora ad innervosire i camerieri e il gestore con loro, i quali sospirarono poi in coro, non appena ci sistemammo al tavolo occupato dai miei fratellastri e controllare assieme il menu.

Dopo aver riferito le nostre scelte mangerecce al cameriere, Aiolia ed io fummo subito investiti dalle domande curiose degli altri ragazzi, che apparentemente morivano dalla voglia di conoscere la ragione del nostro ritardo, rimanendo un poco delusi dalla  laconicità delle risposte ottenute, quelle da parte di Simba soprattutto.

“Mi hai preso Les Mémoires d’Hadrien della Yourcenar ?”, si ricordò Milo al momento in cui ci fu servita l’entrée.

“Ouais.”

“E L’Amant, della Duras?”

“Mouais …”

“E …”

“Ti ho comprato tutto!”, sbottai, tentando per l’ennesima volta di portarmi la forchetta alla bocca, ma impossibilitato dalla sparatoria di domande dello scorpion lubrique, il quale parve essersi riassicurato, quando gli porsi le due sporte ricolme di libri e cartoleria varia.

“Bien, poi ti ridò i soldi!”, mi promise, pulendosi prima le mani col tovagliolo per incominciare poi a frugare tra i vari libri, infilandovi  dentro quasi la testa, tanto era preso dalla sua ricerca.

“Ovviamente …”, dissi distrattamente, avventandomi sulla tarte à l’oignon con piglio molto canino. E fu un bene, che almeno feci in tempo a terminarla, ché un’esclamazione tra lo scandalizzato e il divertito mi distolse nuovamente dal piatto.

“Che cos’è questo, Ionesco? Eh? Che cos’è?”, inquisì serio Milo, sventolandomi sotto il naso il manga Maiden Rose e sul viso la stessa espressione che avrebbe potuto avere un padre, quando scopriva in camera della figlia un condom usato. “Eh? Rispondi, pingouin lubrique!”

Mi afflosciai sulla sedia, arrossendo fino al limite massimo, trascinando meco nella mia vergogna pure Aiolia, il quale al contrario impallidì, nascondendo diplomaticamente il viso dietro il tovagliolo. “Ma non l’avevi lasciato in libreria?”, mi rimproverò in maniera velata.

“Non l’ho fatto apposta: ero pieno di libri da trasportare, l’avrò messo nella sporta per sbaglio …”, mi giustificai, attirando l’attenzione degli altri commensali.

“Che cos’è successo?”

“Ionesco legge manga Yaoi di nascosto!”, m’accusò lo scorpion falsamente indignato (sotto, sotto notavo invece la sua intima soddisfazione). “E anche piuttosto spinti …”, commentò, sfogliando il manga.

“Ce n’est pas vrai!”, protestai con veemenza. “E’ la prima volta che ne vedo uno in vita mia, te lo giuro !”

“No, davvero? Manga Yaoi? Uh, le coquin …”, volle la conferma un incredulo Kanon, che allungò il collo per avere una migliore visuale del fumetto. “Dai un po’ qua …”, e sfilò con delicatezza il volumetto dalle mani del fratello, scartabellando attento le pagine. “Mais ils sont trop mimichoupis!”, esclamò alla fine deliziato, mentre un lieve rossore gli imporporava le gote. Oh, Seigneur … “Vuoi vedere, Rhada?”

L’inglese fermò con un delicato gesto l’avanzata del fumetto verso di lui, scuotendo in diniego il capo biondo. “Magari più tardi, quando ho finito di digerire”, temporeggiò, provocando tuttavia l’ira del suo meco, che inquisì gelido:

“Come? Ti vergogni, forse? O ti fanno schifo? Ti devo ricordare, che noi in letto facciamo le stesse co- … chomp!”, Kanon fu interrotto  e costretto al silenzio dal pingue pezzo di tarte all’oignon, infilatagli  a tradimento in bocca da parte del suo meco con inquietante precisione, rivelandoci quindi quante innumerevoli occasioni Rhada avesse avuto per esercitarsi, affinando così la sua tecnica.

“Iou – Iou, non è che questo è un tuo scherzetto ai danni di Momus?”, volle sapere Saga, fissando attento il fratellino da dietro le spessi lenti degli occhiali.

“No, non era mia intenzione fargli prendere un manga Yaoi!”, si difese il lionceau sincero. “Volevo solo, che Momus finalmente imparasse il significato di uke!”

“Eh?”

“Cosa?”

“Uhm?”

“Pardon?”

“U-munch-uk-munch-e-munch?”

“Nônon, non si parla con la bocca piena!”, lo rimproverò Rhada, sebbene continuasse ad imboccarlo senza pietà alcuna. Poi, rivolgendosi a me, inquisì dolcemente: “Davvero non sai cosa sia un uke?” e mi guardò con strana tenerezza, quasi l’avessi commosso con la mia ingenuità. O ignoranza.

“No”, risposi in un pigolio, pronto ad una ripiegata strategica al bagno, sennonché Milo mi tenne ben fermo sulla sedia, tirandomi giù per il braccio.

“E nessuno te l’ha mai spiegato?”

“Io mi sono proposto!”, chiarì subito lo scorpion lubrique. “Ma questa Vierge Marie non ne ha voluto sapere!”

“Beh, l’aula scelta per la tua lezione era molto promiscua!”, ribattei, ignorando i risolini compiaciuti dei fratelli.

“Argomento promiscuo; aula promiscua; professore promiscuo!”, fece spallucce il ragazzo, provocandomi un feroce prurito alle mani, desideroso di riscaldarmele prima sulle sue guance, per poi violentarlo sul tavolo …

Oddio, no! Che cosa ho appena pensato?, mi portai una mano alla fronte, massaggiandomela forte, quasi volessi espellere l’immagine del manga, la quale aveva rincominciato a torturarmi con maggior assiduità non appena avevo postato gli occhi sullo scorpion. E ci scommettevo i miei spartiti di pianoforte, che era stata tutta colpa sua, se quel balzano e cochon pensiero si era formato nella mia mente.

“Momus, stai bene?”, s’informò Saga preoccupato, saggiando col dorso della mano la mia temperatura corporea. “Sei un po’ caldino …”

Sono in calore, mannaggia!, pensavo, mentre le figure del fumetto assumevano forme più reali e tangibili …

No! Non lo sono! Sono assolutamente padrone di me stesso e di tutte le mie facoltà mentali e ormonali!, misi in moto il mind control, respirando a fondo nella stessa maniera, che mi aveva insegnato Shaka, guadagnandomi di conseguenza delle perplesse occhiate da parte di Milo e Saga, nel frattempo che il resto della comitiva discuteva sul modo meno traumatico di farmi apprendere il gergo Yaoi, facendone quasi una ragion di Stato.

“Per chi mi hai preso? Per Rocco Siffredi?!?”, l’indignata esclamazione di Kanon ci invitò a riunirci di nuovo nella questione scopriamo l’uke.  “Mon oeil, che Rhada ed io gli facciamo vedere che cosa sia un seme e cosa un uke!”, protestò rosso in viso, malgrado il di lui meco tentasse di convincerlo che quella di Aiolia era solo una battuta, onde sdrammatizzare la mancanza di idee.

Sogghignando, Saga lanciò la sua frecciatina al gemello. “Rocco Siffredi? Tzé! Dal P.O.V uke, direi che tu assomigli di più a Moana Pozzi!”, provocando una dolorosa fitta di risate represse da parte di tutti i commensali. Livido in volto per l’attentato alla sua virilità, Kanon replicò venefico:

“Uh, e come mai Santo Saga ha nozioni così precise sul porno internazionale?”

Serafico, il gemello maggiore intrecciò le fini dita tra di loro, rispondendo placido: “Hé, perché ebbi la sfortuna di pulire sotto i letti dei miei fratelli …” e rivolse un’occhiata obliqua panoramica, cui i suoi minori risposero fischiettando gnorri. “Comunque, Iou – Iou ha ragione, Nônon: tra tutti noi, tu saresti il più adatto a spiegarglielo!”

Kanon capitolò, sospirando a lungo. Poi, guardandomi, si apprestò ad incominciare la sua lezione. “Eh-ehm … dunque … l’uke …”, esordì, schiarendosi la gola. Quanto al sottoscritto, lo ascoltava attentissimo, pigliando dalle sporte inconsciamente pure un block notes e una penna, pronto a prendere appunti. “Allora, l’uke è … è … enfin, generalmente parlando si definisce uke uno che … no, non così … Nel gergo Yaoi un uke è un … un …  NO, NON CI RIESCO!”, eruppe all’improvviso, passandosi sconsolato le mani tra i biondi capelli. “È troppo mimichoupi … troppo ingenuo e casto … con quegli occhioni spalancati e attenti … mi fa sentire un maniaco pedofilo …”, piagnucolò, cercando rifugio sull’incavo della spalla della sua Vouivre, che gli accarezzò partecipe la schiena, guadagnando in cambio delle compiaciute fusa.

“Dai, cos’è l’uke?”, chiesi leggermente spazientito: insomma, per chi mi avevano preso? Per una fragile donzella, che sarebbe morta d’infarto solo per aver appreso il significato di uke? Perché quella parola era tanto terribile?

Lentamente, Rhada mi concesse un piccolo indizio. “È il contrario di seme.”

“E cos’è un seme?”

“Un seme”, rispose Saga al posto dell’inglese, che annuì con lui.

Uhm, quindi … uke è il contrario di seme … seme è il contrario di uke … allora l’uke è un frutto … eh sì! Di conseguenza, un frutto che potrebbe assomigliarmi caratterialmente …  potrebbe trattarsi di …

“Ci sono!”, esclamai entusiasta di aver finalmente trovato la risposta al mio quesito. E apparentemente, anche i miei fratellastri erano dello stesso avviso, poiché vidi i loro volti rilassati, giudicando ormai scampato il pericolo di una qualsiasi spiegazione da parte loro. “Uke significa banana, giacché banana lo usiamo per imbranato!”

In quel momento, sembrava di essere ritornati ai tempi del Terrore rivoluzionario, ché mai avevo assistito – neppure nei film – ad una sì copiosa caduta di teste. E in perfetto sincronismo, poi.

“Courage, Milou, courage!”, ora era il turno di Kanon di consolare, stringendo le spalle del fratello minore, onde infondere speranza ad uno scoraggiato scorpion lubrique, il quale di sicuro – e per qualche oscuro motivo – si stava rivolgendo alla sua dea protettrice Selkis in cerca di conforto.

“Iou – Iou, mi puoi prestare la tua piastra? E il mascara?”

“No, Milou! Resta con me! Non mi lasciare! Non tutto è perduto! Dobbiamo pazientare … è solo molto … molto pinguino …”, lo scosse il gemello minore, terrorizzato alla sola idea, che Milo potesse convertirsi in un Emo. Evidentemente, il nipote acquisito Aaron doveva essere stato più che sufficiente per lui, senza aumentare il numero delle vittime in famiglia.  “Troveremo la chiave della cintur- ehm … del problema!”

Scuotendo sconsolato il capo, Saga commentò mesto: “Neanche quando abbiamo spiegato a Iou – Iou come nascono i bambini, sono sorti tutti questi problemi!”

“Sai che roba!”, protestò il lionceau con trasporto. “Avete fatto ricorso ad un documenta- …” e s’interruppe bruscamente, il viso deformato da un sinistro ghigno, subito ricambiato dai fratelli.

“Un documentario?”, ripetei disorientato, guardandomi in giro. Tutti i commensali si voltarono nella mia direzione mostrandomi il candore dei loro denti fino alla loro radice. “Ehm … les gars …? Qu’est-ce qu’il passe?”

“Non ti preoccupare, Momus”, mi sussurrò Saga inquietantemente melenso, accarezzandomi il capo come Goldfinger col gatto. “Pensiamo noi a tutto, mon pingouin …”

“Sasà, ho paura …”

“Hé, fai bene ad averne …”, ribadì il gemello maggiore senza abbandonare il suo largo sorrisone, accompagnato dalle altre grottesche smorfie dei suoi fratelli, che annuivano con la stessa cadenza di una vecchia pendola.

 

***

 

 E come sempre, la guida spirituale dei fratelli Valavitis  mantenne la sua parola, ché appena terminato il pasto, ci fiondammo a riprendere la corriera per ritornare con mia grande sorpresa a casa, visto che non eravamo attesi prima delle sei. Inoltre, il tempo di levarmi il cappotto e le scarpe che i quattro masnadieri più il pirata inglese avevano già preso il largo, lasciandomi solo come un cretino in entrata.

Allora, non desiderando affatto la compagnia del silenzio – in effetti, ammetto che fossi diventato dipendente dalla baraonda valavitisiana – mi misi subito sulle loro tracce, cercandoli ovunque fino a trovarli rintanati nello studio di M. Christophe, sulla cui porta avevano appiccicato un foglio sul quale v’era scritto: Do not disturb, geniuses at work. Ignorandolo con una scocciata alzata di spalle, aprii la porta, trovandomi davanti alla velocità della luce Kanon a bloccarmi la strada.

“Pinguino curioso!”, mi salutò sornione il giovane, pigliandomi per il coppino e trasportarmi in cucina, dove mi sistemò su di una sedia, intimandomi di restarmene lì tranquillo fino a contrordine. Aspettai che se ne fosse andato, dopodiché mi rialzai, dirigendomi nuovamente verso lo studio, questa volta spiando dal buco della serratura.

Non feci neppure a tempo di ben focalizzare gli avvenimenti, che stavano lì accadendo, che la porta si spalancò, facendomi cadere prono per terra. “Curioso e testardo, eh?”, commentò il gemello minore, scuotendo il capo e riportandomi al mio posticino. “Qua! E a cuccia!”

Annuii mestego, guardandolo di nuovo ritornare nella sua tana, mentre una strana tristezza m’invadeva: era doppiamente dura riprendere ad interpretare il ruolo dell’escluso pinguino solitario, dopo aver goduto per quasi un mese del più sfrenato vaudeville. Qualche attimo d’assenza e già  mi mancava …

Mi accollai sul divano in salotto, fissando malinconico il soffitto, solo. Perfino il cane era stato sequestrato dalla masnada franco-greca. Quanto ai miei genitori e a Mamie, erano di sicuro a far visita ai vicini di casa. Mi preparai dunque ad un misero pomeriggio, tendendo allo spasimo le orecchie onde poter captare i dialoghi provenienti dalla dannata porta, alleviando così il nodo allo stomaco ivi creatosi.

Voilà i momenti clou di codesti educativi, colti e raffinati scambi d’idee.

2. 15 pm

Un ruggito e la porta si spalancò con una veemenza inaudita. Dopodiché, assistetti allo spettacolo di uno scarlatto Aiolia correre in grossi balzi in direzione della cucina, prontamente seguito da Saga.

“Basta! Non ce la faccio più! Ancora un’immagine come quella e vomito!”, si lagnava, aprendo il rubinetto e sciacquandosi con lena il viso. “Non è possibile, che disegnino queste … anche loro poi! Perché uccidere così un personaggio? Sadici … anzi, sadiche …!”

“Va meglio, Iou – Iou?”, s’informò il fratello maggiore, versandogli dell’acqua nel bicchiere, che Simba tracannò in un sol sorso. Il gemello gliene offrì dunque un secondo, che Aiolia non ebbe ritrosia alcuna d’onorare.

“Yo!”, udimmo la voce eccitata di Kanon dallo studio. “Iou – Iou! Sasà! Questa qui dovete proprio vederla! È troppo … pff … pff … oh Seigneur …”

I due rotearono gli occhi, sospirando al cielo  come i martiri prima di entrare prima nell’arena, poi nella pancia dei leoni.

3. 34 pm

“Nônon”, captai la voce di Milo, la quale mi pareva lievemente ovattata, quasi avesse qualcosa in bocca. Una matita, forse.  “Certo, che m’inquieti!”

“E perché?”

“Tutti questi siti … enfin, come fai a conservare intatto il sistema nervoso?  E come mai li hai tutti salvati su di un documento word?”

“Chut, bicho! Invece di lamentarti, vedi di prendere accuratamente appunti: all’inizio, tutto questo può sembrare spazzatura, ma poi vedrai che ti ritornerà utile …”

“Davvero?”

“Oh que oui!”

“Invece”, s’intromise la voce di Aiolia,  pure lui immerso in un crunch, crunch di mandibole. “Come mai tutti qua hanno la verge a forma di calamaro?”

“Mah, che vuoi che ti dica?”, fece Saga, forse scrollando pure le spalle. “I giapponesi ce l’avranno calamariforme … Piuttosto, com’è che ogni tanto sparisce?”

“Uh, è vero!”, convennero i due fratelli minori. “Nônon, anche a te si volatilizza, quando tu e Rhada …”

“Perché dovrebbe?”, replicò gelido Kanon, al quale si aggiunse il suo meco:

“Sono inglese, chaps, ma non Harry Potter, prego!”

Risate.

“A proposito di HP”, riprese Aiolia, dopo che l’ultima risata si fu spenta. “Levatemi questa schifosissima acconciatura! Sembro Potterfoy!”

“E chi è? Il figlio di Harry e Draco? Oulà, eccone un’altra …”

Altre risate.

4. 42 pm

La voce di Kanon era stridula e isterica, pareva che stesse berciando contro un malnato, che gli aveva tirato un brutto calcio sui zizì. Risatine compiaciute fungevano da sottofondo.

“Insomma, che ti ho fatto di male?”, si lagnava il gemello alla Violetta Valery. (E magari pure in quell’istante stava sventolando un ventaglio). “Perché sei così stronzo con me? Io, tenero e casto fanciullo …”

“Perché mi garba vederti così … sottomesso e indifeso … alla mercé  delle mie brame … ”, replicò Rhada con tono gutturale, mentre le risatine diventavano sempre più difficili da controllare.

“Oh, lurido verme! Come osi? Vattene via, lasciami in pace! Esci dalla mia vita! Sniff … sniff … Per colpa tua, non riesco a provare più alcun sentimento: mi hai rovinato l’esistenza, capisciiiiiiiiiiiiiiiiiii?” e l’ultima parola assomigliò a centinaia di unghie striscianti sulla lavagna.

“Non fare così: vedrai, saprò consolarti io …”

“Perché hai detto a Jannot quelle bugie, eh? Perché? Come ti sei permesso? RISPONDI STRONZO!”

“BITCH, CONTROL YOURSELF!”

PAtasciòòòk! Seguito da un pesante tonfo.

Silenzio.

“Sasà?”

“Sì, può anche andare … però, magari un’altra volta …”

“E no, dai! Non costringermi a ripetere quelle cazzate!”, protestò il gemello minore.

“Silenzio, patacca! Tu Rhada, invece, un po’ più di sentimento, di passione …”

“Sasà, è inglese …”

“… e mi raccomando, poi: pestalo più forte la prossima volta!”

“Ma brutto …”

5. 21 pm

“Allora, bicho, come andiamo? Ce la facciamo in tempo?”, sentii la voce di Aiolia domandare preoccupata tra una sorsata e l’altra di non so quale bevanda.

Replica distratta di Milo: “Possibile … non impossibile … possibile …”

“E’ o non è possibile?”

“E io che ne so?”

“Ma se avevi appena detto …”

“Lascia perdere quel che ho detto!”

“Ma … “ 

“La ferme! Non scazzare, non vedi che sono impegnato? Le clausole per il divorzio?”

“Eccole qua!”

“Ci sono tutte?”

“Tutte!”

Silenzio.

“Guarda che non ti fa bene bere tutta quella Sprite, Iou – Iou …”

“E perché, di grazia?”

“Perché …” e lo scorpion elargì al lionceau una poderosa manata sulla schiena, costringendolo a ruggire un poderoso …

“BBBBBUUUUUUUUURRRRRRRRPPPPPHHHHHHH!!!!!!!!!!!”

“AIOLIA! COCHON!”, ruggì indignato (e disgustato) Saga, donandogli uno scappellotto, mentre Milo gongolava malefico come un riccio.

6. 03 pm

“Bien, ragazzi, tirate fuori la motosega e decollatemi; ora ho visto tutto, posso morire tranquillo!”

“No, dai, Sasà, non essere così esagerato!”

“Esagerato? Leggi un po’ qua …”

“Oh, p’tain! Non è possibile! Pure lui! La mia infanzia si sgretola!”

“Kenshiro! Tu quoque?”

“E non solo lui: a quanto pare, pure Sampei …”

“Nuoh!”

“Oh beh, con tutti quei pescioloni in giro … non mi sorprende …”

“Nônon …”

“Invece, guarda te che sporcaccioni questi Sesshomaru e Inuyasha … ci danno proprio dentro ... ha-ha …”

“Bleah! Ma è incesto!”

“Lo troveranno conturbante, Sasà! Che ne dici?”

“Oh beh, se trovi conturbate che ti vomiti in faccia durante l’amplesso, sono a tua disposizione …”

7.29 pm

Ero ormai stufo di restarmene lì disteso sul divano: i nostri genitori e Mamie erano ritornati; avevo finito i miei compiti per la settimana successiva; eseguito i miei esercizi col pianoforte e arrivato a metà del romanzo di Joyce. Già potevo sentire il profumo della cena prepararsi in cucina. E alla domanda di Maman su come avessi trascorso il pomeriggio, mi venne a momenti voglia di piangere.

Di stizza, ben inteso, che credevate oh?

Come attirati dall’odore di cibo, tre dei cinque masnadieri fecero la loro comparsa in salotto, dirigendosi ipnotizzati alla sua fonte. Ne approfittai dunque per recarmi quatto, quatto nello studio: erano rimasti di guardia solo Milo e Rhada, quindi sarebbe stato più facile sbirciare qualcosina …

Appoggiai la mano sulla maniglia, pronto a girarla, quando udii strani fruscii e la risatina compiaciuta di Milo, la stessa che potrebbe compiere un gatto mentre gli si facevano le coccole. Avvampai immediatamente, appiccando l’orecchio al legno, avido di saperne di più.

“Non male, Milo … Davvero, non male … Proprio bello …”

“Grazie, mi lusinghi …”

“Non sono una persona che di solito elargisce tanti complimenti, però devo ammettere, che è sul serio ben fatto … lungo quel giusto, ben strutturato … e scorre che è un piacere …”, fu il sincero complimento dell’inglese, nel frattempo che io incominciavo strisciare la porta con le unghie, la mente affollata di perverse congetture su quel che stava accadendo lì dentro tra quei due …

“Dai adesso mi fai arrossire … Non è niente di che, te l’assicuro, non sono che un principiante …”

“Invece, vorrei essere io ai tuoi livelli! Hai delle buone capacità, dovresti applicarti più spesso!”

“Oh,  ma lo faccio: un’ora ogni giorno e due la domenica!”

Che?!?, pensavo imbizzarrito, saltellando su di un piede all’altro. Questa Milo me la paga, o se me la paga …

“Ne sono contento: bisogna sempre tenersi in esercizio! Hai altro da farmi vedere?”

“Oh, sapessi quanto! Aspetta, mettiti comodo, ché ora ti mostro tutto!”

Ok, tempo di uccidere lo scorpion lubrique! E la Vouivre infedele con lui!, erano i miei piani di vendetta, mentre ero costretto ad udire quei due ridersela alla grossa tra fruscii, strani rumori felpati e altri di dubbia natura.

“Allora?”, il tono di Milo pareva aver perso la sua sicurezza, diventando d’un tratto più ansioso. Sospirò a fondo, quando invece Rhada confermò:

“Unico. Sei davvero talentuoso! L’ha visto pure qualcun altro? Vedo dei segni rossi sparsi di qua e di là …”

“Certo! E’ dov’è passato Camus …”

Non resistetti più: vabbè assistere alla palese cornificazione di Kanon da parte del meco con suo fratello; vabbè ricevere la conferma di quanto lo scorpion fosse un pervers lubrique; vabbè ascoltare quell’osceno dialogo, ma essere messo in mezzo quello proprio no! Anche perché erano tutte calunnie: quel puttaniere non mi aveva fatto vedere proprio niente della sua persona!

“SALAUD! COME OSI AFFERMARE CERTE COSE SUL MIO CONTO?!? NON RENDERMI COMPLICE DELLE TUE SCHIFEZZE! ”, ruggii, aprendo la porta con un unico possente calcio e invadendo inferocito la stanza.

Silenzio imbarazzante.

“P-pa-parli sul s-serio, C-camus?”, balbettò uno stralunato Milo, sbiancato d’un colpo solo in viso, il labbro inferiore che gli tremava violentemente e gli occhi d’un tratto grandi e umidi. “E’ questo quel che pensi in realtà di quel ti ho fatto leggere? Che sia una schifezza, non è così?”, e  scappò via in lacrime (?), travolgendo quasi Kanon – già in tenuta da Saga -  che domandò confuso al meco:

“Che cos’è successo?”

E chiudendo con un gesto secco il raccoglitore ad anelli, nel quale Milo teneva tutti i suoi scritti, Rhada rispose: “Niente, a parte l’iceberg che affonda il Titanic!”, disse, cedendomi il quadernone di malagrazia e raggiungendo il perplesso compagno.

Milo non si presentò né a cena, né scese in salotto per tutto il resto della serata.  E bravo Camus! Ancora una volta avevi pigliato fischi per fiaschi! Almeno, me ne fossi stato zitto! O se fossi entrato come un cristiano, magari prima bussando! Che mi era preso in quell’attimo? Roso dal rimorso, ripetei a mente la folle sequenza, immaginando innanzitutto, un finale migliore, se non avessi agito come un cretino e in secondo luogo, congetturando mille e più modi per scusarmi col mio fratellastro, ma nessuna di queste pareva abbastanza convincente per riparare al danno da me sconsideratamente compiuto.

Dopo l’incidente in auto, nel quale persero la vita la madre e la sorella, il trauma cranico riportato da Milo gli creava una certa difficoltà a memorizzare informazioni presenti, senza però compromettere i ricordi passati, in quella che i medici chiamano “amnesia post-traumatica anterograda”. Così, durante la riabilitazione, il medico gli aveva suggerito di tenere una sorta di diario nel quale riportare tutti i suoi pensieri e le azioni compiute nel corso della giornata. Col passare del tempo, Milo ci prese così gusto, che abbandonò le sue cronache giornaliere per dei brevi raccontini, ora in francese, ora in inglese e qualcuno lo aveva tentato pure in tedesco. Era il suo segreto, però. A nessuno dei suoi fratelli aveva mai fatto leggere i suoi scritti o almeno questo fu quello che mi disse la prima volta, che mi presentò il pingue fascicolo. Voleva sapere la mia opinione, quella fu la sua scusa. E devo ammettere, che mi piacquero moltissimo, tant’è che in quelle occasioni in cui mi presentava un suo nuovo racconto, lo divoravo in pochi istanti, anche in classe se era per quello. Non avevo mai pensato, che fossero delle schifezze. Invece, grazie al mio fenomenale tatto da iceberg, gli avevo reso un grave torto.

“Qui finisco io”, affermò  ad un tratto Rhada, mentre mi aiutava a sparecchiare. “Tu vai a scusarti!”

Annuii – che altro potevo fare? – grato all’inglese di avermi suggerito un’iniziativa, che altrimenti non sarei riuscito a prendere da solo. Salii le scale, bussando poi alla porta della camera di Milo, il quale ovviamente non mi rispose, né m’invitò ad entrare, costringendomi ad autoinvitarmi.

A parte il buio avvilente, la sua stanza era un macello di carte strappate, appallottolate e sparse per il pavimento assieme ai cassetti dei vari mobili. Il vecchio baule del padre giaceva rovesciato e tutto il suo contenuto doveva essere stato lanciato con rabbia in ogni angolo della camera. Quanto alla scrivania, pareva che una folata di vento – o un braccio furente – avesse spazzato via ogni oggetto, buttandolo ferocemente per terra.

Il fautore di simile cartaceo macello se ne stava seduto rigido sul letto, voltandomi sdegnoso le spalle non appena entrai nella sua stanza.

“Non occorre che ti scomodi a spiegarmi quel ch’è successo”, mi sputò velenoso. “Sei stato chiarissimo!”e si rinchiuse di nuovo nel suo rancoroso silenzio, lo sguardo fisso alla finestra.

“Mi dispiace, non volevo …”

“… dirti che quel che scrivo fa schifo? Non occorre che ti giustifichi, hai detto la tua opinione, perché dovrei prendermela?”, sibilò, martoriandosi le nocche delle mani.

“Per favore, lasciami finire. Io non mi sono mai azzardato a giudicarle misere, anzi, le ho sempre gradite!”

Milo alzò gli occhi, osservandomi attraverso il riflesso del vetro della finestra. “Bugiardo! Lo dici solo per ammansirmi! Per sentirti in pace con te stesso! Eppure, ti avevo chiesto di essere sin dal principio sincero, non ti prendermi per i fondelli!  Mi hai mentito! Sei stato disonesto! Dicevi una cosa, pensandone un’altra, una vigliacca pugnalata alla schiena! L’ho mai fatto io con te, quando mi chiedevi un parere col pianoforte?”

“No, Milo. Quando suonavo male, me lo segnalavi”, convenni piano. “Per favore credimi: le mie non erano distratte adulazioni …”

“Sul serio?”

“Oui.”

“Giuralo! Giuralo sulla vita di tuo nonno! Che possa crepare in questo stesso istante, se dovessi mentirmi!”, la voce del ragazzo era fredda e dura, provocandomi seri brividi freddi lungo la schiena. Deglutii a fatica: lui sapeva, quanto affezionato fossi a quella persona, che non vedevo da molti anni e che l’unica relazione vigente tra di noi era epistolare.

Alzai due dita al cielo, preparandomi al giuramento. “D’accord, lo giu- …”

“Non giurare!”, il repentino cambiamento d’idea e d’umore di Milo mi fece trasalire violentemente. L’adolescente si voltò verso di me, lo sguardo afflitto, pentito della cattiveria gratuita cui mi aveva sottoposto. Si passò stancamente una mano sugli occhi arrossati, domandomi poi con calma: “E allora? Per quale motivo sei entrato in maniera così vandalica in studio, berciando offensive assurdità?”

Abbassai il capo, vergognoso di esternargli le mie intime ragioni, poiché esse erano state stupide, egoiste e puerili, io per primo ne ero disgustato e temevo che anche lui le avrebbe giudicate allo stesso modo. “Ecco io … io … credevo che tu …”

“Che io cosa?”

“Che tu … con Rhada …”, capitolai in un flebile sussurro e arretrando spaventato, quando Milo si mise in piedi in un brusco e violento gesto, fronteggiandomi furente, gli occhi due pozze di lava bollenti. Era mortalmente pallido in viso, i cui muscoli erano tesi allo spasimo - come quelli del collo del resto; digrignava i denti simile ad un animale feroce, mentre il lividore delle sue nocche dimostrava quanto si stesse forzando dal trattenersi dal colpirmi con un pugno.

“Ah! Ai tuoi occhi sarei dunque così meschino?”, mormorò pianissimo, sebbene gli costasse fatica a detta del veloce sollevarsi del petto. Avanzò piano, fermandosi tuttavia all’ultimo a metà strada, riprendendo: “Sul serio credevi, che fossi abbastanza amorale da sedurre il fidanzato di mio fratello, con lui a qualche metro dallo studio? Da compromettere la loro felicità per due minuti di ginnastica?”, berciò schifato, seppur sempre a bassa voce. “Mi trovi così infame? Mi consideri talmente depravato da scoparmi il primo o la prima che capiti? Per te non sono altro che una puttana, vero? Eh? Avanti dillo, so che lo pensi!”

“No, non è così! Io … avevo solo timore che …”

“Che Kanon lo scoprisse?”, rise gutturalmente il ragazzo. “Ma và! A te non importava un ficco secco di lui! Oppure” e i suoi occhi luccicarono d’insana malizia “sei tu che hai puntato Rhada?”

“No!”, protestai, scuotendo con veemenza il capo. “Non ho mai avuto simili intenzioni su di lui …”

Ignorandomi, Milo continuò crudelmente: “Uhm, non ti posso dare torto: monosopracciglio a parte, è davvero una persona a modo, seria, composta, affidabile … e anche ricca … sì, un bel partito davvero … hai buon gusto, pingouin …”

“Non ho bisogno di essere mantenuto da chicchessia!”, mormorai flebilmente, sentendo le lacrime pizzicarmi gli occhi. Perché doveva infierire in quel modo? Già di mio ero roso dal rimorso per la mia azione sconsiderata, ora doveva pure umiliarmi? Infondo, però, sapevo che me lo meritavo: invece, di fermarmi a riflettere, ero giunto precipitosamente alle conclusioni sbagliate. Non mi capitava mai, però, solo con quel ragazzo.

 E la cosa mi terrorizzava.

“Sicuro? A me pare invece un vizio di famiglia, specie per quanto riguarda tua Ma - …”

Alzai rapido il capo, intrecciando i nostri sguardi acciocché potessero conversare loro al posto delle nostre sciocche lingue; loro erano di certo più savi. Sapevano cosa dirsi. E il mio lo supplicò di non accennare a quell’argomento, di non infliggermi quel colpo a me mortale: se voleva sminuirmi, insultarmi, che lo facesse pure, ma criticando me e me solo.  Lo implorai di non emulare Sansone, trascinando tutti i filistei con lui nel disperato e suicida desiderio di vittoria. 

I suoi occhi accettarono la mia preghiera. “Va t’en!”, m’intimò, mordendosi a sangue la nocca destra, muovendosi per la stanza con lo stesso nervosismo di una belva in gabbia. “Va t’en, vattene via, prima che riesca a dirti o farti cose di cui mi potrei subito dopo pentire! Va t’en!” e di malagrazia mi spinse fuori dalla sua camera, chiudendo la porta a chiave.

Rimasi interdetto e imbambolato davanti al legno, contemplando ogni venatura, ogni curva. Dovette arrivare Aiolia e chiedermi che diavolo stessi combinando lì impalato per ridestarmi dal torpore mentale, nel quale ero caduto. Risposi qualcosa di vago, in automatica, sentendomi d’un tratto stanco e vuoto. Preoccupato, il lionceau mi accompagnò nella mia stanza, aiutandomi a coricarmi.  Simile ad una marionetta senza fili, obbedii docilmente alle sue attenzioni, augurandogli un morto “Bonne nuit”, quando il ragazzo uscì dalla stanza, onde lasciarmi dormire in pace.

Invece, mi girai su di un fianco, fissando i numeri digitali della mia sveglia.  E solo allora, nel momento in cui la pelle del viso venne a contatto con il tessuto umido del cuscino, mi resi conto che stavo piangendo. Una silenziosa emorragia di lacrime.

Sono uno stupido … un insensibile … un egoista … un ignorante … un debole … un ipocrita … so solo ferire e  imbarazzare chi mi sta attorno … non servo a niente …

Con simile ritornello mi torturai incessantemente, secondo dopo secondo; minuto dopo minuto; ora dopo ora, impedendo di conseguenza che il sonno ristoratore mi alleviasse dalla pena che mi affliggeva. Da una parte, anelavo a quell’annullamento, dall’altra temevo che il mio subconscio mi avrebbe tormentato ulteriormente con incubi e rielaborazioni terrifiche. Rimasi dunque in quella stasi per chissà quanto tempo, tenendo ben spalancati gli occhi, anche se del tutto inutili, poiché la mia vista era annacquata dalle lacrime.

Fu quindi il mio udito ad annunciarmi la visita notturna dell’ospite, del mio ospite. Non appena riconobbi la sua svelta figura, balzai seduto, incredulo e allo stesso tempo contento di trovarmelo lì davanti a me, ai piedi del letto. Avanzò di qualche passo lieve e felpato, portandosi più vicino.

“Je t’hais!” (ti odio, ndr.), mormorò roca la voce di Milo. Che anche lui avesse pianto?

Scostai le lenzuola, sporgendomi in avanti, onde afferrare delicatamente il suo polso. “Je le sais!” (Lo so, ndr.), dissi, trascinandolo con dolcezza sul materasso. Il ragazzo si lasciò fare, non oppose resistenza alcuna.

“Je t’hais du fond de mon cœur!”, sottolineò, accarezzandomi la guancia con la punta delle dita, scrutandomi pensoso con quei suoi occhi così ambigui, sibillini. Posò castamente le sue labbra sulle mie, quasi fosse l’eterea e soffice piuma di un angelo a sfiorarmi e non mortale carne e sangue.

“Moi aussi !”, sospirai, nascondendo il viso nel suo petto, affondando le unghie tra le pieghe del pigiama e baciando là dove quel ribelle e indecifrabile cuore batteva la chamade. Mi rifugiai nel suo abbraccio, stringendolo forte a mia volta; le nostre braccia e gambe intrecciate come il sacro mirto di Venere il giorno dell’imeneo.

E lì trovai la mia pace, cullandomi verso un sonno col sorriso a fior di labbra.

 

***

 

“GYAH-A-AH! GYAHYAHYAHYAHYA!!!!”

Un urlo a dir poco bestiale mi destò brutalmente dai miei sogni, costringendomi a balzare seduto sull’attenti, guardandomi ansiosamente intorno. Forse me l’ero sognato, pensai, percependo nient’altro che silenzio. Al contrario, trovai la mia conferma in un secondo ululato, persuadendomi a destare Milo, scuotendolo delicatamente.

Il ragazzo si puntellò sui gomiti, stropicciandosi assonnato gli occhi e reclamando in sconnessi bofonchiamenti spiegazioni per quello sgradito risveglio. Il terzo grido rispose per me.

Milo ascoltò attento, gettando poi indietro  il capo e sogghignando con ilarità . Certo, che di tutte le reazioni, quella era la più inaspettata. Vabbè che lui era contorto di natura, però …

“Torna a dormire, è Aiolia che ha gli incubi!”, mi spiegò lo scorpion tranquillamente, coprendomi ben bene con le coperte.  E di fronte alla mia espressione interrogativa circa le probabili cause (film dell’orrore? Digestione difficile?) lui rispose sorridendo, dopo avermi schioccato un altro bacetto: “Non ha retto al Mpreg!”, fu la sua enigmatica risposta, gli occhi lucenti di pura birbanteria.

“Uhm?”, feci perplesso e allo stesso tempo curioso, guadagnandomi un terzo bacio per non inquisire oltre.

“Sono incintooooooooohhhhhhhh!!!”, fu la pronta e più che esauriente risposta.

Fu troppo per Milo: nascondendo il viso nell’incavo della mia spalla, esplose in una portentosa risata, che ebbe lo sfortunato effetto di svegliare il lionceau, portandocelo furente in camera nostra col cuscino in mano.

Et bellum fiat.

 

 

 

To be continued …

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Deve essere il clima, o la gemella malvagia depressa,  ma non so perché quest’ultima parte seria. Non era prevista! Doveva essere completamente diversa! E invece, niente. L’angst ha vinto. Per un attimo, però …

Ci vediamo tutti al prossimo capitolo! Ciao!

 

Un po’ di noticine:

 [1] “Chiamatemi Ismaele” o “Call me Ishmael” è l’incipit del romanzo “Moby Dick”(1851) di  Herman Melville con il quale il narratore si auto-presenta, dando il via alla digressione degli eventi narrati.

[2] Kleftes. Letteralmente significa “Ladri” (dal verbo greco klépsei, rubare). Durante la guerra d’indipendenza greca (1821-1832), questo era il nome dei “partigiani” greci, i quali con tecniche di guerriglia compievano rapide azioni di disturbo contro i dominatori ottomani. A loro si unirono in seguito gli Armatolì, l’equivalente dei repubblichini italiani, ovvero una milizia di cittadini greci concepita con l’incarico di combattere i Kleftes. Infatti, sebbene gli ordini fossero di sterminare i Kleftes, gli Armatolì finirono per collaborare con loro, divenendo utili alleati e formando con essi un unico compatto corpo di resistenza.

 

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Capitolo 12
*** À la recherche du Yaoi perdu! - seconda parte ***





Koukou à tous!

Rieccomi qua con i capitoli fiume, che vi piacciono tanto – record assoluto: 51 pagine.

Sapete, questo per me è stato il capitolo più difficile da postare, non per problemi tecnici, bensì per certi argomenti. Vabbè, per l’argomento. Lo Yaoi. Argh … Spiegarlo non è stato facile e forse qualcuno di voi incomincerà ad odiarmi dopo aver letto il capitolo. Mi prendo il rischio comunque, per una bella risata e magari per attrarre qualcuno al Lato Oscuro dello Yaoi … *risata demente* … Il mio timore è che questo capitolo venga considerato l’apologia dello Yaoi, quando in realtà si basa sul volenteroso tentativo di quattro affezionati fratelli di spiegare al più inesperto del clan cosa sia il boyxboy senza scivolare nello sbrigativo e prosaico: “E’ un manga in cui X se la fa allegramente con Y”.

Poi, ognuno tragga le sue conclusioni, io ho la coscienza a posto.

Ringrazio, quindi, i numerosi lettori e i miei recensori, tutti dotati di un’infinita pazienza nel sopportare i miei svarioni mentali e soprattutto l’attesa per idearli e scriverli.

Un grazie quindi a : Diana924 ; Titania76; Tifawow ; Ashar (benvenuta!); ArcadiaLaNotte; Charm_ Strange (P.S. E i polaretti? Me li porti? ); Angel_Dark_Light; _ Ignis _ (benvenuta!) Sagitta72 ; e Eno!

Adesso che Hoel ha scoperto come funzionano le recensioni-risposta potrò replicare ai vostri bellissimi commenti! (Hoel è un po’ tarda con le nuove tecnologie, ci ha messo un botto di tempo solo a capire come si mettesse l’Avatar …)

Infine, dedico questo capitolo sia a tutti coloro che adorano lo Yaoi, sia a tutti coloro cui non piace. Il mondo è bello perché è vario e io vi voglio bene lo stesso.

Detto questo, buona lettura!

Votre

 

H.

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La giornata incominciò subito male.

La vecchia pendola del salotto annunciò tediosa le nove del mattino, invitando con la sua voce stentorea gli abitanti della casa ad uscire dalle loro calde tane e a prepararsi alle attività diurne. Solo due persone risposero al suo insistente appello: Mamie, per la passeggiata mattutina con Fred e Saga, per prepararsi di nascosto un bel tazzone di caffè, approfittando della momentanea assenza del proprio cane da guardia – Kanon – dal mondo dei coscienti.

Niente, quindi, avrebbe dato a credere che quella domenica d’Avvento trascorresse diversamente da tutte quelle degli anni scorsi, almeno questa era l’illusione finché Mamie aprì la porta della cucina, apprestandosi ad uscire col cane.

“Gyahou!”, fu il richiamo più convincente a buttarci giù dal letto, rispetto a quello della pendola. Non accadeva spesso, infatti, che Mamie urlasse, se non per una buonissima ragione: l’ultima volta che gorgheggiò fu in occasione di una visitina dei testimoni di Geova, che le avevano annunciato il prossimo arrivo dell’Apocalisse. Questo, una settimana prima che Maman ci annunciasse il suo fidanzamento con M. Christophe.

Profetico.

Maman ed io fummo subito sul posto – family obligation, come si direbbe in inglese – seguiti poi da M. Christophe per ovvi motivi coniugali in via di sviluppo e i suoi pargoli, seppur con tutta la calma del mondo. L’ultimo a presentarsi fu un Aiolia dalle occhiaia così nere da sembrare un panda e di fatti, ne approfittò per appoggiare la sua testa sull’incavo della spalla di Milo, addormentandosi poi in piedi come i cavalli. Le pauvre! Tutta la notte a sognare di partorire cinque gemelli! Che fosse stato l’effetto dello strano progetto del pomeriggio scorso? Uhm …

In ogni modo, non appena raggiungemmo la cucina, fummo deliziati dalla vista di Saga simil San Bernardo che spalava via la neve da Mamie, la quale giaceva prona con le braccia aperte.

“Neige?”, domandò piano Kanon, arrischiandosi a mettere fuori la testa, dopo che il gemello e il padre ebbero trasportato una sballottata Mamie dentro casa, riempiendole un bel bicchierone d’Armagnac. “Putain!”, esclamò poi, arretrando in un balzo acrobatico  e prontamente acchiappato dal suo meco, prima che cadesse per terra.

Kanon aveva ogni diritto di esternare la sua sorpresa, poiché innanzitutto una seconda mini valanga di neve cadente dal tetto stava per reclamare il suo coppino – come molto probabilmente era successo a Mamie – in secondo luogo, giacché il giardino spoglio e secco, da cui ci eravamo congedati la sera scorsa, si era ora trasformato in uno di quei silenziosi e ovattati paesaggi innevati, che si vedevano nelle cartoline di Natale.

“Bordel …”, rincarò la dose Milo, sbattendo incredulo gli occhi.

Lasciatemi spiegare, ora, il motivo di tale disorientamento. Vedete, il clima dell’Aquitania era un misto tra quello oceanico – si affacciava sul Golfo di Biscaglia – e quello mediterraneo. Di conseguenza, i suoi abitanti si ritrovavano un autunno ed un inverno piuttosto mite, seppur caratterizzato da orribili venti atlantici, le surois del sud-ovest e le noroit del nord-ovest, e precipitazioni a gogò da ottobre fino a dicembre. Riassumendo, bisognava raggiungere i Pirenei, se si voleva vedere un po’ di neve! Ma qui, mai caduta così abbondante!

Quelle est belle …, pensavo mentre, in ginocchio, giocherellavo con i gelidi fiocchi caduti al suolo. Adoravo la neve e con essa l’inverno; trovavo il freddo portatore di calma, di raziocinio e serenità. Mi rassicurava, ecco. Per questo, avevo sempre amato le vacanze di Natale e la settimana bianca in montagna; tutto di lei m’inebriava, dall’odore dei pini mescolati al profumo quasi metallico del gelido vento, al sole che si rifletteva attraverso piccoli diamanti sulla neve. E sulle piste da sci, là in cima, dopo aver lasciato che dei pazzi scatenati mi sorpassassero, mi sistemavo in un angolino in disparte, assaporando il silenzio e contemplando il vasto panorama che si estendeva a perdita d’occhio sotto di me, pensando quanto sarebbe stato bello poter rimanere lì al sicuro, riparato dal mondo. In quei momenti, capivo il motivo per il quale gli eremiti solevano rifugiarsi nelle montagne e come si poteva dar loro torto, del resto? Al di sopra di ogni cosa, inattaccabili, irraggiungibili, ma non per superbia o orgoglio, bensì per ripulirsi da quel fango di cattiveria e malizia che molto spesso ci corrompeva e ci corrodeva. Ma lì, in alto,  vi era solo neve, rocce e il cielo infinito.

Par contre, fino a qualche tempo fa temevo il caldo, l’aborrivo. Era il simbolo stesso dell’ambiguità, dell’irrazionalità, quel vapore maligno che s’insinuava tra i vestiti, tra la pelle, costringendo alle azioni più impensabili e spesso contraddittorie. Incendiava le vene, annebbiava la vista, seccava la gola, confondeva la mente. Uno stordimento amoroso … E il mare … Oh il mare … Mai da piccolo amai le vacanze estive, per me era una croce trascorrerle al mare, per quanto fosse un espresso desiderio di Mamie; ma lei, lei ci era abituata, sin dalla sua infanzia lei  aveva sempre dialogato con lui, nella buona e nella cattiva sorte. Il mare … Di notte, potevo sentire quell’incessante sciabordio, quell’eterno va e vieni, un invito a rincorrerlo, come se dicesse: “Io sono qui e ti vengo incontro, ma ora tu a tua volta mi dovrai seguire!” Insieme al caldo, quei due sposi terribili rendevano insonni le mie notti.

Ma ora, le mie percezioni su di loro si erano inspiegabilmente alterate: per motivo a me oscuri, il caldo da me sempre trovato soffocante divenne vita, carne e sangue. Divenne presenza. Mentre il freddo un dì amato equivalse a panico e vuoto. A solitudine.

Pourquoi ça?

“Viens!”, sentii la voce di Milo richiamarmi dalle mie elucubrazioni, accompagnata dal tepore della sua vestaglia, dalla quale  il ragazzo si era congedato pur di riscaldarmi. “Je ne veux pas que tu prennes froid, Ionesco! Au moins que tu n’aimes pas tout à coup la Doliprane!” (Vieni, non voglio che tu prenda freddo, Ionesco ! A meno che tu non ti sia innamorato all’improvviso della Doliprane ! , ndr. ), scherzò, afferrandomi per le spalle e conducendomi dolcemente verso la cucina. Docile, mi lasciai fare, anzi, sorrisi lieve alla battuta, accettando senza tante storie il tazzone di latte caldo col miele offertomi da Saga, mentre Kanon ne approfittava per rifilarmi a tradimento una fetta consistente di torta alla carota.

“Mi domando ora come la trovo la sua tomba …”, pensò Mamie a voce alta, ingoiando l’ultimo pezzo di dolce e ponendosi subito in piedi. “A proposito”, chiese, indicando col capo Rhada. “Viene anche a lui alla funzione?”

“Grand-mère”, rispose piano Kanon, usando tutta la sua diplomazia o arte della dissimulazione, che a dir si voglia, “Rhada è protestante …”

Imperturbabile, l’augusta avia replicò: “Ah ouais? E che protesta a fare? Che Ratzinger sia Papa? Mince, dopo 492 anni ancora ha qualcosa da ridire?”

“A dire il vero, Mamie”, specificai, giusto per essere puntigliosi sulla natura del credo del giovane anglosassone. “Sarebbero 475 anni! Enfin, l’act of supremacy di Enrico VIII del 1534…”

“Grand’uomo!”, fischiò Mamie piena di sarcasmo “Mangiava e scopava dalla mattina alla sera e poi si dichiarava capo della Chiesa anglicana, accusando i Papi di Roma di fare lo stesso … tzé! Vieille boule de souif …” (Vecchia palla di grasso, ndr. ) E rivolgendosi seriamente a Rhada, gli domandò curiosa: “Che poi non ho mai capito una cosa su voi anglicani: vi dite cattolici, ma non romani; protestanti, ma non riformati. Enfin, che diavolo siete?”

Questione, cui il biondo replicò calmo, quasi con sorriso a fior di labbra: “Madame, se mi fosse mai venuta voglia di risolvere simile dubbio, a quest’ora non starei di certo studiando giurisprudenza, bensì teologia! Néanmoins, ormai è da tanto che non frequento una funzione … Kanon ha avuto ottime argomentazioni per desistere dal continuare …” e si trincerò dietro la tazza fumante di the e latte. Le argomentazioni in questione consistettero nell’aver portato seco il sopracitato papista ad una funzione anglicana, onde riportarlo sulla retta via. Peccato che, dopo il primo quarto d’ora di preghiere e inni, Kanon non avesse retto ai rimanenti trequarti di solo sermone, crollando di brutto sulla spalla di Rhada e incominciando a ronfare alla grossa, inumidendogli il giaccone di bavette. E così, più che mille e ben formulate tesi contro la riforma poterono i ronfamenti del gemello minore a dissuadere l’inglese a ripresentarsi nella chiesa of Saint Mary the Virgin, più che altro per la vergogna provata, che per una vera e propria personale conversione. In ogni modo, da allora dovette ripiegare sulla cattolica Saints Edmund and Frideswide per la pace comune della casa, giacché, per quanto solida fosse stata la sua educazione religiosa, Rhada non aveva alcunissima intenzione di martirizzarsi ogni domenica mattina a causa dei due papisti rompiballe, che si era ritrovato, il primo come inquilino e amante; la seconda come cugina.

Amen.

“Beh, semmai volessi convertirti”, si offrì Mamie battendosi il petto “sono disponibilissima a farti da madrina!”

“Sarebbe un grande onore davvero”, la ringraziò Rhada, sorprendendoci tutti per la sua pacatezza. Invece, si poteva vedere con occhi più attento, quanto la cosa lo scuotesse, a giudicare dal ridacchiare di Kanon e dal rosso cremisi delle sue orecchie.

Mamie grugnì soddisfatta, liberando il suo posto e recandosi in camera sua per pigliare le ultime cose, prima di partire alla volta della chiesa. “E qualcuno risponda al telefono!”, ci urlò dal salotto, prima di eclissarsi del tutto.

A uscire volontario fu Kanon, spinto dal vendicativo meco, colpevole ai suoi occhi di essersi messo a starnazzare a momenti dopo quel piccolo dibattito teologico. E, ancora asciugandosi le lacrime, alzò la cornetta, rispondendo a singulti: “Âllo? Ici famille Valavitis-Molinier à l’appareil, bonjour!”(Pronto ? Qui famiglia Valavitis-Molinier al telefono, buongiorno ! ndr.)

“C’est ici qu’habite M. Camus Molinier ?” (E’ qui che abita M. Camus Molinier ?, ndr.)

“Oui, est-que je vous … ”(Sì, ve lo …, ndr.), ma prima che Kanon riuscisse a passarmi la cornetta, il tipo dall’altra parte prese quasi ad urlare simil invasato :

“Je t’encule Molinier ! Je te prends, je te retourne contre le mur, je te baise par tous les trous, je te défonce ! Je te la ferais sucer jusqu’au tu n’auras plus de salive dans ta gorge ! Parce que tu aimes ça, hein, p’tite poule lubrique !”(T’inculo Molinier ! Ti prendo, ti giro contro il muro , ti bacio in tutti gli angoli (lett. buchi), ti sfondo! Te lo faccio succhiare finché non avrai più saliva in gola! Perché ti piace, vero, piccola puttanella lasciva!, ndr.)

I cinque giovani lì presenti osservarono molto perplessi il mondo in cui il sopracciglio del gemello minore si fosse arcuato maligno, sebbene la linea della sua bocca avesse assunto una piega terribilmente seria. Infatti, essendo i miei fratellastri e Rhada lontani da Kanon, essi si domandavano confusi il motivo di quell’espressione così severa in quel pagliaccio umano; io, che al contrario gli ero accanto, avevo ascoltato tutto, arrossendo fino a squagliarmi per la vergogna.

Senza scomporsi e gelido come i venti della Manica, Kanon replicò senza particolare entusiasmo, sempre rifiutandosi di cedermi la cornetta, malgrado le mie tacite suppliche. L’ultima cosa che volevo, era che Milo venisse a conoscenza anche solo del più piccolo dettaglio di quello schifoso e vigliacco abuso verbale. E non perché mi stesse a cuore la sorte di quel deficiente al telefono, bensì la sua : per nulla al mondo desideravo, che si mettesse nei guai per causa mia.

“Très poétique, monsieur, très poétique vraiment ! J’suis sûr que son fiancé sera simplement ravi de l’apprendre ; j’ai hâte de lui communiquer l’existence d’un autre prétendent aux fesses de son cher pingouin   …”(Molto poetico, signore, davvero molto poetico ! Sono sicuro che il suo fidanzato sarà semplicemente deliziato d’apprenderlo; sono impaziente di comunicargli l’esistenza di un altro pretendente al sedere del suo caro pinguino … ndr.)

Silenzio.

“Attends !Tu n’es pas Molinier, toi ?”(Aspetta ! Tu non sei mica Molinier ?, ndr.)

“Evidemment, non !”(Evidentemente no !, ndr.)

Altro silenzio. Poi, il cretino riprese a berciare più forte di prima.

“T’es Kanon, l’autre pédé de la famille par hasard? Veux-tu être sodomisé à sa place ? Hé-hé ! Famille de perverses chiennes en chaleur! ” (Sei per caso Kanon, l’altro gay in casa ? Vuoi essere sodomizzato al suo posto ? Ah-ah ! Famiglia di pervertite cagne in calore !, ndr. )

Il gemello minore ridacchiò gutturalmente, inclinando un poco il capo, quando uno si preparava ad elargire il cazzotto finale. “Votre fantaisie est surprenante, monsieur, les gosses de l’asile ont plus d’imagination.  Néanmoins, espèce de tête de nœud pleine de merde, laissez-moi dire que oui, j’suis un pédé, j’encule et je me fais enculer par mon p’tit ami toutes les fois, que j’en envie avec le plus grand de plaisir. Et ça ne m’empêche pas d’être un bon citoyen de la République et de vivre honnêtement. Si donc vous avez quelque chose contre les homosexuels, je vous fais mes sincères condoléances! De plus, je vous conseille vivement de noyer votre merdique tête homophobe dans les chiottes sans oublier la chasse d’eau,  pot de couille mal poli! Tout ça, en vous faisant enculer par votre père, lequel j’ai justement sodomisé la semaine derrière. Adieu et bonne journée ! ”  (La vostra fantasia è sorprendente, signore, i mocciosi dell’asilo hanno più immaginazione. In ogni modo, specie di testa tarata piena di merda, lasciatemi dire che sì, sono un gay, che inculo e mi faccio inculare dal mio fidanzato tutte le volte che voglio col più grande piacere. E ciò non m’impedisce di essere un buon cittadino della Repubblica e di vivere onestamente. Se quindi avete qualcosa contro gli omosessuali, vi faccio le mie più sentite condoglianze! Inoltre, vi consiglio vivamente di affogare la vostra merdosa testa omofoba nel cesso senza dimenticare lo sciacquone, maleducato vaso di merda (lett. coglioni)! Tutto questo, facendovi inculare da vostro padre, il quale per la cronaca ho sodomizzato proprio la settimana scorsa. Addio e buona giornata!, ndr.), gli augurò mieloso Kanon, riattaccando con fermezza la cornetta e dirigendosi flemmatico in cucina, le mani ben calate nelle tasche dei pantaloni.

“Chi era?”, s’informò subito Aiolia, eleggendosi a portavoce del gruppo: se, infatti, erano sfuggite loro le parole del tizio al telefono, quelle di Kanon furono udite assai chiaramente.

“Un ammiratore!”, rispose tranquillo il gemello minore, riprendendo la sua tazza di the e latte e sorseggiando placido il caldo liquido, i suoi occhi tuttavia ben puntati contro di me. “Da quanto tempo va avanti, Momus?”, si decise a chiedermi infine, appoggiando la chicchera con studiata lentezza.

Abbassai colpevole lo sguardo, arrivando a momenti a non respirare più. Come … come diavolo aveva intuito, che non era la prima volta?

“Cosa?”, chiese disorientato Milo, afferrandomi per un braccio e scuotendomi leggermente. “Cosa?”, ripeté, innervosendosi per via del mio ostinato silenzio. Così, fu Kanon a parlare al posto mio:

“Lo sai, Milou, che il caro piccolo Momus ultimamente riceve delle deliziose chiamate da un certo suo ammiratore, nelle quali quest’ultimo gli illustra le ultime posizioni del Kamasutra per pédés?”, fu la sua succinta replica, incrociando le dita sotto il mento.

“Kanon!”

“Dico solo la verità, Sasà, non giochiamo ai sempliciotti: dei cons senza cervello ti chiamano giusto per offenderti pesantemente, o mi sbaglio Momus?!”

“Perché non me l’hai detto?”

“Eh, Momus?”

Intrappolato, non trovai altra via di fuga, che quella d’alzarmi e rifugiarmi nella mia camera, prontamente inseguito da Milo e dai commenti di Saga al gemello: “Nonon, espèce de sauvage!”

“Mon oeil, Sasà! È grande abbastanza da capire che certe ordures non vanno tenute nascoste!”, sbottò imbronciato, riconcentrandosi sui suoi biscotti.

 

“Allons, Ionesco! Ouvre cette maudite porte!”(Eddai, Ionesco! Apri questa maledetta porta!, ndr.), berciava Milo, martellando feroce la porta di pugni e muovendo convulsamente la maniglia.   E a giudicare dai sinistri cigolii, ancora qualche spallata e sul serio lo scorpion me la sfondava. “Ne l’écoute pas! Nônon est un con, il …” (Non ascoltarlo! Kanon è un coglione, lui …, ndr.)

“Ce n’est pas sympa de parler ainsi de ton frère, Milou …”, (Non è molto simpatico parlare così di tuo fratello, Milou …,ndr) lo rimproverò M. Christophe, raggiungendoci, di sicuro attirato dall’infernale baccano generato dal suo terzogenito maschio. “Alors, qu’est-ce qu’il passe ici?” (Allora, che succede qui ?, ndr.), s’informò poi, dopo che Milo si fosse ben calmato, desistendo dal proposito di buttar giù la porta della mia stanza.

“Iones- ehm … Camus ne me laisse pas entrer dans sa chambre ! Il a même  fermé à clé sa porte !” (Iones- ehm … Camus non mi lascia entrare nella sua camera ! Ha perfino chiuso a chiave la porta !), si lagnò, gettando un ultimo pugno pieno di frustrazione contro lo scuro legno.

L’uomo annuì, bussando con più creanza. “Momus, apri la porta e parliamone con calma !”, m’invitò a trattare M. Christophe, offerta cui declinai, con un poderoso:

“Non !”

“Guarda che se non la apri, brucio tutti i tuoi spartiti di pianoforte !”, mi ricattò allora senza tanti giri di parole e molto poco political correct, se non addirittura per niente. 

“Non! Pas ça!”, feci finta di capitolare, girando lentamente la chiave nella serratura, per lanciare poi il mio astuccio contro il mio patrigno non appena si presentò in camera. Invece di colpirlo, il proiettile di fortuna cadde nel vuoto, dandomi occasione di mostrarmi gli ottimi riflessi di M. Christophe, che si abbassò con la stessa velocità di una molla.

“Oulà! Che mi combini, matto?”, domandò leggermente alterato l’uomo, più per la sorpresa, che per vera e propria rabbia. “Adesso lanci gli astucci a tuo padre?”

Fu troppo per la mia mente in subbuglio. Mi voltai di scatto, fulminandolo cogli occhi e proferendo parole, che neppure pensavo sul serio, ma che l’umore maligno dell’ira creava appositamente per ferirsi a vicenda, quando non si avevano altre argomentazioni che l’insulto per far valere le proprie idee.

“Tu n’es pas mon père!”, berciai velenoso, “Non lo sei e non lo sarai mai ! Non sei nessuno! Solo un tizio, che mia madre ha raccolto dalla strada! Non hai alcun diritto di dirmi cosa devo o non devo fare! Va au diable et fiche-moi la paix!”

M. Christophe incrociò ineffabile le braccia al petto, arcuando quasi interessato il sopracciglio. Poi, levandosi gli occhiali, disse semplicemente: “Très bien” e avanzò con passo sicuro verso di me, un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.

D’istinto, indietreggiai, levando le mani per proteggermi la testa.

Ne me frappe pas, père! S’il te plaît ! J’serai bon ! Non voglio le botte !

Aspettai coi nervi tesi allo spasimo il  colpo, che però non arrivò. Al contrario, fui sollevato come un sacco di patate e trasportato sulle spalle dal mio patrigno, sornionamente indifferente alle mie proteste. “Mettimi giù, hai capito brutto bastardo? Lasciami andare! Ora, subito!”

“Sicuro, lo farò nel mio studio!”, replicò quegli flemmatico. E rivolgendosi al figlio: “Milo, torna dai tuoi fratelli; Camus ed io dobbiamo fare quattro chiacchiere tra gentiluomini, d’accord?”

“Mon oeil! Non voglio parlare con te!”, digrignai i denti, incominciando a battere i pugni sulla schiena dell’uomo pur di costringerlo a mettermi coi piedi per terra.  Invano: pareva di colpire una roccia. Evidentemente, se quello era il suo metodo speciale per interviews a quattr’occhi coi suoi pargoli, beh, moltiplicandola per cinque doveva averne fatta di palestra nel corso degli anni.

“Ouais, ouais! Dicono tutti così … E a proposito, cosa sono questi pugnetti striminziti vestiti d’infante? Tzé, credevi d’impressionarmi cecchinandomi coll’astuccio? Dovresti inventarti qualcosa di meglio! Ha-ha, mon enfant, quattro garçons ho allevato e ti posso assicurare, che ho avuto ben modo di conoscere tutte le manifestazioni delle varie  paturnie della psiche maschile!”, scherzò, sistemandomi su di una morbida poltrona, una volta che raggiungemmo lo studio. “Allora”, esordì, intrecciando le dita sul tavolo. “Chiudiamo questa parentesi di sfogo da operetta, scendiamo dal palcoscenico e ritorniamo con la testa sulle spalle.  Ti ho sempre reputato un ragazzo intelligente, Camus, e sono sicuro che riuscirai a spiegarmi cosa t’affligge senza il bisogno di lapidarmi con la tua cancelleria, ça va?”, disse, sorridendo lievemente, incoraggiandomi ad esternare i miei crucci.

Lo fissai inebetito: come? Non me ne voleva? Non mi menava? Dopo tutto quello che gli avevo urlato dietro, non era arrabbiato con me? Che fosse un suo trucco per farmi sentire ancora più stupido e infantile?

“Ebbene, Camus?”

Mi torsi a disagio le dita, fissando vergognoso le unghie e mordendomi colpevole il labbro inferiore. Mi potevo fidare? Era un mio parente da neppure un mese, avrebbe capito la mia situazione? Ero indeciso, molto indeciso … E se poi ne fossi rimasto scornato?

“Da quel che ho capito dai ragazzi”, mi venne incontro M. Christophe, sedendosi accanto a me “poco fa hai avuto un piccolo alterco con Kanon, o mi sbaglio?”

Alzai lievemente la spalla sinistra: se avessi voluto giocare al bastardo, avrei potuto rispondere di sì e vendicarmi del gemello minore attraverso il padre; tuttavia, per quanto mi sforzassi d’esserlo, ogni volta finivo per cercare una giustizia meno poetica e più equa. Per questo motivo, risposi: “Non proprio … ecco, il telefono aveva squillato e … e lui ha …”

“… ha preteso d’essere te, per imbarazzarti col tuo interlocutore?”

“No, si è preso la doccia d’insulti a me riservata …” e mi azzardai ad alzare lo sguardo, onde cogliere ogni tipo di reazione da parte sua: vi trovai solo un’espressione pensosa, attenta e ansiosa di altri dettagli per confermare una teoria previamente elaborata dalla sua mente.

“Che genere d’insulti?”, inquisì piano, puntandomi contro i suoi occhi azzurri, lo stesso zaffiro dei due gemelli. “Capisco”, dichiarò infine, leggendo il mio improvviso rossore. Davvero? E come mai?

M. Christophe si alzò un attimo dalla poltrona, ritornando con un bicchiere d’acqua, che m’intimò di bere. Sospirò a fondo, passandosi una mano tra i corti capelli biondo oro, che lentamente stavano virando verso l’argento.  “Ti hanno dato del pédé, vero?”, fu la sua esplicita domanda retorica, cui comunque risposi affermativamente. “Lo immaginavo. Certi deficienti non sanno più cosa inventarsi, pur di ferire una persona”, aggiunse, lanciandomi uno sguardo ambiguo e penetrante, quasi volesse sondare se quegli insulti avessero avuto modo d’esistere per un valido motivo o solo per puro crudele divertimento. “In ogni modo, Kanon che cosa c’entra in tutto questo?”

“Il a été méchant avec moi!” (E’ stato cattivo nei miei confronti, ndr.), sbottai, tamburellando nervoso le dita sulla liscia superficie del tavolo in legno di noce. “Non poteva semplicemente riattaccare? E … e ... fare finta di niente? Poteva fare a meno di spiattellare agli altri, che non era la prima volta, che accadeva?”

“E diceva il vero, Camus?”

Storsi le labbra, annuendo sconfitto.

Silenzio.

“Voleva solo aiutarti, mon enfant. Certo, nella sua molto rude maniera, su questo non si discute, però sono sicuro che non aveva cattive intenzioni, ti voleva solo consigliare!”

“E come? Se neanche conosce quel che si prova ad essere insultati via telefonica!”

“Su questo punto ti sbagli, Camus: lui lo sa” e dinanzi alla mia espressione stupita, l’uomo continuò: “Lo ha sperimentato amaramente sulla propria pelle, ecco perché non è stato così diplomatico con te!”, mi accarezzò il capo, sfilandomi il bicchiere vuoto dalle dita.

 “Ormai sono sicuro, che tu abbia capito che Kanon sia omosessuale; aveva dodici anni, quando ebbe i suoi primi dubbi sul proprio orientamento e a tredici me lo comunicò schiettamente, seppur mi ricordo che gli tremavano le gambe sotto il tavolo”, M. Christophe rise dolcemente alla rimembranza. “A quattordici mi presentò il suo primo p’tit ami, era così contento! Ma, hélas, sempre l’uomo è diffidente verso qualsiasi cosa sia diversa da lui e di fatti, non passò molto tempo che la “diversità” di Kanon divenisse di dominio pubblico nella scuola – mio figlio non ha mai conosciuto la parola discrezione -  e presto le malelingue presero ad agitarsi: commenti, sorrisetti, allusioni, insulti e scherzi pesanti. Come disegnargli  a tradimento il triangolo rosa sulla maglietta di educazione fisica. Di tutto ciò Kanon taceva, troppo orgoglioso per ammettere di esserne in qualche modo scosso. E ovviamente da Saga non seppi nulla: quando quei due mi complottano qualcosa, sono peggio di Bonnie and Clyde, non riesco a costringerli a spiccicarmi una parola. Incominciarono poi le telefonate. Ad ogni ora, ingiurie su ingiurie.  E quelle non me le poté nascondere, anche perché ogni volta che tornava dal salotto, aveva gli occhi umidi e arrossati, per quanto fingesse che non fosse accaduto nulla.  Ogni tanto di notte lo sentivo piangere. All’inizio pensai si trattasse della morte di Anaïs e di mia figlia, non erano ancora passati due anni dal lutto”, le spalle del mio patrigno ebbero un lieve sussulto nel nominare le due defunte. Tuttavia, continuò imperterrito.

 “Ma poi collegai i vari tasselli: le chiamate, i pianti, Kanon che mi bigiava la scuola, malgrado tentasse di occultarmelo, piccoli ematomi di qua e di là … Ad un certo punto, mi stufai di quel carosello. Misi dunque mio figlio con alle spalle al muro, intimandogli di raccontarmi tutto. Lo fece, ma rifiutò ostinatamente la mia proposta di trasferirsi in un altro liceo.  Non aveva nulla da nascondere, mi disse, non era lui quello in torto. Rispettai la sua decisione, tuttavia informai il preside dell’esistenza di simile issue. Non servì a molto, ché dopo qualche mese, fui convocato da detto preside, il quale m’illustrava – cito testuali parole – il vergognoso, animalesco e violento oltre ogni misura attacco di Kanon nei confronti di uno sei suoi bulli. Risi, rispondendogli che io l’avevo avvertito anzitempo, che il mio ragazzo non era il tipo da giocare all’eterna vittima. Se bastoni troppo il cane, quello alla fine ti morde. E lui era arrivato al suo punto di saturazione: era bastata una parolina di troppo a farlo esplodere in tutta la sua violenza repressa. Risultato? Inviò al pronto soccorso il bullo col naso rotto, il volto pesto e tre costole rotte”, sospirò di nuovo, tamburellando le dita sul bicchiere “Col preside raggiungemmo un accordo: niente sospensione e denuncia, legittima difesa. Sottotesto: cambiate intanto liceo. Seppur riluttante, alla fine Kanon cedette. Per solidarietà, Saga lo seguì.” 

M. Christophe terminò il racconto, la sua espressione sempre serena. Non vi era rancore nelle sue parole, solo una pacata delusione nel ricordare atti crudeli e ingiusti, nati dall’intolleranza. Perché infondo, nell’ottuso mondo provinciale, certe cose erano ancora rimaste un po’ tabù, divenendo il bersaglio di scherzi e lazzi di cattivo gusto.

Sentii un doloroso groppo alla gola formarmisi.

“Il suo errore”, proseguì M. Christophe “fu di tenersi troppo tempo le cose dentro. Se Kanon non fosse stata la bestiaccia che era – e che tuttora è – come pensi sarebbe finita? Che me lo avrebbero ridotto in sedia a rotelle con un ci dispiace tanto da parte di chissà quale ipocrita scalzacane!”, ora sentivo il fuoco greco sfavillare in tutta la sua esuberanza, lo stesso che percepivo nei figli, quando discutevano –seriamente- di qualcosa che stava loro a cuore. “Sebbene in maniera assai goffa, ti voleva dire di non celare certe cattiverie che ti sono fatte. Ti voleva ricordare, che non sei più solo, che hai qualcuno su cui fare affidamento, pour le meilleur et le pire! No, dai, non piangere …”, mi sussurrò dolcemente, abbracciandomi forte, mentre gli inumidivo il maglione col torrente di lacrime, che mi sgorgava dagli occhi. Mi accarezzò il capo, la schiena e le spalle sconquassate dai singhiozzi. Come mai quello sfogo così brutale? Una parte di me piangeva, perché sentiva di aver ancora frainteso e ferito un’altra persona: ieri con Milo, oggi con Kanon e lo stesso mio patrigno. Una parte per scaricare tutti i rospi ingurgitati nelle ultime settimane, tutti quegli infamanti pettegolezzi, i bisbigli alle mie spalle e le noticine umilianti che m’infilavano nell’armadietto. Un’ultima per la semplice voglia di piangere. Per tutte quelle volte che non lo feci e che invece avrei voluto, ma che per delicatezza verso il prossimo mi trattenni.

Ma come scrisse  Arthur Rimbaud: par délicatesse, j’ai perdu ma vie …

Quasi cullandomi, M. Christophe mi sussurrò parole di conforto, permettendomi di percepire per la prima volta una presenza paterna, facendomi sentire amato, voluto e protetto, non oggetto di scandalo. E desideravo tanto ricambiare quell’affetto donatomi spontaneamente, solo che il ricordo di quell’uomo me l’impediva, avevo sempre il timore che m’ingannasse, si burlasse di me, sfruttandomi per rafforzare la sua posizione agli occhi di Maman. Paranoie, lo sapevo. Ma era più forte di me.

“Christophe, moi … je suis désolé … je ne voulais pas … je ne savais pas …”, balbettai, volendo infatti scusarmi per l’aggressione verbale di prima. L’uomo scosse il capo, zittendomi con la punta dell’indice.

“Non, Camus. Hai ogni diritto ad avere delle perplessità sul mio conto e immagino quanto possa essere stato difficile per te … Enfin, non pretendo mica che da subito mi consideri come tale, urlandomi: “Mi sveno per te!” – figurati che neanche quei quattro filistei me lo dicono … Ah! Voilà che sorridi!”, scherzò, alzandomi un poco il viso per contemplare il timido sorriso, che si era increspato sulle mie labbra. “Prenditi tutto il tempo che vuoi, mon enfant, non voglio forzarti a niente. Solo, ti chiedo di cercarmi semmai avessi bisogno di aiuto … i miei ragazzi sono volonterosi, ma ancora bambini … uhm? Non aver paura a domandare!  E se non ti fidassi di me come padre, beh, facciamo in qualità d’avvocato di famiglia, d’accord?” e mi strinse la mano, sancendo il nostro comune patto, gesto che ricambiai con più convinzione del mio solito.

M. Christophe tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di fazzoletti, porgendomene uno. Si mise in piedi, dirigendosi con un insolito passo felpato alla porta, davanti la quale si fermò bruscamente, facendomi poi segno di recarmi seco, sempre in silenzio. Intrigato da quello strano gioco e soprattutto dal luccichio birbante dei suoi occhi, esaudii la sua tacita richiesta. Quando mi ebbe al posto di combattimento, il mio patrigno mosse lentamente la maniglia e … un rumore concitato di passi che fuggivano da dietro la porta?

Dovetti coprirmi la bocca con entrambe le mani, pur di non ridere.

“Allora, Kleftes!”, esordì M. Christophe, uscendo assieme a me dallo studio. “Spero che non abbiate combinato disastri, mentre Camus ed io chiacchieravamo …”

“Mais non, Papinou!”, lo rassicurò Saga, il quale leggeva nel frattempo una rivista di gossip femminile all’incontrario e per di più senza occhiali. Geniale …

E non era il solo: Aiolia pareva essere diventato d’un colpo amico di Fred, proprio lui che - a causa dei suoi geni felini - non lo sopportava ora lo abbracciava tutto cicì cocò; Milo stava giustamente annaffiando i gerani col the – tecnica sperimentale? – intanto che Kanon e Rhada ripetevano le loro lezioni, peccato che il primo col libro di diritto e il secondo di marketing.

Riassumendo, fino a qualche istante fa erano stati appiccati alla porta ad origliare spudoratamente.

“Se non mi sbaglio”, disse M. Christophe passando in rassegna della sua ciurma, “avevo ancora una punizione per voi per l’attentato di ieri sera …” e gongolò nel sentire i quattro cavalieri dell’Apocalisse trattenere il fiato. “Visto che siamo un po’ sul fiappo, che ne dite questo pomeriggio di spalare un po’ di neve, eh?”

Ululato della più alta disperazione.

“Mentre tu, Kanon” e si posizionò davanti al secondogenito, che ricambiò il suo sguardo con uno da cucciolo indifeso. Ebbene sì, il temibile Occhidolci.  Il padre rabbrividì impercettibilmente prima di concludere il suo discorso: “Tu, preparerai per il goûter una Reine de Saba per diciotto persone!”

“Bordel!”

“Col liquore che piace a me!”

“Doppio bordel!”

“Pensi di farcela?”

“Neh …”

“Bravo! Questo è lo spirito! Andiamo, allora a Messa? Op, un … deux … trois! Tous avec moi!”

“Se vuoi”, mi offrii volontario, portandomi accanto al gemello minore, anche per approfittarne per chiedergli scusa del mio atteggiamento poco comprensivo nei suoi confronti “ti posso aiutare con la cioccolata …”

Kanon sorrise, scuotendo il capo biondo; posò, invece, una mano sulla mia testa, accarezzandola con una brusca zampata, scompigliandomi i capelli.

Ricambiai il suo sorriso.

Pace era fatta, non me ne voleva.

Tuttavia, come giustamente affermava il titolo del più famoso romanzo di Tolstoj …

“Yo! Sasà, amore mio!”, gridò il gemello a pieni polmoni al suo doppio, il quale si girò di scatto, traumatizzato da simili parole.  E lo fu ancora di più, quando una pingue palla di neve lo centrò in pieno viso,  ribaltandogli gli occhiali, tra gli sghignazzi degli altri due fratelli.

Guerra e Pace.

Così  il mondo va avanti.

 

***

 

In chiesa, durante la funzione, rischiammo seriamente di soccombere alla morte bianca, stringendoci uno accanto all’altro come galline e rimpiangendo di non essere nati femmine, così da poter tenere il berretto in testa, come in quel momento lo indossavano Maman e Mamie; di fatto, noi uomini fummo costretti - per ovvi motivi di rispetto - ad esporre il nostro scalpo all’aria gelida dell’edificio, maledicendo il sistema di riscaldamento incapace di fronteggiare simile freddo.

Che rompitura!

Sopravvissuti per miracolo – oh beh, il luogo era anche quello adatto per quel genere di avvenimenti – ci recammo al cimitero, per un rendezvous famigliare coi defunti. Infatti, mentre la mia nuova famiglia ne approfittava per porgere i suoi rispetti tutti riuniti alle loro defunte; Mamie, Maman ed io, invece, visitammo l’unico nostro parente morto e sepolto reperibile: il prozio Uriel, detto Unity. E  fui grato, che i Valavitis non fossero lì presenti, poiché Mamie, dopo aver depositato i fiori finti sulla tomba del fratello (Qui giace Uriel Chauvin, che andò incontro alla Morte a ritmo di samba – sospetto sia un epitaffio ideato da Mamie) e avergli versato un po’ di vino e miele, esordì la sua preghiera così:

“Salut, stronzo! Da quanto non ci vediamo, eh?”

Visitare la tomba di un defunto di solito comportava sistemare i fiori nel vasetto, accendere magari una candela e soffermarsi in qualche preghiera. Non parlargli sul serio o innaffiare il sepolcro con vino e miele! Insomma, eravamo tutti d’accordo che i nostri antenati Galli consideravano la morte come la rinascita nell’Aldilà e che quindi era giusto mantenere i “contatti” col morto, però dai! Nel ventunesimo secolo!

“Lo sai vero, che giorno è oggi? Non quello in cui sei crepato – e non diciamo come – ché mi viene ogni volta da vomitare al solo pensarci …”, riprese Mamie, nel frattempo che Maman ed io ci guardavamo intorno, sperando che nessuno stesse assistendo a quel teatrino. La versione ufficiale, onorevole e romantica era che il prozio Unity fosse morto di SIDA (o AIDS); in realtà, egli morì a causa di un ictus improvviso, mentre si trovava in una backroom, intento a fare un blowjob ad un suo amante.

No, decisamente meglio morto di SIDA.

“Oggi è l’anniversario della morte di Papa, ricordi? Dicembre del 1954 … beh, tu dovresti sovvenirtene meglio, io dal canto mio avevo appena un anno …” e sospirò a lungo. Non avevo mai conosciuto – almeno via foto – il mio bisnonno, ma da come Mamie me ne parlava, doveva essere stata una barba di persona; eppure, il fattore morto prima ancora che potessi camminare gli regalava un’aura di dolce romanticismo. Scommetto, che se il mio bisnonno Henri non avesse tirato le cuoia a 36 anni di tubercolosi, sicuramente non si sarebbe salvato dai pestiferi commenti della sua altrettanto pestifera figlia.

“Ma adesso basta con discorsi venali e discutiamo, invece, di argomenti più importanti: tu dunque me lo fai apposta, vero? Lo fai apposta a rompermi le scatole da qualsiasi buco tu ti sia infilato nell’Aldilà! Salaud! Rompiballe in vita, rompiballe anche da morto!  E io che pregavo affinché la tua anima dal Purgatorio si elevasse al Paradiso! Tzé! Resti lì per l’eternità a prenderti tutte le purghe celesti su per il …  E’ dunque una tua ultraterrena vendetta, quella d’inviarmi una falange greca in casa? Eh?  Rispondi, bastardo!”, berciò, costringendo Maman ed io ad afferrarla per la vita e per le braccia, onde impedirle di strangolare la lapide del prozio. Calmatasi di colpo, nonna Séraphine riprese: “In ogni modo … l’evento dell’anno è che tua nipote si sposa! Finalmente, dirai tu! Oh, io glielo avevo detto di sposarsi prima, ma lei testa dura! I risultati? Guarda un po’ te com’è venuto fuori il tuo pronipote …” e indicò il sottoscritto, ignorando il rimprovero della figlia. “Ma ora tutto andrà per il meglio: già me la vedo il giorno delle nozze, procedere biancovestita per la navata, con il marmocchio che la precede, gettando petali di rose per terra …”, sognò ad occhi aperti. Quanto a me, avevo già preso la mia decisione: piuttosto di ridicolizzarmi così, mi gettavo giù dal ponte!

“Hey, hey, hey!”, s’intromise Maman con decisione, richiamando bruscamente la genitrice dal Mondo di Polly Pocket. “Frena un po’ i cavalli, te! Cos’è questa storia? Eravamo d’accordo, che mi avresti lasciato organizzare da sola il mio matrimonio!”

“Tzé! Con tutto quel che lavori, non avresti manco il tempo di pianificare il tuo suicidio!”

Caparbia, Maman incrociò le braccia al petto, replicando seccata: “Il matrimonio è mio e me lo gestisco io!”

“Ouais, come no! Tu ti sposerai in chiesa, altroché!”

“Non credo proprio!”

“Cosa?!? Non vorrai mica emulare gli americani e sposarti in giardino, spero? No, perché sia chiaro, che io non pulisco! T’arrangi!”

“Mais non, Maman! Christophe ed io pensavamo ad una cerimonia molto semplice alla mairie e …”

“Cheeeeeeeeeeee?????”, fu la tromba di Gerico, che risuonò per tutto il cimitero. Seigneur, che vergogna … “Avresti dunque la faccia tosta di comunicarmi, che vuoi sposarti solo col rito civile? T’es folle! Ma l’hai sentita, Unity? Tua nipote non si vuole sposare in chiesa! È inaudito! Quel giorno sarà la nostra vendetta contro tutti quei bigotti che ti hanno guardata di traverso, solo perché eri tornata da Parigi con Momus in pancia, senza l’anello al dito! E soprattutto, contro quel figlio di … che ti ha reso la vita impossibile per i cinque anni che seguirono! Quel giorno dimostreremo al mondo, che fosti tu la danneggiata e non quel porco bavoso maniaco d’un fedifrago puttaniere, che il diavolo se lo porti!”, sbraitò esaltata e viola in volto, dimenticandosi che aveva il di lui figlio accanto. E sinceramente, che continuasse pure ad insultarlo, non me ne importava un accidente.

“Capisco Maman, però devi considerare che tale cerimonia alla mia età è ridicolo!”, fu la replica più mite di Maman; tuttavia, non mi sfuggì il repentino rossore sulle sue guance alla rievocazione dei torti subiti dal suo primo compagno. “Insomma, ti pare che dopo aver avuto un figlio possa presentarmi in chiesa con l’abito bianco? Sarebbe vera e propria ipocrisia!”

“Embé? È la prima volta che ti sposi! Su quel piano, sei ancora pura! Inoltre, il greco è vedovo, non divorziato, quindi l’affare è fattibilissimo! E non sei vecchia: hai appena trentotto anni!”, aggiunse subito dopo, non per consolare la figlia, bensì per non sentirsi lei stessa anziana.   

“Solo negli Harmony ci si sposa così, coll’abito tutto pizzi e svolazzi vari, damigelle alla pastorella Dolly, Here comes the bride come sottofondo e torte alla panna! Roba melensa da soap opera! Da … da …  un’americanata, ecco!”, boccheggiò Maman al limite della sua pazienza, cercando disperatamente una soluzione per fermare lo spirito esibizionista di Mamie. Perché se non lo si era capito, sul piano amoroso Maman era timida quanto il padre e me.

“Sposarsi nella casa di Dio è roba melensa, quando poi sono stati quei filistei di hamburger ad introdurre il matrimonio in giardino?!?”, fischiò Mamie come una teiera, facendo roteare gli occhi a Maman (la quale intendeva tutt’altra cosa nel suo discorso). Infatti, l’incubo peggiore dell’augusta avia familias era che la sua figliola convolasse a nozze o in giardino o col rito civile. O entrambi. Trauma da film comedy americani. “Mi sembra di sentire tuo padre quando parli così! E a proposito di quella sale charogne, non commettere lo stesso mio errore: lui ed io ci sposammo col rito civile e guarda un po’ che accadde!  Rovina e decadenza dei costumi!”, dichiarò tragicamente, fornendomi un’idea molto precisa di come potevano essere state le orazioni dell’inflessibile moralista Catone il Censore.

“Mamie, lui era luterano, tu cattolica, il rito civile era l’unica soluzione per conciliare i due credo …”

“Hai ragione, Momus: avrei dovuto prima lavargli la testa nella fonte battesimale e poi sposarlo!”, convenne Mamie, passandomi un braccio attorno le spalle. “In ogni modo, figlia degenere, tu ti sposerai in chiesa, fine della questione! Innanzitutto, perché te lo dico io; secondo, perché prima di morire, voglio vedere lo status di Momus legalizzato  dinanzi alla comunità, così la smetteranno di consideralo un figlio illegittimo; infine, perché sennò diamo il cattivo esempio: io mi sono sposata col rito civile, tu ti sposerai col rito civile e Momus finirà anche lui per ammogliarsi col rito civile, mettendo incinta sua moglie, per poi fuggire via con un uomo vent’anni dopo!”, dichiarò convinta, come se fosse il mio karma, quello di seguire le orme del nonno.

Se ne inventasse un’altra, va’!

Sbuffando, mi allontanai dalle due matrone litigiose, lasciando che si sfogassero ben bene. Tanto, conoscevo già il verdetto finale: Maman si sarebbe maritata in chiesa con tutti i crismi annessi e connessi. Hé, alla granitica volontà della nonna non sfuggiva.

Né al suo personalissimo concetto di mos maiorum.

“Tiens, tiens”, dissi, passando accanto ad una lussuosa tomba di famiglia “mi pareva strano che a simile teatrino mancasse un pubblico!”

“Sono appena arrivato, te lo giuro!”, alzò Milo le mani, discolpandosi, seppure il sorrisone dipinto in volto affermasse il contrario.

“Mouais e io sono Vercingetorige …”, borbottai, sedendomi accanto a lui. “Piuttosto, tu che dici? Meglio fare il matrimonio in chiesa o in comune? Nah, lascia perdere … non è importante …”, lo interruppi, prima ancora che lui potesse proferire parola. Mi umettai  a disagio le labbra, volgendo lo sguardo altrove: dopo una simile scena, ero imbarazzatissimo solo a guardare il ragazzo dritto negli occhi. Chissà cosa avrebbe pensato ora di noi! Oddio, neppure la sua famiglia era campione di sanità mentale, però …

“Ionesco … anzi, Camus …”, esordì piano Milo, ponendo fine al silenzio impostosi tra di noi. Le mie orecchie si drizzarono attente: quando il biondo si rivolgeva a me col mio nome di battesimo, bisognava che mi preparassi  sempre al peggio. “Senti, è da un po’ che ci meditavo sopra … ecco … per caso tua nonna è nata in Algeria, quando era ancora una colonia francese?”

Come galvanizzato, mi girai verso di lui: come aveva fatto ad indovinare?

“Associazione d’idee”, rispose Milo alla mia tacita domanda, la quale doveva essere stata marchiata a fuoco sulla mia fronte, se il ragazzo fu capace di intuirla senza l’ausilio delle parole. “Albert Camus, se non mi sbaglio, è nato in Algeria, vero?”

“Mondovi, 7 novembre 1913, oui …”, affermai automaticamente, il cervello ancora in panne per l’inquietante perspicacia dello scorpion. Sul serio, doveva considerare ad entrare nei servizi segreti …

“Bien. Infatti, ho sempre creduto che il vero motivo, per affibbiarti quel nominativo, andasse al di là di una semplice passione nei confronti dello scrittore. Più di un tributo letterario …”

Annuii lentamente. “Durante la guerra d’Algeria, fu l’unico che cercò di persuadere le due fazioni a non coinvolgere i civili … e per questo fu tacciato da entrambi come pazzo e traditore. Eppure, a sentire i racconti di Mamie, non posso fare a meno di pensare, che le sue fossero state le parole più savie in quegli anni duri e orribili.”

“La guerra d’Algeria … la vergogna della Francia …”

Annuii di nuovo. Poi, prendendo fiato, decisi d’iniziare a raccontare la prima parte della storia della mia famiglia, esattamente come Milo aveva fatto con me.

“Mamie nacque ad Algeri nel 1953. Suo padre – Henri Chauvin – era un impiegato in non so quale studio, mentre la mia bisnonna, Madeleine, lavorava come bonne (cameriera, ndr.) alle dipendenze di una ricca famiglia.  Purtroppo, Henri si buscò una brutta tubercolosi polmonare e, non avendo soldi necessari per le dovute cure, morì quando Mamie aveva sì e no un anno. La morte dell’uomo sconvolse di conseguenza il delicato equilibrio finanziario della famiglia Chauvin, costringendola a trasferirsi in una casa più piccola, in un quartiere più povero della città.

Due mesi dopo, il 1 novembre 1954, il neonato partito indipendista FLN, o Front de Libération National, dichiarò la lotta armata per l’indipendenza dell’Algeria dalla Francia, eseguendo all’incirca una decina di attentati in tutto il paese. La notizia venne accolta molto tiepidamente dalla “madrepatria”, ignorando che l’avrebbe inguaiata, invece, in una vera guerra al massacro per quasi otto anni. Ed infatti, quando mandarono le truppe in Algeria, vi fu una continua ed inarrestabile escalation di violenza sia da parte loro, che degli stessi militanti del FLN. Come nel ’55, che vi fu il massacro di Philippeville di 123 civili da parte del FLN, seguito da una repressione altrettanto brutale: più di 10 000 algerini, tra civili e guerriglieri.

Il vero inferno, tuttavia, incominciò il 30 settembre 1956 con la cosiddetta “Battaglia di Algeri”: tre donne piazzarono delle bombe in punti diversi della città, tra cui la sede dell’Air France. Nel ’57, vennero registrate più di 800 sparatorie e bombardamenti, obiettivi civili soprattutto, provocando durissime reazioni da parte delle autorità. Ormai, si era arrivati a combattere il terrorismo col terrorismo: i guerriglieri rapivano, uccidevano e mutilavano coloni (meglio conosciuti come i pieds-noirs) e i militari francesi e quest’ultimi non furono da meno quanto a crudeltà nei combattimenti, repressioni e sevizie. Ciò che era stata giustificata come un’operazione di pacificazione era degenerata in una guerra coloniale fuori da ogni controllo, senza regole”, mi umettai le labbra, prendendomi una piccola pausa, per ricominciare subito dopo:

“Questo fu il contesto nel quale Mamie trascorse la sua prima infanzia. Per quanto lei amasse – e ami ancora – la sua città natale, spesso mi confessa che ogniqualvolta sente nominare Algeri, inconsciamente l’ansia e la paura l’assalgono. E come non potrebbe, del resto? Ogni giorno circondata da notizie di attentati, di rapimenti e di uccisioni; da sparatorie e bombardamenti; dal timore di non rivedere più sua madre ritornare dal lavoro o che i guerriglieri potessero piombare in casa loro da un momento all’altro; dal rammarico di non  avere più la possibilità di camminare liberamente in strada. Tutti credono, che Mamie sia un po’ tocca e forse lo è; tuttavia, quando lei mi sottopone ai suoi deliri io non me la prendo mai, perché infondo so, che non ha avuto un’infanzia normale, tranquilla e pacifica. Come fai a conservare la sanità mentale, quando  a nemmeno dieci anni già ti accorgi, che non sei altro che una timida e caduca fiammella, esposta ai venti della vicende umane?”, con quella domanda retorica, appoggiai la testa sulla spalla di Milo, proseguendo stancamente:

“Nel ’59, De Gaulle divenne presidente della Quinta Repubblica; in quel periodo, l’esercito francese ottenne il controllo militare dell’Algeria, sennonché le forti pressioni sia interne – da parte della sinistra e degli stessi famigliari dei soldati – che esterne, l’Onu e gli stati alleati della NATO, e l’insurrezione ad Algeri del ’60 portarono (volendo riassumere) prima ad un referendum nel ’61 per l’autodeterminazione dell’Algeria; in seguito agli accordi di Évians –les-Bains nel maggio dello stesso anno e un cessate il fuoco il 19 marzo del ’62. Tuttavia, gli scontri non cessarono subito: l’OAS o Organisation armée secrète compì una serie di attentati contro scuole, ospedali e ogni obiettivo civile fino al 17 giugno, per un totale di 120 ordigni al giorno, stipulando però alla fine una tregua con lo stesso FLN , quando si accorsero che non ottenevano niente in quel modo.

 Così, il 3 luglio 1962, dopo 132 anni di dominio francese e otto di guerra senza quartiere, l’Algeria fu proclamata indipendente.

Nello stesso anno, incominciò il massiccio esodo dei pieds-noirs in Francia: La valise ou le cercueil, la valigia o la bara, questo era lo slogan dei nazionalisti musulmani.  E Mamie fu tra quei 900 000  rifugiati, che lasciarono il paese in un doloroso calvario: la prima stazione consistette nell’accamparsi per settimane sulle banchine del porto – nel suo caso - di Algeri, aspettando un imbarco per la Francia, spesso sovraccarico di gente al limite della sicurezza. In ogni modo, una volta imbarcati, giunsero a Marsiglia, città che li accolse con un caloroso: “A mare i Pieds-noirs!” Lo stesso sindaco Defferre li intimò di andarsene altrove, ché Marsiglia non aveva posto per loro.

Né la Francia del resto. Nulla era stato previsto per il loro rientro nella madrepatria: infatti, il governo aveva disposto per 200 massimo 300 000 persone e comunque con la supposizione, che fosse un trasferimento provvisorio. Inoltre, molti pieds-noirs, come la famiglia di Mamie, avevano vissuto per generazioni in Algeria, non avevano quindi alcun tipo di contatto o appoggio che potesse aiutarli. E Mamie mi raccontò come passò sulla strada le sue prime notti in Francia.

Lei e la sua famiglia, in seguito, si trasferirono prima a Nizza, poi a Perpignan; la loro madre cercava disperatamente un lavoro, ma i pregiudizi contro i pieds-noirs erano molto radicati nelle persone ed infatti, essi venivano considerati come degli sfruttatori, razzisti, violenti, un peso morto per l’economia francese. Tzé! Ignoravano, invece, che questi coloni rapaci in realtà erano per la stragrande maggioranza impiegati e agricoltori, molti dei quali non possedevano neppure la terra, che coltivavano, né un’educazione superiore alla scuola dell’obbligo; e che soprattutto il loro salario era inferiore del 15% rispetto ad uno francese.

Si stabilirono infine a  Montpellier nel ’65: la mia bisnonna aveva trovato un impiego in una lavanderia a secco, nella quale passava ore e ore, senza quasi mai vedere i figli. Dopo un po’ entrò in depressione, i suoi nervi a lungo provati non ressero più e la natura violenta del suo nuovo marito non l’aiutò di certo. Ebbene sì, la picchiava”, rabbrividii impercettibilmente, stringendomi a Milo, che avvolse il braccio attorno ai miei fianchi.  “Menava lei, il prozio Unity e una volta anche Mamie, solo che, quando tentò il bis, si ritrovò con un dito in meno …”

“Glielo ha staccato …”

“… con un morso, sì.  E l’uomo non poté fare niente, ché altrimenti avrebbe dovuto spiegare il come, quando e perché quella menomazione fisica e Mamie figurarsi se avrebbe avuto qualche remora a spiattellare tutto alla polizia. Andarono avanti di quest’andazzo finché, a quattordici anni, Mamie non fu prelevata dal fratello, il quale nei due anni trascorsi fuori casa, aveva nel frattempo trovato un lavoro in un nightclub a Saint Tropez. Non chiedermi come ci sia riuscito, temo che sarà uno dei pochi segreti che Mamie si porterà seco nella tomba! Fatto sta, che quando l’avia raggiunse la Côte, le parve di essere planata su Marte:  la frivolezza, il lusso e lo sperpero, così tangibili nell’aria, avevano colpito con la stessa potenza di un manrovescio quella giovinetta dagli occhi dorati, vestita con i vecchi abiti usati del fratello.

A vedere quegli agiati, in lei nacque uno strano  e contraddittorio sentimento, un misto di naturale invidia verso quella gente che spendeva e spandeva sconsideratamente, come se niente fosse – a quanti in realtà avevano reso la vita amara per poter ottenere quell’opulenza?, si domandava Mamie, la quale aveva quasi sempre vissuto al borderline dell’indigenza più nera nei blocchi di cemento della banlieue di Montpellier -  e di segreta ammirazione, seguita dal fervente desiderio di poter un giorno anch’ella passeggiare per la promenade sul mare, vestita di abiti eleganti e adornata di gioielli. E magari con un marito danaroso sottobraccio!” e il mio fratellastro ed io ci sciogliemmo in una calda risata, nell’immaginarci così la nonna, soprattutto alla sua attuale età.

“Il suo debutto al nightclub non fu dei migliori: essendo, infatti, composto da personale … ehm … per l’unisex, una ragazza non li fece esattamente saltare di gioia. Tuttavia, visto che Unity era in buona confidenza col capo e che Mamie - coi suoi capelli corti, il corpo ancora longilineo e un temperamento da scaricatore di porto -  passava in fin dei conti perfettamente per un ragazzo, fu deciso che poteva stare, magari aiutando di qua e di là, ovvero in cucina, al bar o a rammendare i vestiti di scena. (I nightclub di allora erano molto più raffinati di adesso.) Nel tempo libero, quando non studiava o lavorava, si dedicava alla musica, da lei da poco scoperta: il locale possedeva infatti un pianoforte e Mamie era riuscita ad ottenere il permesso di utilizzarlo per esercitarsi. Aggiungendo poi un’altra serie di moine al fratello, lo persuase a mandarla a lezioni private di musica. Si rivelò un buon investimento, ché Mamie non solo aveva talento, ma vi si dedicava anima e corpo: per lei equivaleva ad un rifugio, un’oasi di pace, nella quale dimenticava nelle quattro ore giornaliere di esercizio tutte le brutture passate e le difficoltà presenti, dove il cruccio per l’avvenire non esisteva, dove ogni differenza scemava dinanzi alla gloria della musica.

Tanta era la sua passione e il suo impegno, che non passò quindi molto tempo che, a diciott’anni, fu assunta con regolare contratto in qualità di pianista del nightclub, dandole così una chance in più per poter risparmiare qualche soldo per il suo sogno ultimo: il Conservatoire de Paris.

Nello fu nello stesso periodo, che conobbe mio nonno Dégel, anche se in circostanze non molto … ehm … tradizionali … ecco …”

Incuriosito, Milo m’invitò a continuare; mi apprestai dunque ad esaudire la sua richiesta, quando il richiamo di Mamie m’interruppe bruscamente, facendoci sobbalzare entrambi:

“Oh, eccovi là!”, ci gridò, mulinando il braccio, per intimarci a seguirla e riunirci al gruppo: la visita al cimitero era conclusa. “Ma che mi combinate lì nascosti tra le tombe? Tu Pingu, non sarai mica diventato un rosicaossi, spero? Tzé, tutto tuo nonno …”, dichiarò scuotendo il capo.

Sorrisi lievemente. “Quando ai suoi occhi sono in difetto, la colpa è sempre dei geni di Papie …”, spiegai al mio interdetto fratellastro, che annuì una volta afferrato il bizzarro concetto. “Milo?”

“Oui?”

“No, niente.”

Il ragazzo arcuò intrigato il sopracciglio. “Cosa?”

Scossi il capo, accelerando il passo, sennonché lo scorpion fu più rapido, afferrandomi per il braccio e impedendomi di proseguire. “Cosa?”, ripeté in un sussurro, quasi temesse di disturbare coloro, che solo allo squillo delle trombe del Giudizio Universale si sarebbero destati.

“Ecco … mi sono dimenticato, quel che ti volevo dire …”

“Menteur!”, scherzò lui, sorridendomi a mo’ d’incoraggiamento, sorriso cui capitolai, fondendomi come un cioccolatino.

“Va bene, va bene. Solo … sigh … se te lo dicessi, sono sicuro che ti metteresti a ridere …”, fu la mia premessa, sperando che servisse a scemare la curiosità del mio fratellastro, il quale, figurarsi, replicò serafico:

“E’ probabile. Dovrai prendere il rischio, Ionesco!”

Sbuffai, roteando gli occhi alla battuta: non era capace di rimanere serio per qualche secondo? O forse ero io, quello che considerava la faccenda troppo seriamente? “Mi pare strano”, esordii piano, soppesando con cura ogni parola, onde scegliere la più adatta per descrivere al meglio, ciò che ultimamente ricorreva spesso nei miei pensieri “sì, sul serio mi pare strano parlare così liberamente con te. Più di un mese fa, l’avrei ritenuto impossibile perfino nei sogni più bizzarri e fantasiosi; e …”

“E … ?”

“E niente. Enfin, mi fa piacere …”, confessai flebilmente, dando poi appuntamento a tutto il mio sangue sulle guance, che s’imporporarono di brutto.

La dita di Milo dal mio braccio scesero dapprima languide fino alla mia mano, stringendola subito dopo con un brusco impeto. “Davvero?”, mormorò così piano, che la sua voce parve fondersi  con l’etereo vapore del suo respiro. Voltai la testa, allontanando i miei occhi da ogni nefasta esposizione a quei magneti turchesi, quei due ladri che mi volevano rubare la pace dell’anima.

“Questo pomeriggio devi riprendere il brano La danse macabre; ieri non ti sei esercitato per niente e venerdì non mi è piaciuto come l’hai suonato”, tergiversai, evitando con accurata velocità la risposta desiderata dal mio fratellastro. “Insomma, sei bravo, hai delle capacità, ma non ti applichi … sei pigro … e bla, bla …”, blaterai senza sosta alla Molly Bloom, rifilando argomentazioni a casaccio, senza alcun rigore logico, il tutto procedendo a falcate verso l’uscita del cimitero.

Ciononostante, non abbandonai nemmeno per un secondo la mano di Milo.

 

***

 

“Yo, Sasà!”

Il sopracitato bloccò a mezz’aria il tragitto della pala sulla neve, non appena il richiamo del gemello giunse alle sue orecchie.

M. Christophe non si era dimenticato della punizione mattutina, anzi, appena terminato di pranzare e concedendo una mezzoretta per la digestione, mise tutti i pargoli all’opera a spalare la neve dalle tre entrate di casa, dal gabbiotto degli attrezzi, dal pollaio e dalla stradina per immetterci in autostrada. Per spirito solidale gli esclusi dal castigo – Rhada ed io – li aiutammo comunque, lavorando accanto a loro da quasi un’ora e trequarti sotto lo sguardo vigile di M. Christophe, al quale mancava solo la frusta per essere ne La capanna dello zio Tom, solo in salsa francese.

“Che vuoi?”, sbottò stanco Saga, levandosi dalla fronte umida di sudore una ciocca molesta e sistemandosi gli occhiali andatigli di traverso. Tuttavia, più che la voce era stato l’odore d’impasto di dolce e di cioccolata a preannunciargli l’arrivo alle sue spalle di Kanon. Ed infatti, chiazze di tali ingredienti lo macchiavano dalla punta dei capelli – tenuti fermi da una bandana alla Bernadette – all’ultimo angolo del grembiule.

“C’è l’hai d’accendere?”

Il gemello maggiore ripeté assente le parole proferite dal doppio, cercando in automatica il detto accendino nelle tasche dei pantaloni. Poi, rendendosi d’un colpo conto della natura di tale richiesta, si voltò di scatto, fulminando lo sfrontato fratello.

“Oh, che fai? Fumi?”, lo rimproverò duramente, sfilandogli brusco la sigaretta dalle labbra e gettandola lontano, con sommo disappunto di Kanon, che protestò in un indignato:

“Embé, non posso? Sono maggiorenne! Eddai, cosa vuoi che sia una sigaretta …”

“Non me ne importa un fico secco! Qui è vietatissimo fumare!”, sentenziò perentorio Saga, ponendo fine alla discussione con brusco movimento del braccio.

Fischiando falsamente impressionato, Kanon replicò sarcastico: “Oh là là, ha parlato Sua Santità il Pontefice!”

“Sì, l’hai detto!”

E con perfetta sincronia i due si elargirono una reciproca linguaccia.

“Uf! Ho male dappertutto!”, si lagnò dopo un po’ Kanon, stiracchiandosi per benino come un gatto.  “Mica è facile fare un impasto per diciotto persone! Tzé! Neppure dopo  una notte di sesso sfrenato con Rhada mi sono sentito così sbattuto!”, dichiarò, ricevendo per commento da parte del gemello un sonoro sbuffo. “Ti si è fermata la digestione, Sasà?”

“Solo quando sento le tue cavolate!”

“Moui, come no!”, ribatté il minore, massaggiandosi il collo. “Moralista frigido e ingessato … Beh!”, esclamò all’improvviso, facendo cadere a momenti la pala dalle mani di Saga, tanto lo aveva colto di sorpresa con quell’urlo di guerra. “Lo so che ci prendi per due infoiati, ma guarda che in realtà Rhada ed io non ci comportiamo mica come due cervi in calore, veh! Anzi, in quest’ultimo periodo di esami, non abbiamo mai fatto l’amore: disperde energie e stanca! Invece, una volta compiuti i nostri obblighi universitari, ci abbandoniamo con molto gusto al coito post-esami, sfogando per bene tutta l’adrenalina, lo stressa e l’astinenza accumulatasi nel corso delle settimane di preparazione! E credimi, quelle sì che sono noches de fuego, ogni maschio io piego!”

“Già …”, concordò Saga, piantando con forza la pala sulla neve, mentre una smorfia maligna gli piegava le labbra, deformandogli il viso. “E poi per due giorni non riesci più a camminare decentemente!”, fu la sua estocade, che provocò l’ira funesta del minore, il quale, portando bellicoso le mani ai fianchi, ricambiò il favore con molto gusto.

“Oh, ma almeno io posso vantarmi di aver conosciuto il tepore di un corpo umano …”, insinuò malizioso e fu il turno di Saga di irrigidirsi di quel poco. Nel frattempo, simili a squali attirati dall’odore del sangue, Milo ed Aiolia avevano lasciato la loro corvè per recarsi al ring di fortuna, trascinandomi seco. Fortunatamente, Rhada era altrove, altrimenti non saprei come avrebbe reagito nel vedere il suo meco litigare col fratello come due lavandaie attaccabrighe ai lavatoi pubblici.

“Uno, Nônon? Pensavo fossero due. Anzi, no. Venti. No, aspetta: duecento. Duemila. Duecentomila!”

Il gemello minore alzò le spalle, sospirando teatralmente. “Uf, peccati di gioventù! Chi non ha mai peccato o meglio chi non ha mai desiderato scagli la prima pietra …”, gli sussurrò all’orecchio, simile al serpente tentatore, consiglio del quale Saga si liberò, spingendo scocciato il viso del suo doppio lontano dal suo. “Tanto lo so, che sotto quel visetto d’angelo immacolato, pensieri moooolto lascivi ti scuotono il petto verso un certo …”

“La ferme, Nônon! Ferme ta gueule, tu veux!” (Smettila Nônon ! Vuoi chiudere quella tua boccaccia !, ndr. ), sibilò minaccioso Saga e Kanon si allontanò da lui ineffabile, alzando in alto le mani come segno di tregua. Eppure, notai dai sogghigni dei fratelli minori, che il coup de théâtre doveva ancora venire.

Apparentemente domato, il gemello minore si appoggiò al muro, intanto che i suoi fratelli riprendevano il lavoro, Saga con particolare piglio nervoso e brusco, borbottando sinistramente fra sé e sé.

Quand’ecco che …

Toi mon amour, mon archer / Quand je rêve c’est de toi / Mon amour, mon archer / Quand je me touche  c’est pour toi / Mon amour, mon archer / Je ne peux vivre sans toi / Mon amour, mon archer / Et je ne sais pas pourquoi …”, si mise a canticchiare Kanon sottovoce, ma quel tanto da essere tuttavia udito benissimo da Saga, il quale continuava imperterrito a spalare la neve, seppur applicando ad ogni movimento un’insolita foga. Ghignando e accendendosi la sigaretta di scorta, il giovane continuò: “Je n’ai pas connu d’autre garçon que toi / Si j’en ai connu alors il ne m’a touché pas (j’suis encore vierge) / A quoi bon chercher faire des comparaisons / J’ai un cœur qui sait quand il a raison / Et puisqu’il a pris ton nom … mon Aiolos !” gorgheggiò e le spalle del maggiore ebbero un violento sussulto, mentre gli altri due filistei a momenti si soffocavano con le proprie mani, pur di non ridere.  Nel frattempo, che Kanon si adoperava nel refrain, Saga, livido in volto, elargì un piccato scappellotto ad Aiolia, il quale si mise a sghignazzare ancora più forte di prima.

“On ne sait jamais jusqu’où ira l’amour / Et moi qui croyais pouvoir t’haïr toujours / Oui je te désire et j’ai beau résister / Je rêve parfois d’être pris à quatre pattes / Plus fort à chaque fois !”, infierì sfacciatamente un sornione Kanon, elargendoci per poco una dimostrazione in loco della sua nuova e personale versione di Mon amour, mon ami di Marie Laforet.

“Kanon … io ti … La ferme ! Stai zitto !”, ringhiava il gemello maggiore, al limite massimo della sua pazienza, esasperata dalla canzoncina sconcia del suo doppio.

Toi mon amour, mon archer …”

“TAIS- TOI !”, fu il ruggito che riecheggiò per tutto il bosco, mentre Saga, cedendo alle lusinghe del Lato Oscuro della Forza, mulinava contro il gemello la pala, tentando di abbassarlo d’altezza a suon di botte in testa. “Vieni qua, espèce de pédé lubrique! Quante volte ti ho detto, che quel tizio non si deve mai nominare in mia presenza?”

“Aiolos! Aiolos! Aiolos mon amour!”

“Aspetta solo che ti prenda, vaurien! E ti porto allo stesso livello di Mastro Yoda!”

“Benissimo si vede, che Bogenschütze indifferente non ti è!”, lo sfotté Kanon, correndo e ridendo con un infuriato Saga alle spalle per tutto il giardino. “Sei troppo lento, Sasà! Panzone!”

“Io ti mangio la lingua! Gnyah! Non potevi nascere muto?”

“Bleah! Tutte scuse! Corri, Sasà, corri che arrivi ultimo! Muahahaha!!”

Grattandomi la testa, mentre osservavo coi miei fratellastri la corsa olimpica, domandai a nessuno in particolare: “Speriamo che non lo raggiunga … Saga mi sembra arrabbiato sul serio …”

“Nah …”, scosse il capo Aiolia, incrociando le braccia. “Non lo prende, non lo prende …”

“Sono anni che ci prova”, s’aggiunse Milo, appoggiando il gomito sulla mia spalla “E ancora non è riuscito ad ottenere lo scalpo di Nônon!”, disse. Poi, fissandomi dritto negli occhi,  dichiarò: “A proposito di scalpo … tu adesso vieni con noi!” e un malefico ghigno gli deformò il volto. Uno simile comparve il quello del lionceau.

“Cosa?”, inquisii d’un colpo impaurito, specie quando fui prelevato per le ascelle da Milo e Aiolia e trasportato a forza nello studio, dentro il quale ci stava aspettando Rhada, che armeggiava intanto col lettore dvd della televisione. Ah, ecco dov’era finito!

“Pronto?”, s’informarono i frères terribles lasciandomi planare sul comodo divano e sistemandomi accanto un tavolino pieno di cibarie di ogni genere, assieme a qualche bottiglia di coca-cola e Sprite. “E se vuoi”, mi disse Aiolia, cedendomi un block notes e una penna “per prendere appunti!”

“Che cosa significa tutto questo?”, volli sapere, le gambe che mi tremavano lievemente. Infatti, non mi piaceva l’aura ambigua che permeava d’un tratto lo studio, non mi suggeriva niente di buono. No, no.

“Non ti preoccupare, mon coeur …”,mi rassicurò Milo, accarezzandomi il viso. “Non ti verrà fatto alcunché di male; tu solo stai qui seduto buono e guarda da bravo pinguino il documentario, d’accord?” e mi baciò sulla punta del naso. E al “Finito!”, di Rhada, si scostò da me, lasciando assieme agli altri due la stanza.

Come? Documentario? No, no, fermi qua, un momento!

Mi alzai dal divano, onde correrli dietro, sennonché la maniglia girò a vuoto. Cosa? Mi avevano chiuso dentro a chiave? E perché ora lo schermo del televisore si era improvvisamente accesso?

“Dai ragazzi apritemi, non è divertente!”, gridai terrorizzato  e battendo i pugni contro la porta: l’intera scena faceva tanto The Ring e il sole morente della sera di certo non aiutava.

Silenzio.

Nessuna risposta.

Provai ancora a battere per qualche minuto, arrendendomi poi di fronte all’evidenza: i miei fratellastri (più il cognato) mi avevano serrato lì dentro e l’unica soluzione per uscire era di sorbirsi quel video. Ma come mai ci tenevano così tanto? E perché non guardarlo poi assieme?

Con questi dubbi in testa, mi sedetti sul divano, prendendo meccanicamente un biscotto dal piattino, mentre sullo schermo appariva la prima sequenza del “documentario”.

Per poco, non mi soffocai col boccone.

Ora capivo finalmente il nesso tra quegli strambi dialoghi di ieri pomeriggio e soprattutto, il motivo per il quale Aiolia si lamentasse di essere un Potterfoy: nel video, seduto sulla scrivania con giacca e cravatta, il lionceau aveva la frangia tirata all’indietro e portava un paio di occhiali dalle lenti troppo grandi per lui, probabilmente appartenute al fratello.  Schiarendosi la gola e sfogliando il piccolo quaderno degli appunti, Aiolia incominciò la trasmissione in un’imitazione perfetta dei conduttori di documentari del giovedì sera:

“Bonsoir à tous, siamo in diretta da TF 1.

Stasera, nel nostro programma volto allo sviluppo sostenibile del cervello, tratterremo di un tema molto attuale, se non proprio scottante, tra le masse d’adolescenti divoratori di manga e che tuttora divide l’opinione pubblica giovanile: lo Yaoi, la moderna grafica pederastia greca, solo su dei libretti di carta al posto  del più noto vasellame.

Sviluppatasi in Giappone, questa nuova corrente letteraria ha trovato terreno fertile soprattutto nel pubblico femminile, esacerbandone l’immaginario perverso e la recondita fantasia di vedere l’uomo inesorabilmente e irrimediabilmente inculato e sottomesso a obbediente schiavo.

Un’altra tesi, la più diffusa e plausibile (o almeno così sperano i maschi), è che in realtà lo Yaoi sia un terrifico malinteso , nato dall’inspiegabile tendenza dei mangaka giapponesi a disegnare ragazzi androgeni che, se non fosse per il petto piatto e l’occasionale comparsa dei zizì, il dubbio sul loro sesso sorgerebbe per davvero spontaneo e, hélas, giustificato.

Una terza ipotesi sorta di recente si basa sulla pesante mancanza di esponenti del sesso debole negli shonen manga. Se dunque quegli sfigati dei protagonisti vedono una donna ogni morte di Papa, non sarebbe naturale considerare ogni paio di fesses degne di conquista nell’attesa di una compagnia più femminile ?

Un sito, poi, che ha aiutato quest’irrefrenabile invasione nipponica porta il nome di Fan Fiction, nelle cui categorie fan scatenate, senza pudore, senza rispetto e senza pietà massacrano in un’indecente orgia neroniana i personaggi degli shonen manga, accoppiandoli tra di loro come conigli da laboratorio e sposandoli ufficialmente, imprigionandoli di conseguenza  in un matrimonio assai indesiderato.  Citando una dichiarazione di Goku a un nostro inviato: “Mi hanno maritato a forza con Vegeta e ora non c’è più niente, che io possa fare per ottenere il divorzio! La mia vita ora fa sul serio schifo!”

Come avete, quindi, avuto modo di ascoltare, lo Yaoi sta influenzando moltissimo l’immaginario collettivo, fenomeno esteso dal sopra citato Fan Fiction. In questa puntata, indagheremo sulla natura dello Yaoi, grazie all’ausilio di scanner, interviste a luminari e soprattutto vi dimostreremo, quanto labile sia la linea tra Harmony e  Yaoi!

Because Yaoi wants you! But do you want Yaoi?

Allora, incominciando da Professor Wyvern, professore di storia all’università di Oxford, ci dica: innanzitutto, è vero la diceria che Yaoi sia l’acronimo di YAmete, Oshiri ga Itai, o meglio tradotto: Fermati, mi duole il sedere?”

D’istinto, mi portai una mano a protezione delle fesses, mentre coll’altra mi servivo di un altro biscotto. Ciononostante, non male come incipit …

RHADA: (camuffato e cercando di non ridere) “Pas du tout! L’autentico significato va invece cercato nell’acronimo YAmanashi, Ochinashi, Iminashi : Niente climax, niente risvolti, nessun significato”.

AIOLIA: “Insomma, non molto dissimile dalle trame degli Harmony, altresì noti come l’inchiappettamento etero …”

RHADA: Volendo essere così brutali – seppur a ragione – sì, è così.”

AIOLIA: “Ora, Professor Wyvern, chiariamo un po’ di dubbi sullo Yaoi. Certi critici letterari lo definiscono “La pederastia greca del nuovo millennio”. Lei è d’accordo?”

RHADA: “Non del tutto. Anzi, credo che si discosti molto dal punto di vista ideologico e anche dei ruoli degli amanti.  Vero è che anche l’amore greco prevedeva delle posizioni, e anche molto rigide, tuttavia il motivo per il quale un adulto si accostava ad un ragazzino nelle palestre, non era solo dovuto ad un mero istinto sessuale. Era, invece, anche a scopo educativo e morale, una sorta di “rito di passaggio” dalla fanciullezza all’età adulta, traducendosi in una relazione maestro-allievo. Tuttavia, questa pratica differiva da polis a polis e in alcune di queste molto spesso il rapporto sessuale non era neppure previsto. Come del resto, differivano anche i vocaboli utilizzati per indicare l’uomo  e il ragazzo: per esempio il eispnelas (ispiratore)  e aites (auditore) a Sparta; l’erastes (amante) e eromenos (amato) ad Atene. Prendendo l’ultimo come modello e volendo fare un’ardita correlazione, diremo che il seme o semeru (attaccare) corrisponde all’erastes e l’uke o ukeru (accettare) all’eromenos.”

Cosaaaaa??? Fino a quel momento mi son preso del … del …

RHADA (continua): “Il legame che legava i due, oltre che a livello affettivo ed educativo, comprendeva anche altre sfere relative alla vita sociale: infatti, uno degli impegni che l’erastes si prendeva, era di proteggere il suo eromenos con denaro e politicamente.

Inoltre, questo rapporto era ciclico: una volta compiuti i diciotto anni, era disdicevole che un cittadino ateniese ancora esercitasse il ruolo del passivo. Al contrario, era invece accetto che da eromenos divenisse erastes, scegliendosi a sua volta un eromenos.”

AIOLIA: “Quindi, a quale modello di pederastia occidentale si rifarebbero il seme e l’uke?”

RHADA: “Direi a quella romana.”

AIOLIA: “Ma non era simile a quella greca?”

RHADA: “Appunto, simile, ma non uguale. Si è sempre detto, che gli antichi romani fossero tolleranti nei confronti delle relazioni omosessuali. Ecco, io la considererei una tolleranza ambugua, sotto la quale vigeva un codice di comportamento molto rigido, nel quale i ruoli dei partner erano ancora più definiti e le stesse pratiche sessuali cambiavano nome e verbo a seconda di chi le eseguiva e chi le riceveva.”

AIOLIA: “Capisco. In che modo, quindi, a suo parere le caratteristiche della pederastia romana sono ritrovabili nella relazione seme-uke?”

RHADA: “Sul concetto di machismo, innanzitutto. Contrariamente a quella greca – la quale ricordiamo era anche a scopo formativo – la pederastia romana si circoscriveva nella sfera strettamente sessuale. L’omosessualità a Roma era tollerata, ma con riserve. La principale era che mai e poi mai un cittadino romano esercitasse il ruolo del passivo; infatti, qual era l’invettiva più maligna tra i vari poeti? Quella, appunto, di cinaedus od omosessuale passivo. Riassumendo, il cittadino romano era un vir, un uomo vero, il quale esprimeva il suo lato “attivo” sia nella vita sociale, che sessuale, accostandosi con sostanzialmente due gruppi di partner: donne (feminae e puellae) e giovani uomini, spesso schiavi,  o fanciulli (pueri, adulescentuli o iuvenes). Mai altri viri.

Confrontando, quindi, questa concezione di “vita di coppia”, notiamo quanto assomigli alla figura del seme moderno. Infatti, nelle vicende Yaoi, è molto raro vedere uno scambio di posizioni tra i due partner: di solito, è sempre il seme quello che accosta per primo l’uke. È lui che “muove” i fili della relazione, che cerca il suo compagno tutte le volte che gli aggrada, spesso – come si può notare da queste slides – con metodi al limite della violenza fisica. In aggiunta, non dimostra mai segni di umana debolezza, è il dominante anche dal punto di vista caratteriale e nella stessa vita sociale.

L’uke, al contrario, corrisponde al puer  o al giovane schiavo, non solo in quanto due casi su tre è il più giovane della coppia, ma anche perché dal punto di vista caratteriale è il più infantile, totalmente dipendente e succube del suo uomo, accettando quasi sempre remissivamente ogni suo capriccio. In poche parole, un’importanza durante il decision- making di coppia pari a nil.”

Dopo questa dichiarazione, balzai dal divano, zumpettando di qua e di là come un canguro, le mani ai capelli: io non ero così! Non potevo essere così! “Menti! Menti!”, gridavo, afferrando lo schermo del televisore e scuotendolo senza ritegno alcuno.

AIOLIA: “Merci Professor Wyvern per i suoi chiarimenti. E ora, in diretta dall’università di Münster, il Dr. Zwillinge (gemelli, ndr) eseguirà per noi una Seme and Uke Autopsy, per meglio riconoscere da un punto di vista più fisico i due protagonisti del mondo dello Yaoi. Buonasera, Dr. Zwillinge, mi può sentire?”

SAGA (parrucca nera; mascherina; camice verde da chirurgo; bandana per tenere fermi i capelli; guanti di lattice): “Ja, M. Kovu, la sento benissimo! Vero, che lo sentiamo benissimo?”

(Kanon, vestito in ugual maniera, fa un eloquente gesto che tradotto, sarebbe: “Oh, se lo sentiamo!”)

AIOLIA: “Très bien. Allora, come prima il Professor Wyvern ci ha delineato, la differenza tra seme e uke non si basa solo sul carattere, bensì pure sull’aspetto fisico.”

SAGA: “Ja genau. Incominciamo dall’uke – sì, Herr Drachen, proprio questo qua (Kanon appende un poster di un ragazzo, che poteva benissimo passare per una femmina e Saga tira fuori una sorta di bacchetta da direttore d’orchestra). Also gut,  l’uke, come previamente affermato, è il passivo nella relazione; di conseguenza, anche il suo aspetto deve “risaltare” il suo ruolo, il quale generalmente è riservato alle donne. Il tratto distintivo principale è l’altezza: infatti, secondo la sacrosanta regola dell’altezza, due casi su tre, l’individuo più basso è l’uke della coppia.”

Mulinando il pugno contro Saga – o meglio, contro lo schermo – berciai indignato: “E’ un solo centimetro! Milo è più alto di me di un centimetro! Non significa niente! Un centimetro non fa di me un uke!”

SAGA (continuando): “Altri tratti somatici sono riconducibili alle linee più dolci – arrivando quasi a femminee curve – nel corpo estremamente delicato dell’uke; i capelli, poi, di norma più lunghi del seme (Saga fa cenno a Kanon di appdenre il poster di un giovane decisamente più virile)  e i tratti infantili non lo rendono molto dissimile da una qualsiasi altra ragazza. (Kanon mostra il poster di una giovane. Seigneur! Erano quasi identici!) Dal punto di vista ormonale, recenti studi suppongono che l’uke possegga un esagerato tasso di estrogeni, altrimenti non si riuscirebbe a spiegare – nel corso della storia – tutte quelle scenate, paranoie e sbalzi d’umore tipici di una donna durante il ciclo. In aggiunta, seppur gli uke siano sempre collocati tra i 16 e i 21 anni, i loro corpi non presentano alcun segno dei caratteri sessuali secondari portati dalla pubertà, come ad esempio la barba, i peli ascellari e inguinali e il pomo d’Adamo. Vero, che l’edonismo moderno ha portato alla depilazione quasi totale del corpo maschile, tuttavia, credo che ancora debba esistere il masochista che abbia il coraggio di sottoporsi ad una ceretta all’inguine (i due gemelli chiudono gli occhi in segno di dolore). Infine, un ultimo inquietante particolare dell’anatomia dell’uke è che quest’ultimo – durante l’amplesso – ha la sconvolgente capacità di far sparire la sua verge … Herr Drachen, mostri le slides … (in rapida sequenza, scene di sesso Yaoi. Di riflesso, chiusi gli occhi, specie quando Saga chiede a Kanon di fermarsi su di una particolare posizione, quella à quatre pattes) Visto? Non c’è più! Swish! È arrivato Harry Potter e la verge è sparita!”

AIOLIA: “Non potrebbe essere una sorta di censura per il pudore dei lettori? Insomma, se i dati del mercato indicano le ragazze come principali lettrici dei manga Yaoi, forse i mangaka non reputano così political correct mostrare loro una verge nuda e cruda!”

SAGA (incrociando scettico le braccia): “Es kann sein. (Può essere, ndr.) Tuttavia, le ricordo M. Kovu, che la verge del seme, quella sì che la disegnano!

KANON (ridacchiando): “Oh, se la disegnano!”

SAGA (tossicchiando): “Also gut. Le caratteristiche somatiche, invece, del seme sono tutto l’opposto dell’uke: dove avevamo trovato una grazia e una bellezza quasi femminili, tutte le qualità virili vengono riversate nel partner attivo. Più alto, fisicamente più forte, dai lineamenti più duri e mascolini. Un figliolo ben piantato, ecco. Solitamente, i seme sono più vecchi – e di conseguenza più maturi – degli uke; ciononostante, a questa regola vi sono infiniti casi d’eccezione, anzi, ultimamente i mangaka – e il fandom con essi – si divertono a rendere il seme più giovane dell’uke, in una sorta di enfant prodige del sesso unisex. E come affermato poco fa, la sua verge è più che visibile durante l’amplesso.”

KANON: “Tranne quando si trova nel … (senza voltarsi, Saga gli tappa la bocca con la mano)”

AIOLIA: “Prima di concludere, Dr. Zwillinge, a suo parere, lo Yaoi può essere in qualche modo educativo verso i lettori gay?”

SAGA (con convinzione): “Assolutamente no! Dal punto di vista medico, almeno. Infatti, sia nei manga che nei Fanworks non si trova mai, se non in qualche rara fan fiction, una seme che metta il preservativo, quando giace col compagno. E questo, personalmente lo trovo diseducativo. Una scusante sarebbe che i personaggi sono di finzione, che non sussistono nella realtà. Siccome però si è riscontrata di recente una certa pruderie nell’affrontare date tematiche sessuali a viso aperto, i giovani ripiegano su altre fonti per ottenere informazioni sull’incognita del sesso. Se, dunque, questo genere di letture – come i romanzi stessi, del resto, e i film soprattutto!- forniscono questi modelli, è naturale che vi sia un alto tasso d’emulazione. E non parlo solo per le coppie omosessuali, questo issue comprende anche quelle etero.”

AIOLIA: “Il suo consiglio, quindi?”

SAGA: “Usare sempre le precauzioni! Ché l’orgasmo dura qualche minuto, la sifilide e la SIDA tutta la vita!”

AIOLIA: “Merci Dr. Zwillinge e anche al suo assistente Herr Drachen. Ci prendiamo una mini pausa, ritorniamo dopo la pubblicità!” (cartello con scritto Break, lo schermo si oscura; parte la canzone It’s raining men, Hallelujah!, seguita dal commento di un irato Milo: “Chi diavolo è stato? Mi avete rovinato la sequenza, bordel!”)

Va bene ho capito il nocciolo della questione: da domani, in palestra a mettere su un po’ di muscoli! Effeminato? Ma sentili! Non mi daranno più dell’uke, quando vedranno i miei addominali scolpiti, disse il culturista, mentre di pappava enormi cucchiai di Nutella. Pinguino contraddittorio!

(Aiolia ricompare; si sistema la cravatta, beve la sua Sprite. Poi, riprendendo il quaderno, ricomincia)

AIOLIA: “B’soir, rieccoci qua in studio pronti per la seconda parte della puntata: “A la recherche du Yaoi perdu!” Dopo aver sentito il parere storico culturale e medico sulle caratteristiche del seme e dell’uke, indagheremo ora su di un hot topic, nato tra le pagine di Fan Fiction: ancora poco sviluppato tra i fan writers e tuttavia in grado di scatenare feroci dibattiti, mesdames et messieurs, stiamo parlando del famigerato Male Pregnancy, a.k.a Mpreg! Infatti, poiché nello Yaoi l’utilizzo del condom è cosa soggetta a molte interpretazioni, è dunque naturale (?) che vi sia di conseguenza una gravidanza. Insomma, sempre meglio quella che la SIDA, no? La nostra domanda è: se si ha un rapporto non protetto con una ragazza, una gravidanza è possibile; ma se lo fai con un uke, può accadere la stessa cosa? Qual è dunque il ruolo dell’Mpreg nelle fan fiction e come mai solleva tante perplessità? M. Antares, lei che ha scritto il bestseller Come finalmente Kétos diede il sospirato nipotino a quel rompiballe del suo gemello, nel quale ha esposto coraggiosamente le sue teorie sull’argomento sotto forma di racconto, ci può spiegare il suo punto di vista sull’ Mpreg?”

MILO (con la scarpetta rossa al collo; il berretto parigino e occhiali da sole): “Vorrei innanzitutto incominciare col dire che l’Mpreg non è un espediente narrativo, che conosce le vie di mezzo: o lo si ama o lo si odia. Infatti, esso divide il pubblico tra lettori che proprio lo cercano ed altri che, al contrario, lo evitano come la peste, indifferentemente dalla bravura dello scrittore. Infatti, vi sono  dei valorosi – o kamikaze – che si cimentano nel Mpreg, ma sono pochi e dotati di un gran bel fegato e di una faccia tosta altrettanto grande. La maggior parte, tuttavia, non osa. E sapete perché?”

Feci cenno di no, intimamente combattuto: una parte di me lo voleva sapere a tutti i costi, l’altra mi supplicava di tapparmi le orecchie. Ma più che il pudore poté la curiosità e proseguii nel mio ascolto, partendo nel frattempo all’attacco di una fetta di Reine de Saba di Kanon.

MILO (continuando): “Dunque, le ragioni, volendo essere concisi, sono tre: la prima, molto semplice, è che i lettori trovano l’Mpreg ripugnante! Non possono leggerlo, è più forte di loro, appena trovano come avvertenza: “Questa storia contiene una gravidanza maschile” saltano dalla sedia, correndo via come virginee pastorelle molestate dal big bad wolf! Schifati, ecco. Castrano la storia col netto ipse dixit: “C’est ridicule!” Mi ricordo che al mio primo racconto contenente dell’Mpreg, A Pope Joan, fui lapidato come Santo Stefano sia dai critici, che dai lettori. Una brutta esperienza, ve l’assicuro.”

Ah sì, me lo ricordavo quello! Poverino, ci era rimasto male per quasi tutta la settimana; eppure, la gravidanza era stata anche ben presentata, molto plausibile.  

MILO (continuando): “La seconda ragione è riconducibile alla nefasta fama, che accompagna le storie con l’Mpreg. Infatti, la leggenda metropolitana asserisce che storie non proprio scritte brillantemente contengano gravidanze maschili. E ciò è vero, quanto allo stesso tempo falso. Vi sono dei buoni racconti che trattano di questo tema, solo che a) vengono subito snobbati dai lettori a causa appunto di questi cliché; b) sono pochi, molto pochi. Perché infatti, grazie ai “flames” o critiche negative solo perché l’argomento non piace, molti scrittori – anche capaci – evitano quest’argomento, appunto per non essere considerati o pessimi autori o ricevere critiche molto pungenti e non necessariamente riconducibili al resto della trama. Eh sì, per i lettori meno indulgenti verso l’Mpreg, esso diviene il nucleo stesso della storia,  perfino quando in realtà il suo ruolo, rispetto alle vicende narrate, è piuttosto marginale.  In conclusione, volendo citare Sara Davis: “La maggior parte dei fan Yaoi rimangono accigliati nel leggere storie Mpreg e coloro che non lo fanno sono bersaglio di pesanti critiche da parte dei primi.”

Infine, l’Mpreg si circoscrive alla sfera del fantasy, dello science-fic,  a volte pure dell’horror, insomma in tutti quegli universi alternativi dove sia  possibile giustificarlo come normale e / o plausibile. In questo modo, lo scrittore si sente più sicuro da eventuali flames e godere allo stesso tempo di una certa libertà di azione.”

AIOLIA: “In altre parole, un racconto con una gravidanza maschile ambientata ai nostri giorni è molto difficile da trovare (e ben inteso scrivere), se non impossibile? Un’ardita fantasia di scrittori, in fin dei conti.”

MILO (sorridendo indulgente): “Non proprio. Vede, la controindicazione degli ipse dixit è che non dona la curiosità d’informarsi sui risvolti reali di certi topics. Mentre noi stiamo qui a discutere se una Mpreg va letta o no, se sia ben scritta o no, se sia plausibile o no, negli USA The RYT Hospital- Dwayne Center è riuscito a trovare il modo d’ingravidare un soggetto maschile, attuando tale procedura sul volontario Mr. Lee Mingwei, di cui possiamo – sì, proprio quella slide – vedere  la radiografia di lui e del feto perfettamente sano, che porta in grembo.”

Vierge Marie du Ciel!

AIOLIA (impallidendo): “E … e come ci sono riusciti?”

MILO (sornione): “Ovviamente, non con metodi “naturali” (ridacchia sinistramente). Tramite tecniche di IVF o in vitro fertilization, si è giunti ad ottenere una gravidanza ectopica, impiantando l’embrione e la placenta nella cavità addominale, giusto sotto il peritoneo. Tuttavia, per quanto l’esperimento andò a buon fine, rivelandosi inoltre un piccolo successo della scienza, il suo team si è riservato da proporlo ufficialmente come metodo procreativo, poiché i rischi sia per il portatore che per il feto durante la gestazione sono alti: il più insidioso è quello di emorragie, infatti, era appunto la gravidanza ectopica – cioè in altri posti rispetto al naturale endometrio della parete uterina – la causa principale di morte delle donne durante il parto.

AIOLIA (sconvolto): “Lei vorrebbe dire, che in un prossimo futuro, se vi fossero per una donna complicazioni a rimanere incinta, può sempre farsi sostituire dal compagno?”

MILO: “E’ probabile. A quanto pare, lo scopo ultimo della scienza è di renderci il più possibile simili ai pinguini: la femmina depone l’uovo e il maschio lo cova. Perché comunque si avrà bisogno di un ovulo, no?”

(Silenzio nello schermo.)

Silenzio in sala.

KANON (il gobbo, sottovoce): “Iou – Iou! Parla! Merci M. Antares per le sue delucidazioni. E adesso, prima di concludere la puntata … Sbambolati, bordel!”

AIOLIA (scuotendosi dalla feroce trance; Milo si pone una mano sulla bocca, il viso viola): “Uh? Eh? Ah ouais … ehm … ecco … uh … mer-merci M. Antlares ehm … Ankares … no, aspetta … Anjares … non lo so più dire … (Rumori di evidente nervosismo da dietro la videocamera- come se qualcuno avesse gettato per terra lo script in segno di frustrazione; Milo pat-patta partecipe la spalla del lionceau) …  insomma abbiamo capito chi, per le sue delucidazioni. (Respira profondamente, ingollando due bicchieri di Sprite; da “casa” lo imitai) E adesso, prima di concludere la puntata, vi mostreremo tramite un filmato quali siano i pilastri fondamentali di una storia Yaoi. Grazie per averci seguiti e buon proseguimento di serata!”

(Si spengono le luci; si sente Aiolia nel sottofondo borbottare: “Ma tu dovevi proprio uscire con quella battuta sui pinguini?”; replica di Milo: “Paura di essere messo incinto da Marin, eh?”; rumori di lotta; “Ahia!”; “Ops, scusa Sasà!”; “Eh, scusa, scusa! Non scusarti e vedi di mirare dritto, gattaccio!”; “La telecamera sta riprendendo …”)

(Ritornano le luci; lo studio pare trasfigurato: non c’è più il tavolo; vasi di fiore ovunque; il divano trasformato in una rudimentale alcova)

MILO (dietro la telecamera, funge da narratore): “Di solito, l’incipit è: C’era una volta in un liceo; in un’università; in una ditta; in una palestra; insomma, in ogni posto dove due maschi possano incontrarsi, c’era una volta due giovani, che non sanno ancora di essere gay, ma che lo scopriranno presto a discapito delle loro fesses. Ordunque, il primo a fare la sua comparsa è quasi sempre il seme (entra in scena Rhada, vestito con un cappotto alla Matrix; occhiali neri; stravaccato sulla poltrona, col whisky in mano e un’aria da uno che indulge troppo nelle joies de la cannabis). Alto (Rhada si mette in piedi) forte (mostra i bicipiti) dallo sguardo penetrante (Rhada fa pone due dita davanti gli occhi, rivolte verso la telecamera) e molto, molto mascolino. Il suo nome è Rodolfo (a Rhada gli cascano le braccia.)

Rodolfo, oltre che ad essere il figo di turno, è anche il più amato da tutti; nessuno può resistere al suo charme, giovani e vecchi, ricchi e poveri, belli e brutti, Rodolfo se li fa tutti!”

AIOLIA (saltellando stile cheerleader e strillando alla stessa maniera): “Semes are red / Ukes are blue / Rodolfo will fuck you too! Weee!” (alza per ultimo un cartello con scritto: “Rodolfo 4president!”)

MILO: (continuando) “Appunto per questo suo irresistibile charme, Rodolfo attira gente come mosche col latte (urla belluine di Aiolia, Saga e Kanon, che si gettano stile rugby su Rhada). Tutti sono pazzi per lui, ma l’insensibile arrogante li snobba con schifosa freddezza (Rhada scaccia via Aiolia, che in ginocchio gli sta chiedendo un autografo; dopo l’ennesimo rifiuto, il lionceau se ne gattona via piangendo). Eppure, c’è una persona, che lo intriga (Rhada si gratta furbetto il mento), che gli inebria i sensi e codesto sfigato, ehm, fortunato è niente di meno che l’uke della sua vita: Karolino!”

KANON: “Cheeee???”

MILO (sottovoce): “Così dice lo script … Non l’ho scelto io il nome! … Vabbè, vabbè … eh no, ormai l’ho detto … ma va’ in scena e non scazzare, bordel! (ad alta voce, mentre inquadra Kanon conciato come Candy Candy) Eh-ehm, allora … Karolino è una persona molto timida, tranquilla e riservata (Ohé!, commento da dietro la telecamera); la sua dolcezza e remissività fanno sembrare la romana Lucrezia una battona … (sguardo all’Occhidolci; una mano corre velocemente a nascondere l’obiettivo, mentre si sentono urla ferine tipo: “Non farlo mai più! Mi traumatizzi Ionesco!”) Eddai, Nônon un po’ di professionale serietà … come già detto, Karolino vive tutto felice e contento, se non fosse per la proverbiale famiglia omofoba che l’accompagna (Kanon alza le mai al cielo, come dire: “Non si può aver tutto!”)

Sennonché la sua esistenza lenta e paciosa viene disturbata dall’irruente entrata in scena del seme Rodolfo! (Kanon saltella come il Bianconiglio con un cesto di fiori sotto braccio; si ferma appena incontra Rhada, mentre quest’ultimo levandosi gli occhiali da sole, gli elargisce un’occhiata molto eloquente) Il primo approccio ricorda molto il matrimonio spartano: infatti, Rodolfo, con la scusa di un poca di privacy, arriva quasi a sequestrare Karolino, per poi quasi soffocarlo con una caliente lumaca dance. (Rhada esegue un rapido caschè, baciando un ronronnante Kanon). Ma ovviamente, Karolino rifiuta sdegnosamente … eh-ehm … ho detto: “Rifiuta sdegnosamente” … rifiuta … rifiutaahh … KANON RIFIUTA SDEGNOSAMENTE IL ROASTBEEF O GUARDA CHE TI SOSTITUISCO CON SAGA!”

KANON (terrorizzato alla sola idea): Nooooooo!!! Come puoi farmi questo?!?

MILO (calmandosi): “Dopo aver proferito, quindi, simile parole, Karolino scappa via alla farfallet … Ma i guai sono appena iniziati, poiché Rodolfo, in seguito al mucho caliente beso, vuole ovviamente fare il bis e allora, incomincia ad attuare una vera e propria campagna di stalking nei confronti di Karolino, il quale è appunto talmente ingenuo da non sapere che esiste una legge, che prevede dure sanzioni nei confronti di chi pedina a scopi non proprio puliti la gente. Comunque … Poco a poco, Karolino inizia a cedere al penetrante sguardo da triglia innamorata di Rodolfo (Rhada lo fissa accigliato, Kanon ridacchia da dietro il ventaglio). Ma un’oscura ombra minaccia la felicità dei due piccioncini …

REGISTRATORE (volume massimo): “Il triangolo no, non l’avevo considerato …”

MILO (ruggendo fuori di sé e lanciando lo script contro il fratello): “AIOLIA! Che cavolo combini? Spegni subito quel … quel … coso!”

AIOLIA: “Eddai, era per sdrammatizzare …”

MILO: “Ti sdrammatizzo io, se non la pianti immediatamente! Ti mando in America a farti impiantare in pancia tre gemelli, capito? Oh, e che diavolo! (si schiarisce la gola) Come stavamo appunto dicendo, prima di questa sgradita interruzione musicale, un’oscura ombra minaccia la felicità dei due piccioncini …

REGISTRATORE (volume massimo): “Il triangolo no, non l’avevo considerato …”

MILO (alzandosi): “No io adesso gli spacco la faccia, quant’è vero che non so che gli spacco la faccia! Vieni qua, puzzola! Vieni da Milou chèri, che ti cambia i connotati! Siamo andati  così bene, seri e professionali fino ad adesso e tu mi salti fuori e rovini tutto? Che penserà Ionesco quando lo vedrà, eh gattaccio? Penserà – schiaffo sulle fesses – che noi – altro schiaffo – siamo – tris – una banda di – e quattro – idioti! Ecco cosa penserà!”

Beh, in effetti, prima della sequenza Yaoi avevo trovato davvero notevole il loro lavoro. Forse, essendo stata l’ultima parte, i loro nervi non avevano retto allo sforzo sovrumano di rimanere seri per troppo tempo, desiderando, infatti, rilassarsi un poco.

SAGA (staccandolo a viva forza, mentre Kanon sottrae Aiolia dalle chele vendicative dello scorpione): “Dai, Milou, non prendertela, ti sale la pressione, non ti fa bene …”

KANON: “Chill out, man!”

RHADA (rivolto all’obiettivo della telecamera): “Credo che sia finito il primo tempo …”

(La scena si oscura per ben dieci minuti, dopo riprende …)

MILO (sbuffando sonoramente): “Dunque, Rodolfo e Karolino incominciano a vivere i primi stordimenti amorosi della loro ancora acerba relazione. Ma un’oscura ombra minaccia la felicità dei due piccioncini … Non ti azzardare … (punta una pistola ad acqua contro Aiolia) Il pericolo, che potrebbe minare dalle fondamenta il fragile castello di carta del loro amore, risiede nella perfida, subdola, calcolatrice e senza scrupoli figura del terzo incomodo: Jannot!” (la telecamera si gira, inquadrando un ignaro Saga, che stava leggendo tranquillamente il giornale)

SAGA (disorientato): “Gueh? Cosa?”

KANON (quasi strozzato dalla sua stessa voce): “Non lui! Mi avevi promesso tutti, ma non lui! (batte i piedi per terra come un gosse) Non voglio, non voglio, non voglio!”

MILO (estremamente  irritato): “E infatti, non è lui! Iou – Iou! Vieni qua! Scendi da lì! Subito!”

AIOLIA (appollaiato in cima al tavolo e facendo il gesto dell’ombrello, non appena la telecamera lo inquadra): “Tiò che vado a sedurre Rhada! Primo, perché non mi piacciono i maschi e secondo, perché non sono così kamikaze: Nônon mi ammazza!”

KANON: “Appunto!”

MILO (sul bordo di una crisi isterica): “Per finta, crétin! Per finta! Ti pare, che Nônon se ne vada in giro vestito alla Candy Candy?”

AIOLIA: “Non si sa mai! Noooooo!!! Lasciatemi, non mi sottoporrò mai alle vostre fantasie cochon! Che poi tanto lo so, che alla fine caricherete il documentario su youtube! E Marin lo guarderà, pensando che sia una tapette! Noooooo!!!” (si agita, soffia e graffia, mentre Saga e Milo lo tirano per ambedue le gambe, onde portarlo in scena)

(Ci riescono. E uno sconsolatissimo Aiolia si aggrappa a mo’ di patella a Rhada; segni di nervosismo da parte di Kanon)

MILO (la voce incrinata da un lieve, ma pericoloso accento da serial killer psicopatico): “Con studiata perfidia, Jannot riesce ad insediarsi nella vita di coppia di Rodolfo e Karolino (Aiolia si tuffa in mezzo a loro due, separandoli); abilmente sfrutta le infinite paranoie dell’uke Karolino per allontanarlo dal suo seme! Così, giocando al migliore amico, Jannot da una parte consola Karolino, dall’altra gli seduce Rodolfo! - Per maggiori informazioni, guardate il caso Pitt- Jolie-Aniston … - Ormai totalmente irretito dalle lusinghe del procace biondone (Aiolia gli mostra il dito medio), Rodolfo parte con la sua proposta indecente …” (il lionceau impallidisce, Milo sghignazza alla Psycho).

RHADA (seduto al tavolo accanto ad Aiolia, che si affloscia d’istinto): “Jannot … ormai, è da tanto tempo, che ci vediamo  alle spalle di Karolino (Kanon fa cenno di tagliargli la gola, mentre Saga lo trattiene per le spalle) ... ecco, pensavo … c’è una cosa, che mi piacerebbe tantissimo fare con te …”

AIOLIA (bianco come un panno appena lavato): “Che cosa?”

RHADA (sorridendo malevolo): “Kiss you …”

(Silenzio)

AIOLIA (riscuotendosi dallo choc): “No quello no! Non bacio un mec! No! No! No!”

MILO (frustrato e in mode assassina): “Bacialo, maledizione! Bacialo!”

AIOLIA: “Mais c’est un mec!”

MILO: “Je m’en fou! Embrasse-le!” (Me ne frego !  Bacialo !, ndr. )

AIOLIA (incrociando caparbio e disperato le braccia): “Non puoi costringermi!”

MILO (ridendo gutturalmente e imitando lo stessa parlata di Hannibal Lecter): “Ah ouais? Lo vedremo, lo vedremo … (da sotto l’inquadratura compare la pistola ad acqua, puntata dritta sulla fronte del lionceau) Guada che è carica … d’inchiostro … ti avverto: sono al limite massimo della mia pazienza; ora dai quel fottuto bacio a Rhada o premo il grilletto e da Simba ti trasformi in Kong fu Panda, capito?”

(Aiolia guarda sconsolato Rhada, avvicinando schifato il viso a quello dell’inglese, mentre Milo – che sempre lo punta con la finta pistola -  lo incoraggia: “Bravo, così, bravo … un po’ più vicino … ecco … dai un bacino e tutti contenti …” Aiolia fa appena in tempo a sfiorare con la punta del naso Rhada, che sviene, cadendo giù dalla sedia.)

MILO: “Vabbè, dopo il bacio, i due ne approfittano per una focosa galipette d’amour  … Oh, si è ripreso? (“No”, risponde Saga, mentre trascina Aiolia fuori dalla scena). Tuttavia, Karolino, sospettoso, irrompe nell’appartamento di Rodolfo e alla vista dei due discinti e avvinghiati – per non dire altro – tra loro, rimane prima di sasso (Kanon muove la bocca in uno sconvolto “Fuck!”) per poi scappare via in lacrime … ehm, Nônon ho detto “in lacrime”, non  “tira fuori il laccio del Punjab, apprestandosi a strangolare il fedifrago con la sua gonzesse” … dai, almeno tu non farmi indiavolare, eh? (Kanon rimette in tasca il detto laccio, sbuffando; poi corre via piangendo istericamente). Merci frangin. Disperato, Karolino tenta il suicidio! (con seria preoccupazione) No fermo, Nônon! Non farlo!”

SAGA (portandosi le mani ai capelli): “Metti subito giù le Mentos! E soprattutto la coca-cola! Lo sai che succede, sennò! Non l’ha baciato, te lo giuro! Iou – Iou è svenuto prima!”

 (Ignorandoli, in cima al tavolo, Kanon si ficca in bocca tre Mentos a mo’ di pastiglia,buttandole giù con grosse sorsate di coca-cola. Tre secondi e il giovane era in procinto di vomitare. Rapido, Saga balza ad acchiapparlo, tappandogli la bocca e correndo filato verso il bagno)

Chissà perché non me n’ero accorto … Ah sì! Ero nella stanzetta del pianoforte ad esercitarmi! Peccato, sarebbe stato un interessante spettacolo.

(Gli attori si ricompongono. Saga riporta un verdognolo Kanon in studio e lo stende sul divano trasformato in alcova)

KANON (debolmente): “Dove sono? Che luogo è mai questo?” (vedendo Rhada accanto, strilla con vocetta acuta) Tu! Tu! Come hai potuto? (piglia il ventaglio e lo sventola furiosamente) Insomma, che ti ho fatto di male? Perché sei così stronzo con me? Io, tenero e casto fanciullo …” (risatina di Saga e Aiolia come sottofondo)

RHADA: “Perché mi garba vederti così … sottomesso e indifeso … alla mercé  delle mie brame …” (“Ma che senso ha questa replica?”, lo sentii borbottare tra sé e sé)

KANON: “Oh, lurido verme! Come osi? Vattene via, lasciami in pace! Esci dalla mia vita! Sniff … sniff … Per colpa tua, non riesco a provare più alcun sentimento: mi hai rovinato l’esistenza, capisciiiiiiiiiiiiiiiiiii?” (Rhada si copre le orecchie con le mani; Kanon nasconde il viso sul cuscino, battendo nel frattempo i pugni sul materasso di fortuna)

RHADA: “Non fare così: vedrai, saprò consolarti io …”

Ovvio, purché stesse zitto.

KANON (mettendosi seduto e afferrando Rhada per il bavero, lo scuote alla milkshake): “Perché hai detto a Jannot quelle bugie, eh? Perché? Come ti sei permesso di dirgli che l’ami, quando l’unico oggetto dei tuoi desideri sono io? Eh? RISPONDI STRONZO!”

RHADA (afferrando Kanon per i polsi, prima che gli facesse volare la testa a suon di scuotimenti): “BITCH, CONTROL YOURSELF!”

PAtasciòòòk! (grande – finto - manrovescio, Kanon gira su se stesso e piomba disteso sul materasso)

MILO: “Ed ecco il momento più atteso: Rodolfo, resosi conto di quanto Karolino sia importante nella sua vita e infoiato alla vista del detto uke semisvenuto sul suo letto, non ne può più e decide di passare repentinamente – e senza alcuna introspezione psicologica- alla prossima fase della relazione di coppia: l’antico rituale della deflorazione-stupro!”

La che?!?, pensai d’un colpo terrorizzato, portandomi entrambe le mani alle fesses.

KANON (spalancando gli occhi preoccupato): “Cosa?!? No, questa te la sei inventata tu!”

MILO (sventolandogli un fumetto Yaoi): “Ti giuro che è quel che c’è scritto qui! Dopo ti mostro, ça va? (schiarendosi la voce) Allora, questo rituale prevede un attacco piuttosto sauvage nei confronti dell’uke, il quale a causa del suo virgineo pudore urlerà:

KANON (combattuto se scappare o attaccarsi al suo Vivervone) : “Oh no, per favore, lasciami, nnnhh … legami, cioè, lasciami! No … ih … fa male … nnnhhh … ohhh … ahhhh …”

SAGA: “Nônon, leva il sonoro o diventa un film porno …”

KANON: “Mi avevate detto di essere professionale, se non mi sbaglio? E allora, di che vi lamentate?”

MILO (sospirando a lungo): “Proteste che ovviamente il seme non ascolterà, ripetendo in un continuo, prevedibile e monotono refrain:

RHADA (tirando fuori un registratore, mette play): “Ti piacerà! Ti piacerà! Ti piacerà! Ti piacerà …”

MILO: “Alla fine, però, l’uke soccomberà e le grida della prima galipette d’amour riecheggeranno per tutta la felice alcova!  Hey, che fai? Ridammi lo script, gattaccio! A cuccia!”(rumori di lotta, seguito da un pesante tonfo per terra)

AIOLIA (leggendo velocemente): “E così, riappacificati, sfogati e placati Karolino e Rodolfo vissero tutti felici e contenti! E vaffanculo, è finita! Oh là!”

CORO (tutti e cinque giubilanti): “Yeah!”

(Parte la canzone: The time of my life, con gli applausi del pubblico; il video si spegne.)

Silenzio.

Rimasi lì al buio per non so quanto tempo, fissando assente lo schermo spento della televisione, l’ultimo pezzo di biscotto bloccato a mezz’aria dalla mia bocca. Percepii uno strano gorgoglio allo stomaco, che risalì per tutto il mio corpo fino alla gola, inumidendomi gli occhi, mentre le mie labbra si piegavano in grottesche smorfie.

Non ressi più, dovevo dar via allo sfogo.

“MUAHAHAHAHAHA!!!”, risi come un demente, applaudendo fino a scorticarmi i palmi delle mani. Mi asciugai le lacrime agli occhi, scuotendo il capo con veemenza e continuando a ridere così forte, che per poco non mi esplodeva la cassa toracica. “Dai potete aprire ora!”, singhiozzai tra una risata e l’altra, battendo alla porta.

“Cosa fa? Ride? E’ impazzito?”, sentii domandare un apprensivo Aiolia.

“Con tutto il casino, che hai combinato ieri, caro il mio Iou – Iou, avresti fatto uscire fuori di banana perfino Santa Teresa di Lisieux!”, replicò secco Milo, armeggiando nel frattempo con la chiave. Finalmente, la porta si aprì, ritrovandomi tutta la combriccola davanti, che mi fissava inquieta, soprattutto quando mi vide mezzo morto dalle risate.

“Tutto a posto, Momus?”, s’informò lentamente Saga, pulendosi incredulo gli occhiali.

“Mais oui! Non si vede?”, sorrisi gioviale, senza smettere di ridacchiare.

I cinque masnadieri mi lanciarono un’occhiata incerta, indecisi se credermi o incominciare a preoccuparsi sul serio della mia sanità mentale. “Eddai, perché mi guardate così?”, chiesi perplesso, sempre ridendo. “Avete fatto un lavoro magnifico … davvero! Ha – ha, non ho mai … ha – ha … riso … ha-ha … così tanto in vita mia! Ih – ih … la prima parte era stupenda! Alcuni aspetti dell’omosessualità a Roma, neppure li sapevo … ha-ha … e il Seme and Uke Autopsy … ih – ih … vi siete ispirati ad Alien Autopsy? Ha- ha … e l’Mpreg e i pinguini! Mi vuoi mettere incinto, Milo? Ha- ha … e la favoletta di Rodolfo e Karolino … Aiolia che sviene perché deve baciare Rhada … le Mentos … la coca-cola … il … il laccio del Punjab! Mauahaahaha!!! E la deflorazione-stupro!!! Ih –ih! HA-HAHA!!!”, risi sguaiatamente senza freno alcuno; invece, i miei fratellastri e cognato si guardarono al limite dello sconcerto, domandandosi tacitamente che diavolo mi stesse prendendo.

“Questo è partito …”, commentò Kanon, scuotendo rassegnato il capo biondo.

“Completamente sbarellato …”

“Povero Momus, i suoi nervi non hanno retto …”

“Mais non!”, li contraddissi, reggendomi la pancia, che incominciava a dolermi. “Siete stati meravigliosi! Ne avete una copia? No, anzi, la caricheremo su Youtube! Ha-ha …”

“Azzardati e pongo subito fine alle tue sofferenze …”, mi minacciò Aiolia, sfilando il laccio del Punjab dalla tasca del gemello minore.

“Stavo scherzando, uffa! Parrà strano, ma anch’io rido ogni tanto sapete? Ha- ha!!!”

“Si, però adesso ci fai paura!”, disse seriamente preoccupato Milo, appoggiandomi con delicatezza la mano sulla spalla. Sussultai come ustionato a quel tocco, il mio corpo d’un tratto attraversato da una vampata di calore e allo stesso tempo scosso da brividi freddi.

Mi calmai di colpo.

“T’as raison, Milo”, dissi atono, accarezzandogli la mano e fissando assente un punto davanti a me. “Adesso basta”, sorrisi demente. “Ti ricordi, quel che ti dissi al cimitero? Siamo molto indietro con la Danse Macabre … Conto che tu venga con me ad esercitarti, vero?”

Silenzio.

Aggrappandosi al fratello per proteggerlo, Aiolia esclamò spaventato: “No Milou! Non seguirlo! Riconosco quello sguardo: è quello del maniaco che si appresta a saltare addosso alla sua vittima! S’il te plaît, non seguirlo!”

Scuotendo il capo, l’interessato in questione lo rassicurò che dai, che poteva capitargli in nemmeno due orette di esercizi musicali? E a nulla valsero le appassionate proteste di Aiolia, che fulminai con lo sguardo – come osava mettersi tra il bicho e me? – per persuaderlo a desistere, niente, Milo era irremovibile nella sua decisione, rinfocolata poi dal senso di colpa, per aver disertato ieri i nostri esercizi pomeridiani.

Meglio così … sussurrò una vocetta dentro la mia testa, che mi affrettai a mettere a tacere, specie quando il ragazzo si avviò con me verso la stanzetta del pianoforte,  meglio così …

“Milou!”, lo chiamò all’ultimo Kanon. Strinsi indispettito l’occhio destro: uff! Che volevano ancora quegli scocciatori?

“Oui, Nônon?”

Il gemello minore si parò davanti allo scorpion, posandogli con solennità le mani su entrambe le spalle. “So che ormai la tua decisione è presa  e che nulla al mondo ti convincerà a cambiarla”, esordì grave, mentre i fratelli rimanenti annuivano alla stessa maniera.“Tuttavia, frangin, un consiglio te lo voglio dare: finché starai lì dentro, non dargli mai le spalle!”  e lo scosse energicamente, per meglio imprimergli le parole appena pronunciate. “Capito? Mai! A meno che tu non voglia perderla stasera …”

“Cosa?”, sussurrò spaventato Milo.

“Tu preoccupati a non dargli le spalle, per il resto t’es dans les mains de Dieu!” e gli schioccò due baci sulle guance, provocandomi un sordo ringhio in gola. “Bonne chance, Milou! Et que Dieu te garde …”, si congedò da lui, mentre trascinavo via il mio bicho, buttandolo quasi a forza dentro la stanzetta del pianoforte, sbattendo la porta e appoggiandomi stancamente ad essa.

Evvai, finalmente mi sono liberato di quegli spacchipalli!, pensai, mentre inconsciamente le mie dita giravano la chiave nella serratura …

 

***

 

“Non! Non! Non! Pas comme ça! Ma ci metti la testa, quando suoni? O emetti rumori a casaccio?”

Milo levò il violino dalla spalla, fissandomi accigliato e a ragione: non gli avevo dato tempo di terminare neppure due pagine, che subito lo interrompevo, rimproverandolo della sua trascuratezza nell’esecuzione del brano, quando poi in realtà era il mio accompagnamento col pianoforte ad essere pensoso.

Avevo la mente in subbuglio, che ci volevate fare? Tutte quelle immagini, quelle spiegazioni, le telefonate, gli insulti, quell’uke e quel seme mi tormentavano senza requie il cervello in un sadico  e infinito turbinio di pensieri, uno più cochon dell’altro. E avere poco distante il principale artefice di simili cogitazioni sconce, non mi aiutava di certo, anzi, aumentava il magma che sentivo all’improvviso ribollire in me, premendo per uscire. Di questo intimo conflitto, tuttavia, solo il leggero tremore alle mie mani ne era la spia.

“Ricominciamo!”, gli intimai secco, sperando che la musica mi distraesse. Invano! Quella mezzana, con le sue languide melodie, rinfocolava maligna il mio tormento, soprattutto nel momento in cui il violino si mise ad attaccare senza pietà. Allora, curioso e masochista, mi voltai con circospezione per meglio contemplare il mio biondo violinista.

Milo non stava più seguendo le note dello spartito, i suoi occhi erano chiusi: suonava a memoria. I miei, avidi, lo vivisezionarono senza pudore alcuno, scendendo alle labbra vermiglie semischiuse al collo esposto per tenere fermo il violino col mento; bevvi i gesti rapidi e nervosi delle  sue dita sulle corde dello strumento, mentre modulava il movimento dell’archetto in un va e vieni ora languido, ora frenetico. Ed era quello il momento che stavo aspettando, quando il violinista doveva fondere la sua anima con la musica, diventando egli stesso lo strumento e gongolai soddisfatto nel notare come i riccioli delle tempie di Milo s’inumidivano man mano che proseguiva col brano.

Mi passai inconsapevolmente la lingua sulle labbra all’improvviso secche, senza accorgermi che avevo smesso da un bel pezzo di suonare.

E di fatti, Milo se ne accorse poco dopo, levando con mio sommo disappunto l’archetto dalle corde, osservandomi interrogativamente. Deviai il mio sguardo, sentendomi troppo esposto per i miei gusti.

“Il pizzicato”, dissi automaticamente, gli occhi puntati in maniera ostinata sui tasti d’avorio.

“Scusa?”

“Il pizzicato! Non andava bene!”, ripetei piccato, sentendomi vibrare ogni singolo nervo del mio apparato. “Lo fai apposta a suonare male? Vuoi farmi fare una figuraccia all’esame? Mais oui, tanto a lui che gliene importa, non è lui quello che deve essere valutato! Non è lui che si vede sfumare l’opportunità di entrare nel Conservatoire, eh?”

Va bene, ero ufficialmente partito per la tangente.

“Je suis désolé …”, si scusò Milo sinceramente contrito, sfogliando le pagine dello spartito per riprendere da daccapo.

“Oui, oui, Je suis désolé!”, lo imitai con accorata perfidia. “Cos’è ? Una scusante per giustificare la tua incapacità ?”

Il ragazzo alzò irato un sopracciglio, riponendo via il violino e chiudendo il quaderno con insolita violenza. “E che pretenderesti da me? Sono due anni che non suono più e credi che dopo appena tre settimane, op! torni agli stessi livelli di allora? Ti avevo avvertito! Eppoi mi esercito, sei tu l’ossessionato, che se non arriva a quattro ore al giorno gli viene una crisi isterica!”

“Come, l’ossessionato? La musica è sempre stato tutto per me!”, urlai, battendomi con ferocia il petto. “Io non ho avuto alcuna compagnia fino a poco tempo fa! I miei amici, i miei fratelli, ecco cos’è la musica per me!”, mi sgolai, comprendoni il volto con entrambe le mani e poggiando pesantemente i gomiti sulla tastiera del pianoforte, che emise un forte e stonato gemito di accordi.

“Scusami, non intendevo offenderti”, mi domandò Milo subito perdono, sedendosi esattamente dove volevo: accanto a me.

He – he, fesso, ci sei cascato in pieno!, pensai maligno, mentre sorridevo tra me e me, ghigno ben celato dalle mie mani, le quali tuttavia mi concedevano una conveniente fessura per meglio spiare il mio obiettivo finale, ergo le sue labbra.

Analizzando ora l’intera situazione con il senno di poi – acquisito solo dopo tre anni di vita di coppia -  forse, sarebbe in effetti stato più naturale girarsi e baciarlo come fa un qualsiasi cristiano (etero o gay che fosse), invece della grottesca cavolata da me compiuta, ergo … uhm … no, no, meglio procedere con calma … dunque …

Sentendosi colpevole del mio molto melodrammatico sfogo – malgrado ogni parola strillata fosse vera- Milo mi accarezzò la schiena, tentando di consolarmi in ogni modo e flagellandosi in dolenti mea culpa nell’appurare, che più lui mi confortava, più io mi disperavo.

Allora, come ultima spes, il ragazzo si alzò per andare in cucina e prendermi qualcosa da bere, magari una camomilla, sennonché rimase letteralmente gelato, quando si apprestò a girare la maniglia.

“Chiusa a chiave?”, furono le uniche parole che riuscì a mormorare, prima che io …

 

***

 

“GYAHOU!”

In cucina, cinque teste si voltarono in perfetta sincronia in direzione della stanzetta del pianoforte.

“Mon Dieu!”, si lamentò Aiolia, portandosi le mani ai capelli. “Je le savais! Je le savais! Lo sapevo io, che andava a finire così! E lui non mi ha ascoltato!”

Servendo al suo meco del the caldo, Kanon scosse il capo: “Glielo avevo detto io di non dargli mai le spalle!” e una piccola risatina scappò dalle sue labbra, mentre gli occhi gli si illuminavano divertiti.

“Ma che succede?”, chiese disorientato Saga, tornando ad osservare preoccupato la fonte di quell’urlo da animale catturato.

Alzando le spalle, il suo gemello replicò serafico: “Bah, niente d’importante: è solo Momus che sta violentando Milou … Latte, Sasà?”

“Cosa?”, fece scioccato il maggiore, portando in automatica la tazza di the alle labbra. “Stai scherzando, vero?”

“Ti pare che siano cose sulle quali scherzare?”, replicò un indignato Aiolia al posto di Kanon. “Grand frère, avevi visto con che faccia Momus è uscito dallo studio? Aveva la scritta Arrapato tatuata a caratteri cubitali! Povero il mio Milou …”

“E solo per quella cavolata casalinga!”, infierì Kanon, spazzando via la sua seconda fetta di Reine de Saba. “Non oso immaginare, come avrebbe reagito se gli avessimo mostrato un film porno! Ce lo avrebbe stuprato sotto gli occhi!”

“Nônon, per favore!”, gli chiese pietà Saga, impedendogli di continuare oltre con un deciso gesto.

“Invece, non sarebbe meglio andare a prelevare Milou dall’arrapato pinguino? Insomma, Momus è  ancora vergine, inesperto, potrebbe fargli molto, ma molto male …”, propose il lionceau, d’un tratto premuroso per la virtù del fratello.

“Ih, quante storie! Invece, è ora che finalmente Pingu perda almeno la prima verginità!  E Milou la seconda …”

“Gueh?”, fecero in coro i due fratelli, curiosi di approfondire l’argomento, specie per quanto riguardava l’ultima dichiarazione di Kanon. “Come? Come?”

“Ah no!”, fece risoluto il gemello minore, porgendo le mani avanti. “Ho promesso a Milou, che non ne avrei fatto parola ad anima viva; riguarda solo lui e me! Ho la bocca chiusa, zip!” ed imitò il gesto di chiudere una fantomatica cerniera tra le labbra. 

Insoddisfatti, i due sbuffarono sonoramente.

“Io invece”, si aggiunse Rhada, che fino a quel momento aveva riletto tranquillo i suoi appunti di giurisprudenza, “sono dell’opinione che Milo riuscirà a salvare le sue fesses …”

“E come?”

“Umphf! Un vergine non è poi così difficile da scoraggiare …”

 

***

 

“Ih! Cosa fai? Metti giù quelle forbici!”, mi gridava un Milo tra l’indignato e lo sconvolto, nel frattempo che si dimenava come un ossesso, cercando di liberare i suoi polsi convenientemente da me legati alla gamba del pianoforte.

E mica era stato facile, sapete? Dopo averlo assalito alle spalle, il brevissimo tragitto dalla porta al pianoforte si era trasformato in una lotta corpo a corpo, dalla quale il sottoscritto ne uscì vincitore, in quanto utilizzò la tecnica patella, ovvero aggrappandosi alla schiena dello scorpion, impedendogli di girarsi e fronteggiarmi più comodamente. Atterratolo, approfittai della sua confusione per legarlo alla sadomaso, come avevo visto fare Kanon con Saga un mese fa.

Oh, ci sarà un motivo, se mi hanno sempre considerato un buon studente, no?

Con la mente in vacanza e con gli ormoni che mi pulsavano alle orecchie, mi tuffai sopra il mio bicho – che commentò con un “Uff!” -  apprestandomi a levargli la felpa. Peccato, che le mie mani inesperte nell’arte della spogliazione erano talmente prese dall’eccitazione, che riuscirono con successo ad incastrare la cerniera dell’indumento. E a nulla valsero i miei frenetici tentativi, i miei sbuffi e le mie imprecazioni; provai addirittura a smuoverla coi denti … nisba, nada non avanzava di un centimetro! Frustrato, mi guardai in giro, cercando uno strumento che potesse aiutarmi nell’impresa e fu il cassetto della scrivania poco lontano a fornirmi la soluzione.

“Non ti avvicinare con le forbici in mano!”

“Paura, eh?”, lo sfottei maligno, schioccandole sinistramente. “Chissà, magari potrei utilizzarle anche per i pantaloni!” e mi apprestai a compiere la mia opera.

Di riflesso, Milo intrecciò protettivo le gambe. “Umphf! Tutto questo vaudeville mi ricorda tanto Misery non deve morire!”

“Uhm!”, commentai, cercando il punto migliore per incominciare a tagliare la stoffa. “E ringrazia il cielo che non ti amputo i piedi!”

Alzando la testa, lo scorpion replicò: “No, gli aveva spezzato le caviglie!”

“Nel film. Nel libro, invece, gli amputava i piedi, cauterizzando poi le ferite”, precisai, sollevando un lembo della felpa e tagliando con la stessa euforia di un demente. Il che era appropriato per il mio stato mentale di quel momento. “Uf … uf … ti dimostrerò che io non sono un uke … che non sono così virgineo e innocente come credi (a torto) … ih-ih … sai, da quando ci siamo baciati … ti sognavo ogni notte … immaginando che facessimo insieme questo *censurato* … e quest’altro *censurato* … e poi *censurato* … e mmmhh … quest’altro ancora *censurato* …”

“Sei un po’ pretenziosetto, insomma, non sono esattamente Rocco Siffredi, dammi del tempo … Inoltre, grazie per aver distrutto la mia felpa preferita!”

“Tzé! Tant pis pour toi!”, ridacchiai sinistramente, stracciando l’indumento con irruenza. Abbassai lo sguardo pieno d’anticipazione, trovando …

… il ghigno sfottitore di Jack Skellington, che mi scherniva con un irritante “Ritenta, sarai più fortunato!”

“La maglietta sotto la felpa?”, grugnii frustrato, fulminando il ragazzo sotto di me, che ribatté ineffabile:

“E perché no? Hai qualcosa in contrario? E non tagliarla: non è mia, è di Aio - …”

Zac, zac, zac.

Milo roteò sconsolato gli occhi, tamburellando le dita sulla gamba del pianoforte, intanto che io mi adoperavo a dividere a  metà con sadica precisione la faccia del protagonista de L’étrange Noël de monsieur Jack (titolo francese per “Nightmare Before Christmas”, ndr).

Sbuffai spazientito e allo stesso tempo stanco, le dita che incominciavano a dolermi per lo sforzo. Certo, che non me l’ero immaginato così impegnativo … Presi poi le due estremità con decisione, pronto per lo strappo finale, che puntualmente avvenne in un massacro di stoffa. “E adesso … Gyah! Cos’è questo? Cos’è?”, strillai sull’orlo di una crisi di nervi.

“T’as de la merde dans les yeux ou quoi? (Hai gli occhi ricoperti di cacca  o cosa?, ndr) Oppure sei così infoiato da non riconoscere più una canottiera?”

Emisi un lungo e frustrato ululato, sbattendo la testa contro il petto di Milo. “Ma cosa sei tu? La versione umana delle scatole cinesi?”

“Embé, soffro di più il freddo rispetto a te! Dopo, ci pensi, se mi dovesse venire la …”

“Va bene, va bene!”, lo interruppi bruscamente, evitando di pensare alle sue funzioni digestive. Afferrai con piglio molto vendicativo la canottiera, desideroso di levarmela dai piedi quanto prima possibile. “Comunque questo è l’ultimo pezzo … Speriamo che tu non porti sotto il reggiseno!”

Le labbra di Milo si piegarono in un ghigno ambiguo. “Ti piacerebbe, eh, Ionesco? Così sarebbe tutto molto più facile per te …”

Per tutta risposta, gli mostrai la linguaccia, strappando con sollievo l’ultimo capo d’abbigliamento – niente reggiseno – che si interponeva tra me e quell’armonioso miscuglio di bellezza efebica e virile qual era il petto di Milo.

Ed è tutto mio!, pensai, abbracciandolo come un peluche e respirando a pieni polmoni l’odore di arancia e cannella, che la sua pelle emanava. Mancava solo una cosa, però, da fare e poi sul serio quella setosa epidermide sarebbe stata per sempre mia …

 

***

 

“GYAHOU! METTI GIU’ QUEL COSO!”

Cinque teste scossero il capo, riconcentrandosi poi sulla partita a scopa.

Molto in tema.

“Si parlava di deflorazione-stupro …”, borbottava Aiolia, distribuendo le carte. “Poveraccio … ma chi l’avrebbe mai detto? Insomma, pareva un pinguino così innocuo!”

Homo sum, humani nihil  a me alienum puto!”, citò saggiamente Rhada, pigliando le sue carte e osservandole senza un particolare interesse. “Per quanto imbranato possa sembrare, anche Camus ha le sue fantasie erotiche, solo che fino ad ora non ha avuto modo di manifestarle serenamente!”

“Gueh? Serenamente?”

Prendendo con un sette due carte da cinque e da due, Saga replicò: “In effetti, era questione di tempo, prima che il vulcano erompesse …”

“Parla cristiano, dottor Freud!”

“E’ solo una teoria … Paragonando la libido , ad esempio, di Milo con quella di Camus, possiamo dire che la prima assomiglia all’attività vulcanica dell’Etna: costante, flamboyant, ma in fin dei conti contenuta nelle sue eruzioni. Fin qui mi seguite?”

Cenni di assenso.

“Bien. Invece, Camus è come il Vesuvio: irregolare nei suoi sfoghi, accumula, accumula, accumula, si sveglia ogni tanto e quelle volte che lo fa sono macelli, distruggendo Pompei, Stabia ed Ercolano!”

“Vuoi dire che dopo aver violentato Milou, fa il tris con noi? Perché se è il caso, spero che lo soddisfi appieno …”, scherzò Kanon, mordendosi un’unghia, intanto che pianificava la prossima mossa nella partita.

“No, è un pinguino fedele: ormai, il suo imprinting l’ha avuto con Milou e con lui costruirà il suo bel nido …”

“Poetica, questa tua spiegazione!”, dichiarò sarcastico Aiolia, fregandosi il sette bello. “Però arrivare a questi livelli di violenza? Insomma, libido o no, quest’eruzione mi pare un po’ troppo esagerata, per aver solo visto un documentario sullo Yaoi! Vero, Nônon? Nônon?”

Silenzio.

“KANON!!!”

 

***

 

“No fermo! Metti giù quel pennarello! È indelebile!”, ruggì Milo, divincolandosi indemoniato, cercando di disarcionarmi neanche fossi un cowboy al rodeo.

“Appunto!”, ringhiai, aggrappandomi saldamente ai suoi fianchi con le cosce e gettando via il cappuccio del pennarello lontano. “Così tutte le squinzie del liceo sapranno che mi appartieni! E ora ti disegno pure un bel pinguino!”, dichiarai invasato, mettendomi subito all’opera ed ebbi il mio bel daffare a tenerlo fermo, ché lo scorpion rideva come un matto, scalciando peggio di una mula.  Una volta terminato il mio capolavoro – il pinguino non era venuto male, in effetti – lo firmai pure, tanto da sciogliere ogni dubbio su chi fosse il padrone di quella bestia sahariana.

“Non è carino? Dai, non fare quella faccia!”

“Tu sei tutto scemo!”

“Moui”, affermai entusiasta, strisciandomi su di lui come un gatto, abbracciandolo forte. “Tutto scemo per te!”, ribadii, abbassandogli la zip dei pantaloni nel frattempo.

 

***

 

“Tu, disonore della mia carne! Putrido riflesso! Cosa hai somministrato a tradimento a Momus?”, muggiva Saga, brandendo il mattarello e rincorrendo attorno al tavolo il suo doppio.

“Niente, te lo giuro! Gli ho solo portato dei biscotti, qualche fetta di torta e delle bevande! Nient’altro!”, protestava Kanon con passione la sua innocenza, evitando per una manciata di centimetri il cucchiaio di legno lanciatogli contro dal suo gemello.

“Non ti credo! Per colpa dei tuoi scherzi del cactus, Milou camminerà di traverso per un bel periodo!”, si unì Aiolia, lapidandolo con noci, mandarini e arance.

“Sarà stata la cioccolata ad averlo mandato in tilt, che ne so io? Troppi zuccheri più lo Yaoi …”, si difendeva il calunniato, parando la scarica di proiettili con la teglia da forno.

Il pesante tonfo del libro di diritto che si chiudeva, chetò immediatamente i tre belligeranti. “Un momento!”

“Che c’è ora, Rhada?”, domandò sbrigativo Saga, mentre prendeva la mira.

“La tisana!”, disse l’inglese, incrociando le mani sul tavolo.

Grattandosi la testa e disposto alle trattative, Aiolia appoggiò le sue munizioni di noci. “Quale tisana?”

“Quella dopopranzo!”

Silenzio.

“Oh Seigneur!”

“Saga?”, inquisì sconcertato il lionceau, notando come il maggiore si era portato rapido la mano alla bocca, dopo che ebbe collegato gli avvenimenti.

“Ditemi, che era la miscela del barattolino blu …”, li supplicò in un filo di voce.

Martoriandosi dispiaciuto le dita, Kanon comunicò la triste notizia: “Ehm, veramente, era quello rosso …”

“Seigneur …”

 

***

 

“Coooosa? Senza precauzioni? Senza il lubrificante? Ma tu vuoi vedere l’Apocalisse!”, rise sarcastico Milo, provocandomi un pericoloso arricciamento dei capelli per la rabbia. Già di mio ero frustrato per la stancate spogliazione – ché figurarsi, se i jeans si erano sfilati al primo colpo; forbici anche lì -  e ora che ero a tanto così a coccolarmi un po’ quel bicho malnato, ancora saltavano fuori altri issues?

Mi misi in piedi, aprendo il cassettone del mobile. La stanzetta del pianoforte era un po’ il mio bunker, provvisto di ogni bene di prima e seconda necessità per tutte quelle volte che mi trinceravo dentro, uscendo solo quando ne avevo voglia.

Frugai ben bene simil furetto tra i vari oggetti, cercando ansiosamente quelli richiesti a gran voce da Milo, sperando di trovarli in fretta … uhm …

“E’ questo?”, gli chiesi, sventolandogli un piccolo pacchettino ben sigillato. Il ragazzo aguzzò la vista, imporporandosi subito dopo.

“Dove l’hai fregato?”

“In camera tua!”

“Sei andato a rovistare?”

“Hé, siamo fratelli, bisogna condividere le cose …”

“Vuoi dire, che dopo le mie fesses, posso condividere anche le tue?”, mi provocò ridendo, ritornando alla sua occupazione principale, ergo tentare di sciogliersi dal laccio. Umphf, che ci provasse pure: era a prova di scorpion!

“Senti, non ho proprio un lubrificante”, gli comunicai, dopo una vana ricerca, storcendo deluso la bocca. “Però posso usare questo …”, feci, presentandogli speranzoso un tubetto viola.

Silenzio.

“Mi vuoi scopare o mi vuoi fare uno shampoo?”

Guardai perplesso il flacone di shampoo della Herbal Essence. Insomma, che ci trovava di strano? Era sempre … ecco … vischioso …

“Ma è buono, è alla lavanda e giada. Preferisci il balsamo?”, gli domandai, porgendogli l’altra bottiglietta.

Milo inalò aria pesantemente, rivolgendo sconsolato gli occhi al soffitto. “Vada per lo shampoo … ma tu guarda … manco a Nônon sono capitate assurdità simili …”

Munendomi, quindi, degli attrezzi necessari per l’operazione mon scorpion à moi , mi risistemai a cavalcioni sopra di lui, ordinandogli spazientito: “Basta blaterare! Le indicazioni, s’il te plaît!”

“Prego?”

Mi voleva esaurire? “Non l’ho mai fatto, genio!”, sbottai, sistemandomi indietro i capelli impazziti. Come il loro proprietario del resto. “Dimmi che cosa devo fare … enfin, non vorrei fosse troppo doloroso per te …”

Milo alzò scettico un sopracciglio. Poi, sospirando a lungo, dichiarò con tono estremamente professionale e distaccato: “Gesù, quanta pazienza … Allora: incominciamo dall’abbassarmi le mutande … va bene, fin qui ci sei riuscito … no, se hai le mani sporche non tocchi! Ecco, bravo puliscitele con le salviette … anche sotto le unghie … non me ne importa che le hai corte, pulisci lo stesso … fatto? Bien. Adesso, apri il gel, vabbè lo shampoo … ungiti le dita … sì, esatto, in quel modo … bravo … ora, inserisci - piano! - un dito nella mia … ehm … intimità …”

“Quale intimità?”

“La caverna …”

“La caverna?!?”

“NON SONO UNA FEMMINA, QUALE ALTRA CAVERNA VUOI CHE ABBIA?”, ruggì Milo viola in viso e al limite della sua pazienza e sopportazione, mentre due vene gli pulsavano ferocemente sulle sue tempie.

“HO CAPITO, SAI? NON OCCORRE CHE URLI! EPPOI SI CHIAMA A- … E no! Lì no! Che schifo! Non ti metto le dita in quel posto!”, protestai disgustato, nascondendo la mano destra al petto, proteggendola dal solo pensiero a quel che lo scorpion aveva intenzione di sottoporla.

“E neanche la verge, se è per quello! No preparation, no party, bello!”, replicò sornione il ragazzo, reclinando lievemente il capo.

Secondo silenzio.

“Ma non puoi farlo tu?”

Un’ironica risata sfuggì dalle labbra di Milo, mentre quest’ultimo gettava indietro ilare il capo biondo. “In questo momento ho le mani leggermente occupate, ma se mi liberassi, forse …”, mi suggerì mefistofelicamente, salutandomi in un vezzoso tamburellio di dita sui nodi del laccio.

“Pas si dupe (fesso, ndr.)! E dopo tu scappi!”

“Mi pare la reazione più ovvia: assalito da un vergine infoiato e legato alla sadomaso  e non dico ad un letto -  no è troppo chiedere -  ma alla gamba del pianoforte, cosa vuoi che faccia? Che me ne resti buono buonino ad aspettare i tuoi porci comodi? E magari prendendo nel frattempo pure il the? Ah, per la cronaca, bei nodi: hai fatto boyscout, per caso?”, scherzò; vedendo, tuttavia, come la mia bile e la mia temperatura si stessero alzando pericolosamente, sbuffò rassegnato: “Uff, e va bene, sopporterò l’atroce dolore che mi procurerai … ora però prendi il condom …”

Annuii energicamente, afferrando il piccolo pacchettino di plastica, seguendo la linea sulla quale v’era scritto: “Tira da questa parte”. Un tentativo … un secondo tentativo … un terzo tentativo … gnyah! Ma era attaccato con la colla? Le mie dita, poi, unte rendevano ancora più scivolosa la faccenda e neanche con l’ausilio dei denti ottenni grandi risultati.

“Geez … ho le dita unte … non ci riesco …  e apriti”, imprecai, applicando nell’ultimo tiro così tanta forza, che il pacchettino mi sgusciò via dalle mani. Invano tentai di riprendere il vischioso involucro per quanto mi sbracciassi – sarebbe stato più facile afferrare un pesciolino a mani nude- ed infatti, dopo tanti giochi di prestigio con le dita, il pacchettino planò inesorabilmente per terra, confermando le leggi di Newton sulla gravità.

Terzo silenzio.

“Che schifo! Non lo voglio tutto sporco!”, si mise a strillare Milo senza contegno, mentre io raccoglievo il pacchettino, soffiandovi sopra e sbattendolo come un tovagliolo.

“Dai, è rimasto nella busta …”, lo rassicurai, dopo aver controllato. Niente, sigillata come una cassaforte! E dopo si lamentavano, che non si usava il preservativo: ovvio, se ogni volta era tutto quel teatro per aprire l’involucro! Più semplice no, eh?

“Ma i germi possono benissimo venire a contatto lo stesso! Non voglio, non voglio, non voglio!”, frignò, dimenandosi le gambe come un tarantolato, disarcionandomi per tre volte di fila. “Tu mi vuoi far venire un accidente, una malattia! Mi vuoi vedere moribondo all’ospedale, sfigurato, folle, incapace di compiere autonomamente qualsiasi gesto e …”

“La ferme! Sta bene! Sta bene! Ho capito!”, lo interruppi gridando, nel frattempo che un feroce mal di testa incominciava a martellarmi il cranio.

“Prendine un altro o le mie fesses non le vedi neppure dipinte!”, fu l’inflessibile ultimatum dello scorpion, il quale ebbe su di me lo stesso effetto di un pugno allo stomaco. E Milo dovette essersene accorto, poiché …

“Ionesco? Non dirmi che era l’ultimo …”

“Ehm …”, feci, guardandomi colpevole la punta dei capelli. Altra sbuffata frustrata da parte del biondo. “Chissenefrega! Ti stupro comunque!”, annunciai risoluto, affondando contento le unghie nelle cosce del ragazzo. Poi, però il dubbio.

“ Ehm, Milo? Volevo chiederti, così, giusto per parlare del più e del meno … a mero scopo d’approfondimento … da che parte incomincio? Cioè a pancia in giù o in su?”

“…”

 

***

 

“La tisana afrodisiaca della nonna?”

Sparsa su di un canovaccio al centro della tavola, l’infuso della discordia giaceva sotto l’attenta analisi dei cinque masnadieri, i quali l’osservavano con la stessa timorosa reverenza di un giovane medico alla sua prima autopsia.

Ah sì, quella tisana! Tzé! Nel nostro ultimo viaggio in Provenza, passeggiando nella piazza di Avignone durante il mercato, fummo o meglio Mamie fu tampinata da una venditrice di tisane e decotti vari. Pur di levarsela dalle scatole – benché Maman la invitasse a non darle retta – Mamie comprò il primo intruglio capitatole a tiro di mano. E il caso volle, che si trattasse di uno di quei sciocchi rimedi per “ispirare” il consorte o la consorte, quando non erano dell’umore adatto alle galipette.

“Ma dai, l’abbiamo bevuta pure noi e nessuno è saltato addosso a chicchessia!”

Mordendosi a disagio il labbro inferiore, Aiolia confessò: “Ehm, a dire il vero, io non ho preso la tisana …”

“Cosa?”

“Io neppure, desolato …”, fu il contrito mea culpa di Rhada.

“Sasà?”

“Ho bevuto il caffè …”, rispose in un sussurro il maggiore dei gemelli, causando una colorita esclamazione nel minore:

“P’tain d’une vache enfoirée! Mais moi non plus! Neanch’io! E lo stesso vale per Milo, posso garantire!”

“Dai, funziona davvero?”

“Beh se unisci quella e la teoria del Vesuvio …”

“Ah beh! E meno male che era uno strano intruglio casalingo! Se fosse stato il viagra?”, inquisì Kanon ridendo, riponendo il fatale intruglio dentro il suo barattolo.

“Passaci una fetta di torta, renditi utile!”, fu la secca replica dei quattro suoi ascoltatori.

 

***

 

“Milo?”, domandai, preoccupato di vedere così livido e imbronciato il ragazzo, massaggiandomi nel frattempo la tempia dolorante. Ahia, portentosa emicrania in arrivo!

“Stuprami, va’! E facciamola finita, ché sono stufo!”, sbottò quegli spazientito, schioccando nervoso la punta della lingua sul palato e quel fastidioso ticchettio fu la goccia che fece traboccare il vaso, esplodendo in un’onda di frustrazione e vergogna, per essermi ridicolizzato così davanti a lui.

In altre parole, il neurone solitario aveva ripreso finalmente a girare pel verso giusto.   

“Ecco, lo vedi?”, piagnucolai, percuotendomi afflitto le cosce.

“Cosa? Che sei un idiota?”, berciò secco l’altro, per nulla intenerito. E come dargli torto?

Aprii la bocca per replicare, chiudendola però subito. E quando mi cimentai in un secondo tentativo, un miagolio disperato ne uscì fuori, costringendomi ad alzarmi dal mio sedile umano, per ricercare asilo politico sotto la copertina del divano.

Pingumon si digievolve in Paguromon.

Ovvio.

“Che c’è? Paura adesso?”, mi provocò Milo, sebbene non notassi nella sua voce lo stesso velenoso sarcasmo di prima.

“Non sfottere il mio dolore!”, singhiozzai da sotto la copertina. “E’ facile per te parlare, che chissà quante volte l’hai fatto! Ti sei burlato di me fino a questo momento! Hai deriso la mia ingenuità!”

“Un po’ te la sei cercata: se volevi fare sesso con me, bastava che mi dicessi civilmente: “Sai Milo, stasera mi sento un po’ su di giri e vorrei trascorrere con te una mezzoretta di coccole; siccome poi, non me la sento di stare sotto, potresti per cortesia essere tu il passivo per questa volta?” Hé! Ti giudicavo un pinguino educato, enfin, mi deludi!” e dai gorgoglii della sua gola, intuii che aveva attaccato i nodi coi denti.

“Avrei fatto lo stesso cilecca!”

“Sono le controindicazioni della prima volta. Ci siamo passati tutti, che credi?”

“Anche tu?”

“Certo!”

Tirai su il naso, soffiandomelo. Per quanto potesse essere divertente immaginare un Milo imbranato alle prese con la sua prima volta, tuttavia il suo tentativo di consolarmi non aveva raggiunto appieno il suo scopo. Ed infatti, ripresi a lagnarmi senza requie:

“Buh-hoo, non sono altro che uno stupido imbranato vergine uke! Tanto vale che mi suicidi con le Mentos e la coca-cola, se non riesco neanche a fare l’amore alla persona che amooops!”, mi tappai subito la bocca una buona volta (avrei dovuto farlo molto tempo prima) e mi inabissai ulteriormente sotto la copertina, rannicchiandomi in posizione fetale. Il tutto, lasciando una piccola fessura per una migliore visuale di quel che stava accadendo, ed erano grandi novità.

Poiché Milo, appena udì l’ultima frase, con un possente strattone si liberò del laccio, balzando in piedi, dopo essersi rapidamente rinfilato le mutande addosso, massaggiandosi crucciato i polsi doloranti.

Adesso mi accoppa, fu il pensiero più positivo, che mi attraversò la mente. Invece, lo scorpion si mise a raccogliere gli oggetti sparsi per terra, osservando infelice le stelle filanti, che erano diventati i suoi jeans e le sue maglie. “E adesso a Iou – Iou come glielo spiego?”, mormorò tra sé e sé, cercando di unire con un’immaginaria cerniera le due metà della maglietta con Jack Skellington.

“Digli che sono stato io …”, mi offrii volontario, primo perché realmente ero io l’artefice di quello scempio; secondo, per espiare il brutto assalto mosso contro il mio fratellastro. “Mi dispiace, non so che cosa mi sia preso …”

Milo scosse energicamente il capo, incrociando le braccia al petto. Si sedette sullo sgabello  del pianoforte, pigiandone distrattamente i tasti. “Piuttosto, hai il mal di testa?”

“Gueh?”

“Ti rannicchi sempre così quando hai un’emicrania e fartela passare è ogni volta un’impresa …”, commentò assente il ragazzo; quand’ecco che cambiò repentinamente d’umore, ridacchiando piano. Ad essere sinceri, non sarei mai arrivato a comprendere appieno il carattere di quel giovane, troppo incostante e complicato.

Una timida nota risuonò nella stanza illuminata solo dalla luce dei leggii. Una seconda più baldanzosa seguì. Alla terza, allargai la fessura, per meglio vedere che cosa il mio fratellastro stesse combinando: lui, suonare il pianoforte?

Pian piano, una specifica melodia si delineò tra la dapprima sconnessa sequela di note tra loro separate. Allungai l’orecchio, onde meglio coglierne le caratteristiche necessarie a riconoscerla: sentivo, infatti, che essa non mi era nuova; tuttavia, la mia mente era ancora annebbiata me l’impediva. Peccato, giacché era un po’ un mio feticismo, quello di ricordare ogni brano ascoltato o studiato di primo acchito. C’era chi collezionava francobolli e chi, come me, brani di musica.

Di colpo, Milo cessò di suonare; feci allora per aprire la bocca e domandargli quale fosse il nome del brano appena suonato, quand’ecco che con voce chiara e intonata si mise a canticchiare in un italiano molto accentato:

Vedrai, carino,

se sei buonino,

Che bel rimedio

ti voglio dar!”

 

Si voltò verso di me, sorridendomi ambiguo a fior di labbra; subito ne approfittai per trincerarmi sotto la coperta. Per nulla intimorito, Milo si alzò dallo sgabello, proseguendo sornione:

E’ naturale,

non dà disgusto,

E lo speziale

non lo sa far,

no! Non lo sa far!”

 

Dal rumore dei suoi passi, intuii che si era inginocchiato ai piedi del divano e il lieve peso dei polpastrelli, che scorrevano sulla mia schiena mi confermò tale piacevole sospetto.

E’ un certo balsamo

Ch’io porto addosso,

Dare tel posso,

Se il vuoi provar.”

 

Ora le dita birichine risalivano zampettando dalla schiena al mio viso, che denudarono curiose.

Saper vorresti

Dove mi sta?”

 

Mi domandò attraverso l’aria musicale, intrecciando le sue dita con le mie, che portò al cuore, lasciando poi che fosse tutto il palmo ad ascoltare ora la chamade lì vigente.

“Sentilo battere,

toccami qua!”

 

Attraverso la mia pelle, percepivo il furioso battito del suo cuore, così potente da sembrare ruggire per liberarsi dalla gabbia toracica. Milo fece scorrere poi i miei polpastrelli dal petto su per il collo fino alle sue labbra, le quali si schiusero appena per imprimerli piccoli baci ora casti, ora impudichi.

Sentilo battere, sentilo battere …”

Tanto rapidamente avvenne quel amabile contatto, tanto celere fu anche la sua fine: infatti, il ragazzo lasciò libera la mia mano, allontanandosi di qualche centimetro da me. Per nulla compiaciuto di quel gesto, allungai il braccio, catturando una sua bionda ciocca, l’unica parte della sua anatomia reperibile nel mio raggio d’azione.

Toccami qua!”

Posò la sua bocca sulle mie nocche, mordicchiandole appena. Sorpreso piacevolmente da quella novità, allentai un poco la presa e Milo sfruttò l’occasione per arretrare ulteriormente dal divano. E da me.

Sentilo battere, sentilo battere …”

Mi sporsi in avanti più che potei, fino ai limiti sofà, aggrappandomi per non cadere, tutto pur di poter riacchiappare Milo. Niente. Più mi tendevo, più egli scivolava indietro languido lungo il tappeto.

Sentilo … battere …”

A questo punto, la questione era ovvia: restavo sul divano sotto la coperta o scendevo per raggiungere Milo?

Toccami qua …”

Cautamente, mi levai la copertina di dosso, posando un ginocchio alla volta per terra. Levai gli occhi, trovando Milo che, poco distante, m’invitava col braccio ad unirmi a lui. Gli sorrisi.

“Sentilo battere

Toccami qua …”

 

Gattonai lentamente da lui, incerto, rimpiangendo in certi secondi di non essere rimasto sul divano. Ciononostante, l’invito di Milo era mille volte più accattivante.

Toccami qua …”

A dire il vero, il modo in cui il ragazzo mi afferrò la spalla, trascinandomi a sé fu leggermente brusco, eppure non potei lamentarmi: ero dove volevo …

Toccami qua!”

… il mio capo appoggiato al suo petto, ascoltandone il cuore.

Mi lasciai cullare da quella naturale melodia, sentendo le palpebre divenire pesanti e vogliose di ristoro, che entrambi ci concedemmo per qualche manciata di minuti: era stato un pomeriggio stressante per tutti e due. (Per colpa mia).

Fui il primo a risvegliarsi e quando ciò accadde, costatai sollevato che l’emicrania s’era ammansita – affermare che se ne fosse andata sarebbe stato troppo ottimista. Alzai un poco la testa, osservando curioso il volto rilassato del mio fratellastro, coperto in parte dall’avambraccio.

“Ti vedo …”

Sussultai leggermente, pensando, infatti, che dormisse. “L’aria di Zerlina?”, dissi infine e una fresca risata echeggiò nella stanza, confermando.

“Sconvolto, eh? Visto cosa mi tocca fare, pur aiutarti col mal di testa? Ha-ha!”, rise, mostrandomi il candore dei suoi denti. Mi unii a lui, all’inizio timidamente, poi con la sua stessa esuberanza. Mi puntellai sui gomiti, raggiungendo il suo viso, ponendomi sopra di esso, contemplandolo dall’alto … com’era bello … le guance arrossate, le labbra tumide e ridenti, gli occhi turchesi umidi di lacrime, le fossette del riso, i riccioli disordinati che gli adornavano il viso …

Era troppo … era troppo …

Prendendo coraggio e col cuore in gola, calai il mio viso sul suo, sfiorando in un timido tentativo la sua bocca. Milo smise subito di ridire, fissandomi interrogativamente. Sfido! Non ero mai io quello che prendeva l’iniziativa (prego di notare, che la cavolata da me commessa non rientrava tra quelle, ecco). Notai la sorpresa riflettere nelle sue iridi turchesi e allo stesso tempo un altro sentimento a me oscuro, quale? Ansia? Impazienza?

Amore?

Arrischiai un secondo approccio, questa volta indugiando di più, sennonché un lieve movimento del suo volto m’impedì di catturare la sua bocca, limitandomi al suo labbro inferiore. Ciononostante, non ebbi più timore: con più convinzione, partii di nuovo all’attacco di quell’ostinata e carnosa città, ponendola insistentemente sotto assedio, finché ella, sorridendo, dichiarò la sua resa, aprendomi le sue porte. Ironia della sorte, fu lo sconfitto a decidere il tempo della danza e glielo concessi più che volentieri, lasciandomi guidare con fiducia e curiosità; desideravo sapere fino a che punto avrei resistito, senza lasciarmi fondere dal calore quasi inumano provenire dal corpo di Milo, che ad ogni suo bacio, ad ogni sua carezza mi avvolgeva, arrivando a momenti a soffocarmi.

Oh, ma era un dolce morire!

Necessitammo all’improvviso di aria, respirando a singulti come se fossimo appena riemersi da una lunga apnea. E se le nostre bocche si erano momentaneamente separate, i nostri sguardi erano ben incatenati tra di loro, continuando là dove solo l’anima poteva.

“Tu mi levi la pace …”, ansimai, affondando le mie mani nella zazzera ribelle di Milo, il quale, sorridendo amaramente, replicò:

“E tu, che mi provochi la stessa cosa?” e prima che potessi rispondere, m’impegnò nuovamente in una conversazione meno ambigua di quella orchestrata dalle umane parole.

 

***

 

“OULAHHHH!!”

Levando gli occhi dal bottone che stava ricucendo sulla camicia, Saga commentò accigliato: “Questa non mi pare la voce di Milou …”

“Eh no, grand frère!”, replicò semiserio Aiolia, disegnando col lapis la curva della sua funzione. “A quanto pare, Rhada aveva ragione …”  e l’interpellato annuii distrattamente, terminando di ricopiare un appunto da un particolare paragrafo della fotocopia. “Mentre un pinguino di nostra conoscenza, ha finalmente scoperto le gioie dell’onanismo …”

Schioccando la lingua da dietro le bozze del suo report, Kanon lo corresse pensoso: “Non Iou – Iou, questo non è l’urlo da fai-da-te, bensì da blowjob …”

“No, impossibile!”, esclamò il lionceau incredulo, reprimendo tuttavia a stento una risata.

“Ti giuro che è quello!”

Senza smettere di scrivere, Rhada commentò sornione: “Un giorno mi dovrai spiegare, dove hai appreso quest’arte, Kanon …”, provocando un feroce rossore nel gemello minore, che si strinse inconsciamente al suo doppio.

“Piuttosto, Milou non sarà stato un po’ troppo drastico?”

Facendo spallucce, Saga affermò: “E’ la regola dei duelli, Iou – Iou:  Momus ha lanciato a Milou la sfida e lui aveva il diritto di scegliere l’arma. A conti fatti, non è neanche stato così sadico: al pinguino poteva andare peggio …”

E mentre il gemello maggiore pronunciava codeste parole, la porta della stanzetta del pianoforte si aprì, dalla quale fece per primo la sua comparsa Milo in boxer, con in mano jeans tagliuzzati e addosso la felpa, maglietta e canottiera conciate allo stesso modo, ripulendosi gli angoli della bocca con la manica.

“Tiens, tiens! Sei entrato nella gabbia delle tigri?”, lo fissò perplesso Aiolia, i cui occhi divennero tondi alla vista di come s’era ridotta la sua maglietta preferita e il sinistro si piegò in maniera inquietante.

Milo strinse i suoi, ringhiando pericoloso. Trotterellò veloce in cucina, riempiendosi immediatamente un bicchiere d’acqua, che tracannò subito, indugiando poi in un secondo e un terzo giusto per essere più sicuri.

“A propos, Milou”, sogghignò Kanon, “bello il pinguino sull’addome …”

E prima ancora che il gemello minore potesse rendersene conto, Milo era ritornato dalla cucina, gli aveva gettato in faccia i jeans a brandelli, per poi gettarsi rapido come la morte su di lui, riempiendolo di ceffoni, sfogando così lo stress accumulato durante il pomeriggio. A questa lotta greco-romana diede il suo contributo anche Aiolia, il quale, con un portentoso ruggito si era unito ai due combattenti, urlando come un ossesso: “La mia maglietta preferita! Come hai potuto, sale chien? Il sadomaso non si fa con le cose altrui!”

Approfittando del fatto, che tutti gli sguardi erano rivolti ai tre belligeranti, sgusciai quatto, quatto dalla stanza per rifugiarmi al più presto in bagno – ormai l’unico luogo sicuro rimastomi -  le mani poste a protezione delle parti basse e il mind control innescato, onde censurare dai miei ricordi se non altro per il resto della serata lo “speciale trattamento”, cui lo scorpion lubrique mi aveva sottoposto. Lezione per il futuro: Chi di cochon ferisce, di cochon perisce. E se mi aveva ucciso! Temetti, che il rossore alle mie guance non sarebbe sparito per almeno una settimana.

Zampettando, quindi, nell’ombra per raggiungere il mio rifugio, sbattei contro Rhada, che veniva dalla direzione opposta. Come fulminato, balzai indietro, appiattendomi contro il muro e incrociando le gambe, sempre senza levare le mani dai zizì.

“Oh pardon, Camus!”, si scusò quegli. “Ti sei fatto male?” e dinanzi alla mia muta risposta negativa, mi chiese: “Devi usare il bagno?” e si scostò per lasciarmi libero il passaggio.

Ululando, mi rintanai dentro, chiudendo la porta a chiave.

“Ma che ho detto?”, domandò confuso l’inglese, allargando perplesso le braccia.

Appoggiandosi allo stipite della porta della cucina, Saga rispose flemmatico: “Vallo a sapere … saranno gli ormoni … A propos, tisana?”

Puntandogli semiserio l’indice, Rhada ribatté: “Solo se sono io a prepararla …”

E ridendo, i due si recarono nella suddetta stanza.

 

 

 

To be continued …

***************************************************************************************

Bien, e anche questa è fatta!

Allora? Mi odiate? Spero che la lezione sullo Yaoi non sia stata troppo traumatica! E quel caso sull’Mpreg è vero, non me lo sono inventata io!

In ogni modo, devo ribadire, che Mozart è il male! Insomma, come si può non ascoltare la sua musica, senza che strane e perverse idee balzino alla mente? Ogni volta, che devo scrivere, mi metto su un suo brano o un’aria delle sue opere!

Per quel che riguarda il passato di Mamie, beh, ho dovuto riassumere: le tappe della guerra d’Algeria sono tante e complicate, solo loro avrebbero preso 50 pagine!

Allora, che dire? Al prossimo!

Ciao!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Di cene, di matrimoni e altre complicazioni varie - prima parte ***



B’jour! Rieccomi qua! Malgrado gli incalzanti doveri, un capitolo riesco a postarlo ancora! Peccato sia metà … Vabbè, in ogni modo, spero che vi piaccia!

Ringrazio i miei lettori e recensori, merci! Merci! Merci!

Special thanks a : Tifawow ; Diana924 ; Angel_Dark_Light; Charm_ Strange; Titania76 ; AASA5(benvenuta!); Ashar; Lovearmony (benvenuta!) Sagitta72 ; ArcadiaLaNotte, Eno e Ignis!

Merci beaucoup!

Buona lettura!


Bisous,


H.

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Il lunedì mattina fu inaugurato con l’irruzione vandalica di Aiolia in camera di Milo.

Le ragioni, che mi costrinsero a quel trasloco dal mio letto al suo, sono presto dette: ieri sera, dopo aver tentato di violentare lo scorpion lubrique e che quest’ultimo si fosse vendicato di tale assalto nei suoi confronti, sottoponendomi ad un … ad un … un … a quel coso, tanta era la mia vergogna che esiliai il bicho dalla mia stanza. Ovviamente, Milo tentò di sfondare a calci la porta senza tanti complimenti, sennonché verso le dieci e mezza, stufo, si arrese, ritornandosene mogio mogio nella sua. Peccato che non fossero passati neppure dieci minuti, che subito l’avevo raggiunto col mio cuscino, stringendomi soddisfatto a quella stufetta umana.

Intanto, per precauzione, mi ero infilato addosso tre paia di mutande.

Così,  restammo serenamente accoccolati nel mondo di Morfeo fino all’entrata da invasione barbarica del piccolo Aslan, che, ansimando in grossi singulti, ci comunicò: “Alzatevi … puff … Sasà … puff … in bagno … sta morendo … puff …” e giurai in quel momento di aver visto il cuore di Milo fermarsi, mentre un insano pallore s’insinuava nelle sue guance, per poi commutarsi in un offeso rossore, quando Aiolia terminò il suo racconto: “… di vergogna! Ih-uh … Seigneur … ah-ah!”, rise forte il ragazzino, reggendosi la pancia. Prima, però, che potessimo o chiedergli ulteriori informazioni o strangolarlo per lo spavento preso, il lionceau era già sparito giù per le scale, riempiendo l’aria di allegre e irrefrenabili risate. Incuriositi, lo imitammo, trovando per prime in salotto Mamie che ridacchiava sorniona, mentre Maman smistava la posta con un insolito nervosismo e quando mi avvicinai a lei per domandarle il motivo –nefasto – di simile scoppio d’ilarità da parte della nonna, Maman, di solito calma e composta, m’intimò seccata di andare dai miei fratellastri per ulteriori informazioni.

Masnadieri che si trovavano col loro capo clan accampati davanti alla porta del bagno principale; M. Christophe che batteva il pugno altamente scocciato contro il legno, berciando al limite della sua pazienza: “Saga, esci di lì! Subito!”

“Non credo proprio!”

“Dai che abbiamo la visita medica! Non vorrai mica farci arrivare in ritardo, spero? E tu non mangiare, cafard mal élèvé!”, sbottò l’uomo, elargendo una dolorosa zampata alla mano di Kanon, che a tradimento si stava infilando in bocca un croissant al miele.

“Mais Papinou, j’ai faim!”, piagnucolò il minore dei gemelli, tirando su col naso.

“E che me ne importa? Dovete arrivare digiuni alle analisi del sangue!”, replicò il pater familias spassionatamente, sottraendo in un’abile retata il tortino di cioccolata dalle mani di Aiolia, che ringhiò sottovoce qualche maledizione in non so quale lingua contro il padre, cambiando repentinamente umore da euforico a rancoroso. Che carattere semplice …

“Avanti Saga, almeno tu non farmi arrabbiare, eh? Esci e discutiamo con calma!”, mercanteggiò M. Christophe con tono più conciliante, subito perso davanti all’ostinata e concisa risposta del maggiore dei suoi maschi:

“Non!”

“Dovrai uscire prima o poi! Non puoi restare tutto il giorno lì dentro!”, gli ricordò maligno il padre, replica seguita da un’altra altrettanto perfida:

“Ho trovato i Cheerios di Momus dietro al gabinetto!”

In sincronismo perfetto, tutte le teste bionde e maschili della mia famiglia si voltarono contemporaneamente verso il sottoscritto, il quale indietreggiò di qualche centimetro, sopraffatto da tanta attenzione su di sé.

“Tu nascondi i Cheerios dietro al cesso?”, inquisì Kanon incredulo, per la prima volta davvero scioccato.

“Cosa?”, sentii mia madre dal salotto, la voce deliziosamente minacciosa. “Tu ed io facciamo i conti dopo, signorino! Questa me la devi proprio spiegare! I Cheerios! Ma quali schifezze ingurgiti?!? E tu Maman, non ridere!”

M. Christophe ed io sospirammo insieme, seppur per motivi differenti. Infatti, mentre io incominciavo già a disconnettermi dal cervello, onde meglio sopportare la ramanzina di Maman; il motivo del mio patrigno risiedeva nella caparbia decisione di Saga di passare il resto della giornata chiuso dentro il bagno. “Ma è diventata una moda adesso di rinchiudersi a chiave, quando avete un problema?”, si lagnò l’uomo esasperato, allargando a mo’ di crocefisso le braccia. “Perché se fosse il caso … anzi no! He- he, il caso un corno! Da domani, tutte le chiavi delle stanze spariscono, quant’è vero che sono vostro padre!”

“Allora, il dubbio mi sorge …”, bofonchiò Kanon, messo immediatamente a tacere da un fulmineo scappellotto del padre.

“Apri, Saga, non scazzare! Altrimenti, bada che faccio vedere a Mamie, Corinne e Momus il filmino della tua recita scolastica del collège!”, fu il terribile ultimatum del pater familias, che i figli accolsero chi con un terrorizzato gasp!, chi con un insistente risolino sfottitore.

“No, quello no!”, protestò Saga impaurito, portandosi dietro la porta, a giudicare dal disordinato trambusto di passi all’interno del bagno.

“E allora, sai cosa mi aspetto da te!”, ovvero che l’uscio si aprisse molto lentamente, permettendoci d’invadere la stanza con piglio bufalesco, arrestandoci di colpo, non appena scorgemmo in quali condizioni il primogenito dei fratelli Valavitis si presentava ai nostri occhi.

“Non mi guardate!”, pigolò il gemello maggiore, nascondendo vergognoso il volto dietro gli avambracci, abbassando la tavoletta del gabinetto per sedervisi poi sopra sconsolato.

Riprendendosi dallo stupore iniziale, M. Christophe chiese in filo di voce: “E come faccio con tutta la roba, che ti sei messo addosso? Pure una maschera? Ma … ma che cavolo …?”

“Conciato così sembri il re Baldovino di Kingdom of Heaven! Anzi no, peggio: Belfagor!”, commentò Milo e sinceramente non potei essere più d’accordo con lui: accappatoio bianco a parte, Saga si era nascosto la testa con il cappuccio dell’indumento, fasciandosela con quattro turbanti di asciugamani, più una maschera da carnevale, che ignoro da dove l’avesse pescata.

“Dai, non dirmi che ti sono cascati tutti i capelli in un sol colpo?”, scherzò Aiolia, cercando di sdrammatizzare. “Casomai ti prenderemo una parrucca!” e non mi piacque, come in un attimo sia Kanon che Milo prima impallidirono, per poi arrossire fino alle doppie punte. E non dovetti essere l’unico a condividere simile sentimento, giacché pure Rhada osservava di traverso il suo meco, lasciandogli mentalmente un messaggio nella segreteria telefonica del suo cervello attualmente non disponibile: Tu ed io domani avremo qualcosina su cui discutere in aereo!

“Mais non!”, protestò debolmente Saga, celandosi sotto un ulteriore asciugamano, prontamente strappatogli dal padre, che prese a sfasciare sbuffando l’infinito turbante del figlio, malgrado le vivaci proteste di quest’ultimo e la pronta azione di disturbo perpetuata dalle sue mani contro quelle del padre.

Inarrestabile come lo Tsunami, M. Christophe continuò nello srotolamento filiale fino a raggiungere il cappuccio, che calò con un’esclamazione di enorme sollievo, seguita prontamente da una di paura, che noi imitammo non appena scorgemmo l’orrore consumatosi sulla capigliatura dorata del gemello maggiore.

“Che schifo, Sasà!”, riuscì a riprendersi per primo Kanon, mentre accarezzava apprensivo la schiena del suo meco, il cui occhio destro aveva preso a stringersi in maniera convulsa. “Sembri un Emo!” e all’udire la parola tabù e fonte di dolorosi ricordi (in tutti i sensi) pure le dita di Rhada presero ad agitarsi, costringendo il gemello minore ad assentarsi per un istante, onde placare gli istinti omicida del suo inglese, traumatizzato a vita da quei cappelloni neri con ciuffi al limite del decoro e della visuale, i quali, per la cronaca, erano riusciti pure ad insediarsi in seno alla sua famiglia.

Lo spassionato, ma veritiero, commento del suo doppio sortì in Saga lo stesso effetto di un gamin, cui viene annunciata la prossima puntura per il vaccino: si mise a piangere sconsolato, tirandosi con preoccupante forza le ciocche un fino a ieri bionde e ora nere come l’ala di un corvo.

“Dai, Saga”, lo consolò goffamente il padre, poiché anche per lui fu un duro colpo veder conciato così il suo enfant. “Non è successo niente … enfin, quasi niente …”

Boccheggiando a momenti, Milo espose la sua teoria: “M-ma … ma non avrai mica scambiato il colorante per Halloween con il balsamo, vero? Che poi, che ci faceva là?”, mi domandò perplesso, alzando un sopracciglio.

La risata forte e inquietante di Mamie dal salotto fu la sinistra conferma dell’ipotesi dello scorpion, facendoci rabbrividire tutti contemporaneamente.

“Sei proprio una talpa, Sasà, lasciatelo dire!”, scosse il capo Aiolia, studiando accigliato il tubetto colpevole di quella lesa maestà.

“E non è finita …”, pigolò Saga, tirando su col naso.

“Ah non? E che può esserci di peggio?”, inquisimmo stupefatti, seppur titubanti di voler esattamente scoprire, che cosa avesse mai potuto ridurre il primogenito in quelle condizioni. E l’incessante riso pauroso di Mamie non aiutava di certo la fermezza della nostra decisione.

“Ecco … dopo essermi risciacquato i capelli …”, esordì lentamente Saga, soffiandosi il naso “Enfin, sono uscito dalla doccia e siccome non vedo bene da vicino … io … io non mi ero accorto che …”

“Oh Vierge Marie du Ciel!”, si mise Kanon le mani sui capelli, interrompendolo con tale foga, che saltammo per la sorpresa. “Non dirmi che …”

Ora Mamie rideva più sguaiatamente di una iena.

“Oui! Buh-hoo!”, ululò Saga, nascondendosi sotto il cappuccio e piangendo disperato tra le braccia dell’interdetto padre, che balbettò arrossendo: “Ti … ti sarai scusato almeno, vero? Eh?”

Umphf! Come se ci fosse qualcosa di cui scusarsi, poi! Che colpa ne aveva il poveretto, se era uscito al momento sbagliato davanti alla persona sbagliata e perlopiù …

Prima ancora che Saga avesse tempo di ribattere, l’augusta avia fece la sua comparsa, appoggiandosi sorniona allo stipite della porta. “Scusarsi? E per che cosa? Piuttosto, sono io quella che si deve scusare …” e sospirai di puro sollievo, nell’appurare che per una volta la sanità mentale ritornava a visitare il cervello di Mamie, che aggiunse all’ultimo: “… per non aver avuto con me la macchina fotografica!”

Rimangio quanto detto in precedenza.

“Madame”, azzardò diplomatico M. Christophe, intanto che Saga si nascondeva dietro un Kanon al limite dello sconcerto (e terrore). “Immagino non sia stato … ehm … molto ehm … enfin, vi avrà turbata temo …”

“Gueh?”, fece Mamie confusa, incrociando le braccia al petto. “Turbata? M. Future Beau-fils (signor futuro genero, ndr.) sono diciannove anni che non vedo un uomo nudo e posso dirvi, dopo aver “ammirato” senza preavviso alcuno le grazie del vostro primogenito, che la cosa non mi ha scandalizzato affatto, anzi mi sono proprio rifatta l’occhio eh bon sang, se me lo sono rifatta! Ma davvero voleva nascondere tutto quel ben di Dio dietro alla sottana di una tonaca? O tempora o mores!”, sentenziò, scuotendo il capo.

E mentre io celavo il viso dietro la maschera abbandonata da Saga, condividendone la medesima vergogna per mano della stessa malefica fautrice, Aiolia commentò scettico: “Certo che deve essere stata davvero un’astinenza sofferta, se giudica appetibile il corpo di Sasà …”

“Silence, gattaccio! Sasà ha tutto quello che un maschio deve avere!”, lo difese a spada tratta Kanon, ignorando categoricamente le suppliche del gemello a chiudere in fretta il dibattito sulla sua prestanza fisica.

“Bleah, se è per quello, pure Momus ha tutto e guarda un po’ te i risultati …”

Posandogli la mano delicatamente sulla spalla, Milo corresse puntiglioso il lionceau: “Lascia fuori Ionesco, che lui viene da un’altra galassia … Invece, Nônon, non è che stai difendendo Sasà, in quanto lui è il tuo gemello? Sai, difetto in uno, difetto nell’altro …” e roteò maligno gli occhi, inducendo il secondogenito ad attorcigliare a mo’ di cappio uno dei tanti asciugamani srotolati dalla testa di Saga e ora fu il turno di Rhada di provvedere alla furia omicida del meco.

Approfittando immediatamente della quiete prima della tempesta fratricida, M. Christophe trascinò fuori dal bagno un intontito Saga, sussurrandogli nel frattempo: “Adesso non abbiamo tempo per risciacquare via il colore; però stasera, quando torniamo a casa, te li lavo io, ça va mon coeur?”, proposta che il gemello maggiore accettò in un mesto pigolio.

Hélas, pure questa mi mancava: Mamie che molestava sessualmente il suo nipote acquisito.

E mentre Saga si adoperava a vestirsi più rapido di un furetto (indossando il maglione più coprente), una guerra era scoppiata nel frattempo tra le due matrone, conflitto segnato da un pericoloso bombardamento di riviste per tutto il salotto. Vuoi che fosse lo stress del lunedì mattina (o di avere una madre come Mamie), vuoi che fosse il ciclo che si avvicinava, non avevo mai visto in vita mia Maman così incazzata nera e perlopiù per un motivo – secondo me- banale: insomma, perché prendersela per …

“Riviste di abiti nuziali?!?”, domandò perplesso Aiolia, raccogliendone una, la stessa che mi aveva colpito e affondato direttamente sulla fronte. “Ma non avevano detto, che si sposavano alla mairie? Abito semplice? Pochi amici intimi? Niente damigelle? (E vorrei ben vedere!)”

Massaggiandomi l’epidermide offesa, gli feci cenno di non indagare oltre sul doloroso dramma.

“Che cos’è questa immondizia? Che cos’è?”, batteva irata Maman il piede per terra, rossa in volto come i suoi capelli. “Perché ti sei abbonata? Eh?”

Rigirandosi ineffabile le ciocche di capelli, Mamie replicò: “Innanzitutto, col mio salario ci faccio quel che voglio; secondo, chi ti dice che siano per te?”

Aggrottando la fronte scettica, Maman incrociò le braccia al petto, replicando sarcastica: “Ah ouais?”

“Oh que oui! Credi forse che una giovincella come la sottoscritta non abbia qualche fiamma?”, fece sorniona, pigliando Saga – che aveva avuto la sfortuna di passarle accanto – con entrambe le mani e schioccandogli un bacetto sulla guancia tra gli ululati maliziosi dei fratelli come sottofondo, facendo sì che il viso di solito pallido del gemello maggiore si tingesse del porpora più scuro, simile ad uno scolaretto baciato dalla sua prima gonzesse.

Che carino …

“Terzo”, concluse l’infaticabile rompiscatole, intanto che Maman impediva al poveraccio di sbattere la testa contro il muro per la disperazione, “non è stata colpa mia, bensì della venditrice: aveva una faccia così triste e patita … enfin, mi faceva pena … dai, siamo un po’ umani …” e l’occhiata obliqua di Maman mi delucidò quanto poche fossero state le occasioni, in cui Mamie si fosse comportata da essere umano. In ogni modo, mia madre raccolse tutte le riviste per terra, scusandosi con noi per quel suo piccolo cedimento di nervi e ritirandosi silenziosamente in cucina.

Nel frattempo che M. Christophe ed io ci affrettavamo a seguire Maman (dopo quegli scatti di collera era meglio non lasciarla sola per  sicurezza), Milo aveva reperito nel macello cartaceo una pingue lettera, rigirandola attentamente tra le lunghe dita. “A M.lle Corinne Molinier e famiglia …”, lesse ad alta voce, incoraggiato dal lionceau -comparso all’improvviso dietro le sue spalle -a girare la lettera, onde scoprire chi fosse il mittente. Sperando non fosse … “M.me Catherine Molinier? E chi è? La gemella malvagia di Mamie?”

Se non voleva assistere all’Armageddon, gli conveniva – come a tutti gli altri, del resto – che un doppio della avia familias non calpestasse questa terra.

“Momus, cos’è quella faccia?”, s’informò preoccupato Kanon, sostenendomi delicatamente per il braccio. Il solo sentir pronunciare quel nome mi aveva indotto ad abbandonare Maman nelle zampe di M. Christophe (non che gliene dispiacesse più di tanto), per recarmi subito dai miei fratellastri, strappando a momenti la lettera dalle mani di Milo, che brontolò assieme al fratello in un sordo gorgoglio.“Tutto a posto?”, inquisì il gemello minore, domanda che mi pose anche Mamie, una volta riordinate o meglio, nascoste al sicuro, tutte le riviste.

“Mamie …”, balbettai infelice, presentandole la missiva con mano tremante “ … è arrivata una lettera … dalla … dalla reine (regina ) Catherine …”

“Chi? De’ Medici?” [1], fece disorientato Aiolia, tamburellando impaziente le dita sulle ginocchia a causa della curiosità, che lo stava rodendo in maniera molto palese.

Come fulminata, l’augusta avia balzò invece indietro in un triplo salto acrobatico, sbattendo contro Kanon, che inciampò su Rhada, pestandogli inavvertitamente il piede; mostrando uno stoicismo very british, il giovane non urlò, ma sono sicuro che un paio di Shit! Fuck!, li avesse lanciati mentalmente e senza rimpianti, a giudicare da come serrava forte le labbra.

“Grand-mère, chi è la reine Catherine?”, chiese Milo con tono preoccupantemente mieloso, fornendo l’ennesima prova di quanto la sua curiosità vertesse inesorabile al paranoico e al morboso riguardo a tutto quel che mi concerneva  e continuando a fissare avido la busta color crema.

Sospirando a lungo, la nonna rispose solennemente, socchiudendo appena gli occhi: “E’ l’essere più diabolico, perfido, insensibile, gelido, menefreghista, possessivo, calcolatore, cacciaballe, impiccione e manipolatore del mondo!” e terminò l’infinita sequela prendendo fiato, avendola, infatti, elencata quasi in apnea. “Volendo riassumere: mia suocera!”

“La madre del Papa di Corinne?”, esclamò esterrefatto Aiolia, come se fosse strano che Papie avesse una madre. Gli effetti collaterali del post Mpreg erano davvero duri da smaltire …

“Esatto! E se quel delinquente è diventato il *censurato* qual è, lo dobbiamo solo a lei!”, annuì Mamie seria, per poi agitare convulsamente il braccio, colpendo Rhada al naso. “Me l’ha castrato, maledizione!”

Con una mano posta a conveniente vicinanza alle parti basse, Kanon domandò piano: “Metaforicamente o letteralmente parlando?” e lanciò un’occhiata veloce alle mie, quasi temesse che la reine Catherine avesse fatto il bis con me. Naturale, essendo la mia bisnonna.

“E’ così terribile?”, fece incredulo Saga, che trovava della bontà perfino nel marchese De Sade.

“Se lo è! Avete presente la Caterina shakespeariana? Ecco, è lei! Peccato, che suo marito non sia esattamente un Petruccio …” [2] Già, e sempre shakespearianamente delirando, il rapporto tra nuora e suocera era lo stesso del vero o presunto carattere gentilmente descritto a Benvolio dal buon Mercuzio: le due donne al the domenicale deponevano in apparenza le “armi”, dichiarando a voce alta Dio non voglia che abbiamo bisogno di voi e non avevano finito di girare lo zucchero col cucchiaino, che già si sbudellavano a furia di frecciatine e commenti più che maligni, giustificandosi con i motivi più assurdi. Come quella volta che Maman, a sette anni, confuse inavvertitamente la forchetta per l’entrée con quella della pietanza principale.

Una vera tragedia.

In realtà, la questione era semplice e allo stesso tempo complessa: non si trattava solo dell’ancestrale e innato odio tra la previa e nuova matrona per il controllo totale e indiscusso del maschio conteso, della casa e delle risorse finanziarie. No, era il caratteraccio di entrambe il vero dilemma! Se Mamie era una rompiscatole polemista, la mia bis era una gelida rompiscatole polemista. Cariche simili si respingono, aggiungendo poi il fattore la mia autorità matriarcale è messa in discussione da una marmocchia senza né arte né parte e con un atteggiamento da lanzichenecco, allora era ben comprensibile quanto la suocera mal sopportasse Mamie  in veste di nuora (e chissà, forse anche perché la bis considerava tutto suo il privilegio di tormentare Papie … sperai solo che il suo compagno fosse più gentile con lui, tra madre e moglie … un vero club sadomaso …)  Ancora mi chiedevo poi il motivo per il quale il bisnonno Philippe l’avesse sposata … ah sì, la partnership con il padre della reine Catherine …

“Una vera bestia …”, convenne Maman dalla cucina. “Piuttosto, che vuole?”

Sfilando la lettera dalla sua busta, ne scorsi velocemente i contenuti. “Uhm … si congratula con Maman per il suo fidanzamento, almeno lei potrà vantare un marito … ehm … fisso …”

“Bastarda …”, grugnì Mamie, girando nervosamente in tondo come un animale in gabbia. Aveva ogni ragione a definire così la mia bisnonna: infatti, io le avevo reso solo il conciso riassunto dell’altera lettera, ergo un velato, implacabile  e velenoso rimprovero dietro l’altro verso la fonte di tutti i suoi mali, a.k.a la nuora.

“… del mio esame di pianoforte fra due settimane a Parigi, che spera io passi con successo come tu facesti a tuo tempo  …”

“ Doppia bastarda … ancora le rode che sia arrivata prima …”

“… voleva sapere se M. Lefèvre continua a farti il filo con Papie ancora in circolazione  …”

“Tripla bastarda …”

“… che ci invita per le vacanze di Natale a Colmar …”, terminai in un incredulo sussurro, lasciando cadere il foglio di carta, prontamente raccolto da Milo, che lo rilesse ai fratelli attaccati a lui come patelle.

Non potevo crederci: le vacanze di Natale in casa di quel demonio? Che male avevo commesso per meritare simile castigo, Signore? Intuivo, che si trattava solo di una scusa da parte della bis per poter fare il pelo e il contropelo a M. Christophe; tuttavia, confidavo che lui sarebbe  riuscito senz’ombra di dubbio ad impressionare la terribile bisnonna (insomma, se era stato accettato da Mamie, c’erano delle buone possibilità!). No, il mio vero timore erano i suoi figli, la masnada franco-greca.  Tremavo alla sola idea di sapere il resto del mio clan interagire con i miei fratellastri, soprattutto conoscendo quanto suscettibili e guasconi quest’ultimi fossero.

“Messalina alsaziana!”, ruggì Mamie, spaccandoci i timpani e prendendo a scuotermi come un milk-shake bum bum alla fragola. “Corinne, non avrai mica intenzione di accettare?”, berciò, rilasciando un sottoscritto sballottato e molto incerto sulle sue gambe.

“Cosa? Mi prendi per scema? O masochista?”, replicò offesa Maman, comparendo in salotto e seguita prontamente da M. Christophe, apprensivo per quel repentino scatto di eccessiva bellicosità. “Non voglio affatto sottopormi a quel tribunale impiccione di famiglia! Inoltre, ultimamente si interessa troppo a Momus e la faccenda non mi piace!”

“Perché?”, s’informò Milo a bruciapelo, temendo Dio solo sapeva quale atrocità in serbo per me pianificata dalla bis.

“Incredibile ma vero, questo pinguino è l’unico maschio della sua generazione a portare il cognome di Molinier e siccome in quello strambo circo di famiglia vige ancora la legge salica, di conseguenza la fetta più grossa del patrimonio va a Pingu, poiché erede universale di mio –sigh - marito.”

“Ma non eravate divorziati?”

“Momento! Dégel ed io non siamo divorziati; mio marito è ufficialmente in vacanza a tempo indeterminato! Agli occhi della Marianne siamo ancora legalmente, finanziariamente e inesorabilmente sposati!”, ci tenne a precisare Mamie.  Ovvio, altrimenti non si spiegavano gli assegni mensili recapitateci da Strasburgo. E malgrado ciò, né Maman, né Mamie li avevano toccati, serbandoli, invece per me. Poi, continuò: “In ogni modo, solo da allora la reine Catherine ha mostrato una qualche forma d’interesse nei confronti di mio nipote, quando prima neppure lo considerava. Solo perché ha i miei stessi occhi, sostiene che mi assomigli … Ebbene, che s’impicchi!”, sbottò all’improvviso, battendo con violenza il pugno sul tavolo, provocando pericolose oscillazioni del vaso di porcellana al centro di esso. “Non permetterò mai che metta le sue zampe sul mio Pingu, castrandomelo come fece con suo nonno!”, giurò in piena crisi mistica, eleggendosi protettrice della mia virilità. E parlando di quella …

“No! Quello no!”, protestò Milo terrorizzato, abbracciandomi forte, mentre gli altri miei fratellastri mi si piazzavano intorno a mo’ di bodyguard, anch’essi in ansia per la sorte dei miei zizì: ma insomma, nessuno aveva capito, che si trattava di castrazione mentale? “Lasciategli almeno quelle!” e mi guardò con un’espressione tipo: Sennò col blowjob come si fa?

Seigneur aide-moi! (Signore, aiutami tu, ndr.)

“Eppoi, non ho voglia di vedere né i miei nipoti, né i miei pronipoti! Specie i russi!”, continuò l’implacabile nonna e l’ultima sua affermazione ebbe il perverso effetto di farmi scattare, entrando inconsciamente nel mondo delle sue strambe e contorte elucubrazioni.

“Giusto! Se c’è poi Hyoga, giuro che sbocco!”, eruppi veementemente, agitando il pugno contro l’aria, sebbene avrei preferito fosse stata piuttosto la faccia di quel … quel … arrgghhh!!! Le parole erano troppo vacue e insignificanti per descrivere i miei sentimenti (?) verso quella pantegana pennuta! (Ecco, ci siamo riusciti alla fine!)

“Yoga?”, chiese perplesso Aiolia a nessuno in particolare. “Cosa c’entra ora il succo di frutta?”

Al contrario, Milo aveva subito capito, che si trattava di un essere umano (volendo essere generosi nel definire Hyoga così); ciononostante, la sua gelosia si attivò per prima nel suo cervello, impedendogli di notare quanto lontana fosse l’ipotesi di un mio improbabile interesse nei confronti del biondino ossigenato: infatti, si tingeva i capelli, succoso segreto da me prontamente scoperto, divenendo fonte di ricatto a vita, quando il piccolo Paperbradipo alzava troppo la cresta col sottoscritto (ogni tanto, anche a Pingu giravano i cosiddetti).

“Chi è Hyoga?”, mi sibilò minaccioso, stringendomi in maniera convulsa il braccio. Tuttavia, tanto la sola idea di ritrovarmi il russo per tutte le vacanze di Natale mi aveva mandato così in oca il cervello, da non accorgermene.

“Quell’anatra all’arancia!”, pestai irato i piedi, sperando fosse la faccia di Hyoga.

“La tua bis fa lo Yoga, mentre beve lo Yoga e mangia anatra all’arancia?” , cercò Saga di delineare la situazione, la quale diventava di minuto in minuto sempre più confusa, fatto dovuto al parlottare di tre persone contemporaneamente, mescolando il tutto in un testo teatrale degno di Eugène Ionesco.

“Chi è Hyoga?”

“E quella gran vacca di tua zia Blanche! A che quota siamo coi mariti, Corinne? Io sono ferma al terzo … no al quarto! Pensi ci sarà un quinto?”, domandò Mamie a Maman, che scrollò le spalle. “E l’altro marmocchio, come diavolo si chiamava … Isla … Aya … Mayak … beh, tutto il suo prozio! Tapette pure lui!”

“Chi è Hyoga?”

“Nah, Isaak è un bravo ragazzo, anche se gay …”, commentò Maman serafica, attirando l’attenzione delle orecchie di Kanon, che si drizzarono alla loro estensione massima, quasi elfica.

“Me lo presenti?”, fece sornione, prontamente ripreso da un Rhada glaciale nella sua collera, che lo afferrò per una guancia, tirandogliela senza pietà alcuna:

“A cuccia te!” e Dio ci salvi dalla collera di una gelosa Viverna!

“Chi è Hyoga?”

“E’ morto …”, dissi lentamente, grattandomi il mento. Ora che mi ricordavo …

“Chi è morto? Isaak?”, domandò Aiolia, sfoderando dietro la schiena un bel paio di corna.

“Amleto …”

“Gueh? No, aspetta, Isaak è morto studiando l’Amleto?”, fece il lionceau preoccupato, ringraziando nel frattempo il cielo di non aver compreso nel suo bac letteratura inglese, se quelli erano i risultati. “O durante la rappresentazione dell’Amleto?”, aggiunse più speranzoso.

“Chi è Hyoga?”

“No, il suo criceto!”, risposi distrattamente, intanto che cercavo di convincere Maman e Mamie del mio eterno odio per Hyoga, sempre con Milo alle calcagna, domandandomi instancabile chi fosse quell’anatra all’arancia.

“Pure lui! Sono sempre i migliori ad andarsene!”, sospirò affranto Kanon, guadagnandosi una rapida dolorosa e ben nascosta sculacciata da parte di un Rhada ora livido di gelosia. Uh, pure gli inglesi sono ogni tanto gelosi …

“Cos’hai capito? Il criceto è Amleto e per associazione d’idee l’ha nominato, quando hanno parlato di Isaak!”, spiegò pazientemente Saga al gemello, mentre quest’ultimo si massaggiava le fesses doloranti. Nel casino generale, tuttavia, il messaggio era stato distorto dalla confusione e come nel telefono senza fili, si capì verge per  vierge. Altrimenti, perché Aiolia avrebbe replicato incredulo …

“Poiché quindi il criceto Amleto è morto, per solidarietà Isaak si è suicidato leggendo l’Amleto?”

“No: il criceto Amleto sta ad Isaak, quanto Amleto sta ad Ofelia!”, tentò di spiegare il maggiore a quei due testoni, il cui essere digiuni impediva al loro cervello di lavorare il meno strano del solito.

“Vuoi dire che il criceto ha ucciso il padre di Isaak e che quest’ultimo sia divenuto pazzo, gettandosi nel fiume con una coroncina di fiori e in camicia da notte?”

“...” perfino le persone in odore di santità come Saga a volte sospiravano un Basta: andate al diavolo quanti siete, ché son stufo!

“Chi è Hyoga?”

 E mentre Milo aveva preso a tirarmi per il braccio, simile ad un gamin di sei anni che voleva le caramelle, Mamie, Maman ed io continuavamo nella rassegna dell’odioso clan. “Jeanne poi mi sta a priori sul gozzo … avida moralista senza scrupoli … e Natasha tutta uguale …”

“Già,  tra salope ci s’intende …  hanno fatto più vittime loro due di uomini, che la Prima Guerra Mondiale!”

“E la spagnola,  Corinne! Lo sai che con la scusa, che in Russia fa freddo ogni verge è buona …”, le ricordò gentilmente l’avia familias, commento cui mia madre replicò imbarazzata per finta.

“Maman!”

“Embé? Perfino i pesciolini del Volga lo sanno, che Natasha cornifica a tutt’allé il marito! Sentimento poi reciproco, eh! Magari il Paperbradipo non è neppure suo figlio!”, dissi maligno.

“Chi è Hyoga?”

“E Camille la bastarda?”

“Non rivanghiamo dolorosi ricordi!”

“Ti è andata grassa, Mamie, che non sia lei la tua nipote!”, sottolineai perfido, conoscendo quanto la ragazza fosse capace di generare una possente emicrania a Mamie. Era quella, infatti, la mia arma per quelle volte che l’augusta avia rimpiangeva non fossi nato femmina.

Hélas, non sempre però funzionava. “E’ una minaccia, M. Molinier? O finalmente ti sei deciso ad esportare i zizì e metterti un bel paio di poppe al petto?” e arretrai d’istinto, nascondendomi dietro Milo.

“Oddio, che immagine!”, balbettarono in coro Saga e Rhada, letteralmente disgustati all’idea di vedermi conciato come lo zio Unity, ergo un Drag Queen.

“Weee!!! Avrò una sorella!”, giubilò invece Kanon, battendo a momenti le mani.

“Momus, non sfidare oltre grand-mère o davvero qui finisce con un Mpreg!”, mi supplicò Aiolia, congiungendo invece le sue. Oh, traumatizzato a vita sul serio …

Stufo di essere ignorato, il figlio di Selkis esplose in tutta la sua gelosa frustrazione, facendo tremare le pareti di casa. “CHI DIAVOLO E’ HYOGA, BORDEL?” e subito si pose ambedue le mani sulla bocca, arrossendo violentemente.

Attorcigliandomi una ciocca di capelli al dito, gli spiegai un poco colpevole per non avergli prestato attenzione: “Hyoga è un Paperbradipo mammone, viziato, coccolato, vezzeggiato, frignone e fiero di esserlo, se si gettasse dai ponti di S. Pietroburgo farebbe un gran favore all’umanità. E a me in primis!” Omisi però di raccontargli, che una volta ebbi l’estrema sfortuna di fargli da babysitter. E che considerai seriamente la vasectomia, pur di non generare simili mostri. “E’ il mio secondo cugino.”

  

“Oh!”, fece soddisfatto lo scorpion lubrique, abbracciandomi con un’aura di cupa possessività, che non mi piacque affatto, soprattutto se mi stava cingendo da dietro le spalle. “Je vois …”, mormorò gutturalmente, appuntandosi Hyoga nella sua lista nera.

Silenzio in aula.

“Ma riassumendo: si va o non si va?”

“KANON!”

 

“Allora, il piano è questo: voi due andate per primi a fare le analisi del sangue, così potete presentarvi già alla seconda ora; mentre i due gemelli li rigiriamo come calzini dopo con più calma”, ci delineò M. Christophe la sua strategia nel nuovo transatlantico di macchina. Per motivi di spazio e l’elevato numero di componenti famigliari,  avevamo deciso in comune accordo di vendere le due auto per poterne acquistare una più grande, in modo da evitare un corteo funebre ogni qualvolta dovevamo spostarci in gruppo. Avremmo dato  via volentieri anche la terza, l’auto di Mamie, peccato che quest’ultima si fosse attaccata alla sua Renault vecchia come il mondo, sostenendo di voler morire bruciata al rogo, piuttosto che vedere in rottamazione la sua adorata macchina.

E il catorcio s’era così salvato.

Così, finalmente seduti comodamente in auto senza il rischio di morire soffocati, tanto eravamo pigiati in precedenza l’uno contro l’altro, ci dirigemmo prima in direzione della mia scuola, poi all’ospedale, sperando che M. Christophe non beccasse alcun autovelox, poiché la discussione mattutina ci aveva messi leggermente in ritardo e se c’era una cosa che faceva uscire di banana il mio patrigno – figli a parte – era l’essere appunto marchiato come ritardatario, come spesso si solgono considerare gli stranieri mediterranei.  

“Cosa vedo i miei occhietti scorpioneschi?”, mi sfotté Milo, allungando il collo per avere una migliore visuale del mio quaderno di francese aperto. “Ionesco che fa all’ultimo momento i compiti di letteratura?”

“E tu?”, replicai velenoso, rifilandogli una regale linguaccia. “Non dovresti ripassare per il compito di storia? Solo perché perdi la prima ora, non significa che alla seconda Madame Matusa non te lo faccia recuperare!”

“Tzé! A che pro? So già quella roba. Colpa mia, se siete orribilmente indietro col programma?”, fece spallucce il bicho, mordicchiandosi una nocca. D’istinto, gli elargii una zampata per levargliela via di bocca. Non mi piaceva quell’abitudine: infatti, a volte il ragazzo arrivava anche a farla sanguinare. Il mio gesto fece sì che Milo mi guardasse storto per qualche secondo, per poi ritornare a fissare il paesaggio fuori dal finestrino.

“Si è sempre indietro col programma di storia”, dissi sospirando e ritornai a concentrarmi sull’irrimediabile schifo da me scritto sul quaderno. Il motivo di quell’affermazione da parte del mio fratellastro è presto detto: nelle ultime settimane le nostre due classi di storia e francese si erano unite in una sola, in quanto la professoressa di quella di Milo era in procinto di affrontare gli ultimi mesi di gravidanza, abbandonando i suoi pupilli nelle mani di Madame “Matusa” Toussaints, la nostra insegnante, una donna piccola con la faccia da bove e così anziana, che alcuni sostenevano avesse insegnato a metà Mont-de-Marsan. La sua età era un mistero, così come se la diceria riguardo suo marito fosse vera, ergo che fosse morto in un incendio a Tolosa, mentre si trovava in dolce compagnia.

Fatto stava, che la donna era una palla micidiale e che se avesse potuto frustarci i palmi delle mani – com’ero sicuro avesse fatto ai tempi di Mamie – ne sarebbe stata più che contenta, col mio scorpione in particolare, il quale, con la scusa di una memoria di ferro e di essere in avanti col programma di storia, assisteva molto svogliatamente alle sue classi, sempre però pigliando il massimo dei voti. Tuttavia, a onor del vero andava detto, che la mia professoressa privilegiava di più francese rispetto a storia ed infatti, nella prima materia potevamo dichiarare di essere al passo col programma. E ciononostante, ancora non era riuscita a rifilare un’insufficienza a Milo.

“Eppoi”, continuai più battagliero, sentendomi offeso nell’essere dichiarato un poltrone last minute. “Non stavo facendo i compiti; li stavo revisionando. È diverso.”

“Ah ouais?”

“Exactement! Sto cercando di rendere più leggibile la poesia dettata dall’esercizio 14 …”, borbottai, rigirando inquieto la matita tra le dita. Odiavo gli esercizi di laboratorio finale, soprattutto se si trattava di produzione poetica. Con la prosa me la cavavo onorevolmente, ma in poesia ero un caso perso.

Levando gli occhi dal finestrino, Milo scosse scettico il capo. “Eddai, non può essere venuta fuori così terribile …”

“No, no”, lo rassicurò Aiolia, aggiungendosi alla nostra conversazione. “A Momus dovrebbero davvero dare l’ergastolo per l’obbrobrio, che ha avuto il coraggio di  comporre …”

“Ecco, vedi?”, confermai, annuendo con veemenza la testa e rosicchiando ora la matita nervosamente.

“Ih, cosa vuoi che sia? Madame Matusa neanche ti guarda gli esercizi!”

“Sì invece, quando interroga! Dovresti ormai saperlo, che li valuta in quell’occasione!”, proruppi quasi isterico. Non avendo una vita scolastica esattamente brillante dal punto di vista sociale, i voti erano divenuti la mia sola consolazione, nonché motivo per continuare a sopportare gli ultimi sgoccioli di quell’infernale topaia provinciale. “E’ tutta la settimana, che mi guarda di traverso!”, aggiunsi, sovvenendomene in quel momento. “E ciò significa solo questo: che …”

“… ti vuole invitare al ristorante in centro, in una romantica cenetta à deux, nella quale passerete tutto il tempo a guardarvi intensamente negli occhi!”, scherzò Kanon e meno male, che nessuno – enfin, quasi nessuno – avesse colazionato, altrimenti era vomito assicurato. “Eddai, Milou! Non capisci, che per Momus, in quanto detentore indiscusso del titolo di nerd e secchione della scuola, un voto inferiore al 18/20 equivale ad un’orribile e fatale alterazione del suo status quo? Mi sorprendi, mon bébé, insomma, non è il primo caso in famiglia …” e lanciò un’occhiata maliziosa al suo doppio, che per la seconda volta nella giornata divenne rosso pomodoro.

“Provaci a finire la frase, dai, provaci …”, lo sfidò Saga con un tono di voce, che provocò al resto dei fratelli, me incluso, un brutto brivido freddo lungo la schiena. E Kanon o era molto coraggioso o molto sconsiderato, giacché continuò imperterrito:

“Abbiamo per caso la coscienza sporca, Sasà?”

Glaciale, il maggiore dei gemelli replicò crudelmente: “Con famiglia intendevi anche Rhada, vero?”

“Cosa?”, schiattò per poco il minore, girandosi sconvolto in direzione del suo meco, che si scusò scrollando le spalle con nonchalance. Sorridendo perfido, Saga gongolò soddisfatto nel vedere dallo specchietto retrovisore come il fratello si afflosciasse sconsolato nel sedile. Chi l’avrebbe mai detto? Rhada un secchione e un nerd! Non c’era più religione a questo mondo …

Ma la vendetta non tardò a venire e ancora una volta, fui io la causa scatenante.

“A proposito”, chiesi ad Aiolia, peccato che fu anche ad alta voce, “qual era il filmino menzionato prima da Christophe?” e la prima risposta che ottenni, fu uno sguaiato scoppio d’ilarità da parte di tutti i miei fratellastri, insieme a quello più contenuto del loro padre.

Rapido come la morte, Kanon si allungò verso di me, così da potermi parlare meglio a quattr’occhi, seppure il braccio che Milo aveva di riflesso posto tra noi due gli impedì di avvicinarmisi oltre. “Lo vuoi davvero sapere, mon Momus tout doudou?”, fece mielosa la strega di Blanche Neige.

“Et ben, oui …”, risposi ingenuamente, ignaro della scottante verità nascosta in un filmino di quasi due ore.

“Hai presente i due gemelli Viola e Sebastian ne La dodicesima notte?”, fu la premessa di un Kanon bramoso di vendetta nei confronti del suo doppio.

“Oui?”, lo invitai a proseguire, ignorando i cenni negativi degli altri miei fratellastri, cognato incluso.

“Indovina un po’ chi ha fatto Viola?”, lasciò maligno alla mia immaginazione il giovane, ritirandosi sornione nella sua tana e me con la bocca aperta, incredulo di quel moderno e gemellare rôle en travesti.

Senza commentare, Saga si calò il berretto sul viso fino a sembrare in tutto e per tutto al subcomandante Marcos, peccato senza pipa e fazzoletto rosso legato al collo. [3]

Shakespeare strikes back.

 

***

 

Quando Madame Matusa entrò in classe, la trovò già pronta per l’imminente compito: malgrado avessimo con lei tre ore il lunedì, quando ci comunicava che il tempo concessoci era un’ora e mezza, quella sarebbe stata, cascassero le sue giarrettiere.

La sua prima azione, dopo averci elargito il suo bonjour, fu d’interpellarmi ove fosse il mio fratellastro, rimanendo un poco delusa nel sentirsi dire, che il bicho si sarebbe presentato alla seconda ora per motivi medici e non per desiderio di saltare la verifica.

La sua seconda azione fu di sequestrarci astucci e cartelle, promettendo le pene dell’inferno allo sfrontato, che avrebbe pizzicato con dei bigliettini.

La terza e ultima azione consistette nel consegnarci il foglio, più delle pagine per la brutta copia o schemi, augurandoci un buon lavoro.

Scorsi velocemente le domande, onde avere un primo quadro generale della situazione, ergo su quale concentrarmi di più, quale incominciare per prima e così via.

1.       “Non è azzardato affermare che le fondamenta della vittoria finale sul fronte occidentale vennero poste dall’offensiva sulla Somme del 1916” (Sir James Edmonds, storico britannico.) In base alle tue conoscenze, spiega il perché di quest’affermazione, delineando in breve le dinamiche della battaglia della Somme. (max. 350 parole)

2.       Perché la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) segnò la fine del lungo periodo di centralità politica dell’Europa nel mondo? (max. 200 parole)

3.       Come mai lo Medz Yeghern (1915-1916) venne definito dal giurista polacco Raphael  Lemkin come il primo vero genocidio della storia? (max. 150 parole)

Lessi e rilessi attentamente i quesiti, sottolineando le parole chiavi, che trascrissi nella brutta copia, ripentendole a mente, finché non ebbi un primo abbozzo di schema, che mi affrettai a buttare giù velocemente. Lo controllai. Soddisfatto, incominciai a scrivere, partendo dall’ultima domanda:

Lo Medz Yeghern, o il Grande Male in armeno, può essere considerato il primo vero genocidio della storia perché …

Tanto ero assorbito nel mio lavoro, che non mi accorsi delle palline di carta lanciatemi addosso a tradimento, tranne quando mi apprestavo a raggiungere la metà della prima domanda. In poche parole, nel momento in cui i miei capelli sembravano un albero di Natale.

Infatti, rimasi stupito nel veder cadere una pallina di carta sul banco, quando mi grattai la testa con la penna, in un attimo di pausa. Di riflesso, passai una rapida e pesante scrollata alla mia capigliatura, dalla quale simili a fiocchi di neve scesero tutte le sue sorelle. Mi girai indignato verso la fonte di un risolino sfottitore, appurando che il fromboliere non era uno solo, bensì tre, ovvero quelli seduti più vicino al sottoscritto.

Sbuffai spazientito, scrollando le spalle e accingendomi a riprendere il lavoro interrotto. Sennonché, l’ennesima pallina di carta mi colpì dritto al naso. Appoggiai in un tonfo la penna, facendo segno al birbo malnato di smetterla, ricevendo come risposta un ilare scuotimento del capo. Ripresi decisamente alterato, rileggendo con i nervi in fermento la risposta, tentando di ritrovare la concentrazione perduta. Un ulteriore proiettile di carta e il “la ferme!”, che uscì fuori, seppur sottovoce, non sfuggì alle orecchie ognora attente di Madame Matusa, che, battendo la penna sulla cattedra, ci richiamò al silenzio.

Questo teatrino – pallina di carta / cenni di smetterla / battito di penna – andò avanti per dieci minuti buoni, finché la professoressa si spazientì anch’ella, prendendosela, come sempre, con la persona sbaglia.

Ovvero … con me!

“Molinier, datti una calmata o ti ritiro il compito!”, m’apostrofò seccata Madame Matusa, mentre i veri fautori di quella situazione se la ridevano alla grossa.

“Mais Madame …”, provai a spiegarle, subito però fui messo a tacere dalla donna.

Imbronciato, mi riconcentrai sul mio compito, ricevendo ancora una schifosissima pallina, questa volta a qualche centimetro dall’occhio. Appena il tempo di girarmi verso il fromboliere, che Madame mi ordinò ad alta voce seriamente irritata: “Molinier, prendi il tuo compito e siediti alla cattedra!”

Una risatina maligna si diffuse nell’aula; infatti, due erano le categorie di studenti, che nelle classi di Madame Matusa sostenevano una verifica alla cattedra: quelli che la dovevano recuperare (la donna non si fidava di mandarli in fondo all’aula per timore di bigliettini) e i sospettati di copiatura. Siccome per ovvi motivi fisici non potevo appartenere alla prima categoria, già potevo palpare con mano l’evidente divertimento dei miei compagni nel vedermi umiliato in quel modo.

Balbettando, provai a giustificarmi. Niente, Madame era irremovibile.

“Molinier, alla cattedra ho detto!”

“Mais Madame!”, mi venne in soccorso Shaka, rendendo ora lo spettacolo più interessante. “Gli tirano addosso palline di carta, non è colpa sua!”

“Kumar, non ho bisogno del tuo consiglio. Pensa al tuo compito, piuttosto!”, gli intimò la professoressa, mentre io, deglutendo a fatica e con le guance rosse di vergogna, raccoglievo le mie cose e mi sistemavo accanto a lei. E malgrado i primi terribili momenti, dopo un po’ trovai un lato positivo in quella fastidiosa faccenda: accanto alla Vacca Sacra, nessuno aveva più avuto il coraggio di molestarmi e di fatti terminai tranquillo la prova senza ulteriori interruzioni, addirittura un quarto d’ora prima dello scadere del tempo.

“Penne giù, l’ora e mezza è passata!”

Chi contento, chi a malincuore, chi esausto, chi soddisfatto, un rumore di penne appoggiate sul banco e uno scartabellare di fogli seguirono l’annuncio della professoressa. “Molinier, vai a raccogliere le verifiche”, mi disse poi. Presi dunque la mia e passai tra i vari banchi a ritirare i fogli, quand’ecco che verso metà aula qualcosa – o qualcuno – impose un ostacolo al mio cammino, convenientemente sparito non appena caddi per terra a papera, sparpagliando ovunque le verifiche. 

“Tutto a posto?”, inquisì Shaka, correndo subito da me e porgendomi una mano, onde rialzarmi. Nicchiai velocemente, raccogliendo con mani tremanti i fogli, mentre un cerchio di curiosi si stringeva a noi, subito disperso dall’arrivo della professoressa, la quale, dopo essersi informata delle mie condizioni, mandò tutti al posto.

“Tzé, a-t-elle de la merde dans les yeux, ou fait-elle  exprès à ne voir rien?” (Ha della merda negli occhi, o fa apposta a non vedere niente ?, ndr), mi sussurrò irato Shaka, aiutandomi nel frattempo a riordinare il banco, sedendomi poi pesantemente sulla sedia una volta terminato e massaggiandomi il braccio offeso dallo spigolo del tavolo durante la caduta. Feci spallucce, frugando invece nello zaino per tirare fuori il materiale necessario alla prossima ora.

Sbiancai.

“Momus?”, mi guardò preoccupato Shaka, posandomi una mano sulla spalla, in modo da girarmi verso di lui. “Que est-ce qu’il passe avec toi?”

Ignorandolo, setacciai con nervosa foga l’interno della cartella, il cuore che mi batteva furiosamente nel petto. No, non poteva essere! Non in questo giorno!

“Momus!”, esclamò l’indiano ora sul serio in ansia, specie quando notò come avessi nascosto il viso tra le mani, appoggiando in un tonfo i gomiti sulla liscia superficie del banco.

“L’ho dimenticato in macchina …”, confessai infine, stirando la pelle del mio viso coi polpastrelli.

“Cosa?”

“Il quaderno di francese …”

Mordendosi il labbro inferiore, Shaka mi rassicurò: “Non è grave: se ti chiede le domande dal posto, ti faccio leggere le mie!”, si offrì generosamente, pur conscio del pericolo che avrebbe corso, in caso Madame Matusa l’avesse pizzicato.

“Il problema è che lei oggi m’interroga!”, gli rivelai, guardando infelice il libro e il quaderno nuovo appena iniziato, sul quale erano scritte solo tre risposte.

Notando quanto fossi in oca col cervello, Shaka decise di prendere in mano la situazione: tirò fuori il suo quaderno, aprendolo rapido alla pagine degli esercizi e ficcandomi in mano la penna. “Non so come tu possa affermare con così tanta sicurezza di essere interrogato … in ogni modo: copia qua, veloce!” e, seppur titubante, feci quanto consigliato, ringraziandolo con fervore. Sperando di finire in tempo …

“Molinier, esci interrogato.”

Pareva troppo bello … Quasi, quasi sul serio consideravo il consiglio di Aiolia circa un esorcismo. Certo, della mia sfiga!

Sospirai a fondo, raccogliendo il libro e il quaderno, camminando simile ad un condannato a morte verso la ghigliottina, elaborando nel frattempo un approccio tattico, onde comunicare a Madame Matusa che non avevo il quaderno vecchio, senza rischiare la lapidazione.

Prima ancora che potessi parlare, la professoressa mi domandò accigliata, sfogliando le pagine in bruschi movimenti. “Et bien, come mai ci sono solo metà esercizi?” e avesse almeno avuto la gentilezza di chiederlo a voce bassa, non in modo che perfino la classe accanto alla nostra potesse ascoltare le sue parole.

“Ho dimenticato il quaderno vecchio in macchina stamattina”, risposi semplicemente, trincerandomi dietro alla vera versione dei fatti. Contrariamente a Kanon, che con le sue panzane sarebbe riuscito a convincere il Papa a nominarlo cardinale, il sottoscritto non era molto abile nell’antica arte di Odisseo e il solo modo che avevo per discolparmi era appunto quello di raccontarle la verità, per quanto banale e poco avventurosa essa potesse essere.

“Dimenticato in macchina?”

“Oui, Madame.”

“Molinier, guarda che sono astemia.”

Risolino generale. Ovvio, che avevo inteso il sottotesto di quella battuta, ovvero che non aveva bevuto la mia “scusa”, che poi non lo era, poiché corrispondeva al vero. In ogni modo, ricorsi alla tattica innocentino, fingendo di non aver capito, liberandomi così dal sospetto di ogni malizia di malfattore dalla coscienza sporca. “Sono contento che lo siate, l’alcol non è proprio salutare …”, mormorai a mo’ di agnellino, desiderando in quel momento poter imitare lo sguardo da gattino bagnato, che Aiolia rifilava nei casi di emergenza. No, peggio: l’Occhidolci di Kanon, così mettevo quell’arpia K.O.!

Madame Matusa aprì la bocca per replicare, quand’ecco che la porta si spalancò violentemente, lasciando spazio ad un Milo senza fiato, il quale in apparenza sembrava reduce da una maratona contro il tempo per non arrivare troppo tardi per la verifica. Infatti, a giudicare dalle scarpe e dai jeans inzaccherati di neve e fango; dal cappotto in mano; dalla manica del maglione arrotolata e con ancora il cotone e lo scotch post prelievo; dal fiatone corto e i capelli più impazziti del solito, ecco a giudicare da tutti questi fattori il ragazzo doveva essersi catapultato fuori dalla macchina, non appena aveva raggiunto i cancelli della scuola.

Quel che mi colpì in particolare, fu però quella tinta cadaverica sul suo viso, che non mi ricordavo possedere qualche ora fa.

“Ah, Valavitis! Non speravamo più di vederti!”, fu il benvenuto della professoressa al sbuffante bicho, che avanzò a passi sicuri verso la cattedra, presentandole il libretto con la giustificazione.

No, non era l’effetto della luce livida del neon: sul serio il rosa era sparito dalle guance di Milo. Che cos’era successo? Doveva sostenere un prelievo, mica un salasso!

“Le sono mancato Madame, eh?”, rispose semiserio Milo, pigliando una sedia, nel frattempo che la donna regolava gli issues burocratici. E da come lei arcuava il sopracciglio, l’arpia era tanto contenta di vedere il mio fratellastro, quanto di trovarsi la guardia di finanza sottocasa.

“A proposito”, proseguì il biondo, rovistando alla Mary Poppins nella sua cartella, “ti sei dimenticato in macchina questo”, mi disse, estraendo il mio quaderno di francese e porgendomelo. Con mano tremanti per la contentezza lo presi, elargendogli i miei occhioni più tondi e languidi. Invece, quelli di Madame Matusa si erano stretti in una sottile linea, intanto che consegnava il foglio ad un sornione scorpion, il quale pareva aver benissimo compreso, quale sorta di processo era in atto prima del suo arrivo.

E forse come scusa per aver dubitato di me, Madame Matusa mi concesse un onore riservato a pochi nelle sue interrogazioni: mi permise di incominciare con un argomento a piacere. Optai dunque per Arthur Rimbaud, raccontandole vita, morte e miracoli; la produzione poetica, lo stile, ritrovando man mano che proseguivo la fiducia precedentemente scossa dalla sparizione del quaderno. Incolore, la professoressa mi chiese di leggerle alcuni versi de “Le Bateau Ivre”, di analizzarli e poi fornire un mio personale commento, richiesta che eseguii con gran gusto. Poi, la tregua terminò e Madame Matusa riprese le sue interrogazioni alla Torquemada, esigendo collegamenti tra vari autori simbolisti e decadentisti francesi e non; differenze tra le previe correnti letterarie; come e perché la poesia di Baudelaire contesse in sé dei temi tipici del Romanticismo; cosa fossero le “correspondances”; la sinestesia nei simbolisti (con esempi annessi e connessi), etc. Un vero pelo e contro pelo nord, sud, est e ovest, dal quale ne uscii orgogliosamente sulle mie gambe, le quali, però, ebbero un fremito quando l’arpia mi invitò a leggere il famigerato esercizio 14, l’unica risposta indecente tra le sue accurate sorelle.

E dinanzi la mia reticenza ad elargire tale schifezza al mondo, Madame m’intimò secca: “Spicciati, Molinier, non abbiamo tutta la mattinata!”

Annuii lentamente col capo, chinandomi sul quaderno aperto sulla cattedra. Portai una ciocca di capelli molesta dietro l’orecchio e, schiarendomi la voce, mi apprestai a proclamare l’orrore assoluto.

Una sorta di gorgoglio strozzato fu, al contrario, l’unico suono che sfuggì dalla mia bocca spalancata in un’incredula O.

Non … non poteva essere …

Scorsi veloce con gli occhi la poesia, leggendola mentalmente e aumentando così il mio stupore: bon sang, non era opera mia! Io … io non avevo scritto una cosa simile! Eppure, eppure … la calligrafia era la stessa! Che diavolo …?

“Molinier, sto aspettando!”

Boccheggiai disorientato, schioccando una furtiva occhiata a Milo, il quale non ricambiò, avendo gli occhi ben puntati sul foglio e un’espressione di pietra sul viso. E va bene! Prendiamo la cosa come viene et merci bien!

 

Les feuilles mortes.

 

Nous sommes des feuilles mortes, mais humaines:   (Noi siamo delle foglie morte, ma umane :)

Nées tendres et pures pendant    (nate tenere e pure durante)

Le printemps de la vie ; amoureuses   (la primavera della vita ; innamorate)

Des fleures les plus beau et différents.  (dei fiori più belli e differenti.)

 

En été, nous caressons nos enfants,   (In estate, noi accarezziamo i nostri figli,)

Juteux fruits, nourriture féconde  (succosi frutti, fecondo nutrimento)

De la terre, espoir de l’avenir.  (della terra, speranza dell’avvenire.)

 

En automne, les couleurs du crépuscule  (In autunno, i colori del crepuscolo)

Se montrent en nous fiers et vaniteux,   (si mostrano in noi fieri e vanitosi,)

Derniers rayons d’un vie qui s’atteigne.   (ultimi raggi di una vita che si spegne. )

 

En hiver, nous sommes mortes :  (In inverno, noi siamo morte :)

Lointain, la neige nous amène.   (lontano, la neve ci porta. ndr. All copyrights’re mine yeah!)

 

 Terminai in un sussurro, incapace ancora di credere alla miracolosa sostituzione avvenuta. Come il resto della classe, se era per quello: Shaka mi fissava quasi avesse dinanzi a sé Buddha in bikini. L’unico a non essersi unito al generale stupore (Molinier che compone una poesia umanamente orecchiabile? Ma dai!) era proprio Milo, il quale, con la scusante di essere concentrato sul compito, evitava di incrociare il mio sguardo con una volontà pressoché granitica. E fu allora che compresi.

Macchina.

Schifo di poesia.

Discussione.

Voto.

Interrogazione.

Milo.

Scrittura.

Aiolia.

Disegno.

Assenza prima ora.

Quaderno sparito.

Bordel, questo voleva dire che … che …

“E’ molto graziosa, Molinier”, commentò la professoressa rabbonita, scorrendola con la punta della penna rossa. “Davvero molto graziosa …”, ribadì, cerchiando il 20 a piè di pagina. Seigneur, avevamo dei falsari in casa! Neppure la tremenda Madame Matusa se n’era accorta! “C’est bien puoi recarti al posto!”

Invece, le chiesi se per cortesia potevo andare al bagno.

Permesso accordato.

Una volta fuori a contatto con l’aria più fresca del corridoio deserto, respirai a fondo e di sollievo, felice che quelle tre stressanti ore stessero ormai volgendo verso il loro inesorabile termine. Ciononostante, sentivo una strana sensazione al cuore, una sorta di languido pizzicore il quale mi stava in quell’istante colorando le guance di cremisi.

Mi aveva sfilato il quaderno per riscrivere una poesia migliore.

Allora, la mia intima speranza che lui … a me … un poco .. ci … ci … tenesse, era vera?

E con gli occhioni luccicanti di una donzella ferocemente innamorata (prego di non soffermarsi a lungo sulla detta immagine: potrebbe causare convulsioni), barcollai verso il bagno, scontrandomi con una dura visione, che ebbe lo stesso effetto di tre docce fredde: con un foglio in mano e il cellulare nell’altra, Aiolia stava abbracciando con foga Shura, il quale gli accarezzava dolcemente la schiena.

Gueh? Per caso anche il lionceau aveva dichiarato cambio di sponda? Ma non ci aveva distrutto il sistema nervoso con le sue infinite professioni d’amore per Marin? Questa sì che era una …

Hey, hey, hey, Pingu! Connetti prima il cervello e non saltiamo a conclusioni azzardate e cochon! Già una volta hai preso verge per vierge con Milo e Rhada, ora stai attento a non ripetere lo stesso errore! Perché errare è umano, perseverare è da coglioni! Esistono tanti altri motivi, per i quali un maschio abbraccia un altro maschio! Non cedere alla nefasta influenza dello Yaoi! Sei superiore a queste venalità!

“Giusto!”, convenni con il pinguino del cervello. “Se c’è qualcosa che ho imparato da Jane Austen è che non bisogna mai fidarsi delle prime apparenze!”

E nel tuo caso, neppure delle seconde, terze e quarte.

Entrai quindi nel bagno con nonchalance, fingendo di essere appena giunto lì, quando in realtà mi ero arrovellato sul da farsi per ben cinque minuti fuori della porta.  E il modo tranquillo – almeno di Shura – nel quale venni accolto, confermò la bontà della mia scelta di non considerare Simba perduto dietro a Scar invece che a Nala. “Yo Molinier!”, mi salutò il ragazzo, continuando il suo paterno pat-pat sulla spalla di Aiolia, il quale solo ora mi rendevo conto stesse piangendo.

Ennesima figuraccia scampata per un pelo.

“Che cosa gli è successo?”, chiesi sinceramente preoccupato nel trovarlo in quelle afflitte condizioni. Per una personalità allegra e vivace come quella del lionceau, era dura vederlo piangere. Macché piangere! Singhiozzare disperato, piuttosto!

“Vallo a sapere …”, rispose flemmatico Shura, cambiando mano e stirando la spalla anchilosata. “Mi sono assentato da fisica solo un  momento, giusto per sgranchirmi un po’ le gambe e andare al bagno. E che trovo? Un dolente e piangente gattaccio con in mano il cellulare … e la verifica di filosofia.”

“Ahia!”, esclamai, mordendomi il labbro inferiore: ecco spiegato l’arcano! Dio solo sapeva quale orribile insufficienza avesse preso! E adesso come avrebbe affrontato l’ira funesta di M. Christophe? “Aiolia …”, esordii piano, sfiorandogli con delicatezza la spalla scossa dai singulti. Rapido, il ragazzo lasciò Shura per attaccarsi a me, inumidendomi il maglione di lacrime e ululando sconsolato.

“Momuuuussss … è la fine! È la tragedia … è l’Apocalisse … è … buh-hooo … non ci posso credere … è orribile …”

“Courage Aiolia, ce n’est pas si grave: può succedere …”, provai a consolarlo, sebbene non ottenessi altro che dei singhiozzi sconnessi e desolati.

“Mi-ih-hoo, sì lo è …”, scosse il capo il lionceau, asciugandosi sul mio maglione le lacrime. Sperando che non si azzardasse a soffiarsi pure il naso … morte istantanea …

“Alors, qu’est-ce qu’il passe ici?”, trasalimmo tutti e tre violentemente nel sentire la voce di Milo alle nostre spalle, mentre lo scorpion si levava lo scotch e il tampone dalla piccola ferita, sulla cui pingue goccia di sangue mi soffermai un istante.

Milo se ne accorse immediatamente. “Sì, Ionesco, in famiglia abbiamo tutti una percentuale di piastrine leggermente inferiore alla media, ecco perché sanguina ancora. E adesso dimmi, che cos’ha mio fratello?”, inquisì spazientito, quasi avesse un diavolo per capello. E il pallore ancora non se n’era andato.

“Milou!”, guaì il più piccolo della masnada. “Il compito di filosofia …”

“Ancora un’insufficienza?”

Aiolia non rispose, porgendogli invece il foglio incriminato e asciugandosi con la manica della felpa gli occhi. “Milo?”, domandammo apprensivi, notando il colore ora verdognolo sulle guance del ragazzo.

“Capisci, ora?”, fece il lionceau infelice, soffiandosi il naso sul fazzoletto di carta gentilmente offertogli da Shura.

“Iou - Iou … non ho parole …”, ansimò lo scorpion, rigirando con mani tremanti la verifica. “Come hai fatto? Come cavolo … cosa ti è successo per prendere 17.45/20 nel compito di filosofia?”

“Gueh?!?”, ruggimmo in coro lo spagnolo ed io al limite dello sconcerto, intanto che Aiolia piangeva come una fontana. Se il gattaccio prendeva voti simili in filo, proprio lui che arrancava per la sufficienza malgrado gli sforzi sovrumani, allora sì, che la fine del mondo era vicina!

“Chapeau, Aioliaaarrggghh!”, mi congratulai con sincero trasporto, subendo da lui una mossa di wrestling camuffata da abbraccio, che per poco non mi fece uscire il tronco natalizio dell’anno scorso.

“E’ tutto merito tuo, Momus! Merci, merci, merci! Se non mi avessi dato ripetizioni, avrei preso dieci punti in meno!” e mi schioccò due umidi bacioni sulle guance, stritolandomi di nuovo. “Ti voglio tanto bene!”

“Adesso, puzzola, non ti allargare troppo, eh? Tzé! Questa notizia, Papa lo ammazza!”, sentenziò Milo, lavandosi le mani sporche d’inchiostro e osservando con un sorriso a trentadue denti stampato sulle labbra il fratello staccarsi da me e correre via dal bagno ancora piangente, ma giubilate, e mescolarsi nella folla di studenti, i quali vagabondavano come un gregge senza pastore nei corridoi, godendosi i trenta minuti di ricreazione.

“La media è salvaaahhhh!!!”

 

 

“Non credo sia una buona idea, Milo … se ci beccassero …”

“Ih … non si sono accorti di te per sette anni, vuoi che lo facciano per mezz’ora?”

“Tutto quel che vuoi, ma questo genere di cose non sarebbero moralmente adeguate in un contesto scolastico!”

Arcuando il sopracciglio, Milo si fermò, cingendomi rapido alla vita e attirandomi verso di lui. “Ionesco, ti ho solo invitato a colazionare con me alla cioccolateria, non a bigiare la scuola o a combinare chissà quali sconcerie elaborate dal tuo cervello arrapato!”, mi rimproverò scherzosamente, baciandomi la tempia destra. “Ritorneremo in tempo per la quarta ora, promesso!” e sancì il patto, posando di nuovo le sue labbra sulla mia palpebra semichiusa.

Offeso tuttavia per l’avermi dato dell’infoiato, gonfiai le guanciotte come due mongolfiere, pizzicando il naso del bicho per vendetta. Per tutta risposta, lui mi elargì un’impietosa scarica di piripicchio, costringendomi a supplicarlo con le lacrime di risate agli occhi acciocché si fermasse. Ridacchiai di gusto ancora per qualche minuto, smaltendo gli ultimi residui della sguaiata risata di prima, e  asciugandomi gli occhi con il polso, sotto lo sguardo amorevole del mio bicho. Tenero certo, eppure … eppure allo stesso tempo triste … perché?

“C-come è  andata la visita?”, chiesi, calmando nel frattempo il mio respiro impazzito. Percepii il corpo di Milo irrigidirsi contro il mio, malgrado la sua bocca continuasse a sorridermi. Gli afferrai di riflesso la mano, analizzando ogni indizio nel corpo e nell’espressione del ragazzo, che mi aiutasse a comprendere il motivo di quella sua repentina alterazione di comportamento. Ormai, non volevo più licenziare l’argomento con un frettoloso “lunatico”: al contrario, desideravo capire a fondo quell’anima così contorta, come lui si stava impegnando a scoprire la mia.

Con forza, Milo ricambiò la mia stretta.

“C’était bien”, fu la sua concisa risposta, prendendo a mangiucchiarsi la nocca e grugnendo infastidito, quando gliela levai dai denti. “Mi hanno prelevato del sangue e basta. I due gemelli non li ho visti, credo siano stati sequestrati dall’oculista …” e tacque, volgendo lo sguardo altrove, umettandosi a disagio le labbra violacee.

Silenzio.

“Ehm …”, azzardai sorridendogli timidamente e accostandomi un po’ più presso a lui. “Volevo … ecco … enfin, tu ed Aiolia siete stati molto gentili con me … volevo ringraziarvi, ecco!”, mormorai sincero, schioccandogli un lieve bacio sulla guancia. Invece di rimanerne compiaciuto, Milo aggrottò la fronte perplesso.

“Per cosa? Per il filmino di ieri?”

Sbattei le palpebre disorientato: non aveva inteso a cosa mi riferivo? “Et ben, per … mi pare ovvio!”, sbottai leggermente scocciato da quell’atteggiamento gnorri. Eddai, aveva avuto il movente e il tempo per commettere il delitto, perfino con l’ausilio di un complice, che aveva falsificato la mia calligrafia! Non ero esattamente un cretino totale, veh!

“Forse per la tua mente all’incontrario! Sul serio, Ionesco, per che cosa ci stai ringraziando?”

“Lo sai benissimo, scorpion lubrique!”

“Affatto, pingouin vierge!”

Silenzio rancoroso.

“La poesia!”, cedetti infine, gonfiando nuovamente le mie guanciotte e serrando con più forza il braccio del ragazzo, al quale mi ero aggrappato simile Tarzan con la liana. “Non era la stessa di stamattina! E non dirmi che non ne sai niente, giacché la magia esiste solo nel mondo di Harry Potter! E manco in quello, tutti effetti speciali!”, aggiunsi, dopo averci ripensato un po’.

“Vero, ma i miracoli sussistono nel nostro! Eddai, hai letto la poesia da te composta, solo che stamattina eri così su di giri per via del compito e dell’interrogazione, da considerare schifose perfino quelle dei tuoi adorati simbolisti!”, mi spiegò flemmatico Milo, sempre tenendo gli occhi ben lontano dai miei, per quanto io mi sforzassi di guardarlo in faccia.

“Blasfemo!”, l’apostrofai scandalizzato, trincerandomi dietro un broncio da fan offeso: nessuno mi dileggiava i simbolisti, foi de Camus!

Continuammo a camminare in silenzio e  stretti l’uno all’altro come l’androgino di Platone, ognuno perso nei suoi pensieri e, a giudicare dall’espressione seria di Milo, non molto ottimisti. Che forse i risultati della visita medica fossero stati negativi? Nah, impossibile: non si ottenevano così presto! O forse si era impressionato alla vista del sangue? Beh, non era nulla di cui vergognarsi! Quando mi sottoposi a mia volta ad un prelievo, mi ricordavo di aver visto un omone grande e grosso svenire dalla postazione accanto alla mia. Ciononostante, non spiegava quel viso provato, ma da che cosa?

 Frugai nei miei ricordi, cercando ogni informazione riguardante il bicho, che potesse condurmi allo scioglimento dell’enigma; tuttavia, ognuna si rivelava inutile o troppo fantasiosa, nessuna pareva soddisfarmi appieno.

Tanto ero immerso nelle mie elucubrazioni, da non accorgermi che la mano di Milo si era sciolta dalla mia e che il ragazzo era avanzato di qualche passo rispetto a me, fermandosi al ciglio del marciapiede e dandomi la schiena, ritto e immobile come un cane da caccia che aveva fiutato la preda.

Seigneur, ayez pitié de lui

Jésus-Christ, ayez pitié de lui.

Seigneur, ayez pitié de lui.

L’annullamento di quel tiepido contatto mi esortò quindi a ritornare alla realtà, risvegliando ad uno ad uno i miei sensi assopiti dalla fervente attività  cogitativa; in particolare, il mio udito catturò il suono lento e pesante delle campane, anzi no, di una campana, accompagnata da mesti rumori di passi sul sagrato della chiesa e dalla litania dei santi, i quali si facevano sempre più distinti, man mano che si avvicinavano al portone principale per terminare in un doloroso silenzio non appena la piccola folla, capitanata dal sacerdote, giunse alla lunga macchina nera ivi parcheggiata davanti.

Sainte Marie, priez pour lui.

Tous les Saints Anges et Archanges, priez pour lui.

Saint Abel, priez pour lui.

Chœur des justes, priez pour lui.

Saint Abraham, priez pour lui.

Saint Jean-Baptiste, priez pour lui.

Saint Joseph, priez pour lui.

Tous les Saints Patriarches et Prophètes, priez pour lui.

 

Un funerale.

Per rispetto, quando vidi il feretro, mi levai il berretto, portandolo all’altezza del cuore, recitando mentalmente un Requiem Aeternam per l’anima del defunto, malgrado non lo conoscessi se non di nome. Gli augurai un buon viaggio in quella landa dalla quale nessuno era mai ritornato per descriverla, sentendomi d’un tratto quasi in sintonia col dolore dei genitori, specie la madre, sorretta dal marito e attorniata dagli altri due figli rimastole.

Saint Pierre, priez pour lui.

Saint Paul, priez pour lui.

Saint André, priez pour lui.

Saint Jean, priez pour lui.

Tous les Saints Apôtres et Évangélistes, priez pour lui.

Tous les Saints Disciples du Seigneur, priez pour lui.

Tous les Saints Innocents, priez pour lui.

 

 “On y va, Milo?”, gli domandai quand’ebbi terminato la mia preghiera, prendendo il ragazzo per il polso e incamminandomi.

Ma Milo non si mosse di un sol passo, rimanendo fermo come una statua sul posto, gli occhi puntati con malsana insistenza ora sul feretro, ora sulla mater dolorosa.

Sentendo il vuoto tra le mie dita, mi voltai confuso verso di lui, impallidendo davanti all’espressione arcigna e bellicosa sulla sua pelle ormai grigiastra; le labbra violacee erano tirate in un’animalesca smorfia, mostrando i candidi denti fino alla loro radice, tramutando quel volto di solito così bello in una ferina e irriconoscibile maschera, metamorfosi accentuata dalla convulsa contrazione dei muscoli facciali e delle vene del collo, chiare testimoni della sua volontà di trattenersi dall’urlare.

 Saint Étienne, priez pour lui.

Saint Laurent, priez pour lui.

Tous les Saints Martyrs, priez pour lui.

Saint Sylvestre, priez pour lui.

Saint Grégoire, priez pour lui.

Saint Augustin, priez pour lui.

Tous les Saints Pontifes et Confesseurs, priez pour lui.

 

Tutto il corpo di Milo era un unico nervo teso allo spasimo e se non fosse stato per le narici dilatate e l’irregolare alzarsi e abbassarsi del petto, non sarei stato capace neppure di affermare se stesse respirando o meno.

Strinse convulsamente i pugni tremanti, esercitando tanta pressione sui palmi da farli sanguinare. Mi apprestai subito a sciogliere quell’immeritata tortura alla sua pelle, quando quelle mani volarono alle orecchie, artigliando nel frattempo qualche serica ciocca, tirandola con forza.

“Taisez-vous!”, gridò con una voce, che non gli riconoscevo affatto come la sua: era quella stridente e gutturale di un mostro, di un demonio; non del ragazzo, del quale mi ero, sì!, mi ero innamorato. “Taisez-vous! Tacete!”, ripeté, tappandosi febbrilmente le orecchie e tingendo di rosso l’oro dei suoi capelli.

E sempre un filo cremisi rigava il suo viso, raggiungendo le labbra cineree.

“Milo!”

Saint Benoît, priez pour lui.

Saint François, priez pour lui.

Saint Camille, priez pour lui.

Tous les Saints Moines et Ermites, priez pour lui.

Sainte Marie-Madeleine, priez pour lui.

Sainte Lucie, priez pour lui.

Toutes les Saintes Vierges et Veuves, priez pour lui.

 

“Milo!”, esclamai spaventato, cingendolo per le spalle e trascinandolo un poco lontano dal funerale; frugai in fretta nelle tasche del cappotto onde reperire un fazzoletto, apprestandomi a pulirgli il viso e a fermare il rivoletto di sangue che gli stava uscendo dal naso. “Milo, che cosa succede?”

Scuotendosi via dal mio abbraccio con un unico possente strattone, il ragazzo continuò a fissare come una belva digiuna e in gabbia il corteo funebre.

“Niente!”, digrignò i denti velenoso, sforzandosi quasi ad emettere suoni umani. “Niente! Solo quell’orribile latrare!” e fece per girare i tacchi, sennonché lo dirottai verso una più comoda e consigliabile panchina per il suo stato d’animo visibilmente scosso.

Tous les Saints et Saints de Dieu, intercédez pour lui.

Soyez-lui propice, pardonnez-lui Seigneur,

Soyez-lui propice, délivrez-le Seigneur.

De Votre colère, délivrez-le Seigneur.

Des peines de l’enfer, délivrez-le, Seigneur.

De tout mal, délivrez-le, Seigneur.

Du pouvoir du démon, délivrez-le, Seigneur.



“Mais Milo! È il funerale del figlio di M. Renard! Pierre Renard, seconda liceo (prima superiore, ndr.), bac scientifique!”, gli spiegai con calma, nettandogli via il sangue dalla parte inferiore del viso; ciononostante, il flusso pareva non volersi arrestare così facilmente.

Pierre Renard  era venuto a mancare qualche settimana fa; malgrado il nostro istituto tenesse anch’esso il lutto, la famiglia aveva chiesto comunque una cerimonia semplice per il loro figliolo, solo qualche amico intimo del defunto, nessun altro.

“Odio i funerali! LI ODIO!!!”, eruppe all’improvviso il mio fratellastro con veemenza, battendo i pugni sulle ginocchia e ancora fui costretto a staccare quegli artigli, che avevano ripreso a martoriare i poveri palmi piagati e sanguinanti.

Par Votre Croix et Votre Passion, délivrez-le, Seigneur.

Par Votre mort et Votre sépulture, délivre-le, Seigneur.

Par Votre glorieuse Résurrection, délivrez-le, Seigneur.

Par Votre admirable Ascension, délivrez-le, Seigneur.

Par la grâce du Saint-Esprit consolateur, délivrez-le, Seigneur.

 

“E’ vero, anche se non si trattano dei nostri congiunti è sempre difficile assistere ad un funerale, soprattutto se il defunto era così giovane. Ah, che dura croce per i Renard: vedere morire ad appena quindici anni il figlio di leucemia e così presso a Natale, poi!”, dissi, più a me stesso che a Milo, il quale si era trincerato in un ostinato mutismo, dopo lo sfogo iniziale. Le mie parole non erano di circostanza, venivano dal fondo del mio cuore. Vero, non potevo dichiarare di conoscere il fu Pierre Renard, però avevo avuto modo d’incrociare il suo cammino nei corridoi di scuola e in quelle rare occasioni mi si formava un nodo alla gola, pensando a quanto egoista fossi stato a volte nel considerarmi il più misero e infelice di tutti, quando poi avevo nel vero senso della parola la vita davanti  a me e non un appuntamento certo e incommutabile con la morte. Avevo i miei crucci e le mie pene, che però avrei avuto occasione di elaborare vivendo. A Pierre questa chance non fu concessa. Ah, quanto quel ragazzino mi aveva insegnato solo con pochi gesti!

Fui riportato bruscamente alla realtà da un violento strattone di Milo, il quale, avvicinando il suo viso al mio, mi soffiò con uno sguardo da indemoniato: “Tutti dobbiamo morire, Camus, tutti, nessuno escluso! E che sia a Natale o a Pentecoste o il 14 Luglio, credi che faccia differenza? A chi tocca, tocca! Quando, come e perché è irrilevante, si muore e basta! Noi non decidiamo niente!” e lasciò la presa dalla mia spalla, voltandosi nella direzione opposta, il respiro ridotto ad irregolari singulti, torturando con rinnovato vigore la nocca destra.

Au jour du jugement, pécheurs que nous sommes, nous Vous prions, écoutez-nous.

Afin que Vous lui pardonniez, nous Vous prions, écoutez-nous.

 

Osservai infelice Milo, comprendendo d’un tratto quanto insensibile fossi stato fino a qualche momento fa, parlando della morte del figlio adolescente di M. Renard, non considerando che un lutto simile, se non maggiore, aveva investito anche lui e la sua famiglia. “J’suis désolé, Milo …”, sussurrai piano, accarezzandogli dolcemente i soffici capelli biondi. Il giovane si voltò infine verso di me, trafiggendomi il cuore con quegli occhi turchesi ricolmi di dolore, velati da lacrime trattenute con sforzo sovrumano.

E fu ora il mio turno di girare altrove lo sguardo, sopraffatto da tanta pena. “Ritorniamo a scuola: oramai, la ricreazione starà finendo …”, dissi atono, mettendomi in piedi. Non riuscii ad avanzare di un passo, che Milo mi aveva afferrato per il polso, trattenendomi.

Lo fissai interrogativamente, quando si alzò a sua volta con lentezza d’automa, colmando la distanza tra noi due. E sempre tenendo i suoi occhi ben incatenati coi miei, proruppe in un’agonizzante e flebile preghiera: “Abbracciami, ti supplico Camus, abbracciami!”

E che Iddio mi avesse maledetto, se non l’avessi fatto! Stesi le braccia verso di lui, accogliendolo al mio petto, cui Milo si aggrappò con la stessa disperazione di un naufrago. Non pianse, oh no, i tremiti del suo corpo provvedevano là dove le lacrime fallivano. E con tutto il mio essere desideravo sapere la cagione del suo tormento: non poteva essere stato solo il funerale, qualcos’altro doveva averlo scosso! Cosa? Cosa?

“Abbracciami …”

Seigneur, ayez pitié de lui.

Jésus-Christ, ayez pitié de lui.

Seigneur, ayez pitié de lui.

 

Lo cullai con dolcezza, massaggiandogli il capo, le spalle, il collo, tutto per poterlo calmare, affinché si sfogasse in un ultimo dirompente pianto, alleggerendo l’afflizione dal suo cuore.

Niente.

Milo non pianse.

Si limitò solo a scrutare attento come la macchina col feretro girasse l’angolo, portando seco il mesto corteo verso il cimitero.

Amen.

 

***

 

Il tempo di ritornare a scuola e già Milo aveva riassunto la sua solita maschera di arrogante confidenza, perfino nei confronti del fratello stesso, comportandosi com’era suo uso e relegando con preoccupante fretta l’episodio del funerale nel dimenticatoio, quando a pranzo riaccennai all’argomento con discrezione. Se all’inizio ne rimasi un poco dispiaciuto e perché no, pure offeso, poi ragionando a mente fredda, realizzai che il suo era evidentemente un meccanismo di autodifesa del cervello, onde preservarlo da quel sì doloroso turbamento.

Per la pace sua non inquisii oltre, restando tuttavia sempre vigile.

Arrivò infine l’ultima ora,  tedesco, che trascorse anche fin troppo veloce. Mi vergogno un po’ a dirlo, però non passai come si suole credere l’intera ora a fissare il soffitto, pensando a Milo: siccome il giorno dopo avrei avuto la verifica, ascoltai invece attentamente il ripasso in classe, dimenticandomi di tutto e tutti. Ed ebbi come la sensazione, che nella classe di economia e società francese il detto scorpion stesse esattamente facendo la stessa cosa.

Ordunque, compiuti i nostri doveri scolastici, Milo, Aiolia ed io ci dirigemmo verso l’ospedale, scroccando un passaggio in moto da Shaka – quell’indiano non finiva mai di stupirmi -  Shura – bile effervescente, quando notai che il bicho si era seduto dietro di lui – e, sotto richiesta del suo fidanzato iberico, Junet, stesso anno di Aiolia solo corso artistique e abile quanto un maschio nella guida, altrimenti non saprei spiegare, come mai non ebbi paura neppure per non secondo durante tutto il tragitto come suo passeggero. (Ah, per la cronaca, era stato Shura a decidere chi trasportava chi. Come mai proprio io con la sua ragazza?)

“Vi veniamo a prendere per il ritorno?”, si offrì Shaka, eleggendosi a portavoce dei tre nostri moto-taxisti, una volta giunti a destinazione, ergo l’ospedale.

“Meglio, il lunedì Papa finisce sempre tardi!”, rispose Aiolia, levandosi il casco e porgendolo al guidatore, mentre si passava una mano sui capelli da lui brutalmente appiattiti, rimodellandoli.

“Cinque e mezza?”

“Ouais!”

E facendo cantare i loro motori, ripartirono, salutandoci prima con un ampio gesto del braccio.

“Ignoravo, che Shura avesse la ragazza …”, confessai ad Aiolia, intanto che salivamo le scale dell’edificio, avendo mancato di un soffio l’ultimo ascensore disponibile. Non ero pettegolo di natura, né ero in grande confidenza con l’amico di Milo; ciononostante, se c’era una grande verità che appresi a scuola, era che la vita sentimentale di ciascun studente era affare di dominio pubblico, senza il benché minimo di discrezione.

“Nemmeno io”, replicò il lionceau sorridendo. “Si sono messi assieme ieri pomeriggio!” e ridemmo alla battuta, o meglio, al tono in cui pronunciò la frase, poiché il contenuto corrispondeva effettivamente al vero.

Milo, dal canto suo, non si unì al nostro scoppio d’ilarità, preferendo rimanere silenzioso a qualche passo dietro di noi.

 

Dopo aver pressoché vagabondato per tutto l’ospedale, riuscimmo a trovare la stanza dentro la quale M. Christophe aveva relegato i figli più il genero, affinché non combinassero disastri, Kanon in primis. Infatti, con la scusa di pensare alla loro salute e di non affaticarli, il machiavellico pater familias aveva incaricato un pinguino mio simile (altresì detto suora) di trovare la stanza più atta a contenere quelle due canaglie patentate.  E la suora concluse con successo la sua ricerca, ché quando reperimmo l’esatta ubicazione di Saga, Kanon e Rhada, dovemmo trattenere una pericolosa frana di mascelle: parcheggiati in una di quelle stanze dove i pazienti soggiornavano, mentre una vecchina raccontava senza sosta le vicende della sua vita (partendo da Carlo Magno fino all’altro ieri), le tre Grazie la stavano ascoltando al limite del coma profondo. Il gemello maggiore, quello seduto più vicino all’anziana signora, aveva un’espressione così fissa e rigida, che temetti si fosse addormentato ad occhi aperti; il minore, pur di distrarsi, era impegnato a intrecciare i capelli tinti di nero del fratello in piccole codine, trecce e al nostro arrivo si stava cimentando in uno chignon. Last but not least, Rhada aveva appoggiato il mento sulla spalla di Kanon e sarebbe sembrato il più attento dei tre, se non fosse stato per una palpebra aperta e una chiusa.

Ora capivo perché le suore mi avevano sempre suscitato un’irrazionale paura: ci voleva una mente davvero subdola e perversa, per mettere K.O. i due frères terribles.

L’arrivo salvifico dell’infermeria, che invitò la paziente al dodo, parve risollevare le sorti dei tre. “Mais non, demoiselle!”, protestò la vecchietta con vivacità, mentre la giovane la portava via con la sedia a rotelle. “Devo ancora raccontar loro della comunione dei miei pronipoti! Inoltre, stavamo passando così bene il tempo assieme, vero?”

La definitiva chiusura degli occhi dell’inglese fu l’esauriente risposta.

“Sasà, se n’è andata, puoi anche uscire dall’autoipnosi!”, lo chiamò Kanon, tirandogli a mo’ di campanella una ciocca di capelli. Subito il suo doppio si ridestò, muovendo con iniziale difficoltà i muscoli facciali intorpiditi, sciogliendosi in seguito in un leonino sbadiglio a fatica celato dalla mano. “Questa Papa ce la paga!”, giurò cupo il minore, intanto che Saga si stropicciava gli occhi, inforcando gli occhiali. “Dai chouchou, sveglia anche te! Dodo si fa a casa!”, disse poi al meco, che si nascose sotto l’abbondante capigliatura del franco-greco, scambiandola per un lenzuolo sotto cui rifugiarsi da uno sgradito risveglio.

“Et bien? La tortura?”, s’informò Aiolia, ridestando completamente Saga nel saltargli addosso in grembo, favore cui il gemello replicò con un sonnacchioso Ouff! 

“Non male”, rispose invece Kanon, stiracchiandosi come un gatto. “Peccato che mancasse solo una visita dal ginecologo: allora sì, che avremmo fatto poker!”

Dalle sue parole, deducemmo che il padre li avesse sottoposti ad uno stressante carosello di esami medici. Lode poi alla pazienza di Rhada nel sostenere psicologicamente il suo riluttante fidanzato, che adorava i medici quanto i vegetariani la carne. E appunto per questo motivo, l’inglese era il più distrutto dei tre.

“E non è finita! Ne abbiamo un altro alle cinque … cos’era M. Psicologo?”

“Psichiatra, Nônon, psichiatra! La psichiatria non è la stessa cosa della psicologia!”, sibilò irato Saga, stringendo bellicoso gli occhi e colpito nel vivo, ignorando che il gemello l’aveva chiamato così di proposito.

“Giusto! Da psichiatra potrai assumere gli stessi psicofarmaci, che prescriverai. Da psicologo ne dubito …”, nicchiò sornione il minore, cambiando poi discorso repentinamente. “Sul serio, cosa abbiamo alle cinque?”

“Controllo della pressione? Bordel, non me lo ricordo più neanch’io! Quella matusa m’ha accoppato bon sang!”, grugnì Saga, passandosi una mano sulla fronte. Poi, il suo volto s’illuminò all’improvviso. “Ah, ecco! Esame cardiaco!”

“Lo fa vostro padre?”

“Non credo che l’etica professionale glielo consentirebbe …”

“Piuttosto, siete riusciti ad arrivare in orario a scuola?”, s’informò Rhada seriamente interessato. “Voi due mi sembravate quasi sul punto di buttarvi giù dalla finestra!”

Scrollando le spalle, Aiolia ci spiegò come un grande, grosso, grasso pinguino li avesse fregato l’ultimo posto disponibile nell’ascensore, costringendoli ad una folle corse verso la fermata dell’autobus, rischiando d’incespicare e stendere i passanti ogni tre secondi.

Alla faccia del jogging mattutino!

“A proposito di caduta”, mi domandò Saga, puntandomi gli occhiali contro “come mai zoppichi leggermente, Momus?” e d’immediato i miei occhi corsero sulla gamba colpevole, confermando l’osservazione dello studente di medicina. Il mio improvviso rossore non aiutò di certo a scagionarmi, tutt’altro.

Scendendo dal tavolino, Milo mi raggiunse in veloci falcate, crocifiggendomi con lo sguardo. “Questo quando?”, inquisì sottovoce con un tono, che non ammetteva risposte troppo vaghe o tentennamenti. Boccheggiai in difficoltà, fissando ansioso i presenti, le cui espressioni tradivano un’inquietante interesse  e serietà sulla questione.

“Non … non è nulla d’importante … davvero …”, balbettai, arretrando di un passo. “Se poi … se poi non te ne sei accorto neppure tu …” e quello fu un vero colpo basso per il bicho, a giudicare dallo spasimo nervoso dell’angolo della bocca. Mi morsi dispiaciuto il labbro inferiore, pentendomi subito delle mie parole.

“Menteur …”, sibilò minaccioso il ragazzo, pigliandomi per il braccio e stringendolo con forza. “Dimmi la verità …”

“Non è succes- …”

“Gli hanno fatto lo sgambetto in classe!”, parlò al posto mio Aiolia, il viso trasformato in una maschera dura. “Me lo ha detto Shaka”, aggiunse flemmatico, rispondendo alla mia tacita accusa.

“Spione!”, lo accusai indignato, non aspettandomi tale atteggiamento proprio da parte sua.

“Nascondone!”, replicò per nulla intimorito il lionceau, esibendomi una leonina linguaccia.

“La ferme!”, s’intromise Saga, ponendosi tra noi due, o meglio, spingendo Aiolia via da me con un’unica spinta. “Continua, Iou – Iou: che altro ti ha raccontato Kumar?”, lo pregò di proseguire con mio sommo disappunto, dandomi la sensazione di trovarmi quasi in un tribunale.

 “Che durante il compito l’hanno infastidito lanciandogli delle palline di carta!” e davanti a simile affermazione, Kanon commentò sarcastico, che perfino ai tempi di Vichy quel metodo era obsoleto. Inarrestabile, Aiolia continuò poi: “E  non è tutto: Milou, prova poi a vedere sotto la manica di Momus …”

Neanche il tempo di elaborare l’ultima affermazione e già Milo mi aveva denudato il braccio, rivelando agli occhi scioccati degli altri giovani il livido scuro grande come l’Atlantico. Quelli del ragazzo brillarono invece di un pericoloso cremisi, promettendo al fautore di quell’ecchimosi un brutto quarto d’ora.

“Cadendo, Momus ha sbattuto il braccio contro lo spigolo di un banco”, spiegò semplicemente il più piccolo dei Valavitis, incrociando le braccia. “E’ inutile, Momus, che mi guardi storto: poiché tu ti ostini a non dirci niente, in qualche modo dobbiamo pur reperire le informazioni, no?”

“Perché ti ostini a tenerti tutto dentro?”, mi rimproverò Milo,  rabbonendo un poco la collera iniziale, che sconsideratamente rinfocolai, ribattendo:

“Da che pulpito viene la predica! Eppoi … non è cosa che vi concerne …”

“Gueh?!? Al contrario, signorino! Ci riguarda eccome!”, saltò in aria Kanon, trattenuto all’ultimo da Rhada e Saga per ambedue le braccia, onde impedirgli di alzarsi e strangolarmi a mani nude per simile affermazione. “Bon sang, siamo i tuoi fratelli!”

“Fratellastri!”, corressi con lo stesso tono acido di un gamin capriccioso.

“Beh, sempre lo stesso tetto, pasto e gabinetto condividiamo!”, mugghiò il gemello minore, fissandomi di traverso.

“E il barattolo maxi di Nutella!”, aggiunse Aiolia con convinzione. Cosa? Si pappavano alle mie spalle la Nutella? Ecco che fine avevano fatto le mie scorte, sparite dopo lo scambio di camera con lo scorpion!

“E va bene!”, sbottai alla fine, interrompendo l’infinita sequela di cose, che i miei fratelli avevano d’un tratto incominciato ad elencare e che a loro detta spartivamo in allegria. “Lo ammetto! Mi tiranneggiano a scuola! E allora? Che volete fare? Avete forse intenzione di spaccare le gambe a mezzo istituto?”, eruppi esasperato, allargando a mo’ di crocefisso le braccia, le quali mi caddero in contemporanea, non appena udii la replica della masnada franco-greca:

“OH QUE OUI!!!”

Ansimai sconvolto, cadendo pesantemente sul lettino.

 “E perché no? Mince, un po’ d’esercizio fa sempre bene!”, esclamò gioviale Kanon, scrocchiando le nocche in anticipazione. “Quand’è stata la tua ultima rissa?”, chiese poi al gemello, stupendomi oltre ogni dire: quel santo di Saga coinvolto in risse?

“Qualche settimana fa con Hagen e Siegfried e non esattamente nello stesso ordine …”, strinse gli occhi il maggiore, battendo pensieroso l’indice sul mento.

“Je vois …”

“Mais Saga … toi aussi …”, balbettai, scioccato nell’assistere al crollo delle mie utopie, ergo che almeno il gemello maggiore fosse il più composto e serio dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.

“Tesoro, la Bibbia dice che c’è un tempo per pregare e un tempo per prendere a calci in culo a tutt’allé!”, mi sorrise Saga, accarezzandomi il capo e causandomi una terrorizzata pelle d’oca. Chissà perché, ma avevo come la sensazione che, quando al maggiore giravano i cinque minuti, egli menasse più forte di tutti i fratelli messi assieme.

“Dagli retta, è un esperto! Stai parlando col prossimo Dottore della Chiesa!”, mi sussurrò Aiolia, stringendomi per le spalle, quasi avessi fatto pace. O meglio, ciò era accaduto nella sua mente, malgrado non avessi proferito parola a riguardo. Ah, Seigneur, donne-moi la force …

“Non voglio, che nessuno picchi nessuno!”

“Giusto, Sasà, non priviamo al masochista la sua quotidiana caterva di botte!”

Gueh? Masochista? Io?

“Prima del pestaggio, però, sarebbe consono conoscere la cagione di questi atti di bullismo!”, frenò Rhada gli ardenti spiriti guasconi del meco e cognati. “Così da avere pronta una scusa!” e percepii cinque paia di occhi puntatimi contro come un plotone d’esecuzione.

“Camus?”

Inumidendomi ferocemente le labbra, sbrodolai arrossendo qualche confusa e sconnessa frase di spiegazione, ripetendola tre volte, poiché neppure l’ottimo udito della gioventù dei cinque giovani fu capace a decifrare i suoi contenuti. Infine, stufo di quel teatrino, Milo prese in mano la situazione, spiegando chiaro e tondo che il pettegolezzo del giorno consisteva in un nostro appassionato menage amoureux. E siccome nessuno con un po’ di sale in zucca aveva il coraggio di sfidare le chele vendicative dello scorpion lubrique, preferivano tormentare il più indifeso pinguino, ovvero me.

“Ed è vero? Enfin, che voi due …” e Rhada roteò l’indice in maniera allusiva, causando un rossore sulle mie guance e l’arcuarsi del sopracciglio di Milo, che rispose secco e conciso:

“Non.”

E non mi sfuggì una certa vena di delusione sui visi degli altri fratelli.

“Vi sfottono quindi per un presupposto?”

“Ouais.”

“Uhm …”, fece pensieroso Rhada, tamburellando le dita sulla spalla di Kanon, il quale l’osservava incuriosito. Sperai ardentemente, che nulla di strambo fuoriuscisse dalla mente anglosassone della Viverna.

“Ecco, l’unica soluzione possibile per risolvere la questione, senza fare ricorso alla rissa, è la seguente: Milo … Camus … mettetevi insieme!”

Appunto.

“Gueh?”, mi strozzai a momenti, essendomi andata di traverso la saliva, tanto quella proposta indecente mi era giunta inaspettata.

“Mais oui! Tutti ti sfottono per la sola supposizione, che tu stia con Milo, no? E  questo ti tocca, perché sai non essere vero, ti fa soffrire, attizzando il sadismo di quegli idioti!  Fin qui ci siamo? Invece sfottere qualcosa di veritiero, non ha lo stesso effetto di qualcosa di falso: dà meno fastidio! Una volta mecs, anche se ti diranno che sei la gonzesse di Milo, et bien, è vero, che seccatura ti dovrebbe dare?”

“Senza contare il fatto, che in quanto tuo mec, Milou è costretto a pestare tutti coloro che ti danno noia!”, aggiunse Kanon pragmatico. “Più altri obblighi coniugali, che scoprirete man mano …”

In quel momento, per quanto il bicho mi piacesse, non mi sentivo esattamente atto a scoprire a quali il gemello minore si riferisse.

“Eppoi”, continuò Aiolia euforico, “una volta morosi, ti sposterai definitivamente nella camera di Milou … cedendomi la tua …” e i suoi occhi verde acqua luccicarono maliziosi. Non era perché dalla mia camera poteva guardare meglio la casa di Marin, vero?

“Dai, Momus, lo sappiamo che sei un represso: ti offriamo in sposo nostro fratello, così da poter vivere serenamente le tue pulsioni sessuali, senza ricorrere a metodi al limite della decenza pur di poter palpare un po’ il bicho!”, infierì Saga, avanzando verso di me, finché il sottoscritto, a furia d’indietreggiare, non si trovò con le spalle al muro e assediato dai quattro terribili masnadieri.

“Come? Come?”, inquisì scettico lo sposo in questione da dietro le loro spalle. “Offrirmi? Ma state parlando di me o di una vacca da scambiare al mercato?” e non potei essere più d’accordo con lui!

“Silence! Tu sei sotto la mia potestà! In quanto fratello maggiore ti do e ti levo a chi, quando e come mi aggrada!”, gli berciò dietro Saga, commento accompagnato dai cenni di assenso degli altri presenti.

“Oh questa è bella!”, sbuffò Milo, seppur gli angoli della bocca fossero piegati in un divertito sorriso. “Eppoi, metterci insieme così due piedi … ha un che di falso, di artificiale!” e annuii veementemente con lui.

“E che? Vuoi forse un matrimonio? Con pure la benedizione del Papa?”, sfotté Aiolia, il quale però s’interruppe bruscamente, lanciando ai fratelli un’occhiata assai inquietante. Le iridi di Kanon si dilatarano di intima delizia, mordendosi le labbra eccitato, girandosi verso un più scettico Saga, il quale roteò gli occhi, arricciando pensieroso la bocca, voltandosi a suo turno in direzione di Rhada, che alzò le spalle rassegnato. Infine i quattro si rivolsero verso Milo, che impallidì, puntando loro minaccioso l’indice a mo’ di avvertimento, come se intimasse loro di non compiere gesti azzardati.

“Ma sì! Non parliamone più! Non insistiamo! Non vogliono, vabbè, finiranno come Romeo e Giulietta …”, allargò conciliante le braccia Kanon, quando in realtà il ghigno birbante non aveva smesso di sussistere sul suo viso.

Come in quello dei fratelli e fidanzato.

“Piuttosto, sono quasi le tre e ho un certo languorino. Che ne dite di andare al bar al piano terra e testare com’è la cioccolata calda degli ospedali?”, propose Saga all’improvviso, suggerimento che venne accolto con unanime entusiasmo, tranne per Milo e me: infatti, notando il modo diffidente e attento in cui il ragazzo fissava i fratelli, quasi temesse da loro un tiro mancino da un momento all’altro, mi pose una certa ansia sulle prossime mosse di quella banda di masnadieri.

“Mouais! Che dici Sasà? Ne avranno una al gusto psicofarmaci?”, scherzò Kanon, guadagnandosi una bella linguaccia da parte del suo doppio.

“Weee! La cioccolata!!!”, giubilò entusiasta Aiolia, il cui sorriso si afflosciò quando Saga gli comunicò perentorio:

“No, a te niente cioccolata calda!”

“Perché?”, pigolò triste il lionceau, sfoderando i suoi occhioni da gattino bagnato.

“Perché sei ancora piccolo e ti vengono i brufoli!”, replicò semiserio il giovane, passandogli un braccio attorno alla vita e sussurrandogli qualcosina all’orecchio. Messaggio, cui Simba rispose con un monello cenno di capo, prima di afferrarmi il polso e trascinarmi verso l’ascensore assieme agli altri.

“Pensi davvero, che funzionerà?”, chiedeva nel frattempo Kanon sottovoce al meco, che replicò flemmatico:

“Nel nostro caso sì …”

“Moui, ma Aiacos e Minos, sai come sono … particolari …”

“My dear little Nonny, ci sono sempre dei deficienti a questo mondo!”, commentò Rhada, cui Kanon si unì con un compiaciuto sogghigno.

Gay o etero, era proprio vero, che Dio li faceva e poi li accoppiava, sì sì!

 

***

 

“Scopa!”

Guardammo a bocca aperta, come Kanon ci rubava dal tavolo tutte le carte per l’ennesima volta, mentre Madame Dolène – ritornata alla carica dopo il suo dodo – ci riempiva la testa di aneddoti vari della sua vita, distraendoci di quel poco dal gioco. Poverina! Ma i suoi parenti venivano mai a visitarla? O l’evitavano appunto per il suo essere irrefrenabilmente ciarliera?

“E così, nel 1964 accadde che …”

“Tricheur! Baro! Mostra le carte!”, eruppe Milo, favore cui il gemello minore rispose stringendo al petto le carte incriminate, sfoderando un’espressione di indignato stupore.

“Una serata davvero deliziosa … infatti …”

“Non sto barando, sei tu l’impedito a carte, ammettilo!”, protestò Kanon la sua innocenza, battendo offeso il pugno sul tavolo.

“ … come antipasto c’era … e poi, se non mi ricordo male …”

“Beh, se non hai nulla da nascondere, non dovrebbe essere per te un problema …”, insinuò lo scorpion perfido, causando un pericoloso arricciamento di cappelli nel fratello, che senza preavviso si rivolse all’anziana Madame, interrompendo bruscamente il suo tedioso e infinito monologo.

“Vero che non ho imbrogliato, Madame?”, piagnucolosa domanda, cui la donna rispose ingenuamente di sì, accarezzando perfino la zazzera bionda del giovane, dandogli del garçon sage (bravo ragazzo, ndr.) sotto i nostri sguardi molto scettici a riguardo.

Poi, ricominciò la solfa. “Perché dovete sapere, che allora la faccenda era …”

Tamburellando le dita annoiato – giocare a carte non mi aveva mai più di tanto entusiasmato – mi sedetti accanto a Saga, il quale, al contrario pareva piuttosto preso dalla partita. Evidentemente, essendo la famiglia numerosa, i giochi da tavolo erano l’unico modo per passare i momenti noiosi, senza per forza ricorrere alla televisione o alla playstation. “Sai dov’è finito Aiolia, per caso?”, gli chiesi, osservando preoccupato la sesta sedia vuota.

Infatti, da quasi trequarti d’ora, ovvero da quando eravamo ritornati dal bar, il lionceau era letteralmente svanito e il bello era che nessuno dei suoi fratelli, tranne forse all’inizio Milo, pareva darsene pena. A nulla erano valsi i miei tentativi d’informarmi sulla sua sorte, le uniche risposte che ricevevo erano di una vaghezza esasperate, tra cui il solito refrain: “Sarà al bagno.”

E di fatti …

“Boh, sarà andato al bagno!”, fece spallucce Saga, perdendo per una carta l’occasione di fare scopa.  Sbuffando, cambiai posto, ponendo la stessa questione a Kanon, che mi rifilò un “Dal giornalaio e dove sennò?”; optai quindi per Rhada, “Refettorio” ed infine ritornai da Milo, che affermò distrattamente: “Da qualche parte …”

“ … e così la cena si concluse con della macedonia fresca …”

Roteai gli occhi al limite del tedio, appoggiando la guancia sul palmo della mano.

“A proposito di strane sparizioni, Nônon, c’è una cosa che volevo da tempo chiederti, ma che col passare degli anni mi è poi  sfuggita di mente”, gli annunciò Saga, prendendo le carte distribuite da Rhada. All’udire ciò, gli angoli della bocca del minore ebbero un lieve fremito, mantenendo tuttavia un’espressione neutra. “Sai, sono quasi tre anni, che mi sto domandando dove tu e Milo siate finiti quella notte di Ferragosto durante la cena a l’Hotel du Palais a Biarritz.”

Un malsano silenzio calò tra i vari giocatori, zittendo addirittura la chiacchierona Madame Dolène, che osservò tra lo sconcertato e il curioso i due colpevoli menzionati dal gemello maggiore.

“H-Hotel du Palais?”, balbettai a momenti incredulo. “Quello sull’Avenue de l’Impératrice?”  e dinanzi al timido cenno d’assenso da parte di Milo, esclamai sinceramente impressionato : “Mais quelle chance, vous avez eu! Che fortuna! Accidenti, cenare a Ferragosto nell’hotel più lussuoso di Biarritz dove essere stata un’esperienza davvero indimenticabile per tutti voi!”, peccato che invece di esserne compiaciuti, Kanon e Milo nascosero ulteriormente il viso dietro le carte.

“Già, peccato che vi siano ancora dei punti relativamente oscuri nella faccenda …”

“Tipo?”

“Tipo che i miei due fratellini sparirono all’incirca verso le 11.35 pm, per poi ripresentarsi a casa della Veuve Blondel - la quale ci ospitava - alle 3.06 am, Milou bagnato fradicio, avvolto in un lenzuolo e con solo le mutante addosso sotto una vestaglia di seta da donna, mentre Kanon con un occhio pesto, senza giacca e cravatta e con gli abiti in generale scomposti, per non menzionare un sospetto parrucchino biondo platino in mano e segni di rossetto ovunque!”

Le parole erano troppo banali per descrivere lo sguardo di puro odio, che Kanon e Milo rifilarono ad un compiaciuto Saga, mentre gli occhi dorati della Viverna rifulgevano della più cupa gelosia.

“E Christophe non ha detto niente?”, inquisii sconcertato: insomma, ritrovarsi alla porta di casa i figli in quelle condizioni, credo che avrebbe mandato fuori di banana qualsiasi genitore degno di quella carica.

“Papa era a casa con Iou – Iou …”, replicò Milo in un sussurro, il colore svanito dalle sue guance.

Implacabile, il gemello maggiore sorrise mieloso, sebbene la sua voce traboccasse del veleno di una velata minaccia. “Avanti tesorini, perché non raccontate al vostro gattone cos’è successo?”, domandò, allargando il sinistro ghigno.

“E’ una storia un po’ complicata, enfin, non adatta poi ad ogni genere di pubblico”, nicchiarono i due sanculotti, lanciando una rapida occhiata prima a Madame Dolène, poi a me.

“Tu pensa alla parafrasi, del commento me ne occupo io!”, ribatté secco Saga, incrociando le braccia al petto.

Sospirando a lungo, fu Kanon quello ad eleggersi portavoce del misterioso dramma, nel frattempo che noi ascoltatori ci sistemavamo meglio sulla sedia, le orecchie bene aperte e chiudendoci in un silenzio cistercense.

“Allora, una piccola premessa: devi sapere, Momus, che siccome Papa aveva e tuttora ha le ferie estive per un mese ad agosto, di solito noi a giugno e a luglio andavamo nel frattempo in vacanza o con amici o con la parrocchia. Sennonché, tre anni fa, a due  giorni dalla partenza per la Bretagna, a mezzanotte Iou – Iou ci deliziò con un agghiacciante ululato, svegliandoci di soprassalto e testando la saldezza delle nostre coronarie. Ebbene sì: appendice infiammata! Operato così d’emergenza, il nostro gattaccio rimase in ospedale quattro giorni finché non gli levarono i punti, trascorrendo poi a casa una convalescenza di circa due settimane. In poche parole, la vacanza era andata a farsi friggere, ché Papa non se la sentiva né di  arrischiarsi a portare Iou – Iou in Bretagna, né del resto di lasciarlo solo à la maison.

Fortuna volle, che la nostra vicina di casa – la Veuve (vedova, ndr.) Blondel -  partisse esattamente in quel periodo per Biarritz, dove possedeva una casa per le vacanze estive. Sai, non avendo avuto i Blondel alcun figlio e guadagnando poi il fu M. Blondel un bel salario, hé, i soldi li avevano investiti altrove. In ogni modo, benché in certe occasioni l’avessimo fatta dannare – come romperle UNA rosa di porcellana di Capodimonte -  la donna si offrì gentilmente ad ospitare Sasà, Milou e me nella sua casa al mare. Papa a dire il vero era terrorizzato all’idea, non per paura che ci succedesse qualcosa, bensì per timore che noi combinassimo qualcosa …”

“Profeta!”, commentò sarcastico Saga, ricevendo un’offesa linguaccia da parte del suo doppio.

“Ma alla fine, la Veuve Blondel riuscì a persuadere Papa, il quale prima di partire ci gonfiò il capo con una ramanzina degna dei Mulini del Po in quanto a lunghezza. Hé, eravamo allora più esuberanti di adesso e anche più giovani, enfin, Sasà ed io avevamo compiuto a fine maggio diciassette anni e Milou veleggiava verso i quattordici …” e chissà perché, ebbi come l’impressione di essere stato graziato nell’averli annessi alla mia famiglia verso la fine dell’adolescenza piuttosto che nel bel mezzo.

“Arrivati pieni di sogni e speranze a Biarritz, lo scenario che ci si presentò davanti fu alquanto apocalittico per dei giovincelli allo zenit delle scariche ormonali. Infatti, invece di trascorrere giornate e notti brave, il programma offertoci era pressoché monacale: sveglia alle otto; colazione alle otto e mezza; promenade in riva al mare dalle nove fino alle dieci e un quarto, dieci e mezza; alle undici ci si recava in spiaggia, dove finalmente potevamo scatenarci in attesa della pausa pranzo all’una; dopodiché siesta fino alle tre, tre e mezza del pomeriggio; di nuovo in spiaggia fino alle sette; a casa; doccia; cena e passeggiata in centro città oppure al cinema e questo per dieci fottutissimi giorni! E dovevamo stare lì un mese!”

“Da come me la racconti, le mie a Brighton sono state allora una gita a Las Vegas!”, commentò stupefatto Rhada, specie nell’immaginarsi un Kanon alle prese con ferie così sonnolente. “Del resto, sono le controindicazioni nel passare le vacanze con delle persone anziane!”, aggiunse poi e i presenti annuirono.

“Eppoi, dovevi considerare che eravamo ospiti, Nônon, mica potevamo fare  tutto quel che volevamo! La Veuve Blondel si era presa una grossa responsabilità nel prenderci in casa come ospiti, lo sentivi poi Papa se ci capitava qualcosa di brutto? Inoltre, quando eravamo in spiaggia, lei ci lasciava gironzolare tranquillamente coi nostri coetanei e anche alla sera, purché tornassimo a casa alle dieci e mezza!”, replicò saggiamente Saga, discorso che sospettai l’avesse ripetuto quasi ogni giorno all’irrequieto fratello, durante tutta la loro permanenza a Biarritz.

“Lo so, lo so”, concesse annoiato Kanon, roteando gli occhi, “però la delusione di soggiornare nella chic Biarritz e vivere invece come in convento, insomma, uno un po’ male ci resta!”

“E cosa volevi fare, che eri minorenne? Ma continua, per favore!”

Guardando di traverso il gemello, Kanon proseguì il suo racconto: “Trascorremmo così le nostre giornate nell’ozio più completo - come nel tedio del resto - finendo nel giro di poco tempo tutti i libri che ci eravamo portati seco. Finché a qualche giorno da Ferragosto, ritornando all’ombrellone dopo essere usciti dall’acqua, notammo la Veuve Blondel chiacchierare con una sua amica – così ci sembrò dal loro tono confidenziale – e quattro giovani, tre maschi e una femmina, che ci vennero presentati come i nipoti di Madame Solo” e dai ghigni maliziosi spuntati sul viso dei tre  giovani capii a quale personaggio cinematografico lo avessero immediatamente associato, quando udirono per la prima volta il cognome dell’amica della vedova. “Nipoti, appena giunti da Saint Tropez a Biarritz giusto per trascorrere con la nonna Ferragosto, la quale anch’ella era arrivata qualche giorno fa. I loro nomi erano, in ordine di età: i due gemello eterozigoti Abel e Artemisia, Julien e …”, grosso sospiro sconsolato “… Aphrodite …”

Silenzio perplesso.

“Un momento: non erano tre maschi e una femmina?”, fece confuso Rhada, aggrottando la fronte. Poi, sbottò all’improvviso: “E’ uno scherzo, vero Kanon? Insomma, non vorrai mica dirci che sul serio avete incontrato un ragazzo - e sottolineo maschio – che si chiamava A-phro-di-te?” e tutte le sue speranze crollarono in un nanosecondo dinanzi all’espressione terribilmente e dolorosamente seria del gemello minore.

Seigneur, ma che razza di padre snaturato aveva chiamato “Aphordite” il suo figliolo? Era da dargli l’ergastolo solo per quello! Ed io che mi lamentavo di Camus! No, no, era proprio vero che il peggio non era mai morto!

“Più che altro”, specificò Milo, parlando per la prima volta dall’inizio del racconto, “quello non era il suo reale nome di battesimo, bensì un nickname!” e sospirammo di sollievo, sentimento subito rimpiazzato dalla curiosità d’apprendere allora il veritiero appellativo del giovane; al contrario, Kanon ci intimò di portare pazienza e di ascoltare con calma il resto della storia.

“Cicalammo del più e del meno per il resto del pomeriggio, quand’ecco che Madame Solo uscì con una proposta interessante: siccome era tanto che lei e l’amica non si vedevano, le avrebbe fatto piacere poter festeggiare assieme Ferragosto, cenando nell’hotel nel quale lei alloggiava, l’Hotel du Palais. La nostra prima reazione fu di domandarci, se si trattasse o meno di uno scherzo … eddai, una cena all’Hotel du Palais, il più sciccoso albergo di Biarritz, dove un assiette costava solo 90 euro, figurarsi il resto? Ed era una cena formale, poi! E invece, Madame Solo confermò la sua intenzione di averci tutti e quattro come suoi ospiti! E così …”

Puntuali come il Big Ben, la Veuve Blondel e i tre fratelli Valavitis si presentarono alla Hall Principal dell’Hotel du Palais vestiti di tutto punto e lode alla celere bravura della vedova nell’essere riuscita ad arrangiare i tuxedo del suo defunto marito alla taglia dei tre ragazzi. Infatti, per quanto M. Christophe li avesse spediti a Biarritz con il loro miglior guardaroba (“Che io sia dannato, se si dicesse in giro che i Valavitis sono degli straccioni!”), comunque esso sfigurava in un misero vestiario da déjeuner in riva al mare. Le cene formali erano un altro mondo: il frac certo era considerato un poco eccessivo, ma il tuxedo era d’obbligo! Quale gentiluomo avrebbe mai avuto il coraggio di presentarsi senza?

Le dame, invece, erano graziate da una più vasta scelta di abiti, rigorosamente lunghi però e se possedevano qualche centimetro di strascico, allora potevano affermarsi eleganti e di aver reso gli addetti alle pulizie contenti. In quelle occasioni, poi, sfoderavano orgogliose i vari collier, pendenti, orecchini, bracciali e anelli per la gioia dei loro mariti, fidanzanti e amanti, i quali giusto quel pomeriggio ne avevano ammirato pure l’incantevole prezzo. Onde scacciare il molesto caldo estivo, esse sventolavano languide come le odalische di un serraglio vezzosi ventagli sul cui pavese di merletto – di Burano, altrimenti si scivolava nell’anonimo stile bourgeois – erano ricamate deliziose perline, risaltandone l’elaborato disegno, senza dimenticare la brillante madreperla intarsiata – o per i più eccentrici dell’avorio – come materiale per la parte rigida.

In questo raffinato pollaio di corvi e pavoni, giunsero dunque i fratelli con la loro vicina di casa, avanzando tutti e tre in un unico compatto gruppo, intimiditi come tutti gli esponenti della classe media – a detta di quelle più alte – dovrebbero giustamente essere. Tuttavia, perfino in quel frangente i maschi del casato diedero prova della loro unicità: il vero motivo di quel sorreggersi a vicenda risiedeva nel fatto che la vedova Blondel aveva forse stretto un po’ troppo il tuxedo di Milo, il quale, se non fossero state per le forti braccia gemellari, non sarebbe stato neanche capace di camminare, se non proprio da modello nelle catwalks di Parigi – nella vita non si poteva pretendere tutto –almeno da persona civile, ergo da trapezista sul filo.

Madame Solo venne loro incontro a braccia aperte, acciocché i suoi ospiti potessero meglio ammirare i suoi braccialetti di diamanti e il collier di smeraldi circondati anch’essi da piccoli diamantini. Volendo essere venali, aggiungeremo che un paio di orecchini in pendant con la collana le adornava le orecchie, sposandosi a meraviglia con quel lungo collo d’oca (abbiamo detto venali, non bugiardi, e scrivere da cigno rientrerebbe nella categoria delle panzane.)

Raccogliendo il guanto della sfida, la Veuve Blondel spalancò le sue, esibendo un giro di perle, che avrebbe fatto degna concorrenza ad una maharani (moglie ufficiale del maharaja, ndr. ) dei racconti di Emilio Salgari. I tre fratelli Valavitis, non portando nient’altro che Milo e ovviamente i vestiti, si limitarono ad una cortese stretta di mano, accompagnata da un lieve cenno del capo, gesti che avevano provato e riprovato per tutto il pomeriggio tra di loro.

Liquidati quindi i convenevoli, la Madame fece loro strada, accompagnandoli verso il Bar Impérial e alla cui porta zelanti camerieri e cameriere in divisa attendevano i convitati con in mano un vassoio d’argento, contenente ciascuno cinque fluttini di cristallo. E Saga ebbe il suo bel daffare a trattenere Kanon dal piangere, quando quest’ultimo, servendosi di un calice, appurò si trattasse di eccellente Muscadet. 

Facendosi coraggio, i rappresentanti del casato Valavitis entrarono in un’ampia sala in stile Secondo Impero affacciata sul mare, girovagando curiosi e col naso all’aria, ammirati e stupiti dell’eleganza che li circondava, senza tuttavia dimenticarsi di riempire il loro fluttino di Muscadet, sgranocchiando dal lungo tavolo del buffet della frutta fresca. Milo, dal canto suo, si era ritirato nell’ampia terrazza, accomodandosi su di una raffinata sedia, che non avrebbe di certo sfigurato nel boudoir personale dell’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, cui Biarritz doveva la sua fama di attrazione turistica balneare. (E non a caso, lo stesso hotel un tempo era stata la residenza estiva degli ultimi sovrani francesi.) Aggrappandosi convulsivamente alla graziosa ed elaborata balaustra, il ragazzino fu avvicinato da un’anziana signora, la quale con garbo gli domandò le sue impressioni di inizio serata. Pallido in volto, lo scorpion rispose a fatica: “Sono senza fiato, Madame …”, guardando nel frattempo avido il ventaglio ricamato, che la donna gli stava sadicamente sventolando sotto il naso. Soddisfatta da sì schietto commento, la Madame se ne svantagliò via placida.

All’improvviso, il cortese e discreto mormorio di conversazioni su tutto e su niente venne interrotto dal maître d’hotel, il quale, impettito nella sua giaccia d’un bianco abbagliante, annunciò con voce chiara, sicura e altamente formale: “Mesdames et Messieurs, le dîner est servi!”, comunicato che gli ospiti accolsero con un amabile applauso, seguendo poi l’uomo e continuando serenamente il loro chiacchierio. I due gemelli furono gli ultimi ad unirsi al corteo, poiché obbligati a raccattare il fratello, intimandogli avec politesse di seguirli.

La Villa Eugènie -  o come direbbero i comuni mortali, sala da pranzo – era un vero spettacolo agli occhi: le pareti di stucco bianche e rosse, alternate da ampi specchi e finestre dalle quali pendevano tende color oro e su cui era ricamato più volte il simbolo della casata Bonaparte – l’ape -  creavano un piacevole contrasto col blu del pavimento, anch’esso caratterizzato dal leitmotiv delle api e della N coronata. Inoltre, uno spazioso caminetto di marmo faceva la sua baldanzosa figura nella sala, lo stesso che ci si aspetterebbe in una rappresentazione teatrale della pièce “Huis Clos” di Jean-Paul Sartre. [4]

Entrati infine, i tre ragazzi faticarono un poco a trovare il loro tavolo, avendo infatti perso grazie a quello sfiatato di Milo la loro accompagnatrice, che individuarono dopo aver allungato irrimediabilmente il collo di qualche centimetro e scusandosi con graziosa cortesia per il loro abominevole ritardo (un minuto e mezzo), impedendo ai loro compagni di tavola di potersi sedere sulle comode poltrone rosa scuro, rigorosamente in stile Secondo Impero. (E quale, sennò?) Scuse accettate e i messieurs aiutarono le mesdames ad accomodarsi, tirando indietro cavallerescamente la sedia. Julien lo fece con sua nonna; Abel con sua sorella Artemisia; tale M. Chantal con la sua signora; Saga con la vedova e Kanon, non volendo essere da meno, compì lo stesso con Milo. Peccato che quest’ultimo non si aspettasse tale cortesia, planando per terra in un sordo tonfo, quando si piegò per sedersi.

“Ma allora è un vizio il tuo!”, accusò un incredulo Rhada il gemello minore, provocando un medesimo sentimento nel maggiore, che esclamò:

“Cosa? Significa che anche a te …?”

 E l’espressione sconsolata dell’inglese equivalse ad una risposta affermativa molto esauriente.

“Volevo essere solo gentile con te, chouchou!”, si difese pigolando Kanon, afferando con fervore entrambe le mani della sua Vouivre, che lo invitò piuttosto a seguitare nel suo racconto:

“Dai, procedi …”

Rimettendo in piedi in fretta e furia il bicho caduto e parcheggiandolo con la stessa rattezza, i due gemelli riuscirono per un soffio ad evitare una pubblica lapidazione di occhiate di biasimo, ché una più privata, da parte dei loro compagni di tavolo, l’avevano già ricevuta. Ancora una volta, il maître d’hotel adempì ai suoi doveri d’anfitrione ed ad un suo deciso cenno, i vari camerieri appostati alle pareti si animarono all’improvviso, inaugurando a tutti gli effetti la cena.

E mentre i fratelli contemplavano ipnotizzati il servizio impeccabile della tavola, un cameriere sbucò alle loro spalle riempiendo il bicchiere più panciuto – ché cinque ciascun commensale ne possedeva – d’acqua, subito affiancato da un suo collega, il quale stappò una bottiglia di champagne, versandolo nel fluttino pulito. E a chiudere la fila dei re magi, comparve una cameriera con in mano un’elaborata cesta di pane, invitando gli ospiti a scegliere la varietà più gradita e i ragazzi, quando ebbero modo di curiosare al suo interno, giudicarono la scelta ardua sul serio: pane di farina di grano, alla zucca, integrale, alla segale, al mais, alle olive, allo zafferano, alla cipolla, alla patata e un pane bizzarro di colore scuro che Kanon, azzardandosi ad assaggiarlo, scoprì essere al nero di seppia.  Il tutto, nel frattempo che un convitato passava al suo vicino un piattino di porcellana sul quale troneggiavamo delle rosette di burro salato di Normandia, che per spezzare la fame tra una portata e l’altra sarebbe stato spalmato sul pane, posto al sicuro su di un altro piattino accanto ad ogni commensale (che non sia mai, che il pane toccasse la candida tovaglia!)

Si propose un brindisi, approfittandone per le presentazioni e avviare la conversazione. Il tempo di posare il bicchiere vuoto, che già il cameriere aveva provveduto a riempirlo di nuovo.

“Perdonate, Madame, avreste l’amabilità di cedermi per cortesia il menù?”, articolò Kanon, rispolverando le sue letture dei romanzi di Flaubert e Maupassant: ah, finalmente ritornavano utili! Infatti, la sua mente aveva giudicato scortese allungare il braccio  fino al centro del tavolo, onde servirsi da solo. E se avesse inavvertitamente posato il gomito sul piatto di qualcuno o avesse rovesciato i bicchieri del suo vicino? Quelle déshonneur sarebbe stato!

L’interpellata, Madame Chantal, sorrise a fior di labbra, esaudendo celere la richiesta del gemello minore i cui occhi, assieme a quelli dei due fratelli, si spalancarono traumatizzati a vita e senza speranza di un’utopica guarigione futura, quando lessero la semplice e frugale cena, che li attendeva:

Aperitivo :

 Muscadet

Antipasti :

Insalata fresca di stagione

6 ostriche in ghiaccio n° 1

Caviale Beluga

Vino di accompagnamento: Champagne secco

Bouillabaisse alla marsigliese di pesce

Vino di accompagnamento: Sauvignon

Fois gras di Strasburgo su baguette

Prosciutto di Bayonne

Vino di accompagnamento: Bordeaux

Portate principali:

 Granchio intero bollito

 Rombo al forno servito con patatine novelle e choux di Bruxelles alla crema.

Aragosta in bella vista alla maionese

Vino di accompagnamento: Bordeaux bianco

Petto d’anatra in salsa di ribes

Quaglie in sarcofago ( o in crosta di pane)

Tournedos alla Rossini (filetto di manzo, fois gras, grattata di tartufo bianco di Acqualagna)

Vino di accompagnamento: Château Margot 1988

Assiette de fromages :

Camembert Pont l’Évêque

 Roquefort

 Livarot

Dolci:

Crème brulé

Mont-blanc

Crème caramel

Mousse di cioccolato di Bayonne

Macedonia  Grand Marnier

Vini di accompagnamento: Madera e Porto

Caffè servito con Macarons assortiti e Canelés

Liquori: Armagnac e Calvados

 

E qui il nostro racconto s’interruppe per cinque minuti buoni, poiché Kanon non resistette più e scoppiò disperato in lacrime alla rimembranza di quella favolosa carta, il sogno proibito di ogni gourmet. “Era il menu della mia vita!”, ripeteva tra un singhiozzo e l’altro, cercando  conforto tra le braccia di Rhada. E strano ma vero, anche Saga chiuse gli occhi in un’espressione di doloroso rimpianto per quella cena unica nel suo genere; il solo forse più composto era Milo, il quale però notai con che preoccupante fissità osservasse il re di denari sul tavolino.

Il loro sconforto era infondo comprensibile: dopo aver assaggiato il cibo degli déi, era doppiamente difficile ritornare a mangiare il pane dei mortali. Inoltre, il fatto che dovessero quella loro fortuna ad Aiolia li metteva a disagio, unito poi al senso di colpa primo, che lui non ne avesse potuto usufruire come loro; secondo, che il lionceau non possedesse una seconda appendice da infiammarsi.

Soffiandosi il naso, il gemello minore riprese, seppur con voce tremante.

Fino al granchio, non si poté certo affermare che i fratelli Valavitis avessero brillato nella conversazione; da una parte, poiché le loro conoscenze del mondo perbene  – dovute maggiormente al livello del loro reddito pro capite – erano quasi pari a nil; dall’altra, giacché troppo impegnati a spiare i gesti dei loro vicini e imitarli con volenterosa perizia. Solo quando si passò ad un argomento più venale e inutile come la letteratura – e chissà perché, russa – allora la situazione si animò per qualche istante. Si era giunti a discutere come durante il periodo seguente alla Rivoluzione d’Ottobre, l’ex Impero di tutte le Russie fosse stato privato di grandi scrittori. Timidamente, Saga contestò che, al contrario, ve n’erano stati come Bulgakov – Il Maestro e Margherita -  e Solženicyn – Arcipelago Gulag. Si ribatté, che tuttavia essi furono censurati dal regime; venendo in aiuto del fratello, Milo argomentò che la censura non era cagione sufficiente per dichiarare inesistente un autore, anzi quando un’opera era sua vittima, il suo successo si poteva dire garantito grazie alla naturale tendenza dell’uomo a disobbedire ad ogni forma d’autorità, Adamo ed Eva docent.

Fu grazie a questo sentito intervento – pronunciato tuttavia con voce flebilissima – che i fratelli vennero annessi alla conversazione e in particolar modo Aphrodite parve d’un colpo interessato a Milo, quasi vedesse il bicho per la prima volta, malgrado lo avesse avuto alla sua sinistra per tutta la cena.

“Ti piace la pittura, Milo?”, gli chiese di punto in bianco, dopo aver cicalato de la pluie e du beau temps per quasi tutto il carosello delle portate principali.

Da dietro il bicchiere ricolmo di Château Margot 1988 – approfittando che Saga stava guardando altrove – il ragazzino annuì vivacemente, rispondendo alla domanda di Aphrodite su chi fosse il suo pittore preferito con uno strascicato: “Gior … Giorgione”, appoggiando poi con un po’ troppa energia il calice sul tavolo. Gli occhietti piccoli e brillanti e le gote rosse sia per il calore, che per l’apnea nella quale era costretto per colpa del tuxedo rivelavano lo stato brillo del ragazzino, il quale era ancora miracolosamente in piedi solo grazie ad un’abbondante cena nello stomaco a fungergli da tappo contro l’azione etilica delle bevande, ciucciate di nascosto dal fratello.

“E come mai Giorgione?”, inquisì mieloso Aphrodite, avvicinandosi di più allo scorpion – all’epoca non ancora lubrique – il quale replicò con un mezzo sorrisetto:

“Adoro i rebus che sceglie come soggetti dei suoi dipinti: la Tempesta, le Tre età dell’Uomo …” e ciondolando lievemente, gli elencò tutte le opere, commentandole pure con voce sempre più impastata.

“Je vois … senti Milo, ho giusto un catalogo di Giorgione in camera mia. Più tardi, ti andrebbe di venire nella mia suite a vederlo?”

Sbattendo intontito le palpebre, l’adolescente si limitò ad un ulteriore sorriso di scomposto assenso, la lingua ormai completamente legata dall’alcol.

“Dopo il dolce?”

E ancora una volta, Milo annuì.

 

 

 

To be continued …

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Heilà! Il prossimo capitolo arriverà  a Dio piacendo presto, ormai siamo lì lì per finirlo. Come al solito, abbiamo superato il limite massimo delle pagine e come il troppo stroppia, godetevi nel frattempo questo chappy!^^

Al prossimo!

 

Un po’ di noticine:

[1] Caterina De’ Medici (1519-1589), regina di Francia, moglie del re Enrico II di Francia e madre degli ultimi Valois, Francesco II, Carlo IX, Enrico III, Elisabetta regina di Spagna e Margherita, sposa del futuro capostipite della dinastia dei Borbone, Enrico IV, che soppianterà appunto i Valois alla morte di Enrico III. Donna forte, colta e abile nella vita politica, Caterina De’ Medici dovette subire una pesante damnatio memoriae, presentata ai posteri come una tiranna sanguinaria, che con la scusa del matrimonio della cattolica figlia Margherita o “Margot” con l’ugonotto re di Navarra Enrico (poi convertitosi per divenire re di Francia) diede ordine alla strage dei protestanti francesi la notte del 24 agosto 1572, passata alla storia come “La notte di San Bartolomeo”,  diceria che lo scrittore Alexandre Dumas padre utilizzerà per il suo romanzo, La Regina Margot (1845).

[2] Caterina o Kate e Petruccio sono i protagonisti dell’opera shakespeariana La bisbetica domata o The Taming of the Shrew. Kate, viziata e dalla lingua tagliente, è l’incubo peggiore del padre, ché non riesce a trovarle un consorte, giacché tutti i gentiluomini di Padova sono spaventati dal carattere irascibile e scontroso della ragazza. Ci penserà il giovane Petruccio a soggiogare tale “bisbetica” con metodi davvero particolari!

[3] Il subcomandante Marcos è un rivoluzionario messicano, portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. La sua identità è un mistero, poiché nessuno è mai riuscito a vedere il suo volto, costantemente celato dietro un passamontagna nero. Altri suoi segni di riconoscimento sono la pipa e il fazzoletto rosso legato al collo

[4] Huis clos o A porte chiuse (1944) è un’opera teatrale di Jean-Paul Sartre. La famosa frase “L’inferno sono gli altri”, riassume in pieno la filosofia esistenzialista della quale Sartre era il massimo esponente.

 

 

 

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Capitolo 14
*** Di cene, di matrimoni e altre complicazioni varie - seconda parte ***



Et bien mes copains et copines, dopo l’abbuffata della Vigilia, di Natale e Santo Stefano, adesso vi porto un bel digestivo per farvi spazio per il Cenone di Capodanno!

E’ un capitolo bello succoso, il mio consiglio è di mettersi comodi, magari con una bella fetta di pandoro, panettone, torrone o mandorlato sottomano, giusto per ingannare il tempo.

Anche se in ritardo, volevo augurare a tutti i miei lettori e recensori un Buon Natale e un Felice Anno Nuovo! Grazie a voi che mi seguite!

Merci beaucoup a voi,  miei recensori! Tifawow ; Diana924 (grazie per il piccolo accorgimento!); Angel_Dark_Light; Charm_ Strange; Titania76 ; Lovearmony; Sagitta72 ; ArcadiaLaNotte, Eno;  Ignis e MilodelloScorpione, merci à vous!

Bien, ora vi lascio al mio chappy!

Buon divertimento!

Votre,

 

H.

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In the previous chapter …

 

“Je vois … senti Milo, ho giusto un catalogo di Giorgione in camera mia. Più tardi, ti andrebbe di venire nella mia suite a vederlo?”

Sbattendo intontito le palpebre, l’adolescente si limitò ad un ulteriore sorriso di scomposto assenso, la lingua ormai completamente legata dall’alcol.

“Dopo il dolce?”

E ancora una volta, Milo annuì.

 

***

 

“Posso venire anch’io?”

La voce pericolosamente zuccherosa di Kanon fece trasalire i due cospiratori, Milo poiché pizzicato col bicchiere di vino in mano; Aphrodite … ecco, a buon intenditore, poche parole. Infatti, seppur il gemello minore fosse stato impegnato, fino a qualche secondo fa, in un’appassionata discussione con Julien Solo circa la recente visita di quest’ultimo al favoloso Historic Dockyard Museum a Portsmouth, e in particolar modo sulla descrizione della HMS Victory lì conservata (la nave ammiraglia che portò Nelson alla vittoria come alla morte il 29 ottobre 1805, nella famosa battaglia di Trafalgar contro la flotta napoleonica), alle sue orecchie gattonesche non erano sfuggite quelle paroline così innocue, se a pronunciarle non fosse stata una persona dalla dubbia identità sessuale.

 E riguardo ad Aphrodite, i dubbi di Kanon erano molti.  A cominciare da quel neo sotto l’occhio sinistro, della cui natura vera o artificiale il ragazzo aveva intimamente indagato per quasi tutto il Tournedos alla Rossini; senza contare, poi, quella rosa appuntata al petto, il cui vermiglio veniva risaltato maggiormente dalla candida giacca. Embé, ovvio! Tutti col tuxedo nero e lui con quello bianco, figurarsi!

Ma la cosa che lo aveva messo seriamente in ansia, era lo sguardo un po’ troppo goloso dei chiarissimi occhi dell’altro ragazzo, il quale fissava Milo quasi come se quello sgorbietto ancora né carne né pesce fosse stato l’ottima crème brulé, che per la cronaca il bicho era arrivato a ripulirne la terza coppa malgrado vi fossero altri dolci in programma.  E Kanon aveva giaciuto su abbastanza letti da riconoscere una proposta indecente, anche quando camuffata sotto un manto di amichevole nonchalance.

“Uhm? Che ne dici, Aphrodite? Posso venire anch’io a vedere il catalogo di Giorgione? E se si aggiungesse anche Julien?”

A sentirsi nominato, il ragazzo a lui coetaneo sbatté confuso le palpebre lanciando poi un’occhiata obliqua al fratello minore. “Non sapevo avessi tali libri nella tua suite, Dite …”, disse piano, stringendo sospettoso gli occhi.  Gesto che l’altro ricambiò con lo stesso gelido entusiasmo, replicando seccato:

“Non vedo perché devo renderti conto di tutte le mie azioni, Jules!”

“Oh, io al contrario le ragioni le vedo benissimo!”

Un silenzio rancoroso s’instaurò tra i due fratelli, interrotto dal provvidenziale arrivo del cameriere.

“Un’altra mousse al cioccolato di Bayonne, monsieur?”, inquisì l’uomo neutro, allungando il vassoio d’argento e involontariamente separando i due contendenti.

“Mouais”, sogghignò Kanon sornione per quella piccola vittoria ottenuta e quindi incline a festeggiamenti “perché no?”, disse, tirando la sedia di Milo più vicino alla sua, nel frattempo che gli veniva servito il delizioso dessert.

“Va bene, fino al dolce siamo tutti d’accordo che so quel che avete fatto! È dopo il problema! Che cos’è successo?”, domandò serio Saga, arrossendo tuttavia un poco per essersi distratto esattamente nel momento in cui il suo fratellino aveva più bisogno di lui. Poverino, mica era la reincarnazione di Argos, il gigante pluriocchiuto e custode di Io / mucca, per ordine della gelosa Hera! [1]

Mordendosi a disagio il labbro inferiore, Kanon balbettò qualcosa di inintelligibile, nel frattempo che Milo si afflosciava sempre di più sulla sedia, inabissandosi poco a poco sotto il tavolo. 

“Beh”, replicò all’improvviso il gemello minore, infiammandosi d’un colpo. “Un po’ è stata anche colpa tua Sasà!”

“Mia?”, sbatté incredulo le palpebre il ragazzo, confuso per quella bellicosa affermazione.

“Oui! Sei stato tu a dare il via!”, continuò imperterrito Kanon nel suo J’accuse.

Incrociando caparbio le braccia, Saga raccolse il guanto della sfida, incitando il suo doppio a continuare: “E sentiamo, in qual modo?”

“Se ti fossi limitato a …”

“Nônon! Nônon!”

Correndo a perdifiato per i corridoi dell’Hotel, Saga cercava ansioso la suite nella quale era sicuro di aver visto il gemello nascondersi, con la scusa di una promenade digestiva prima dei fuochi d’artificio a mezzanotte.

Due minuti.

Erano bastati solo due minuti di distrazione da parte sua per far sì, che il bicho gli scomparisse da sotto il naso e a nulla erano servite le concitate e furiose ricerche da parte del ragazzo, niente, il suo fratellino pareva quasi essere stato ingoiato dalle stesse pareti dell’ex residenza imperiale. Più passava il tempo, più l’ansia di Saga aumentava, da una parte perché in cuor suo temeva che qualcosa di brutto potesse succedere a Milo, dall’altra poiché non osava immaginare la terribile reazione paterna, in caso quel “qualcosa di brutto” gli fosse effettivamente accaduto. Infatti, dopo il funesto issue dell’incidente, M. Christophe era divenuto molto paranoico nei confronti del suo maschio terzogenito e solo l’estate scorsa gli aveva permesso di trascorrere di nuovo le vacanze con la parrocchia, lontano dalla sua ala protettiva. “Mi raccomando Saga, restagli accanto e tienilo distante dai guai e dai malintenzionati!”, gli aveva ricordato il padre il giorno della loro partenza e nella mente del gemello maggiore l’aver perduto il fratellino equivalse in quell’istante ad un imperdonabile mancamento alla sua promessa.

Ed era per quel motivo, che, dopo lunghe e infruttuose ricerche, aveva deciso di chiedere aiuto all’ultima persona sulla faccia della terra adatta ad esercitare il ruolo di balia: il suo gemello Kanon.

“Nônon!”, ripeté concitatamente Saga, trovando infine la porta anelata e, spalancandola invasato (come mai era aperta, poi?), vi irruppe dentro senza tanti complimenti. “Nônon! Presto devi venire subito con meehhhhcheschifochefai??!!!”, strillò con una vocetta acuta di pura sorpresa e di riflesso il primogenito maschio del casato si nascose gli occhi con una mano, girandosi di trequarti  e arrossendo fino a sembrare una ciliegia matura.

Puntellandosi sui gomiti, un Kanon seminudo sbuffò sonoramente nel vedersi comparire così all’improvviso il suo doppio, interrompendogli il divertimento post abbuffata. Possibile, che non si riuscisse ad avere un poco di quality time, senza che quel moralista puritano venisse a rompergli le uova nel paniere?

Sempre tenendo il viso ben celato dalle dita, Saga balbettò imbarazzato, indietreggiando di qualche passo: “Ehm … scusa Julien per … per l’interruzione … io … ecco … sono venuto per mio fratello, sai … piccolo problema … incantevole serata, vero?”, farfugliò poi in un misero tentativo di reimpostare la sua voce sul tenorile e non sul soprano, qual era divenuta in quel preciso istante.

E mentre Kanon accendeva stizzito la bajour sul comodino poco distante, il giovane accanto a lui rispose tranquillamente: “Saga, io sarei Abel …”, spedendo di filato il gemello maggiore nel mondo delle Idee e pure senza francobollo.

Specie, quando emergendo  dalle morbide lenzuola con un ampio gesto del braccio, il vero interpellato in questione fece la sua comparsa da dietro la schiena di Kanon. “Oui, Saga? Mi volevi dire?”, gli domandò Julien candidamente, sbattendo perplesso le palpebre alla vista del porpora ragazzo squagliarsi a momenti sotto i suoi occhi.  “Ti senti bene?”, s’informò poi preoccupato, notando come il rosso cedeva rapidamente posto al livido sulle guance di Saga.

Impassibile, il suo doppio inquisì sarcastico, dopo essersi acceso una sigaretta: “Uh, la fine del mondo è davvero vicina! Altrimenti, che ci fa Santo Saga in questo luogo di fornicazione?” e gongolò malefico, quando appurò come i zaffiri del fratello si fossero chiusi in una sottile linea, velandosi di un pericoloso cremisi.

“Ti concedo cinque secondi per renderti presentabile”, sibilò Saga, guadagnandosi uno sprezzante risolino da parte del gemello. “Ti aspetto fuori!”, ribadì, sbattendo la porta con inusuale violenza e appoggiandosi pesantemente ad essa, respirando a fondo. Maledetto Kanon e i suoi incontrollabili testosteroni!

Nel frattempo, il detto infoiato si rivestiva con tutta calma.“Torno fra poco”, assicurò ai suoi compagni di letto, richiudendo la zip dei pantaloni, prima di uscire dalla suite. “Avanti, Rasputin! Se devo perdere il mio tempo, che sia almeno per qualcosa di utile!”

Levandosi bruscamente la mano dalla tempia bollente, Saga sbottò irato: “Perché?”

“Perche no?”, ribatté prontamente Kanon, il cui vantaggio di essere il suo doppio risiedeva in un’inquietante telepatia tra loro.  “Vuoi provare?”, chiese poi più conciliante, seppure la sua voce fosse venata di un’infida speranza in una risposta affermativa.

Al contrario, Saga si voltò bruscamente verso di lui, fulminandolo con lo sguardo, il quale se avesse potuto, l’avrebbe trasformato in una statua di sale come la moglie di Lot, giusto per restare in tema.  [2]

“Allons, che c’è? Spicciati, ché Abel e Julien mi si raffreddano …”

Reprimendo a viva forza l’incessante tentazione di strangolarlo a mani nude, Saga riassunse la penosa situazione creatasi a causa della sua momentanea sbadataggine: “Milou è sparito!”

“Ah!”, fece solamente Kanon, annuendo pensoso col capo. “Solo questo?”, disse poi, arcuando incredulo il sopracciglio. “Enfin, Sasà, sarà andato a curiosare in giro come suo solito, non dartene pena!”

“Mon oeil!”, imprecò il maggiore, scaldandosi. “L’ho cercato in ogni angolo possibile e immaginabile dell’Hotel e non l’ho trovato manco a morire! Merde, merde, merde!”, eruppe, passandosi nervosamente una mano tra i capelli, gesto che Kanon osservò apprensivo, nel caso suo fratello avesse una qualche vaga intenzione di strapparseli per lo sconforto. “Dopo il dolce ti ricordi, che ci siamo ritirati in terrazza con i nostri commensali?”

“Più o meno …”, nicchiò il minore, il quale si era ritirato sì, ma altrove.

Con un secco gesto della mano, Saga proseguì: “Non passano dieci minuti, che percepisco uno strano rumore accanto a me, come della stoffa che si stava stracciando. E di fatti, appena mi giro verso Milou, incrocio il suo sguardo imbarazzato e comprendo, che la sua massa corporea aveva vinto la sua lotta contro la stoffa strettissima del tuxedo. Onde quindi evitargli una figuraccia, lo acchiappo e corriamo alle toilettes per verificare i danni; quand’ecco che la vedova mi chiama ed io esco – non l’avessi mai fatto! – esco un attimo a riferirle il problema di Milou. Torno dopo neanche due minuti e … e  il bicho era sparito! Puff! Volatilizzato!”

Perplesso, Kanon si grattò il capo, sbadigliando lievemente: “Beh, mi pare strano! Enfin, dove vuoi che vada con uno sbrego sull’abito?” e l’espressione angosciata di Saga convenne con lui. “Hai provato alla Hall Principal? Di solito lì hanno sempre delle giacche di ricambio, magari è andato a prenderne una!”

Scuotendo demoralizzato la testa, il maggiore scartò quell’ipotesi non in quanto sciocca, bensì già testata e con esisti non proprio incoraggianti. “E’ stato il primo posto in cui mi sono recato, niente, nessuno l’aveva visto!”

“E allora se non è in un luogo pubblico, sarà in uno privato …”, suggerì pragmatico Kanon, nascondendo le mani nelle tasche e sorridendo allusivo. Le labbra di Saga, invece, si piegarono in una linea dura.

“Cosa vuoi dire?”, inquisì lentamente e sottovoce, avvicinandosi al fratello. “Vorresti forse insinuare, che il nostro non ancora quattordicenne fratello si sarebbe appartato in una suite con qualcuno? Ti rendi conto dell’assurdità di simile pensiero?”

Kanon alzò caparbio il mento, incrociando bellicoso le braccia. “Potrebbe essere, perché escludere questa teoria? Forse eri troppo impegnato a cicalare con Artemisia, da accorgerti che il di lei poliposo fratello minore fissava Milou come se fosse un crème caramel! E chissà, magari con la scusa di prestargli un capo d’abbigliamento integro … nella sua stanza … gli cala i pantaloni e … aarrrggghh!!!”, grugnì sorpreso, sbattuto all’improvviso contro la parete dal suo gemello, il quale, stringendogli dolosamente le spalle, ruggì fuori di sé e livido di collera:

“Basta con le tue cazzate, salaud! Se non troviamo Milou, Papa ci uccide tutti e due!”, ma Kanon intuì benissimo, che quel timore non era per la propria sorte, bensì per quella del fratellino. Infatti, per quanto a volte Saga stesso stentasse a crederlo, lui si fidava delle intuizioni e dei consigli del suo doppio (tranne su certi argomenti un po’ cochon) e l’orribile sospetto, che quanto da lui affermato potesse in qualche modo corrispondere al vero, aveva terrorizzato il ragazzo, il quale si sentiva ora doppiamente in colpa per la sgradevole situazione. Ciononostante, il suo cervello si rifiutava di accettarlo e di fatti Saga berciò infuriato:

“Possibile, che tu debba pensare solo a quello?!?”

“E possibile, che tu non ci pensi affatto?!?”, replicò Kanon per nulla intimorito e con la medesima veemenza. Tanta era la rabbia, che i due avevano inconsciamente dirottato la discussione altrove. “Perché non ti vai direttamente a murare vivo in un convento, allora? Così ci risparmieresti tante di quelle noie!”

“Per vedere la mia casa trasformata in un bordello, del quale tu saresti l’indiscusso tenutario? Mai!”

“Tzé, bordello! La verità è che sei geloso di me, perché nessuno ti ama al di là dell’amicizia e del rispetto; perché nessuno ti guarda come un possibile amante! Solo l’eterno amico, solo l’eterna figura di riferimento! Una statua riceve più devozione, te l’assicuro!”, perse il controllo Kanon, mordendosi poi colpevole il labbro inferiore, pentendosi immediatamente di quel duro e veritiero sfogo.

Saga socchiuse gli occhi, accusando in silenzio la venefica estocade del gemello. “Je le sais, mon frère”, disse piano, quasi in un mesto sussurro. “E’ il fardello, che mi presi volontariamente sul letto di morte di Maman”, e la sua mano volò involontariamente sulla piccola croce d’oro al petto, celata dalla candida camicia. E prima che Kanon potesse replicare, il ragazzo continuò, interrompendolo: “Mi dispiace, non volevo offenderti. È solo che … temo che il tuo atteggiamento possa rivoltartisi contro, che … che ti considerino un facile, ecco … quando so che in realtà non è così”, gli sorrise a fior di labbra, accarezzandogli la guancia con tenerezza. Kanon chiuse gli occhi, sopraffatto da quel gesto un tempo compiuto da sua madre, in quelle occasioni in cui qualcosa lo turbava. “Inoltre”, riprese Saga e la sua voce s’incrinò leggermente. “Quando mi hai detto che Milou … con quel viscido …” e sputò pieno di rancore e disgusto la parola. “Non può essere, vero?”, gli domandò poi quasi supplicante, fissandolo disperato  e Kanon si diede mille volte della carogna, quando rispose, abbracciandolo forte:

“No, Sasà! Stavo scherzando! Sono sicuro che Milou sta bene, si sarà nascosto da qualche parte per la vergogna! Lo ritroveremo, vedrai! Abbi fiducia in me!”, lo consolò, nel frattempo che la sua mente elaborava un rapido piano di salvataggio del bicho.  E, sciogliendosi dall’abbraccio, prese il viso del gemello, appoggiando le rispettive fronti tra loro. “Andrà tutto per il meglio, Sasà! Non sei solo!”, gli sorrise incoraggiante, schioccandogli un bacio.

“Merci, Nônon. Significa molto per me …”

“Je le sais”, sospirò dolcemente Kanon, riscuotendosi poi in un tono più serio e pragmatico. “Allora, tu torna a controllare  alla Hall Principal, mentre io … io vado a controllare al Bar Impérial!”, mentì spudoratamente, seppur con grande convinzione, tanto che persuase Saga ad accettare il suo suggerimento e di fatti, il ragazzo si diresse celere nel posto consigliatogli dal gemello.

E siccome Kanon non era affatto una persona maliziosa e diffidente, egli si recò spedito come il TGV nella suite di Aphrodite.

“Se ti fossi limitato a fidarti di me, invece di andare in paranoia per tutta la serata, quest’incresciosa situazione non si sarebbe mai creata! Ci hai messo fretta, per questo siamo tornati a casa in quelle condizioni!”, ribatté tranquillo Kanon, eseguendo un rapido raid di carte, che si concluse in una scopa. Ma ormai eravamo così presi dal suo racconto, da non lamentarcene neppure.

“Sicuro, come no!”, fischiò invece Saga scettico, reclinando il capo. “E secondo te, io sarei così fesso da credere, che voi due avete trascorso quasi quattro ore in compagnia di Julien a giocare con la Playstation nella sua suite?”

“Ma è vero!”, protestò il minore, allargando le braccia. “Enfin, non esattamente per quattro ore … altre vicende, in effetti, sono accadute nel frattempo!”, concesse poi, riflettendo per qualche secondo.

“Ah!”, schioccò la lingua il gemello maggiore trionfante. “Lo vedi, che avevo ragione? Che mi avete combinato?”

Traendo un lungo e doloroso sospiro d’incoraggiamento, Kanon proseguì nella storia: “Come ti dissi allora, mi recai al Bar Impérial …”

Salendo a due a due la sontuosa scalinata, che portava al secondo piano – come mai gli ascensori erano sempre occupati, quando più se ne aveva bisogno? – Kanon caricò verso la suite di Aphrodite, sperando di non essere arrivato troppo tardi o almeno, prima che l’irreparabile fosse accaduto. E tanta era la concitazione del momento, che al gemello minore era sfuggito un piccolo e trascurabile dettaglio: qual era la camera del poliposo giovane? Infatti, il ragazzo si ricordava della sua ubicazione al terzo (o quarto?) piano, ma il numero esatto … uhm … quello decisamente no.

Coi nervi a fior di pelle – più per la collera, che l’ansia – Kanon rigaloppò fino alla Hall Principal, ringraziando il cielo, che Saga si fosse diretto altrove.

“Posso aiutarla, monsieur?”, domandò placido il receptionist, osservando lievemente accigliato l’ansate ragazzo appoggiato al banco.

“Ouais …”, borbottò Kanon, ponendo una mano là dove la milza ballava la macarena. “Vorrei … puff … vorrei sapere, dove alloggi …puff … tale Aphrodite Solo …”

Perplesso, il giovane uomo scosse il capo disorientato. “Pardon? Ha detto?”

Sbuffando simile al drago Fafner, il gemello minore ripeté al limite massimo della sua –poca – pazienza: “Vorrei sapere il numero della suite di M. Aphrodite Solo!” e dovette frenarsi dall’impalare con l’appendiabiti il detto receptionist, quando quest’ultimo ribatté tra lo sorpreso e il severo:

“Je regrette monsieur, ma qui non abbiamo alcun M. Aphrodite Solo in qualità di nostro cliente! Temo che lei abbia preso un abbaglio, monsieur!”

“Senti …” e Kanon aguzzò la vista, onde leggere il nome sul cartellino appuntato alla giacca bianca del giovane. “ … Mu. Senti Mu, forse non ci siamo capiti: io sono ospite di questi Solo, con i quali ho giusto cenato neanche un’ora fa! Inoltre, da quel che ho capito, costoro sembrerebbero essere dei clienti fissi di questo Hotel e tu avresti la faccia tosta di comunicarmi, che non esiste alcun Aphrodite Solo?” e il modo, in cui il gemello pronunciò il nome e cognome dell’incriminato assomigliò in maniera così impressionate a quello di Jack Nicholson in “Shining” (in particolare mentre si apprestava ad aprire ad asciate la porta del bagno), che il poveretto si mise subito a scartabellare freneticamente il registro delle prenotazioni, cercando nervoso il nome desiderato da quello psicopatico.

“Oui monsieur, ha perfettamente ragione riguardo i Solo … è che … che … che non abbiamo registrato alcun Aphrodite … ecco, guardi lei stesso …” e gli cedette l’enorme librone, indicandogli ansioso i nominativi lì segnati. “Vede? Madame Véronique Solo … M. Abel Solo … M.lle Artemisia Solo … M. Julien Solo e ultimo … M. Hugo Solo!”

“HUGO?!?”, ruggimmo in coro, traumatizzati a vita e senza speranza di ricovero. “Vuoi dire, che il vero nome di Aphrodite era Hugo?”

Kanon alzò le spalle, rassegnato. “Enfin, provate a capire la sua situazione: l’avevo trovato al Bar Impérial intento a suicidarsi tramite coma etilico, tutto perché quando Milou aveva scoperto il suo vero appellativo, beh …  era scappato via come un leprotto!”

“Non è questione del nome o meno! Era l’età! Per quanto questo Aphrodite o Hugo fosse sedicenne, comunque Milou era troppo giovane per certe esperienze … con quel viscido poi …”, grugnì Saga, incupendosi alla sola idea, mentre Kanon e Milo al contrario si erano lanciati una complice occhiata assai sospetta.

“Oui … t’as raison, appunto!”, concordò un po’ in ritardo il gemello minore, tamburellando le dita sul tavolo. “Assolutamente vergognoso … riprovevole … a soli quattordici anni … inaudito …” e guardò altrove, le orecchie cremisi. Già, peccato che lui avesse incominciato il suo cursus honorum nell’ars amatoria alla stessa età!

Scomodo silenzio.

“Insomma, stavi parlando con Hugo al bar. E poi?”

“Dunque …”

Kanon raccolse alla bell’e meglio i fantomatici frammenti della mandibola, i quali di sicuro avrebbero costellato il desk, se la mandibola in questione fosse cascata realmente e non nel puro senso metaforico. Perché un conto era sopravvivere allo choc di conoscere un maschio chiamato Aphrodite, ma l’apprendere che era un nickname per Hugo, hé, quello era a dir poco sconcertante.

In ogni modo, ricomponendosi in fretta, il ragazzo annuì con foga, lasciando intendere che fosse proprio quell’Hugo il tizio che stava cercando. “Ho un bisogno urgente di conferire con lui! Dimmi il numero della sua suite, per favore! Presto, è un caso di vita o di … ehm …! È importante, insomma!”

“Mais monsieur … la privacy …”, balbettò a disagio Mu, arretrando d’un passo, quando Kanon si sporse un po’ troppo sul desk della reception, mulinando pericolosamente il braccio nella sua direzione.

“Tua nonna pirata, la privacy! Il numero, bon sang!”, batté il pugno irato il gemello, le cui orecchie quasi fumavano dalla frustrazione repressa e facendo col suo gesto cadere il campanello per terra.

“Non potrei …”, tentò di giustificarsi il giovane in difficoltà, sennonché il secondogenito dei Valavitis l’acchiappò per il colletto con ambo le mani, scuotendolo come una centrifuga.

“Senti mucca Mu! Quell’Aphrodite o Hugo o viados malriuscito della malora, insomma nella stanza di quel polpo maniaco si sta consumando un efferato stupro! E guarda caso, la vittima è il mio non ancora quattordicenne fratellino! Ti rendi conto del trauma, che potrebbe infliggergli? Essere violentato da una checca? E tu mi salti fuori con questa menata della privacy?!?”, si sgolò il gemello minore, lavando il viso di Mu con la saliva eruttata e il viso deformato in un’inquietante maschera maligna, lingua biforcuta inclusa. “Ora portami subito da lui o giuro sul Dalai Lama, che ti faccio passare un brutto quarto d’ora, bordel! E non dubitare neanche per un solo istante delle mie parole! Egoista insensibile!” e detto questo, prelevò di peso Mu dalla reception, portandoselo quasi sottobraccio nell’ascensore, ignorando le proteste di quest’ultimo e gli sguardi sconcertati dei pochi presenti.

Arrivati dunque al terzo piano, Kanon spinse fuori il receptionist di malagrazia, berciandogli dietro nel frattempo ogni genere d’improperi, giusto per assicurarsi che non si sottraesse al suo dovere. E il poveraccio ebbe il suo bel daffare a trovare la porta desiderata, senza cedere completamente alle lusinghe del panico, riunitesi e delineatesi nell’iraconda e pericolosa figura del franco-greco, il quale, appunto per non smentirsi, ringhiò:

“Sto aspettando Mu …”, mettendosi poi a battere impaziente il piede per terra, le mani portate ai fianchi. Infatti, il modo sospetto in cui il receptionist frugava agitatamente nelle tasche, senza tuttavia reperire nient’altro che l’aria, non aiutava di certo il nervosismo del gemello, i cui muscoli facciali si stavano irrigidendo a causa di simile sentimento, peggio di un rigor mortis.

“Mi dispiace monsieur, ma temo di aver lasciato il passepartout alla reception …”, pigolò in un sussurro Mu, deglutendo a fatica.

Dopo qualche minuto d’inquietante silenzio, Kanon reagì. “Ah!”, esclamò, abbassando le braccia e dirigendosi felino verso l’altro giovane.

“Non … non è ar-arrabbiato, monsieur?”, balbettò quegli, appiattendosi contro il muro.

“No”, lo rassicurò il franco-greco, posandogli una zampa sulla spalla. Peccato che gli occhi ormai scarlatti affermassero il contrario … “E così, solo dopo essere saliti al terzo piano, tu mi comunichi che hai dimenticato il passepartout al desk?”, inquisì con la stessa dolcezza dell’inquisitore Torquemada.

“Monsieur, non me ne avete concesso il tem- …”

“CANAGLIA! COME. TI. SEI. PERMESSO?!?”, ululò invasato Kanon, interrompendolo  e, dopo aver afferrato implacabile un Mu terrorizzato per la giacca, lo sbatté a mo’ di ariete contro la porta, in spinte una più feroce e possente dell’altra. “ADESSO. ME. LA. APRI. A. TES-TA-TEEEEEHHHHHH!!!”, mugghiò fuori di sé, seppure in realtà furono le spallate del receptionist a sfondare infine l’entrata della suite (e senza scardinarla irrimediabilmente, il gemello aveva issues, ladies and gentlemen!) dentro la quale i due si fiondarono, Mu planandovi a papera sul pavimento e Kanon scavalcandolo incurante.

“… così, dopo aver parlato del più e del meno al bancone del bar, domandai gentilmente ad Aphrodite di condurmi da Milou, visto che lui era stato l’ultimo a vederlo …”

“Aphrodite, lurido pezzo di merda! Dov’hai nascosto mio fratello, espèce de tapette mal réussie?” , sbraitò il gemello minore, procedendo per la suite come l’uragano Katrina, ergo buttando all’aria ogni possibile nascondiglio, nel quale un poliposo maniaco avesse potuto celarvi un ragazzino di quattordici anni.  E la demolizione dell’appartamento proseguì in un escalation di frenetico e distruttivo disordine, finché le sue sensibilissime orecchie non captarono strani rumori, un peculiare miscuglio di risolini e miagolii soffocati.

Lentamente e col cuore in gola, Kanon avanzò silenzioso come una pantera, portandosi dietro la porta, dietro la quale appurò esserci l’effettiva fonte di simili inquietanti suoni. Piano, il ragazzo la schiuse, reprimendo a fatica una sonora imprecazione, quando vide Milo con solo le mutande addosso – e meno male, che Saga lo aveva costretto a mettere quelle stile  Ancien Régime, una tortura da sfilare -    e allungato sul morbido letto, assalito nel frattempo dalle labbra di quel che a Kanon, più che un essere umano, ricordò una pasciuta sanguisuga.

Immediatamente, le guance del franco-greco si tinsero di scarlatto e non per l’imbarazzo, bensì per l’indignazione e il disgusto: aveva subito notato, che c’era qualcosa di strano nell’espressione del fratello e il ragazzo poteva vantare di averle conosciute tutte, sin dal suo primo sorrisone in culla. Infatti, quando i loro occhi s’incrociarono per un istante – l’altro era troppo impegnato a giocare al vampiro – Kanon serrò i pugni con maggior forza nello scorgere lo sguardo vuoto e le iridi preoccupantemente dilatate di Milo.

“Altolà, porco!”, ruggì allora, spalancando teatralmente la porta, premurandosi di creare il maggior trambusto possibile. E come previsto dalla diabolica mente gemellare, Aphrodite per poco non cadde dal letto e tanta era la sua sorpresa, che non riconobbe neppure il nuovo e rumoroso arrivato, domandagli appunto disorientato: “E tu chi sei?”

Imitando alla perfezione il tono da predicatore ugonotto, di solito impiegato da Saga tre volte e mezza su quattro al giorno, Kanon, alzando pure il braccio in un imponente gesto ieratico, eruppe inflessibilmente solenne: “Un agente della buon costume direttamente inviato da Sua Santità il Pontefice Saga I, onde impedire il turpe atto mosso contro le virginee fesses fraterne! Molla il bicho, polipo!”  e dinanzi al palese rifiuto dell’acquatico invertebrato, il ragazzo si tuffò sopra il letto, acchiappando Milo per un braccio e tirando a viva forza, quando dalla parte opposta Aphrodite oppose resistenza, affondando le unghie sulla caviglia nuda del ragazzino, il quale, per la cronaca, pareva non dare evidenti segni di sapere perché diavolo gli altri due se lo stavano contendendo, neanche fossero state due litigiose bambine con la loro bambola di pezza.

“Vai a farti un giro, vache geignarde!”, berciò il biondino effeminato. “Il tuo caro virgineo fratellino è più che consenziente!”

“Mouais! Ed io sono etero!”, replicò sarcastico Kanon, il quale, con un ultimo possente strattone, riuscì a staccare Milo dagli artigli pervertiti di Aphrodite, capitombolando tuttavia assieme al fratello per terra a gambe all’aria. Durante la caduta, inavvertitamente il franco-greco sbatté il gomito sul comodino, il quale oscillò di quel poco, versandogli tutti i suoi contenuti in testa.

Tra questi, una panciuta bottiglietta color castagna, la quale provocò un serio dilatamento degli occhi del gemello, dopo che questi l’ebbe raccolta e letto il nome. “Sacré fils de …”, mormorò sconcertato, ma prima che potesse terminare la frase, un bel cazzotto lo colpì in pieno viso, avendo infatti il suo opponente sfruttato la sua momentanea distrazione.

Una piccola vittoria, senz’ombra di dubbio. Di Pirro. Giacché il ragazzo, umiliato e offeso nel suo orgoglio di gay macho per via di quel colpo a tradimento e per di più per mano di una tapette, si riscosse subito dall’iniziale sorpresa, mirando con un perfetto calcio volante a  quelle che Omero definì “le vergogne di uomo” e in quel caso di Aphrodite, mandando il suo avversario dolorosamente al tappeto. Non sazio della sua vendetta e ansioso di lavare  col sangue l’onore perduto (su questo punto era molto mediterraneo), Kanon rimise in piedi il giovane, subissandolo di potenti manrovesci  fino a dolergli la mano, nel frattempo che lo deliziava di un suo personalissimo sermone sul fas e nefas dell’ars amatoria, colorito di tanto in tanto da insulti degni di una tenzone fiorentina.

E con un’ultima tripletta di ceffoni – nuova forma di assoluzione -  il gemello minore stese definitivamente al tappeto Aphrodite, lasciandolo semicosciente e lui stesso un po’ perplesso. In effetti, il vero motivo del repentino disagio provato da Kanon, indiscusso vincitore sul fellone, non risiedeva nei sensi di colpa per aver forse esagerato un po’ troppo. No. Era piuttosto la sgradevole sensazione di sfiorare con le sue dita, se non proprio stringere, qualcosa di fine e setoso. Col labbro inferiore tremante, il gemello sciolse lievemente la presa del pugno destro, portandolo poi al viso. E mentre la sua bocca si piegava in una smorfia schifata, la sua gola formulò un gorgoglio strozzato di disgusto allo stato pure.

Ebbene sì, mesdames et messieurs.

Kanon Damian Valavitis si era ritrovato in mano, in seguito alla ferina colluttazione, un parrucchino biondo platino.

 E la tonsura alla frate francescano sulla testa di Aphrodite fu la terribile prova schiacciante, riguardo il possibile proprietario del detto tupè.

Scioccato, il gemello tentò invano di articolare qualche parola comprensibile, sennonché …

“Ecco da questa parte!”, interruppe i suoi pensieri (?) la voce concitata di Mu, il quale, nel frattempo che Kanon salvaguardava la verginità di Milo, era sgusciato via onde chiamare i rinforzi, ignorando però con quale razza di bestia avessero in realtà a che fare: infatti, quando giunsero infine nella suite devastata dal tornado valvavitisiano, la trovarono – Aphrodite a parte – completamente vuota.

E il parrucchino svanito nel nulla.

“Ma allora, dov’eri finito?”, inquisì disorientato Saga, fissando perplesso Milo, il quale, prima che potesse rispondere, venne prontamente interrotto da Kanon:

“Uff, hai per caso la testa piena di segatura? Te l’ho già detto: era alla Spa! Ed è stato lì che, a causa dell’immensa gioia di ritrovare il mio fratellino, sono inciampato sui gradini, sbattendo il viso contro l’angolo della parete!”

Arcuando scettico il sopracciglio, chiesi veloce: “E il parrucchino? Quello dove l’avevi pescato?”

“Se mi lasciassi continuare il racconto, invece di interrompermi con le tue puerili domande, magari riuscirei quasi quasi a dirtelo!”, fu la pronta e canzonatoria risposta del gemello minore, sfoderandomi poi un falso sorrisone melenso, causandomi un feroce e piccato rossore sulle guance. “Bien. Dopo essermi rimesso in piedi in seguito al capitombolo, m’imbattei …”

“Avanti, pedala bicho della malora!”, sbottò Kanon, rimettendo in piedi per l’ennesima volta un Milo molto incerto sulle sue gambe. Dopo la miracolosa fuga dalla suite assediata dalla security, i due fuggiaschi erano scesi in fretta e furia giù per le scale, ripiegando ai corridoi del primo piano, quando udirono – o meglio, Kanon udì, visto che Milo era incapace d’intendere e di volere -  dei passi procedere nella stessa direzione.

Caricandosi quindi il bicho sulle spalle, il gemello bussò ad ogni porta lì presente, stupendosi assai nel momento in cui una fresca voce di ragazza gli domandò in un buffo miscuglio tra timoroso e seducente: “Sei tu Simon?” , gelando un interdetto Kanon sul posto.

 Scorgendo tuttavia le ombre del personale avanzare inesorabili, il franco-greco si riscosse, cogliendo la palla al balzo. “Sì baby, sono il tuo Simon!”, mentì, impostando la voce di qualche tono più grave. E la pulzella in questione dovette essere o molto ingenua o dai gusti molto particolari, giacché più che sexy il nuovo tono di voce di Kanon ricordava vagamente quello degli scaricatori di porto di Marsiglia.

Intanto, però, la porta si era aperta e il secondogenito dei Valavitis ne approfittò per sgusciarvi dentro, il fratello sempre sulle spalle a mo’ di pecora Dolly.

Ad accoglierli, fu una giovane demoiselle dai capelli castano ramati e dall’abbigliamento promiscuo. I suoi occhi nocciola screziati di verde si spalancarono stupefatti, non appena visualizzarono la figura del nuovo arrivato, il quale, oltre a non essere Simon, recava pure seco un ragazzino con in viso un’espressione molto strana, quasi sinistra.

“Ma tu non sei Simon!”, fu la brillante deduzione della ragazza, scuotendo confusa il capo.

“E tu non sei Satine di Moulin Rouge!”, ribatté prontamente Kanon, indicando con un vago cenno una lingerie, che non avrebbe sfigurato nelle femmes de plaisir dei dipinti di Toulouse-Lautrec. “Stai dando una festa privata in maschera?”

“Cosa?!!”, strillò offesa la giovane, coprendo tuttavia la scollatura con la sottile vestaglia nera. “Una festa in maschera? Sto aspettando il mio amante!” e i suoi occhi si strinsero piccati all’udire il sarcastico sbuffo del gemello, il quale commentò maligno:

“Amante? Ha! Che parolone per la boccuccia di una bambinetta! Tzé, si vede lontano un miglio, che fino a dieci minuti fa giocavi ancora con le Barbie e adesso ti dai arie da donna vissuta? T’es ridicule: quanti anni hai, sentiamo? Undici? Tredici? Se vogliamo essere generosi, quattordici?”

“Diciassette appena compiuti!”

“Come no!”, replicò senza entusiasmo Kanon, avanzando all’interno della suite e ignorando alla grossa le proteste indignate della sua proprietaria. “Piuttosto, Madame de Pompadour, non è che avresti una vestaglia - più coprente-  per mio fratello? E magari dell’acqua fresca?”, domandò poi il ragazzo perentorio, appoggiando Milo sul canapè. Non gli piaceva per niente lo strano ghigno, che da qualche tempo si era formato sulle labbra vermiglie del ragazzino; sperò si trattasse di un effetto temporaneo, sebbene lui per primo ignorasse da quanto il fratello avesse assunto il …

“Mmnnhh …”, un gutturale mugolio attirò ad un certo punto l’attenzione del zelante babysitter improvvisato, facendo sì che aggrottasse apprensivo la fronte: disteso sul divanetto, Milo aveva incominciato a stiracchiarsi con la stessa placida voluttà di un gatto appena risvegliatosi, le palpebre maliziosamente serrate e sorridendo ambiguo, il tutto in una perfetta proiezione perversa di quei casti angeli dipinti negli affreschi.

E Kanon avrebbe sinceramente trovato la cosa conturbante, se non fosse stato – piccolo dettaglio – proprio suo fratello lo svergognato, che, allungando languido una mano, gli stava in quel momento accarezzando il volto con la punta dei polpastrelli; tocco non fraterno, bensì d’amante.

Seigneur! Non era che forse stava già facendo effetto il …?

Milo schiuse un poco gli occhi e i timori del gemello furono confermati: il turchese era ancora distante, vago, eppure illuminato da una luce di poca raccomandabile libido. Le sue labbra, intanto, si muovevano in silenti sussurri, articolando parole o nomi, tra i quali Kanon era sicuro non trovarvi il suo. Tuttavia, curioso come il suo modello Odisseo, il ragazzo si avvicinò con l’orecchio alla bocca del fratello, tentando di captare qualche frase.

“Mnnnnhhhh … mon … mon amour … je t’aime … je te désire …”

Un ghigno alla Cheshire Cat deformò il volto del gemello, il quale si sporse ulteriormente in avanti, inumidendosi le labbra di riflesso dalla curiosità. E bravo il piccolo Milou, che finalmente stava crescendo! “Chi? Chi è il tuo amore?”, gli domandò mieloso, accarezzando la testa bionda del fanciullo, il quale, strofinandosi a mo’ d’invito sul suo corpo, miagolò:

“Tu le sais … méchant, tu le sais … ”

Ah! Milo stava scambiando Kanon per l’oggetto dei suoi desideri, ecco spiegato quel goffo – con qualche riserva, però – tentativo di seduzione da parte sua! Voilà, spiegato l’arcano! Beh, se il gemello voleva soddisfare la sua curiosità, tanto valeva giocare alle regole del bicho!

“Vero, mon doudou, ma voglio sentirlo dalla tua bocca!”, gongolò di malefica gioia Kanon, appurando quanto bello fosse in quel momento essere un fratello maggiore: era dall’inizio della pubertà di Milo, che attendeva l’occasione di conoscere finalmente i gusti del minore, così da poterlo plasm-ehm … indirizzare in caso saltassero fuori essere gli stessi suoi. “Su, rendimi felice …”

Nascondendo il viso nel morbido cuscino, Milo scosse il capo birichinamente dispettoso. “Non!”

“Si!” (non ho dimenticato l’accento; in francese, “si” è il “oui” per una risposta negativa, ndr. )

“Non! Non!”

“Si! Si!”

“Mnnnnhhh …”, gorgogliò il ragazzino, spiando ora furbetto il gemello dalla stoffa. E, quando Kanon si apprestò ad accostarsi a lui, quegli catturò il suo volto, sussurrandogli dolci paroline d’amore, più tutte le pratiche sessuali che aveva in programma per lui, una volta trovato un posticino più comodo del canapè.

Però, giudicò Kanon impressionato, il bicho ne aveva di fantasia! Quasi, quasi qualcuna la metteva pure nero su bianco!

Tuttavia, l’umore allegro del ragazzo cambiò repentinamente, non appena le sue orecchie ricevettero il nome misterioso. “Gueh?”, fece disorientato, sciogliendosi dalla presa del fratellino. “Chi diavolo è questo Camnnmmmmggghhhh?!?” e senza dargli il tempo di pronunciare l’appellativo colpevole, Milo si era lanciato verso la bocca di Kanon, baciandola con effervescente vivacità.

Gueh? Cos’era codesta novità? C’era la luna piena? La marea dell’equinozio? Il periodo di riproduzione degli scorpioni? Il giorno no della settimana?

Senza scomporsi – conoscendo, infatti, il reale motivo dietro quel bizzarro comportamento – il gemello minore si adoperò subito a staccare il terzogenito dalla sua faccia, infilandogli per poco, durante la confusa colluttazione amorosa, le dita su per il naso.

“A cuccia te, infoiato!”, gli ordinò tra lo severo e lo scherzoso, domando lo scorpion a furia di cuscinate in testa, finché quest’ultimo non si rannicchiò sul divanetto, umettandosi d’anticipazione le labbra scarlatte. “Questa qua, Aphrodite me la paga! Già questo cafard era mezzo brillo, ora pure drogaaarrrggghhhh!!!” e di nuovo, Kanon fu impegnato in uno scontro faccia a faccia nel vero senso della parola.

Ma questa volta, non fu Milo a baciarlo.

Oh no!

“Così incontro questa ragazzina, tale Charlotte, la quale, dopo avermi aiutato a rialzarmi, m’invita gentilmente a sedermi in uno di quei tanto comodi lettini, offrendomi poi un cocktail alla vodka e Red Bull, molto buono …”

“E intanto Milo, che faceva?”, chiese Rhada incolore, sebbene nel suo sguardo notassi un ché di divertito. Chissà a cosa stava pensando …

“Hé, nuotava nella piscina …” e Kanon ci deliziò perfino con un’imitazione, roteando i polsi a mo’ di una fantomatica rana.

“Ah, ouais? E tu e Charlotte?”

“Sasà, sono gay! Cosa vuoi che combini io con una donna?”

Qualcuno dall’alto l’odiava e anche ferocemente. Altrimenti, Kanon non riusciva a trovare una logica spiegazione a tutta quella catena di sfortunati eventi: il Moralista, che irrompeva mentre era in procinto di divertirsi un poco con le sue due nuove fiamme, ergo Abel e Julien; la notizia del bicho sparito; un cazzotto sull’occhio da parte di un effeminato semipelato, rima inclusa; la security alle calcagna; suo fratello d’un tratto arrapato che lo baciava e adesso ci si metteva pure di mezzo quella poppante? Insomma, baciato da una donna! Che storia era mai questa?

E Kanon in quel momento se lo stava appunto chiedendo con vivace perplessità, specie quando quella ragazzina gli abbassò la cerniera dei pantaloni. Eh no, adesso bisognava prendere in mano la situazione! E che …

“Oy tu, baby doll, che fai? Cosa tocchi?”, le chiese imbronciato, scrollandosela di dosso senza tanta fatica e tenendola a debita distanza, con la scusa di appoggiarle le mani sulle spalle. “Lo sai, che la tua è una violazione della proprietà privata?”, le ricordò severo, muovendo moralista l’indice destro.

“Dai, tanto lo so che mi desideri …”, ribatté quella sensualmente, accarezzando col pollice le labbra del gemello, il quale diede una veloce sbirciatina alla sua verge rilassata nei pantaloni e, scuotendo il capo, commentò scettico:

“No, non credo proprio!” e pure la seduttrice dovette accorgersene, ché, seppur un poco titubante, si decise a smuovere la situazione, prendendo un’ardita iniziativa.

“Hey, hey, hey! Non t’azzardare!”, la pigliò subito Kanon per le spalle, impedendole d’inginocchiarsi davanti al suo inguine. “Risparmiati la fatica! Neppure sottoponendomi a tre ore di blowjob riusciresti ad ispirarmi!”, la rassicurò il franco-greco, maledicendo per la milionesima volta le brame di Aphrodite, che se non avesse puntato le fesses di Milo, a quest’ora ci sarebbe stato o Julien o Abel a rendergli tale piacevole servizio, invece di una rompiscatole – vergine, fatto assodato -  la quale sarebbe di sicuro scappata via alla sola sbirciata del suo viril orgoglio, se era fortunato. Altrimenti … hélas … dentaria ghigliottina … brrrrr …

“Perché? Sei impotente?”, domandò smarrita  e imbarazzata la giovinetta, arretrando di un passo, le gote cremisi.

Arcuando il sopracciglio, Kanon replicò seccato: “Sono gay” e la sua rivelazione ebbe come l’effetto di una doccia fredda sulla sua ascoltatrice, che balbettò incredula:

“S-stai scherzando, vero?”

“Ti pare, che abbia scritto Pagliaccio sulla fronte? Su queste cose non scherzo mai!”, affermò serissimo il gemello, incrociando le braccia al petto. “Eppoi, tu non dovevi saltare la cavallina con tale Simon?”

“Oui”, fece incerta la ragazza, alzando lievemente le spalle. “Ma tu … tu sei più carino …”

“Carino sì, ma gay!”, concordò il franco-greco – circa il suo sex appeal – sottolineando, tuttavia, il suo status nella gerarchia degli amanti. “ In ogni modo, cara la  mia piccola Sabina Poppea, Maman et Papa sono a conoscenza di questa tua liaison dangereuse con un gars più vecchio di te? Ché hai tutta l’aria di essere alle prime armi …”  e fissò con sufficienza l’abbigliamento della giovane, che arrossì ulteriormente, accavallando un poco le gambe vergognosa.

“Perché tu lo dici ai tuoi, quando vai a letto con qualcuno?”, gli rinfacciò acida, battendo stizzita il piede per terra. “Eh, Monsieur So-tutto-io?”

“Uhm … positivo, ma belle …”, sogghignò quegli sornione, arricciando malizioso le labbra.

 

*Flashback*

Sabato, pomeriggio inoltrato.

Tranquillo e finalmente a casa, M. Christophe stava leggendo il giornale in salotto, godendosi la meritata requie dopo una giornata di duro lavoro. Accanto a lui, Saga rammendava silenzioso i buchi sui calcagni dei calzini, lanciando ogni tanto celeri occhiate all’orologio sulla parete, in modo da avvertire in tempo il padre, quando sarebbe stata l’ora di andare a prendere Aiolia dagli allenamenti di rugby. Milo, dal canto suo, si era rintanato in camera sua a studiare per la verifica di lunedì.

Per quel che concerneva Kanon, egli si era fermato da venerdì pomeriggio a casa del suo p’tit ami, in qualità di premio per il 20/20 ottenuto nell’ultimo compito di statistica e probabilità.

Insomma, la calma vigeva sovrana in quella casa e nulla al mondo sarebbe riuscito a spodestarla dal suo trono di quiete.

Tranne forse, per il sopracitato figliol prodigo, il quale, sfondando a momenti la porta, si diresse saltellando prima verso il padre, poi verso Saga, baciandoli sulle guance e annunciando loro fiero: “Papa! Sasà! Oggi per la prima volta ho fatto sesso anale con ragazzo!”

Di certo vi aspetterete ora infarti, sputacchi in stile idrante di fantomatiche bevande, nevvero?

“Hai usato il preservativo?”, fu invece la più pragmatica risposta di M. Christophe: ovvio, dopo aver accettato l’omosessualità del figlio, doveva anche considerarne il lato più fisico.

“Ouais!”, annuì Kanon con vivacità. “Ogni volta uno nuovo!”

“Allora tutto a posto!”, concluse il padre, riconcentrandosi sull’articolo. Ma le sue orecchie rosse la dicevano lunga sul suo stato d’animo. Ancora non  ci poteva credere, che il suo ometto avesse già sperimentato les plaisirs de la chair; come non riusciva a spiegarsi il motivo per il quale tra i due gemelli, tutta la libido era andata a Kanon, mentre Saga, man mano che cresceva, stava virando preoccupantemente verso l’asessualità.

“C’est bien! Vado a dirlo a Milou!”, ma il ruggito di Saga glielo impedì, unito allo sgambetto di M. Christophe. Hé, approvato sì dal genitore, ma con la promessa che Kanon non avrebbe in alcun modo influenzato le scelte dei suoi fratelli, i più piccoli in particolare. E in casa Valavitis prendevano molto sul serio il detto “pacta sunt servanda”!

Quanto al resto, lasciate fare a Dio e a Natura.

E chi vivrà, vedrà.

*Flashback*

 

“Va là, mi stai prendendo in giro!”

Roteando gli occhi spazientito, Kanon si prodigò nell’ennesima delucidazione sul suo orientamento sessuale, elencandole tutte le sue conquiste in un attimo di disperazione. Più dura del legno mastello, oh!

“Dimmi la verità: perché non vuoi venire a letto con me? Non mi trovi carina? Sono brutta, vero?”, domandò infelice la ragazza, tirando su col naso.

“No, non è quello … sei graziosa, lo ammetto … ma hai troppo da una parte”, le spiegò il gemello, imitando le rotondità del seno sul suo petto piatto. “E poco o niente dall’altra!”, concluse, alludendo veloce all’inguine. “E queste rispettive abbondanze e carenze mi mettono, come dire, a disagio! Inoltre, non dovresti perdere la verginità tra le braccia di una sorta di Mr. Darcy, il quale ti stringerà forte al suo petto virile, coprendoti il viso di focosi e appassionati baci ed elevandoti al supremo delirio del tuo primo orgasmo, come voi donne solete sognare di continuo, provocando brutte crisi d’inferiorità  nei vostri imperfetti e tuttavia reali e in carne e ossa spasimanti? Eh? Perché non fai così? Diavolo d’una ragazzina infoiata, non comprendi che per colpa tua, adesso mi sto immaginando la scena esattamente in questo momento, eccitandomi di conseguenza?”

“Allora, significa che ti è venuta voglia!”, esclamò speranzosa la giovane, avvicinandosi al franco-greco.

“SI’ MA DI FOTTERE MR. DARCY, SALE BORDEL!!! NON TE!!!”, ruggì invece esasperato Kanon così forte, che  lei indietreggiò di numerosi passi per lo spavento, planando tra un paio di scorpionesche chele seminascoste nel buio della stanza. “Possibile che … Milou! No! Lasciala! Molla l’osso!”, mugghiò sconcertato alla vista del bicho soffocare a furia di baci la ragazza, la quale ora aveva gli occhi fuori dalle orbite sia per la mancanza di aria, che per la paura provata da sì ardito assalto.

“No! Fermo! Non mi puoi diventare etero, proprio adesso che ti ho scoperto essere omo! Non lo permetterò! Ho grandi progetti su di te! Fermooohhh!!!”, ringhiava il gemello minore, tentando di staccare lo scorpion ora decisamente lubrique dalla sua preda e ricevendo in cambio un doloroso morso alla mano e soffi degni del più agguerrito gatto randagio.

E se bicho si era intestardito a non lasciare la sua cena, anche Kanon era risoluto a non perdere il fratello ritrovato sulla stessa sponda della sessualità. Quindi, abbandonando la lotta, egli ripiegò su un’altra strategia, ricorrendo a quella che gli riusciva meglio: la manipolazione.

“Calmo, scorpioncino mio, calmo eh?”, disse il franco-greco al ragazzino, che indietreggiò soffiandogli minaccioso e trascinando seco la terrorizzava giovinetta. “Costei non è la persona, che vuoi tu!”, proseguì, avanzando di qualche passo, intanto che lo scorpion stringeva di più la sua prigione di carne sulla giovane. “Quella non è … non è … aspetta, come si chiamava quel tizio? Camille? No! Ah, ecco! Camus! Ecco, quella non è Camus!”, affermò con convinzione, indicando con lenti e precisi gesti la vittima.

Il  messaggio fu in qualche modo recepito dalla mente scombussolata del bicho, il quale rilassò infatti la stretta delle braccia, scrutando perplesso la figuretta tremante. “Esatto!”, infierì Kanon, approfittando dell’occasione propizia, per afferrare la mano di Milo e porla sul seno della ragazza, i cui occhi divennero più tondi di un occhio di  bue. “Le senti? Sono p-o-p-p-e! E Camus, in quanto maschio, non ce le ha! Quindi, fai il bravo bichito e vieni dal tuo dragon doudou!”

E allargò le braccia, accogliendovi al loro interno un piangente Milo, sotto lo sguardo al limite dello sconcerto della padrona della suite. “Dai, non piangere … lo so, è dura accettare il fatto, che non hai le fesses di Camus sottomano, ma ad ogni cosa si può porre rimedio … dai, no, non … mon p’tit Milou, ne pleure pas! Sei l’angelo della casa! Il tesoro di mamma dragon! La mia aracnide preferita! Eh? Ecco, bravo … via quelle lacrime … e però adesso non mi baciare, lubrique! Pussa via!”, gli intimò Kanon, dirottando altrove con una zampa il viso libertino. “Senti, te ne posso prendere uno?”, fu poi la sua domanda retorica alla ragazza, acchiappando infatti un lecca-lecca dal portadolci in cristallo e ficcandolo dritto in bocca allo scorpion, il quale, simile a quand’era infante, si mise a suggere avido il dolce, immaginando fosse chissà quale parte dell’anatomia del suo diletto.

Nel frattempo, Kanon gli aveva infilato una comoda vestaglia di seta prestatagli dalla fanciulla, sollevando poi il fratellino quasi avesse tre anni, invece che undici in più, sedendosi infine nel letto in un sonoro sbuffo.

“Ma che gli è successo?”, inquisì dopo un po’ la giovane, accomodandosi, seppur con cautela, vicino.

“E’ una storia lunga, complicata e cochon, meglio tacere!”, riassunse pratico il gemello minore, dondolando un poco il bicho, ora aggrappato possessivamente con una mano alla sua camicia e guardando di traverso l’intrusa. (La delusione era stata troppo dura digerire …) “In ogni modo, tutto questo vaudeville e intanto non ci siamo neanche presentati: piacere, sono Kanon!” e le porse la mano, stringendogliela piano. “E questo bicho o scorpion è Milo, il mio fratello minore. Di solito è più mansueto, ma vedi, stasera sono successe un po’ di cose … E il tuo?”

“Charlotte …”

“E i segni di rossetto sul volto? Sembravi un lebbroso, Nônon!”

“Uffa, mi aveva scambiato per un altro! Insomma, era tardi, il vino era eccellente, il cocktail pure; metti poi che fosse anche un po’ brilla  e voilà, les jeux sont faits!”, si giustificò Kanon dall’accusa gemellare. “Una volta chiarito il malinteso, abbiamo conversato amabilmente del più e del meno …”

Ergo tediare per un’ora buona il gemello minore con la solita sceneggiatura di Isso, Issa e O’Malamente (in quel caso al femminile) in un lungo, ininterrotto e sconclusionato monologo. In poche parole, Charlotte si era innamorata di un ragazzo, il quale all’inizio pareva filarla, ma ecco che risaltava fuori la sua ex, che tanto ex poi non era; a peggiorare le cose, il tizio non si sapeva decidere tra le due, facendo soffrire così la giovinetta come un cane, tanto che lei, presa da un raptus vendicativo …

“… hai deciso di perdere la verginità con questo Simon, che sottolineiamo hai appena conosciuto stasera, per darla sui corni a David?”, riassunse conciso Kanon, rifilando al bicho un secondo lecca-lecca.

Charlotte annuì. “Ho pensato, che forse non sarebbe stato corretto continuare a vivere nella speranza, che lui si accorgesse di me … e così … ecco, volevo provare qualcosa di diverso … enfin, la vita è una sola, tanto vale viverla al massimo non credi? Mi piacerebbe poter essere felice!”

“Non sei felice?”

“No …”

Silenzio.

 “Stai per morire?”

“No!”

“Non hai un tetto dove dormire di notte?”

“No!”

“Ti manca il cibo in tavola la sera?”

“No!”

“Ti hanno mai picchiata o molestata?”

“No!”

“E allora  non rompere, sei felice!”, concluse Kanon con assoluta certezza, sistemando Milo in una posizione più confortevole. “Uhm …  il mio passato forse non mi autorizzerebbe a parlarti in questo modo; un tempo, anch’io coltivavo il tuo stesso punto di vista, però …”, pensò il giovane e sorrise dolcemente, appoggiando il mento sulla testa del fratello. “Sai, ci sono dei punti oscuri nel tuo racconto. Ti dispiace, se te li delineassi?”

Charlotte scosse il capo in diniego, pregandolo al contrario di continuare.

“Vedi, il primo punto riguarda la scelta del tuo spulzellatore: insomma, pensi davvero di poter trovare la tua felicità – chiamiamola così, io direi invece appagamento fisico -  tra le braccia di un gigolò?” e sfregò significativamente l’indice sul pollice.

“Cosa?”, inquisì sconcertata la ragazza, squittendo quasi dalla sorpresa. “Un … un … come hai fatto a …?”

“A scoprirlo? Ma pousse, certa gentaglia la riconosco subito!”, rise Kanon, battendogli l’indice sulla punta del naso e fiero delle sue occulte capacità. “Secondo punto: sinceramente pensi di vendicarti di David andando a letto con un altro? Che intenzione avevi, poi? Di sventolargli le lenzuola sotto il naso?”

“Beh … pensavo che gli avrebbe dato fastidio … era … è tuttora la mia prima volta …”

“Umphf, quello glielo davi di sicuro, peccato che alla fine la danneggiata saresti stata tu! Per motivi oscuri, nel dna maschile è impiantato questo pallino fisso della verginità e vi è come una smania nei possessori di tali geni di deflorare il numero più possibile di vergini! Di marcare il territorio! E quelle più “esperte”, ecco che vengono tacciate come donnine facili! Appunto perché non ti avrebbe avuta per primo, ti avrebbe poi disprezzata, considerandoti una salope e trattandoti di conseguenza!”, spiegò il gemello minore con calma.

“Non posso credere, che sia così gretto …”

“La mente maschile, arrivando all’osso, è gretta. Fidati! Non che voi donne siate meglio … nessuno lo è …”, la rassicurò il ragazzo, osservandola seriamente. Sospirò. “Terzo e ultimo punto: mi hai detto, che la vita è una è che va vissuta al massimo. Ebbene, avrai sufficiente cinismo per farlo?”

Charlotte sbatté confusa le palpebre: “Cinismo?”

“Già, cinismo. Credi che tutto ti sia dato? Ogni cosa ha un suo prezzo, non lo dimenticare mai,  niente cade giù dal cielo! Soldi, reputazione, salute, cuore, amicizie, amori … saprai mettere tutto all’asta per meri secondi di divertimento e di piacere? Avrai abbastanza indifferenza dentro di te da non guardare più  in faccia a nessuno, infischiandotene di tutto e tutti e scrollandoti di loro come dell’acqua sporca? Per rendere migliore la tua vita, a quanti renderai amara la loro? Sopra  a quanti calpesterai? Uhm? Ci hai mai pensato? Sicuro, mi risponderai: “Ma devo pur fare esperienza nella vita, no?” E io ti risponderò, che il concetto “fare esperienza” è assai logoro e abusato, messo in bocca a persone che si danno grandi arie da gente vissuta, quando in realtà una monaca di clausura ne saprebbe di più. Credimi, è così facile rimanerne scottati e una volta successo, niente e più come prima, alla faccia dell’esperienza! E’ una stigma perpetua!  Anche nel cercare esperienze ci vuole testa! Les vapeurs mélancholiques et romantiques, lasciali agli altri. Testa! Testa! Testa, in ogni cosa! Tanto facilmente puoi godere della tua vita, quanto facilmente la puoi compromettere! Il demonio si nasconde sempre con un volto d’angelo e il mio bichito stasera ne ha avuto la conferma!”, dichiarò Kanon con passione, posando la mano sulla spalla della ragazza e scuotendola lievemente. Deglutì piano, prendendo di nuovo fiato:

“A volte, non capiamo che non è la felicità quel che fa sì, che la nostra vita venga considerata ben spesa. No. Come non capiamo che noi tendiamo a non anelare alla felicità, bensì al piacere!”, lo sguardo del franco-greco si era velato un poco, fissando come ipnotizzato i riflessi colorati dei fuochi d’artificio danzare sulle pareti della camera. “Mi ci sono volute tante delusioni, tanti abbagli per giungere alla conclusione che è la serenità il vero minimo comune denominatore della vita; nient’altro. Tutto il resto è caduca vanità.”

“Ma qual è il segreto?”

“Il segreto? Non aspettarti nulla: la felicità è una ricompensa inattesa e improvvisa, che giunge a chi non l’ha mai ricercata!  Siamo in perpetuo viaggio alla ricerca di questa baldracca senza renderci conto, che più la cerchiamo più ci allontaniamo da lei: infatti, la felicità è già qui, è nelle cose che abbiamo, tra le persone che amiamo e che ci amano a loro turno; peccato che siamo troppo accecati dall’egoismo e dall’invidia verso gli altri per poterne gioire appieno!”

“Non equivarrebbe, però, ad accontentarsi?”

“Ecco, lo vedi? L’egoismo! Accontentarsi! Come se fosse qualcosa di cui vergognarsi! Da disprezzare! E sentiamo, chi sei tu per pretendere qualcosa di meglio rispetto agli altri? Non metto in dubbio, che sia lecito e onesto far carriera nella vita, crearsi una reputazione, una famiglia … però, perché vuoi sempre di più? Quando poi, si scopre che il troppo desiderare porta all’aridezza dell’animo, alla superbia, all’invidia. Un “Io sono meglio degli altri!”, mascherato da un’ipocrita  e conveniente “Perché non posso avere le stesse cose degli altri?” E credimi, non sono certo questi i sentimenti, che ti fanno alla fine onore.”

Charlotte abbassò il capo vergognosa, fissando a disagio la punta delle sue dita smaltate di rosso, provando un’improvvisa repulsione per il ridicolo abbigliamento, nel quale aveva imprigionato il suo corpo, senza contare l’indecente atteggiamento di poco fa. Quanto tutto ciò ora le sembrava sciocco e banale: la delusione per l’amore non corrisposto – in parte – di David; il suo desiderio di vendetta; la tristezza di non poter mai essere considerata rispetto ai suoi fratelli …  vuoti problemi senza senso. Si era lasciata troppo presto lusingare dallo sconforto e dalla cecità mentale.

Dal canto suo, Kanon si chiedeva nel frattempo preoccupato, se non stesse invecchiando, ché lui per primo si era stupito di simile discorso, di certo più adatto ad essere formulato dal Moralista. Mah, misteri.

“Che cosa dovrei fare?”

“Non lo so, non sono te. Se proprio vuoi un consiglio, che so, potresti lasciar perdere David e focalizzarti su di un altro; potresti diventare lesbica; potresti dire a quel idiot di scegliere definitivamente tra te e l’altra salope; potresti non dire nulla e perseverare … pensa, che questo qui” e indicò Milo “corre dietro ad uno da quando aveva undici anni e solo qualche istante fa, ho scoperto essere un maschio dal nome bizzarro dopo tre anni di silenzio e mistero! Se non è questa perseveranza, dimmi un po’ tu!”

Charlotte sorrise a fior di labbra, malgrado lo sforzo di non piangere. “E se non avessi un piano di riserva? Se non avessi alcuna strategia per la mia vita?”

“A volte, bisogna imporsi di vivere. La strategia arriverà di conseguenza. E Iddio sa, quanto corrisponda al vero!”, commentò Kanon, incupendosi e spiando di sottecchi Milo.

Poi, abbozzando un sorriso, elargì un piccolo buffetto d’incoraggiamento alla ragazzina.

“Era un po’ depressa … sai, le spine dell’amore …”, sospirò il gemello minore, afferrando la mano di Rhada e stringendola forte, gesto che il suo meco ricambiò con trasporto.

Annuimmo in silenzio.

“Comunque”, riprese più frizzante il giovane, senza tuttavia rilasciare la sua prigioniera, “ci congedammo da Charlotte, augurandole ogni bene …”

“E tu che ci fai qui?”, fu immediatamente aggredito Kanon – col bicho in spalla – non appena socchiuse la porta della suite di Charlotte. Indispettito da simile tono di voce altero, il ragazzo si voltò lentamente, arcuando maligno il sopracciglio nel riconoscere l’Isso del doloroso dramma adolescenziale.

“Sei David, vero?”, rispose invece il gemello, sorridendo ambiguo. E dinanzi al cenno affermativo dell’interessato, proseguì sornione: “Belli i fuochi d’artificio, eh? Dalla camera di Lotte si vedeva tutto! Beh, anche se confesso, che eravamo più impegnati  nel conversare amabilmente, che ammirare i fuochi. In ogni modo, buon proseguimento di serata!”

“Che le hai fatto, salaud?”, lo trattenne David per il braccio, costringendo uno sbuffante Kanon a voltarsi.

“Uff! Che le ho fatto? Bordel, non so come diavolo Lotte riesca a trovarti decente! Fai schifo pure a me e sono gay!”, pensò il gemello, ribattendo invece: “Moi? Rien du tout! Ma un certo Simon – giusto per non fare nomi – era lì, lì per …” e si cacciò in bocca l’indice, espellendolo poco dopo in un sonoro pop! E per chi non fosse avvezzo al linguaggio in codice dei maschi, basterà alludere alla parola “galipette d’amour” per formulare una vaga idea del recondito significato di tale gesto, senza scendere nei particolari.

“Vedi a che livelli l’ha portata la disperazione?”, gongolò perfido Kanon, allontanandosi per il corridoio e sogghignando compiaciuto tra sé e sé, in particolar modo quando vide David fiondarsi apprensivo nella suite della ragazza. “Tzé, caro il mio Werther, hai avuto fortuna che la tua Lotte fosse una femmina, ché in caso contrario, altro che il predicozzo … uhm …”, rifletté malignamente il giovane, sospirando di intimo sollievo per aver ritrovato il suo lato bastardo.

Essere buoni era davvero una faticaccia e per Kanon perfino controproducente: una volta caduto nel vizio, forse non sarebbe più riuscito ad uscirne.  Magari diventava pure santo.

E al solo pensiero, il gemello rabbrividì di paura e di schifo.

“Quand’ecco, che ricevo un sms da parte di Julien, il quale mi domandava se avessi voglia di recarmi nella sua suite a trascorrere il resto della serata con lui …”

Roteammo gli occhi: conoscendo l’animo libertino del gemello minore, non era difficile presumere a quale genere di attività si fossero dedicati i due. E tuttavia, restava il fattore Milo; insomma, quei due non avevamo mica avuto la faccia tosta né di farlo assistere alla galipette, né tanto meno di coinvolgerlo, vero?

O forse sì?

“Ovviamente, ho accettato affinché il ragazzo mi imprestasse degli abiti per Milou, solo che qualcuno di mia conoscenza si è messo in mezzo, subissandomi di messaggi e chiamate perse!”

“Erano quasi le tre del mattino!”, si difese giustamente Saga, tamburellando spazientito le dita sul tavolo. “Ero in ansia per voi due!”

Schioccando la lingua, Kanon precisò maligno: “Già, la duecentocinquantesima chiamata era a quell’ora …”

“Les gars, on a un gros problème!”, fu la prima cosa che il gemello minore pronunciò, quando Julien gli aprì la porta della sua suite. Il suo proprietario non ebbe tempo di indagare oltre sulla natura di simile inconveniente, che Milo già gli era saltato addosso come  una bertuccia, sbaciucchiandolo impunemente e non senza essersi prima accertato, che la sua vittima fosse di sesso maschile con una rapida controllatina al petto.

“Torna qua, te!”, berciò Kanon, pigliando il bicho per l’elastico dei boxer e tirandolo su di forza da uno sfiatato Julien. “E mettiti in fila: sono arrivato prima io, capito? E non ... mmmnnhhfffghhhh … BASTA, BON SANG!!!”, imprecò, sculacciando feroce le fesses dello scorpion, dopo che questi ebbe l’ardire di baciarlo per la seconda volta. “Quante. Volte. Te. Lo. Devo. Dire. Che. Non. Sono. Quel. Tizio?”

“Quale tiziooooohhhuuuggghhhh!?”, s’informò Abel, appena comparso dalla camera da letto e subito messo a tacere dalla bocca di Milo, sgusciato via dalle zampe del gemello peggio di un’anguilla e partito senza indugi all’attacco, sentendo infatti un nuovo odore di carne fresca.

“Forse sarebbe meglio portarlo in bagno … magari con dell’acqua fredda …”, propose Julien, tirando il ragazzino-patella per una gamba, mentre Kanon si adoperava con l’altra. “Maledizione, è attaccato! Ma cos’ha? La libido di venti stalloni in corpo?”

“Chiedilo a quel coglione di tuo fratello!”, ringhiò il franco-greco, facendo perno col piede in modo da poter elargire lo strattone di grazia e liberare Abel dalle chele dello scorpion lubrique, il quale venne trasportato di peso nella sala bagno, gettato di malagrazia dentro la Jacuzzi  e lì legato alle maniglie per entrare nella vasca con i lacci degli accappatoi. Infine, come tocco di cubismo, Kanon pigliò il telefono della doccia poco distante da lì, innaffiando il fratellino con l’acqua gelida dritto in faccia. Nel frattempo, Abel copriva le orecchie di Julien con le sue mani, onde impedirgli d’intendere la catena di improperi e di maledizioni rivolte al franco-greco, una più sconcia dell’altra.

“Sul serio Kanon, che gli è successo?”, inquisì il maggiore dei fratelli Solo, osservando preoccupato il modo in cui Milo si dimenava dalla tortura inflittagli, lanciando gorgoglii e ringhi affatto umani.

“Oh niente di che: vostro fratello Aphrodite o Hugo o Aphrugo gli ha somministrato a tradimento un bel biberon di Armagnac e Ghb!”, tagliò corto il gemello minore, scioccando seriamente gli altri due giovani, che balbettarono disorientati e increduli:

“Il … il Ghb …?”

“Brutto bastardo … questa ce la paga, oh que oui!!!”

“Esatto, quello!”, confermò il ragazzo, spruzzando con maggior cattiveria l’acqua gelata su Milo. “Che figata, eh? Sissignore, il Ghb! O Rufis o droga dello stupro, chiamatelo come volete! Quella droga incolore, inodore e insapore che leva ogni freno inibitorio a chi l’assume, acciocché il delinquente di turno possa godere della sua presenza! E osservate un po’ ora come sia mio fratello senza il detto freno: un cervo in calore, bon sang! Merde, aver saputo in anticipo gli effetti che il Rufis gli avrebbe procurato, guardate, avrei lasciato volentieri il bicho con Aphrugo …”, sbuffò, abbassando leggermente il telefono non per pietà della pelle ormai quasi bluastra del fratellino, bensì in quanto gli doleva il braccio a causa della posizione mantenuta statica troppo a lungo.

“Di sicuro, non sarebbe stato Milo, quello ad uscire “arricchito” dall’esperienza …”, concordò Abel, incrociando le braccia e guardando dubbioso lo stato ancora fresco, pimpante e libidinoso del ragazzino legato all’Esorcista, solo in una Jacuzzi. “E’ proprio una bestia …”

“Non è che stia funzionando, però …”, si aggiunse Julien, sedendosi al bordo della vasca, subito puntato dallo sguardo lubrique del bicho, che fu prontamente distratto da una rapida doccia d’acqua fredda da parte di Kanon. “Non si sta calmando affatto, al contrario, diventa sempre più infoiato …” e aveva ragione: malgrado il gelo dell’acqua e il furioso battito di denti, le guance di Milo si stavano dipingendo di un feroce cremisi e gli occhi fuori dalle orbite per l’eccitazione non persuadevano di certo i tre ragazzi a sciogliere i nodi alle sue chele.

“E quel che è peggio”, continuò il gemello minore, arrotolandosi più in alto la manica bagnata “è che in questo esatto momento, Milou ci sta scambiando tutti per un tal Camus, dietro il quale sta sbavando da tre anni! Capite? Ogni bipede maschio è per lui quel tizio! Povero caro! Dev’essere molto doloroso …”

“Camus? Un suo compagno di scuola?”

“Ma che ne so io, chi sia costui! L’unico che conosco – via studio – è Albert Camus! Sarà un senhal, forse … un nickname … insomma, onestamente, chi sarebbe così schizzato da chiamare suo figlio “Camus”? Vade retro, arrapato!”, sbraitò Kanon altamente scocciato, puntando dritto in faccia il telefono contro Milo, rigettandolo indietro nella vasca. Infatti, all’udire il nome tabù, lo scorpion si era pericolosamente sciolto di uno dei due lacci, che lo tenevano legato. “In ogni modo, chiunque egli sia, temo che il mio povero bichito si sia innamorato di un frigido, calcolatore arrivista dannatamente stronzo, che come una cortigiana si nega solo per alzare il suo prezzo! Se lo becco, giuro che lo schiappo, altro che pro!”, andò in paranoia il giovane, come ogni fratello maggiore che si rispetti.

“… e abbiamo spettegolato un po’, giocato con la play … insomma, le solite sciocchezzuole tra amici …”

“E su che cosa avete cicalato?”, domandai curioso.

“Uhm, vediamo …”

“Camuuuuuuss, ti amooooooo!!! Ti voglio trombareeeeeee!!! Quelle tue fesses di madreperla saranno mieeee!!! Ti voglio possedere fino a trasformarti in una femminaaaaaaa!!! Ti voglio sposareeeeeeeeee!!! E avremo tre figlie: Camusina, Mila e Camila! Avrò le tue fesses prima o poi stanne certoooooo!!! È inutile, che me le nascondiiiii!!! Anf … anf … anf …”, ansimava eccitato il bicho, in estasi solo all’idea di attuare dal vivo le sue fantasie più recondite, portate sconsideratamente a galla dal Rufis e proclamate davanti ai tre attoniti spettatori.  E meno male, che doveva essere lui la vittima di turno!

“Beh, non è che Milo languisca proprio d’amore …”, arcuò scettico Julien il sopracciglio, specie quando il bicho riprese ad elencare il suo personale Kamasutra in serbo per il diletto, una sequela di pratiche al limite del sadomaso, che avrebbe fatto apparire lo stesso loro coniatore, il marchese de Sade, un’inesperta educanda alle prime armi. “Piuttosto, se ha intenzione di sottoporlo a tutto questo vaudeville lubrique, io avrei più a cuore la sorte di quel poverino di Camus … wow! Quella sì, che era davvero birichina …”, commentò poi malizioso l’ultima posizione, mordendosi un’unghia.

“Mouais …”, concordò Kanon, prendendo celere degli appunti nel frattempo. “Potremmo quasi, quasi pubblicare un manuale con tutte queste informazioni …”, e sogghignò malefico.

“Non saranno un po’ troppo esagerate?”, disse invece Abel, seppure anch’egli rivelasse un certo crescente interesse in quella sorta di porno on live.

Subito il gemello minore lo rassicurò: “Nah, il sadomaso è la controindicazione dell’astinenza! Almeno, così è sempre stato in famiglia …”

“Je vois …”, annuì distrattamente il ragazzo, ritornando alla sua contemplazione del bicho fradicio, legato e assatanato. “Quanto tempo dovrebbero durare gli effetti?”

Scrollando le spalle, il franco-greco sospirò incerto: “Non saprei dirtelo. Ignoro, quando ha assunto il Rufis e in che quantità! Potrebbe andare avanti così per ore!”

“Allora, siamo proprio dans la merde jusqu’au cou!”, appoggiò rassegnato Julien il mento sul palmo. “Perché non so voi, ma tutto questo parlare di sesso …” e lasciò cadere a metà la frase allusivamente.

Invito immediatamente colto dalle orecchie del gemello, il quale ammise piano: “In effetti … quasi … quasi …”

“E ma lui? Mica possiamo lasciarlo qui da solo! Ché ci scappa via e ci violenta tutti i ragazzi dell’hotel!”

“Cosa pretendi, dunque? Invitarlo al rodéo de jambes en l’air?”, protestò Kanon, chetandosi dinanzi all’espressione “Pourquoi pas?” di Abel. Ed in effetti, simile idea era passata anche per la sua mente, solo che in qualità di fratello dell’interessato, il gemello ancora possedeva qualche timida remora per le dinamiche del LV-Day (Lose-Virginity Day) di Milo: per quanto Kanon fosse ormai più che smaliziato, egli non era così snaturato da desiderare che la prima volta del suo adorato fratellino minore arrivasse in sì particolari circostanze. Però, era anche vero, che bisognava pur incominciare le danze!

“Ouais, si potrebbe fare … ma vedi, Milou non è che abbia ricevuto un buon training su certe cose …”

“Certo, ma come disse Tony Curtis: “Fucking is like fencing (scherma, ndr.): you can learn how to fence, you can learn how to fuck!” Se non impara da subito, come soddisferà il suo Camus?”, fu la logica spiegazione del giovane.

“Questo è vero!”, fu d’accordo Kanon, seppure rispondendo con qualche minuto di ritardo.

“Per non menzionare il pericolo, che potrebbe ancora diventare etero! O peggio, bisessuale!”, infierì Julien, causando un pericoloso attorcigliamento di stomaco al gemello minore.

“No, quello no!”, gridò terrorizzato, portandosi le mani ai capelli. “Meglio etero che bi! Gli indecisi non mi sono mai piaciuti!”

Silenzio pre-dichiarazione di guerra.

“Et bien? Che si fa?”, domandò infine Abel, ponendo impaziente le mani ai fianchi.

“Andata!”, concluse il gemello minore, sancendo il patto scellerato.

“Cosa?”

“La sua verginità! Però, le sue fesses non si toccano!”, volle subito puntualizzare il ragazzo.

“E perché?”

“Perché dovranno rimanere pure e vergini fino al giorno, in cui Milo – nel pieno delle sue facoltà mentali – deciderà di perderla con l’uomo che ama!”, congiunse Kanon le mani tra loro e guardando falso sognante il soffitto. Poi, il suo viso ritornò serio, spiegando pragmatico: “Ovvio, no? Perché nel suo stato sarebbe poco corretto! Enfin, un conto è il davanti - con il quale sono sicuro sia in confidenza -  ma il dietro? E’ una faccenda più intima …”

“D’accordo: verge oui, fesses non!”, riassunse Abel, recandosi nella stanza, giusto per prendersi un po’ in anticipo con i preparativi.

“Sentito, Milo? Adesso ti portiamo da Camus!”, giubilò contento Julien, afferrandogli entusiasta la mano.

E l’inquietante sorriso a trentadue denti che l’altro gli riservò,  fu la conferma dell’intima delizia del bicho a tale novità.

“Una volta terminato, quindi, una decina di incontri su “Mortal Combact”, ci siamo messi a giocare a Twister!”

“A Twister?”, esclamammo in coro stupefatti: tra tutte le cose, che avessero potuto combinare, quella era davvero la più bizzarra.

“Oui! Oui! Cosa volevate, che giocassimo forse a Mamma Casetta?”

“D’accordo, ma ancora non mi hai spiegato il motivo per il quale Milou era ancora in mutande e vestaglia, quando ritornaste a casa!”, insistette Saga, guadagnandosi un bel rimprovero da parte del suo indignato doppio.

“Perché tu avesti la brillante idea di telefonarci proprio nel momento in cui stavo per chiedergli dei vestiti!”

“A Julien?”

“Ouais!”

“Non c’era Abel?”

“Noh-hoo!”

“Solo voi tre?”

“Ouih-hiii!”

Sollevato, il gemello maggiore respirò a lungo, posandosi una mano al cuore: “Beh, almeno questo mi consola …”

Risvegliarsi equivalse a Milo al riemergere da una prolungata apnea. Mostruosa emicrania a parte, percepì una fastidiosa rigidezza in tutti i muscoli del suo corpo, la stessa che provava dopo educazione fisica in quelle occasioni, che non aveva dedicato abbastanza tempo agli esercizi di riscaldamento. In particolar modo, erano quelli della schiena a dolergli parecchio, quasi l’avessero sottoposto alla strappata medievale.

Puntellandosi alla bell’e meglio sui gomiti, la testa ancora che gli girava un poco, il ragazzino si guardò attentamente intorno, analizzando celere le caratteristiche dell’ambiente, concludendo angustiato che non si trattava della sua stanzetta nella casa della vedova Blondel.  E il suo spleen aumentò, nell’appurare di non essere non solo nel suo letto, bensì pure nudo e, come la sbirciatina sotto le lenzuola ne diede la conferma, con un condom sulla sua verge e il ventre macchiato di una sostanza vischiosa a lui molto nota. (Les joies de l’onanisme docent.)

“Ehilà! Il nostro bicho si è svegliato! Allora, come ti senti?”

Rapido, Milo si voltò verso un Kanon in accappatoio, il quale ritornava dal bagno, asciugandosi sornione i capelli. E che si diresse al tavolino,  da dove il fratello maggiore estrasse la bottiglia di champagne dal secchiello di ghiaccio, versando il liquido dorato in due fluttini puliti, dei quali uno ne porse al crucciato minore. Fulminandolo con odio, il ragazzino sibilò, stringendo con forza il bicchiere: “Che razza di domanda idiota è mai questa? Come mi sento? E secondo te? Spulzellato, ecco come mi sento! Era la mia prima volta, bastardo!”

“Embé? Esprimi un desiderio!”, replicò flemmatico il gemello minore, toccando lievemente il vetro del fluttino dello scorpion col bordo del suo. “Santé!”, brindò, vuotandolo in un sol sorso. Imbronciato, Milo lo imitò, seppure dividendo il processo in due round.

“Che merde!”, commentò infine, porgendo il fluttino al fratello per un secondo giro; favore che quegli compì con piacere. “Che merde …” e di nuovo, ne ingollò il contenuto questa volta in un sol sorso.

“Suicidarti con lo champagne non farà tornare le cose come prima …” , lo rassicurò Kanon, sorridendo divertito dinanzi la prima reazione post-coitale del fratellino: troppo mimichoupi! Ah, les premières joies de la galipette! “Dai, adesso non dirmi che anche tu sei del partito “La prima volta sarà speciale, dolce e romantica col mio unico e fantastico principe azzurro?” No, perché ti ripudio come fratello! Suvvia, Milou, siamo maschi –gay – ma pur sempre maschi! E citando Zafon: “L’uomo è l’anello mancante tra il maiale e il pirata!”; certe  niaiseries son affare delle ragazze … o delle tapettes!” e il suo tono divenne improvvisamente duro, scolandosi nel frattempo il terzo fluttino di champagne.

“Non è quello! Ciò che mi fa arrabbiare è che ho perso la verginità in un’orgia a quattro e non mi ricordo un fico secco! Enfin, non vorrei aver fatto o detto qualcosa …” e nemmeno lui seppe come terminare la frase, tanto l’orribile dubbio di una figuraccia lo attanagliava.

“Per parlare hai parlato, un po’ troppo, però ci hai ispirato qualche posizionuccia niente male … Ah, per la cronaca: non preoccuparti per le tue fesses, le ho supervisionate io!”, lo anticipò Kanon, notando la personale ispezione avviata dal ragazzino, circa il bilancio dei feriti e dei caduti. “Sai, da quel che ho visto stanotte, incomincio poi ad essere un poco geloso di questo Camus: per essere un principiante, bon sang, eri più assatanato di uno stallone in calore!”

“E tu come hai saputo il suo nome?!?”, si bloccò lo scorpion d’un colpo, arrossendo furiosamente.

“Te l’ho già detto: ti sei dilungato più di un predicatore protestante, sei moooooolto vocale … Allora! È lui il fortunato?”, si gettò euforico  in avanti il gemello minore, imprigionando Milo contro la parete. “Avanti, racconta! Dai, che frrrrremo di conoscere il mio futuro cognato!”

“Stammi lontano, corruttore del mos maiorum!”, lo spinse via il bicho con un gesto deciso, allontanandosi da lui per sicurezza. “Piuttosto: esattamente, cos’è successo? Sul serio non ricordo niente!”

“Mi pare giusto: al posto dell’ammazzacaffè avevi ciucciato il Rufis!”, si arrese momentaneamente il gemello minore, sedendosi un poco deluso sul letto a gambe incrociate.

A sentir nominare il nome della droga, lo scorpion impallidì fino allo slavato. Poi, i suoi occhi si spalancarono terrorizzati: “Aphrodite! Seigneur, non dirmi che …”

“Tranquillo, l’ho sistemato io!” riassunse e, neanche discendesse da una tribù pellirossa, Kanon gli mostrò orgoglioso lo scalpo finto del biondino effeminato. “Dopodiché, abbiamo girovagato un pochino di qua e di là, e siamo capitati – riassumendo - in questa suite! Ma via con questi discorsi venali: parlami invece di Camus! Che tipo è? Carino? Biondo? Moro? Castano? Rosso? È più vecchio o più giovane di te? Avanti, confessa!”, lo tampinò il gemello, ora più agguerrito che mai.

“Confessa cosa? Non mi guardare con quella faccia lì, ché io non so nulla!”,  fece Milo per alzarsi, sennonché una decisa zampata lo tenne ben ancorato al materasso.

“Certo, certo!”, lo canzonò Kanon, sistemandosi a cavalcioni sopra di lui e impedendogli così ogni possibile via di fuga. “Avevi detto solo un nome a caso … come no … mmmnnnhh … Camuuuusss … aaahhhh … mmmmnnnggghh …”, lo imitò con crudele perfezione, provocando un feroce cremisi sulle guance del fratellino.

“Vecchia pettegola!”, imprecò il bicho, cercando di scivolare via da quella massa corporea decisamente più pesante della sua.

Elargendogli materni buffetti su ambedue le guance, il fratello maggiore confermò mielosamente:“Oui, lo sai che sono un dannato curioso! Soprattutto se il mio Miloumimì si è innamorato!” e rischiò di perdere un dito da un morso dell’aracnide offesa da simile soprannome, usato dalla madre solo fino al compimento dei tre anni, ma sufficientemente a lungo da essere immagazzinato dalla mente ognora sfottitrice del gemello minore.

“Uffa e va bene: è una sorta di pulcino rosso con le lentiggini sul naso e dagli occhi enormi, che se ne sta tutto il tempo nell’angolo più remoto del cortile a leggere libri più grandi di lui, senza aprire mai bocca. Una volta ho tentato di parlargli e sai cosa ha fatto? Mi ha guardato, come se avessi avuto intenzione di violentarlo e poi è scappato via!”, capitolò Milo esasperato, battendo i pugni frustrato sul letto. Ridacchiando malizioso, Kanon commentò:

“Dopo aver visto la tua performance, potrei pure dargli ragione!”

Invece, il ragazzino replicò serissimo: “Gli faccio così tanta paura? O è lui che mi snobba?” 

“Oppure sei così cotto di lui, che trasudi libido da ogni poro, soffocandolo con la tua aura scorpionesca. Se è uno del nostro partito, ti avrà –a livello inconscio – sicuramente riconosciuto”, fece spallucce il gemello minore, sciogliendo inconsapevolmente il nodo della questione. “Ma adesso non ci pensare, hai tutto il lycée per elaborare una strategia! Ora come ora, ci sono altri issues più importanti …”

“Tipo?”

Lentamente, Kanon gli mostrò lo schermo del cellulare: 250 chiamate perse. Numero: Sasà.

“Fila a ripulirti e mi raccomando: con Sasà silenzio di tomba! Altrimenti, quello è capacissimo di spedirci  entrambi in un convento di Gesuiti!”  e gli tese la mano, aiutando il bicho ad uscire dal letto, il quale si massaggiò perplesso la sua schiena dolorante. “Rilassati, è solo un po’ di acido lattico: con la pratica, non dovresti più avere simili problemi. Hé, te l’avevo detto, bicho di poca fede, che il sesso è la ginnastica della vita!”

“Se lo dici tu …”, commentò atono Milo, nascondendosi nel bagno con la stessa euforia di uno zombie in letargo.

“E con noi due - a momenti scambiati per degli SDF (Sans Domicile Fixe, i senzatetto, ndr.) da come eravamo vestiti - che corriamo dall’Hotel alla maison della vedova, affinché a Sua Santità non venisse il mal di pancia, in questo modo finisce la nostra storia!”, terminò Kanon,  quasi inchinandosi per ricevere gli applausi.

Prima, però, dovette attendere di sciogliere le ultime perplessità del maggiore. “Riassumendo: ti sei chiarito con Aphrodite; hai nuotato e cicalato nella Spa con Charlotte e Milo e il resto della nottata lo hai passato con Julien a giocare con la Playstation?”

“Esatto!”, annuirono i due protagonisti di quell’avventura apparentemente tranquilla; non pareva, infatti, chissà quanto scabrosa da come in realtà me la fossi immaginata.

Riassumendo: Kanon aveva fatto a cazzotti con Aphrodite; redento l’anima a una ragazzina in piena crisi da triangolo amoroso e il resto della nottata lo aveva passato con Milo, Julien e Abel in una sfrenata orgia a quattro, giusto per non smentirsi.

“Beh, se questo è quel che mi racconti, allora devo sul serio chiederti scusa per non aver avuto fiducia in te …”, eseguì Saga il suo contrito mea culpa, subito consolato dal gemello, che gli passò fraterno un braccio attorno alle spalle:

“Non importa, Sasà! Lo so che dubiti spesso del sottoscritto, ma io continuerò lo stesso a volerti bene!” e giurai di aver visto il minore incrociare le dita dietro la schiena.

In ogni modo, ancora il primogenito non pareva del tutto convinto: “Un’ultima cosa: non hai notato anche tu, che dopo quella notte Milou ha incominciato a comportarsi stranamente?”

“Moi?”, fece perplesso il diretto interessato, alzando gnorri il sopracciglio. “E che avrei combinato?”

Saga aprì la bocca per rispondere, quand’ecco che lo squillo del cellulare lo interruppe. Rapido, il giovane frugò nelle sue tasche, reperendolo e premendo il tasto per leggere l’sms ricevuto. Allungando il collo, curioso come gli altri del resto, riuscii a rubare una sbirciatina:

Iou – Iou portable: Kovu a Zwillinge: i padrini sono sul Golgota, procedere con la danza di Selkis! ^^

Gueh? Padrini? Golgota? Danza di Selkis? Ma che diavolo …? Cosa intendeva Aiolia (che per la cronaca dove s’era nascosto fino adesso?) con quel messaggio? Il quale sembrava essere stato recepito invece benissimo dai gemelli e da Rhada; al contrario, Milo possedeva la stessa mia espressione disorientata e la cosa non preannunciava nulla di buono: infatti, i fratelli Valavitis erano sempre stati molto uniti e affiatati tra di loro, quindi escludere da un loro machiavellico piano un membro significava davvero brutti guai all’orizzonte.

Lentamente, Saga rimise in tasca il telefonino, alzandosi con la stessa flemma. “Messieurs”, esordì solenne, inclinando un poco il capo. “C’est l’heure!” e i due fiancés terribles  annuirono gravemente.

Prima ancora che potessi domandarmi che accidenti stesse accadendo, due forti braccia mi acchiapparono per la vita, accomodandomi su di una spalla con facilità, quasi fossi una bambola di pezza. A testa in giù, scorsi a malapena il resto dello scenario, ovvero Saga costretto a scaldare la Bibbia di Madame  Dolène sulla testa di Milo, acciocché Kanon fosse capace a trasportarlo alla stessa maniera, senza che il bicho mordesse e graffiasse, dimostrando così tutta la sua disapprovazione per simile trattamento.

E sempre con la medesima Bibbia in mano, il gemello maggiore indicò un punto vago fuori dalla porta, dichiarando in posa plastica: “A la chapelle! Alla cappella!!!”

“Cosa?!? Mettimi giù, canard laqué!”, imprecò Milo, tirando i capelli del gemello minore e battendogli i pugni sulla schiena. Invano: in nemmeno tre balzi eravamo già al piano inferiore e la sopracitata cappella non tardò a comparire. Solo allora, ci fu permesso di toccare nuovamente il pavimento coi nostri piedi, per essere subito dopo spinti di malagrazia dentro l’ambiente sacro, trovandovi con mia somma sorpresa uno sfiatato e raggiante Aiolia in compagnia dei più composti Shura e Shaka, sebbene non mi fossero sfuggiti dei sospetti sorrisetti compiaciuti.

Che. Cavolo. Stava. Succedendo?!?

“Momus!”, mi vennero incontro l’indiano e il lionceau, abbracciandomi forte, quasi non mi avessero visto per mesi, invece che poche ore fa. “Sono così felice per te!”, dichiarò commosso Shaka, stritolandomi di nuovo, nel frattempo che la mia vista si appannava di un velo sottile e bianco, che appurai, tastandomi terrorizzato la testa, essere proprio un velo da sposa.

“Quanto sei carino!”, esclamò Aiolia con sincerità, asciugandosi una piccola lacrima all’angolo dell’occhio. Aspetta! Che il velo fosse appartenuto alla loro madre? Era dunque ritornato nella vecchia casa per raccogliere il materiale necessario?  “Adesso però basta con queste sciocchezze, abbiamo un matrimonio da celebrare!”, riprese il suo tono usuale, cedendomi il piccolo bouquet di fiori  - preparato senza dubbio dalla madre fioraia di Shura.  

“Gueh?!?”, soffiai al limite dello sconcerto, sentendomi d’un tratto molto incerto sulle gambe ormai en coton. In particolar modo, quando vidi i due gemelli avvicinarmisi, Kanon con un fazzoletto in mano e Saga conciato come un sacerdote.

“E’ il tuo giorno fortunato, pinguino!”, esordì perentorio il minore, soffiandosi il naso. “Oggi diventerai parte integrante e inscindibile della nostra famiglia: d’ora in avanti, sarai la moglie di nostro fratello! E bada che noi non contempliamo il divorzio …”

“Già”, concordò Saga, incrociando le braccia al petto. “Se dovessi cornificare o rendere infelice Milou, sappi che ti ammazzerò e lo farò sembrare un incidente!”

Meno male, che c’era dietro di me c’era Aiolia a sostenermi, ché temetti per un attimo di aver rischiato di svenire.  Sapevo che non dovevo credere ad ogni parola di quegli svitati, eppure il tono con il quale recitavano le loro follie era così convincente, che il dubbio mi assaliva ogni volta.

Ed infatti, Saga si sciolse in una gioviale risata, elargendomi un gentile buffetto. “Allons, stavo bluffando! Guarda come ci è cascato! Più bianco del velo! Dai, era solo uno scherzo!”

“Vero, ma il veleno per topi nel caffelatte di stamattina non lo era!”, continuò serissimo Kanon, costringendo le mie dita a volare alla mia gola, infiammandomi poi, quando anche il secondogenito rise di gusto  per lo spavento provocatomi. “Ih … c’è cascato ancora! Sei proprio un candido, Momus! Vero, Iou – Iou?”

“Oui Momus, ti uccideremo in ogni caso, seppellendoti accanto al gallo!”, concluse felice Aiolia l’allegra catena di congratulazioni e di auguri per l’avvenire da parte della famiglia, mentre i due gemelli ritornavano ai loro posti di combattimento: Saga all’altare, Kanon  e Rhada dietro a uno sbuffante Milo, tenendolo inginocchiato a viva forza, una mano per spalla. Quanto a Shura e Shaka, erano sistemati ai posti dei testimoni.

Il lionceau ed io eravamo ancora in fondo alla cappella e in quell’istante il significato del messaggio si delineò definitivamente ai miei occhi: Kovu (Aiolia) a Zwillinge (Saga): i padrini (i testimoni) sono sul Golgota (la nostra religione si basa sulla Morte e Resurrezione di Cristo ed una chiesa o cappella ne è il luogo di culto), procedere con la danza di Selkis (rito di accoppiamento scorpione, ovvero quando il maschio sfrutta i suoi pedipalpi – o chele – per afferrare quelli della femmina ed invitarla appunto in una sorta di danza di corteggiamento, arrivando alla finale puntura da parte del maschio.)

In poche parole: tutto è pronto per le nozze!

“Ascolta Aiolia”, feci in preda al panico, specie quando vidi la porta della cappella chiudersi, “non vi pare un po’ esagerato? Eddai, che bisogno c’è di … di questa buffoneria?”, cercai di riportarlo alla ragione, speranza dissipata dal lionceau, che mi prendeva a braccetto, trascinandomi per il breve tragitto che ci separava dall’altare.

“Gueh? Buffoneria? Ma se siete voi due i veri pagliacci, che ancora non vi siete messi insieme malgrado i vostri palesi atteggiamenti promiscui! Te li devo elencare?” e dinanzi al mio celere gesto di rifiuto, il ragazzo continuò: “Eppoi, guarda il lato positivo: una volta sposati, Milou non potrà più correre dietro a nessuno/a! Tutto tuo!”, aggiunse sottovoce al mio orecchio, riempiendomi per un istante di maligna euforia.

Poi, però, riscuotendomi, protestai nuovamente: “Ma è una faccenda che riguarda lui e me, cosa c’entrate voi? Lasciateci in pace, maledizione!”

“Senti, pinguino! Mi sono quasi accoppato per preparare in tempo tutto l’ambaradam, per non parlare dei soldi che devo a Shura e a Shaka per la benzina!”, ricorse il mio fratellastro al ricatto del senso di colpa, cui replicai diplomaticamente:

“E’ davvero gentile da parte tua, però non te l’avevo chiesto …”

Stizzito, il piccolo Aslan si sciolse dal mio braccio. “Perché devi sempre rendere così complicate le cose? Quando fai così sei insopportabile: invece di sfruttare l’occasione per chiarire una volta per tutte con la tua testa pinguinesca, che Milou ti piace - e non t’azzardare a dire di no ché ti riempio di sberle -  cosa fai tu? Remi contro! Hic et nunc ovunque! Non ti rendi conto invece, che continuando di questo passo, lui si possa stancare di attendere i tuoi porci comodi e ripiegare verso un più compiacente altrove? Bordel, Momus, svegliati!”, mentì spudoratamente Aiolia (bugia che mi confessò solo tre anni dopo l’evento), sortendo tuttavia il suo diabolico effetto: costringermi al silenzio, onde portarmi all’altare  senza alcuna resistenza da parte mia e nella stessa trance fui costretto ad inginocchiarmi accanto a Milo, il quale tamburellava scocciato le dita sugli avambracci, fissando feroce i fratelli e chissà perché Kanon in particolare.

E sempre col pilota automatico innescato, mi segnai intontito quando Saga diede il via al matrimonio più strambo del secolo: tra due maschi, in chiesa e celebrato da un laico in odore di santità. Volendo aggiungere ai presenti un anglicano, un buddhista, un mezzo spagnolo, un gemello commosso e il lionceau in qualità di vedetta, beh, eravamo sul serio un caso degno di nota, se non proprio una barzelletta vivente.

“Fratelli, amici e cognati, oggi siamo qui tutti riuniti per unire (alla buon ora) questo scorpione e questo pinguino nel sacro vincolo di questo simbolico matrimonio, in attesa che o la Francia approvi legalmente le nozze omosessuali o di un loro prossimo viaggio in Spagna o nei Paesi Bassi per convalidarlo sotto ogni aspetto burocratico. Fino a quel momento, imparino essi ad amarsi e a sostenersi come compagni di viaggio, formando un unico corpo, un’unica mente, un’unica anima. (E più avanti, un unico contocorrente.) E appunto quel che Dio (e forse un pochino anche noi) ha unito, nessuno si azzardi a separare, se non vuole passare seriamente un brutto quarto d’ora …” e un sordo mormorio di assenso commentò l’affermazione del gemello maggiore.

Mai sentito in vita mia un formulario nuziale così aggressivo e folle!

“Ovviamente, il matrimonio è un passo importante nella vita di due innamorati e non deve essere preso né alla leggera, né tantomeno imposto ai due. (E chi lo fa mai?) Quindi, se qualcuno fosse contrario a quest’unione e che questo pinguino non dovrebbe unirsi in matrimonio, parli ora e abbia da me le gambe spezzate per sempre!”, disse Saga, alzando gli occhi dal foglio in un rapido scanning dei presenti, i quali si affrettarono tutti a negare col capo. 

E meno male, che nessuno era obbligato a niente! Sornione, il giovane riprese: “Come segno tangibile del reciproco impegno e dell’amore e fedeltà dei due sposi, infilino i testimoni (a viva forza se necessario) gli anelli all’anulare degli sposi. Iou – Iou, portali qua!” e Aiolia lasciò per un istante la sua postazione, cedendo a Saga un piccolo sacchetto blu oltremare e alla cui vista gli occhi di Milo si spalancarono stupefatti e disorientati.

Che cosa …?

E a sua volta, il gemello maggiore lo diede al minore, il quale sbatté le palpebre stupito e allo stesso tempo contento di tale iniziativa da parte del suo doppio. “Posso davvero?”, domandò in un filo di voce, il labbro inferiore che gli tremava visibilmente. Sorridendo, Saga annuì con energia:

“Credo che fra tutti, tu sia quello ad aver maggior diritto al discorso …”

Deliziato, Kanon sciolse il fiocco viola, rigirando con delicatezza il piccolo borsello dal quale tintinnarono fuori due semplici anelli dorati. “Sono le fedi nuziali dei nostri genitori”, spiegò orgoglioso, accarezzandole devotamente con la punta del dito. “Purtroppo, dopo il … fatto …” e la sua voce venne un secondo a mancare, mentre il viso del resto degli astanti s’incupì un poco “Papa, in un momento di rabbia e sconforto, li gettò via; ciononostante, Sasà ed io trascorremmo quasi tutta la serata a frugare  tra le immondizie pur di rintracciarli, ovviamente in gran segreto …”

“… tranne forse dopo per l’odore sui vestiti …”, aggiunse con un mezzo sorrisetto Saga, cui Kanon si unì con gusto, sottolineando poi:

“E comunque, adesso sono puliti col disinfettante, ergo via quelle facce schifate!” e continuò: “Siccome questi anelli sono molto semplici e privi di venali fronzoli da impedirne la riutilizzazione, decidemmo allora di conservarli per il primo di noi, che avesse convolato a  nozze e, riassumendo, la situazione è la seguente: di Sasà sappiamo, oltre ad essere  un fratello devoto, pio, severo, bacchettone e rompizizì, che ha pronunciato i voti di castità perpetua, autocondannandosi ad essere il zitello di famiglia e tutto per velocizzare la sua canonizzazione a Santo Saga martire, protettore dei masochisti  e degli schizofrenici …”

“Ma non mi dire … mi hai proprio sgamato …”, arcuò Saga sarcastico il sopracciglio, ironica perplessità cui il suo doppio rispose con una finta innocente scrollatina di spalle.

“Iou - Iou, ora che convinca Marin anche solo a considerarlo, facciamo in tempo a vedere la prossima stella cometa  e magari pure quella dopo ancora …”

“Beh, ci sto lavorando sopra!”, ribatté dal fondo il lionceau, incrociando bellicoso le braccia. “Non mettermi fretta!”

“Quanto al sottoscritto, Rhada mi regalerà un anello con tre diamanti e con all’interno la scritta Forever yours(lave), donandomelo a Bruxelles, dove ci sposeremo a tutti gli effetti …”, terminò sognante il gemello minore, osservando l’anulare quasi potesse già vederselo abbellito dal sopra descritto bijoux.

“Aspetta un po’! Quand’è che ti avrei promesso quel genere di pegno?”, domandò Rhada, destando bruscamente  Kanon dalle sue rêveries.

“Embé? Non ho diritto anch’io ad un anello di fidanzamento e poi ad una fede nuziale?”, ribatté il giovane talmente inviperito, da mancargli solo la lingua biforcuta. “Scommetto, che l’avevi già pronto per Pandora!”

Uh, rieccoci con la paranoia!

“Non lo nego”, infierì perfido l’inglese, provocando a momenti una sincope nel gemello minore. “Ma se lo desideri, te lo posso sempre cedere …”

“Non voglio niente, che sia appartenuto a quella gothic lolita!”, sbraitò Kanon offeso all’ennesima potenza e saltando in aria come un petardo. “Tranne te!”, si corresse, dopo averci riflettuto su qualche secondo.

“E allora non scocciare e continua il discorso!”, chiuse Rhada sbrigativamente l’argomento. Sbuffando simile ad un toro nella corrida, il suo meco proseguì:

“Insomma, alla fine della fiera l’unico sfigato che rimane è proprio il nostro bicho Milou, il quale sottolineiamo ci ha fatto prendere una paura boia mettendosi con – citando un nome a caso tra l’infinta lista -  Shaina. Ed infatti, eravamo lì lì per diseredarlo, vero?”, chiese Kanon conferma al suo doppio, che annuì semiserio:

“Vero!”, affermazione alla quale si unì anche Aiolia con una certa vivacità e pure Shura parve dar segni di essere in qualche modo sollevato della rottura tra i due: evidentemente, la ragazza non doveva essersi fatta molto amare né dagli amici, né dai fratelli. Ma allora perché Milo (che durante la pubblica nota di biasimo aveva roteato gli occhi annoiato) aveva acconsentito ad essere il suo mec?

“Per due anni, pregammo affinché come San Paolo sulla via di Damasco, anche il bicho fosse illuminato dalla Grazia Divina, lasciando quella gran … hé! Alla fine, esse furono esaudite e dal cielo ci venne inviato via posta prioritaria questo piccolo, morbido e rosso pinguino in qualità per noi di fratello su cui sfogare la nostra vivacità; per Milou la sua …mndj@cdghd#cknlb!!@#%!!?”, su dimenava invano Kanon, tentando contemporaneamente di proseguire con il suo discorso e persuadere Rhada a levare la sua mano dalla sua bocca.

“In ogni modo”, riprese Saga là dove il gemello era stato – per fortuna – interrotto “questi anelli  sono vostri e ve li cediamo più che volentieri!” e li distribuì, uno a Shura e l’altro a Shaka.

Se la scena non fosse stata così grottesca, l’avrei pure trovata commuovente: enfin, erano le fedi nuziali dei loro genitori, il simbolo di quell’unione breve, ma felice, che aveva permesso la nascita di quei generosi e scatenati masnadieri. Mi sentivo un  po’ in colpa a privarli di simile prezioso ricordo! (Specie dopo aver sentito della nottata trascorsa tra le immondizie …)

E Milo dovette condividere il mio stesso stato d’animo, giacché protestò con sincero trasporto: “Mais non, Sasà! Sono gli anelli di Papa et Maman! Dovrebbero andare a te! Sei tu … enfin, ora sei tu il primogenito! Sono tuoi di diritto!”

Fischiando incurante, il giovane alzò le spalle. “Per il momento, non ho nessunissima intenzione né di mettermi con chicchessia, né tantomeno di sposarmi! Eppoi, so quanto tutto questo” e indicò rapido l’intero teatrino “sia importante per te!”

Silenzio imbarazzante.

“Hai cantato?”, berciò il bicho indignato a Kanon, ignorando volutamente la mia occhiata altrettanto sdegnata rivolta a lui.

“Mi ha costretto, te lo giuro!”, protestò il giovane, alzando in alto le mani. “Mi ha ipnotizzato, le salaud!” e il fatto che Saga non si discolpasse ci fece rabbrividire tutti. “Non volevo, pardonne-moi!”

“In ogni caso, non li voglio!”, ribadì Milo, reclinando indietro il capo, quando il gemello maggiore gli si posizionò davanti con una pericolosa espressione dipinta in volto.

“Osi tu forse mettere in dubbio la mia autorità di frater familias?”, inquisì gelido, spalancando gli occhi così tanto, che potei contare tutte le piccole vene dei bulbi oculari. “Uhm? Bichito? Io che ti mettevo il borotalco sul tuo culetto, quando Maman ti cambiava il pannolino? Eh? Cos’è questa ribellione nei miei confronti?”

“D’accord, Sasà, non ti scaldare …”, ritornò il ragazzo a più miti consigli, dinanzi all’aura d’un tratto aggressiva del fratello maggiore. “Era solo per farti un favore …”

“Allora sposati il pinguino e mi renderai molto felice!”, tagliò corto il giovane, riprendendo la funzione interrotta dalle solite divagazioni valavitisiane, le quali stranamente non parvero essere state accolte con particolare stupore da parte degli elementi esterni - Rhada, Shura e Shaka –  che al contrario ascoltavano flemmatici, senza battere ciglio. 

Vero era, che la personale e perversa logica di quei sanculotti aveva le stesse caratteristiche del raffreddore: ce la si trasmetteva a vicenda in una terribile catena di Sant’Antonio, mietendo vittime ovunque.

“Yo, Sasà! Spicciati, ché qui vedo una sospetta migrazione di pinguini …”, lo spronò Aiolia, tenendo un occhio fuori dalla cappella e uno alla cerimonia.

Inforcando di nuovo gli occhiali, Saga continuò: “Bien! Allora,  arrivando al sodo, ché sono anche un po’ stufo: vuoi tu Milo Theodoros Valavitis prendere il qui presente Camus Eugène Molinier come tuo compagno ufficiale (dire sposo è un po’ troppo presto, eh? C’è ancora tempo, per quello aspettiamo la Spagna …) pour le meilleur et pour le pire finché … finché Mpreg non vi separi?!? Chi diavolo l’ha scritta?!”

“BASTA!!!”, strillò Aiolia esasperato, soffocandosi con la sua stessa saliva. “Non ne posso più! E’ una persecuzione!”

“Quo usque tandem, Canon, abutere patientia mea?”, fu l’irritata domanda retorica di Saga, alla quale, purtroppo, egli già dalla tenera infanzia conosceva la risposta: “In aeternum!”

“Era troppo tragico scrivere  [] finché morte non vi separi!”, si giustificò quegli, allargando le braccia.

“E l’Mpreg non lo è?”

“Invece di perderti in queste quisquiglie, vedi di concludere con quei due …”, dirottò Kanon abilmente l’attenzione dello spazientito gemello.

“Uf, perché non ti ho mangiato quand’eravamo in pancia?”, borbottò il maggiore, massaggiandosi la tempia dolorante. “Già allora eri una seccatura, poi!”

“Perché ti ero attaccato!”, spiegò trionfante il giovane, battendo fiero il fianco con la cicatrice. “Mica volevi auto assorbirti, eh?”

“Comunque, bicho, questo qua te lo pigli o no?” e uno scocciato Saga m’indicò con un rapido cenno del capo. Preoccupato, mi voltai verso Milo, il quale mi fissava ambiguo, quasi fosse indeciso se ridere o arrabbiarsi sul serio. Sperai sinceramente fosse la seconda opzione, così almeno saremmo stati in due ad opporci a quella follia.

Lentamente, il ragazzo si voltò poi verso i fratelli, sorridendo loro perfido uno ad uno e, dopo essere ritornato a guardarmi negli occhi, commentò scuotendo il capo biondo: “Siete proprio una banda di stronzi!”, che parafrasato significava Sì, lo voglio o altrimenti ditemi perché cedette spontaneamente la mano a Shura, acciocché gli infilasse l’anello!

“L’altro dito, Milo”, replicò secco lo spagnolo, stringendo indispettito gli occhi.

“Oplà! Pardon …”, fece sornione lo scorpion, abbassando il medio per l’anulare. Incapace di credere alla scena, cui malgrado le mie speranze stavo al contrario assistendo, levai indietro il velo dal mio viso, accusando tacitamente con lo sguardo quel disgraziato, per avermi ingannato con false promesse di sostegno. Capi d’accusa cui egli ebbe la faccia tosta di rispondere con l’espressione più gnorri e innocentina di questo mondo.

“Camus Eugène Molinier”, mi distrasse Saga dall’impallinazione dello scorpion lubrique “vuoi tu prendere il qui presente Milo Theodoros Valavitis come tuo compagno ufficiale pour le meilleure et pour le pire … e basta?”

Silenzio di tomba.

“Uhm?”, aggiunse infine il gemello maggiore, sfoderandomi il suo sorriso più accattivante.

Quanto al sottoscritto, avevo serrato forte le mascelle per impedirmi di pronunciare tutte le bestialità, che mi venivano in mente, partendo dallo sgradevole presupposto che proprio io dovessi ricoprire il ruolo della sposa. Non ero così uke, uffa! Eppoi, cos’era questa loro mania tutta Valavitis d’intromettersi nelle vite altrui, in particolare nelle faccende amorose? Chi glielo aveva chiesto? La situazione di prima con Milo mi stava più che bene: adesso, invece, per colpa di quei delinquenti patentati, agli occhi della comunità scolastica sarei stato visto come il suo fidanzato ufficiale! Con la fede nuziale, poi! Perché figurati, se la notizia non sarebbe trapelata! Tzé, per la sera stessa ero sicuro che già tutto il dormitorio maschile l’avrebbe saputo! E parlando di dormitorio … Seigneur! Che mica Milo si metteva in teste stramberie come la prima notte di nozze, vero? No, perché mi rinchiudevo dentro una cabina delle docce! Dopo il … il … b-b-blowjob di ieri pomeriggio, ormai lo ritenevo sul serio capace di ogni cosa! Specie cochon! E le mie fesses, del resto, ancora non si sentivano pronte ad adempiere ai loro doveri coniugali … e no, aspetta, perché dovevo essere per forza io il passivo? Non era giusto! L’issue della mia pochissima esperienza non mi trasformava per ovvia conseguenza in una vergine sacrificale, uffa! Non volevo, non volevo, non volevo! E poi, perché nessuno si era consultato con me? Eh? Perché nessuno mi aveva domandato cosa io ne pensassi?

E in preda a questo concitato monologo, i miei umori maligni presero a danzare la macumba, desiderosi di dimostrare al mondo, che anch’io all’occasione – e solo se costretto da impellenti fattori esterni, tipo fratellastri impiccioni -  ero capace di dire la mia. Così, dopo cinque minuti buoni di silenzio, durante i quali nessuno fiatò, mi apprestai a rigettare tutta la mia disapprovazione riguardo simile ridicola e assurda messinscena.

Presi fiato e con voce chiara e decisa esclamai : “Ma certo che nnmmmghgghghghgh …” e più rapido del demonio le labbra di Milo si fiondarono sulle mie, interrompendomi esattamente nel punto più ambiguo della frase, lasciandola alla libera interpretazione del “sacerdote”, il quale figurarsi era talmente partigiana, che recitò in apnea, dimenticandosi perfino della più moderna formula in francese tanta era la concitazione del momento:

“EgoconiungovosinmatrimoniuminnominePatrisetFiliietSpirictusSancti … Amen !”, sospirò profondamente alla fine, abbassando sfinito le braccia e alzando con il medesimo umore gli occhi al cielo, nel frattempo che anche il resto degli astanti si scatenasse in diversi e personali espressioni per manifestarci tutta la loro contentezza: dal fondo, dimentico del suo ruolo di vedetta, Aiolia fischiava a pieni polmoni; Shaka, dopo avermi infilato a tradimento la fede all’anulare,  si era poi lasciato cadere sul banco di legno, sventolandosi il viso con la mano; Shura aveva congiunte le sue in una tacita preghiera di ringraziamento a San Giacomo, appurando che le fatiche di quel pellegrinaggio fino a Compostela erano state almeno ben spese. Kanon, dal canto suo, non aveva più retto e si era messo a piangere senza ritegno sulla spalla di Rhada, il quale gliela accarezzava partecipe.

“Mon bébé a tellement grandi, qu’il a épousé son pingouin! Je ne peux pas encore y croire !  Et ce n’est pas un rêve, c’est la foutue réalité !  T’aurais pas un mouchoir, par hasard ?” (Il mio bambino è talmente cresciuto, che ha sposato il suo pinguino !  Non ci posso ancora credere!  E non è un sogno, è la dannata verità! Ce l’avresti per caso un fazzoletto?, ndr.), singhiozzò commosso il gemello minore, soffiandosi forte il naso, quando il meco gli fornì quanto richiesto.

Finalmente libero dal quel bacio-silenziatore, dovetti respirare a fondo per qualche istante, avendomi lasciato lo scorpion nel vero senso della parola senza fiato. Riprendendomi, presi per la stizza a schiaffeggiargli il braccio sinistro, trattamento cui Milo non si sottrasse, anzi, se la rideva con maggior entusiasmo!

“Il bouquet! Devi lanciare il bouquet!”, mi fu gentilmente ricordato; favore cui risposi balzando in piedi con gli occhi che mi pizzicavano per le lacrime di rabbia trattenute, afferrando di malagrazia il mazzo di fiori e allo stesso modo lanciandolo, sperando di colpire qualcuno in pieno viso.

Ed in effetti, qualcuno parò il mio lancio e non era esattamente, la persona che ci saremmo tutti aspettata. “Ti ho trovato, finalmente! Enfin, Shura mi dici: “Vieni verso le quattro e mezza o cinque, che prendiamo i miei amici all’ospedale!” e poi mi sparisc- … gueh?”, fece perplessa Junet, la sua ragazza, osservando accigliata il bouquet planatole tra le mani non appena ebbe messo piede nella cappella.

Silenzio.

Ruggito di risate.

“Prends ça, Shura!”, si congratulò Milo, battendo la zampa sulla schiena dello sconcertato amico. “Sei il prossimo in lista! Ah! Fregato anche tu!”

Ponendo estremamente irritato le mani ai fianchi, Kanon commentò amareggiato: “Tutte a lui le fortune! Non potevo rimanere io fregato?”, e si girò mesto verso Rhada, che lo consolò alla sua maniera:

“Beh, puoi sempre aspettare il matrimonio di Violante per avere il bouquet!”

E dallo sguardo assassino di Kanon intuii, che lo avrebbe reperito ad ogni costo, anche se  questo significava uno sterminio di massa di tutte le damigelle  e nubili della festa. L’amore per quell’inglese doveva sul serio averlo sballottato completamente: dubitavo che un paio di anni fa si sarebbe comportato in quel modo.

“E adesso, la foto!!! Dite: Bouillabaisse!”

“Aiolia!!!!”

Qualcuno mi uccida, per favore …

 

***

[…] e non solo, Papie, nessuno si è consultato con me, oh no! Mi hanno vestito da sposa! Col velo bianco! Col bouquet! Capisci? Ai loro occhi, la femmina della coppia sono io! Chi l’ha deciso?

Rifugiato nell’angolo più nascosto della biblioteca della scuola, scrivevo una vivace e indignata lettera a mio nonno, l’unica persona che in quel vaudeville pareva considerare la mia opinione di un grado superiore allo zero assoluto. Infatti, dopo essere ritornati dall’ospedale, mi diressi galoppando nel mio ultimo santuario, nel quale speravo di non incontrare nessuno, i miei fratellastri in primis. Disgraziati! Al solo ricordare quanto accaduto nel pomeriggio, mi si arricciavano i capelli per il nervoso! E appunto per quello, infilai la mano nella tasca dei jeans, reperendo …

“Lo sai che non si mangia in biblioteca, coquin?” sogghignò davanti a me Milo, sottraendomi in un celere retaggio il mio spuntino. “Oppure finalmente sei entrato nel periodo della ribellione adolescenziale (meglio tardi che mai)?” e il suo ghignò s’allargò perfido e bellicoso.

“Il mio torroncino …”, pigolai invece, i miei occhi puntati famelici sul piccolo involto colorato, rimpiangendolo amaramente. Inoltre, come cappero aveva fatto lo scorpion lubrique a ritrovarmi? Neppure i miei più accaniti persecutori avevano mai scoperto quel posticino segreto. Che  avesse seguito l’odore? Un momento! Mica adesso avevo preso a rilasciare dei feromoni, eh? Perché sul serio incominciavo a preoccuparmi e come aveva appunto affermato stamattina Aiolia, la faccenda finiva poi in un Mpreg. “Dammelo!”, gli ordinai stizzito.

“Porco!”

“Il torroncino, idiot!”, sbottai, avvampando di brutto, evitando di chiedermi a quale doppio senso il ragazzo si fosse rifatto. Meglio non sapere.

Rigirando tra le lunghe dita il dolcetto, Milo sorrise maligno a fior di labbra. “Non saprei, Ionesco, se poi te lo cedessi, mi renderei tuo complice nel misfatto …”

“Non lo saprà nessuno, te lo prometto: farò sparire le prove!”, lo rassicurai, annuendo con convinzione.

“Sta bene …”, cedette il bicho dopo qualche attimo di riflessione e scartando l’involucro. “Chiudi gli occhi e apri la bocca …”

Silenzio.

“E secondo te, io sarei così scemo da farlo?”, inquisii sarcastico, allontanandomi con la sedia per precauzione dal biondo. “Chissà cosa mi combineresti nel frattempo!”, aggiunsi, gonfiando le guance quando vidi Milo gettare indietro la testa e ridere fragorosamente. “E fai silenzio!”

“Tzé! A quest’ora, sei tu l’unico a frequentare la biblioteca! Ih, sarò pure un lubrique infoiato, ma anche tu cedi un po’ troppo spesso alle lusinghe della malizia: davvero, pensavi che ti facessi qualcosina? O magari lo speravi?”

“Più che altro lo temevo! Perché non so, se tu te ne sia reso conto, però ora siamo -  simbolicamente – sposati, ergo non trovo così improbabile un comportamento indecoroso da parte tua!”, ribattei irritato, riprendendo in mano la matita e concentrandomi sugli esercizi di matematica.

Ridendo ancora più forte, lo scorpion lubrique commentò: “Come? Hai creduto seriamente a quel teatrino? Ha- ha, eddai Ionesco, non vedi che stavamo scherzando? Giocavamo, nient’altro!” e la sua frase ebbe l’effetto di una secchiata d’acqua bollente sul sottoscritto: cosa? Una farsa? A me era parsa, al contrario, dannatamente reale e seria (nelle intenzioni almeno)! Inoltre, davvero per lui non significava niente, che ora fossimo “maritati”? Pensavo di interessargli, un pochino, eddai uno non andava a distribuire allegramente blowjobs come caramelle! Un po’ di affetto! Però trattandosi di quella bestia … Aaaarrrgghh!!!  Delinquenti di Valavitis me la pagherete tutti! Incominciando da domani con Aiolia!

“Giusto!”, convenni piccato, sentendo gli umori maligni repressi farsi risentire in tutta la loro gloria. “Si è trattato di uno scherzo tra voi fratelli, peccato che il vero pagliaccio alla fine sia stato, come al solito, il sottoscritto!”

“Beh, quando parti per la tangente con questi discorsi, lo sei!”

“Ih-ih, lo spiritosone! Tu sì, invece, che ti salvi sempre!”, feci sarcastico, appoggiando la matita, ormai completamente dimentico dei compiti per casa.

“Prego?”, inquisì sinceramente incuriosito il bicho, sedendosi sul tavolo.

“A scuola, nessuno ti sbeffeggia, eppure se siamo una coppia vuol dire che anche a te devono piacere i maschi! Però nessuno ti chiama mai tapette o jumente en chaleur!”, mi sfogai, sentendomi più leggero ad ogni parola, che fuoriusciva dalla mia bocca. Il fatto, poi, che Milo assorbisse attento mi invitava a continuare senza scegliere e riflettere su ogni frase. “E …  e anche il matrimonio: perché mi sono dovuto mettere io il velo da sposa? E soprattutto, come mai ogni volta devo essere io la vittima delle vostre burle? Dei vostri doppi sensi? Dei vostri folli svarioni? Mi prendete per un essere passivo, che manipolate come volete?”

Mi aspettai un cenno di assenso o di comprensione o qualche piccola spiegazione. Al contrario, Milo incrociò le braccia al petto, dichiarando con disarmante schiettezza: “Ah non? Non sei passivo? Ma se è la tua natura: onestamente, quali iniziative hai mai preso, Ionesco? Ti sei mai messo in gioco qualche volta? O ti sei sempre lasciato trascinare dagli eventi?”

Vuoi che fosse la sorpresa per quella reazione inaspettata, che per la delusione di un sostegno morale, non lo degnai di una risposta.

“Uhm? Quante volte hai preferito raggirare gli ostacoli, piuttosto che affrontarli? Subire, invece di reagire? Tzé,  hai sempre avuto il nerbo di una gallina disossata!”, mi canzonò mordendosi una nocca. Adesso ricominciava con i suoi giochetti mentali? Che gli pigliava? Era forse arrivata la luna piena e ora si trasformava in uno scorpion mannaro? E quel che era peggio, era che una piccola parte di me, la più molesta, non poteva fare a meno di dargli ragione!

“Mi dai del codardo?”, sibilai, premendo con forza le due estremità della matita con l’ovvio obiettivo di spezzarla. Vigliacco? Non davo fastidio a nessuno; non m’impicciavo in niente! Conducevo la mia vita nell’anonimato assoluto, non chiedevo nulla al prossimo! Non degnare, poi, di una mia reazione dei deficienti, era davvero  un atteggiamento da pavido coniglio? O forse, non erano i miei bulli, ciò cui il ragazzo si stava riferendo?

“Tu lo dici, non io!”, sentenziò secco il biondo, gli occhi puntati felinamente contro di me.

“Parli di cose, di cui non sai nemmeno il significato!”, fu la mia ultima spes di difesa, trincerandomi dietro la scusa più vecchia del mondo: la conoscenza del background familiare. Infatti, il bicho – storia di Mamie a parte – non aveva precise nozioni della mia famiglia, vero? Però … ora che ci ripensavo …

“Al contrario: ti ho osservato, ti ho analizzato da molto più tempo di quanto tu possa credere! Posso quasi affermare di averti inquadrato!”

No, non era possibile! Non poteva conoscere alcunché di quella storia! Ma paventi la possibilità, che io un giorno perda interesse nei tuoi confronti e che ti abbandoni, come ha fatto quella sale charogne  di tuo padre! Sì, sì, sì! Ora mi ricordavo! Mais comment? Comment a-t-il fait? Come aveva intuito un doloroso evento, del quale non ne parlai a nessuno? A nessuno, dico!

Ebbi paura.

“Inquadrato? Ha! Ma se tu non sai niente, niente di me!!!”, protestai con vigore, più per convincere me stesso che lui.  Inoltre, rabbrividii di genuina rabbia l’ascoltare la risata gutturale di Milo, che replicò con crudele sincerità:

“Appunto! Non so un accidenti, perché tu non  mi parli mai, bon sang! Hé!  Tu non sai niente, gnéé, gnéé …, così parlano i vigliacchi, quelli che non hanno le palle per urlare il loro malessere! Sì! Perché se ti devi lamentare, che sia a voce alta, così che ti possano sentire tutti! Altrimenti, soffri in silenzio, ma lagnarsi  senza spiegarne il motivo, ti prego, no, risparmiamelo!”, sbottò spazientito Milo, scendendo dal tavolo e camminando irrequieto avanti e indietro. Tuttavia, aveva capito, che la mia era stata la suicida difesa di un gatto messo all’angolo. “E sai una cosa? Ti ringrazio di avermi , per una di volta, delucidato le tue perplessità circa questa pagliacciata pomeridiana: significa che stiamo facendo progressi! Una settimana fa, ti saresti rintanato nel tuo guscio di silenzio, magari strangolandoti con la cioccolata!”, e sbatté il torroncino sul mio libro, macchiandomelo di cioccolata. Ecco cosa mi rimproverava: di non aver fiducia in lui, di sfuggirgli. “Non è stato difficile trovarti appunto per questo: dove poteva essersi nascosto un debosciato, che non ha neppure l’humour sufficiente per ridere di una sciocchezzuola come quella? A meno che, tu non l’abbia fraintesa per qualcosa di più importante …”, insinuò maligno, passandosi pensieroso la punta della lingua sulle labbra.

“Tais-toi! T’es méchant! Sei cattivo!”, l’accusai, annaspando per altre parole, onde dimostrargli il mio rancore nei suoi confronti, ma non ne uscì fuori nulla. Che ci volete fare, quello scorpion aveva l’oscura abilità di mandarmi in panne la mente.

“E’ tutto quello che hai da dire nei miei confronti? Umphf! Sono un infame, perché sto eseguendo il tuo veritiero ritratto? La verità fa male, eh? Però, se fossi davvero cattivo, sai che farei? Non ti criticherei! Ti darei  al contrario ragione: oui, Ionesco, t’as raison, lasciati menare, insultare, tartassare, affamare, molestare etc.  Sei la persona più a posto del mondo! Tutto quel che combini è ben fatto!”, mi ricordò senza la malizia del solito amico-confidente.

 E io, degno emulo di Pinocchio col Grillo Parlante, [3] gli ringhiai contro: “E tu sei solo un arrogante bastardo! Tais –toi!” e neppure in quel frangente, trovai un’argomentazione per ribattere con serietà e non puerilmente.

“Vero e non me ne vergogno!”

“Ti credi chissà chi, solo perché qualche salope ti è caduta ai piedi!”, non seppi il motivo preciso, per il quale tirai fuori quest’accusa. Che fosse dovuta al piccolo riferimento all’ex di Milo da parte di Kanon? Mica ero geloso, vero?

“Solo qualche?”, mi sfotté con sufficienza il ragazzo, provocandomi un blackout totale: una relazione consisteva dunque per lui ad un mero frivolo gioco?

“Mi domando, come mai ti stia ad ascoltare!”, borbottai, voltando la tesa dalla parte opposta, sperando così che il bicho non notasse il mio respiro accelerato, che aumentò ulteriormente, quando Milo, sistematosi alle mie spalle,  fece scorrere il suo polpastrello dalla base del mio collo fino alla tempia.

“Non è ovvio, mio bel pinguino? Perché ti piaccio!”, mi sussurrò tremendamente serio, bloccandomi con un’energica spinta al petto, non appena mi apprestai ad alzarmi.

“Non sparare cavolate, per favore!”, berciai, afferrandogli la chela, che mi teneva ancorato alla sedia. Mano, che il bicho prontamente catturò, separando trionfante il dito colpevole dagli altri suoi fratelli.

“E allora, come mai vedo ancora la fede all’anulare?”

Inviperito, sciolsi la mia mano dalla presa del biondo con un violento strattone, coprendo mediante l’altra  la fede ancora gelosamente da me indossata.

 “Puoi anche levartela, se vuoi. È stata abbastanza tempo a contatto con te. Il sortilegio è ormai compiuto!”, mi canzonò il ragazzo, quasi fosse stato quello a far sì, che continuassi a tenere l’anello al dito.

“Tais-toi, animal stupide!”, riuscii infine a scivolare via dalla sedia, portandomi lontano dallo scorpion e nascondendo la mano incriminata dietro la schiena. “Ti proibisco di parlarmi ancora, intesi? Te lo proibisco! Non ti voglio né più sentire, né più vedere! Lasciami in pace per una buona volta! Va au diable, qui est ton frère! Eppoi tu non mi piaci!”, gli gridai contro, afferrando di malagrazia le mie cose e  accampandomi su di un altro tavolo. Che mi desse pure del codardo, ma non mi sarei esposto, oh no, finché non avevo l’assoluta certezza, che una volta ceduto lui non mi liquidasse con lo stesso gelido cinismo che riservò alla sua ex Shaina e ad altre vittime ignote. Non, jamais ça!, giurai a me stesso, fissando di sottecchi il ragazzo e spiandone attentamente le prossime mosse.

E ancora una volta, Milo mi sorprese.

“C’est très bien, Ionesco. Très bien. Se tu mi vieti di parlare, io non dirò più una sola parola!”, fu la sua preoccupantemente docile resa. Cosa? Non replicava come suo solito?

Flemmatico, il bicho acchiappò un libro dallo scaffale, ritirandosi in un divanetto dall’altre parte della sala e stravaccandosi a suo agio su di esso. Per la prima mezzora, mantenne effettivamente la sua promessa, tanto da strapparmi furtive e ansiose occhiate nella sua direzione, domandomi furioso, se non avessi commesso l’ennesima cavolata e questa volta irreparabile.

Sospirai, quindi, sollevato nel momento in cui Milo aprì la bocca per parlare; conforto subito soffocato, quando appurai che non si rivolgeva a me, bensì ad un suo fantomatico interlocutore, di certo un miglior  ascoltatore del sottoscritto.

 Shura mi ha giusto raccontato oggi, che hanno aperto un nuovo locale poco distante dalla Place Rouge … carino, spazioso, alla moda e dove ci si potrebbe scambiare quattro chiacchiere in allegria e ridere e scherzare … mi piacerebbe recarmi lì per la festa d’inaugurazione questo weekend …”,  disse tra sé e sé ad alta voce, continuando a sfogliare il libro e portando a mo’ di cuscino il braccio dietro la testa, esponendo in questo modo la pelle liscia e morbida del collo, finalmente denudata dal naturale manto dei capelli.

Deglutii.

“Mouais, ma tutti soli ci si annoia! Il vero divertimento sta nell’essere in coppia … dunque, credo che porterò con me il mio mec … hélas il mio mec! Au diable avec lui! Mi ero dimenticato che mi ha messo alla porta neanche cinque minuti fa …”, si lamentò, ponendosi d’un tratto in piedi e appoggiandosi alla candida parete. Ma io non l’avevo scaricato! Non direttamente … e non ero il suo mec! Anzi, sì! No, non lo ero … ih, che confusione, la mia testa!

Implacabile , lo scorpion continuò il suo monologo, che bevvi avido, seppur pretendendo un’indifferenza assoluta: “Povero mio cuore, sì triste e sconsolato, eppure ora più libero dell’aria!” Cooosa? Era libero, quanto Mamie frequentava i gay pride! Non era libero, era mio!

Ma simili miei palesi pensieri parevano non essere stati recepiti da un Milo assai gnorri e sornione. “ Uhm … vero, ho dozzine di spasimanti, ma nessuna mi aggrada … ah! Chi mi amerà per questo fine settimana? Perché dal canto mio, sarò ben lieto di corrispondere!”  e si stiracchiò sul muro così tanto, che il maglione si ritirò, deliziandomi di una rapida sbirciatina al suo ombelico nudo. Rendendomi conto del mio crescente livello di perversione, scossi il capo e m’imposi di seguire l’esercizio di matematica, scacciando via dalla mente ogni possibile ipotesi sul modo in cui lui avrebbe ricambiato a quelle avances. Inoltre, con la scusa di un po’ di stretching, faceva sì che quel piccolo delizioso ombelico oscillasse lievemente al polo nord e sud, nord e sud; movimento sottolineato dal quasi impercettibile ondeggiare delle sue anche e del suo bacino, nel frattempo che le sue braccia scendevano e salivano come se volessero afferrare un’ipotetica mela, le dita impegnate a formare tra loro complicati e serpentiformi arabeschi.

Chiusi la bocca, che mi si era inavvertitamente aperta.

“Già … chiunque voglia in quest’istante il mio amore, non ha che da domandarlo e l’otterrà, ché non sono tipo da restare troppo tempo da solo …”, infierì crudelmente, osservando distratto i titoli dei libri sugli scaffali, lasciando che la sua lingua giocasse intanto col labbro superiore.  Vuol dire, che non mi avrebbe rimpianto neanche un giorno?

Mi si attorcigliò lo stomaco al solo pensiero.

 “ … e con il mio nuovo mec o nuova gonzesse, chissà!, potrei trascorrere un bel sabato sera in questo nuovo locale …”, fu il colpo di grazia al mio povero pinguinesco cuoricino. Mettendo la remotissima idea, che decidessimo di troncare la nostra relazione, Milo in meno di sette giorni sarebbe già stato a divertirsi con un altro o con un’altra? Ma che razza di bestia senz’anima era? Oppure, ero io che contavo così poco per lui, da essere facilmente rimpiazzato con qualcuno più compiacente, più sveglio e più esperto? O l’avevo in qualche modo deluso o annoiato o …? Non importava! Nessuno me lo portava via! Anche a costo di infilargli a viva forza la cintura di castità!

“Tais-toi! Ti avevo detto, di non parlarmi!”, sbottò d’istinto la mia lingua, prima ancora che il mio cervello avesse elaborato la frase. Perché sapevo, oh, sì, sapevo che era rivolto a me quello schifosissimo monologo! Più quel … quel mostrarmi il petto nudo dal collo della felpa (con la cerniera chiusa convenientemente a trequarti), mentre si piegava ad allacciarsi le scarpe.

Bastardo!, pensai umettandomi a disagio le labbra: egli mi delineava quanto facilmente mi avrebbe sostituito e contemporaneamente mi ancheggiava sotto il naso peggio di una cortigiana.  Chiunque gli avesse insegnato simile cose, aveva per certo creato un mostro.

Di lussuria.

Senza scomporsi Milo replicò tranquillo: “Non sto parlando a te, caro il mio pel di carota! Ragionavo tra me e me, solo a voce alta! Mi proibisci anche di pensare adesso?”, sbuffò sarcastico, chiudendo il libro e riponendolo sulla sua scansia, dopo avermi elargito un piccolo buffetto sulla punta del naso: “Umphf … riflettevo …”, fece vago, gironzolando assente tra i vari scaffali, le mani distrattamente nascoste nei jeans  “ouais, stavo giusto riflettendo su di un certo pinguino molto testardo, che però” e non mi accorsi neppure, che si era sistemato dietro di me, tranne quando percepii il suo respiro caldo solleticarmi la sensibile pelle dell’orecchio “m’ama e che … forse … magari … potrei benissimo amarlo a mia volta!”

Mi voltai  di scatto, quasi mi avesse morso la tarantola, tentando di afferrare di riflesso il braccio di Milo, il quale, invece, scivolò veloce dalla mia presa, indietreggiando tra i vari scaffali, sempre tenendo gli occhi ben incatenati ai miei.

“Il mio pinguino non è una cima nello sport e nemmeno tanto popolare a scuola … poco incline agli scherzi e alla conversazione …”, prese a descrivermi il ragazzo con divertita malizia, ridacchiando appena “non è che un serioso glaçon, ma per uno scorpione è sufficiente … e mi saprò accontentare!”, concluse, pigliando un secondo libro, che subito ripose con un lungo sospiro.  E, dandomi strategicamente la schiena, si avviò verso l’uscita, non senza avermi prima lanciato un’occhiatina allusiva, mordicchiandosi la nocca.

Poi, sparì dal mio raggio d’azione, lasciandomi inebetito a fissare per cinque minuti buoni l’orologio sul muro. E adesso? Che fare? Seguire o restare? Prendere o lasciare? To bicho or not to bicho? That’s the question!

“Camus, i tuoi libri e quaderni …”, mi riportò alla realtà Madame Métayer, la quale mi osservava perplessa, allungandosi oltre il tavolo fin quasi a perdere l’equilibrio e capitombolare dalla parte opposta. Fu come risvegliarsi  da una trance e solo in quell’istante appurai sorpreso e un poco spaventato, che ero in piedi e con una mano sulla maniglia della porta, pronto ad uscire.  Ma come?  Ben mi ricordavo, di essere rimasto seduto alla mia postazione per tutto il tempo … che strano …

“Me li metta da parte, verrò a ritirarli domani mattina …”, rispose in automatica la mia voce e sempre simile ad un automa, avanzai fuori dalla biblioteca e scesi per le scale illuminate da una livida e parziale luce, del tutto sordo agli strilli isterici della mia mente, la quale m’intimava di fare dietrofront e ritornare al sicuro della stanza appena abbandonata.

Mi fermai alla fine  delle scale – o alla base a seconda dei diversi punti di vista o di salita -  guardando apprensivo il foyer completamente deserto e immerso nel silenzio più assoluto, tanto che dei leggeri echi erano udibili al mio passaggio, intimandomi a procedere quasi in punta di piedi, giusto per non generare rumori molesti e inquietanti.

Non che fossi un fifone (abbandonavo spesso la biblioteca ad ore tarde), però vi era mai capitato a volte di avere certe strane sensazioni, come di temere da un momento all’altro sgraditi attacchi, specie alle spalle? E di sentire fruscii e cigolii di porte nella penombra di una stanza larga e illuminata appena? No? Ecco, quel presentimento d’imminente pericolo mi spronò a camminare più veloce, sperando che il portone principale d’ingresso fosse aperto, altrimenti sarei stato costretto a fare il giro lungo, una seccatura.

Non ebbi fortuna.

Dopo aver sbatacchiato per bene la maniglia di detta porta, mi diressi in direzione dell’uscita sul cortile e sempre con passo spedito. Sennonché, la luce – già di suo molto fioca - venne a mancare all’improvviso.

Magnifique.

A tentoni e cercando di tranquillizzare il battito furioso del mio cuore – brutti ricordi legati al buio – barcollai verso l’uscita, seguendo il tenue bagliore dei lampioni del cortile, che si espandeva attraverso le porte finestre, creando arzigogolate ombre e ambigui chiaroscuri.

Mi fermai di colpo. Nel duetto dei miei passi, le mie orecchie avevano scorto un terzo intruso. Mi irrigidii, deglutendo forte. Poi, prendendo coraggio, mi voltai di scatto.

Niente. Nessuno.

Il vuoto.

Ma fu sufficiente per costringermi ad alzare le proverbiali sottane e correre in direzione dei dormitori, neanche avessi il demonio alle calcagna.  Raggiunsi quindi di corsa la porta, allungando in anticipo la mano, onde aprirla.

Avvenne piuttosto in fretta.

Un attimo prima stavo contemplando speranzoso la trasparente uscita; quello dopo vidi il buio. Era stata una stretta ferrea e improvvisa la causa di simile cambiamento: balzata dall’oscurità, mi aveva afferrato il braccio, forzandomi in una buffa piroetta, la quale terminò con il mio atterraggio verso qualcosa di duro che intuii essere una parete, poiché ero ancora – miracolosamente – sulle mie molto incerte gambe. La presa si sdoppiò, lasciando l’arto per i  miei polsi portati senza tante cerimonie sopra la mia testa.

Infine, fu l’arancia e la cannella sulla mia bocca.

Interessante notare come  la mente fallisca in certe situazioni, rivelandosi inutile e confusionaria; infatti, nel frattempo che il mio cervello si stava chiedendo furiosamente l’identità del furbone in vena di scherzi, il mio corpo, sin dall’istante in cui era venuto a contatto con “l’aggressore”, si era immediatamente rilassato, riconoscendolo subito e senza ribellarsi in alcun modo al brusco trattamento, né ai baci ora esuberanti e lascivi, mentre una mano abbandonava un mio polso, cedendolo all’altra, per infilarsi birichina sotto il mio maglione, curiosando al suo interno sfrontatamente.

Uhm … mince, si c’était bon … mais … ces doits … ces lèvres … ce corps … (Uhm … cavolo, se era piacevole … ma … queste dita … queste labbra … questo corpo … ndr.)

Roteai leggermente i polsi, comunicando al mio partner l’intenzione di scioglierli e abbassarli, poiché avevo iniziato a perdere un poco la sensibilità. Egli me lo concesse più che volentieri, ricompensato per tale premura con le mie braccia al suo collo, una mano affondata tra i capelli, l’altra che giocherellava con la morbida epidermide della nuca. E quasi provenisse dai recessi più intimi e profondi del suo essere, il ragazzo gorgogliò gutturali fusa, facendomi arcuare soddisfatto le mie labbra contro le sue: quel suono mi piaceva.

E volevo udirlo di nuovo.

… qu’ont-ils pu faire à tous ceux, avec qu’il a couché? … avec cette fille … comment a-t-il été ? Doux ? Gentil?  Fougueux? Passionnant? (… cos’hanno potuto fare a tutti coloro, con i quali è andato a letto? … con quella ragazza … come è stato? Dolce? Gentile? Focoso? Passionale?, ndr.)

Hélas, davvero era la gelosia l’afrodisiaco più vecchio del mondo!

Preso da una disperata e arcana frenesia, mi stringevo a lui possessivamente, affondando le mie unghie tra i suoi vestiti, i miei denti sulla tenera carne del collo; gli bloccai una gamba intrecciandola con la mia, tutto per tenerlo fermo, per impedirgli di sfuggirmi via: simile all’ora impetuosa ora mite acqua, per quanto serrassi le dita mai avevo la certezza che mi appartenesse definitivamente. Il mio era un pensiero egoista e meschino, lo sapevo, però non potevo esserne esente: quando si amava per la prima volta, il dolce miele e le amare spine dell’innamoramento investivano in una mortale onda l’iniziato, il quale reagiva quasi sempre puerilmente, ignorando che la vera esaltazione dell’amore risiedeva nella serenità del compagno o della compagna rispetto alla propria.

Ed io me lo ripetevo costantemente, la mia ragione gridava a pieni polmoni di non essere né geloso, né egoista, né paranoico nei confronti di Milo, che simili sentimenti non solo rendevano vile il tenero affetto, ma che l’avrebbero pian piano trasformato in una soffocante corda, la quale avrebbe serrato il ragazzo in una gabbia di cupo sospetto, estraniandomelo poco a poco.

Non era ciò ch’io volevo. Egli doveva essere libero di tenermi con sé o abbandonarmi, se quello era il suo desiderio. E d’altra parte, tuttavia, che ruolo avrei avuto io? Era davvero giusto restare docile ad attendere? E passivamente accettare l’inizio o la fine della nostra relazione? Sarebbe stato troppo invadente da parte mia, se per una volta fossi stato io a  fermarlo per il braccio, dicendogli: “Sei tu colui che io desidero”?

“Est-il  mieux aimer une personne, qui t’hait ou être aimé d’une personne, laquelle présence  tu méprises?”(E’ meglio amare una persona, t’odia o essere amato da una la cui presenza tu disprezzi?, ndr. ), tale domanda mi sorse spontanea alle labbra e senza tanto riflettere la consegnai alle umane parole, onde darle suono e vita. Percepii il respiro caldo di Milo sul  mio volto e malgrado fosse buio, intuivo mi stesse osservando attentamente.

Aveva capito.

Fino a qualche mese fa, io lo odiavo con tutto me stesso e non avevo perso occasione per dimostrarglielo (a parole). Neanche lui del resto era stato tanto clemente nei miei confronti; ciononostante, scavando a fondo nella memoria  e analizzando a mente fredda, vidi poco a poco quanto il disdegno mi avesse accecato, come io mi sforzassi addirittura a cercare in lui colpe e difetti per giustificare la mia ostilità nei suoi confronti. E perché poi?  Invidia? No … Rivalità ? Neppure … Gelosia ?

“Qu’il est con !”, sbuffò un ragazzino di seconda liceo, lasciandosi cadere pesantemente sulla poltrona in biblioteca, in fila per prendere o riconsegnare un libro. Si arruffò indispettito la zazzera con tale energia, che un quindicenne Shaka, che gli era seduto accanto, alzò il sopracciglio, domandandosi sospettoso sull’eventuale presenza di pidocchi su quella criniera pressoché leonina.

“E chi sarebbe il coglione?”, inquisì l’indiano con nonchalance, girando distrattamente le pagine della rivista.

“Mio fratello!”, ribatté con veemenza il giovinetto, tamburellando nervoso le dita sui bracci della poltrona. Incuriosito, levai un secondo gli occhi dal paragrafo del libro  che stavo leggendo e mi concentrai sulla sua figura, per fortuna protetto da Shaka, il quale si ergeva da naturale scudo tra noi due, essendo seduto appunto in mezzo. “Quel deficiente si è messo con una salope! Una bagascia! Un virago in incognito !”, berciò, mordendosi irato l’unghia.

“Ci dispiace per lui”, replicò serafico il mio amico, ritornando alla lettura interrotta. Poi però si riconcentrò sul ragazzino, domandandogli incuriosito: “Sei nuovo di qui?”

“Mouais!”

“Strano, mi pareva di averti già visto da qualche parte …”

“Ah bon, forse ti sarà capitato di aver scorto mio fratello maggiore, ergo l’idiota in questione! Mettersi con Shaina, ma dico io! Che è una … bleah!”, fece schifato, scuotendo il capo biondo castano. Riprendendosi, ci porse la mano, presentandosi : “A propos, io sono Aiolia Valavitis, il fratello di Milo “Le Connard” Valavitis, che ha deciso di darmi il benvenuto al lycée presentandomi la mia “cognata”! Tzé!”

“Je vois … beh, io sono Shaka Kumar e lui è il mio migliore amico … Momus?!? Ma che stai facendo?”, s’informò preoccupato, notando le pingue lacrime che mi rigavano il volto.

“Tutto a posto?”, vollero sapere, fissandomi perplessi.

D’istinto, sollevai il libro e ne indicai la copertina. “Les Misérables … troppo commuovente … povero Gavroche!”, soffiai in un flebile sussurro, appagando la loro curiosità e placando al contempo stesso la galoppante apprensione. Oh se ero misero! Un pugno allo stomaco sarebbe stato più dolce!

Neppure per un istante avevo dimenticato quel giorno, in cui mi rivolse la parola dopo ben quattro anni di collège trascorsi solo in compagnia di Shaka. E intimamente, speravo che lo rifacesse, che passasse oltre al mio stupido gesto di scappare via.

Avevo atteso un anno; avevo sopportato i suoi scherzi e i suoi lazzi. Tutto nella speranza, che non si scordasse di me.

Ma evidentemente mi sbagliavo: per lui non ero che un tentativo fallito di mera e banale conversazione. Nient’altro.

Ah, eccola là. Gelosia.

“Si tu aimes, tu apprends aussi à souffrir. Sinon, si tu cherches des routes plus faciles, hélas tu n’aimes point. Tu adores ; tu vénères ; tu idolâtres,  mais pas aimer. Tout le monde veut son âme sœur, il l’exige, mais en réalité peu de gens possède le courage et la vraie envie de la rechercher, quoi il se passe” (Se tu ami, impari anche a soffrire. Altrimenti, se cerchi delle strade più facili, hélas non ami affatto. Adori, veneri, idolatri, ma non amare. Tutti vogliono la loro anima gemella, l’esigono, ma in realtà pochi possiedono il coraggio e la vera voglia di ricercarla, accada quel che accada, ndr.) , la voce di Milo era mesta, come il modo in cui mi abbracciava, tracciando con la punta del pollice la linea del mio zigomo. Sospirò, quasi volesse espellere l’anima.

Avrei dovuto intuirlo …

“Certo, che quella Shaina ha tutte le fortune: bella, ricca, viziata, coccolata e adesso si è pure fregata il ragazzo più decente della scuola!”, brontolò una giovane demoiselle sedutami accanto roteando spazientita il pennarello tra le dita, gli occhi puntati famelici su Milo e Shaina, i quali parlottavano con fare apparentemente complice in un angolino della biblioteca.

“Eddai, Amandine! Non è carino dire certe cose! Specie con il povero Camus che ascolta!”, la rimproverò Marin scherzosamente, all’epoca nella classe terminale. “Non te la sei presa, vero?”, mi domandò in maniera più dolce. Alzai di malavoglia il capo, che fino ad allora avevo tenuto ben chino sul cartellone per la presentazione orale del giovedì prossimo.

“Qui? Moi? Ha ! Se essere belli significa essere perseguitati da certe squinzie, ebbene sono contento di essere brutto !”, replicai velenoso, riconcentrandomi sul lavoro interrotto, mentre le due ragazze ridevano divertite alla mia (secondo loro) battuta.

“Mais non! Non sei brutto, Momus! Sei un po’ trascurato, ecco ! Se solo ti decidessi ad acconciarti i capelli decentemente e a vestirti come un ragazzo della tua età e non come mio nonno, sono sicura che faresti degna concorrenza a quel Valavitis!” , fu il consiglio della mia giovane vicina di casa, pigliando in mano il suo evidenziatore e ritornando a preparare la lezione per il giorno successivo.

“Néanmois, ti voglio bene Marin: sei l’unica qui presente a non sbavare dietro a quello scemo!”, sbottai senza rendermene conto. “Perfino adesso: ti sta fissando insistentemente, malgrado la sua gonzesse lo stia …” e non terminai la frase, limitandomi invece ad un rapido cenno del capo, che Marin seguì, notando la coppietta che si baciava: mentre però Shaina pareva presa dall’atto – i suoi occhi chiusi ne erano la prova – Milo al contrario li teneva ben aperti, vigili e puntati contro il nostro tavolo.

Ovvio che cercasse Marin con lo sguardo, no?

Rimasi perciò sorpreso, quando la detta ragazza eruppe in una cristallina risata, scuotendo ilare la testa ramata. “Ha – ha, Momus, quelle bébé tu es parfois! E’ te che sta guardando, non me !”

“Pourquoi moi ? Parmi tous les autres, pourquoi moi ? Je n’ai aucune qualité … je ne suis pas beau, ni brillant … pourquoi tu m’as choisi ?”(Perché io ? Fra tutti gli altri, perché io ? Non ho alcuna qualità … non sono bello, né brillante … perché mi hai scelto ?, ndr.), gli domandai a bruciapelo, appoggiando la testa là dove batteva il suo cuore.

“Je ne t’ai pas choisi : je t’ai reconnu !  Tu était là pour moi … maintenant je suis ici pour toi … ” (Non ti ho scelto : ti ho riconosciuto ! Eri lì per me … e adesso sono qui per te …, ndr.)

Un’ombra mi coprì la pagina, distraendomi dai dubbi di Laura sulla sua misteriosa ospite e amica, la bella ed eterea Carmilla [4], e riportandomi bruscamente alla realtà. Di riflesso m’irrigidii, chiudendo piano il libro e stringendomelo stretto al petto, onde proteggerlo da qualsiasi danno nel caso si trasse di quei babbuini, che ultimamente parevano averci preso gusto a strapparmi i libri di mano e a gettarmeli nel fango o nel cestino. Volevo risparmiare tale trattamento a quel romanzo in particolare, poiché era un regalo di Papie per il mio compleanno: verso la terza collège avevo infatti sviluppato un morboso interesse per la letteratura gotica ed orrorifica.

Invece, levando lo sguardo, vidi davanti a me la smilza figuretta di un ragazzino di appena quattordici anni - mio coetaneo -  dagli abiti scomposti e dai capelli biondo oro altrettanto disordinati. Mi spiava di sottecchi ritto e rigido, le mani portate dietro la schiena e il volto di un bel rosso papavero.

Ricomponendomi dall’iniziale apprensivo stupore, appurai trattarsi di Milo Valavitis, il Puck o Robin Goodfellow [5] del collège, un ragazzetto dalla fama di monello irrequieto, birbante e dalla lingua biforcuta.

E come ipnotizzato, tenni i miei occhi ben legati ai suoi turchesi, aspettando d’un tratto ansioso la sua prossima mossa. “C’est toi?”, essi dissero increduli, spalancandosi fino a dolere.

“C’est moi!”, risposero quelli baldanzosi, così diversi dalla più visibile timidezza del loro proprietario.

Milo aprì la bocca, ma la richiuse subito dopo. Ritentò una seconda volta e con l’ausilio del braccio: niente, non un solo suono fuoriuscì, tranne il porpora dalle sue guance. Al terzo tentativo sbiascicò qualcosa d’incomprensibile e solo al quarto udii un chiaro e tondo, seppur tuttora incerto: “Salut! Ça va?” e si rigirò nervosamente le dita tra loro.

Boccheggiai una muta risposta: mi aveva sul serio rivolto la parola e solo per parlare con me?

Di fronte alla mia reticenza, il giovinetto restò un poco deluso. Tuttavia, decise di non scoraggiarsi subito. “Ti chiami Camus, vero? Come lo scrittore Albert Camus! Io … io mi chiamo Milo … ehm, come l’isola e come la Venere al Louvre … beh, adesso non mi assocerai alla statua, eh? Sai, tutti mi dicono: “Ha – Ha, Milo, ti possiamo soprannominare Venere?” Ehm …”, si inumidì le labbra, arrossendo ulteriormente. Quanto al sottoscritto, era in estasi per quel piccolo sconclusionato monologo dedicato solo a me. “Senti, i miei amici ed io stiamo organizzando una piccola partita a balle au prisonier (palla avvelenata, ndr.) e mi … ci! ci piacerebbe se ti unissi a noi! Eh? Vorresti giocare con m- con noi?”, sbrodolò alla velocità della luce, osservandomi speranzoso.

Fu troppo per me, sempre costretto all’angolo nel dimenticatoio o a giocare con Marin e le sue amichette a casa sua in strani rituali ludici femminili, che consistevano nell’interpretare il ruolo di cicisbeo (o schiavo a seconda dei punti di vista) di ciascuna di loro; l’amorevole papà di inquietanti bambolotti frignoni; nell’assistere ai vari stordimenti amorosi e cottarelle;  a sopportare la mia trasformazione in una bambolina parlante con sommo e sadico gaudio di detti fragili fiorellini. Per fortuna, col passare del tempo certe attività erano cessate da un bel pezzo, periodo concluso con il solenne ficcamento in bocca della testa della Barbie al Paperbradipo, dopo che costui si fece beffe di me, poiché la mia seconda terribile cugina Camille mi aveva di nuovo forzato (col ricatto) a giocare con lei con le sue bambole.

Insomma, sentirmi invitato ad unirmi finalmente in un gioco tra maschi mi aveva davvero lusingato e certo, contavo prendervi parte. Peccato che l’euforia del momento mi avesse provocato una brutta vertigine e fui obbligato a barcollare via verso il bagno, congedandomi in un soffiato a malapena: “Excuse-moi!”

Una volta lì giunto, mi bagnai contento le tempie e i polsi, appuntandomi mentalmente di scrivere la sera stessa a Papie e raccontargli tutto. Terminato di rinfrescarmi e più sicuro sulle mie gambe, corsi di nuovo verso il cortile.

Mi fermai bruscamente.

Milo non c’era più.

E il riso si commutò in pianto.

“Mais … jusqu’à combien de temps, tu me voudras ?” (Ma … fino a quanto tu mi vorrai ?, ndr.)

“Et toi ? C’est pareil !” (E tu ? E’ la stessa cosa !, ndr.), replicò semplicemente il bicho, sciogliendomi dal suo abbraccio e sedendosi sulla cattedra con le gambe penzoloni. In quel momento le nubi liberarono la luna piena loro prigioniera, illuminando l’ampia aula di una luce eterea, appartenente quasi ad un altro mondo e permettendo di vederci per qualche istante, il volto metà rischiarato dal lunare bagliore, metà ancora celato da un’ombra meno gelosa.

Un tacito, notturno limbo irreale.

Avanzai di un passo verso di lui. “Pour toujours!” (Per sempre!, ndr.), confessai col cuore in mano, esponendomi.

“Ha! Trop idéaliste!” (Ha ! Troppo idealista !, ndr.), esclamò invece sarcastico Milo, voltando in un brusco movimento il capo dall’altra parte e partendo all’attacco della sua nocca. Gli afferrai la mano delicatamente, portandola lontana da quegli spietati denti.

“Assez avec ton cynisme !” (Basta con il tuo cinismo!, ndr.), mormorai piano, baciandogli la pelle martoriata e sanguinante. Non sopportavo la vista di mani così belle e così maltrattate, eppure allo stesso tempo spia del vero animo del ragazzo, tenutomi ben nascosto con accurata perizia e mostrato solo in rare e fugaci occasioni. Gli accarezzai la guancia, che Milo sostituì con le sue labbra, ponendo un lieve bacio sul mio palmo. Le mie dita scorsero leggere sulla serica pelle offertami, scendendo poi attraverso il ruvido della stoffa fino al cuoio della cintura, dove mi fermai.

Seppur un poco titubante, mi posi in ginocchio davanti a lui tra le sue gambe, divaricandole appena.

“Ah non!”, protestò Milo, intuendo al volo le mie intenzioni e afferrandomi per le spalle. “Pas ça! Non devi …!”, e tacque, quando gli posi l’indice sulle labbra vermiglie, liberandomi dalla sua presa gentile.

“Lasciami ricambiare, per favore. Me lo negheresti, forse?”, inquisii, apprestandomi ora un poco più deciso a porre in atto il mio intento.

“Ah! Non dovresti …”, ripeté il bicho, aggrappandosi con forza ai bordi della cattedra e gettando indietro il capo, mentre un’unica grossa lacrima gli rigò il viso. “Non dovresti …”

I bellicosi cirri invernali ricatturarono la luna; l’oscurità della notte era la nostra signora e padrona.

 

***

 

Un fruscio di coperte, un leggero dondolio del materasso e la frase “Credi che stasera consumeranno?”, strappò Rhada definitivamente dal dormiveglia raggiunto a fatica. Tra le valigie, il controllo dei voli, il meco post-esami medici, matrimoni e le chiamate apprensive di genitori e parenti, che temevano quasi di sapere il loro Vivervone ghigliottinato nella terra dei sanculotti, il poveraccio era crollato sul letto verso le dieci e mezza, intimando al fidanzato senza tanti giri di parole di ronzare dal suo gemello e grazie tante.

Tzé! Come no!

Aprendo a fatica una palpebra appesantita, l’inglese spiò l’ora sull’orologio digitale: mezzanotte giusta, giusta. Sospirò: l’amaro calice non era ancora stato bevuto a fondo!

“Che ci fai tu nel mio letto?”, sbiascicò, senza degnarsi di girarsi sul fianco per meglio conversare col nuovo arrivato sotto le lenzuola.

“Chouchou, siamo fidanzati, no? E’ normale, che voglia condividere ogni cosa con te!”, replicò Kanon in vena di coccole, provocando uno scettico aggrottare della fronte del suo meco, che ribatté serafico:

“Non con tua nonna di ronda, però!”, ottenendo un significativo allontanamento da parte del gemello minore verso il bordo del letto. “Allora, parla!”

“Gueh?”

“Due sono i motivi per i quali violi la privacy del mio letto: o per il rodéo de jambes en l’air o per la confessione di mezzanotte!” e indicò l’ora segnalata sull’orologio. Rotolandosi accanto a lui, Kanon gli si accoccolò sul fianco, sempre tenendo la testa coperta strategicamente sotto il lenzuolo.

“Sei arrabbiato con me, mon doudou?”

“No, mi limitavo a riflettere: se tu mi fai innumerevoli paranoie perché sono stato solo con Pandora, m’immaginavo con un certo divertimento come avresti reagito, in caso avessi avuto tanti amichetti quanto te!”, chiarì Rhada il dubbio del giovane, guadagnando un sordo e gutturale ringhio geloso e una stretta estremamente possessiva sul suo bacino da parte del franco-greco.

Appunto.

“Avanti, confessa!”, lo esortò l’inglese, provvedendo nel frattempo a liberarsi dalle implacabili e collose zampe del gemello minore.

“In effetti, sono preoccupato mon coeur! Oggi Sasà è stato troppo docile e soprattutto, troppo fesso: non è possibile, che abbia creduto all’enorme panzana da me raccontata circa quella famosa notte di Ferragosto. Enfin, Momus si sarebbe bevuto pure una mia crisi mistica o un incontro ravvicinato del quarto tipo con E.T., però il mio gemello? E’ più sospettoso di un inquisitore domenicano! Temo che qualcosa lo distraesse! E anche Milou non era collaborativo come suo solito! Tu che ne dici?”, domandò apprensivo Kanon, accendendo la torcia che si era portato seco e ponendola sotto il mento, creando grotteschi chiaroscuri sui lineamenti del suo volto.

 E prima che Rhada potesse donargli il suo parere, un portentoso Tump! attirò la loro reazione; in un battito di ciglia, Kanon era riemerso con un balzo da sotto le coperte e alla medesima maniera era sceso dal letto, galoppando in direzione della stanza di suo fratello.

“Sagaaahhh!!!”

 

***

 

Stravaccato senza fiato su di un banco, masticavo a pieno ritmo di mascelle i chewing gum che portavo di solito con me, arrivando a quota dieci in bocca in un sol colpo e malgrado questo gommoso stratagemma, lo strano sapore ancora persisteva ostinato.

“Te lo avevo detto di non farlo, ma tu nooooooo, testardo come al solito! Tiens, bevi! Magari copre meglio delle gomme da masticare!”, mi rimbeccò semiserio Milo, ritornando dalle macchinette con tre lattine – Coca Cola; Sprite e Fanta – e ponendomele davanti, in seguito ad aver acceso con l’unico dito libero la luce. Abbagliato, chiusi gli occhi infastidito.  

“Bleah, mi pare d’aver ingoiato un riccio di mare!”, esordii dopo qualche secondo di silenzio tra di noi, passandomi due polpastrelli sulla lingua e sfregando energicamente.

Sedendosi a gambe incrociate sopra il tavolo di fronte al mio, il ragazzo s’informò, intanto che estraeva un fazzoletto dalla tasca dei jeans: “Mai provato con il cioccolato fondente?”

“Gueh?”, feci sconcertato per lo strano accostamento erotico-culinario.

“Il riccio. Su di un cucchiaino di cioccolata fondente!”, mi spiegò paziente il bicho, pigliando il mio mento e lavando gli angoli sporchi sfuggiti dalla mia previa repulisti. “Sai, quelle bizzarre nouvelle cousine e i loro sbrodoli ... enfin, una volta ci capitò per dessert quell’obbrobrio: credo ti aver visto i miei fratelli divenire arcobaleno …” e storse la bocca al solo rimembrare il peculiare dolce. “In ogni caso, un coup de tête inaspettato da parte tua: che grandini domani?”, scherzò, cacciando il fazzoletto colpevole ben in fondo al cestino dell’aula.

“L’ho fatto, perché ne avevo voglia! E’ stato un atto consapevole!”, sbottai, aprendo la lattina Fanta e ingollandone avido il contenuto in grosse sorsate. “L’istinto non c’entra un pippio!”  e chiusi gli occhi, sentendo attraverso tutta la lunghezza del setto nasale le bollicine solleticarmi, onde liberarsi sotto forma di un gas vocale. Deglutii a fondo e il rozzo impulso svanì.

“C’est bien”, dichiarò enigmatico lo scorpion, appoggiando il mento sul palmo della mano. “Significa, che finalmente sono riuscito a darla sui corni al mio grande rivale!”

“Uhm? Quale rivale?”, domandai disorientato e la pressione, che Milo esercitò coll’indice sulla mia fronte, fu l’esauriente risposta.

“Questo tuo testone più duro del becco di un pinguino, eccolo là il mio rivale in amore! Hé, che bel triangolo formiamo: tu, io e il tuo cervello!”, scherzò ilare il biondo, sciogliendosi in una risata. Da dietro la lattina di Coca Cola lo guardai storto. “Se davvero la tua era un’azione premeditata, beh, mi fa piacere apprendere che la tua stessa materia grigia si stia accostumando all’idea, che siamo p’tits amis …”

“Tzé! Vedi piuttosto di non essere te, quello a  prenderci troppo gusto!”, borbottai, appoggiando il contenitore vuoto della bevanda e acchiappando in un nanosecondo l’ultimo rimasto. “E’ stato un caso a sé, non sperare in un bis da parte mia: Paganini non ripete, oh que oui!”

“Interessante notare come ti ubriachi perfino con le bibite gassate!”

“Non sfottere! Dico sul serio!”

“Lo so”, replicò tranquillo Milo, stiracchiando in avanti le braccia. Poi, tornando più serio, continuò: “Non ho nessunissima intenzione di essere oppressivo e invadente nei tuoi confronti; né di obbligarti alle joies de la sodomie se tu non te la senti davvero. Chissà, magari un giorno ti innamorerai con tutto te stesso, trovando finalmente “l’uomo o la donna della tua vita”, cui poter donare il tuo cuore senza riserve alcune e vivere sereni assieme. E quando quel momento arriverà, io mi ritirerò nel mio ruolo di bravo fratellastro e non interferirò mai più nella tua vita sentimentale. Ma fino ad allora, che ne dici di farci compagnia a vicenda? Non è un po’ triste essere due solitari zitelli?”, la buttò sul ridere il bicho, seppur ogni parola fosse stata tremendamente sincera. Allungò la mano per sancire il patto, arto che fissai a lungo di sottecchi.

“T’as raison, Milo. Tuttavia, se la metti così, spero sinceramente di non dover mai incontrare né l’uomo né la donna della mia vita”, confessai onestamente, eludendo la sua mano per sistemarmi accanto a lui, rifugiandomi sotto l’ala protettiva del suo braccio.

“T’es le mec le plus exaspérant du monde, tu sais?” (Sei il ragazzo più esasperante del mondo, lo sai ?, ndr.)

“Oh que oui ! Et ceci est la raison pour laquelle je te plais, mon cher scorpion lubrique chasseur de vierges pingouins !” (Ma certo ! E questa è la ragione per la quale ti piaccio, caro il mio scorpione lascivo cacciatore di vergini pinguini !, ndr. ), ribattei sullo stesso tono scherzoso, appoggiando il mio mento sull’incavo della sua spalla.

Un placido silenzio s’instaurò tra di noi.

“Milo?”

“Uhm?”

“Ce l’avresti una chewing gum, per favore? Ho finito il pacchetto …”

“…”

 

***

 

Era stata una fitta acutissima e familiare di dolore agli occhi ad averlo costretto a quel brusco risveglio. E la medesima stilettata gli aveva oscurato la vista, impedendogli di vedere la strada dal suo letto alla scrivania, facendolo inciampare contro Dio solo sapeva che. Una bella batosta sul naso fu la conseguenza di tale sgradita caduta, fortunatamente risoltasi con un brutto graffio e un vero e proprio salasso di sangue dalle narici, ma il setto nasale era per miracolo ancora intatto.

L’irruzione in camera sua dell’intero clan presente lì in casa completò il giocondo quadretto.

E come se non gli fosse stato sufficiente il teatrino della notte precedente, ora Saga doveva convivere con un sordo doloroso pulsare al naso, rendendogli addirittura impossibile indossare gli occhiali.  Una vera seccatura.

Ciononostante, l’unico lato positivo di avere un cerottone largo come una balena sul setto nasale era di possedere un sostituto al male agli occhi (chiodo scaccia chiodo docet), i quali nell’ultimo periodo oltre a giocargli strani scherzetti persino con le pesanti lenti indosso, erano stati venati da spasmi sempre più frequenti e talvolta insostenibili. A onor del vero, sin da piccolo Saga aveva sempre sofferto di una vista non proprio eccellente, ma quell’atroce dolenza era per lui una novità, sebbene lui per primo ne sospettasse la causa originaria.

E suo padre con lui: per questo, lo aveva richiamato assieme a Kanon per i controlli medici, quello oculistico in particolare. In quel genere di malattia, una delle causi scatenanti risiedeva nell’ereditarietà ed avendo appunto i due gemelli gli stessi geni …

“Senti dolore?”

“Molto, dottore.”

“Da quanto?”

“Settimane, credo. Prima saltuariamente, poi con maggior regolarità.”

“Uhm …”, il medico abbassò la speciale torcia e lasciò libero il volto di Saga, dirigendosi verso la sua scrivania. “Uhm …”

“Ebbene?”, domandò calmissimo il gemello maggiore, girandosi nella sua direzione.

Osservandolo attentamente, l’uomo commentò allusivo: “Speravo che me lo dicessi tu, Saga.”

Ma ancora una volta, il giovane non si scompose. “Lei è il medico, non io!”

“Anche se riuscissi a farti reperire domani stesso i risultati delle analisi, in ogni caso essi confermerebbero ciò che tu già sai”, dichiarò il medico, incrociando le braccia e portandosi accanto al ritto e rigido franco-greco, il quale inquisì atono:

“Non sono buoni?”

Appoggiandogli la mano sulla spalla a mo’ d’incoraggiamento, l’anziano signore ribadì lentamente: “Non sono buoni.” Sospirò a lungo. “Certo, dovrai sottoporti a delle analisi di accert- … oulà, Saga! Dove vai …?”, fece perplesso, notando come all’improvviso il gemello si fosse alzato bruscamente in piedi, volando verso la porta dello studio, che spalancò con veemenza.

Al povero giovane mancarono all’appello numerosi battiti cardiaci, quando vide fuori dall’ambulatorio medico suo fratello Milo pallido, tremante e con gli occhi follemente dilatati com’erano lo stesso giorno in cui si svegliò dal coma e gli fu comunicata la morte di madre e sorella.

“Milou …”, mormorò Saga, allungando il braccio, ma il ragazzo indietreggiò inebetito e confuso, scappando poi via quasi avesse i diavoli dell’inferno alle calcagna. “Milou!”

Per tutta la mattina e il pomeriggio che seguì Saga aveva rimuginato tra sé e sé sgradevoli  e ansiosi pensieri circa la natura della sua malattia;  fino a che punto Milo avesse ascoltato e quanto inteso; infine, alla reazione stessa del fratello, del quale ben conosceva il particolare rapporto tra lui e l’ospedale, un odio senza fine. Fortunatamente, al pomeriggio pareva essersi abbastanza calmato; in ogni caso, il maggiore lo aveva tenuto sottocchio lo stesso.

Eppoi, vi erano gli altri fratelli. Il gemello più anziano non dubitava di aver convito con la sua performance pomeridiana i due minori; ciononostante, ripensandoci meglio, forse non si era salvato dal sospetto del suo doppio … uhm … raggirare Kanon era tutto un altro paio di maniche …

La fitta della notte precedente, poi, aveva per poco contribuito a far cascare il palco. Ovviamente, non era intenzione di Saga celare il suo male, ma voleva essere lui  il primo a comunicarlo ai suoi fratelli. Glielo doveva. Solo, bisognava trovare le parole adatte e in quel momento, con la luce sempre più fioca negli occhi malgrado fosse pieno giorno, lui non sapeva sul serio da che parte incominciare.

La porta dell’ambulatorio si aprì e suo padre uscì assieme al dottore. Benché il volto del genitore fosse impassibile, Saga ancora riusciva a distinguere la linea dura presa dalla sua bocca. Di riflesso, le dita del giovane afferrarono il piccolo crocefisso d’oro appartenuto alla madre e donatogli sul letto di morte.

“Saga …”, mormorò piano M. Christophe, dopo essersi congedato dal medico. “Oh Saga …”, ripeté, sedendosi accanto a lui e abbracciandolo forte. “Il faut que tu sois courageux maintenant … rien n’est encore perdu …” (Bisogna, che tu sia forte (lett. coraggioso) adesso … niente è ancora perduto … , ndr. )

“Je le sais, Papa, je le sais !”, concordò il gemello maggiore, appoggiando la testa sulla forte spalla del padre, gesto a lui estraneo da quasi otto anni.  Serbando un mesto silenzio, l’uomo accarezzò il capo biondo oro del suo primogenito maschio, di quella rondinella che aveva imparato a volare troppo in fretta, onde provvedere al nido orfano di madre. “Nous ne sommes que dans les mains de Dieu …”, mormorò poi il giovane e il padre assentì, osservando con pacata sofferenza i bulbi oculari lievemente ceruli del figlio.

Il glaucoma stava poco a poco corrodendo la vista di Saga, portandolo inesorabile alla cecità.

 

 

 

To be continued …

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[1] Argos. Nella mitologia greca, si narra che Hera, scoperta la tresca tra Zeus e la bella Io, costrinse il primo a trasformare in mucca la seconda, onde preservarla dall’ira della –giustamente – gelosa moglie. Sennonché, con l’inganno, Hera ottenne la custodia della mucca – fanciulla, consegnandola al suo fido Argos, un gigante con occhi ovunque sul volto. Per sottrarre la sua bella vacca, Zeus incaricò Hermes di addormentare il gigante e accopparlo poi decapitandolo. Detto, fatto. (Che vi aspettate da una divinità la cui prima gesta consistette nel fregare gli armenti al suo fratellastro Apollo?) Vedendo il suo servo con la testa spiccata dal corpo, Hera, dopo aver maledetto il fedifrago e la sua progenie illegittima, pigliò il capo mozzato e staccò gli occhi uno ad uno, collocandoli sulla coda del suo animale sacro. Nacque così il pavone, simbolo per eccellenza di Hera o Giunone.

[2] Moglie di Lot. Nell’episodio della Genesi, durante la distruzione di Sodoma e Gomorra, a Lot era stato detto di abbandonare la città (Sodoma) senza voltarsi a vedere la punizione divina abbattersi su di essa. Sua moglie, invece, disobbedì e per castigo venne trasformata in una statua di sale.

[3] Grillo Parlante. Nel romanzo di Collodi, quindi non nel film Disney, Pinocchio stufo di ascoltare i veritieri, saggi e allo stesso tempo sgraditi consigli del Grillo Parlante, preso da un attimo di stizza lo spiaccica senza tanti complimenti.

[4] Carmilla. E’ la bellissima vampira protagonista dell’omonimo romanzo di Sheridan LeFanu del 1872 e “mamma” di Dracula di Bram Stoker, pubblicato più tardi nel 1897. Figura piena di fascino e sensualità, ella intreccia una velata, pudica e dolcissima relazione omosessuale con la narratrice Laura; quest’ultima non cesserà mai di dimenticarla anche dopo l’“uccisione” della vampira da parte del padre, del generale Spieldorf e del barone Vonderburg.

[5] Puck o Robin Goodfellow. Nel folklore inglese, Puck è un birbante spirito dei boschi, un equivalente del dio Pan greco. Shakespeare lo rese famoso nel ruolo del braccio destro del re degli elfi Oberon, nella sua commedia Sogno di una Notte di Mezz’estate o “A Midsummer Night’s Dream” (1594-’96)

 

 

 Bien, oggi sono partita prima con le noticine! ^^

*non avevi il coraggio di farti vedere, dopo questa stangata finale, sbuffa la gemella malvagia*

Vero …

Spero vi sia piaciuto e alla prossima! Ancora buone feste e buon anno nuovo! (Non dovessi aggiornare prima!)

Ciao!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** I Dolori dei Giovani Valavitis ***



Salve a tutti!

Forse non ci siamo mai presentati direttamente, quindi sbrighiamo subito questa formalità: sono la gemella malvagia di Hoel, altresì nota come la fonte primaria dei twist più inaspettati di questa storia. Perché oggi vi parlo io? Presto detto! La mia carissima doppia in questo momento non vuole farsi vedere in giro, poiché a) teme di essere da voi lapidata, dopo che avrete letto il capitolo; b) per trovare ispirazione verso un certo passaggio del detto capitolo, è stata costretta a rivedere New Moon.

Rinchiusasi in camera sua, rifiuta da giorni di uscire e hélas, qualcuno qui il lavoro sporco lo deve pur fare, no? E allora, eccomi qui a presentarvi il capitolo!

*sorseggia la sua grappa alla genziana, prendendo una lettera e legge ad alta voce: *

“Ringrazio tutti i miei lettori e recensori, sperando che la soluzione da me scelta al “Problema Saga” non vi deluda. Del resto, era quella che mi sentivo di più di scrivere.

Ancora un bacio e un forte abbraccio a tutti coloro, che malgrado le ormai assodate 50 pagine, ancora non si scoraggiano a recensire, aiutando poi l’autrice in certe sue sviste, giacché anche lei è umana e la mole di cose da ricordare troppe! E soprattutto, per avermi seguito anche in fase digestiva durante le feste!

Grazie quindi a:  Tifawow ; Diana924;  Angel_Dark_Light (perdonami! Please!) ; Charm_ Strange; Titania76 ; Lovearmony; Sagitta72 ; ArcadiaLaNotte, Eno;  Ignis e Aasa5; Shinushio (benvenuta!) Aurora (bentornata!); TheMorrigan1990 (benvenuta!) e ElizabethTempest (benvenuta!), merci à vous!

Uno speciale ringraziamento ad Eno, per aver votato la mia fic tra le storie scelte, il tuo gesto mi ha davvero commossa, grazie infinite! *sob*

Last but not least, ringrazio tantissimo MilodelloScorpione, che davvero gentilmente ha disegnato la copertina di Niente di Buono. Vi do qui il link, perché sono imbranata con l’Html.  Se qualcuno mi spiega come si mette, gli compro una caramella.

Bien, ora mi eclisso.

Buona lettura!
Vostra,

 

H.”

*chiude la lettera*

E queste furono le sue ultime parole! Au revoir!

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“GYAHYAOUUHHHHH!!!”, eruppe a metà mattinata il vulcano - antropomorfo – Eyjafjallajokull, altresì noto come Saga Cosmas Valavitis, richiamando la mandria familiare rimasta, la quale accorse celere e rumorosa in salotto e si appollaiò attorno al divano su cui giaceva il giovane semicosciente.

Sistemandosi accanto al gemello, Kanon gli afferrò la mano, stringendola così forte, che Saga percepì tutte le sue ossa crocchiare a ritmo di tango. “Ti sei svegliato finalmente!”, esclamò sollevato, continuando commosso lo stritolamento del povero arto prigioniero.

“Tiens, bois ça!” (Tiò, bevi questo!, ndr.), gli offrì Mamie un bel bicchierone panciuto pieno fino all’orlo di Armagnac, cacciandoglielo pressoché in bocca. “Ti tirerà su, vedrai!”

“Saga, ci hai fatto morire di paura!”, disse Maman, tormentandosi la collana di corallo. E Rhada specificò il motivo esatto di tale spavento con la sua solita pragmatica schiettezza very British:

“Eri svenuto con gli occhi aperti … really terrific …”

Puntellandosi sui gomiti, Saga si guardò intorno: vista pesantemente appannata come al solito, niente né della stanza né delle persone al suo interno parevano essere fuori posto. Oh beh, escludendo un macello apocalittico in salotto, caratterizzato da palle di Natale rotte o rotolanti per terra, più l’albero caduto e Fred che lo annusava contento di aver trovato il suo futuro gabinetto.

Una piccola e maligna fitta di dolore gli scosse i nervi, ma non partì dagli occhi. Dal naso.

“Oh, oh Saga non toccare …”, gli consigliò M. Christophe, pigliandolo per il polso e scostando le dita curiose. “Ho appena sistemato la garza! E neppure la testa!”, aggiunse, bloccando il tentativo del suo primogenito di levarsi la borsa del ghiaccio dalla testa dolorante. Grugnendo, il gemello maggiore sfiorò coi polpastrelli i due bernoccoli collezionati in meno di quattro giorni: perfetto, ora assomigliava sul serio al Mosè di Michelangelo! Gli mancava solo la barba ed era fatta, senza dimenticare Kanon che gli lanciava lo scalpello, urlandogli: “Perché non parli?”

E a giudicare dal male al naso, Saga lo ritenne pure possibile. Mince, quelle douleur!

“Te lo avevo detto, Maman, che quella stella cometa era una granata della Prima Guerra Mondiale camuffata!” O anche delle guerre napoleoniche, volendo …

“Mouais e le palle di Natale di vetro coi nastri sono Molotov sotto copertura!”, replicò piccata Mamie al commento della figlia. “Colpa mia, se il nipotastro combina cose turche coll’abete?”

“Quali cose?”, domandò disorientato Saga, portandosi la mano sui capelli. “Ih, i miei capelli!”, strillò scioccato, notando delle ciocche nere tra le sue dita. “Ma non me li ero lavati?”

“Ehm … no!”, disse Maman, alzando perplessa il sopracciglio. “Ieri sera il cane ha fatto irruzione nel bagno e sebbene avessimo pulito e disinfettato per quattordici volte, nessuno se l’era sentita di farsi la doccia!”

“Davvero?”

“Obviously, Saga! Eppoi eri così stanco … ti sei addormentato esattamente nel punto in cui Poirot rivelava chi avesse ucciso Amyas Crale!”[1] , affermò convito Rhada. Appisolarsi proprio nel momento clou di un giallo era sul serio sintomo di grande stanchezza o noia allo stato puro.

“E … e il glaucoma?”, balbettò Saga, guardandosi sempre più affannosamente intorno, quasi stesse cercando una via di fuga da quelli che lui percepiva come subdoli cospiratori.

E chissà perché, Kanon ne era il capo indiscusso.

La paranoia del confuso giovane aumentò poi a dismisura, quando notò gli sguardi ora perplessi ora preoccupati che i presenti si scambiarono, il cane incluso. Una fastidiosa teoria si stava formando nella sua mente ora più vigile e attiva; un’ipotesi che da una parte lo riempiva di sollievo, dall’altra lo inquietava sopra ogni umano dire.

“Glaucoma?”, ripeterono in coro gli astanti poco convinti, tra cui si isolò la voce di M. Christophe che aggiunse dolcemente apprensivo: “Ancora il sogno del glaucoma?”

“Come?”, fece il gemello maggiore con un’incredula vocetta acuta, portando le ginocchia al mento e rannicchiandosi dietro di esse a mo’ di scudo. “Un … un sogno?” Bordel, per essere solo una rielaborazione della mente era stata davvero dolorosa: Saga poteva ancora percepire la fitta agli occhi … oh forse no? Che fosse il naso? O la testa bi-bernoccoluta? Non ne era certo, però … però … i risultati … le parole del medico … il viso agitato del fratello … tutto era stato così reale …

“No”, scosse ferocemente il capo il giovane, scendendo lentamente dal divano. “Non è possibile … mi … mi state prendendo tutti in giro … tu” e indicò in maniera accusatrice il gemello, che sbatté sorpreso le palpebre e si guardò attorno, come se vi fosse un terzo gemello disponibile ad incassare l’accusa mossagli contro “tu in particolare! Ieri … oggi … Seigneur … i risultati delle analisi! Ecco! I risultati! Il dottor Chantel mi ha detto che non erano buoni, che avevo il glaucoma! E … e Milou ha origliato!”

“Il dottor Chantel?”, inquisì Maman, allargando gli occhi stupita. “Pensavo non esercitasse più da sette e passa anni!”e cercò conferma negli occhi del compagno, che allargò in assenso le braccia.

“Aspetta, c’era Papa che ti consolava?”, incalzò Kanon, rincorrendo il suo doppio, che nel frattempo arretrava quasi si trovasse dinanzi ad un branco di leoni da troppo tempo digiuni. Il timido e incerto cenno affermativo di Saga lo condusse a concludere con un solenne: “Visto? È il sogno! Ti spacchi il naso; vai nello studio dell’oculista; ti viene diagnosticato il glaucoma; Milou ti origlia e piangi sconsolato tra le braccia di Papa!”

Scuotendo il capo con maggior veemenza, il maggiore negò energicamente, incapace di credere a quanto le sue orecchie stessero ascoltando: che fosse arrivata per lui l’ora di visitare uno psicologo? Bon sang, non di nuovo! “Non era un sogno … e … e il naso me lo sono ferito lo stesso: guarda!” e puntò l’indice contro la protuberanza gonfia e dolorante che aveva al poso dell’effettivo naso. “Eppoi, per tutto il pomeriggio ci ho rimuginato sopra, non posso essermelo sognato!”

Ponendo bellicoso le mani ai fianchi, Kanon replicò secco: “A che ora abbiamo avuto la visita oculistica?”

“Alle undici e mezza!”

“C’est exact! Ne deduco quindi, che noi abbiamo nascosto in cantina un gemello di Milo!”

“Oh dear …”, commentò apprensivo Rhada, portandosi l’indice alle labbra per celare il suo sussurro. “Speriamo di no, altrimenti siamo fregati …”

Ignorando il cognato, Saga domandò gelido: “Che attinenza avrebbe ciò con il controllo?”

“Eh bien, era la spiegazione più logica per giustificare il fatto, che alle undici e mezza un Milou fosse a scuola, mentre un altro Milou ad origliare dietro la porta di un ambulatorio chiuso da sette anni e nove mesi!”, ribatté ineffabile il minore, incrociando le braccia.

“Senza contare, che i risultati delle analisi arriveranno, forse, domani. Quasi mai il giorno dopo. Non sono uno specialista del campo, però ti posso assicurare che non vedo quei bulbi oculari celestrini sui quali discorrevi!”, terminò il padre, provocando inavvertitamente un inaspettato cortocircuito nel suo primogenito maschio, il quale, balzando all’indietro pigliò in un nervoso gesto l’attizzatoio, mulinandolo a caso contro i presenti che, alla sola vista dello spettacolo circense, ponderarono con cura l’ipotesi di tirare fuori la camicia di forza d’emergenza.

“Non sbeffeggiatemi! Voi … voi … voi non siete reali! Siete il frutto della mia fantasia! Io ho il glaucoma, maledizione! Non scherziamo, bordel!”

Tralasciando commenti circa l’evidente perdita della ciribiricoccola di Saga, diremo che la zelante famiglia si armò anch’ella, chi di un cuscino per la protezione, chi della pala raccoglicenere, chi del vaso kitsch e chi, come Kanon, del soffietto in pelle puntando codeste armi di fortuna contro il giovane pronto a dare battaglia, onde difendersi da quegli ambasciatori portatori di grandissima pena.

“Lontani! Lontani da me! Altrimenti calci in culo per tutti!”, berciava Saga, lanciando un cuscino contro la massa attaccante e contemporaneamente eseguendo un raffinato sgambetto con l’attizzatoio contro la caviglia del gemello, che sgambettò indietro cadendo su Rhada, che diede una gomitata a M. Christophe, che fu raccolto da Maman che tentò arretrando di pestare il piede a Mamie, se quest’ultima non l’avesse evitato all’ultimo momento, eseguendo una strana piroetta degna di Carla Fracci.

“Eddai Sasà! Vincere il trofeo del Talpone d’oro dell’anno non significa aver contratto il glaucoma!”, esclamò Kanon, attivando maligno il soffietto in faccia al fratello, che starnutì di riflesso.

“Farai la cura del laser, promesso!”

“Non vi credo!”, gridò il maggiore dei due gemelli, continuando a tirare tutto ciò che gli capitasse sottomano. “Volete solo confondermi! Ma io non ci casco! Siete solo delle proiezioni! Dei ricordi!”

“Già, e magari siamo pure il tuo incubo peggiore!”, sbuffò scettica Mamie e lode sia a Rambo. “Dai rockettaro teddy boy, molla l’attizzatoio e parliamone con calma!”, tentò di negoziare, pigliandosi un cuscino dritto in faccia per tutta risposta. Alzando imperturbabile il sopracciglio, l’augusta avia affermò: “Lo avevo visto; non mi sono mossa apposta.”

Poi, l’ultimissima dei Moicani brandì in aria l’ascia unicamente riservata per lo scalpo, ululando agguerrita.

“Saga, eri sonnambulo!”, gli spiegò Rhada, approfittando del placcaggio di Mamie da parte del meco, suocero e futura suocera per trarre in disparte il cognato, tentando di farlo ragionare.

Una pia speranza.

“Allora, stanotte ti sei alzato dal letto sonnambulo, dirigendoti verso la porta, che hai mancato in pieno, sbattendo così il naso contro lo stipite. Quando siamo arrivati in tuo soccorso, tu te n’eri già svolazzato via in salotto sporco di sangue, abbracciando all’improvviso l’albero di Natale in maniera un po’ … come dire … euforica. Insomma, tanto lo agiti, tanto lo scuoti che dalla punta dell’abete si sfila la stella cometa, la quale ti cade in testa con estrema precisione, creando una simmetria perfetta con l’altro bernoccolo … non mi guardare in quel modo, non sto insinuando nulla … dunque, rintronato per la botta ricevuta, svieni trascinando con te tutto l’albero, cantando nel frattempo O Tannenbaum! (O Abete (di Natale), canzone natalizia tipica tedesca, ndr.) Lo so che può apparire alquanto sul genere del bizzarre, però ti giuro che è la verità: questo è quel che è successo realmente!”

Sgranando confuso gli occhioni, Saga annuì lentamente con il capo, osservando un punto indefinito davanti a sé. Poi, sorridendo dolcemente al cognato – che indietreggiò spaventato di qualche passo – mormorò: “Oh, je comprends …” e rapido come un birbante folletto, riuscì a posizionare Rhada in modo da poterlo scavalcare mediante un’acrobatica cavallina. “Capisco che mi state tutti pigliando per i fondelli!”, sbraitò il maggiore dei fratelli Valavitis, trovando asilo politico sopra il divano in stile impero. “Andati tutti al diavolo quanti siete!!”

Codesta sua azione provocò diverse reazioni, scatenando principalmente però i due draghi di famiglia, i quali sputarono fuoco, fiamme e litri si saliva contro il medesimo fellone, sebbene per motivi assai differenti. Infatti, Kanon, cui non sfuggiva nulla concernesse il suo inglese, aveva notato con la coda dell’occhio quella posa giudicata piuttosto equivoca da menti maliziose: la cosa non gli era affatto garbata, sia per gelosia immotivata, sia per un’astinenza aux plaisirs de la chair di quasi due settimane. Aggiungendo poi che l’artefice di simile coreografia era niente meno che il suo gemello, hélas, lo spirito dell’Otello franco-greco proruppe in tutta la sua repressa furia.

“SAGA! ESPECE D’ABRUTIIII!!!”, ululò, tirando fuori il laccio del Punjab e tendendolo come una corda di violino. (Saga! Razza d’ebete!!!, ndr.)

Dall’altra parte, anche Mamie era in cima alla lista del domestico cahier de doléances [2]. “Delinquente! Non in piedi su quel divano: faceva parte della mia dote!”, imprecò, mulinando il pugno contro il nipote acquisito, ora cinto d’assedio da due bestie antropomorfe bramose del suo pomo d’Adamo.

“Tu non l’hai mai avuta una dote!”

“Appunto: è la mia dote di moglie abbandonata!”, puntualizzò la nonna, allentando di un poco il pugno. “Comunque, scendi subito da lì! O ti sottoporrò alla mossa Acchiappa Dégel e fidati: è tutt’altro che piacevole …”, lo minacciò arrotolandosi le maniche fino ai gomiti. E in sincronia perfetta, Kanon elargì un calcione al ginocchio sinistro, lo stesso che Saga si era ferito venerdì sera, intanto che Mamie rapidissima gli acchiappava l’orecchio, costringendolo a scendere tra vari guaiti di dolore. Che figurarsi se la nonna usava i guanti di velluto, tzé! Ella conosceva una tecnica segreta per torcere con raffinato sadismo il povero elice e antelice, costringendo il malcapitato di turno – Papie non era stato in realtà l’unico privilegiato a “godere” di simile trattamento -  ad attorcigliarsi su se stesso come una foglia attaccata da una fiamma. Nessuno seppe mai dove Mamie avesse appreso a pigliare la gente per l’orecchio in sì dolorosa maniera; ciononostante, la teoria più diffusa risiedeva nell’accanita difesa dell’avia nei confronti di suo fratello, quando certi omofobi della malora venivano ad imbrattare la loro porta di casa. Tempi che furono, riassumendo.

“Incomincio a farmi un’idea su chi portasse i pantaloni qui in famiglia …”, pensò in quel momento Rhada, il quale nel frattempo era stato artigliato dal geloso meco e tenuto a debita distanza dal tinto seduttore.

Invitando infine Saga a sedersi composto su di un altro divano, l’operazione fu portata a termine con una proverbiale e salutare secchiata di acqua gelida diritta in faccia, un piccolo tocco di cubismo per la sua prossima cosplay nelle vesti di Samara Morgan.

“Ebbene?”, inquisì M. Christophe, appoggiando la caraffa. (Sì, incredibile ma vero, fu il padre l’innaffiatore folle!) “Ci siamo un po’ calmati?”

Scostando i capelli dal volto quasi stesse aprendo un sipario, il gemello maggiore annuì docilmente, tenendo gli occhi ben puntati sul pavimento e una mano stretta all’orecchio rosso e pulsante. “Ouais … però … però davvero si è trattato di un …?”

“Ma certo, Sasà!”, convenne energicamente Kanon, inginocchiandosi a lui e sfiorandogli con una mano il mento, con l’altra mantenendo il suo inglese lontano dal suo doppio. “Ogni anno, da novembre fino a dicembre, fai sempre lo stesso incubo!”

“Davvero? Non me lo ricordo! Hé, mica posso tenere un diario di tutti i miei sogni … ops!”, scivolò Saga, mordendosi ora colpevole il labbro inferiore, specie davanti lo sguardo accusatore del padre, che replicò in un pericoloso sussurro:

“Adesso si spiega, perché lo psicologo disse che eri un caso perso …”

“In ogni modo, la prova sta nei tuoi capelli!”, s’intromise in fretta il gemello minore, evitando uno scontro tra i due capibranco. Meglio rimandare in un luogo più sicuro e isolato. “Guardateli!”

“Embé? Fanno schifo, ma non credo sia motivo di … Oh!”, esclamò il giovane, rigirando le ciocche nere tra le dita, realizzando solo ora dove Kanon volesse andare a parare.

“Già, oooh!”, lo imitò quest’ultimo, abbassando la mandibola fino a rassomigliare in modo impressionante all’Urlo di Munch, solo meno angosciante e più sfottitore. “A meno che tu non te li sia ridipinti nel gabinetto privato delle suore – cosa che dubito altamente –  o che tu non sia l’erede segreto del mago Otelma, mi vuoi spiegare come avresti dunque fatto ad avere i capelli biondi al momento della visita, poi neri con noi e poi biondi di nuovo con Papa?”

Silenzio in aula. La corte (a.k.a cervello di Saga) si aggiorna.

“Dunque …”, riprese il primogenito, frenando il lieve tremolio del labbro inferiore, “dunque non ho il glaucoma?”

“NO!!!”, ulularono in coro i presenti, ribattezzandolo con la loro saliva, sgolandosi.

 “Allora era tutto un sogno!”, affermò contento Saga, congiungendo deliziato le mani tra loro e sorridendo demente. “Ma non potevate dirmelo prima?”

Un secondo silenzio s’impose tra gli astanti e se i soliti grilli ignoti non fossero stati in ibernazione da qualche parte, beh, di certo il loro frinire sarebbe stato un ottimo e appropriato sottofondo.

“Papa, prenotami per una plastica facciale all inclusive: avere lo stesso viso di questo babbuino nuoce gravemente alla mia salute!”, commentò secco Kanon, alzandosi in fretta dal fratello  e allontanandosi da quest’ultimo, quasi si portasse seco la peste.

“Ancora non ci posso credere … forse sto ancora sognando …”, cogitò ad alta voce Saga, tamburellando le dita sul bracciolo del divano.  “Nônon, senti, perché non mi dai un pugno? Giusto per accertarsi!”

Ineffabile, il gemello minore rispose, nascondendo le mani nelle tasche: “Qui? Ora? Davanti alle signore? Eppoi, adesso non sono ispirato! Però, articola una sola altra parola e potrei cambiare facilmente d’avviso!”, puntualizzò, arcuando allarmato il sopracciglio alla vista del ghigno obliquo del fratello maggiore.

“Ah ouais? Una parolina soltanto? Come ad esempio, Pandora?”, citò – non proprio – a caso Saga, provocando che la sottile linea dorata della furia omicida trapassasse il cervello del suo doppio, processo intuibile unicamente dal modo in cui quest’ultimo arricciò mortifero il naso. Fu necessario un pronto placcaggio del padre, il quale gli era più vicino, per i fianchi, acciocché Kanon non disintegrasse il suo gemello in fina polvere per poi riutilizzarla in virtù di sabbietta per il gatto, alla faccia del mero pugno.

“Pandora?”, ripeté Mamie, ignorando quanto quel nome danneggiasse il sistema nervoso del suo secondo nipote acquisito.  “La tua ragazza?”, inquisì, rivolgendosi ad un Rhada gnorri.

“Pardon?”, sbatté quegli finto disorientato le palpebre, tappando contemporaneamente la bocca al suo meco senza voltarsi, quando quegli berciò: “Non è la tua raga- … mmnnpphff!!!”

“Siete allora ufficialmente fidanzati?”, infierì inconsapevolmente la nonna. Kanon si dimenò più forte.

“Beh, l’anello è già pronto …”, rivelò perfido Saga e l’occhiata assassina elargitagli dal gemello gli assicurò una prossima e implacabile vendetta personale nei suoi confronti. No, decisamente il minore non era del partito Forgive and Forget.

“Ehm … ecco, sì … Pandora è la mia ragazza …”, proferì lentamente l’inglese, cercando nel frattempo furiosamente un plausibile escamotage da quella penosa situazione (per il fidanzato). “… delle pulizie!”, concluse e finalmente Kanon parve rilassarsi tra le zampe del padre. “Sì, è la ragazza delle pulizie. Molto goffa, sbadata. Ecco, perché il mio … ehm … amico non la sopporta: non fa che rompere le sue cose … è assai fastidioso, sapete com’è … un campo di battaglia …” e batté la schiena del meco liberato, il quale si trattenne, a causa della presenza di Mamie in salotto, dall’attorcigliarsi attorno a lui come un possessivo boa constrictor. “Una vera tragedia … disastro …”

“Già!”, confermò Kanon, posando anche lui la mano sulla spalla del giovane anglosassone, contento che gli otto mesi passati assieme avessero portato un po’ di frutto, sebbene lui restasse il maestro indiscusso delle panzane colossali.

“In ogni modo”, interruppe M. Christophe quel piccolo momento pseudo-romantico, tirando fuori dalla tasca dei pantaloni un foglio. “Questa ti è arrivata giusto stamane. Kanon ne ha ricevuto una simile e anche Rhada. Volevamo comunicartelo a voce, però, visto il vaudeville di cinque secondi fa, beh, abbiamo giudicato che fosse meglio lasciartela leggere, poiché non siamo esattamente proni ad un immediato bis!” e gli cedette il pezzo di carta, che Saga afferrò veloce, scorrendone i contenuti.

Un piccolo brivido freddo gli percorse la schiena, nell’appurare che si trattava di una mail da parte del coordinatore della sua facoltà. Sehr geehrter Herr Valavitis, … bla, bla … schwieriger Schneefall … bla, bla … keine Unterrichte bis zweiten Semester ... Universität geschlossen …  alle Examen sind bis Februar verschiebt … mit freundlichen Grüßen … Shion Kippelstein …“ (Gentile signor Valavitis, … bla, bla … pesante nevicata … bla, bla … niente lezioni fino al secondo semestre … università chiusa … tutti gli esami sono rinviati a febbraio … distinti saluti … Shion Kippelstein, ndr.), terminò in un sussurro Saga, abbassando incredulo e smarrito il foglio sulle ginocchia. Altro che glaucoma, quello sì che era un bel tiro inaspettato! E la seconda mail stampata, che la futura matrigna gli mostrò, fu la triste e veritiera conferma di quanto appena letto.Scheiße verdammte …”, imprecò sommessamente il giovane, ripiegando quasi infastidito la lettera di cancellazione del suo volo per Münster. Quelle joie!

“Fra poco dovrebbe arrivarti anche all’annullamento della tua prenotazione col TGV per Nizza”, aggiunse Maman, sfilando con cautela i due pezzi di carta dall’improvvisamente muto figliastro. Eggià, per il primogenito maschio Valavitis la questione del ritorno all’uni non si circoscriveva, come per Kanon, nel recarsi a Bordeaux e lì pigliare il volo diretto. Saga doveva, infatti, affidarsi al Train à Grande Vitesse, o l’orgoglio nazionale francese, fino a Nizza e lì imbarcarsi per Münster, un vero trip apocalittico alla fine del quale Hilda, che lo veniva a prendere all’aeroporto in quanto unica possidente di una macchina, lo raccattava più morto che vivo, trascinandolo a momenti su per le scale una volta a casa, tanto il suo coinquilino era incerto sulle sue gambe.  

“Rhada ed io ne abbiamo ricevuto di simili pure noi! Un vero macello anche in Inghilterra!” esclamò Kanon ora più gioviale, sempre però con una zampa ben artigliata al braccio del meco. “Visto? Significa che da adesso in poi siamo in vacanza! Siamo liberi!”, giubilò euforico, saltellando per poco da un piede all’altro. “Non sei contento, frangin?”

Apparentemente non più di tanto, poiché Saga scoppiò in un lungo e disperato pianto, affondando il viso nel cuscino del divano e lasciando tutti alquanto maluccio. “Buh-hoo, questa proprio no! Voglio il glaucoma!”, frignò senza ritegno.

“Eddagli con questo glaucoma!”, toccò legno Kanon in segno di scongiuro.

“Piange?”, inquisì meravigliato Rhada, la cui neppure natura secchiona –ergo compagno di partito – riusciva a comprendere a fondo simile bizzarra reazione. Eddai, le ferie erano le ferie, no? Chiunque ne sarebbe stato sollevato, ma evidentemente l’unica lampante eccezione giaceva gemente e piangente distesa sul divano, elargendo nel frattempo stizziti pugnetti contro i cuscini.

“E meno male, che non gli hai detto degli aeroporti chiusi!”, commentò ironica Mamie, dirigendosi nel frattempo alla finestra e contemplando l’insolito paesaggio innevato. “Speriamo che la smetta di nevicare così anche da noi! Non mi va di restare bloccata qui dentro per tutto il giorno …”

“Devi avere pazienza, Maman, le macchine spazzaneve dovrebbero arrivare qui fra un momento all’altro!”, la rassicurò sua figlia, porgendo intanto un fazzoletto a Saga, il quale lo contemplò incuriosito, domandandosi come avrebbe fatto a soffiarsi il naso nelle sue attuali condizioni.

Il motivo di simili muliebri interrogativi risiedeva nell’incredibile nevicata di quell’anno, arrivando a rimanere isolati e fermi in casa senza possibilità di uscire, tanta la neve era scesa e tanto poco il comune cittadino fosse attrezzato per questi eventi a dir poco inusuali nel nostro dipartimento. Ne era conseguita una mattina spesa a telefonare a destra e a manca, spiegando ai rispettivi dirigenti il problema esistente. E quest’ultimi furono anche piuttosto clementi, giacché pure loro si trovavano nella stessa barca o più tragicamente nella stessa zattera della Medusa. [3]

Fu il telefono a destare gli abitanti di quella villa dalle loro elucubrazioni, imponendosi maleducato con quel trillo grottesco. Sbuffando, Mamie alzò la cornetta, rispondendo cauta che sì, voleva parlare con un tal numero, il quale appariva essere leggermente inglese, a giudicare dal prefisso +44.

E da brava citoyenne francese, ella adottò la  lingua della République per la conversazione: “Âllo, ici  Séraphine Molinier à l’appareil, bonjour!”

Una voce femminile replicò lentamente in un francese senza accento: “Pardon? Molinier? Ma non è questo il …” e recitò incerta il numero telefonico, prontamente confermato dall’augusta avia.  “Ma … ma …”, balbettò disorientata e dal fruscio di sottofondo si poteva intuire, che stesse o controllando su di un’agenda o che stesse chiamando una consulenza in loco.

E di fatti …

“Violante, for God’s sake, come here: are you sure that this is the right phone number?” e molto probabilmente quella che doveva essere la madre di Rhada stava sventolando il foglietto sotto il naso della nipote, che replicò convinta:

“Sure as hell, Auntie! Kanon gave it to me before leaving!”

“Then would you be so kind to explain me exactly the reason why a woman surnamed Molinier is answering my call?”, inquisì la donna dolcemente pericolosa, cammuffando nel frattempo il dialogo comprendo la cornetta con la mano.

“Dunno! Maybe because she’s simply his stepgrandmother and they share the same roof!”, fu la logica spiegazione di Violante.

“His ... what?”, in effetti non si era mai sentito in giro “nonnastra” o in caso contrario, non di frequente.

Parlando sopra quel che pareva essere un vagito d’infante – il piccolo Regulus -  la giovane dichiarò ora decisamente spazientita: “Don’t you recall, Auntie? Rhada and I have told you thousands of times that Kanon’s father is going to remarry!  Molinier is his new family’s surname!”

“Oh really? Well, I must have forgotten it!”, esclamò perplessa la consuocera, costringendo il figliolo a dirigersi in direzione di Mamie e domandarle gentilmente di cedergli la cornetta, onde accorciare il prima possibile l’imbarazzante conversazione.

“Sure enough you did ...”, commentò sarcastica Violante, allontanandosi col bébé piangente, nel frattempo che gli cantava sommessamente qualche nenia per addormentarlo.

“Er, excuse me Mrs. Molinier, for the little inconvenience ...”, si scusò la signora inglese, mea culpa cui l’augusta avia ribatté in un sornione:

“That’s right, happens all the times!”, strano per una tricoteuse come lei discorrere nella lingua dei roastbeef!

“May I ask if my son is there?”, s’informò la donna, sottolineando con curiosa energia l’aggettivo possessivo “my”. Il che suonava strano, essendo piuttosto nota la poca affettività dei genitori inglesi nei confronti dei loro pargoli.  Ma forse, la impensieriva il fatto che il suo unico erede maschio si trovasse in the land of the frogs e in compagnia del suo fiancé frog-moussaka e della sua famiglia della quale non conosceva un’acca – e meno male, chissà come avrebbe reagito My Lady se avesse scoperto che la nonna era una frog-kuskusu (in arabo o couscous nel più noto francese). Bordello culinario a parte, era appunto il sospetto impiantato nel loro isolano Dna  e l’ancestrale antipatia fra inglesi e francesi a far sì che i genitori di Rhada si sentissero alquanto a disagio nel sapere il figlio in terra straniera, come lo erano stati nel momento in cui egli aveva optato per un partner uomo e per di più senza cittadinanza - o per essere più precisi, sudditanza - inglese.  Hélas, se solo gli avessero detto di “No!”, quando un Rhada di appena sette anni chiese loro di frequentare un corso di lingue europee nel doposcuola …

Mamie aprì la bocca per rispondere, sennonché Rhada fu più veloce e le sfilò la cornetta dalle dita, che allontanò ad una sicura distanza dal suo orecchio.

Poiché …

“Mother?”, proferì lentamente il giovane, bloccandosi esattamente nel punto in cui stava per aggiungere: “Perché diavolo non mi hai chiamato al cellulare?”

Silenzio d’Oltremanica.

“Alexander. Rhadamanthys. Edward. Miles !!! Why aren’t you at home? You were expected  there at 10 am, that’s to say two bloody hours ago!!!”, riecheggiò la tromba d’aria per la casa, costringendo tutti i presenti a tapparsi le orecchie, se avevano caro il loro udito.

Hé, la mamma è sempre la mamma, di qualsiasi nazionalità essa sia.

 

***

 

E mentre a casa mia era arrivato l’uragano John Bull, nel Collège d’Etat et Lycée Victor Duruy qualche ora prima si consumava un’altra tragedia. Infatti, verso le 6.45 am, quando ancora Eos sonnecchiava paciosa con suo fratello Elio accanto alla madre Teia, una raccapricciante sirena gorgheggiò, mettendo alla prova le nostre povere e indifese coronarie.

L’allarme antincendio.

Balzati come gatti giù dal letto e ciononostante lo stesso intontiti da quel brutale risveglio, fummo capaci di raccattare appena in tempo qualche abito pesante o coperta e ad indossare un paio di calzini e le scarpe, dirigendoci frettolosamente in una spaventosa calca verso l’uscita del dormitorio e accampandoci nel cortile interno coperto da dieci centimetri di neve, tra imprecazioni e promesse di morte a coloro che avevano avuto la brillante idea di programmare a quell’ora un’esercitazione. E soprattutto, domandandoci il motivo per il quale le ragazze erano state le ultime a scendere.

Tuttavia, dal viso agitato dei professori che come noi risiedevano nell’edificio – sebbene in un’altra ala, separata dai dormitori degli allievi – intuimmo si trattasse di qualcosa di serio, altrimenti non ci avrebbero beato della loro vista in semi deshabillé, provocando qualche risolino soffocato tra gli studenti più maliziosi.

“Meno male, che Madame Matusa abita vicino alla scuola: se l’avessi scorta in camicia da notte, giuro che mi sarei cavato gli occhi col cucchiaino!”, borbottò Shaka, sfregandosi le braccia. Sebbene indossasse una vestaglia, il gelido vento penetrava lo stesso attraverso la stoffa, facendolo rabbrividire. “E tu? Non hai freddo?”, inquisì perplesso, notando come girovagassi tranquillo in maglietta e pantaloncini. A dire il vero, un pochino ce l’avevo, ma la mia personale ricerca dei miei fratellastri mi distraeva da simili corporee sensazioni. Infatti, durante la sconclusionata evacuazione li avevo persi di vista, in quanto fui trascinato via dalla corrente umana, ritrovando miracolosamente il mio amico al primo colpo.

La nostra spedizione venne interrotta dalla richiesta di trasferirci nella cantine (mensa, ndr.), perché innanzitutto non vi era il famoso fuoco, ergo niente propagazione delle fiamme verso altri edifici; secondo, poiché la mensa era staccata dal resto del complesso. Eppoi, era decisamente più confortevole del cortile innevato.

Una volta dentro, ignorando completamente il consiglio dei nostri professori di rimanere seduti al nostro posto, ciascuno si mise a vagabondare alla ricerca del proprio copain o copine, petit ami o petite amie, arrivando persino a salire sui tavoli per una generale overview dello stanzone. In questo modo scorsi Shura, trovando di conseguenza un infreddolito Aiolia accanto a lui, avvolto da ben due coperte.

“Momus!”, mi chiamò il lionceau, levandosi uno dei due plaid e lanciandomelo. “Sei ancora tridimensionale!”, dichiarò commosso, stritolandomi in un felino abbraccio. In effetti, me l’ero vista sinceramente brutta,  quando l’impazzita massa di studenti diretta verso le uscite di emergenza mi avevano a momenti spiaccicato sulla parete come una zanzara, separandomi dai miei fratellastri.

“E Milo?”, m’informai preoccupato, notando la sua assenza nel gruppetto.

“Sparito anche lui!”, rispose conciso Shura senza smettere di scrutare tra la piccola e ammassata folla di allievi. “L’ho perso di vista sulle scale. Alla faccia di tutte le raccomandazioni circa il prenderci la manina e scendere con calma!”, sbottò, passandosi una mano tra i capelli corvini, i quali notai essere bagnati fradici e lo stesso abbigliamento un po’ al contrario del ragazzo mi suggerirono, che lui non si trovasse nella sua stanza, quando l’allarme fu attivato. “Che hai da guardare, Molinier?”, mi riprese scocciato, facendomi sussultare. “Stavo facendo la doccia”, aggiunse, accorgendosi del mio sguardo puntato sulla sua capigliatura.

“Alle sette meno un quarto del mattino?”, feci confuso, ammirando per la prima volta lo spettacolo di un Shura Martìn imbarazzato e rosso cremisi. La sua salvezza da eventuali spiegazioni si incarnò per sua fortuna nell’arrivo della sua ragazza.

“L’ho trovato! È all’infermeria!”, esclamò sfiatata, scostandosi i capelli biondi dal collo.

“All’infermeria?”, ripeté stupito Aiolia, emergendo dal suo guscio di lana e anticipandomi di un nanosecondo. Annuendo, Junet ci spiegò velocemente la situazione:

“Da quel che ho sentito, non si tratta di un’esercitazione, eppure qualcosa ha fatto lo stesso scattare l’allarme e considerato che nessuno se l’aspettava a quest’ora del mattino, come abbiamo avuto modo di constatare vi è stato il panico generale tra gli studenti e alcuni sono rimasti feriti a causa della calca. Per fortuna nessuno è grave, ma …” e tacque, interrompendosi bruscamente. Vero, mi pareva ancora di percepire distintamente l’aria pregna di paura e di tensione espandersi nel corridoio e soprattutto il suo acre odore tra i vari corpi che si spingevano esasperati tra di loro, anelanti ad una salvifica via d’uscita, la quale stentava a presentarsi.

“Tu stai bene?”, domandò piano Shura, sfiorandole con la punta delle dita i brutti graffi ed ematomi sulle braccia, qualcuno fasciato persino con una piccola garza. Inoltre, la canottiera del pigiama era mezza lacerata sul fianco, sul quale anche lì vi era stato adagiato un cerottone. A quanto pareva, neppure le ragazze dovevano aver reagito meglio di noi maschi durante l’evacuazione.

Sorridendo, Junet lo rassicurò: “Mouais, lo sai che ora che sei il mio mec tu non ti libererai tanto facilmente di me!”, scherzò, sistemandosi meglio il golfino mezzo strappato. “Anche se, devo ammettere che le unghie di Lise ti avrebbero aiutato di quel poco …”, e scosse il capo biondo, ridendo. Poi batté le mani, dichiarando euforica, incamminandosi: “Beh, adesso basta fare gli egoisti! Abbiamo i due sposini da riunire!”

Ignorando l’ultima affermazione, le chiesi ansioso intanto che la seguivo: “E quando hai visto Milo in infermeria come stava?”

“Perché non glielo domandi direttamente?”, rispose al suo posto Shura, aprendo la porta dell’astanteria e cacciandomi dentro. Aiolia, Shaka e Junet ci imitarono subito.

Ora, non aspettatevi scenari tragici alla Via col Vento, di feriti e moribondi stesi agonizzati lungo tutto il perimetro della stanza. Vi erano sì dei lesi, però in maniera assai lieve e comunque non preoccupante. I più gravi zoppicavano appena. In fondo, sull’ultimo lettino, intravidi finalmente Milo, il quale era trattenuto a viva forza dall’infermiera Madame Bonnet, impedendogli di sgattaiolare fuori.

“Milou! Où étais-tu caché?” (Milou ! Dove eri nascosto ?, ndr.), esclamò Aiolia sorpassandoci e stringendo forte al petto il fratello, soffocandolo a momenti. “Temevo ritrovarti polpetta e … chi ti ha dato questo pu- …” e il monologo del ragazzo venne prontamente interrotto dalla borsa di ghiaccio, che Milo gli pigiò sulla bocca senza tante cerimonie. Le varie e sparse ecchimosi ed escoriazioni sul corpo del bicho rivelavano sì un bel ruzzolone per le scale; tuttavia il livido sullo zigomo destro appariva troppo sospetto, per essere il frutto di una semplice caduta.

“Milo, ça va?”, m’informai apprensivo, sedendomi accanto a lui e studiandolo bene. Il mio sguardo si posò sulle sue nocche sanguinanti, non per i suoi soliti morsi, no. Come se avessero colpito qualcosa … o qualcuno …

“Ouais, ça va!”, mi licenziò in fretta, evitando di guardarmi dritto negli occhi e nascondendo nel frattempo le mani sotto le maniche del pigiama. “Sono solo caduto, nulla di cui preoccuparsi”, aggiunse conciso.

E queste? Come te le sei procurato?

Sono sbadato, Papie: casco sempre!

Scossi energicamente il capo, cacciando via quel ricordo con stizza. Non significava niente. Niente. Forse era davvero ruzzolato giù per le scale. Mi riconcentrai sulla conversazione instauratasi, la quale fu abilmente dirottata dallo scorpion sull’evento della settimana: l’espiazione ufficiale di Aiolia, che questo sabato sarebbe andato con Marin al cinema a vedere New Moon.

“E non v’è modo d’impedirlo?”, chiese Shaka incuriosito. “Almeno cambiare film …”, suggerì, dopo aver ricevuto una risposta negativa da parte dell’avvilito lionceau.  “Condoglianze, mon cher!”

“Quanto vorrei essere al posto tuo, Kasha: al sicuro agli arresti domiciliari!”

“Beh, potevi travestirti da monaco buddhista e incatenarti sul cucuzzolo della grotta di Lourdes …”, gli ricordò Shura, favore cui l’indiano ricambiò con uno scocciato sbuffo.

“… e sopportare, oltre l’ira funesta di Papa, lo sfottò di Nônon, una volta saputolo …”, infierì maligno Milo, sorridendo birbante.

“… più quello di Mamie …”, ci tenni a precisare.

“… per l’eternità!”, concluse sornione lo spagnolo.

Spalancando gli occhi, terrorizzato alla sola idea di simile mesto  e orribile destino, il piccolo Aslan riconsiderò la sua attuale posizione assai velocemente. “Uhm, forse è meglio New Moon …”, annunciò sconfitto, sospirando a lungo tutta la sua pena.  Poverino, non l’invidiavo proprio! E anche Marin, però! Non la facevo così sadica, né tantomeno amante della saga (ma provate a cambiare vocale) di Twilight. Che le era preso? Pressione del gruppo? Hé, le sue amiche erano più inquietanti di lei …

“Ne te préoccupes pas, Aiolia!” (Non ti preoccupare, Aiolia!, ndr.), lo consolò Junet, posandogli dolcemente la mano sulla spalla, gesto che causò al suo meco un infastidito cambio di peso da una gamba all’altra. “Non ti abbandoniamo, sai? Ecoute, per farti sia da compagnia che da sostegno morale, Shura ed io verremo al cinema con te!”

“COSA?!?”, ululò scandalizzato il novello accompagnatore, per nulla convinto di quell’improvviso slancio di generosità da parte della sua gonzesse. In particolar modo, dagli sghignazzi divertiti dei suoi amici. “Dubito sia una buona idea …”

“Mais oui!”, ribatté entusiasta la sua ragazza, mentre il viso di Aiolia si illuminava di rinata speranza. “A Marin farà piacere, ne sono sicura! Eppoi, saresti così crudele da lasciare il tuo amico in balia di quelle arpie, che lei ha per amiche?” ed io convenni con lei, avendo avuto personalmente a che fare con tale maligna razza.

“Come mai la conosci? Marin, intendo.”

“Hé, frequentiamo la stessa palestra!”

“Ah ouais?”, fece Shaka, che vi andava per i corsi di yoga. “E che fate? Fitness? Step?”

Scuotendo il capo in segno di diniego, Junet svelò l’arcano: “Kickboxing! Il mio vecchio è l’istruttore.”

Silenzio incredulo.

“Shura, azzardati solo a sgamare di un millimetro  e questa ti mena! E il padre ti dà poi il colpo di grazia!”, lo avvertì sottovoce Milo e il suo amico annuì apprensivo, sebbene vi si potesse leggere una nota di orgoglio nei suoi occhi nero oliva nei confronti della ragazza.

“Oulà, tuo padre è un coach di kickboxing?”, esclamò deliziato Aiolia, il quale, a quanto pareva, provava una certa passione per ogni sport violentemente fisico.

“Ben oui! Oggigiorno poi la kickboxing fa molto fashion tra le nanas (ragazze, ndr.): sia per l’autodifesa, che per scaricare lo stress accumulato durante la giornata! Eppoi è divertente!”

“Momus, perché non ti iscrivi anche tu?”, mi suggerì volenteroso Shaka. “Abbiamo trovato finalmente uno sport che potrebbe fare al caso tuo!”

“Non posso!”, mi difesi immediatamente, nascondendo le mie dita dietro la schiena. “Potrei danneggiare le mani e quelle mi servono per il pianoforte!”

“Eppoi potrebbe prenderci così gusto, da ripetere le mosse di kickboxing a casa! Come Nônon, il quale ogni volta che ritornava dai corsi di aikido ci dimostrava in loco quanto imparato!”, s’intromise Milo.

“Mammina, che voli! Che voli!”, scosse semiserio il capo Aiolia, ricordando quei tenerti episodi dell’infanzia. Mi domandai come fossero riusciti a raggiungere così indenni i sedici per Aiolia e i diciassette anni per Milo, avendo in casa quella pestifera bestia del loro fratello maggiore.

“In ogni modo, questo pomeriggio chiamo Marin e le chiedo, se possiamo aggiungerci al gruppo”, riassunse Junet, accarezzando a mo’ di conforto la testa ricciuta dello sconsolato meco. “Se volete …”, ma venne interrotta dall’arrivo di Madame Bonnet, la quale ci intimò di rientrare nelle nostre camere, essendo ormai stata appurata la loro sicurezza dai vigili del fuoco.

Sempre senza cessare di discutere se fosse o no il caso di dare manforte al lionceau di casa, seguimmo il consiglio dell’infermiera e ci spostammo dal suo regno ai dormitori. Una volta giunto davanti la porta della stanza che condividevo con Shaka, progettai di stendermi per qualche secondo sul letto e avviare in seguito il ripasso per il compito di tedesco, che avrei sostenuto fra quattro ore, ventotto minuti e tredici secondi esatti.

Invece, quando varcai la soglia m’imbattei nel marasma totale, un fattore pressoché inesistente sia nella mia cameretta a casa, sia in questa a scuola. Il piccolo armadio era stato rivoltato come un calzino: i miei vestiti erano gettati sconclusionatamente e ovunque per terra, rendendo arduo avanzare senza pestarli. La scrivania era stata rovesciata e con essa tutto ciò che vi stava sopra; i cassetti rovistati e spogliati dei loro averi, i quali giacevano sparsi assieme ai miei abiti.  Il mio comodino era ormai nel Mondo delle Idee e il letto più spiegazzato di quanto ricordassi.

Rapidamente, mi chinai a raccogliere tutto, elaborando a mente nel frattempo un inventario delle mie cose, onde avere un modello di riferimento per comparare quel che c’era e quel che poteva essere sparito – come sospettai dal primo istante in cui misi piede nella stanza.

I libri scolastici e i quaderni, seppur malconci, c’erano.

I vestiti, pure.

Il mio portafoglio miracolosamente rispose all’appello.

Il libro di solfeggio per l’esame  … nisba. Sparito.

A carponi e col cuore in gola, frugai  dappertutto aiutato da Shaka, pregando ogni santo del Paradiso di aiutarmi a ritrovarlo; infatti, esso non era solo un mezzo di studio, bensì anche un pegno di fiducia del mio maestro di pianoforte, il quale me lo aveva regalato il giorno in cui gli parlai per la prima volta della mia ambizione di entrare nel Conservatoire de Paris.

E quando le mie dita – cercando a tastoni sotto il letto - sfiorarono la sua liscia superficie, sospirai di intimo sollievo, portandomelo al petto. “Trovato!”, annunciai felice e Shaka si unì sorridendo alla mia contentezza, intanto che risollevava la scrivania, rimpinguandone i cassetti con il materiale raccolto per terra.

“E’ lui?”

“Ouais”, dissi, storcendo un poco le labbra nell’appurare lo stato bistrattato del mio libro, specie quando aprendolo mi restò in mano la copertina. “Ils ne sont pas allés de main morte, les salauds!”, borbottai tra i denti, intuendo si fosse trattato di un brutto dispetto nei miei confronti, fortunatamente fallito.

“Pare quasi se lo siano conteso”, fece pensoso il mio amico, riattaccando con lo scotch la parte staccatasi. “E anche ferocemente: guarda un po’ qua …” e m’indicò delle piccole macchioline di sangue sulla prima pagina. Per nulla impressionato, tanta era la rabbia per quel gesto così vigliacco, replicai gelido:

“Sempre dei salauds rimangono …” e mi adoperai anch’io a rimettere un po’ in ordine la camera. Dopo aver riposto i vestiti, ormai irrimediabilmente spiegazzati, mi apprestai a sistemare il comodino nella sua originaria ubicazione. E spostandolo, scorsi qualcosa di luccicante ben celato in un angolino, tra muro e pavimento. Incuriosito, lo raccolsi, portandolo alla luce per meglio studiarlo.

Una medaglietta con sopra inciso il simbolo dello scorpione.

Uhm … qualcuno mi doveva delle spiegazioni …

 

***

 

Delucidazioni che non arrivarono, poiché per tutta la settimana fino a venerdì fui impegnato in verifiche, interrogazioni e compiti, aggiungendoci poi lo studio extra per l’esame di pianoforte, quando ritornavo la sera al mio lettuccio, era già tanto se mi ricordavo di svestirmi e indossare il pigiama. Se prima ero muto, a causa della stanchezza ero divenuto mutissimo.

Il problema, gentili lettori, risiedeva nel fatto che mi dovevo assentare per quasi cinque giorni da scuola prima delle vacanze natalizie per via dell’esame e quest’orribile atto sacrilego aveva scatenato i miei professori, i quali non potevano attendere dopo le ferie, no, dovevano assolutamente valutarmi prima, ignari dell’inutile cargo di stress in più scaricatomi addosso.

Non che i miei conoscenti se la passassero meglio: Aiolia, di solito gentile e solare con tutti, fu visto mandare più di qualcuno al diavolo, soprattutto quando seppe che, a causa delle neve, gli allenamenti di rugby erano stati momentaneamente sospesi; Shaka, con la scusa dello yoga e della meditazione, ronfava alla grossa durante quelle “pause di salute spirituale”, come lui soleva appellarle; Shura era sparito dalla circolazione con la scusa di ripassare con Junet. Infine, Milo, benché apparisse il meno stressato di tutti, fu sorpreso la sera dal sottoscritto prendere a calci e a pugni – e per poco a morsi – il sacco in palestra per una boxe molto amatoriale. E non mi rassicurò, che il bicho avesse attaccato al punching ball la foto di un suo insegnante.

Riassumendo, sarebbe stato letargo assoluto per tutti, una volta incominciate le tanto agognate feste natalizie.

“Perché i prof. si devono sempre svegliare all’ultimo momento?”, si lamentò venerdì in corriera uno sfinito Aiolia, slungando le gambe sul ventre del fratello, il quale non replicò, poiché addormentato o almeno così sembrò dal viso immobile ben celato sotto il cappuccio della felpa.

Tentando di ignorare un nascente eppure già feroce mal di testa, appoggiai il capo sulla spalla di Milo, socchiudendo gli occhi. “A che pro domandarselo, Aiolia? Tanto rimarrà uno dei pochi misteri irrisolti nella storia dell’umanità!” e dopo tale sentenza raggiungemmo lo scorpion nella terra di Morfeo, destati caritatevolmente dal conducente, che ci annunciò la nostra fermata.

Simili a zombi ci trascinammo per tutto il sentiero innevato fino a casa, sbadigliando peggio di un orso che si apprestava al suo dodo (nanna, ndr.) invernale. E con lo stesso entusiasmo varcammo la soglia di casa, ammassando alla rinfusa le nostre cartelle, scarpe e cappotti e terminando il nostro faticoso cammino fino al salotto, pregustando già la morbidezza del divano e una calda copertina.

Invece, un’aria di densa e pesante depressione ci fu schiaffata in viso, elargendoci il colpo finale non appena scorgemmo Saga in soggiorno intento a scrivere. Neanche possedesse l’udito di un gatto, il giovane alzò subito la testa dal quadernetto, voltandola nella nostra direzione e prima ancora che avessimo occasione di domandargli che accidentaccio ci facesse ancora a casa, egli appoggiò l’indice sulle labbra, invitandoci al silenzio e allo stesso tempo inclinando lievemente il capo, indicando una dormiente Maman distesa sul divano. Infine, il gemello maggiore chiuse il quadernino - che con la coda dell’occhio scorsi nascondere furtivo sotto l’imbottitura del sofà - e si mise in piedi, accompagnandoci in un’altra stanza dove poter parlare più liberamente, sebbene lo stesso sottovoce.

“Come mai non sei in Germania?”, chiese Aiolia, stropicciandosi assonnato un occhio.

“Come mai non controlli ogni tanto il cellulare?”, ribatté impassibile Saga, incrociando le braccia al petto. Sembrava alquanto innervosito, cosa strana per una persona piuttosto paziente come lui. Inoltre, i capelli erano ancora neri. “Vi abbiamo chiamato centomila volte! Uff, e vabbè: a causa di nevicate abbondanti, sia da me, che da Nônon hanno sospeso le lezioni e gli esami con esse!”

“Quelle chance!”

“Uhm, mica tanto: speravo di togliermeli dal groppo …”, sospirò scocciato il giovane, levandosi gli occhiali – dalle lenti ora più grosse – e grattandosi con estrema cautela il naso coperto da un cerotto. Alle nostre domande su quanto fosse avvenuto, lui ci licenziò con un frettoloso “Piccolo incidente”, annunciandoci tuttavia di umore un po’ più vivace la promessa del padre di sottoporlo alla cura del laser contro i suoi problemi di vista.

“Mais c’est merveil- …”, fece Milo, interrotto da un’inquietante nenia, che pareva provenire dalle profondità più inaccessibili della Fossa delle Marianne.

Vesti la giubba / e la faccia infarina …

Gelati, ci voltammo lentamente verso la fonte del suono, mentre Saga alzava esasperato gli occhi al cielo, cercando un divino conforto dalla pena inflittagli negli ultimi giorni.  “Chi mi sta violentando I Pagliacci di Leoncavallo?”, inquisii offeso: il cantante non era stonato, però la sua performance era sfacciatamente fuori tempo e a singhiozzi, una vera pena ascoltarlo!

“Seigneur, eccolo che ricomincia …”, si lagnò Saga, inforcando di nuovo gli occhiali e dirigendosi a passo spedito verso la camera, che scoprimmo essere poi quella di Kanon. Ah! Me la sentivo, che mancava qualcuno all’appello! Che ci faceva, però, il gemello minore chiuso nella sua stanza a cantare arie d’opera?

E se Arlecchin / t’invola Colombina / ridi Pagliaccio / e ognun applaudirà!

“Assez, Nônon, j’ai dit assez!”, (Basta così, Nônon, ho detto basta così !, ndr.), s’impose Saga, spalancando prima la porta e poi ponendo bellicoso le mani sui fianchi. Quanto a noi, eravamo soggetti ad un grave caso di mascella fratturata e pendente.

Tralasciando che la camera giaceva nel buio più assoluto, tranne forse per il tenue lumino di una mingherlina candela, ogni parte dell’arredamento era stata coperta con un sottile velo nero, dall’armadio al laptop. E seduto su di una sedia conciata alla stessa maniera, stava Kanon intento a sferruzzare un lungo drappo bianco, completamente nerovestito e il volto coperto dalla veletta sempre nera di un cappello a larghe falde,  nero pure quello, che riconobbi nel medesimo utilizzato da Mamie al funerale del prozio Unity. Accanto a lui, il cane Fred ululava commosso.

“Da quanto tempo è in queste condizioni?”, s’informò preoccupato Milo, tappandosi il naso, incapace di sopportare oltre il pesante tanfo di chiuso e altri effluvi umani di chi non aveva conosciuto l’acqua e il sapone da un bel pezzo.

“Abbastanza da farci impazzire tutti!”, grugnì il gemello maggiore, trattenendosi dall’avventarsi sul suo doppio e costringerlo ad ingoiare i ferretti. “La ferme, tu veux? T’es un chieur, bon sang!” (Smettila, insomma! Sei un tormento al sedere, cavolo!, ndr.)

“Bordel, Nônon! Putes!” (Puzzi!, ndr.)

Ignorandoci completamente, Kanon proseguì ineffabile il suo Bocete [4]: “Ridi Pagliaccio / sul tuo amore infranto! / Ridi del duol che / t’avvelena il cuor! Buh-hooo!!!” e Canio pianse stavolta sul serio, affondando il viso sul candito panno. Non fosse stato fuori tempo, l’interpretazione meritava sul serio un applauso.

Intanto, Saga appoggiava disperato la fronte sul muro, borbottando parole inintelligibili e ciononostante minacciose.  “Ecco l’istrionismo greco che riemerge dagli abissi del Dna!”, disse infine, voltandosi.

Appoggiando il suo lavoro per un istante, approfittandone per sgranchirsi le dita e accarezzare la soffice testa pelosa del cane, Kanon commentò acido: “Come sei cinico ed insensibile, Sasà!”

“Moi? Ma se sei tu, il ridicolo delle situazione!”

Fu troppo per il gemello minore, che, alzando bruscamente la veletta, berciò incollerito: “Essere tristi per la partenza del proprio mec è cosa buffa? Sei senza cuore, brutto turco!” e sentii i miei fratellastri più giovani trattenere scioccati il fiato: se un giorno avreste intenzioni suicide, date ad un greco del turco. Poi vedrete.

“Vuoi morire, Kanon chéri?”, domando Saga in mode assassina, prontamente trattenuto dai fratelli per ambedue le braccia.

“E se fosse? Fa’ come vuoi: oramai, nulla ha più importanza per me! Ho perfino bruciato il cassoulet toulousain!”, sentenziò melodrammatico il giovane, nascondendosi di nuovo dietro il velo e ripigliando il suo interrotto sferruzzare.

Kanon Damian Valavitis era in lutto.

Per carità, Rhada non era deceduto e che Dio ce ne scampi, altrimenti il gemello minore avrebbe allestito un funerale indiano - quello del maharaja in particolare- durante il quale ci si aspettava che la di lui vedova, la maharani, si gettasse sulla pira funebre del defunto consorte, se non desiderava vivere segregata in una stanza come una morta vivente.

Vedete, Kanon era un giovane dai molti sogni nel cassetto, uno dei quali consisteva nel trascorrere il primo Natale assieme al suo fidanzato e preferibilmente a casa sua. Invece, sfortuna volle che anche Rhada avesse una famiglia, con la quale i rapporti erano tutti ancora da definirsi, essendo stato il franco-greco una bomba al vetriolo per la loro normale routine. (In poche parole, solo Violante lo aveva accettato come fidanzato del cugino) Le speranze di Kanon si erano ridestate alla scoperta della portentosa nevicata, quindi dell’annullazione degli esami e soprattutto dei voli per l’Inghilterra, incrociando le dita per un futuro prolungamento del soggiorno del suo inglese.  Con suo sommo disappunto, era stato al contrario costretto ad assistere alla partenza due giorni fa del meco al primo volo disponibile.

Non era esattamente l’affetto per i genitori, ciò che spinse Rhada a ripartire – codesta relationship i suoi si erano assai dimenticati di sviluppare appropriatamente – bensì furono le ragioni pecuniarie a portarlo Oltremanica; era sua cura infatti non incrinare il suo rapporto coi genitori almeno fino al concorso per giudice, che avrebbe sostenuto subito dopo la laurea ergo in meno di due anni, rendendolo finalmente indipendente da loro anche dal punto di vista economico. Infine, per quanto ormai parte integrante della famiglia del fidanzato, aveva intuito che dopo qualche giorno, l’ospite incominciava ad essere sempre più molesto, specie in un contesto famigliare appena creatosi. A detta quindi di Rhada, pur non conoscendolo da parte nostra, noi eravamo stati molto gentili con lui nell’ospitarlo per quasi cinque giorni e prima di partire si era prodigato a ringraziare Mamie e Maman per l’accoglienza.  Peccato che Kanon non la pensasse allo stesso modo: per impedirgli scenate, Saga fu costretto a rinchiuderlo in cantina, dalla quale il minore evase come Casanova dai Piombi, rischiando di essere investito quando si posizionò davanti alla macchina in partenza. Il giovane si era rassegnato all’inevitabile, tuttavia aveva ancora qualcosa da dire al suo chouchou, prima che ritornasse in Inghilterra, circa la sua preservazione da ogni contatto fisico sia con uomini che con donne (Pandora soprattutto) e di ricorrere alla flagellazione, al cilicio, alla cintura di castità, alla mortificazione della carne e a severi esercizi spirituali, qualora la tentazione fosse sorta. Essendo un pochino in ritardo, Rhada gli promise tutto quanto dal meco vaneggiato.

“In ogni modo”, fece Saga, afferrando perplesso e allo stesso tempo incuriosito il peculiare panno bianco. “Che cos’è questo?”

“La tela!”, rispose semplicemente Kanon, senza cessare il suo lavoro di un secondo.

“La tela?!?”

“Ah”, sospirò il gemello minore teatralmente, coccolando il muso di Fred “Che tordi! Freddy mio, tu sei l’unico che mi capisce!”, gli disse, elargendogli dei  grotteschi “Pucci pucci”.

“Kanon, non t’azzardare a traviare il mio cane!”, lo avvertii, sventolandogli l’indice sotto il naso.

“Je regrette, Momus: è già successo!”, replicò imperturbabilmente malizioso, costringendomi a coprire il mio viso con le mani in segno di esasperazione: Seigneur, fa’ che non gli abbia permesso di ingravidare la cagna dei vicini! M. Giraud ci avrebbe impallinati, altroché! “Comunque, è la tela di Penelope. Come lei, anch’io intendo aspettare casto e puro il mio chouchou!”, fu la magnanima spiegazione di Vossignoria.

“Insomma, tu vorresti restare chiuso qui dentro per un mese, senza luce, senza mangiare, senza lavarti, sferruzzando quell’obbrobrio nel frattempo? Sopra il mio cadavere, Kanon!”, ringhiò Saga, arrotolandosi le maniche, pronto per un prelievo gemellare di forza.

“Cos’è? Un invito?”, lo provocò ulteriormente Kanon, esibendogli la linguaccia e mirando colferretto per la maglia all’inguine del suo doppio.

“Eddai, Nônon, se tu ci lasci, che ne sarà di noi? Chi ci romperà le scatole come tu solo sai fare?”, lo pregò Aiolia a mani giunte, mettendosi pure in ginocchio.

Kanon sferruzzò con maggior lena.

“Non puoi entrare in depressione, proprio adesso che Iou – Iou ha un appuntamento con Marin!”, esclamò Milo, sventolando un ventaglio di fortuna per allontanare l’odore molesto.

“Ehm, veramente è una punizione …”, precisò sottovoce il lionceau. “Non esageriamo.”

Kanon non diede cenno di smettere il suo lavoro.

“Penelope ha tessuto per tre anni la tela”, mi unii infine timidamente, malgrado fossi ben conscio che sarei rimasto inascoltato.

Kanon si bloccò all’improvviso.

“Hai detto tre anni?”, mi domandò lentamente, quesito cui risposi in maniera affermativa. “Ne sei sicuro?”

Di nuovo annuii convinto.

“E vaffanbrodo! Non sto qui a sferruzzare per tre anni: ho un’agenda piena, bordel!”, imprecò Kanon pieno di ritrovata vitalità, lanciando  via annoiato drappo and friends  e balzando giù dalla sedia. Togliendosi il cappello, riaprì la finestra, permettendo così alla salutare luce pomeridiana di disinfettare quella fetida tomba. “Tre anni? Tzé! Con tutti gli impegni che ho, non posso permettermi questo lusso! In tre anni, rischio di trovare il mio chouchou giudice, sposato con Pandora e padre di quattro gemelli! Jamais ça!!”, borbottava riordinando in tempo record tutta la sua stanza. Poi, si fermò d’un tratto sulla soglia della porta, annusando sorpreso l’aria. Disgustato, inquisì: “Ma cos’è questo tanfo?”

“C’EST TOI, SALE CHIEN!!!” (Sei tu, lurido cane! ndr.)

Offeso a morte, Fred ci imbrattò le ciabatte con la sua pipì.

 

***

 

Il giorno seguente o il fatidico sabato, dopo aver passato tutto ieri a lavarci schifati i piedi, ci svegliammo assai presto, poiché finalmente le porte di Canossa si sarebbero spalancate per il nostro lionceau, ottenendo la tanto sospirata indulgenza. Così, onde portare felicemente a termine la pubblica ammenda di tutti i suoi peccati  - abilmente camuffata in un innocuo pomeriggio di shopping natalizio e cinema – Saga convocò alle due del mattino un meeting d’emergenza in cucina, discutendo ed elaborando uno strategico piano d’azione.

“Il nostro obiettivo”, riassunse il Boss, sorseggiando placido il suo tazzone di caffè “è di trasformare quest’occasione in un’opportunità; questa sfiga in una fortuna; quest’umiliazione in un appuntamento con la A maiuscola!”

“In poche parole, far sì che Marin s’impietosisca al punto di domandare a Iou – Iou di essere il suo ragazzo?”, s’informò scettico un Kanon ora pulito, sbarbato e profumato. “Perché vedo sinceramente l’affare assai arduo, considerati i pochi esperti per un’eventuale consulenza in materia!” e allargò significativo il braccio.

“Pochi, ma buoni!”, nicchiò Saga, nascondendo diplomaticamente il volto dietro la sua mug. “Abbi fede, Nônon! Abbiamo materiale a sufficienza: Momus è la nostra fonte primaria d’info per sapere da che parte lisciare il pelo di Marin;  Milou ci può aiutare per infondere un po’ di savoir faire in questo gattaccio selvatico; tu sei il tessitore d’inganni e strategie per eccellenza ed io … beh, io posso vantarmi di aver ben appreso il modus operandi di una nanà in un centro commerciale!”, lo incoraggiò, sebbene il suo doppio non parve del tutto convinto.

“Excusez-moi, se dico la mia opinione”, s’intromise per la prima volta Aiolia, “ma vi ricordo, che questo non è esattamente il mio primo appuntamento! Inoltre nei confronti di Marin ho commesso sì un errore, che poteva però capitare a chiunque!”

“Vero, ma come dice un detto thailandese: Un cretino sbaglia sempre due volte!”

“Eppoi, cosa vuoi aver combinato tu con quelle fillettes!” (bambinette, ndr.), lo sfotté Kanon, guadagnandosi un mattutino dito medio da parte del fratellino, offeso nella sua virilità d’adolescente. “Al massimo vi sarete tenuti per la manina …”

“Sempre meglio di te, che andavi con chiunque e di qualunque età!”

Ponendo in avanti le mani, il gemello minore dichiarò soavemente:“Mai con un under15, come qualcuno di mia conoscenza!”, alluse con falso candore.

“Mi stai forse dando del salaud?”, strinse gli occhi un Aiolia rosso cremisi, subito soccorso da Milo, che garantì sincero per lui:

“Nônon, ti assicuro che Iou – Iou le giovanissime non le guarda neppure: o sue coetanee o massimo qualche mese meno di lui!”

“Ovvio, Milou, al rimanente ci pensavi tu!”, sghignazzò il maggiore, provocando l’ira funesta del bicho.

“Ta gueule, espèce d’homo pervers!” (Chiudi la tua boccaccia, razza di gay pervertito !, ndr.), berciò, catapultandogli estremamente preciso una cucchiaiata di marmellata di mirtilli dritta nell’occhio sinistro. “Per chi mi hai preso? Per un maniaco?”

Sospirando sconsolato, Saga riprese in mano la situazione, schiarendosi la gola. “Dunque, nessuno mette in dubbio che Iou – Iou abbia avuto le sue storielle – Nônon, fai silenzio -  ciononostante, in questo caso la situazione è diversa, per questo lo stiamo aiutando, parte troppo svantaggiato: la nostra vittima è una quasi diciannovenne, ergo con un QI decisamente più sviluppato di noi maschi, visto che, scientificamente parlando, il cervello di una donna ventenne corrisponde a quello di un uomo di ventitré!”

“Metti anche venticinque, ventisette!”, lo corressi e non per fare il saputello, bensì perché avevo avuto modo di sperimentare personalmente la seguente formula: maschio = un neurone : un pensiero; femmina = un neurone : dieci pensieri. “Eggià, che sia gay o etero, l’uomo è sempre e comunque destinato a fare con le donne la figura del coglione …”, aggiunsi solenne, stupendomi del grave gesto d’assenso dei miei fratellastri. “Pertanto Aiolia, è vitale che tu impari a non sottovalutarle, specie se in azione durante lo shopping!”

“Ah, lo shopping!”

“Oh, lo shopping!”

“Ih, lo shopping!”

Silenzio meditativo.

“Bien”, fece Saga, riscuotendoci dalla piccola trance, nella quale eravamo caduti o meglio appisolati senza tanti rimorsi. “Adesso ci conviene strutturare il primo approccio!”

“Il primo … che?”, fece perplesso Aiolia, neanche stessimo preparando un incontro ravvicinato con una famelica tigre del Bengala.

“Ben oui! Ap-proc-cio! E’ importantissimo! La regola “sii semplicemente te stesso” vale, nel momento in cui ormai hai dato una buona impressione alla nanà, entrando nelle sue grazie!”, spiegò paziente il gemello maggiore, ingollando un’altra sorsata di caffè.

Usando una metafora più vicina alla psiche maschile, Milo parafrasò: “Come quando accendi la moto: motore on = partenza; motore off = capolinea! Se parti col piede sbagliato, lei ti ha crocifisso, non cambierà idea su di te, neppure se ballassi come un orso sui carboni ardenti!”

Uh, che male!, quella dovette essere la traduzione della smorfia dipintasi sul viso del lionceau.

“Quindi, presentati rilassato, sicuro di te …”, lo consigliò Kanon, posandogli la zampa sulla schiena.

Aiolia annuì.

“… ma non troppo: passeresti per un cafone arrogante!”, l’avvertì Saga.

Aiolia negò.

“Falle complimenti …”, riprese sempre il primogenito dei Valavitis, approfittando della distrazione del gemello per riempirsi la mug di caffè fino all’orlo.

Ancora, Aiolia convenne con loro.

La replica del gemello minore non tardò a manifestarsi. “… senza passare per lecchino …”

Aiolia fece cenno di diniego.

“Osserva il suo umore: se la vedi mesta, rallegrala …”, s’aggiunse Milo, tirando a sé il fratellino per la manica e quest’ultimo si dichiarò d’accordo su quanto affermato.

“… sempre con garbo, onde evitare di passare per un pagliaccio …”, puntualizzò Saga, strattonandolo dalla parte opposta, guadagnandosi la promessa che il piccolo Aslan non si sarebbe comportato come un guignol.

Allora, afferrandolo per il bavero della felpa, Kanon ci tenne a dire la sua: “… offriti a sua disposizione per ogni sua richiesta …” e Aiolia non ebbe nulla da contestare.

“… però non la devi far sentire un’invalida …”, s’intromise rapido il bicho, sbaragliando la concorrenza e strappando un bel “Non” dalla bocca del lionceau.

“Coprila di gentilezze, quando è in vena; sii serio se l’occasione lo richiede …”, dichiarò convinto Saga e ad Aiolia, a furia di annuire e negare, avevano incominciato a dolere un poco i muscoli del collo.

“In incognito, tuttavia! Non deve capire che lei t’interessa: lo sfrutterà a suo favore, tenendoti all’amo peggio di un salmone scozzese!”, lo mise in guardia lo scorpion, imitando pure la scena dell’ittica venazione. Il fratellino prese a massaggiarsi la nuca dolorante.

“Rifletti attentamente prima di formulare un qualsiasi giudizio su qualcosa, che le piace: non devi essere troppo accondiscendente, penserà che sei senza qualità e senza nerbo!”, gli ricordò serio Kanon, puntandogli entrambi gli indici contro. Dopo essere sobbalzato di qualche centimetro, le dita dell’ultimogenito risalirono lentamente alle tempie.

“Ma neppure troppo critico: ti categorizzerà come un vecchio brontolone Bastian Contrario!”, lo contraddisse Milo, provocando un’espressione decisamente infelice sul volto di Aiolia, che ora aveva portato alla testa anche l’altra mano.

“Sii educato e socievole con le sue amiche, ma non esagerare!”, continuò imperterrito Saga, memore di tutto il corteo di copines di Hilda e Freja, dalle quali si era dovuto salvare.

Il lionceau era impallidito d’un colpo.

“Già, altrimenti sospetterà che sei di natura banderuola e s’ingelosirà!” , gli svelò il bicho la logica controindicazione di simile comportamento.

Da cinerea, la faccia dell’ultimogenito divenne verdognola.

“Infine, presentati con qualcosa, che non sia però troppo costoso: non sei il suo mec, eppoi dopo le faresti venire i sensi di colpa e lei si sentirebbe a disagio per tutta la serata!”, lo esortò Kanon ad appuntarsi mentalmente, ignorando che il piccolo Aslan aveva battuto la testa sul tavolo, distrutto.

“E ti giudicherà inoltre uno sciocco spendaccione!”, conclusi io in bellezza, conoscendo quanto la mia vicina di casa mal tollerasse gli sprechi, sia alimentari che pecuniari.

In sintesi, Aiolia era K.O. prima ancora d’incontrare Marin.

“Capito!”, si riebbe in fretta il giovanissimo spasimante franco-greco, malgrado avesse ancora gli occhi leggermente fuori dalle orbite. “Ma che cosa?”, s’afflosciò subito il suo – piccolo – rinato entusiasmo.

E col suo, anche il nostro. O meglio il loro, poiché in quel momento mi sovvenne qual era il semplice presente, che la mia vicina di casa avrebbe senza dubbio apprezzato.

“Uhm … bella domanda! Cosa?”, cogitarono ad alta voce i miei fratellastri, appoggiando pensierosi i loro menti sul palmo delle mani.

“Ecco io …”, sussurrai, alzando titubante la mano.

Nisba, ignorato.

“Escluderei in partenza ogni cosa, che abbia a che fare con la sua personale toilette e maquillage: dopo Marin si creerebbe certe paranoie, circa il non sapersi tenere su a sufficienza!”, eliminò Milo la prima opzione. Beh, in effetti regalare simili aggeggi alle ragazze era un risico non da poco: il dono poteva venire biasimato con la stessa facilità dell’essere apprezzato. E poi, c’era appunto l’annosa questione del malizioso sottotesto.

“Forse …”, insistetti un pochino di più, sperando in una qualche forma di considerazione da parte loro.

Sordi come una campana.

“I fiori fanno tanto cliché … eppoi questa non è la stagione …”, scosse il capo Saga, neppure lui poi tanto convinto.

“Potrei …”, tentai d’inserirmi, subito però anticipato dal lionceau, che propose:

“Qualche semplice accessorio? Nah, magari non le piace, non è il suo stile …”

“Mi sbaglierò, ma …”,  e questa volta battei leggermente la punta del cucchiaio sul tavolo e mi caddero di nuovo le braccia.

“Dolci! Ops, la dieta … e poi dice che la vuoi far ingrassare …”, sospirò deluso Kanon, che di certo moriva dalla voglia di esibirsi in una delle sue famose ricette.

Eccola là, la mia occasione! Ora o mai più!

“A Marin piacciono i dolci!”, m’imposi ad alta voce, quasi gridando tutto d’un fiato, poiché ormai da tempo avevo appurato che nessuno stava prestando la benché minima attenzione ai miei tentativi d’inserirmi nella conversazione. “I macarons ai lamponi in particolare!”

Quattro teste bionde si voltarono contemporaneamente verso di me, fissandomi intensamente in un silenzio pre-apocalittico.

“Momuuuusss!!!”, ruggirono euforici, gettandosi sul sottoscritto, abbracciandomi, strizzandomi sbaciucchiandomi, attorcigliandomi e prodigandosi a lasciarmi assolutamente senza fiato e ridotto ad un colabrodo. E come volevasi dimostrare, una volta rilasciato dalle loro chele, scivolai esausto sotto il tavolo.

“Oui! Grâce à Momus j’entrevois désormais une occasion fabuleuse pour accomplir à notre mission! Nônon, fila a preparare i macarons ! Milou, tu sarai addetto al guardaroba e tu Momus, ci dirai tutto su Marin !” (Sì! Grazie a Momus, intravedo ormai un’occasione favolosa per portare a termine la nostra missione!, ndr.), gridò Saga incredibilmente gasato, lasciandoci tutti assai interdetti. Accipicchia, non l’avevo mai visto così preso da qualcosa! E forse ero stato pure graziato, poiché egli, dopo aver acchiappato Aiolia in una mossa da boa constrictor, si mise in posa plastica, annunciando esaltato: “Sì, non possiamo fallire! Conquisteremo Marin e poi il mondo!” e terminò il caffè, scappando via con il fratellino sottobraccio. “Dodo! Largo al factotum della città, largo!”

Seguendoli con lo sguardo, domandai a nessuno in particolare: “Ma dove sono galoppati?”

“Nônon, si vede che Sasà è tuo gemello …”, sospirò Milo, alzandosi in piedi e riordinando la tavola dai resti della primissima colazione. “Quando uno si calma, l’altro va fuori di banana e viceversa!”

“Bah!”, esclamò invece Kanon, tirando fuori tutto l’occorrente per i macarons e controllando l’orologio borbottò: “Sono le cinque e un quarto del mattino; speriamo di fare in tempo coi dolcetti … Comunque, la prossima volta Sasà può anche piangere che sta morendo congelato, ma io il caffè non glielo correggo più con la grappa!”

Sono il factotum della città, la la la la / la la la la la la la la la / la la la la la la la la la !

Parole sante!

 

E non ti piaccia troppo d’arricciare col ferro i tuoi capelli e non raschiarti con la mordace pomice le gambe. Lasciale, queste cose, a chi ululando alla maniera frigia canta cori alla madre Cibele. [5] A te conviene una bellezza un poco trascurata. Teseo rapì la figlia di Minosse senza ornamento alcuno tra i capelli, e Fedra amò le chiome irte di Ippolito; Adone, nato tra le selve e i boschi, fu l’amor di una dea. Sii piuttosto lindo, pulito; abbi la pelle bruna per le lotte nel Campo, e la tua toga (nel nostro caso jeans e camicia) ti cada bene indosso senza macchie. Abbi la lingua sempre liscia e netta, sian bianchi i denti e non cariati, e il piede non nuoti in una scarpa troppo larga, né ti faccia i capelli come stecchi il tuo barbiere inesperto, ma la chioma sia ben tagliata e ben rasa la barba. Non portar unghie troppo lunghe o sozze, dalle narici non ti spunti il pelo, il fiato non sia sgradevole; sotto le nari altrui, tu non putire come un caprone”, leggeva Milo ad alta voce la sua personale Bibbia - ereditata da Kanon, che l’ebbe dal prozio Cardia – e che passò alla storia come “L’arte di amare” di Ovidio. E lode al suo autore; infatti, malgrado fossero passati secoli dal suo componimento, quel libro possedeva ancora delle verità assolute su come avvicinare una ragazza, per i maschi e un ragazzo per le femmine, in barba ai vari cambiamenti di costumi e società nel corso delle vicende umane.

“E’ fattibile”, commentò Saga, risciacquando per la decima volta i capelli di Aiolia, il quale incominciò a lamentarsi che non sentiva più le gambe, da tanto tempo era rimasto inginocchiato davanti la vasca da bagno per il lavaggio della sua leonina capigliatura.

Erano quasi le undici e i preparativi erano in pieno fermento: i macarons stavano venendo che era una meraviglia e anche le simulazioni di approccio non erano niente male; inoltre, il lionceau assorbiva con particolare entusiasmo quanto gli raccontavo, sebbene in alcuni passaggi si domandasse, che sorta d’infanzia difficile avessi avuto. (Forse si riferiva alle barbie?)

“Se lo dici tu, Sasà, potrei anche fidarmi!”, scherzò Milo, sistemandosi i capelli in un’alta coda e, ritornando in salotto,  incominciò a stirare i vestiti lavati in precedenza. Presi da un improvviso raptus di generosità, per meglio presentare il nostro Simba a Nala, tutti avevamo partecipato attivamente alla colletta dei nostri capi d’abbigliamento più belli per assemblarli al meglio. “Ci dispiace solo di non poterti dare boxer di marca, sai, li compriamo al mercato in pacchi da dieci per 4 euro … però se li vuoi firmati, mi dai un pennarello indelebile e ti scrivo il mio nome con pure lo svolazzo! Voilà!” e il bicho ci deliziò di un divertente arabesco col polso, strappandoci una calda risata e rilassando in questo modo l’atmosfera.

“E’ pronta!”, cinguettò Kanon, comparendo all’improvviso dalla cucina con una pentola fumante di acqua bollente e un barattolo di latta galleggiante al suo interno, che appoggiò per terra assieme a delle lunghe strisce rettangolari. “Lo so che può sembrare un po’ sul generis tapette, però considera quanto forte sia l’odore di sudore d’adolescente … tutti ormoni … su, stenditi!”

Osservando dubbioso l’appiccicosa sostanza color miele, Aiolia domandò lentamente: “Che cosa sarebbe esattamente?”

Il ghigno del gemello minore si allargò in maniera poco raccomandabile. “Tu pensa a mordere questo!” e contemporaneamente gli cacciò in bocca un consistente bastoncino e lo atterrò con una mossa di aikido, levandogli la maglietta e alzando il braccio destro.

“Nmngho … quemnghlla nmngho! Per favmnghore … risparmnghmiami almmngheno quemnghlla …”, boccheggiò terrorizzato il lionceau, dimenandosi come un tarantolato. Quanto a noi, eravamo impietriti da simile orrore.

“Tranquillo, il primo strappo è sempre il più doloroso …”, replicò sornione Kanon, affondando il coltello nella cera calda. “E mi raccomando: urla pure quanto vuoi, ché sarà davvero atroce!”, disse e applicò la striscia, strappandola poi con un’alta ola.

MNDJ@CDGHD#CKNLB!!@#%!!!”

Fu esaudito.

 

***

 

“E’ solo una mia impressione, o i sette nani + 1 sono qui dentro da due ore e mezza?”, ci fece notare Kanon spiando in posizione strategica da dietro un manichino. “A proposito, questo m’ingrassa?”

Dopo aver scerrettato, sbarbato, lavato, impomatato e vestito Aiolia neanche si trattasse del suo matrimonio, avevamo consegnato il lionceau davanti alla porta di casa di M. Giraud alle tre spaccate del pomeriggio con in mano una vezzosa scatolina, riempita dei migliori macarons del mondo. (Kanon era stato così magnanimo da prepararne in abbondanza per tutti, sebbene lui affermasse che si trattava di una banale casualità).

Terminato il nostro lavoro, però, ci sentimmo piuttosto malinconici e desiderosi di un po’ di attività rilassante. Inoltre, la curiosità ci stava divorando, volevamo infatti scoprire a tutti i costi come stesse procedendo la missione Transformers of Doom, ergo far sì che dalla gogna si passasse alla zampogna – o almeno questo credevo di aver compreso. Tuttavia, avevamo giurato e stragiurato a Simba, che non lo avremmo né seguito, né spiato in alcun modo. Solo dopo averci strapatto codesto patto, il ragazzo si era rilassato, procedendo più confidente col piano elaborato.

La nostra promessa durò un’ora, nove minuti e quarantasette secondi.

E inaspettatamente, il serpente tentatore fu proprio Saga, il quale non la smetteva di subissarci di insinuazioni, teorie, inviti ben camuffati, indizi sparsi a caso, etc. Insomma, ad istillarci la voglia matta di un piccolo peekaboo, scatenando una lotta interiore in noi stra il fas e nefas, se cedere o no, se trasformarci in stalkers o no, se …

Se correre in macchina come un sol uomo, sgommando tutti esaltati all’idea di assistere alla chasse au lion. Non fu difficile localizzare Aiolia, il centro di Mont-de-Marsan era relativamente piccolo. L’unico problema stava nel non farci identificare da lui, seguendolo a distanza in incognito. Il che era fattibile, nei grandi negozi; pressoché impossibile nelle piccole boutique. E di quella risma di botteghe, il gruppetto infernale ne aveva visitate tante, troppe e i segni di codesta via Crucis erano ben presenti, malgrado tutto l’amore del mondo, sui volti dei gars lì presenti, non solo del lionceau.

Meglio! Mal comune mezzo gaudio.

“Esagerato! Solo un’ora e trequarti!”, consolò Milo il fratello, mentre si sedeva sullo sgabello del camerino di prova. “Eppoi, ormai è quasi finita: hanno trovato il maglione, che cercavano!”, ed indicò con un cenno del capo uno sfinito Aiolia, carico di abiti paggio di uno sherpa, dare la sua opinione sul sopracitato capo d’abbigliamento.

Lo shopping era per noi maschi una grande incognita.

Sapevate l’ora esatta di quando si entrava nel negozio, ma non quella dell’uscita e le vaghe ed evasive risposte delle ragazze a riguardo, non erano di certo d’aiuto. Si parlava, infatti, di “una mezzoretta”; di “una toccata e fuga”; di “un’occhiatina”, che si trasformava puntualmente in una scala santa d’ispezione di tutta la merce in vendita. Perché la fille vi convinceva con la promessa di cercare solo una nuova maglia per lei, o per la sorella, o la cugina, o l’amica, o qualsiasi esponente del sesso femminile di sua conoscenza. Ammansiti da simile lusinghiero giuramento (come si poteva negare alcunché alla vostra gonzesse?), vi lasciavate tentare e cedevate, seulement pour son bonheur. (solamente per la sua felicità, ndr.) Ebbene, una volta dentro il cerchio infernale, la maglia diventava un lontano ricordo, la meta finale, l’ultima spes: la vostra nanà si ricordava, così all’improvviso, che desiderava ricercare anche un paio di pantaloni o di jeans; magari pure dei leggins  grigi o neri o tutti e due; dopodiché era d’uopo provarsi quel vestitino che si abbinava a meraviglia con loro; no, quella felpa viola era troppo mimichoupi per essere ignorata! Un cappotto, forse? Ma era troppo costoso! Ella lo sapeva, però indossarlo, così per prova non faceva male a nessuno!

Il livello di sconforto iniziava ad assalirvi; il calore dell’ambiente vi inebetiva; la stupida musica vi trapanava il cervello e le occhiate furtive all’uscita o alla cassa diventavano sempre più frequenti, finché, presi dalla disperazione, azzardavate una mossa pericolosa: guardavate voi stessi dove si potesse trovare il miraggio supremo, ergo la famosa maglia.  Trovato qualcosa che le assomigliasse, correvate tutti contenti dalla fille, presentandole fieri l’indumento. Con aria di sufficienza, lei lo guardava, lo analizzava, lo demoliva con lo sguardo per poi sentenziare magnanima che sì, poteva anche andare, ma che aveva al contempo stesso visto una maglia, che le garbava di più. Benissimo, pensavate euforici, allora era fatta! E già i vostri piedi si dirigevano in automatica verso lo sportello di pagamento (quante volte ne avevate studiato il percorso?). Quand’ecco che la ragazza si girava in una rapida piroetta, esclamando che forse la vostra maglia non era poi una così grande e innominabile schifezza e che la voleva riosservare con più calma. Boccheggiando in preda al panico (Dove l’ho messa? Dove l’ho messa?) vi arrabattavate per ritrovarla, scontrandovi con altre esponenti del sesso debole (?) dai 13 agli –anta anni per il possesso della maglia, chissà perché, adocchiata pure da loro (Screanzato, l’ho vista prima io!), in una nuova versione della giostra medievale.  Vincitore, ritornavate dalla vostra bella con l’indumento da lei desiderato. Siccome però lei era anche la vostra Belle Dame Sans Merci (Bella Dama senza pietà, ndr.), ella vi annunciava che non le piaceva poi così tanto. E, infierendo, vi presentava ratta l’eterno dilemma: quale prendere tra la maglia X e la maglia Y? La tristemente nota trappola dello shopping, hélas. Dire X, equivaleva ad un “Mi ingrassa un pochino …!”; ripiegare immediatamente per Y, era “La forma ça va, però il colore …”. Proverete allora a conciliare le due cose, ed ella vi replicava: “Ma tutte due è troppo costoso! Mi vuoi mandare in bancarotta?”, voi giuravate, scuotendo il capo fino a staccarvi la testa, che non era assolutamente così. Tranquillizzatasi, la fille posava infine le due maglie e sceglieva la vostra.

Quindi, la processione si spostava alla cassa, un passo più ansioso dell’altro, poiché la vostra gonzesse zumpava da uno scaffale all’altro e voi temevate di pagare tutto, ritrovandovela poi dinanzi umiliata e offesa con il capo d’abbigliamento da voi sconsideratamente non comprato. Per la prima volta, tuttavia, la fortuna era dalla vostra parte e la fille si limitava solo ad un solo indumento, presentandovi così davanti alla cassiera con una pila di vestiti in cima ai quali troneggiava il reggiseno last minute.

Pagato e affrancato dalla corvè per amore, finalmente l’aria fresca vi accarezzava il volto, come le labbra della gonzesse tutta fusa e calins sulle vostre guance, la quale vi ringraziava, promettendovi di ripagarvi in un futuro assai indeterminato.

Almeno dal punto di vista pecuniario.

Forse lo shopping non era così malvagio.

“Oh, oh, vengono da questa parte!”, ci annunciò Saga all’improvviso e spingendoci dentro tutti nel camerino. Mi voltai, trovando conferma nelle sue parole: mince, erano vicinissimi!

“Il mio maglione …”, pigolò Kanon, scivolandogli l’indumento agognato dalla mano.

“Dopo, dopo! Dentro, bon sang!”, berciò l’altro, buttandolo all’interno quasi con un calcione alle fesses. Soddisfatto, il gemello maggiore chiuse la porta, mentre noi ci sistemavamo in modo da far sì, che da sotto si intuisse vi fosse nella cabina solo una persona, ovvero: Milo, seduto sullo sgabello, mi prese in braccio, alzando poi le gambe; Kanon, dal canto suo, si attaccò a mo’ di scimmietta sulla schiena della sua mamma gorilla, la quale dovette porre una mano al muro per tenersi in equilibrio, dato che il gemello minore era tutto, tranne che un peso piuma. Infine, calmammo in nostri respiri, tentando di non essere troppo rumorosi.

“Uff! Si vede, che ci stiamo avvicinando al Natale: oggi c’è veramente una bolgia per clientela!”, si lamentò una voce femminile, che riconobbi in Amandine, una delle amiche di Marin. L’altra, che giudicai essere Emilie, convenne con lei, aggiungendo che sperava di trovare almeno un camerino vuoto per provarsi l’abito.

“E’ un peccato, che le altre non siano venute in questo reparto, qui hanno sempre della bella roba”, sospirò poi delusa.

“Cosa vuoi, i ragazzi erano un po’ stanchi …”

“Tzé, maschi! Ma a giocare alla Play non lo sono mai, eh?”, ribatté scherzando Emilie, bussando distrattamente alla nostra porta, per vedere se  fosse libera.

“Occupato!”, cinguettò Kanon con una vocettina acuta da cantore della cappella Sistina. 

“Pardon, Madame!”

“Je vous en prie, chérie!”, la perdonò il gemello minore, provocandoci un lusinghiero conato di risate e la rotazione oraria e antioraria degli occhi di Saga.

“Néanmois … ouais, t’as raison! Ah ces gars!”, sospirò Amandine, il cui tono divenne più ovattato, quindi doveva essersi infilata dentro una cabina di prova. Subito, appiccicammo alla bell’e meglio l’orecchio alla sottile parete che ci separava da loro due. “E a proposito, non avrei mai creduto, che a Marin interessassero i ragazzi più giovani di lei …”

Uh, il gossip!

“Beh, se ci pensi … sai, Molinier praticamente le stava sempre attaccato alle cottole …”, insinuò birbante l’altra sua amica, provocandomi un feroce rossore colpevole, specie dopo la replica di Amandine:

“Mais non! Con lui era diverso! Eppoi, l’ho capito appena l’ho visto che quel tizio è più interessato alla verge, che alla chatte!” e sottovoce, Milo mi delucidò tutta la sua contentezza nell’apprenderlo. Piccato, gli elargii un buffetto sulla guancia.  “Comunque, non mi dispiacerebbe se uno dei Valavitis mi corteggiasse: sono tutti e quattro dei bellissimi giovanotti!”

I tre rimasti si esibirono un piccolo e soddisfatto cenno di gongolante assenso. Vanitosi narcisisti.

“A me fanno invece un po’ paura: sono parecchio strani!”, confessò Emilie. “Andavo a catechismo con i gemelli, sai?”

“Quelle chance!”

“Fortuna? Per Saga eravamo troppo insignificanti anche solo per conversare con lui e quell’altro, Kanon, l’unica occasione nella quale mi ha rivolto la parola è stato per chiedermi, se mio fratello Sorrento avesse o meno la fidanzata! E voleva, che glielo presentassi pure!”, si sfogò la ragazza. “Così, per un certo periodo, me lo sono ritrovato come cognato!”

“No, si erano messi assieme? C’est incroyable!”

“Così parrebbe …”

“Così era sul serio!”, la corresse Kanon sottovoce, tuttavia leggermente imbarazzato di essersi ritrovato la sorella del suo primo p’tit ami ufficiale.  Seigneur, ma era rimasto a Mont-de-Marsan qualche maschio, che non fosse passato per il suo letto? Ora finalmente capivo cosa M. Christophe intendesse, quando affermava Mio figlio non ha mai conosciuto la parola discrezione. Ed ecco da chi Milo aveva imparato tutta quell’esuberanza lubrique!

“Vabbè, vabbè … casi a sé!”, riprese Emilie “Invece, l’ultimogenito mi sembra il più … ehm … etero dei quattro … enfin … comunque è e resta un bambino a confronto di Marin!”, sentenziò inclemente.

“Un poppante, che crescerà, ma pousse! Se a quest’età già l’adora e se lei lo sa manovrare bene, a diciotto, vent’anni lo avrà ai suoi piedi, crois-moi!”

“Hai sentito, che drittona?”, esclamò Milo falsamente indignato. “Vuole lasciare Iou – Iou in garage finché non matura!”

“Hai voglia, allora!”

“Certo che voi rossi siete perfidi, eh?”

“Chut! Che continuano!”, ci fece Saga cenno di tacere, aspettando ansiosi il gran finale.

“Non so te, ma sospetto che Marin abbia accettato di uscire con Aiolia solo per vendicarsi!”, confessò Amandine all’amica. Ovvio che la mia vicina di casa fosse di spirito vendicativo: il lionceau le aveva versato la cioccolata calda sul suo vestitino bianco, anche se non proprio di proposito … (More info, vedi Cap. 9)

“Uhm, c’est possible! Sarebbe il minimo, dopo tutto ciò che quello screanzato del suo ex le ha fatto patire:  il tiro a due con una di Dax per quasi un anno! Che vergogna dev’essere stata per lei!”, fece sdegnata Emilie, uscendo dalla cabina.

Gueh? La cioccolata non c’entrava niente? Però, si spiegherebbe quel repentino interesse nei confronti del mio fratellastro più giovane, che fino a qualche settimana fa non sapeva neppure che esistesse.

“Già, e purtroppo Marin ancora pensa a lui! Poco fa ti ricordi, che lo abbiamo incrociato sulla Place Rouge? Ti sovviene come lei si sia incupita all’improvviso?”, riprese la sorella dell’ex di Kanon, attendendo che la copine terminasse anche lei di rivestirsi.

“Però, sfruttare così quel povero ragazzo …  mi fa pena … si vede che lui ci tiene sul serio, non sarebbe corretto illuderlo e poi fargli fare la figura dell’allocco!”

Alla faccia!

“Oh, ci stanno chiamando! Beh, non sono cose, che infondo ci riguardano. Meglio tenersi questi dubbi per sé e zitti con entrambi!”, concluse in fretta Emilie, avviandosi verso la cassa in un ritmico tintinnio di tacchi. Imitandola, Amandine annuì, sospirando:

“D’accord. In ogni modo, questo atteggiamento di Marin rimarrà per me incomprensibile!” e l’angolo di prova cadde nel silenzio assoluto – per così dire, visto che la musica era più rombante di prima. Lentamente, uscimmo uno ad uno dal camerino, procedendo annichiliti come zombie pestati a sangue.

“Bastarda!”, fu Kanon il primo di noi ad esprimersi con codesto suo commento. “Sentivo, che c’era puzza di bruciato in tutta la faccenda: altro che il cassoulet toulousain!”

“Siamo sicuri, che si tratti della stessa ragazza? La delusione amorosa deve essere stata davvero terribile!”, s’aggiunse Saga incredulo ed io convenni con lui: ultimamente, con la scusante della masnada franco-greca in casa, avevo un poco trascurato la mia amicizia con la mia vicina di casa, altrimenti mi sarei accorto di quel suo repentino cambiamento in mode carogna. Forse, avrei dovuto però insospettirmi, quando scelse New Moon come film-espiazione per Aiolia …

“Délusion amoureuse, mon foutu oeil!”, imprecò Milo veementemente. “Non è di certo un valido motivo per pigliare Iou – Iou per i fondelli! Lui non se lo merita! Anzi, lei non è degna della sua attenzione! E dire che Aiolia si era pure impegnato, onde non apparire più cretino del solito e …”

“Merde!”, ruggì all’improvviso il gemello minore, interrompendo bruscamente il bicho. Subito ci girammo nella sua direzione, osservandolo preoccupati, mentre si passava angosciato le mani tra i capelli. “Oh, sacré bordel! Cosa abbiamo combinato?”

“Pardon?”, inquisimmo ora seriamente in ansia. Noi? Che colpa ne avevamo noi, se Marin voleva utilizzare il lionceau come un antidolorifico al mal d’amore?

“Abbiamo gettato Iou – Iou nella tana del lupo! Siamo stati noi ad istruirlo, affinché impressionasse Marin!”, ci spiegò afflitto Kanon, dispiacere cui ci unimmo anche noi partecipi, consci di esserci adoperati non per nulla, bensì per il peggio!

“Ma non è detto: lei … lei non ha dato segni, che lui le piacesse!”, balbettò Saga, ripulendosi nervosamente gli occhiali da vista.

“Sasà, quando una femmina incazzata te la vuole dare sui corni, sarebbe capace di servirsi perfino di un orango e la mia non è un’iperbole, figura retorica!”, sbottò spazientito Milo, parlando evidentemente per diretta esperienza personale. “Anzi, più è gibbone il “rivale”, più s’invipera l’ex! E lei ci gode!”

“Iou – Iou non è così fesso! È solo un po’ inesperto …”, lo difese il gemello maggiore debolmente, ammettendo però in cuor suo, che quanto affermato dallo scorpion corrispondesse al vero. “Povero tesoro: questa notizia gli spezzerà il cuoricino come un biscotto!” e imitò l’azione, più il sonoro.

Mi trovai dinanzi ad un bel dilemma: senza volerlo, ero in mezzo a due fuochi. Infatti, contrariamente ai miei fratellastri, che erano tutti logicamente partigiani per Aiolia, io ero invece conteso a chi dei due dare ragione. Da una parte, Marin era stata sul serio scottata dalla brutta e recente esperienza, che l’aveva lasciata notevolmente arricchita specie sulla testa; dall’altra, non era giusto che il povero lionceau divenisse lo strumento della sua vendetta.

“Non glielo diremo!”, sentenziai infine deciso, rompendo il silenzio instauratosi tra noi.

“Come?”

Prendendo coraggio e pregando che fosse la soluzione migliore, esposi il mio ardito (o folle) piano: “Siamo ancora in tempo per rimediare: la vera pena consisteva nel film, no? E Aiolia non la sconterebbe, se dovesse comportarsi, che so, male?”, suggerii allusivo.

“Boicottargli il film? È spregevole!”, esclamò Kanon scandalizzato. Poi, però, i suoi occhi s’illuminarono di un osceno entusiasmo: “Mi piace!”

“Aspetta! Questo significherebbe vedere New Moon!”, puntualizzò Saga, rabbrividendo appena.

Uhm, bell’issue da considerare.

“Vero, ma considera se sei disposto a soffrire o per due ore una storia melensa o per due mesi le lagne di Iou – Iou!”, mi venne in soccorso Milo, affondando il coltello nella piaga, la quale consisteva per il gemello maggiore nell’aver sopportato gli incessanti nostoi di Kanon per due giorni di fila, rischiando un cedimento di nervi.

Silenzio cospiratore.

“Vada per il sabotaggio!”, diede la sua benedizione la nostra guida spirituale, cui noi rispondemmo con un gasatissimo:

“On y va! Tous au ciné ! Nous sauverons le lionceau !” (Andiamo ! Tutti al cinema ! Salveremo il leoncino!, ndr. )

 

***

 

Le Cinéma Royal era preso d’assalto e grazie tante.

Tutte le fortune erano con lui: sabato pomeriggio; brutto tempo e film per ogni età e QI.  E New Moon – o Tentation, come venne ribattezzato qui in Francia – con la scusa del doppiaggio e dei lenti canali di distribuzione nei cinema della provincia, a dicembre ancora faceva furore tra le masse d’adolescenti, nelle quali erano stati riscontrati pure casi di bis e tris nella visione del detto film. Ma erano solo casi isolati, spesso perpetuati da ragazzine ancora single, che godevano di una notevole libertà di movimento. Infatti, dubitavo che un p’tit ami, per quanto cotto della sua gonzesse, riuscisse a sopravvivere ad una seconda visione di New Moon.

Fu quindi per questo motivo, che davanti al ciné il gruppetto si divise e si rimescolò, perdendo quattro elementi e guadagnandone altri due. Magro scambio in apparenza, ma che in realtà significò per Aiolia una grande consolazione: infatti, i nuovi arrivati erano niente meno che Shura e Junet, il primo livido in volto, la seconda contenta di incontrare la sua compagna di kickboxing.

Dalla nostra postazione segreta, udimmo Junet scusarsi con Marin, per non aver partecipato al rituale dello shopping natalizio, spiegandole che la prossima verifica di lunedì l’aveva persuasa a restare a casa a ripassare. La mia vicina non se la prese, anzi, affermò che la comprendeva perfettamente, essendo anche lei stata molto impegnata ultimamente nello studio. Dopodiché, la presentò alle sue amiche rimaste – Amandine, Emilie e Claire – e ai loro rispettivi mechi. Siccome, però, Shura se n’era rimasto piuttosto in disparte durante la conversazione privata tra donne, al momento delle presentazioni le altre giovani si erano strette possessive ai loro p’tits amis, credendo a torto che la ragazza fosse single, ergo un pericolo per il loro status quo di donne appaiate. Quando invece, Junet, pigliando un recalcitrante Shura per il polso, lo introdusse al gruppetto come suo mec, allora le tre comari si rilassarono, giudicando la bionda demoiselle una persona anche simpatica.

In ogni modo, terminate le formalità, la piccola comitiva si rimodellò ancora: tutte le filles davanti a mo’ di apri fila, chiacchierando a mitraglietta tra loro; les garçons per ultimi, cicalando alla stessa maniera e molto probabilmente elaborando un piano o per non addormentarsi o per scambiare piccole coccole durante il film, approfittandone del buio.

Una volta, quindi, scomparsi dalla nostra visuale, ci dirigemmo anche noi verso l’edificio, attendendo che fossero entrati in sala per metterci in fila. E quando fu il nostro turno, fu Milo il nostro portavoce.

“Davvero volete i posti dietro a quel gruppetto?”, esclamò incredulo il commesso, applicando il lucidalabbra pearl shine sulla bocca. “Carino, sono orribili: sotto il proiettore, se vi alzate si vedranno le vostre ombre … ne sei sicuro, mon beau gosse?” (mio bel fanciullo, ndr.)

Sorridendo accattivante, Milo rispose che sì, quei posti ci interessavano moltissimo e che anzi, essere così vicini al proiettore li faceva guadagnare cento punti in più! “Eddai, Misty …”, lo vezzeggiò spudoratamente, provocandomi un feroce gonfiamento delle guanciotte. Perché quei due erano così in confidenza? Eh? Come mai? “Fammi questo favore … in nome dei vecchi tempi …” e gli elargì un disarmante  e falsamente innocentino sorriso pieno di fossette.

Saga e Kanon mi dovettero trattenere per le braccia.

“Uff, e va bene Milo, ma solo perché me lo chiedi tu!”, cedette Misty, stampandoci i biglietti desiderati e dandoci il resto di quanto pagato. Uhm, ci aveva fatto pure lo sconto … “A propos, ho sentito in giro che hai rotto con Shaina, Dio che consolazione! E dimmi: hai una nuova fiamma, per caso?”

“Per essere rosso fiamma è rosso fiamma …”, commentò il bicho, lanciandomi una rapida occhiata e sogghignando contento alla vista del sottoscritto, che si prodigava ad inviare taciti messaggi di morte a quella tapette, se non la smetteva di flirtare con il mio scorpion lubrique.  “E’ un caro pinguino, infondo! Tanto dolce e indifeso”, aggiunse sornione, esattamente nel momento in cui imitavo una scena di sgozzamento.

“Lieto d’apprenderlo!”, arcuò impassibile Misty il sopracciglio, tamburellando le dita sul tavolo.  Sospirò. “Allora tchao, chéri, e fatti vedere ogni tanto qui in giro, cattivello!”, gli ricordò malizioso, congedandosi dallo scorpion, che rispose con un ambiguo occhiolino. “Au revoir,  anche a voi tre! Godetevi il film!”

Voltandosi all’ultimo momento, Kanon lo salutò tutto euforico: “Tchao, bella gioia!”, guadagnandosi uno spintone da Saga, che gli intimò di pedalare fino alla sala, nel frattempo che mi trascinava per il coppino in piena crisi omicida. E prima d’addentrarci nel buio, ero sicuro di aver scorto Misty raddrizzarsi sullo schienale della sedia, commentando affascinato e sognante: “Mmmnnn … maschioni …”

 

In effetti, Misty non aveva tutti i torti: i posti erano davvero uno schifo. Oltre ad essere stretti, si trovavano a qualche manciata di centimetri dal fascio di luce emanato dal proiettore e di conseguenza noi, per non emulare l’ouverture dei film di Hitchcock, fummo costretti a procedere quasi in ginocchio, sbattendo innumerevoli volte contro i sedili, con sommo nervosismo degli spettatori davanti a noi – Aiolia&friends – i quali si domandavano, che razza di ippopotami li fossero capitati in sorte.

“Oh, finalmente mi siedo e mi godo la parte più bella del film!”, esclamò soddisfatto Kanon, sistemandosi in mezzo al gemello e a Milo.

“E quale sarebbe?”

“I trailer.”

Ridacchiando, ci slungammo comodamente sui sedili, tanto era una verità nota, che quei posti sarebbero rimasti invenduti, perfino se fosse venuto Johnny Depp in persona a recitare sul palcoscenico lì presente. Approfittando delle luci che lentamente calavano, segnale che lo spettacolo stava per incominciare, tirai fuori dalla tasca la catenina raccolta martedì scorso in camera mia, riallacciandola al collo del bicho, il quale si girò di scatto, fissandomi incuriosito. Senza fornirgli alcuna spiegazione del mio comportamento, gli schioccai un rapido bacetto sulle labbra, catturandogli poi il braccio sinistro e stringendolo alquanto possessivamente.

E fu il buio, subito illuminato dal susseguirsi di trailer, cui assistemmo con vivace interesse, segnandoci a mente i must da guardare, lista nella quale svettò da subito Avatar tra i borbottii vari di Kanon, il quale riprese a maledire la neve, poiché, oltre che al meco, gli aveva fregato l’opportunità di vedere già a dicembre il film, invece di aspettare fino a gennaio inoltrato. Decisamente, la pazienza non era la virtù maggiore del giovane franco-greco gemellare.

Fu nel bel mezzo della proiezione delle anteprime cinematografiche, che decidemmo d’incominciare il nostro teatrino di salvataggio del lionceau. Il segnale, a onor del vero, non era stato affatto concordato, anzi, sorse spontaneo, manifestandosi in Saga, il quale, con un candore disarmante, chiese a nessuno in particolare: “Qualcuno mi può raccontare, che cos’è successo nel primo film?”  e giurai d’aver visto le spalle dei nostri “vicini” irrigidirsi, soprattutto quelle di Aiolia, che subito riconobbe la voce del proprietario di simile eresia.

“In soldoni è la storia di un’umana, che tampina un vampiro affinché lui la trasformi in una vamp – visto che è bruttina forte -  così potranno rotolarsi per l’eternità sui campi di fiori, sennonché lui preferisce lasciarla umana, così quando lei invecchia lui la rimpiazza tranquillamente con un’altra … e poi … poi … ah sì! Poi giocano tutti a baseball, perché il cricket è fuori moda … c’è  un vampiro scalzo che vuole mangiare la protagonista, in quanto ha dimenticato l’ovetto Kinder a casa  … un indiano capellone (tranquilli, non è Shaka!)  che ronza attorno a casa di lei, senza apparente valido motivo  e che racconta leggende strane sui freddi o gli eschimesi o i calippo … c’è un pickup scassato da primo dopoguerra … e dopo non mi ricordo più niente … devo essermi addormentato”, riassunse Milo, liberamente ispirato alla trama. Forse avrebbe fatto meglio a non dire proprio nulla, poiché Saga sembrò più confuso di prima.

“Chut! Dai che incomincia!”, ci annunciò gasato Kanon, non per l’inizio, bensì per aver centrato la scollatura di Claire con il suo popcorn lanciatole contro. Levando stizzita l’intruso, la giovane si girò inviperita, fulminando il gemello minore con lo sguardo. Quanto ad Aiolia, si era passato nervosamente una mano tra i capelli.

Schermo nero.

Le gioie violente hanno violenta fine, e muoiono nel loro trionfo, come il fuoco e la polvere da sparo, che si distruggono al primo bacio.

“Camus?”

Romeo and Juliet, di William Shakespeare,  Atto II, Scena VI, battuta di frate Lorenzo! Anno Domini 1594-95!”, recitai solennemente, ottenendo come premio un forte e teatrale abbraccio dal mio bicho, che esclamò orgoglioso:

“Ah, mon pingouin encyclopédie! Beh, ammetti però, che sei andato a colpo sicuro! È risaputo, che la Meyer ha letto in vita sua solo tre libri: Pride and Prejudice, Wuthering Weights (Cime tempestose, ndr. ) e appunto Romeo and Juliet.   E i segni si vedono. Infatti, secondo me, si trattò di un mero caso se lei non esordì  con It is a truth universally acknowledged, that a single shining vampire in possession of a good pair of canines and an awful hairstyle must be in want of a wife …” (Miss Austen, perdonami!, ndr. Versione originale: It is a truth universally acknowledged, that a single man in possession of a good fortune, must be in want of a wife)

“Or a snack …”, gli suggerii prontamente.

“Or a snack!”, si corresse subito, sorridendo. “Tuttavia, sarebbe stato come uccidere per la terza volta la povera Jane! Non infieriamo!”

“Accidenti, è proprio lei! Avete ragione! No, che roba …”, fece incredulo Saga, allungandosi verso noi due, per meglio ascoltare.

“Già”, annuì ispirato lo scorpion, “ e modificando il prologo di Romeo and Juliet  … forse, forse … ci poteva anche stare … chi se ne sarebbe accorto?

Two households, both alike in weirdness,

In rainy Forks, where we lay our heresy,

From ancient grudge break to new strangeness,

Where human blood makes undead mouth water in frenzy.

From forth the fatal loins of these freaks

A pair of star-cross’d lovers mess their lives;

She, a misadventured ridiculous  geek,

Do make the vampires sharp their teeth as knives!  

The fearful passage of her bite-mark’d love,

And the continuance of being both cold and furry enemies’ prey,

Which, but the bitch’s final death, nough could remove,

Is now four books’ huge traffic of money;

Which created a suburban saga,

Far more bizarre than Lady Gaga.

(Master Shakespeare, perdonami anche tu!, ndr. Versione originale:

Two households, both alike in dignity,
    In fair Verona, where we lay our scene,
    From ancient grudge break to new mutiny,
    Where civil blood makes civil hands unclean.
    From forth the fatal loins of these two foes
    A pair of star-cross'd lovers take their life;
    Whole misadventured piteous overthrows
    Do with their death bury their parents' strife.
    The fearful passage of their death-mark'd love,
    And the continuance of their parents' rage,
    Which, but their children's end, nought could remove,
    Is now the two hours' traffic of our stage;
    The which if you with patient ears attend,
    What here shall miss, our toil shall strive to mend.)

E davanti a me, percepii chiaramente delle risatine represse, che scoprii appartenere a Shura e a Junet. Invece, gli altri si stavano controllando per non saltarci addosso e strapparci la lingua, Aiolia in primis: a dire il vero, ai maschi del gruppetto non gliene importava granché, però, sapete, una gonzesse arrabbiata per tutta la sera non era molto conveniente. I motivi, al contrario, del piccolo Aslan risiedevano nella nostra inopportuna performance di stupro letterario. Embé scusate, la Meyer sì e noi no?

“Dovevi proprio fare la rima con Lady Gaga?”, lo rimproverò velatamente il gemello maggiore, pizzicando offeso lo sghignazzante doppio, il quale si divertiva a ripetere peggio di un demente gli ultimi due versi, gettando popcorn alla rinfusa, ovvero contro i nostri vicini. “Invece, se avesse voluto “ispirarsi” a Wuthering Weights, come avrebbe fatto?”, sfidò poi intrigato il fratello terzogenito.

Puntando gli occhi contro il soffitto, Milo ripassò a mente l’incipit del romanzo della Brönte, modificandolo: “Uhm … più o meno, così! I have just arrived to stay with my father – the solitary sturdy sheriff that I shall be troubled with. This is certainly an awful country! In all USA, I do not believe that I could have been stuck in a situation so completely removed from the heat of California. A perfect suicide’s Heaven- and Mr. Swan (my Dad) and I are such a suitable pair to divide the morgue between us. A capital prick!” (Scuse anche ad Emily Brönte!,ndr. Versione originale: I have just returned from a visit to my landlord – the solitary neighbour that I shall be troubled with. This is certainly a beautiful country! In all England, I do not believe that I could have fixed in a situation so completely removed from the stir of society. A perfect misanthropist’s Heaven- and Mr. Heathcliff and I are such a suitable pair to divide the desolation between us. A capital fellow!)

E mentre noi ce la ridevamo ancora con gusto, Aiolia si voltò verso Milo, sibilandogli piccato di tacere una buona volta. “Arrête, bon sang! Tais-toi!”, ripeté paonazzo in volto, notando come le sue parole sortissero l’effetto contrario.

“Y a-t-il quelque problème, Aiolia?” (C’è qualche problema ?, ndr. ), gli domandò perplessa Marin, apprestandosi a girare anch’ella la testa nella nostra direzione. Rapido, il lionceau glielo impedì, guadagnandosi così anche le risate di Shura e Junet, i quali ormai parevano più interessati a noi, che al film di per sé.

“Non, non pas du tout! (No, no affatto !, ndr.) E’ tutto a posto!”, sorrise a fatica il ragazzo, scoccandoci un’ultima occhiata assassinamente ammonitrice. “Sono solo degli …”

“Iou – Iou, ma che bello rivederti!”, giubilò Milo, sporgendosi fino ad appoggiarsi coi gomiti sullo schienale del sedile del fratellino. “E anche te, Marin! Di’ un po’, è vero che porti sotto i boxer da donna?” e vidi la mia vicina prima sobbalzare, poi stringere le gambe di riflesso, afferrando convulsivamente i bordi della gonna del vestitino nero. “Oh beh, forse Iou – Iou si sarà confuso con l’underwear di qualcun’altra …”

“Quoi?”, inquisì scandalizzata Amandine, lapidando il lionceau  ora ai suoi occhi irrimediabilmente pervertito e arrapato.

“Non lo sapevi? Me l’ha riferito lui stesso! Un pomeriggio a scuola mi si avvicina e mi sussurra: “Sai Milou, ho scoperto di recente, che Marin ha …”

“NON HO DETTO NULLA DEL GENERE!!!”, berciò esasperato Aiolia, attirandosi qualche occhiata malefica pure da parte degli altri spettatori. “Piuttosto, cafard mal élevé, che ci fate voi quattro qui? Pensavo, che non vi piacesse New Moon!”

Portando in avanti le mani finto innocentino, Milo si giustificò: “C’est exact! Tuttavia, Ionesco ed io siamo in Honey Moon (Luna di miele, ndr.), quindi, cambi miele con nuova e sempre di luna si parla! Capito?”

Uhm … a giudicare dai loro volti no e lo scorpion neanche ci contava, che lo facessero.

“Noi, invece, passavamo qui per un altro motivo”, s’inserì Saga, salutando cortesemente i nostri vicini. “Il mio gemello qui presente ha scelto questo posto per il suo suicidio assistito!” dichiarò il giovane convinto, intanto che Kanon si cacciava un’esagerata manciata di popcorn in bocca, avvolgendo col braccio libero quello del suo doppio.

“Perché assistito?”, domandò incuriosita Junet, malgrado il cenno di Aiolia di non provocare oltre il fratello maggiore, che invece replicò serafico:

“Perché il sottoscritto zitello di famiglia si accerta, assistendo appunto, che crepi bene, senza falsi allarmi!”

“E senza resuscitare vampiro, come accadde al povero Cedric Diggory …”, puntualizzò Kanon tra una masticata e l’altra.

“Ne parle pas la bouche pleine!” (Non parlare a bocca aperta !, ndr.), lo rimbeccò Saga, elargendogli un piccolo buffetto sulla guancia. “In ogni modo, è depresso perché il suo mec è ritornato in Inghilterra!” e gli astanti trattennero il fiato, forse più per il fatto che il gemello minore avesse un fidanzato inglese, piuttosto di essere omosessuale.

“Davvero? Oh le pauvre!” (Poverino, ndr.), sospirò commossa la petite amie di Shura e subito Kanon si sciolse dal gemello, appoggiando il mento sullo schienale della ragazza, guaendo come un cucciolo abbandonato ed elargendole il medesimo sguardo.

“Ah guarda che lo puoi anche accarezzare, mica morde! Lo abbiamo vaccinato, vero?”, la rassicurò Milo, accusando sul braccio una piccata e gelosa sberla da parte del suo amico iberico. Stando invece al gioco, Junet accarezzò il capo del gemello minore, che si strusciò sornione, persino ronronnando placido. Finché all’improvviso drizzò la testa, esclamando stupefatto:

“No, è Lucian!”

“Chi? Dove?”, ci fu un generale e frenetico domandarsi, intanto che ci si guardava attorno e pure sotto i sedili.

“Lì!”, indicò Kanon lo schermo, sul quale proiettavano Michael Sheen – nei panni di Aro - che eseguiva un massaggio turco al collo di un vampiro malconcio.  “E’ Lucian di Underworld!”

“No! E’ passato dalla barricata opposta!”, fece incredulo Shura girandosi. Quello era invero un colpo basso! Chi non aveva amato quel film, in cui vampiri e licantropi se le davano sul serio di santa ragione, tra morsi, sparatorie e sbudellamenti vari? E soprattutto, chi non si era innamorato del carismatico leader dei Lycans ribelli?

“Lucian, perché? Eri il nostro mito!”, si mise i capelli tra le mani Milo. “Eri il primo amore di Iou – Iou!”

“Non è vero!”, ululò imbarazzato Aiolia, mentre la ragazza accanto a lui si scostava di riflesso.

Scuotendo rassegnato il capo, Saga sentenziò solenne: “Lucian aveva capito, che da Lycan non si cuccava un granché … Eppoi, dai, guarda che vasta gamma di belle pollastre offre la razza vampira!”, fece sarcastico, indicando Rosalie e Alice nella scena del compleanno della protagonista.

“Rosalie bella pollastra? Sei proprio una talpa, Sasà, lasciatelo dire! Ma se sembra Nônon in versione femminile!”, lo sfotté il bicho, stuzzicando la natura sia vanitosa che permalosa del gemello minore, il quale sibilò acido:

“Io non ho quel transatlantico al posto del culo, capito? E nemmeno quel neo sopra il labbro alla Nanny McPhee!” (o Tata Matilda, ndr.), e si sedette umiliato e offeso, accoccolandosi accanto a Saga in un infantile broncio.

“Kanon trans?”, riflettei ad alta voce, cercando di abbozzare un’immagine mentale. Riuscitoci, eruppi schifato: “Sarebbe grottesco!”

“Dillo a me, che sono il suo gemello!”, commentò Saga, cercando di liberarsi dalla presa anaconda del suo doppio, il tutto mentre assistevamo alla scena di Bella che, da brava imbranata, si tagliuzzava l’indice, provocando un certo languore in Jasper. Che fessa! Ma ficcarsi subito in bocca il dito no, eh? Doveva proprio soffermarsi a contemplarlo e viva i suoi riflessi! Secondo me, quella si tagliava  e … “No! Il pianoforte no! Edward, espèce de con, perché hai gettato quel capellone slavato sul povero pianoforte innocente, estraneo alla vicenda? Non potevi lanciarlo contro Rosalie, che tanto con quell’airbag naturale ammortizzava pure la caduta?”, pigolai traumatizzato, prontamente consolato da Milo, che mi accarezzò il capo dolcemente.

“Dai Ionesco, non è un pianoforte vero: è solo una controfigura!”

Se lo diceva lui …

E’ il mio compleanno … posso esprimere un desiderio?

“Trasformami alla buon ora in una vampira, così la finiamo qui e andiamo tutti a casa?”

“Eddai, Milou, il film è appena incominciato!”

“Mi sono rotto lo stesso …”

Baciami!

“Oh beh, è anche una che si accontenta!”, affermò Kanon indulgente, sorseggiando tranquillo la sua coca-cola gigante. “Io non ho chiesto solo un bacio a Rhada, il giorno del mio compleanno!”

“Ah non?”, inquisì Saga con nonchalance, quando in realtà moriva dalla curiosità.

“Non, gli ho domandato un paio di guanti nuovi con sciarpa e berretto abbinati (sai, per l’inverno) … ” e mostrò fiero il suo tesoro, che aveva indossato fino a qualche minuto fa all’aperto “… e la sera dopo la festa le sue jolies fesses, ovviamente!”

“Mi pare equo!” e non riuscii a trattenermi dal sorridere alla vista di Emilie irrigidirsi dinanzi a simile dichiarazione: hé, ancora le bruciava la questione del fratello concupito dal secondogenito dei Valavitis!

Nel frattempo, le nostre orecchie captarono un commento di appassionata partecipazione nel momento in cui Edward, esaudendo la rompiscatole umana, esibiva baciandola una curiosa espressione, quasi avesse un gran ultraterreno mal di stomaco. “Oh, poverino! Non riesce a baciarla senza soffrire!” (N.B. Questa frase corrisponde a realtà: Hoel l’ha sentita davvero al cinema!)

Sbuffando scettico, Milo replicò abbastanza forte da farsi sentire dalla groupie del team Edward. (Che significava poi, solo il marketing di gadget lo sapeva!) “Che sfigato, invece! Non riesce neppure a sfiorarla senza venire! Neanche quella là fosse BB all’apice della sua bellezza!” (BB = Brigitte Bardot, ndr.)

Ripulendosi gli occhiali, Saga diede il suo parere medico: “Evidentemente, Mr. Edward Cullen è affetto da un brutto caso di eiaculatio precox!”

“Non è neanche buono a tirare fuori i canini, figurati il resto! Ah, Dracula se la sarebbe trombata prima e pappata poi senza rimorsi!”, dichiarò Kanon, sognando il suo smexy vampirone Gary ai tempi del film di Coppola.

“Eggià, un unico vero morso e hasta la vista!”, concordò Junet, afferrando il gioco di parole del gemello minore e, voltandosi, gli chiese euforica: “Anche a te piaceva Oldman nei panni di Dracula?”

“Lo adoravo!”, rispose come impazzito il giovane, artigliando il sedile della ragazza. “Era il mio idolo, il mio sogno bagnato! Cosa non avrei dato, per essere stato al posto di Keanu Reeves, mentre gli radeva la barba. Fossi stato lì gli avrei chiesto dopo di farmi …”

“Kanon, puoi per cortesia stare zitto e lasciarci guardare il film in santa pace?”, gli domandò gentilmente a fior di nervi Claire, battendo stizzita il braccio del suo meco: “E tu non ridere: lo incoraggi!”

“D’accordo, sto zitto se mi dai in cambio il tuo uomo!”, concesse magnanimo il gemello minore in vena di trattative. Claire trattenne il fiato incredula.

“Prego?” e il suo fidanzato rise ancora  più forte.

“Sono disposto a pagare!”, l’assicurò Kanon, pigliando dalla tasca dei jeans il portafoglio, dal quale estrasse un gruppetto di crocchianti banconote, sventolandogliele sotto il naso. “Allora, quanto vuoi? Pago con la Visa, se vuoi! E poi scarico dalle tasse! Vendimi il tuo uomo, muahahaha!!!”, sghignazzò, imitando alla perfezione uno di quei lenoni delle commedie plautine, mentre il ragazzo di Claire promise di chiamarlo, in caso una mattina si fosse svegliato gay.

Aiolia ora stava strappando il libretto delle preview in fini coriandoli …

Questa sarà l’ultima volta, che mi vedrai!

“E lo lascia andare via così? Con un bacetto sulla fronte e tanti saluti? Non gli caccia un bel paletto di frassino nel cuore, tagliandogli la testa e ficcandoci dentro una saporita testa d’aglio?”, esclamò sbalordito un Kanon senza più freni (Saga gli aveva concesso carta bianca), spandendo popcorn dappertutto, specie in testa ai nostri vicini.

“Ma che schifo!”, commentò Amandine, allontanando disgustata il pezzo di dolce, che era intenta a mangiare.

“Così si accoppa un vampiro, chérie, da più di cent’anni! È scritto ormai persino nel Manuale delle Giovani Marmotte!”, sostenni la teoria del gemello minore, che annuì grave e serio.

“Ma poi dove se ne va?”, volle sapere Saga, scacciando via con la mano gli unti stuzzichini dai jeans.

Attorcigliandomi pensoso le punte dei miei capelli al dito, ricordai piano: “Se non sbaglio, a Rio de Janeiro!”

“Cheee?”, strillò Milo indignato, incrociando le braccia al petto. “Ne sei sicuro? Cioè, per proteggerla, quell’anemico paillettato col ciuffo all’Elvis emigra a Rio? Ma lo sanno tutti, che lì si va per farsi di coca e ballerine di samba, dai!” e aggiunse poi, senza curarsi dei continui richiami dei nostri vicini e di suo fratello in particolare “E dopo magari se ne va pure a Caracas a bere il Pampero nei peghior bar de la cituad!”, sbagliò apposta, ottenendo maligno l’effetto desiderato: l’ira di Shura.

“Peor, ignorante!”

“Eddai Shura, peor; peghior; matador; che differenza vuoi che faccia? Tutto fa brodo”, lo rabbonì ironico il bicho, godendo come un riccio della situazione. Peccato che lo spagnolo non condividesse il suo punto di vista.

“Tutto fa brodo, quella gran vacca di tua cugina!”, ringhiò, offeso nel suo orgoglio ispanico.

“Quale? Hé, in Grecia ne abbiamo così tante, che magari una del tipo “vacca” te la troviamo pure …”

Giocando con la cannuccia, Kanon ipotizzò sognante: “Chissà se ce n’è una come me …”

“Meglio di no”, fu la più savia risposta del suo gemello. “Se ci fossero due come te, non sussistereste per un secondo, ché uno accopperebbe l’altro! Ma sarebbe comunque uno spettacolo interessante!”

Piccato, il suo doppio gli elargì una vendicativa linguaccia.

Ma ci voleva ben altro, per scoraggiare una scatenata madre superiora. “A proposito, Nônon, e se per caso Rhada ti avesse tirato lo stesso scherzetto? Che con la scusa di tornare a casa, non sia invece partito per il Brasile … assieme a Pandora?”, insinuò perfido il suo gemello, infierendo inclemente. 

Il viso di Kanon divenne più slavato di quello dell’attore sullo schermo, mentre componeva senza neppure guardare la tastiera il numero di cellulare del meco, la bocca piegata in una preoccupante smorfia isterico-omicida.

“No, ti prego, Nônon, non farlo! Ti supplico!”, lo implorò Aiolia a mani giunte, preghiera sdegnosamente ignorata dal fratello che sparò a mitraglietta mille domande, subissando uno spiazzato meco al di là della Manica. “Rhada! Where the hell are you?”

“At the Oxford Union?”, rispose quegli lentamente e assai perplesso dal quesito.

“That’s right, you naughty boy! Don’t you dare to move from there! ‘Cause I’ll know! And if you betray me and elope with that harlot, I swear on my twin’s head, that I’ll look for you even at the world’s end, then kill you in the most painful way and finally kill myself, ‘cause I can’t bloody live without you!”

Quella era sì che era una dichiarazione d’amore sul generis del gotico grandguignolesco! Degno di Stoker e LeFanu!

“Kanon, for Christ’s sake what the hell is wrong with you? What’s going on?”, s’informò il suo meco, visibilmente apprensivo per lo sfogo molto fuori dagli schemi del suo franco-greco.

That is unimportant! By the way, who’s with you?”

“My friends, Aiacos and Minos. As usual. Kanon, please answer my quest- …”

“I don’t like Minos!”, sbottò all’improvviso il gemello minore, rigirandosi incomodo sul sedile e sistemandosi in maniera tale, che i piedi fossero appoggiati sullo schienale e la testa sul grembo di Saga.

Silenzio anglosassone.

“I beg you pardon?”, balbettò al limite dello sconcerto Rhada, la voce ridotta ad un flebile sussurro.

Scrollando le spalle, Kanon liquidò in fretta la stupore dell’inglese. “Yeah, you heard me! I don’t trust him! Is he straight or gay?”

“Kanon, you’re not your normal self! Chill out!”

“Do you know it?”

“What? That you’re out of banana? Sure I do!”

“No, you silly! Minos! Do you know his sexual preferences?”

“How could I  be aware of them, if you please? These are not the kind of question you ma- ..”

“Then ask him!”, fu la proposta indecente del gemello minore, causando per poco un infarto a Rhada.

“What? But …”

“But my butt! He could be a threat to your solemn vow of chastity, while I’m far from Oxford! Minos looks so frigging suspicious! He may be a pervert and rape you! I mean, consider his hairstyle: a pug dog’s more cool!” (pug dog = pechinese, ndr.)

“Listen Kanon, if you’re watching New Moon right now, then follow my advice and go out from the bloody cinema immediately! It’s damaging your already distorted brain!”

Sogghignando compiaciuto della perspicacia del suo biondo anglosassone, Kanon si congedò sornione: “See ya, Rhada!”

“Hey, you! Don’t you da - …” e il franco-greco osò, premendo il tasto rosso.

Zip. Fine conversazione.

“E adesso, a noi, Minos …”, borbottò euforico, scorrendo la rubrica e copiando il numero dell’amico di Rhada, onde inviargli il seguente messaggio: “Hi, Minnie! R u gay?” (Tradotto in inglese corrente: Are you gay?, ndr.) “Bene, sono soddisfatto! Guardiamoci il film!”, annunciò, accoccolandosi meglio accanto al gemello.

E per i seguenti trenta minuti, nessuno di noi fiatò, lasciando così respirare con calma i nostri vicini. Inoltre, non potevamo permetterci di fare troppo baccano, altrimenti rischiavamo di essere allontanati dalla sala prima di aver concluso la nostra missione. La quale, per la cronaca, sembrava dare i suoi frutti: se prima era stato tollerato dalle amiche della mia vicina, ora Aiolia era schifato peggio di un lebbroso e Marin stessa batteva spazientita la punta del tacco per terra. Per quel che concerneva il lionceau, lui si torceva ansioso le dita, inumidendosi continuamente le labbra ed elaborando nel frattempo centomila modi per scusarsi con la giovane circa la nostra svergognata intromissione.

Nel frattempo, Bella soffriva, consolandosi tra le braccia di Jacob. (E un sorrisetto malizioso si dipinse sul viso di tutti gli spettatori in sala, nessuno escluso: chi si era mai dimenticato del mitico cameriere checca di colore Jacob ne “La Cage Aux Folles?”)

Si scoprì, man mano che proseguivamo col film, che lei fumava ingenti quantità di cannabis, giacché vedeva Edward dappertutto. Beh, i centauri fattoni stile anni Ottanta rispondevano all’appello, quindi! La parte più bella fu quando lo vide per strada, mentre la supplicava di non renderlo cornuto con una brutta copia Alice Cooper! In ogni modo, la sedotta e abbandonata di Forks ancora aveva gli incubi di notte, deliziandoci con urletti stridenti e acuti, che provocano feroci tachicardie ai poveracci – come Milo – che si erano addormentati o riempiendo di false speranze – nel caso dei gemelli – che finalmente un vampiro l’avesse accoppata, ponendo fine alle sue sofferenze.

E fu durante uno di questi raffinati gorgheggi notturni, che una nuova colonna sonora s’impose sfacciata.

… ma il dolore è sempre lì presente … GYAAHIIIIII!!!

You drive me crazy,

I just can’t sleep

I’m so excited, I’m in too deep

Oh … crazy, but it feels alright

Baby, thinkin’ of you keeps me up all night!

 

E questa volta, oltre che ovviamente ai nostri vicini ora del tutto voltati verso di noi, a guardare sconcertati Kanon furono anche Saga e Milo, incapaci di credere a quanto udito: da quando in qua ascoltava Britney Spears? Tacita accusa, cui il gemello minore rispose innocentemente, sbattendo le palpebre gnorri: “Mi piacevano le parole, erano così adatte come suoneria per il numero di Rhada …” si giustificò, chiudendo subito il telefonino.

“Ma così non rischi, che ti ammazzi?”, fece scettico Saga, conoscendo quanto il cognato diventasse suscettibile, nelle occasioni in cui Kanon si dileguava nel nulla per settimane intere, se non un mese di fila, senza rispondere a mail o sms o a chiamate.

“Oh beh, magari! Così dovrebbe ritornare qui da me per farlo!”, espresse il suo desiderio il secondo dei Valavitis, gli occhi che gli brillavano sognanti alla sola idea. “Sarebbe così romantico morire tra le sue braccia … ah!” sospirò, attaccandosi alla cannuccia del suo frappé alla fragola e suggendo pacioso come un infante.

Saga, Milo ed io trattenemmo a stento un conato di vomito, intanto che Bella Swan cercava di suicidarsi imparando a guidare una moto. E approfittando del volo a papera, lo scorpion mise in atto le sue doti di attore, imitando in maniera perfettamente inquietante la voce di Aiolia.

“Umphf! Questa imbranata mi ricorda qualche nanà di mia conoscenza …” e siccome tra quasi 32.000 abitanti, l’unica ragazza a girare in moto – una vera, non un surrogato - doveva essere proprio lei, Junet s’imporporò offesa, fronteggiando furiosa un ignaro Aiolia.

“Cosa vorresti insinuare, Valavitis n°5?” sibilò velenosa, sventolandogli l’indice sotto il naso. Beh, contando anche la sorella defunta, effettivamente erano in cinque. In ogni caso, non potei impedirmi di sorridere pensando all’immagine di un’Eau de Lion in commercio nelle profumerie.

“Moi? Rien du tout, je te le jure ! Je n’ai rien dit !”  (Io ? Assolutamente nulla, te lo giuro ! Non ho detto niente!, ndr.), si difese un Kovu calunniato e la sua espressione disorientata parve placare momentaneamente la collera della giovanissima motociclista, la quale si ritirò a fianco del moroso, borbottando rancorosa.

“Tzé, una volta mi ha quasi investito con la moto, perché non sapeva distinguere la destra dalla sinistra”, continuò imperterrito Milo nel suo piano malefico, intanto che gli suggerivo qualche battuta all’orecchio. “Ho scoperto in seguito, che si trattava di una sua strategia per rimorchiare: lei cade o fa finta di essere incapace, in modo che il pollo di turno l’aiuti! Povero Shura, ti compatisco! Sei già bell’e cornuto!”

“Cosa?”, ringhiò il detto candidato alle corna d’oro, scrocchiandosi le nocche e pronto a strappare la criniera del piccolo Aslan. “Prova a ripet- …”

“Aiolia, espèce d’animal sans cerveau!”, s’incollerì sul serio Junet, anticipando la vendetta del meco con bel pestone al piede di Aiolia, utilizzando ovviamente il tacco e il poveraccio fu costretto a mordersi la lingua, sporgendosi in avanti un poco, onde evitare di gridare a pieni polmoni tutto il suo dolore. E sfruttando la posizione propizia del fratellino, Kanon, sgattaiolando con la mano tra la fessura dei sedili, lo pizzicò a tradimento, costringendolo in un acrobatico balzo, il quale sortì l’effetto di spandere grazie ad una gomitata l’intera coca-cola sulla scollatura della sua vicina Amandine.

Silenzio pre-massacro.

“Pardon, Amandine, non l’ho fatto apposta! Non … non prendertela, eh? Ecco, ti do un fazzoletto …”

“Non ti avvicinare alla mia gonzesse, maniaco pasticcione!”, gli berciò contro il mec di Amandine, schiaffeggiando Aiolia, il quale, colto impreparato, incassò il doloroso manrovescio più la borsettata dell’offesa ragazza, cascando sopra a Marin e di qualche quarto pure su Junet, che fu tanto accorta da salvare la scatola di macarons accanto alla mia vicina.  “Sale chien, le hai rovinato il suo vestito preferito! Adesso io ti …”, ma fu interrotto da delle giubilanti ovazioni d’apprezzamento femminili, distraendolo dal suo nefasto proposito.

Ebbene sì, Jacob si era levato la maglietta, la scena madre del film.

“Ma dai!”, sbuffò scettico Kanon, passando all’attacco degli M&Ms. “Tutto pompato! Non sono affatto veri, quegli addominali! Scommetto, che in una vera mischia lo lasciano polpetta, vero Iou – Iou?”

Il giovanissimo giocatore di rugby gli lanciò un’occhiata di puro odio.

“Perfino Aiolia ha una tartaruga più decente rispetto a quella! Su, falla vedere a Marin!”, lo istigò, gongolando come le vene del collo del lionceau si stessero gonfiando per la rabbia contenuta a fatica.

“Non ci contare …”, sibilò il ragazzo, stringendo convulsivamente i pugni.

“Coraggio!”

“Non!”

“Si!”

“Non!”

“Si!”

“NO! E’ INUTILE CHE INSISTI, TANTO NON GLIELA FACCIO VEDERE, CAPITO BON SANG?”, ruggì un Aiolia violaceo al limite massimo dell’esasperazione. Immediatamente, tutti gli spettatori si voltarono nella sua direzione, d’un tratto più interessati a quanto avvenisse in fondo sala, che sullo schermo. “Ehm … la tar-tartaruga …”, boccheggiò a disagio il lionceau, torcendosi le mani, resosi conto solo ora del maligno doppio senso cui Kanon lo aveva subdolamente condotto. “Non la … non la v- … ve-verg … quella!” e tanto era stralunato, che non si accorse di aver a sua volta pestato il piede ad Amandine, la quale si alzò furiosa, raccogliendo in fretta le sue cose.

“Assez! Questo è il colmo! Non posso rimanere vicino a questo zotico, ne ho abbastanza! Me ne vado via! Alla prossima, Marin e bada a non portarlo più con te!”, fu il suo dolcissimo congedo, mentre il meco la seguiva, ignorando il torrente di scuse di Aiolia e le sue promesse di pagarle la lavanderia a secco, tutto purché lei non disertasse così la compagnia.

Niente. Pigliandosi l’ennesima borsettata in testa, il lionceau vide sfumarsi ogni possibilità di riappacificarsi con lei e soprattutto con Marin, la quale si mise anch’ella in piedi, rincorrendo l’amica in fuga.

“Tu stai qua seduto!”, sussurrò pericolosa Junet, tirando giù lesta Shura per il braccio, visto che il ragazzo, con la scusa di quell’esodo improvviso, sperava anch’egli di raggiungere l’uscita.

Il viso a chiazze, i capelli scompigliati e gli occhi rosso sangue (altro che i Volturi), Aiolia si girò in piedi verso di noi, tremando da capo a piedi. “Voi …”, gracchiò, la voce irriconoscibile. “Vi avevo scongiurato di non venire … come avete … come avete potuto farmi questo?”

“Appunto su quell’issue che volevamo discut- ahia!”, si lamentò Kanon alla botta in testa ricevuta dal furibondo lionceau, ora in mode Scar.

“E anche a te!” e colpì Milo “E tu pure!” e martoriò lo scalpo a Saga. “Chi ne vuole ancora? - Patasciòook - Ne ho a palate per chiunque! - Patasciòook -Ceffoni per tutti! - Patasciòook – Mille gusti +1! - Patasciòook –Per colpa vostra abbandonerò il rugby e diventerò un modello! Così morirò anoressico e mi avrete sulla coscienza, brutti salauds! – Patasciòook!!! ” e flagellò contemporaneamente i tre senza misericordia alcuna, ignorando le loro suppliche di lasciar perdere la sua orribile idea di calcare le passerelle delle sfilate. Infine, rivolgendosi verso il sottoscritto, Aiolia sentenziò un po’ più calmo: “Uhm … a te no, invece!” e detto questo, galoppò via nella stessa direzione dalla quale era uscita la mia vicina di casa.

“Mariiiiinnnn!!!”, ululò disperato, evitando d’inciampare per un soffio. “Ti prego, aspettamiiiihhh!!!”

E ci fu perfino un applauso.

 

“Marin! Marin!”, la chiamava Aiolia da fuori il cinema fino a raschiarsi le corde vocali, guardandosi furiosamente intorno e trovandola a qualche metro dall’uscita del ciné.

Di spalle, ritta e rigida davanti a lui, la giovane fissava ostinata il punto esatto, dove la sua amica e il meco si erano incamminati verso il parcheggio. Non si voltò neppure, quando il ragazzo, raggiuntola,  le sfiorò lievemente il braccio, tacita e timorosa richiesta di guardarlo almeno negli occhi.

“Marin … ecco … io … mi dispiace davvero, non sapevo che … che loro mi avrebbero … si sarebbero … che fossero … maledizione, non li avevo invitati! Non … non è codardia, però davvero la colpa è tutta loro se … se il film è rovinato … sul serio, lo volevo guardare con te e le tue amiche, giuro! … non … non credevo che … ah!”, si arrese infine, dichiarando sconfitto e sfiduciato: “Chi prendo in giro? Sono io l’idiota, in realtà! Mi sono fidato di quei cretini! Mi lascio sempre abbindolare da loro e mai che impari la lezione! Lo ammetto, sono un fallimento di … non sono che un misero e insulso pagliaccio …”, continuò il suo allegro monologo, fissando vergognoso la punta delle scarpe inzaccherate di neve.  “Non sono degno neppure di essere considerato un tuo copain, figurati il resto. (Nella gerarchia degli affetti, copain è un amico-conoscente, inferiore ad ami, il vero amico, ndr.) Però”, si azzardò, mordendosi a disagio il labbro inferiore “non mi odi, almeno? Per questo, intendo … il film e … la cioccolata …”e tacque, aspettando docile la scure del boia calare sulla sua testa. Invece, al posto delle dure parole di condanna che si attendeva, le orecchie del contrito lionceau percepirono dei flebili singhiozzi imporsi nella fredda aria invernale e il suo cuoricino fece un terrorizzato pluff! , credendo infatti, di avere in qualche modo offeso la ragazza di fronte a lui. “Seigneur, che casino ho combinato! Saranno lacrime di vergogna, queste! Di umiliazione! Le rovino la serata e poi la costringo a sorbirsi la scusa più patetica del mondo? Sono davvero una dannata bestiaccia!”, si arrovellava la mente l’infelice Simba, zampettando quasi da un piede all’altro e sperando di possedere abbastanza forza, da poter aprire un cratere sull’asfalto, infilarvisi dentro, e richiudere il tutto a mo’ di sarcofago egizio. 

 E lode a Sekhmet, la dea leonessa sua protettrice.

“Per favore, Marin, non piangere così! Mi fai sentire più verme di quel che sono già ed è tanto!”, la pregò Aiolia, allungando timido la mano per appoggiarla sulla sua spalla, ritirandola invece veloce all’ultimo momento. “Concedi a questo bruco un’altra possibilità! Posso ancora diventare la farfalla che desideri!”, sebbene il lionceau dubitasse lui stesso, che simile miracolo potesse mai accadere. Eppoi, i gatti  non si mangiavano  per diletto le papillons? Irritato, il ragazzo scosse il capo: felini, invertebrati, insetti, fratelli, shopping, amiche, vampiri e licantropi, no, era troppo anche per lui!

“Non desidero, che cambi per una come me …”, disse infine Marin, permettendo al poveraccio dietro di lei di respirare liberamente per un attimo. “Non devi … sarebbe … sarebbe una forzatura. Sei un immaturo e un briccone, Aiolia, però allo stesso tempo molto buono e dolce.”

“Ah, così mi dici?”, proferì lentamente il piccolo Aslan, non sapendo se interpretare la dichiarazione della giovane come un complimento o un rimprovero. Onde quindi evitare ulteriori figuracce, era meglio non sbilanciarsi più del dovuto.

Rigirando un poco nervosa la borsetta tra le dita, Marin affermò convita: “Oui. Sei un bravo ragazzo.”

“Merci”, sorrise a fior di labbra Aiolia, seppur gli costasse molto. Nel gergo femminile quella frase significava: Sì, sei decente, ma non incontri ancora i miei standard da Mr. Right …  Non ti rifiuto, ma non ti accetto; sei solo relegato in una breve pausetta di riflessione. Quando sarai un po’ più cresciuto, ingentilito e arricchito allora ripresentati e mostrami quanto l’amore ti abbia elevato dai tuoi bassi e fangosi impulsi sessuali dettati dal testosterone, librandoti verso un dolce sentimento, che contempli anche un rapporto in cui la frase “Stasera non ho voglia” non venga considerata un’anomalia mentale da chiamare lo psicologo.

In poche parole, l’eterno compromesso cui un garçon doveva scendere volente o nolente, se la fille in questione era sul serio la femme de sa vie.

“E ciò non va bene”, riprese con insolito vigore Marin, facendo sobbalzare Aiolia, il quale comprese che effettivamente, la giovane rossa non gli aveva rivolto un complimento, tutt’altro.

“Uh!”, fu l’unica cosa, che il lionceau riuscì ad articolare, incassando stoicamente l’ennesimo colpo.

“Mi metti a disagio!”, continuò energica la terribile Red Sonia francese, mettendo a dura prova la corazza del ragazzo, ergo quella del leone di Nemea.

“Ah!”, boccheggiò quegli, arretrando un poco.

“Mi fai star male!”

“No!”, barcollò ora Aiolia, pensando che mai in vita sua aveva preso così tante batoste, né a rugby, né dal padre o Saga quando combinava qualche marachella, né dagli altri fratelli giusto per mettere alla prova la loro abilità nella lotta greco-romana.

“E’ indescrivibile la vergogna che provo, ogniqualvolta mi compari innanzi!”

“…”, altro che the lion sleeps tonight! Avrebbero dovuto cantare per quell’occasione, the lion is dead tonight! Perché dopo una frase del genere, fu un evento miracoloso se Simba poté vantarsi di essere ancora sulle sue gambe, sebbene il suo volto non fosse tanto dissimile da uno degli Ecce Homo dipinti sulle stazioni della via Crucis .

“Aiolia …”, si decise infine Marin, voltandosi e pronta a concludere la sua corrida amorosa.

Pallidissimo, l’interpellato soffiò stremato: “Ouiii …?”

Silence of doom.

“Sono un’infame!”, dichiarò di punto in bianco la rossa, spiazzando letteralmente Aiolia, il quale già da tempo correva su di una rotaia diversa, che di certo conduceva alla crocifissione definitiva del lionceau, spugna imbevuta di aceto compresa nel prezzo.

E quando ci si trovava proprio in una di queste situazioni, nelle quali lo scenario era a dir poco così apocalittico, tanto da considerare perfino le soluzioni più stravaganti valide pur di uscirne, al risvolto pressoché positivo di esse la reazione più comune era di guardarsi attorno e proferire la frase più cretina, oscena e fuori posto del creato.

Così fece Aiolia Alexios Valavitis.

“Lì c’è una panchina, forse possiamo sederci …”, mormorò stralunato, planando su di essa, prima ancora che Marin avesse avuto modo di accettare o meno il suo bizzarro invito. Resosi conto della scortesia, il ragazzo si rimise in piedi nell’esatto istante in cui l’altra si accomodò. Perplessa, lei si rialzò, pensando che Aiolia volesse andare altrove, mentre il piccolo Aslan si lasciò ricadere sulla panchina, ribalzando su quando di nuovo si accorse della sua completa ignoranza dell’abc del galateo. Stufa di quella ginnastica serale, Marin lo tirò in basso per il braccio, costringendolo seduto una volta per tutte.

“Aiolia, forse dovrei accennare ad un certo argomen- …”

“Questa nevicata è venuta davvero improvvisa, eh?”, le parlò sopra il ragazzo, impegnandosi subito ad aggirare a tutti i costi la notizia bomba appena rilasciata.

“Oui, però non è pertinente con …”

“Mi ero dimenticato, che i popcorn dolci fossero così stucchevoli. Tu che ne pensi?”

“Sono d’accordo, ma …”

“Non hai freddo a maniche corte?”

“Aiolia, tais-toi  tu veux ?!”, sbottò spazientita Marin, trattenendosi dal slacciarsi il foulard e imbavagliare il disperatamente ciarliero Simba.

“Comme tu désires !”, s’arrese quegli remissivo, appoggiando le mani sul grembo. Come disse il saggio dell’arte della guerra Sun Tzu, la strategia è la via del paradosso. E potendo l’amore in qualche modo equivalere ad una giocosa guerra, fingere una reazione contraria a quella aspettata dal partner era un metodo ottimo per l’estocade finale.

Infatti, Marin si aspettava in un incaponimento del giovinetto, non di certo tutta quella docilità da parte sua. Del resto, ignorava che Aiolia fosse in realtà un vero campione in materia: sopravvivere a tre fratelli maggiori lo aveva rotto ad ogni dissimulazione, onde non passare per il loro antistress.

Notando quindi che il lionceau era tutt’orecchi, la giovane donna, umettandosi le labbra a mo’ d’incoraggiamento, proferì dopo un lungo sospiro: “Hai capito bene: mi sono comportata davvero male nei tuoi confronti. Non lo meriti. Con te non sono stata altro, che una carogna.”

“Vabbè, dai, se si tratta solo di tre ore e trequarti di shopping e New Moon, ti perdono subito! Non sentirti in colpa!”, fece evasivo Aiolia, sperando di terminare là la questione.

“No, per favore, ascoltami”, insistette Marin “Io … io ultimamente non ho passato un bel periodo … Non è per giustificarmi, non sia mai, è solo affinché tu capisca il perché del mio atteggiamento nei tuoi confronti.” Tacque un attimo. Poi riprese: “Il mio fidanzato da tempo portava avanti un tiro a due con un’altra; io l’ignoravo, figurati! Questo genere di cose le sai sempre da un terzo, mai da te! E appunto, mi fu riferito da una mia copine, che li aveva scorti in centro a Dax. All’inizio non volli crederci, ma fui pian piano costretta ad arrendermi all’evidenza dei fatti: i suoi improvvisi impegni; le chiamate cui non rispondeva …” Marin abbassò il capo, sfruttando la ricciuta capigliatura ramata onde celare gli occhi d’un tratto umidi. Aiolia, attento, l’ascoltava senza quasi respirare.

“Quando ne ebbi la conferma, la rottura fu pressoché inevitabile. Non … non riuscivo a pretendere, a fingere con lui … era … tutto quel mentirsi, quel giustificarsi era soffocante! Non reggevo più. Gli chiesi di finirla lì. Lui protestò un poco, giusto per circostanza, ma non si fece poi tanti problemi a convenire con la mia decisione”, sussurrò debolmente la giovane, passandosi una mano sulla tempia sinistra. “E figurarsi, se la cosa non si riseppe in tutta Mont-de-Marsan in meno di un giorno! Anzi, già era di dominio pubblico, prima ancora che lo sapessi io stessa! Mi sentii così umiliata, compatita, additata … ah! maledetta provincia!”, imprecò, asciugandosi nervosamente le lacrime dal viso. “Volevo vendicarmi di lui, che se ne andava in giro tutto trionfo con la sua nuova gonzesse; volevo dimostrargli che lui non era tanto migliore, che persino un poppante sarebbe stato più decente di lui!”

“Ehm … e hai pensato a me?”, fece il detto infante o pivello, che a dir si voglia.

Marin annuì. “Mi dispiace, è così. Speravo di umiliarlo una volta vistoci assieme, così come lui aveva fatto con me. E oggi, quando ci siamo incrociati per strada, ho avuto modo di appurare, quanto la sua vanità maschile ne abbia effettivamente sofferto. Eppure, in cuor mio non sono riuscita a gioire del mio trionfo. E sai perché? Perché fu a tuo discapito. In fin dei conti, non mi sono comportata meglio del mio ex: ti ho usato, ecco. Prima ti scusavi per l’intromissione dei tuoi fratelli, al contrario, dovresti ringraziarli, ché alla loro maniera volevano solo avvertirti. Anche le mie amiche più intime, mi avevano sconsigliato di uscire con te così presto, non era giusto nei tuoi confronti ingannarti in questo modo. Tzé,  ormai tutti se ne erano accorti, tu solo eri l’unico ignaro e assistere a questo teatrino a tuo danno mi riempiva di disgusto verso me stessa. Quindi, non sei tu quello che deve domandare perdono, sono io! Scusami tanto, Aiolia!”

Il ragazzo non disse nulla, si limitò a fissare ostinato un punto indefinito davanti a sé. Si voltò poi di scatto, sorridendo lieve. “Evita ogni mea culpa, tanto ne ero già a conoscenza!”, le confessò. “Aspettavo solo il momento in cui me lo avresti detto!”

Sbattendo incredula le palpebre gonfie, Marin mormorò appena: “Cosa? Tu sapevi …?”

“Sorpresa, eh? Non sono così cretino come mi si dipinge! Solo all’occasione e sempre e comunque in grande stile!”, scherzò il lionceau, strappando una nervosa risatina da parte della giovane rossa.  “Ho notato, che ultimamente eri tesa, cupa. Speravo di avvicinarmi a te per rasserenarti un pochino, ecco …”, le spiegò poi serio. “Non pretendevo di consolarti; so quanto spesso il dolore possa equivalere ad un segreto, che non si vuole condividere a nessun costo, per quanto vi siano delle persone pronte a farsi carico di quella pena, pur di alleviarla un poco. Sembra paradossale, ma a volte siamo quasi gelosi delle nostre sofferenze, come se fossero un preziosissimo tesoro!”, dichiarò fervente il ragazzo, afferrando con energia la mano di Marin, dimentico di ogni esitazione. “Tu mi piaci, Marin, non te ne ho mai fatto un mistero, sebbene non te l’abbia mai detto chiaramente a parole. E il fatto, che tu ora mi abbia rivelato a viso aperto il tuo cruccio, mi ha reso molto felice! Potevi optare il silenzio, ma ti sei confidata! Almeno, significa che un pochino di considerazione per me ce l’hai, no? E il mio più grande desiderio è di poter innalzare questa considerazione alla fiducia, poi all’affetto e infine all’amore, se vorrai. Così da poterti accompagnare la prossima volta a vedere Eclipse e Breaking Dawn anche a costo di entrare in coma profondo!”

Marin lo studiò a lungo, valutando accuratamente ogni parola. Dopo la scottatura ricevuta dall’ex, era divenuto un riflesso incondizionato; ciononostante, non vi trovava alcun segno di malizia dietro ad esse, solo una schiettezza un po’ ingenua, ma comunque migliore di più artefatte, belle e irraggiungibili promesse.  “Sei così sensibile, non l’avrei mai detto!”, fu il commento di lei, stupendosi ad ogni secondo che passava, quanto nel viso di Aiolia stesse pian piano scomparendo il ragazzo, per far spazio all’uomo.

Forse, non era così immaturo come spesso dava ad intendere.

“Solo con alcune persone a me care … e con te …”, la rassicurò il lionceau sincero. “Tu sais Marin, forse dovrei essere l’ultimo a parlare, però … hé, io ti avrei lasciata per un’altra solo se fosse diventato scemo, orbo e un pazzo furioso contemporaneamente!”, ammise lui con cuore in mano, lasciando alquanto interdetta la giovane accanto a lui.

Silenzio

“Adesso dovresti rispondere, io temo di essere a corto di frasi ad effetto!”, si giustificò birbante il ragazzo, mordendosi monello il labbro inferiore. Scuotendo il capo, Marin domandò ironica:

“Ci siamo dati ultimamente agli Harmony?”

“No, l’ho letto su Doremì!”

“Ah! La versione originale o la tua?”, inquisì maliziosa lei, provocando un feroce rossore sulle guance di Aiolia. Ridendo, Marin lo rincuorò: “Tranquillo, tanto lo so, che non era né per te né per quella tua famosa cugina …”

“Dunque tu sei a conoscenza che …! Oulà! Questo gossip!”, esclamò falsamente esasperato Simba, imitando il fratello maggiore in assoluto, quando roteava spazientito gli occhi. “Ci porterà tutti alla perdizione!”

Ridendo di cuore per la prima volta, la giovane rossa convenne con lui. “Merci, Aiolia. Merci!”, lo ringraziò, esattamente come fece anche il lionceau ai suoi santi protettori, nell’istante in cui, inebriato da un insolito ardire, abbracciò la ragazza, accarezzandole i morbidi ricci. “Merci!”, articolò tacitamente di nuovo Aiolia al cielo, notando che lei non si ribellava a quella sua iniziativa. Era un buon punto di partenza; sentì che in due anni che la poteva fare. Già! Una volta diciottenne, il titolo di petit ami sarebbe stato suo di diritto. Sorrise demente e innamorato. Il mondo era suo!

“Rientriamo? Forse facciamo ancora in tempo a vedere Michael Sheen!”, le propose il lionceau, percependo i piccoli brividi di freddo percorrere la pelle della giovane, la quale annuì distrattamente. “In ogni modo, posso rivelarti una cosa, Marin?”

“Dimmi pure”, lo invitò a continuare, intanto che si risistemava i capelli arruffati e il viso ancora umido di lacrime.

“Lo sai, che la città descritta nel romanzo – non film - di New Moon non è Volterra, benché si affermi il contrario?”

Marin non riuscì a trattenersi dallo spalancare incredula la bocca.

Cosa non s’imparava ogni giorno!

(N.B. Quanto affermato da Aiolia corrisponde al vero. Hoel, in un suo tour delle Toscana, passò anche per Volterra e, per quanto cercò come una dannata, non trovò MAI il famoso porticato dal quale Edward sarebbe dovuto uscire a torso nudo. Inoltre, perdonate l’eufemismo, Volterra è davvero nel famoso didietro della balena, da lì all’aeroporto manco se possiedi un velociraptor potresti mai arrivare lì in qualche oretta. Ora si scopre perché fu girato a Montepulciano il film. Troppo caro a Volterra? Ovvio, visto che dovevano costruire il porticato fantasma! Wow!)

 

Così, arrivò la “mezzanotte” anche per il lionceau, il quale da brava Cendrillon (Cenerentola, ndr.) fu riportato da noi a casa, restituendo gli abiti e i pochi accessori imprestati, rompendo così l’incanto di apparire come un figlio unico, ergo indiscusso proprietario di quanto possedesse.

Certo, il viaggio di ritorno fu caratterizzato da un certo disagio tra di noi – avevamo pur sempre imbastito un imbarazzante vaudeville, seppur in buona fede – e il giusto sfogo dell’ultimogenito ci rodeva l’animo, temendo una rottura con lui. Invece, Aiolia prese a cicalare senza fermarsi per tutto il resto della serata, gli occhi follemente luccicanti e un sorrisone ebete stampato in volto.

No, decisamente meglio un lionceau indiavolato, che in piena fase di stordimento amoroso!

Questi era l’argomento discusso tra Kanon e me, intanto che ci adoperavamo a lavare in due la capigliatura di Saga, ennesimo tentativo di rimuovere l’ostinata tintura nera, neanche si trattasse di catrame.

“Secondo me, sono i pensieri negativi a far rimanere il colore!”, dichiarò convinto il gemello minore, strofinando forte fin quasi a strattonare i poveri capelli, come gli fece notare il miagolio del suo doppio. “Take it easy, man! Rilassati un po’! Altrimenti ti verranno le rughe anzitempo e pure la pelata!”

“Ah ouais?”, bofonchiò Saga durante il risciacquo. “E secondo te, come potrei concedermi un attimo di tregua con  …”

“RIDAMMI QUELLA DANNATA CAMICIA!!!”

Appunto.

“Giammai!”, sentimmo strillare indignato Aiolia, seguito da preoccupanti tonfi. Incuriosito, lasciai la mia occupazione e mi diressi in salotto, dove lo trovai impegnato in un furioso corpo a corpo contro Milo, serrando al petto nel frattempo una candida camicia, la stessa imprestagli per questo pomeriggio.

“Mollala, Iou – Iou, è la mia camicia! P’tit voleur! (Piccolo ladro, ndr.)”, mugghiava inferocito lo scorpion tutto chele e pungiglione, contro le zanne e gli artigli del lionceau. E poi si lamentavano, che le ragazze litigavano per delle facezie? Ma da che pulpito!

Tirandosi per i capelli peggio delle lavandaie, Aiolia berciò per nulla intimorito: “No, vi è sopra la sacra vestigia delle lacrime di Marin! E’ un cimelio importantissimo! Dio solo sa, quando il suo bel viso potrà tornare ad onorare i miei vestiti! Chomp!” e morse la mano di Milo, che imprecando, gli pizzicò dietro la nuca, là dove il fratellino era sensibilissimo. “Eppoi, me la dovete di diritto, in virtù di scusante per la figura da cioccolatino, che mi avete fatto fare davanti alle amiche di Marin! E anche per la maglietta distrutta di Jack Skellington!”, continuò imperterrito il piccolo Aslan, difendendo appassionatamente il capo d’abbigliamento ora tutto spiegazzato, a causa dei continui strattoni.

Sospirai, accarezzandomi la tempia.

Dovevo agire prima che:  a) tornassero gli adulti; b) Saga – tenuto a viva forza inginocchiato da Kanon – s’incuriosisse troppo e venisse di persona a controllare, che sorta di bolgia infernale si fosse scatenata in salotto. Ora che ero parte della famiglia, era anche mio compito aiutare il mio fratellastro-cognato maggiore, o no? Lo avevo visto ultimamente un po’ giù di morale …

Ah, Seigneur, donne –moi la force!

“Milo!”, richiamai l’elemento della famiglia sul quale, in teoria, esercitavo più influenza. “Lascia la camicia ad Aiolia, dimostra che sei di un anno più anziano di lui!”, dissi, imitando alla perfezione il tono di Saga, sperando di ottenere gli stessi effetti.

“Ma è la mia camicia preferita!”, protestò infantile il bicho, pestando i piedi per terra. Quanto al lionceau, strinse con maggior forza l’indumento. “L’unica decente che possiedo!”

“Non importa, gliela cedi!”, ribattei inflessibile, aggiungendo subito dopo più conciliante: “Se la regali ad Aiolia, ti prometto che te ne compro un’altra!” e osservai di sottecchi la reazione del ragazzo alla mia proposta: lo scorpion mi fissava ancora di traverso, però intuii che sotto sotto stava considerando attentamente i pro e i contro delle clausole dell’accordo.

“Uguale?”, proferì lentamente e sospettoso.

“Uguale!”

“Promesso?”

“Promesso!”

Silenzio.

“E va bene, che se la tenga. Dannato gattaccio!”, brontolò il bicho sconfitto, ritirandosi rancoroso nella sua tana. Stupefatto, Aiolia mi abbracciò riconoscente, complimentandosi per la mia azione persuasiva in sua difesa. Beh, dovetti ammettere che io stesso ero assai sorpreso dall’arrendevolezza di Milo nei miei confronti ed ebbi la sgradevole sensazione, d’incominciare a preoccuparmi. Sì, ma per chi dei due? Lui o il sottoscritto?

Sciogliendomi da un giubilante lionceau, tornai nel bagno, trovando un Kanon zuppo che scrutava attento i capelli del gemello, intanto che quest’ultimo assisteva apprensivo all’operazione. “Ebbene?”

“Intravedo qualche filo biondo … c’è ancora speranza!”, fu il responso del minore e l’altro sospirò sollevato. Poi, accortosi del mio arrivo, mi domandò con quale esito fosse finita la disputa tra i due animali, cui risposi che, solo promettendogli una nuova camicia, Milo aveva ceduto la sua ad Aiolia.

“Ma tu guarda!”, commentò perfido Kanon, asciugando la capigliatura del suo doppio. “Milou che si fa comandare a bacchetta da te! Inaudito!”

Alzai le spalle, sedendomi sul bordo della vasca. Decisamente, non era  affare che al momento mi premeva approfondire, l’unica mia precedente preoccupazione era far sì che quei due la smettessero di demolire la casa. Per il resto, nous sommes dans le mains de Dieu.

“Piuttosto, Kanon”, dissi poi, massaggiandomi il collo dolorante. “Che non mi prepareresti una bella tazzona di caffè?”

Il ruolo di domatore aveva il suo prezzo, oh sì!

***

 

Fu un lieve fruscio a svegliarmi. Generalmente avevo il sonno più pesante di un orso in letargo, ma quella notte avevo dormito poco, essendo in effetti la faida tra il bicho e il lionceau proseguita in sordina tra dispetti, ripicche e ingiurie varie, costringendomi più di una volta al ruolo di paciere, onde garantire la Pax Domi. Morale della favola, le ostilità tra i due fratelli erano cessate solo nel momento in cui, esasperato, trascinai Milo in camera sua, chiudendoci a chiave dentro e impedendogli di macchiarsi di fratricidio.

Quanta pazienza!

Mi addormentai così piuttosto tardi, verso l’una e mezza, sonnecchiando appena. Non fu quindi difficile percepire dei passi felpati aggirarsi per la casa, alternati da borbottii inintelligibili. Che fosse un ladro? Controllai di riflesso l’orologio: ladri alle nove meno cinque del mattino? Uhm, po’ stravaganti!

Che fosse Mamie? Strano, ieri sera aveva annunciato, che l’indomani – oggi - non si sarebbe alzata né venuta con noi a Messa a causa di un brutto raffreddore.

Che fosse … ? Nah, basta con le supposizioni, scesi dal letto e mi infilai rapido la tuta, risolvendomi ad investigare di persona e con la scopa in mano, giusto per precauzione. Col cuore in gola, scesi dunque le scale, guardandomi a destra e a manca, per meglio scorgere ogni possibile movimento sospetto.

Intanto, il cane mi guardava perplesso, domandandosi che diavolo ci  facesse il suo padrone conciato in quella ridicola maniera.

Un passo.

Poi un altro.

Un rumore metallico.

Mi voltai di scatto, trovando il vuoto alle mie spalle. Senza accorgermene, indietreggiai fino al tavolo, sbattendoci contro il fianco e, oltre ad imprecare per il dolore, fui costretto a mordermi la lingua per non tirare giù qualche santo di prima mattina, quando un libricino mi cadde di punta sul piede, costringendomi per la prima volta in vita mia ad odiare un esponente della colta famiglia cartacea.

Tuttavia, non potei trattenere la mia curiosità e di fatti lo aprii, scoprendo che si trattava del medesimo quadernino, che venerdì pomeriggio avevo pizzicato Saga celare sotto l’imbottitura del divano. La sua calligrafia chiara e precisa me lo confermò. Era un’agenda ora che lo studiavo meglio e la data di oggi recava questo breve e conciso messaggio: Ore 10 am: dottor Vincent Chantel, visitare! Glaucoma!

Gueh? Glaucoma? Che cosa …?

“Ti piace quel che stai leggendo, Momus?”

Mi bloccai per la sopresa, completamente paralizzato: non un solo muscolo del mio corpo rispose all’appello, non appena le mie orecchie captarono la voce dolcemente assassina di Saga. Con estrema lentezza, mi azzardai a levare lo sguardo, intravedendo appena il candore di un ghigno demoniaco dinanzi a me.

Poi, una fitta alla testa.

E fu il buio color della pece.

 

Quando schiusi a fatica le palpebre, la mia prima azione fu di portarmi rapido la mano alla testa, tastando apprensivo l’enorme bernoccolo cresciutomi, nel frattempo che i miei sensi pian piano si riattivavano, percependo una certa instabilità attorno a loro, tra cui il rombo di un motore in corsa.

Un momento! In corsa?

Rivenni completamente, guardandomi frenetico intorno e appurando con mio sommo orrore di trovarmi in macchina con Saga al volante. E in tutta sincerità, fu l’ultima considerazione a terrorizzarmi di più, conoscendo quanto debole fosse la sua vista senza tre fondi di bottiglia al posto degli occhiali.

“Tiens, tiens, la Bella Addormentata è ritornata tra di noi! Dormito bene?”, mi salutò affabile il primogenito dei Valavitis e pure con irritante  nonchalance, come se non mi avesse tramortito con Dio sapeva che, per poi trasportarmi di peso in auto.

“Mi hai sequestrato!”, lo accusai indignato, battendo stizzito il pugno sul sedile.

Senza scomporsi, Saga precisò: “Mettiamola che ti ho invitato ad unirti alla mia piccola ricerca, senza ascoltare la tua opinione! Ormai mi avevi scoperto, non potevo mica lasciarti girovagare tranquillo per casa e avvertire gli altri, vero?”

“Sei impazzito? Cos’è, ora sono il tuo complice?”

“Se vuoi, ne sarei contento”, mi sorrise conciliante il gemello maggiore, tregua che non accettai. Resosi conto della mia ostinazione, egli proseguì: “Per quanto riguarda i tuoi dubbi sul mio attuale equilibrio psichico, ti dirò che non sono folle e che al contrario, mon coeur, ho finalmente trovato la chiave del problema. È la visita ad una certa persona renderà le cose ancora più chiare.”

Ricordandomi dell’appunto sull’agenda, gli domandai leggermente più rabbonito: “Una visita? A chi? Al dottor Chantel?”

Saga annuì piano, sempre coll’ambiguo sorriso stampato in faccia. “Bravo, al dottor Chantel. Un oculista. Un tempo il mio oculista”, disse e si voltò per la prima volta verso di me, mostrandomi i suoi occhi illuminati da un’inquietante euforia e determinazione.

Rabbrividii inconsciamente.

“L’oculista di mia madre …”

 




To be continued …

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Come potete notare, Saga apre il capitolo e lo chiude come un Uroboro e come ha fatto poi nella serie delle Dodici Case, lui ha combinato il casino e lui lo rimedia (che figurati se quel pony alato riusciva ad accopparlo!) Decisamente quel ragazzo è un regista nato!

In ogni modo, spero che il capitolo non vi abbia deluso e vi aspetterò al prossimo, sperando che nel frattempo Hoel si rimetta.

Grazie ancora e alla prossima!
ciao!

Un po’ di noticine:

[1] Amyas Crale = è la vittima del giallo di Agatha Christie nel suo romanzo Five Little Pigs o Il ritratto di Elsa Greer (1942).

[2] cahier de doléances =  o quaderni delle lamentele, erano dei registri nei quali vi erano annotate tutti i biasimi e le rimostranze del Terzo Stato (siamo quindi ai tempi della Rivoluzione Francese) da parte delle assemblee incaricate di eleggere i deputati degli Stati Generali. Le critiche più ricorrenti riguardavano le decime del clero e le corvè per i nobili, più le tasse che entrambi non pagavano.

[3] la zattera della Medusa = (1818-1819) è il famoso dipinto del romantico Théodore Géricault, nel quale criticò l’inefficienza dello stato francese (all’epoca in piena Restaurazione) circa il salvataggio dei sopravvissuti della fregata Medusa, naufragata  nel 1816, mentre di dirigeva nella colonia senegalese di St. Louis.

[4] Bocete = è l’antico lamento funebre rumeno, cantato durante la notte di veglia del morto. La superstizione popolare afferma, che se interrotto, l’anima del defunto non potrà varcare le soglie dell’aldilà.

[5] a chi ululando alla maniera frigia canta cori alla madre Cibele =  i sacerdoti dediti al culto di Cibele (Demetra nella versione greca) secondo la leggenda durante le feste in onore della dea arrivavano ad evirarsi. Zip zip. In questo passaggio, Ovidio esorta il giovane a non essere quindi troppo effeminato.

 

 

 

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Capitolo 16
*** Il Quarto Lato del Triangolo ***



*Compare vestita come la dea Flora del Botticelli, la gonna del vestito ricolma di angst …*

B’jour! Rieccomi qua, ritornata dai bagordi dei festeggiamenti di compleanno giusto in tempo per il nuovo capitolo! *esegue un pas à deux, in stile Odile ne “Il lago dei cigni”*

Allora, questo capitolo è stato tosto per me da scrivere, molto tosto! Quindi, chiunque osi mettermi una flame, verrà silurato dal dio del Seme!

Ringrazio tantissimo i miei lettori e recensori, augurandogli ogni bene! *Hoel dopo aver terminato questo chappy si è sentita più clemente verso il mondo*

Uno speciale ringraziamento a : Tifawow ; Diana924;  Angel_Dark_Light; Charm_ Strange (questo è il capitolo da te tanto atteso, vero?!?) ; Titania76 ; Lovearmony; Sagitta72 ; Eno;  Ignis (figo l’Avatar!) ; Aurora; Jeje_12 (benvenuta!); TheMorrigan1990 ; ElizabethTempest e MilodelloScorpione(bentornato! Mitiche le sue copertine), merci à vous!

Infine, la lezione del giorno: In Francia, la brioche NON è il croissant! Sono due dolci diversi.

Bien, adesso piroetto nel mio cantuccio, augurandovi una buona lettura!

Vostra,

 

 

H.

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Ad  Angel_Dark_Light, augurandole una pronta guarigione!

 

 

 

I.

Tre …

Sei …

Nove …

“Voilà!”, esclamò Kanon soddisfatto, levando a mo’  di prestigiatore la mano dalle candeline appena accese sulla torta di compleanno del secondo fratello minore. Birbante, quello in assoluto comparve da sotto il tavolo della cucina, spegnendole tutte in un unico poderoso soffio, che avrebbe reso verde d’invidia lo stesso lupo dei tre porcellini. “Mais non!”, protestò irato il gemello più giovane, non appena si rese conto del tiro birbone del bambino. “Iou – Iou, espèce de chenapan! (razza di farabutto, ndr.) Porca puzzola, le avevo giusto accese senza bruciarmi il maglione! Vade retro tu, ritirati nell’antro da cui provieni!” e onde meglio incoraggiarlo, Kanon prese a pizzicare le piccole fesses di Aiolia, spingendolo via dalla torta di compleanno di Milo e dalla cucina in generale.

Indietreggiando e ridendo a pieni polmoni, il bambino di otto anni raccolse presto il guanto della sfida lanciatogli dal gemello minore, rispondendo anch’egli con lievi gatte gatte sul fianco del fratello in una sadica sfida su chi possedeva una vescica più resistente. Sennonché, imbrogliando, Aiolia riuscì a sfilare l’accendino a Kanon, correndo  e mulinando il suo trofeo, senza omettere gli ululati di vittoria neanche fosse stato allevato dai Sioux.

“Bestiaccia! Ridammelo!”, berciò Kanon ora per nulla divertito, inseguendo Piccolo-Gatto-Che-Corre per tutto il salotto, saltando tra un divano all’altro e infilandosi nei vari buchi nei quali il bambino cercava di nascondersi.

“Na na nère!”, lo sfotté Aiolia, mostrandogli la linguaccia, sbattendo poi contro M. Christophe, non essendosi accorto del suo arrivo dalla parte opposta e soprattutto essendosi dimenticato di guardare davanti e non dietro le spalle, quando si cammina o si corre.

“Preso!”, giubilò il padre, catturando il piccolo Simba nel momento in cui avvenne la dolce collisione. “Che cos’hai in mano?”, inquisì subito dopo, osservando accigliato l’accendino stretto caparbiamente dal gosse. Immediatamente accorse Kanon, protestandone la proprietà:

“Papa, diglielo tu a questo gattaccio, che mi deve cedere l’accendino! Fra poco torneranno Maman, Isabelle e Milou e la torta non è ancora pronta! Continua a spegnermi le candeline, le matou!”, si lagnò, prontamente contestato dal fratellino minore in assoluto.

“Mi avevi promesso, che le avremmo accese insieme! Sei più falso del demonio!”

“Oulà, Iou – Iou!”, lo rimbeccò M. Christophe, elargendogli un buffetto sulla guancia. “Non sono cose da dire a tuo fratello maggiore!”

“Mais …”

“Facciamo così: Milou compie nove anni, giusto? Allora, Nônon ne accenderà tre, tu altre tre e Sasà quelle che rimangono. Contento?”, e sorrise dinanzi all’espressione crucciata del suo ultimogenito, il quale stava valutando dove si trovasse la fregatura in quel patto. Si sa, dopo aver avuto a che fare con gli accordi di Kanon, il piccolo era divenuto leggermente sospettoso.

Arcuando la boccuccia imbronciata, il bambino cedette dopo un lungo sospiro: “C’est bien! Purché sia io ad illuminarle per primo!”

“D’accordo!”, convenne il padre, issandosi il figlioletto sulle spalle e dirigendosi assieme all’altro in cucina.

In quel momento, squillò il telefono.

“Sasà, vai tu per favore!”, gli gridò M. Christophe dalla stanza, intanto che osservava accorto Aiolia che armeggiava con l’accendino. “Saranno di sicuro i nostri dispersi: mi domando dove siano finiti in tutto questo tempo …”

Un sonoro sbuffo fu la risposta al suo ordine, seguito da pesanti e svogliati passi fino al mobile in salotto. “Âllo, ici famille Valavitis à l’appareil!”, rispose il ragazzino senza tanto entusiasmo.

“Bonjour, ici c’est l’Hôpital de Mont-de-Marsan. Je suis navrée de vous annoncer, que Anaïs Valavitis, Isabelle Valavitis et Milo Valavitis ont été victimes d’un grave incident routier à rue … ”  e quanto la donna al telefono disse oltre, Saga non riuscì più ad  intenderlo.

“Papa … c’est pour toi …”, articolò solo con voce morta, allungando stralunato la cornetta al perplesso genitore.

(- Buongiorno, qui l’ospedale di Mont-de-Marsan. Sono dispiaciuta di annunciarvi, che Anaïs Valavitis, Isabella Valavitis e Milo Valavitis sono state vittime di  un grave incidente stradale  in via … ; - Papa … è per te … ,  ndr. )

 

 

***

 

“Allons, Momus, rilassati! Restare appollaiato sul sedile non mi persuaderà a ritornare indietro …”, m’invitò affabile Saga, cercando con una mano di farmi sedere composto. Tzé, invano! Ero più attaccato di una patella, affondando nel morbido tessuto le unghie, contemplando di mettervi lì radici e non smuovermi mai più, neanche se mi fosse comparso San Michele Arcangelo con tutte le Potestà al suo seguito!

 Ah, per la cronaca: avevo pure gli occhi sbarrati e tondi, più la pressione a mille e il battito cardiaco in affanno. Ancora una manovra del genere e mi dovevo munire del polmone d’acciaio.

“Fossi matto!”, sibilai debolmente, lo sguardo incollato alla strada. “Come credi, che rimanga tutto sereno e beato, dopo aver contemplato lo spartitraffico a tre centimetri dal mio naso?”, squittii isterico, le mani che ancora mi tremavano per la paura presa.

“Lo avevo visto!”, si difese immediatamente il gemello maggiore, alzando una mano dal volante. Coi nervi a fior di pelle, gli urlai di riporla senza indugi là dove aveva disertato. Insomma, già Saga guidava  che a confronto il pirata Black Bart era un gentiluomo, se poi si cimentava pure in giochi di prestigio col volante, hé, che qualcuno mi fornisse di carta e penna e compilavo il mio testamento. Dopodiché mi sarei potuto rilassare.

Forse.

“Il y a le rouge, espèce de dévoyé psycho daltonien!” (C’è il rosso, razza di furfante psicopatico daltonico !, ndr.) ululai imbizzarrito – dallo spavento, bien sûr – portandomi le mani ai capelli e tirandoli fino a provocarmi delle dolorose extension fai-da-te. “Ma perché guidi, se sei orbo?”, lo accusai, ingollando ferocemente dell’aria, all’ennesimo schianto mancato.

“E tu perché non hai portato il tuo foglio rosa? Eh furbone?”, ribatté scocciato Saga, pigiando il pedale per superare una macchina a suo giudizio troppo lenta. “Così conducevi tu, espèce de Pingu Schumacher!”

Elargendogli un’offesa linguaccia, sbuffai: “Perché un cretino schizofrenico mi ha rapito, dopo avermi colpito alla testa senza tanti rimpianti, ecco perché non ho appresso il foglio rosa! Per colpa tua ho un bernoccolo che sembra il terzo occhio induista, anzi no!, il corno di un grande, grosso, grasso rinoceronte! Sono in tuta! Spettinato! E neppure mi sono fatto un briciolo di toeletta! E sto sudando come Cristo nel Getsemani! Mi fo schifo da solo! Putirò come un caprone e di chi sarà la colpa? Ah? Di chi? Tutta tua, razza di birbo malnato tinto alla Pocahontas, che vai a rapire gente con la stessa nonchalance di chi raccoglie le fragoline nel bosco! Cos’hai da dire ora a tua discolpa, sentiamo? Sentiamo!”, berciai fuori controllo, attorcigliandomi ad ogni sorpasso, frenata e curva eseguita da Saga, il quale, dopo il mio sentito monologo, fissava come trasognato il semaforo di nuovo rosso davanti a sé.

Uhm … forse avevo esagerato un pochino, non avrei dovuto attaccarlo così violentemente …

“Saga?”, domandai contrito, notando l’espressione indecifrabile dipintagli sul volto.

Sbattendo disorientato le palpebre e riscuotendosi, Saga si girò e mi guardò con l’espressione più innocente di questo mondo. “Pardon Momus, stavi dicendo?”

Silenzio.

“Non … non hai udito nulla, di quanto ho … ehm … dichiarato?”, sussurrai incredulo, mentre la vena della tempia destra incominciava a battere la chamade. La mia famiglia era davvero un caso perso!, pensai appoggiando demoralizzato la testa sul finestrino. Poi, l’illuminazione.

“Gyah, Momus, che fai? E poi sarei io il matto di turno?”, gridò terrorizzato Saga, pigliandomi per il bordo dei pantaloni e tirandomi a viva forza via dal finestrino, attraverso il quale stavo tentando d’evadere. Infatti, approfittandone del rosso e poiché le porte erano state previamente serrate, avevo intravisto da lì una scomoda ma certa via di fuga. Quanto alle misure, ecco, non ero proprio un Sébastien Chabal, quindi ci sarei anche  riuscito a passare.

Peccato che all’occasione, Saga avesse i riflessi più pronti di uno Jedi, di sicuro una capacità acquisita nel tempo, durante il suo tirocinio di babysitter di catastrofi fraterne. E appunto per questo, che mi riportò seduto al mio posto, dopo avermi quasi cavato di dosso i pantaloni della tuta e deformato irrimediabilmente il loro elastico. Quelle joie! Mi mancavano solo le brache cascanti! Beh, almeno i boxer erano rimasti al loro posto … non si era visto niente … sennò Milo chi lo sentiva poi? E a proposito del bicho, chissà perché avevo una brutta sensazione … forse era per quel motivo, che mi veniva da starnutire in continuazione?

“Vierge Marieeeee!!! Devi dare la precedenza, Saga! In una rotonda, devi mettere in seconda e dare la precedenza! E tu sei entrato in quarta! Sei peggio di un terrorista alcolizzato guercio!”, piansi a momenti, arcuandomi nella posizione della partoriente quando il mio fratellastro, estremamente tranquillo, si era inserito nella rotonda per entrare in città senza scalare la marcia e sfiorando di qualche spanna il posteriore di un tir davanti a noi. Non soddisfatto, aveva pure avuto la faccia tosta di suonargli e mandarlo in malora.

“Vuoi stare zitto? Mi deconcentri!”, fece stizzito Saga, tamburellando sempre più  irrequieto le dita sul volante. Per quel che riguardava il cambio di marce, pareva voler staccare la leva da quanto la manovrava nervoso. Hé, ancora una parola e sentivo che mi avrebbe buttato a calci fuori dalla vettura, senza neanche aprire il finestrino.

Magari!

“Invece, visto che non siamo tanti propensi ad una conversazione civile, che non includa disperati appelli di soccorso, che ne dici se ascoltassimo la radio?”, mi propose il gemello maggiore, ora teso come una corda di violino. Non mi piaceva il mondo in cui scrocchiava le dita … uhm … forse mi conveniva accettare …

“Se vuoi, fai pure!”, risposi diplomaticamente, avendomi il settimo senso (quello della sopravvivenza a tutti i costi) avvertito che il Boss oggidì si era alzato col piede sinistro e che quindi era meglio non azzardarsi a contrariarlo, pena un volo fino a Dakar senza posare i piedi per terra. Inoltre, il previo accenno al motivo di quel pellegrinaggio mattutino mi aveva incuriosito: perché mai voleva andare dal dottor Chantel? Non era in pensione?

“D’accordo. Aspetta un po’ che cerco la frequenza …”

Sì, sequestriamolo!

Lo leghiamo e poi

A nessun diremo che

Siamo stati noi!

 

“Dannato Iou – Iou e il suo  L’étrange Noël de monsieur Jack o The Nightmare before Christmas che a dir si voglia!”, ringhiò Saga, realizzando di aver premuto il tasto dello stereo, con dentro il Cd del film preferito del lionceau. La presa al volante era divenuta leggermente convulsa …

Sbuffando inviperito neanche fosse il figlio illegittimo del drago Fafner, il gemello cambiò canale, cercando una stazione con della musica decente.

Ultime notizie dal telegiornale di France 2! Un giovane ventenne ha fatto a pezzi con l’accetta l’intera famiglia, uccidendo padre, madre, i fratelli minori e pure il canarino. L’assassino soffriva di gravi turbe psichiche ed era stato in precedenza ricoverato in una clinica  psichiatrica, dalla quale è fuggito qualche giorno fa. Ha sequestrato poi la famiglia, rinchiudendosi in casa e domandando di vedere il suo psichiatra, quando però …”

“Uhm … forse è meglio optare per qualcos’altro …”, soffiò livido il gemello maggiore, le vene della mano tutte in evidenza a causa del supremo sforzo di trattenersi dall’afferrare la radio e gettarla fuori a mo’ di molotov.

La tensione omicida aumentava di un volt al secondo … si preparava un’esplosione galattica con tutti i crismi … dov’era l’uscita d’emergenza, bon sang?

“E ora leggeremo un passaggio tratto dal romanzo “Follia” di Patrick McGrath …”

Silenzio bestiale.

“Ehm … giro?”, gli suggerii volenteroso, apprestandomi subito a compiere il mio dovere, prima ancora che Saga sputasse in un adirato:

“Gira!” e si rabbuiò ulteriormente, fissando assassino la strada, evidentemente alla ricerca della proverbiale vecchietta col bastone da investire sulle strisce.

Ovviamente.

“Follie! Follie!

Delirio vano è questo! …”

L’aria vibrava … l’adrenalina era a mille … e i muscoli facciali del gemello maggiore erano inquietantemente tirati …

“Uhm, a conti fatti, non ho proprio voglia di sentire la radio, sai? Eppoi, La Traviata di mattina farebbe star male perfino un procione astemio! Eh? Saga? Ci sei?”, chiesi apprensivo, notando l’espressione ambigua marchiare il volto del giovane, seguita dall’intellegibile susseguirsi di parole proferite dalla sua bocca.

Oh mon Dieu, che fosse uscito definitivamente fuori di banana? Non poteva aspettare di  aver prima parcheggiato, però?

“Saga …?”

“Sempre libera degg’io / folleggiar  di gioia in gioia! Vo’ che scorra il viver mio/ pei sentieri del piacer / nasca il giorno, o il giorno muoia, / sempre lieta ne’ i ritrovi …”, canticchiò tranquillo il mio fratellastro, riaccendendo la radio e seguendo a mo’ di karaoke l’aria.

Disgustato, incrociai le braccia, trincerandomi dietro un indignato silenzio. Ed io che mi preoccupavo per lui, tzé! Avevano proprio ragione quando si affermava, che il folle se ne stesse meglio di tutti noi! Il qui conducente del Carro di Tespi franco-greco ne era la prova lampante. Seigneur! Le soluzioni erano due: o soccombere o …

“E se cantassimo l’Habanera?”, proposi all’improvviso, voltandomi lentamente verso di lui e sorpreso delle mie stesse parole. Deliziato, Saga impostò subito l’aria, cui mi unii per disperazione, approfittandone così degli arpeggi e coloriture per gorgheggiare in santa pace  e sotto mentite spoglie, ogniqualvolta il gemello maggiore evitava per puro caso una macchina, un pedone o il palo della luce.

 

***

 

“Kanon …”, sussurrò sensuale una voce alle sue spalle. Sorridendo nel sonno, il giovane si strinse di più al suo cuscino, ronronnando di piacere all’udire la voce  di Rhada. “Kanon …” ripeté essa, giocherellando con la sensibile pelle delle  sue gote.

“Chouchou!”, sospirò contento il gemello minore, sfregandosi in vena di coccole sul corpo da dove proveniva quel melodioso – per lui – suono. “Mi sei tanto mancato, mon doudou!”

“Anche tu, my dear!”, confessò quegli, accarezzando i soffici capelli biondo oro di Kanon, il quale si serrò più vicino a lui, gli occhi ancora ben chiusi. “Ora, però, fai il bravo bimbo ed esaudisci una mia richiesta!”

“Farò tutto quello che vuoi!”, biascicò entusiasta il giovane, arrotolandosi tra le lenzuola e il piumino, degno emulo di un baco da seta.

“Good. Dimmi ora dove si trovano Camus e Saga!”

Percependo immediatamente quella nota stonata nella sinfonia, Kanon si raddrizzò un poco, bloccandosi dai suoi rotolamenti amorosi. “Gueh? Che t’importa di quei due? Lasciali a Mi- …”

Orribile presentimento.

“Milou?”, si azzardò il gemello minore a schiudere le palpebre, trovandosi innanzi il volto di Milo come sfondo e in primo piano - sotto il naso per essere più precisi - la lametta di un silk-épil.

Rosa.

“Gyaahahahmmi!”, urlò all’assassinio Kanon, balzando fuori dal letto e correndo in direzione della porta, sennonché un bicho imbestialito gli bloccò la strada, saltandogli addosso e atterrandolo in malo modo sul pavimento.

“Avanti, Nônon chéri!”, cinguettò malefico il ragazzo, attivando in un sordo ronzio le lamette del depilatore elettronico. “Voglio solo una piccola informazione! Rivelami l’esatta ubicazione del mio pinguino e di quel briccone di Sasà e forse potrei contemplare l’idea di risparmiare la tua capigliatura!”

“Gueh? Non vorrai mica …?”

Allargando il sorriso da inquietante guignol, Milo annuì impazzito: “Oh que oui!”

“T’es fou, espèce de maniaque sadique! I tuoi giochetti erotici vai a farli con il tuo consorte!”, ululò il gemello minore, dimenando le gambe come un salmone e ponendo le mani a difesa dei sui suoi preziosi capelli.

“Li eseguirei più che volentieri, se un certo furbacchione tinto non me lo avesse sequestrato di nascosto dal talamo nuziale!”, fu la scandalizzata replica dello scorpion lubrique, il quale avvicinò con gli occhi fuori dalle orbite il depilatore alla chioma gemellare. “Me l’ha sottratto sotto il naso, capisci? Ed era appena appena vestito! Dio solo sa, cosa starà combinando a quel pingouin tout vierge! Anzi, magari me lo starà deflorando in questo stesso istante!”

“E se anche fosse, te la pigli con me?”, protestò indignato Kanon, guadagnandosi una scappellotto per quell’atto d’insubordinazione.“Uffa! È ingiusto! Perché quando Sasà fa la cazzata, sono sempre io quello che ci va di mezzo alla fine?”, si lagnò, maledicendo le avverse stelle.

“Silence! Vedi di cantare, invece: dove sono finiti? Forse sono ancora in tempo per impedire l’irrimediabile!”

“Ma cosa vuoi che combinino quei due imbranati di Gibì e Doppiaw?” (Per chi non li conoscesse, Gibì e Doppiaw sono due amici Pierrot  (il clown triste con la lacrimona), il primo piccolino, il secondo più grande. Kanon qui fa un gioco di parole, intendendo “due pagliacci imbranati ipersensibili”, ndr. )

“Sì sì, certo, come no! Tanto lo so, che quando Sasà se ne inventa una delle sue, nel 99.99% dei casi c’è dietro il tuo zampino!”, lo canzonò Milo mulinando pericoloso il silk-épil. Tuttavia, l’ombra del dubbio si era insinuata negli occhi ora cremisi del ragazzo e, sfruttando l’occasione del suo braccio lievemente abbassato, il gemello minore passò alle trattative vere e proprie.

“E’ così, Milou, non ti sto prendendo per i fondelli! Sono assolutamente estraneo alla faccenda! Per questa volta, almeno!”, lo assicurò fiducioso in una sua prossima distrazione onde sfuggire dalle lamette malefiche. “Sasà non farebbe mai questo genere di cose, neppure con uno/a che gli piace!”, e lasciò abilmente cadere il fazzoletto del sospetto.

“Che vuoi dire?”

“Se ti rivelo un segreto, tu riponi quel coso infernale?”

Pigiandoglielo contro il naso, Milo proferì in un minaccioso sibilo: “Ti conviene che sia esauriente …”

 

*Flashback*

Prima di conoscere Rhada, era un fatto assodato, che Kanon soffrisse spesso di nostalgia: rompere le pigne al proprio gemello era uno sport che gli mancava parecchio, specialmente ora che era partito per il suo primo anno universitario ad Oxford. Così, al primo weekend disponibile, egli prese l’aereo per Münster onde pagare una piccola fraterna visita a Saga.

In realtà, il motivo era un altro.

Nelle sue ultime mail e conversazioni via Skype, il suo unico doppio si era dilungato ai limiti dell’indecenza su quanto trovasse carine e simpatiche le due sorelle Morgenstern in particolare la maggiore, Hilda. Odorando puzzo di cotta amorosa, il gemello minore si era sentito in dovere di indagare, pigliando quindi il primo volo per la Germania e lì scoprire quali complotti si celassero in quell’appartamento appena fuori la Promenade, che circondava tutta la cittadina universitaria. Il fatto, poi, che i tre condividessero lo stesso tetto era doppiamente sospetto.

Così, senza indugio alcuno, Kanon si presentò davanti al WG (Wohngemeinshaft, un appartamento a basso costo, spesso diviso tra studenti universitari, ndr.) del fratello e ad aprirgli la porta fu niente meno che l’indiziata n°1, la quale rimase assai interdetta nel vedersi ritornare così in fretta il suo coinquilino dalla lezione. Poi, riscuotendosi, capì trattarsi del famoso gemello scassazizì tanto descrittole da Saga.

Una volta invitatolo dentro casa, lei gli offrì del caffè e del dolce – il famoso Kaffee und Kuchen teutonico – che Kanon parve gradire; dopodiché, si dilungarono dapprincipio in insulsi discorsi di circostanza, per poi approfondire la questione sul rapporto sussistente tra loro tre senza tanti giri di parole o peli sulla lingua. (Kanon rimpinzato di zuccheri era assai pericoloso) E così, al gemello minore venne spiegato il traumatizzante arcano.

“Allora”, fece Hilda, riempiendogli di nuovo la tazza di caffè. “Io gli ho detto che, se si sentiva un po’ impacciato, gli presentavo io stessa delle ragazze o dei ragazzi o entrambi, visto che parrebbe così a disagio quando si tratta di avvicinarli!”

“Ma non si potrebbe offendere?”

“Nah, ne dubito!”, commentò placida la ragazza, sorseggiando il caldo liquido scuro. “In ogni modo: ha rifiutato!”

“Cheee???”

“Ha rifiutato! Non vuole! Anzi, mi ha fissata terrorizzato! Quasi … quasi avesse schifo del sesso!”, ribadì implacabile la teutonica fanciulla, provocando un guaito agonizzante nel gemello minore, il quale, passandosi disperato le mani tra i capelli, eruppe sconsolato:

“Santissimi Cosma e Damiano! Quel bastardo me lo ha violentato! Ecco perché adesso non vuole giacere più con nessuno! E’ traumatizzato! Perduto, dico! Perduto per sempre!”

Scuotendo scettica il capo, Hilda lo rassicurò: “Tranquillo: fisicamente parlando, tra quei due non è successo niente. Anche perché Saga è scappato via come un ladro al momento clou. Comunque, il motivo è un altro: non c’è nulla che non vada in tuo fratello, insomma, ci potrebbe anche stare volendo … no, il vero inghippo è il suo corpo! È … è come se si rifiutasse categoricamente di avere un rapporto sessuale!”

“In che senso?”, domandò confuso proprio colui che ne voleva anche fin troppi. Di liaisons, bien sûr.

Facendogli cenno di avvicinarsi con l’orecchio, la ragazza gli sussurrò preoccupata: “Non chiedermi le circostanze, ma ho scoperto che a Saga compare su tutto il corpo una strana eruzione cutanea, tipo eczema, quando si accosta intimamente a qualcuno!”

Fu troppo per il povero cervello di Kanon, il quale sbatté avvilito la testa sul tavolo, prontamente pat-pattato da una partecipe Hilda. Subito però la rialzò, esclamando indignato: “E’ tutta colpa sua! Di quel fils de pute con la bandana!”

“E’ una fascia, Kanon.”

Ignorando la precisazione della Fräulein, il gemello minore sbottò irato: “Chissenefrega! È lo stesso colpevole!”

“Già …”

“Mi ha rovinato il fratello!”

“Vero!”

“Devo vendicarmi!”

“E come prego?”

“Ci sto ancora pensando su …”

“Oh beh, auguri …”, fece ineffabile Hilda, accendendosi una sigaretta e aspirando sorniona il forte fumo.

*Flashback*

 

“Balordo! E tu pensi, che io beva una panzana simile? Per chi mi hai preso? Per un cretino totale?”, ringhiava Milo, cingendo d’assedio un Kanon raggomitolatosi in cima all’armadio. “Vieni giù, acciocché ti liberi di quella matassa lanuginosa, che ti appesantisce il cervello! Avanti, gattone, vieni dal tuo Miloumimì!”

E per tutta risposta, il gemello minore gli elargì una sonora pernacchia.

All’improvviso due leoni di peluche colpirono contemporaneamente  e a tradimento i due fratelli, costringendoli a girarsi verso il nuovo incavolato visitatore.

“Ma insomma, bordel! È mai possibile, che in questa casa non si riesca mai a dormire in santa pace di domenica mattina?”, sentenziò uno scocciato Aiolia, ponendosi bellicoso una mano sul fianco e con l’altra mulinando per la coda il terzo ed ultimo peluche – quello più grosso – pronto allo scontro in caso di ritorsioni per il suo eccentrico modo di attirare l’attenzione. O di calmare due furiosi contendenti, a voi la scelta.

“Iou – Iou, fiche-moi la paix, rinchiuditi in camera tua e ciucciati il pollice!”, sibilò inviperito Milo, intanto che pigliava una sedia per utilizzarla a mo’ di scala e raggiungere così il tanto agognato obiettivo umano.

“Solo perché ho smesso a cinque anni, non fa di me un immaturo pieno di complessi da suzione mammaria insoddisfatta!”, puntualizzò il lionceau ponendo in avanti l’indice. “E comunque, ti posso garantire che …”

“Cos’è questo baccano mattutino?”, s’informò M. Christophe, comparendo dietro le spalle del suo ultimogenito. “Kanon? Come mai in cima all’armadio?”, domandò perplesso, sistemandosi meglio gli occhiali, avendo creduto, infatti, di aver visto male.

“Papa!”, piagnucolò il giovane, evitando per un soffio una chela dell’irato scorpion lubrique. “Milou vuole sottopormi a strani giochetti col silk-épil! Tra cui raparmi a zero!”

“Te lo meriti, traître! (traditore, ndr.) Vieni qua!”

“Altolà!”, s’impose allora il pater familias, comprendendo al volo la gravità della situazione. Sebbene il motivo  rimanesse ancora oscuro, quando i quattro fratelli avevano un conto in sospeso da regolare, la prima menomazione  fisica era sempre quella dei capelli. Mah, misteri. “Qui nessuno toserà nessuno, senza averne spiegati i motivi!”

Un silenzio incomodo scese tra i tre cospiratori, i quali si fissarono assai interdetti, frugando una spiegazione diplomatica, altresì nota come una panzana innocua.

“Ehm … Sasà e Ionesco sono spariti e … e non ci hanno detto dove si sarebbero recati!”, disse Milo, un occhio rivolto al padre, l’altro che teneva ben sottocontrollo Kanon. “Quest’individuo lo sa, però non me lo vuole rivelare!”, lo accusò, issandosi in punta di piedi e guadagnando qualche centimetro in più verso la sua preda.

Con suo sommo stupore, M. Christophe esclamò calmo: “Me lo potevi chiedere, invece di torturare inutilmente tuo fratello: guarda,  Saga ha lasciato questo messaggio in cucina …” e lo porse al bicho, il quale scese in un agile balzo dalla sedia, strappandolo quasi di mano al padre e leggendo avidamente il contenuto.

Salut à tous! Vado in centro a comprare delle pastine, torno subito! Bisous, Saga. P.S. All’ultimo si è aggiunto anche Camus, visto che ha tanto insistito per accompagnarmi” e alzò dubbioso lo sguardo dal pezzo di carta.

“Visto? Sono solo usciti per andare in pasticceria, niente di che!”

“E’ un falso!”, replicò gelido il terzogenito maschio, appallottolando con forza il foglio, le nocche bianche dallo sforzo.

“Dai, dai, Milo!”, lo rimbeccò amorevolmente il pater familias. “Non scorgere il male in ogni cosa! Sembra quasi, che tu sia geloso del tuo stesso fratello! Enfin, è un bene, che tu ti senta ora così legato a Camus, però lui non è una tua proprietà, devi lasciare che si affezioni anche agli altri!”

“Esatto, Milou! Ascolta Papa!”, lo incoraggiò Kanon, beccandosi una lionata di peluche in faccia da parte di Aiolia. Nel frattempo, Milo ascoltava zitto e immobile, le gote ad ogni secondo sempre più scarlatte.

“Eppoi, non capisco questa tua eccessiva gelosia nei suoi confronti: mica siete fidanzati, eh!” e quel che a lui parve una battuta venne al contrario accolta dai suoi figli con un imbarazzante silenzio, nonché rapide, furtive  e complici occhiate tra di loro.  L’uomo ebbe un brutto presentimento. “O no?” e non gli piacque come i suoi pargoli rifuggissero il suo sguardo, deviandolo altrove. Il rossore totale di Milo non era neanche quello rassicurante.

“Cioè … insomma … anche t- …”, sbiascicò a fatica uno sconcertato M. Christophe, incapace di credere alla terribile teoria elaborata dalla sua mente. Ok, Kanon ormai era un caso perso, ma adesso pure il suo terzogenito? Con il figlio della sua futura moglie? Con la nonna omofoba? Ma … ma era … l’Apoca- …

“AAAAAATTTTTTTTCCCCCHHHHOOOOUUUUMMMM!!!!!!!”, ruggì il poderoso starnuto di Mamie, relegata in camera da letto per via del raffreddore.

“Christophe! Dov’è finito il termometro?”, la voce di Maman riportò alla realtà lo stralunato pater familias, facendolo uscire dalla trance derivante dallo choc appena ricevuto. Riscuotendosi, l’uomo uscì dalla stanza, non senza aver prima sentenziato:

“Voi tre rimanete fermi lì dove siete! Quando gli altri due saranno ritornati, tutti e cinque mi dovrete spiegare MOLTE cose!”  e dopo aver puntato contro loro l’indice, si allontanò per iniziare la ricerca del termometro scomparso.

Silenzio giudice.

“Voilà, Milou! Maintenant, t’es dans la merde jusqu’au cou! Non, nous sommes fichus avec toi !” (Ecco, qua Milou ! Adesso, sei nella merda fino al collo ! No, noi siamo fregati assieme a te!, ndr ), fece Aiolia sarcastico, sedendosi sul letto disfatto del gemello minore. “Passi per Papa, ma a Corinne questa come gliela spieghiamo? A Mamie poi non ci voglio neppure pensare …”

“Beh, era questione di tempo, che saltasse fuori la questione.  Era inevitabile: gli indizi sarebbero divenuti sempre più evidenti e Papa mica è così cieco!”, commentò il più partigiano Kanon, scendendo cauto dall’armadio. “Piuttosto, bisognerà contattare prima il tuo consorte: quello non cantava con noi, figurati se lo fa con la madre e … Ohé, Milou? Dove corri ora?”, richiamarono i due fratelli in coro  il fuggiasco, il quale, sempre chiuso nel suo ostinato silenzio, si era incamminato a grandi falcate verso il piano superiore.

“Torno in camera mia: ho sonno!”, fu la secca e concisa spiegazione del bicho, seguito con lo sguardo dai suoi scettici fratelli. Infatti, l’ultima volta che avevano visto quell’espressione tra il docile e il crucciato in Milo, quest’ultimo aveva dieci anni  e mezzo e aveva tentato la fuga da casa.

 

***

 

II.

Il medico legale scostò il lenzuolo candido, rivelando l’immobile corpo mingherlino celatovi sotto.

“C’est elle?”, domandò piano, fissando cauto l’uomo accanto a lui, il quale socchiuse dolorosamente per un istante gli occhi, sospirando a lungo.

“C’est elle. C’est ma fille” (E’ lei. È mia figlia, ndr.), proferì quegli lentamente, equivalendo per lui ogni parola ad un calvario.  Con delicatezza, accarezzò il capo biondo-castano della defunta, ripetendo in un soffocante singulto: “C’est elle …”

Benché esercitasse da anni quel mestiere e fosse abituato ormai a confrontarsi con le manifestazioni terrene della morte, il medico legale non riuscì a trattenersi dal poggiare una solidale mano sulla schiena di M. Christophe, che, piegato sul cadavere della figlia, piangeva perfino l’anima.

Nel frattempo, in sala d’attesa, un dodicenne biondo fissava trasognato l’orologio, le piccole labbra vermiglie piegate in una muta preghiera al cielo.

 

III.

A onor del vero, M. Christophe non avrebbe voluto per nulla al mondo, che Saga lo seguisse in ospedale. Tuttavia, appena appresa la terribile notizia, la foga del momento gli aveva appannato la mente: si ricordava di essersi recato dalla vedova Blondel, pregandola di seguire i bambini fintanto che si sarebbe assentato da casa; dopodiché era sceso indemoniato fino al garage, guidando impazzito in direzione del policlinico. Solo all’arrivo si accorse che, silenzioso come un’ombra, Saga lo aveva seguito, infilandosi quatto quatto nella vettura e non fiatando quasi per tutto il tragitto. L’unica cosa, che il padre poté fare – ormai il ragazzino era lì – fu di strappargli la promessa di restare buono buonino ad attenderlo in sala d’aspetto. Seppur di malavoglia, il gemello maggiore aveva accettato quella condizione.

Ma ora, dopo ben due ore lì fermo, un brutto presentimento invase il suo cuore. Se si fosse trattato di un banale incidente, un affare insomma da collare cervicale e basta, perché quella lunga attesa? Il suo Papa lo avrebbe chiamato, no? Lo avrebbe portato in una di quelle sale da pronto soccorso, dove la sua Maman, la sorella e il fratello lo avrebbero accolto ridendo, scherzando in seguito dello scampato pericolo. Eh sì! Anche ai suoi compagni di scuola erano capitati dei tamponamenti e se l’erano cavata con qualche settimana di quella buffa gorgiera!

E allora, perché quel vuoto allo stomaco?, si chiedeva il ragazzino attorcigliandosi sempre più ansioso le mani umide. Perché gli infermieri lo guardavano così afflitti? E perché quella vocina insidiosa continuava a sussurrargli, che no, niente andava bene? Che non avrebbe mai più rivisto la sua Maman sorridere?

Inumidendosi le labbra, come fece la vera Pandora quando aprì il vaso proibito, Saga si alzò, recandosi alla segreteria e domandando dove si trovassero la sua Maman, la sorella e il fratellino. E poiché quel giorno vi erano stati tanti incidenti per via della pioggia torrenziale e quindi vi era un certo movimento nell’ospedale, l’infermiera, senza rendersi più di tanto conto dell’età del suo interlocutore, gli riferì concisamente che Madame Valavitis e suo figlio erano in sala operatoria, mentre la demoiselle era hélas all’obitorio.

E in quel momento, la prima lama trapassò il cuore dell’adolescente, il quale s’aggrappò allo sportello d’un tratto senza più forza per sorreggersi sulle gambe, impallidendo fino al violaceo e sentendo uno strano ronzio fischiargli nelle orecchie.

Deglutì.

Poi, ringraziando con un filo di voce, si allontanò verso la sezione delle operazioni chirurgiche, lo sguardo vuoto e morto.

 

IV.

“Saga …”, mormorò piano M. Christophe, dopo essersi congedato dal medico. “Oh Saga …”, ripeté, sedendosi accanto a lui e abbracciandolo forte. “Il faut que tu sois courageux maintenant … rien n’est encore perdu …” (Bisogna, che tu sia forte (lett. coraggioso) adesso … niente è ancora perduto … , ndr. )

“Je le sais, Papa, je le sais!”, concordò il gemello maggiore, appoggiando la testa sulla forte spalla del padre. “Nous ne sommes que dans les mains de Dieu …”, mormorò poi e il padre assentì.

M. Christophe lo aveva trovato vagare disorientato per l’ospedale, cercando frenetico la sala operatoria e chiedendo la sua ubicazione con un crescente filo d’isteria agli infermieri o agli altri pazienti che incrociava. Preoccupato, l’uomo lo aveva subito raggiunto, serrandolo stretto al petto. Gli bastò un’occhiata per comprendere che il figlio aveva scoperto quanto avvenuto: i suoi occhi zaffiro erano opachi, smorti. Da essi non traspariva più alcun’emozione, tranne che un dolore acuto e ironicamente inesprimibile. Lo strinse con maggior vigore, sentendo le mani delicate dell’adolescente appigliarsi alle sue spalle convulsivamente.

Ma non piangeva.

Inalava e ingollava aria ferocemente; tuttavia i suoi occhi erano aridi come pozzi abbandonati nel deserto.

Il pater familias lo aveva sollevato da terra, sedendosi su di una sedia poco distante. Lì, Saga si era rannicchiato contro di lui, similmente a quelle occasioni in cui aveva la febbre e M. Christophe passava l’intera notte a vegliare su di lui. E come allora, il ragazzino si addormentò sfinito in un dolce oblio, nel quale erano tutti e sette a casa  a festeggiare il nono compleanno di Milo.

 

V.

Erano circa le quattro e un quarto del mattino, quando finalmente le porte delle due sale operatorie si spalancarono. La prima ad uscire fu Madame Anaïs, subito trasportata in una stanza lì accanto. Milo, invece, la seguì trequarti d’ora dopo, alle cinque esatte.

Ponendosi subito in piedi, M. Christophe fermò il chirurgo, informandosi dello stato di salute del figlio. Levandosi la mascherina e passandosi stancamente una mano sugli occhi cerchiati dalle occhiaie, quegli rispose incolore:

“Une opération difficile, je crains.  Quand le gamin est arrivé  dans la salle d’opération, il avait déjà perdu une grande quantité de sang. Son cœur avait même  pour un instant cessé de battre, il a fallu  le RCP pour le réanimer.  Néanmoins, ce petit gosse a été fort, il a combattu bravement contre la mort. Maintenant, il faut attendre qu’il se réveille : malheureusement,  à cause du TCC ou traumatisme crânio- cérébrale dont il a souffert,  il est relégué au coma …” (Un’operazione difficile, temo. Quando il ragazzino è giunto in sala operatoria, aveva già perso un’ingente quantità di sangue. Il suo cuore aveva persino smesso per un istante di battere, è stato necessario il RCP per rianimarlo. In ogni modo,  questo piccolo marmocchio è stato forte, ha combattuto coraggiosamente contro la morte. Adesso, bisogna aspettare che si risvegli: purtroppo, a causa del trauma cranico che ha sofferto, è relegato al coma …, ndr.  )

Intanto che i due adulti discutevano sulle condizioni del giovanissimo paziente, Saga si era appropinquato silenzioso al fratellino, quasi temesse di svegliarlo, benché fosse oggettivamente impossibile.

Milo giaceva immobile sul letto, il volto come l’alabastro da quanto era pallido. Il bambino era avvolto dalla coperta fino al mento, i fili delle varie flebo facevano capolino da sotto come una delicata ragnatela. Solo la testa era visibile, fasciata da una stretta benda e là dove il chirurgo aveva operato, i suoi capelli biondo oro erano stati completamente rasati. Non che fossero stati clementi con il resto della sua capigliatura: ora aveva i capelli cortissimi. Cambiando angolazione, il gemello maggiore notò che anche l’occhio destro era nascosto da una fasciatura e che, dalle confuse forme che trasparivano  da sotto il lenzuolo, tutta la parte destra del torso doveva essere stata immobilizzata da bende e gessi. Come del resto la gamba sinistra.

Sospirò tristemente, intrufolando una mano sotto il telo verde e afferrò quella immobile di Milo, la quale era così gelida, che il primo istinto di Saga fu di ritirarla. Al contrario, si dominò, s’impose di non schifare la parte più fisica di quel tragico avvenimento. “Courage, Milou! Tout ira bien!”, gli promise, abbozzando ad un tirato sorriso e lasciando la sua piccola e fredda preda, quando l’infermiere spinse il lettino via da loro, portando il bambino nella sua nuova stanza.

“Tout ira bien”, ripeté sottovoce l’adolescente, portandosi al petto il palmo venuto a contatto col gelo di chi, come un funambolo, si destreggiava tra la vita e la morte.

 

VI.

“Et bien ?”

Saga alzò lo sguardo fino a quell’istante tenuto fisso sulla cioccolata presa alla macchinetta, le orecchie drizzate. Si era fatto giorno, già i primi raggi mattutini filtravano dalle veneziane semi abbassate delle finestre. L’ospedale giaceva in uno straordinario silenzio.

Padre e figlio si trovavano davanti alla camera di Madame Anaïs, attendendo che il suo medico curante li concedesse di vederla, rivelando loro anche le effettive condizioni della donna. Nel frattempo, onde scacciare il feroce impulso di sfogare il suo dolore, specie in presenza di Saga, M. Christophe aveva colto l’occasione per appellare al telefono i suoceri, lo zio e la Veuve Blondel, spiegando a quest’ultima la situazione e chiedendole gentilmente di vegliare ancora per qualche giorno sui bambini. La parte più straziante fu quando la vedova gli passò le sue creature, le quali, ansiose, domandarono che cosa fosse accaduto alla loro Maman, sorella e fratello: il pater familias le rassicurò come poté, rinviando solo l’inevitabile.

Finalmente, il dottore era uscito dalla stanza di Madame Anaïs e rapido il di lei consorte lo aveva intercettato, interrogandolo sulla salute della moglie.  

“Elle est consciente ; si vous désirez, vous pouvez lui parler …” (E’ cosciente ; se desiderate, potete parlarle … ndr. ), furono le semplici parole proferite dall’uomo. M. Christophe si limitò ad annuire, indeciso se considerare la notizia una pena o un sollievo.

“Et elle sait que … que notre fille est morte ?” (E lei sa che … che nostra figlia è morta ?; ndr. ), mormorò, scoccando una rapida occhiata a Saga, il quale continuava a fissare i due medici attento e serissimo in volto.

“Non, elle ne sait rien du tout. ” (No, lei non sa niente di niente. ndr)

“Et du petit ?” (E del piccolo ?, ndr. )

Il dottore sospirò a lungo, ponendo pensieroso le mani dentro le tasche del camice. “Seulement qu’il dort, rien d’autre. (Solamente che dorme, nient’altro, ndr.) Et mon conseil, c’est de ne pas lui annoncer ce qui est passé à votre fille. Croyez-moi, c’est mieux ainsi : s’elle doive mourir, ça lui sera plus facile dans l’ignorance, que en sachant cette terrible réalité”, (Il mio consiglio, è di non annunciarle quel che è accaduto a vostra figlia. Credetemi, è meglio così : se lei dovesse morire, le sarà più facile nell’ignoranza, che a conoscenza di questa terribile realtà, ndr.) aggiunse poi, lo sguardo grave.

“Mourir, vous dites ? Est- elle si grave?” (Voi parlate di morire ? E’ così grave ? , ndr.)

“Oui, Christophe. Je doute que votre femme puisse passer la nuit. Je lui ai donné de la morphine  afin de la soulager de la douleur, mais ses blessures, hélas, sont très graves : la colonne vertébrale a été complètement brisée, en perforant par conséquences les poumons. L’agonie commencera bien tôt. Je suis désolé, j’ai essayé l’impossible jusqu’à la fin. Il n’y a plus rien à faire. ” (Sì, Christophe. Dubito che vostra moglie possa superare la notte. Le ho dato della morfina per darle sollievo dal dolore, ma le sue ferite sono, hélas, molto gravi: la colonna vertebrale è stata completamente frantumata, perforando di conseguenza i polmoni. L’agonia incomincerà ben presto. Sono desolato, ho tentato l’impossibile fino all’ultimo. Non c’è più niente da fare, ndr.)

Era troppo. Era troppo.

“Que dites-vous ?”, la voce di Saga piena di sdegno e incredulità risuonò inaspettata alle orecchie dei due uomini, i quali si voltarono sorpresi verso il ragazzino in mezzo a loro. Con occhi di bragia l’adolescente crocifisse il medico, martellandogli il petto all’improvviso di pugni e gridando fuori di sé:  “Vous allez la sauver, bon sang! Vous allez sauver ma mère ! Elle ne peut pas mourir comme ça ! Je ne veux pas !” (Voi la salverete, maledizione ! Voi salverete mia madre! Non può morire così! Non voglio!, ndr.), si sgolava, prontamente bloccato per i polsi dal padre, che lo trascinò via dal collega, tentando di calmarlo.

“Je ne veux pas!”

 

VII.

Tum-tump. Tum-tump. Tum-tump.

Il tamburo di guerra del suo cuore risuonava battagliero nelle orecchie di Saga, mentre quest’ultimo si apprestava ad aprire la porta, che lo separava fisicamente dalla sua Maman. Entrò silenzioso, guardandosi attentamente intorno: quella visita, infatti, l’aveva per così dire rubata, approfittando dell’arrivo dei nonni materni e del prozio e della conseguente distrazione del padre riguardo la sua personale sorveglianza. Dopo la scenata di poco fa col medico, M. Christophe se l’era trascinato ovunque, senza mai perderlo di vista per un solo istante. Ignorava, purtroppo, le ottime conoscenze del suo figliolo circa lo sgattaiolare via nell’ombra.

“Maman …”, chiamò dolcemente il ragazzino la donna distesa sul letto e circondata da tubi di ogni genere e grandezza. Ella non diede segno di aver subito compreso, né di averlo riconosciuto; inclinò un poco il capo, invitandolo invece a venirle più presso. “Maman, c’est moi! C’est …”

Gli occhi verde acqua di Madame Anaïs si spalancarono attenti, interdetti. Un sorriso le addolcì il volto tirato e grigiastro. “Mon enfant!”, gracchiò a fatica, allungando una mano verso l’adolescente, che l’afferrò subito con la stessa devozione riservata ad una santa reliquia. “Mon enfant …”, ripeté, accarezzandogli la guancia imberbe, che Saga strusciò su quel palmo privo di calore umano, coprendolo di lievi baci. “Pourquoi es-tu venu ici?” (Perché sei venuto qui?, ndr.)

“Il le fallait, Maman … J’avais tellement envie d’entendre ta voix!” (Bisognava, Maman … Avevo talmente voglia di ascoltare la tua voce!, ndr.)

Di nuovo, la donna si permise uno stanco sorriso. “T’es le pire menteur du monde, tu sais?”, (Sei il peggior bugiardo del mondo, sai ?, ndr.) Saga abbozzò ad una smorfia, un penoso misto tra un sorriso e un singhiozzo trattenuto a stento.

“Je ne suis qu’un bon à rien. Je suis inutile. C’est injuste tous ça !”(Non sono che un buono a nulla. Sono inutile. Tutto questo è ingiusto!, ndr.), protestò il ragazzino, stringendo forte quella mano sempre più debole.

“Non, mon enfant. Aujourd’hui je meurs tranquille, parce que je sais que vous êtes tous vivants. Survivre à la propre créature, c’est le pire châtiment  de Dieu. Vous êtes le futur, pas moi !”(No, bambino moi. Oggi muoio tranquilla, perché so che voi siete tutti in vita. Sopravvivere alla propria creatura è il peggior castigo di Dio. Voi siete il futuro, non io!, ndr. )

“Mais … mais je n’en serai pas capable sans toi ! Je ne veux pas que tu nous laisses seuls !” (Ma … ma non ne sarò capace senza di te ! Non voglio che ci lasci soli !, ndr.)

“Jamais, mon enfant, jamais je vous laisserai seuls …”, mormorò Madame Anaïs, aggrottando la fronte e seguitando la  delicata carezza al capo biondo oro del suo primogenito maschio, il quale l’aveva appoggiata al suo petto. Quand’ecco, che i suoi occhi s’illuminarono di una repentina risoluzione. “Sasà, s’il te plaît, va au petit armoire là-bas : si je me ne trompe pas, tu y trouveras mes trucs … ”, lo istruì, dirigendolo nella sua ricerca. Trionfante, il ragazzino gli indicò l’interno dello spartano armadio.  “Voilà c’est ça ! Bon, ouvre cette petite bourse … oui, le crucifix d’or … prends- le : il est à toi, maintenant !”, fu il suo ultimo regalo per lui. Saga tentò di declinare l’offerta scuotendo energicamente la testa, conoscendo quanto quel simbolo religioso fosse importante per la madre. Ma quest’ultima insistette :  “Afin que tu saches, que je serai toujours après toi. Après tes frères.”(Mai, bambino mio, mai vi lascerò soli … Sasà, per favore, vai all’armadietto là vicino: se non mi sbaglio, vi troverai le mie cose … ecco, proprio quello! Bon, apri quella piccola borsa … sì, il crocifisso d’oro … prendilo: è tuo, adesso! Affinché tu sappia, che io sarò sempre accanto a te. Accanto ai tuoi fratelli, ndr. )

“Oui, Maman. Je m’en souviendrai. Je te promets, que j’aiderai Papa de mon mieux.” (Sì, Maman. Me lo ricorderò. Ti prometto, che aiuterò Papa al mio meglio. Ndr.)

E per dimostrale la veridicità delle sue parole, il ragazzino indossò subito il piccolo crocefisso d’oro, stringendosi poi con disperazione alla madre e aspirando forte il suo profumo, così dolce malgrado l’alterazione dei disinfettanti, assieme ad un altro, acre, orribile, innominabile.

Madame Anaïs sorrise per la terza volta, congedandosi infine dal figlio che, accorgendosi dell’arrivo del padre e dei parenti, disertò in fretta la stanza.

I loro occhi s’incrociarono.

Fu l’ultima volta che Saga la vide.

 

VIII.

“Ai miei bambini,                       

vogliatevi bene, ecco la mia ultima raccomandazione. Amate, fate progetti, baruffate tra di voi, perdonatevi a vicenda, ridete, scherzate, tenetevi il broncio anche per un giorno o due, ma vogliatevi sempre e comunque bene. Il mondo è governato dall’indifferenza, nessuno vi amerà  incondizionatamente, solo qualche caro amico o amica e le vostre mogli (o mariti, lo so Isabelle e Nônon, non mi dimentico di voi!) Per il resto, sarete soli: l’unica considerazione che riceverete sarà dal punto di vista lavorativo e sociale, ma mai, mai e poi mai per ciò che siete in realtà. Solo tra voi potrete amarvi per la vostra vera essenza, per i vostri pregi e difetti. Siate uniti, sorreggetevi a vicenda. Ovunque io sia, veglierò su di voi. Sempre.

La vostra Maman.”

Madame Anaïs tacque, deglutendo a fatica. La gola le si era fatta d’un tratto secca;  la vista vacillava, alterata da chiazze gialle e infide fitte di dolore. Si voltò verso il marito, il quale compilava silenzioso la lettera da lei dettata. Il cuore stanco della donna gemeva nello scrutare gli occhi arrossati del marito, che caparbiamente impediva alle lacrime di scorrere, limitandosi a mordere a sangue il labbro inferiore.

Poco distante, sedevano i suoi genitori e lo zio del consorte. I maschi, per circostanza, similmente a Christophe non piangevano, soffrendo composti. La madre, invece, si sosteneva al braccio di suo padre, il volto rigato di lacrime.

Madame Anaïs sospirò: perché lamentarsi per lei? Le sue creature erano coloro che meritavano quel pianto, sole al mondo senza la figura materna. Ecco, dove sussisteva la vera tragedia.

“Chris …”, lo chiamò la donna, tappettandogli la spalla con la punta delle dita. “Aide-moi à signer: je n’arrive pas …” (Aiutami a firmare: non ce la faccio …, ndr.)

Prontamente, M. Christophe esaudì la richiesta della moglie, afferrandole la mano e ponendole delicatamente la penna tra le pallide e deboli dita, guidando codesto arto nella difficile impresa. Ne risultò un curioso scarabocchio, dal quale era però possibile distinguere il nome della donna, che rilesse la lettera o almeno tentò di farlo, sorridendo poi d’approvazione.

“C’est bien, mon amour. C’est bien.”

 

IX.

“Amenez  le défibrillateur … et le confesseur avec lui !” (Portate il defibrillatore … e il confessore con lui !, ndr.)

L’infermiere annuì, uscendo silenzioso dalla stanza.

 

X.

“Je vous salue, Marie pleine de grâce,

le Seigneur est avec vous.

Vous êtes bénie entre toutes les femmes

Et Jésus, le fruit de vos entrailles, est béni …”

 

Un’anziana signora si alzò dal suo banco, raggiungendo il ragazzino inginocchiato da più di un’ora davanti all’altare della Madonna di Lourdes e immerso nella più disperata preghiera. Gli sussurrò una parolina all’orecchio.

Egli fece cenno di no.

 

“… Sainte Marie, Mère de Dieu,

priez pour nous pauvres pécheurs,

maintenant et à l’heure de notre mort. Amen.”

 

Timidamente, Aiolia intrecciò la sua mano a quella del fratello, chiedendogli sottovoce:“Pourquoi la veuve Blondel est en train de prier maintenant?” (Perché la vedova Blondel sta pregando adesso?,ndr. )

Sospirando a lungo, Kanon replicò incolore, evitando di guardare dritto negli occhi il bambino accanto a lui: “Il est midi: est-ce que tu n’entends pas les cloches de la Madeleine, qui annoncent l’Angélus?” (E’ mezzogiorno: non senti le campane della Madeleine, che annunciano l’Angelus?, ndr.)

“Mais elle pleure et … et toi aussi!” (Però sta piangendo e … anche te!, ndr.), notò il bambino immediatamente le due grosse lacrime scivolare sulle gote del gemello minore, che subito si schernì, asciugandole rapido con il dorso della mano.

“Je ne pleure pas: ce sont les oignons …” (Non piango : sono le cipolle …, ndr. ), gli spiegò il ragazzino, indicando le due cipolle intaccate sul tavolo. E appunto per quel piccolo dettaglio, che il lionceau commentò ancora più perplesso:

“Tu te trompes : elles ne sont pas coupées, donc elles ne peuvent pas te faire pleurer!” ( Ti sbagli: non sono tagliate, quindi possono farti piangere!, ndr.)

“Assez, Aiolia! Ce sont ces fichues oignons, compris?” (Basta così, Aiolia ! Sono queste fottute cipolle, capito ?, ndr.), berciò Kanon, sciogliendosi bruscamente dalla gentile presa del bambino e avanzando in mezzo alla cucina di tre furiosi passi e coprendosi il volto con ambedue le mani. Poi, si girò verso il fratellino, raggiungendolo e abbracciandolo forte. “Ce sont les oignons …”

 

XI.

“Chris, est-ce que … est-ce que je vais mourir ?”, (Chris, sto per … sto per morire?, ndr.) la voce di Madame Anaïs era ridotta ad un flebile e rauco sussurro, mentre il petto si rialzava e  riabbassava frenetico, avido di quell’aria che solo i tubi potevano fornirle. Lo sguardo della donna ora era annebbiato, perso nell’incoscienza della nuova dose di morfina somministratole e ciononostante, i pugni ben serrati  -il primo sul lenzuolo e il secondo tra le mani del marito -  rivelavano quanto in realtà ella soffrisse.

“Non, mon cœur, tu vas guérir très vite ! Tout ira bien, j’te le promets !”, (No, mio cuore, guarirai molto presto! Tutto andrà per il meglio, te lo prometto!, ndr. ) le mormorò M. Christophe, baciandole le livide nocche e respirando a fondo per farsi coraggio : l’agonia aveva strappato gli ultimi bagliori di lucidità nella sua sposa ed ella era entrata in un dolce vaneggiamento.

“Au moins, nos enfants sont chez nous!  Ont-ils déjà mangé? La veuve Blondel est une cuisinière affreuse : un jour ou l’autre elle va les empoisonner, crois-moi !”, (Almeno, i nostri bambini sono a casa! Hanno già mangiato? La vedova Blondel è una terribile cuoca: un giorno all’altro li avvelenerà, credimi!, ndr.) borbottò scherzosamente indignata Madame Anaïs e, seppur con supremo sforzo, il suo consorte si unì alla fioca risata. 

“Oui,  c’est vrai !”

“Ah, j’suis contente ! Pourquoi pleures tu ? Je me sens mieux maintenant : la douleur est presque passée … je ne sens plus rien … mes jambes … mes bras … il me semble que mon corps entier dorme, c’est bizarre, n’est-ce pas ?”, (Ah, sono contenta ! Perché piangi? Mi sento meglio adesso: il dolore è quasi passato … non sento più niente … le mie gambe … le mie braccia … mi sembra che il mio corpo intero dorma, è bizzarro, no?, ndr.) fece d’un tratto confusa la donna, domandandosi il motivo per il quale M. Christophe si stesse asciugando furtivamente il viso umido di lacrime. Che cosa stava succedendo di così triste ?

“T’as raison … c’est mieux ainsi …”

Un mesto silenzio s’impose nella stanza, interrotto solo dagli sconnessi intervalli respiratori dell’agonizzante Madame Anaïs.  

“Chris ?”, richiamò ella d’un tratto la sua attenzione. Il marito le rivolse subito lo sguardo, segno che la stava ascoltando.  “Je t’ai dit quelquefois, que je t’aime?” (Ti ho mai detto qualche volta, che ti amo ?, ndr.)

“Tu me l’as dit souvent, mon amour !”, (Me l’hai detto spesso, amore mio!; ndr.) la rassicurò, avendo l’uomo percepito il tono ansioso nella sua voce. Le accarezzò dolcemente i capelli, ponendo dei delicati baci sopra la fronte fredda eppure sudata della moribonda.

“Puis-je te le répéter avant de dormir ? Je suis fatiguée et je ne sais pas pourquoi ! Je suis restée tout le temps au lit comme m’avait conseillé le docteur, mais je dormirais encore pour une éternité … j’en ai tellement envie … ah, mon amour ! Arrête avec ces larmes ! Que diront les enfants, s’ils te voient sangloter ? Donne leurs un baiser de ma part ! Quand je sortirai de l’hôpital, on va tous fêter l’anniversaire de Milou : le pauvre ! Il n’a pas même  reçu son cadeau ! Peu importe, on lui le donnera un autre jour …”, (Posso ripetertelo prima di dormire? Sono stanca e non so perché! Sono rimasta tutto il tempo a letto come mi aveva consigliato il medico, ma dormirei ancora per un’eternità … ne ho talmente voglia … ah, amore mio! Basta con queste lacrime! Che diranno i bambini, se ti vedessero singhiozzare? Dai loro un bacio da parte mia! Quando uscirò dall’ospedale, festeggeremo tutti il compleanno di Milou: poverino! No ha neanche ricevuto il suo regalo! Poco importa, glielo daremo un altro giorno … , ndr. ) sospirò sognante la donna, sorridendo appena e fissando incuriosita il soffitto. Tutto si ovattava: il dolore, la gioia, le memorie. Vi era solo l’abbacinante bagliore della lampada, la cui luce rifulgeva ai suoi occhi sempre più bianca, accecandola quasi. Tuttavia, ella non chiuse le palpebre, al contrario, tenne lo sguardo lì ben fisso. Stranamente, la voleva memorizzare. Delle inconsce lacrime furono il risultato del suo peculiare studio.

Un rantolo fendette l’aria.

Era incominciata.

Aprendo in uno spasmo la bocca, Madame Anais ansimò per l’aria che faticava a giungere; i suoi polmoni feriti lavoravano senza tregua, impazziti e il cuore con loro; la trachea arida si contraeva dolorosamente veloce e l’epidermide si chiazzava di macchie grigie, le quali suggevano fameliche gli ultimi sprazzi  di rosa sul volto della donna. Gli occhi erano spalancati, i muscoli tesi: ostinata, ella combatteva una lotta infernale ed impari per la minima cellula di ossigeno.

Raschiava gli ultimi respiri concessole.

Tuttavia, vi era ancora una piccola questione che lei intendeva regolare, prima di appartarsi per sempre da questo mondo. Risoluta nel suo intento, raccolse tutte le forze rimastole onde girare il collo rigido e intorpidito verso il consorte, osservandolo lucida e soave e donandogli lo stesso gioioso sorriso, che lui le aveva visto dipinto in volto la prima volta che si erano baciati, in una fresca serata di diciannove anni prima a Pigadia.

“Chris … Christophe … merci …”, si mossero quelle labbra violacee e secche, presto irrorate dal fiume salato proveniente dagli occhi, la cui luce si affievolì dolcemente, simile ad un lumino consunto che cede all’oscurità della notte.

Deglutì, socchiudendo appena la bocca. Placido, il corpo si afflosciò sul morbido materasso.

M. Christophe appoggiò mesto il capo sull’incavo della sua spalla.

Scese definitivamente il silenzio.

Madame Anaïs Marianne Valavitis née Lamarque moriva  il 9 novembre 2001 alle ore 12.45, lasciando vedovo M. Christophe Valavitis e orfani quattro figli maschi, di cui uno ancora in coma.

 

XII.

Il ritorno a casa fu più penoso della veglia nella cappella. Rapportarsi con coloro che non soffrono più è facile; il vero issue è confrontarsi coi vivi, poiché loro possono ancora esprimere fisicamente il dolore che forse il morto può proferire solo da lassù, pacato e invisibile ai nostri mortali occhi.

E quando Saga varcò la soglia di casa, credette di aver trovato più morte e disperazione lì, che all’ospedale. Mangiò senza fiatare la sua cena, vomitandola di nascosto alla prima occasione. Parlò, consolò, abbracciò i fratelli, ma le sue orecchie non intendevano quanto proferito. La sua memoria non ricordava quanto fatto.

La notte dormirono tutti e quattro nel lettone: Kanon si era addormentato stremato ed ubriaco delle sue stesse lacrime; ad Aiolia era stata data un pochino di valeriana per calmarlo e ora se ne stava raggomitolato accanto a M. Christophe e stringendo il suo leone di peluche al petto. Quanto a Saga, giaceva invece sveglissimo e rigido nel letto, lo sguardo ostinatamente puntato sul soffitto. Regolava il suo respiro col ticchettio della sveglia e intanto rielaborava, analizzava e sviscerava febbrilmente tutti gli avvenimenti delle ultime ventiquattrore. Cercava un nesso logico, che potesse spiegare perché il giorno prima la sua Maman, Isabelle  e Milo avevano lasciato sorridenti  la loro casa e qualche ora dopo due erano morte e uno relegato al dubbioso limbo del coma. Cos’era accaduto? Il suo Papa non gli voleva rivelare nulla! E neppure il prozio! Neanche i nonni! Come poteva essere utile ai suoi fratellini, se non conosceva …?

Ah, la promessa! La memoria del ragazzino volò immediatamente al giuramento da lui proferito alla madre sul suo letto di morte. Ricordò il suo volto sereno; la fragranza della sua pelle, nonché la sua morbidezza sulle sue gote. A tentoni, cercò il crocifisso celato sotto la camicia del pigiama. Lo circondò con forza, ferendosi il palmo: la sua decisione era presa.

D’un tratto euforico, l’adolescente scivolò giù dal letto, dirigendosi verso il bagno. Una volta lì, afferrò le sue lenti a contatto e le gettò nell’immondizia, tirando fuori da un posticino segreto i suoi vecchi e sgraziati occhiali da vista. Si lavò la faccia con l’acqua gelida, impugnando poi le forbici in precedenza prelevate dalla cucina.

“Seigneur, nous acceptons votre volonté : la seule consolation est que maintenant Maman et Isabelle peuvent jouir de votre présence là-haut en Paradis. Mais Seigneur, laissez-nous Milo ! Nous avons déjà beaucoup souffert ! Laissez-le à nous et je vous jure que j’accomplirai jusqu’au bout la promesse faite à Maman ! Je … je renonce à l’amour charnel, je n’aimerai jamais personne! Et si sera le cas, je … je deviendrai même un moine, tout afin que mon petit frère se réveille ! Je ferais n’importe quoi !”, (Signore, accettiamo la vostra volontà: la sola consolazione è che ora Maman e Isabelle possono godere della vostra presenza lassù in Paradiso. Ma Signore, lasciateci Milo! Abbiamo già sofferto abbastanza! Lasciatecelo e vi giuro che adempierò fino alla fine la promessa fatta a Maman! Io … io rinuncio all’amore fisico, non amerò mai nessuno! E se sarà il caso, io … io prenderò i voti, tutto affinché il mio fratellino si risvegli! Farei qualsiasi cosa!, ndr.) fu l’unico disperato voto che in quel momento, la sua giovanissima anima fu in grado di pronunciare. Sfinito, il ragazzino aveva appoggiato stancamente la testa tra le braccia sul lavandino, respirando  a fondo fino a regolarizzare il respiro.

Ancora non comprendeva l’enorme peso della promessa appena proferita, eppure Saga sentiva che era giusto così. Qualcosa in fondo al suo cuore glielo aveva sussurrato e questo valeva per lui più di mille consolazioni e sillogismi. La calma era scesa finalmente sul suo spirito turbato.

Alzò lo sguardo, fissando accigliato il suo riflesso: stentava a riconoscersi! Quanto una giornata lo aveva mutato! Scosse energico il capo, riconcentrandosi su ciò per cui era venuto lì. Lentamente, passò le sottili dita tra i suoi fini  e serici capelli biondi come l’oro, i medesimi per i quali tutti gli occhi delle ragazzine erano per lui.

“Amen”, sussurrò, chiudendo gli occhi e serrando risoluto le mascelle.

Uno schiocco.

E cadde la prima ciocca.

 

XIII.

“Riesci a sentirmi, Milou? Devi svegliarti!”

Ma il bambino continuava a dormire nel suo sonno profondo e indisturbato, lontano  e ignaro dagli ultimi vorticosi eventi accaduti; benché fosse passata una settimana dal tragico incidente, le ciglia dorate del piccolo non davano segni di voler schiudersi al mondo, giacendo fermamente appoggiate sulla candida pelle d’ammalato.

“Capito?”, ripeté Saga, stringendo piano la mano inerte e fasciata del fratellino. “Ci manchi tanto …”, aggiunse sottovoce schioccandogli un bacio sulla fronte. Poi, ritirandosi, inforcò gli occhiali e riprese a leggere là dove si era interrotto: “Denis sauva son maître. Il passa les nuits et les jours sans sommeil, ne quitta point la chambre du malade …”  (Denis salvò il suo padrone. Passò le notti e i giorni senza dormire, non lasciò mai la camera del malato … , da “Denis”, di Maupassant, cap. II, ndr.)

Se solo quella lettura avesse avuto l’inverso potere di risvegliarlo!

 

Si aprì un’inchiesta sulle dinamiche dell’incidente. Poco fu ricavato, la questione terminò in fretta con un “a causa di ignoti” e la famiglia Valavitis non seppe mai precisamente come, quando e perché avvenne quell’immane tragedia. L’unico testimone ancora era in coma e comunque  non sarebbe stato attendibile, avendo infatti il suo medico curante avvertito il padre, che se Milo si fosse risvegliato, bisognava confrontarsi poi con tutti gli effetti postconcussivi.

E la memoria sarebbe stata la prima in lista.

 

“Dove sei stato? Ti aspettavo un’ora fa!”, apostrofò Saga duramente il nuovo arrivato, il quale avanzò per nulla intimorito nella stanza, le mani in tasca. “Non sei venuto neanche a scuola. Bada, la prossima volta mi costringerai a dirlo a Papa!”

Alzando caparbio il mento, Kanon lo sfidò gelido: “Avanti, fallo!” e trascinò una sedia dalla parte opposta del letto, sedendovi sopra a cavalcioni. “Come sta?”, s’informò poi di malagrazia, lanciando una rapida occhiata al piccolo dormiente.

Il suo doppio non rispose subito: il suo sguardo si era fermato sul piccolo rigonfiamento sul labbro del gemello. “Che ti è successo?”

“Non è importante. Piuttosto, ci sono novità?”

“No.”

“Ah d’accord”, annuì pensoso Kanon, appoggiando il mento sullo schienale. Sospirò. “Sei un idiota, Saga.”

Il diretto interessato arcuò il sopracciglio. “E perché mai, di grazia?”, inquisì con falsa cortesia.

“Guardati: i capelli tagliati, l’abito scuro, quegli orribili occhiali … cosa credi di dimostrare conciandoti peggio del re dei nerd?”, gli domandò il gemello minore, indicandogli con ampio gesto la sua figura. E notando come Saga si  fosse trincerato dietro uno sdegnoso silenzio, quegli continuò piccato: “Sono tre settimane, che passi qui tutti i pomeriggi  a parlare con  uno che non ti può sentire! E poi, quando torni a casa, prendi a dare ordini di qua e di là, neanche ti appartenesse! Parli perfino in vece di Papa, tzé! Il colmo, infine, è che vuoi sapere ogni cosa che faccio, ogni cosa che Iou – Iou fa, ma che Dio ci salvi, se di tanto in tanto anche a me piacerebbe conoscere cosa diavolo combini!”

“Voglio solo rendermi utile …”, mormorò laconico il ragazzino, sfogliando pensoso le pagine del libro. Irato per la sua poca collaborazione, Kanon glielo sfilò via brutalmente di mano.

“Allora, incomincia dal trattarci come prima: sei altamente arrogante, mi dai sui nervi!”, si sporse più vicino a lui, sibilandogli velenoso: “Pensi davvero di sostituire Maman? Non farmi ridere! Non sei che una scialba, inutile e patetica sua copia! In te non vedo una disinteressata bontà, macché! Solo un superbo e infantile autocompiacimento! Ammettilo, che ti piace sguazzare nel ruolo di martire!”

“Assez! Basta così!”, sbottò Saga livido in volto, interrompendolo. “Non è mia intenzione essere una replica, né un sostituto di Maman; il mio unico desiderio è di aiutare Papa, visto che in casa non c’è nessun altro: il prozio non resterà per sempre qui da noi, neppure i nonni. Ergo, qualcuno dovrà pur essergli accanto nella direzione della casa? Inoltre”, aggiunse maligno, il viso distorto in una maliziosa smorfia, “il ruolo della donna lo lascio a te più che volentieri …”

Fu un attimo. Scavalcando il letto più rapido della morte, Kanon colpì il fratello in pieno viso, spogliandolo dei suoi occhiali, i quali caddero in un tonfo per terra, rompendosi. Dopodiché, lo afferrò per i corti capelli, serrandogli poi le mani al collo. “Prova a ridere ancora della mia situazione e giuro che ti frantumo questo tuo altezzoso faccino a suon di pugni, così potrai finalmente vantarti di non assomigliare più a me!” e lo liberò dalla sua presa con un violento spintone, gettandolo sul pavimento.

Raccogliendo furioso il suo zaino, Kanon proseguì: “Stasera vado a dormire da Sorrento; resterò da lui per tutto il weekend e forse anche quello dopo. Non c’è bisogno, che ti dica: “Riferiscilo a Papa”, tanto lo so che ultimamente gli comunichi tutte le mie mosse, miserabile spione!” e fissò rabbioso il gemello, il quale si era rialzato lentamente, tamponandosi silenzioso il naso sanguinante con un fazzoletto. “Bene, che altro aggiungere? Ah sì: il sole splende, il cielo è blu, vai al diavolo pure tu!” e girò sui tacchi, sbattendo poco cerimoniosamente la porta.

Silenzio.

Sempre senza proferire parola alcuna, Saga raccolse il libro caduto e gli occhiali, ponendoli delicatamente in tasca e riprendendo il suo posto accanto a Milo. Appoggiò stancamente la testa sugli avambracci, cercando quel sonno ristoratore, che crudele gli si negava come una capricciosa cortigiana da ben tre settimane. Fu perciò grato, quando entrò in una deliziosa dormiveglia, cullato da dolci sensazioni registrate in passato dal suo corpo e ora a lui riproposte menzognere, ingannandolo che il timido tocco alla tempia sinistra appartenesse alla sua Maman. Era conscio che ciò fosse impossibile, ma sarebbe stato così bello credervi per qualche istante.

Sì, però quella stretta al polso era un po’ troppo reale …

Disorientato, il ragazzino alzò il capo, analizzando subito la situazione e ricercando la fonte che lo aveva distolto dalle sue rêveries. Gli mancò l’aria per dieci secondi buoni, quando appurò si trattasse della manina di Milo, la quale, a scatti e timida, esplorava la sorella più grande, chiamandola.

Come fulminato, Saga si voltò verso il fratellino, il cui corpo si rianimava pian piano in piccoli spasmi e stiramenti, mentre le palpebre tremavano lievemente, sforzandosi di riaprirsi. E il primo vero sorriso tornò ad illuminargli il volto nell’istante in cui il turchese tornò a far capolino sull’occhio ancora libero dalla fasciatura.

“Kanon! Kanon!”, corse alla finestra l’adolescente, essendo a conoscenza che lì sotto si trovasse la fermata dell’autobus. “Vieni su! Avanti, cretino!”, urlava, battendo il pugno sul muro, attirando l’attenzione di tutti quelli in basso, tranne del fratello che si ostinava a tenere il capo voltato. “Milou si è risvegliato! Si è risvegliato!” e furono le paroline magiche, che fecero sì che Kanon si mise a correre come un levriere in direzione dell’entrata, investendo chiunque avesse avuto la malaugurata sorte d’intralciare la sua corsa.

“Si è risvegliato!”

 

XIV.

Al giorno del funerale splendeva un ironico sole, il quale picchiettava sul nero degli abiti funebri, creando morbidi e caldi riflessi sulle varie stoffe, così distanti dal sentimento di pacata e profonda sofferenza che invece pungeva gli animi di coloro, che avevano conosciuto intimamente le due defunte.

Benché la cerimonia fosse stata progettata affinché apparisse sobria e preferibilmente privata, la notizia di due morti così tragiche aveva portato alla chiesa delle Madeleine  più invitati di quanti richiesti, ma date le circostanze M. Christophe non se l’era sentita di polemizzare: non ne valeva la pena. Invece, il suo sguardo era rivolto attento ai figli.

Aiolia non c’era, lo aveva lasciato in custodia della vedova Blondel, la quale aveva affermato che non aveva bisogno di partecipare ad un funerale, per far capire all’uomo che gli era vicina e che comprendeva il suo dolore.

Kanon se ne stava rintanato in disparte al lato estremo del banco, gli occhi foschi e rugiadosi di lacrime, che vagavano inquieti  sulle bare, sui fratelli e sugli astanti, il tutto mentre torceva il foglietto della messa, arrivando a strapparlo in fini coriandoli.

Saga pareva seguire, al contrario, la funzione con apparente calma, se non l’avesse tradito il frenetico sbattere di ciglia dietro le spesse lenti degli occhiali.

Infine Milo, dal canto suo, assisteva il tutto in un trasognato silenzio seduto in carrozzella. Si scosse solo quando, afferrando la piccola lavagna che portava appresso – ancora si rifiutava di parlare -  scarabocchiò una frasetta che porse al gemello maggiore:

“Fai la pace con Nônon: anche lui soffre molto …”

Prima del funerale, i due gemelli si erano accapigliati tra di loro e solo il tempestivo intervento del padre aveva impedito che si ferissero seriamente l’un l’altro.

 

“ … Noi non portammo niente in questo mondo e non possiamo portare niente fuori di esso. Il Signore ha dato e il Signore ha portato via. Benedetto sia il nome del Signore.”

Gli ultimi fiori vennero gettati.

Le ultime lacrime sparse.

Le ultime preghiere innalzate.

Poi, fu solo la terra.

 

 

***

Ma nel ritrar costEEEHHHHIIIIIIHHH … Il mio solo pensierOOOOOOHHHH!!!!

AAAAAHHHHHH!!!!!, il mio solo pensiero!

ToscaAAAAAAHHHHH!!!!, sei tUUUUUUUHHHH!!!

 

E dopo l’ultimo agonizzante gorgheggio, Saga ed io ci fermammo, o meglio, lui pigiò il freno esattamente a qualche centimetro dal retro della macchina parcheggiata davanti a noi, provocandomi una bella ola in avanti con seguente brusco atterraggio sul sedile.

“Beh,  è stato un viaggio piuttosto tranquillo, vero?”, mi domandò gioviale il mio fratellastro, schiarendosi la gola dopo la nostra performance canora. “Suvvia, Momus! Via quella faccia! Sembra che tu abbia appena partorito cinque gemelli!”, mi consigliò instancabilmente ilare il giovane, aprendo lo sportello dell’auto ed evitando di un capello il ciclista, che stava pedalando esattamente nella stessa direzione.

“Pédé!”, gli bestemmiò quegli dietro, munificandolo pure di un bel dito medio pasciuto.

Mi correggo: sei gemelli.

“Mi chiedo, come facesse a sapere che sei homo, Momus!”, commentò Saga candidamente, schiudendo la mia porta e porgendomi la mano, onde aiutarmi a scendere. Sconsolato, reclinai il capo dalla parte opposta dell’uscita, troppo stremato anche solo per precisare, che l’insulto del sopravvissuto si riferiva a lui, invece che al sottoscritto. “Oplà! In piedi!”, mi trascinò fuori, sorreggendomi per la vita, poiché le mie gambe avevano proclamato sciopero nazionale. Lentamente, provai a sciogliermi dal suo abbraccio e tentai qualche passo da solo, col solo risultato di sgambettare per qualche metro e planare sul primo palo della luce, al quale mi aggrappai disperato, rifiutandomi di proseguire oltre.

“Dai, Momus! Non mi puoi abbandonare proprio ora, che siamo quasi sottocasa del dottor Chantel! Avanti, muovi queste fesses!”, imprecava Saga, afferrandomi per i fianchi e provando a staccarmi a viva forza dal mio appiglio, col solo risultato di abbassarmi definitivamente i pantaloni. Strillando vergognoso, me li rinfilai rapido, dando così la possibilità al mio fratellastro di pigliarmi di peso e trasportarmi là dove la sua mente perversa lo guidava. E quando potei toccare finalmente terra, fummo davanti ad un cancelletto di uno di quei palazzi antichi nel centro storico. Però, codesto dottore non si trattava male!

“E’ sua moglie!”, mi rivelò Saga, intuendo i miei pensieri. “L’unica qualità di Madame Chantel: un pingue conto in banca!”, scherzò suonando al citofono. Una voce femminile rispose dopo qualche minuto.

“Bonjour, qui êtes-vous?”

“Ah, bonjour madame! Sono il prete!”, mentì spudoratamente sornione Saga, sul volto dipinta un’espressione molto alla Kanon. Era proprio vero, che quei due si compensavano a vicenda …

“Pardon?”

“Il giro di benedizioni delle case!”

No, se ci aprivano la porta, dovevo annoverarmi quella scusante per dei malintenzionati alla soglia di casa mia, subito dopo i testimoni di Geova.

“Ah, d’accord. Venite pure su. Vi apro il cancello e il portone!” e la serratura della cancellata scattò, schiudendosi un poco e permettendoci d’invadere il piccolo giardinetto conducente all’ingresso principale.

“Ma … ma come …?”, balbettai incredulo, rabbrividendo di puro piacere, quando il tepore dell’entrata ci avvolse. Ché figurarsi, se avevo il cappotto: potevo dichiararmi graziato di indossare almeno le scarpe! Che poi erano gli stivali da ussaro di Mamie, comunque …

“Era la colf!”, mi spiegò laconico Saga, battendo educatamente alla porta di casa del dottor Chantel, dopo aver testato l’efficienza di un ascensore in stile retrò. Una volta usciti, si era poi girato verso di me, domandandomi: “Abbiamo un’aria abbastanza da psicopatici?”

Per tutta risposta, gli avevo indicato con la testa il nostro riflesso allo specchio dell’ascensore: spettinati; vestiti – sgualciti - da SDF; stravolti in viso (uhm, forse quello ero più io); le scarpe e il bordo dei pantaloni inzaccherati di neve e fango; Saga non si era fatto neppure la barba ed entrambi avevamo il naso e  le gote cremisi a causa del vento invernale. Riassumendo, di certo non passavamo per i Lord Brummel di Mont-de-Marsan.

“Bene!”, aveva esclamato allora soddisfatto (?) il gemello maggiore, battendo tra di loro le mani, dopo essersi pettinato alla bell’e meglio i capelli con una rapida zampata, ottenendo a contrario l’effetto opposto: adesso erano doppiamente arruffati.  “Possiamo procedere!” e batté alla porta, suonando poi il campanello.

Ci aprì uno scricciolo di donna, la quale arrivava appena con la testa all’altezza del mio cuore, tanto che di primo acchito, Saga ed io eravamo rimasti interdetti su come la porta si fosse aperta da sé. “Bonjour père, est –ce que … Oulà! E la tonaca?”, inquisì ella a suo turno perplessa, osservando dubbiosa il nostro aspetto da naufraghi.

“In lavanderia a secco. Hé madamoiselle, oggidì non ci sono più le perpetue di una volta, se ne rammenti!”, l’ammonì ieratico il mio fratellastro, intanto che la stupefatta bonne ci faceva accomodare nel salottino per gli ospiti, un ambiente arredato con gusto antico, privilegiando colori caldi e pastello, risaltati nella loro dolcezza cromatica dalle ampie finestre sul giardino interno, quello non esposto all’occhio del passante.

La bonne ritornò poco dopo con un vassoio d’argento sul quale troneggiava un bricco in porcellana ricolmo di cioccolata calda e delle brioches appena sfornate, annunciandoci che Madame Chantel si trovava a Tours in visita ad una sua parente, mentre il dott. Chantel sarebbe ritornato dalla funzione fra qualche istante. Gentilmente, la ringraziammo per la sua cortesia e lei se ne uscì, socchiudendo la porta.

“Ah! L’ospitalità degli ultimi veri aristocratici!”, sospirò Saga,  servendosi del bollente liquido. Ne preparò una chicchera anche per me; tuttavia, io ero troppo impegnato ad ammirare le stampe cinquecentesche nelle vetrine o incorniciate alle pareti, per abbandonarmi a queste terrene venalità. “La Madame, se non erro, dovrebbe essere una marchesina o roba del genere … il suo cognome era … era … Des Barres, ecco!”

“E come mai avrebbe sposato un semplice oculista?”, domandai senza particolare entusiasmo, lo sguardo incollato ad un estratto da un libro, che poteva benissimo aver conosciuto l’epoca delle 99 tesi di Lutero.

Sogghignando maligno, il mio fratellastro si alzò, porgendomi la tazza fumante e osservando anch’egli l’oggetto della mia indagine. “Perché il dottor Vincent nei suoi giorni di gloria era un bell’uomo e  Madame la Marquise al contrario una solitaria zitella, che aveva passato gli inesorabili  quaranta!”

“Sei bene informato!”, commentai laconico, intanto che cercavo di decifrare i caratteri gotici.

“Hé, in sala d’aspetto le lingue battono come tamburi!”,  mi spiegò sornione il giovane, nascondendo il naso dietro la chicchera di porcellana. “In ogni modo, quel passaggio è scritto in tedesco cinquecentesco e descrive la città di Urbino: la sua ubicazione, la sua storia, etc. Se osservi attentamente l’incisione sulla sinistra, puoi riconoscere le mura;  il campanile e la cupola del duomo, ma soprattutto le linee del palazzo ducale di Federico da Montefeltro! Una sorta di guida turistica dell’epoca, ecco!”

“Uhm, l’immagine è però molto dozzinale: di certo, non solo le xilografie di Dürer!”, risi, riconoscendo ora la città svelatami dal mio fratellastro: perfino le ardue parole tedesche adesso mi apparivano più chiare dopo la sua spiegazione. “A proposito, non sapevo che ti intendessi di linguistica, né di storia dell’arte!”

“Momus, in qualche modo devo pur pagare l’affitto e mangiare all’occasione: quando non lavoro da Thalia – la versione tedesca della libreria Fnac -  arrotondo lavorando presso un antiquario. Certo, mi paga una miseria, però è un luogo tranquillo dove ripassare le lezioni,  fa curriculum e poi imparo comunque delle nozioni nuove!”, affermò tranquillo, mangiucchiandosi un’unghia.

“Christophe non ti invia dei soldi in Germania?”, chiesi leggermente indignato: insomma, benché numerosi, non mi sembrava una famiglia così indigente.

“Papa mi paga la retta universitaria; al resto ci penso io. Devi considerare, che anche Kanon studia all’estero e poi dobbiamo mettere da parte i soldi per Milo e Aiolia, anche se, da quel che ho capito, quest’ultimo preferirebbe entrare più in una squadra di rugby a livello professionale, che andare all’università; beh, lo stesso avrà bisogno di soldi per un certo tempo, i primi ingaggi non sono certo nelle Sei Nazioni, vero?”, fu il pragmatico ragionamento del gemello maggiore, il quale provocò un feroce rossore sulle mie guance: ovvio, essendo la mia famiglia (da parte di Papie) estremamente ricca, non avevo considerato mai più di tanto il fattore vile e sonante danaro. Mi vergognai non poco della mia previa domanda, temendo di essere stato indelicato e villano dei confronti del mio patrigno. E ciononostante, ero sollevato che M. Christophe avesse adottato quel metodo coi figli; infatti, se glielo avesse chiesto, ero sicurissimo che mia madre non gli avrebbe rifiutato un pingue assegno, come invece soleva reclamare anche fin troppo spesso quell’uomo. Almeno, ora avevo la certezza che sul serio il capoclan Valavitis si fosse accostato a Maman per disinteressato affetto.

“Non affliggerti”, mi sollevò Saga dal mio mea culpa, notando come mi stessi accartocciando su me stesso. “Il tuo era un errore in buona fede: non è così balzano, che certi genitori paghino all inclusive il periodo universitario dei propri figli. Eppoi è Papa quello un po’ fissato  con lo studio-agogé spartana!”, scherzò ilare il giovane, mangiucchiando un pezzettino di brioche.

Annuii pensoso, sedendomi leggermente titubante sulle sedie dalle fodere ricamate a mano. “In ogni modo”, ripresi il discorso, spezzettando nel frattempo a disagio il mio dolce. “Come mai questa visita al dottor Chantel?”

Saga non rispose subito; accontentandosi di scrutare sibillino il piccolo maelstrom creato dal cucchiaino sulla superficie della cioccolata. E altrettanto fece quando appoggiò la delicata stoviglia sul piattino. “Ho fatto un sogno lunedì sera”, esordì infine il giovane, soffiando sul liquido scuro. “E non era affatto piacevole, poiché sembrava assurdamente reale, quasi … quasi una visione! No: un rebus.”

Come ipnotizzato, mi cacciai in bocca un pezzo di brioche al limite del soffocamento, pregandolo con un cenno del capo di proseguire.

“L’intera scena aveva luogo prima nell’ambulatorio del dottor Chantel – quello privato, per le visite di routine  - mentre la seconda si svolgeva nel corridoio dell’ospedale; in poche parole, una contraddizione spazio-temporale. Infatti, quando nel sogno aprii la porta innanzitutto mi trovavo in due posti tra di loro incongruenti; inoltre, la proiezione mentale di me stesso era assai più giovane della mia effettiva età. (Oltre ad avere i capelli di un altro colore.) Mentre, al contrario, Milo si presentava come adesso, diciassettenne. Ora, perché?”

Confuso, gli domandai: “Scusami, ma esattamente cos’hai sognato?”

Saga scosse la zazzera nera, scusandosi a sua volta: senza rendersene conto, stava ragionando più tra sé e sé ad alta voce, che allacciando un reciproco scambio d’idee. “Che il dottor Chantel mi diagnosticava il glaucoma e che Milo, ascoltandomi, scappasse via da me profondamente turbato. Dopodiché, mio padre mi consolava ed io ci rimuginavo sopra durante il racconto di Kanon.”

“Lo era”, mormorai piano, sovvenendomi dell’espressione agitata del mio bicho il lunedì scorso. “Milo era sul serio turbato …”, ripetei smarrito. Il mio fratellastro annuì gravemente.  “Ma se era un sogno, come mai …?”

“Vedi Momus, non è un caso se il nostro cervello viene classificato a livello scientifico come l’organo più enigmatico in assoluto. È potente e spesso può creare suggestioni inimmaginabili. Come ad esempio il caso di uomo monco di un braccio, cui veniva da grattare esattamente l’arto mancante. Enfin, la prima bugiarda è la nostra mente. Ora, io devo aver in qualche modo udito qualcosa a riguardo del glaucoma, qualcosa che colleghi Milo, il dottor Chantel e me.  E questi incubi  mi  perseguitano sempre da novembre, fino a dicembre. Tuttavia, più mi sforzo, meno ricordo! Non riesco a trovare un nesso logico, i dettagli continuano a scivolarmi via e sai perché? Ogni volta sogno una versione differente di questa fantomatica visita!”

“Nel senso, che ti viene diagnosticato il glaucoma in circostanze dissimili?”

“Esatto!”

“Ma Milo, il dottor Chantel e tu apparite sempre e comunque?”, inquisii attento, picchiettandomi il mento con l’indice.  E da come Saga stringeva gli occhi, teorizzai una risposta negativa da parte sua.

“In effetti”, proferì lentamente il gemello maggiore “è la prima volta, che mio fratello compare nell’incubo dopo tanto tempo ...”

“Forse, è successo qualcosa all’ospedale, che ha fatto sì che tu riformulassi a modo tuo la visita oculistica! Qualcosa, nel quale c’entra anche Milo!”

“L’ho visto ad un certo punto scappare via in affanno, ma siccome era con Aiolia, ho creduto fosse per pigliare l’autobus …”

“Che abbia scorto il dottor Chantel? Magari era a trovare un collega, che so …”, azzardai speranzoso, sebbene il nodo allo stomaco mi avvertisse, che sarebbe stato meglio chiudere lì la questione. L’espressione troppo fissa e cupa del mio fratellastro non mi suggeriva alcun risvolto positivo dell’intera faccenda.

“Ma perché ciò avrebbe dovuto sconvolgere Milo? E il glaucoma? Che ha a che fare con tutto questo? Non può essere solo la proiezione di una mia intima fobia!”, si passò il gemello stancamente una mano sugli occhi, slungandosi sullo schienale. “Dio solo sa, quanto voglia scoprire cosa avvenne il giorno della morte di mia madre e di mia sorella. Mi metterei definitivamente l’animo in pace!”

“Tu … tu che sai?”

“Non molto”, disse vago il mio fratellastro, fissando distratto le fiamme divorare i ciocchi di legna. “Fu di tardo pomeriggio, quasi sera. Maman, Isabelle e Milo erano usciti per una commissione, ignoro quale. Sennonché, ci telefonano, spiegandoci come un furgoncino avesse sbandato a causa del terreno bagnato, schiacciandoli con la sua fiancata contro il muro, vicino al quale avevano parcheggiato la macchina. Erano tutti e tre lì dentro: Isabelle morì qualche ora più tardi in sala operatoria, Maman la seguì il giorno dopo. Milo, invece, si salvò per il rotto della cuffia: lo avevano trovato incastrato tra le macerie, ma in condizioni meno gravi delle altre due vittime. Enfin, entrò in coma per tre settimane a causa di un trauma cranico e soffrì di varie fratture e ferite, ma almeno sopravvisse. Solo, che al suo risveglio non riusciva a ricordare nulla di quanto accaduto, né a formulare ricordi su quanto gli stesse accadendo. La sua memoria viveva alla giornata. L’indomani, si ricominciava tutto da capo, spiegandogli cosa avesse combinato il giorno precedente. Andò avanti così fino a gennaio.”

“Ma l’amnesia anterograda non compromette i ricordi passati, solo quelli presenti!”, dichiarai perplesso per quel dettaglio. Saga convenne con me, aggiungendo:

“Vero, sapeva chi noi fossimo; si ricordava il suo passato, eppure il dettaglio dell’incidente non fu mai capace di rivelarcelo! Magari avrebbe aiutato nell’indagine: l’assassino di mia madre  e mia sorella non fu mai preso. Anche perché, non ci furono testimoni!”, sibilò minaccioso, esercitando una preoccupante pressione sulla delicata porcellana della tazza.

“Di qualsiasi cosa si tratti”, dissi lentamente, “sarebbe meglio, che restasse dimenticata per sempre: credimi, anche se Milo non se la ricorda, ho assistito, quanto questo ricordo lo faccia soffrire! Di quanto si senta in colpa!”

“E appunto per questo che lo voglio sapere!”, dichiarò sinistramente Saga, fissandomi obliquo, gli occhi scintillanti come le fiamme dell’inferno. Un sorrisetto malizioso gli deformò l’angolo della bocca.

Trattenni il fiato per un istante: se in quel momento si fosse alzato per strangolarmi, non mi sarei sorpreso più di tanto.

 

***

 

“Dorme ancora?”, s’informò Kanon, levando gli occhi dal suo volume di H&R Management. Aiolia, scendendo dalle scale, confermò, stiracchiandosi le braccia placidamente felino. “Non è normale: mai stato così dormiglione … saranno le undici e mezza ormai …”, commentò pensoso, rosicchiando la matita nel frattempo e ritornando alla lettura. Ancora una volta, il lionceau convenne con lui e, preso il libro di chimica, si sedette accanto al gemello minore, iniziando a compilare gli esercizi per la settimana a venire.

Il campanello suonò adirato.

“Vado io”, annunciò a nessun in particolare Maman, dirigendosi verso l’entrata. Fece appena in tempo ad esclamare: “Ah salut, Marin c’est toi!”, che Aiolia, balzando come ustionato dalla sedia, galoppò all’ingresso più veloce della luce, passando sotto il braccio della padrona di casa e sistemandosi in mezzo alle due donne.

“Salut Marin!”, la salutò raggiante, sistemandosi contemporaneamente il maglione e i capelli in maniera più decente. Meno entusiasta, la giovane ricambiò il suo saluto, chiedendo se per cortesia poteva conferire a tu per tu con i ragazzi. Prima che Maman potesse replicare, Simba trascinava già dentro casa Nala con piglio molto animalesco.

“Et bien, ma belle, cosa posso fare per te?”, le domandò Aiolia rasente ad un euforica ubriacatura, parcheggiando la ragazza su di una sedia in cucina accanto a Kanon – che l’accolse radiosamente incredulo per quell’inaspettata visita– e tampinandola con le proposte cibarie più assurde. “Vuoi un succo di frutta? Del the? Una cioccolata? Caffè? Dolci? Croissant? Brioche? Dimmi tutto!” si offrì anche fin troppo volonteroso, sporgendosi indecentemente in avanti sul tavolo. Di riflesso, la vicina di casa indietreggiò, arcuando interdetta il sopracciglio. “Dai, dimmi pure quel che desideri!”

“Ah ouais?”, si riscosse la rossa, tamburellando ora le dita sul tavolo e ricordandosi il motivo per il quale aveva bussato alla porta di casa dei vicini. “Allora, vorrei sapere dove accidenti è finito mio fratello Toma!”

“Ma tu guarda!”, si arrotolò come un Bretzel Aslan, tutto il suo entusiasmo svanito in un nanosecondo. “Pare che oggi ognuno stia cercando il proprio fratello scomparso!”

“Non scherzare!”, lo rimbeccò seccata Marin. “Che fine ha fatto Toma? Era venuto per portare qui il termometro e non è più rientrato a casa!”

Inconsciamente, Aiolia si voltò verso Kanon, il quale, gonfiandosi come un tacchino, protestò scandalizzato: “E no, eh! Basta accusarmi di ogni male in terra! Chi sono, il vostro capro espiatorio? Eppoi, gli under17 non riscontrano i miei gusti! Puzzano ancora di latte!”

“E ti pare, che io vada a sequestrare i figli dei miei vicini di casa? Siamo matti!”, si difese prontamente il lionceau, mettendo in avanti i palmi, dopo essersi annusato furtivamente i capelli, onde verificare la teoria sul latte under17 del fratello maggiore. “Non è mai arrivato qui, davvero! Infatti, vi stavamo per chiamare al telefono  e …”

“Ma allora … se lui non l’ha visto … e neanche tu …”, lo interruppe la rossa, cogitando ad alta voce. “Chi …?”

In sincronia perfetta, i due Valavitis rimasti girarono la testa in direzione del piano superiore.

Poi, salirono di corsa a quattro a quattro i gradini, Marin in testa. “Milo, apri la porta! Tanto lo sappiamo che … che non stai dormendo!”, gli intimò Kanon perentorio, bussando vandalicamente.

Niente.

“Milo, conto fino a tre! Poi sfondo la porta e la ricompri tu!”, diede il suo ultimatum.

Silenzio.

“L’hai voluta tu!”, ringhiò infine il gemello minore, colpito appieno nella sua vanità di fratello maggiore. “Preparati!”ed estrasse la forcina d’emergenza, infilandola nella serratura e armeggiando con maestria, degno erede della Pantera Rosa.

Click. Il meccanismo cedette e i tre poterono penetrare nella camera da letto dello scorpion, il quale, apparentemente, stava sul serio riposando: dal piumino spuntava infatti un’arruffata zazzera biondo oro e gli invasori si domandarono, se non fossero stati troppo precipitosi nelle loro conclusioni. Tuttavia, essendo l’istrionismo greco un fattore non da sottovalutare in casa Valavitis, Kanon, giusto per accertarsi, si appropinquò al letto, scostando delicatamente le lenzuola.

“SALE CARFARD D’UN SCORPION LUBRIQUE EN MANQUE DE VIERGES FESSES DE PINGOUIN ROUGE!!!”, ruggirono le trombe di Gerico in tutta la loro apocalittica gloria, scuotendo le pareti di casa e risvegliando dal loro sonno eterno i morti e stramorti e ultrastramorti. “Come ha osato corbellarci così?! Appena lo piglio, fratello o no, lo svergino con la mia stessa v- …” e si morse la lingua, essendovi presente una demoiselle.

L’allievo aveva superato il maestro: tra le mani tremanti di collera del gemello minore, giaceva un fantoccio con addosso una parrucca bionda e sul viso dipinta una grandguignolesca smorfia di sfottò. Inoltre, a completare la scena rispondeva all’appello la finestra aperta dalla quale il bicho, reinventandosi Scorpion Man (tanto sempre apparteneva alla famiglia delle aracnidi velenose), era evaso, sgattaiolando fuori di casa indisturbato e chiedendo gentilmente un passaggio a Toma in centro città. (Quest’ultima era la versione più ottimista. Voci indiscrete narrano di un atterraggio a mo’ di lottatore di wrestling sul ragazzo, costringendolo poi a portarlo in centro.)

E non era tutto. Sul suo comodino, aperto inesorabilmente sulla data di oggi, faceva capolino l’agendina nera di Saga sulla quale vi era scritto l’indirizzo del dottor Chantel. Comprendendo subito, dove il gemello maggiore volesse andare a parare, Kanon dopo un ultimo possente urlo di guerra acchiappò fratello e candidata cognata e li trascinò in garage, sbattendoli dentro la macchina di Mamie senza tante cerimonie.

Quando M. Christophe li incrociò poco prima che partissero, domandandogli dove accidenti se ne stessero galoppando così invasati, Kanon replicò serissimo in volto: “A confessarci!” e mise in moto il motore, dando un’accelerata neanche si trovasse al Grand Prix di Montecarlo.

 

***

 

La candida porta del salottino si aprì, interrompendo il muto dialogo di sguardi tra Saga e me, un carosello di accusatrici domande rimanenti costantemente senza un’ostinata risposta, solo una caparbia risoluzione cui alcun compromesso poteva mitigare. Ci voltammo contemporaneamente, non appena il  dottor Chantel fece capolino nella stanza, fissandolo entrambi attenti seppur il mio fratellastro con una poco rassicurante aria carnivora, io intimamente ansioso per la spiacevole piega  che l’intera faccenda stava prendendo. Pian piano, la mia mente veniva corrosa dal dubbio che forse il mio “rapimento” non fosse stato del tutto casuale.

Sperai di sbagliarmi.

“Posso esservi utile?”, inquisì il padrone di casa, scrutandoci di sottecchi, in particolar modo il gemello maggiore che ricambiò la sua occhiata indagatrice, alzando bellicoso il sopracciglio. Lentamente, egli si pose in piedi, avanzando di qualche passo verso l’uomo, che, sebbene fosse di stazza notevole a confronto della media nazionale, appariva lo stesso più basso e mingherlino se comparato al giovane dinanzi a lui.

“Mi rammarico, che voi non vi sovveniate di un vostro paziente di lunga data”, rispose invece Saga, sorridendogli ambiguo. Il dottor Chantel aggrottò la fronte accigliato, frugando nella memoria in quale occasione avesse curato quel giovanotto pallido dai capelli corvini. Finché, un volto più giovane ed infantile affiorò dagli abissi della memoria: la somiglianza a suo giudizio pareva azzardata, ma si sa, in otto anni l’aspetto fisico di una persona può mutare parecchio.

“Sei … no, impossibile! Sei il piccolo Saga Valavitis?”, gli domandò o la conferma o la smentita. Il gemello maggiore optò per la prima soluzione, anche se “piccolo” ormai non era più aggettivo adatto a lui. Il tutto sempre con quell’obliquo sorriso da Monna Lisa dipinto sulle labbra.  “Ah, che piacevole sorpresa! Tiens, tiens, non ti avevo proprio riconosciuto: ti ricordavo biondo e senza occhiali, enfin, con le lenti a contatto. Ipermetropia, se non sbaglio!”, mormorò tra sé e sé, studiando gli occhi del mio fratellastro, segno di una lieve deformazione professionale non metabolizzata neanche dalla pensione, giacché infatti, quando fu il mio turno di presentarmi, il dottor Chantel ripeté quel certosino studio sui miei bulbi oculari, commentando quanto apparissero sani e addirittura possessori di iridi di un grazioso e peculiare colore.

“E adesso, chi è che ti ha in cura?”

“Il dottor Bartas, quando sono in Francia; altrimenti il dottor Kelner a Münster. Ultimamente mi si riferisce, che ho subito una notevole perdita di diottrie; si parlava di cura al laser o di andare in giro col cannocchiale!”, dichiarò falsamente amabile Saga, mentre rioccupavamo i nostri posti assieme al nostro anfitrione.  “Piuttosto, stavo giusto raccontando al mio fratellastro le ottime cure da voi ricevute, all’epoca in cui mia madre ed io frequentavamo il suo ambulatorio …”, dirottò abilmente il discorso là dove lo interessava maggiormente. Tentai di replicare smentendolo, sennonché il dottor Chantel mi anticipò, affermando modesto:

“Mi lusinghi, tuttavia è naturale, che un mestiere che piace lo si svolga sempre con dedizione e passione!”

“Suvvia, finché esercitavate, la fama di miglior oculista delle Landes era vostra!”, lo adulò velenoso Saga, con l’obiettivo di gonfiare il suo ego fino ad abbassargli le innate barriere della cortese circospezione verso gli estranei. “Mia madre aveva un’altissima considerazione di voi; sosteneva, che avreste dovuto trasferirvi a Bordeaux o addirittura Parigi!” e lasciò cadere l’amo, cui l’uomo abboccò ingenuamente, sospirando a lungo per il ricordo evocato.

“Ah oui! Povera Anaïs! Così dolce, piena di vita, solare! Posso immaginare quale perdita abbia significato per voi!” e tamburellò le dita sui braccioli della poltrona, lo sguardo d’un tratto opaco. Approfittandone subito, il gemello maggiore lo incalzò implacabile.

“Forse”, insinuò perfido, rigirando tra le lunghe dita la chicchera di porcellana. “Allora, comprenderà anche quanta rabbia sia stata provata assieme al dolore, poiché l’assassino non pagò mai per il suo crimine!”

Spostandosi incomodo sulla poltrona, il dottor Chantel s’informò del perché di questa sua affermazione. Serafico, Saga gli spiegò conciso che il conducente del furgoncino si macchiò, oltre che di duplice omicidio colposo, anche di omissione di soccorso, giacché sgommò via non appena si rese conto dell’indescrivibile danno compiuto.

“E’ un peccato, che non ci furono testimoni”, commentò laconico l’anziano medico in pensione. Lo scrutai attento, notando come i suoi muscoli facciali si fossero repentinamente tesi, così come la stretta ai braccioli fatta più serrata. Lanciai una rapida occhiata a Saga: la sua espressione da segugio che aveva trovato la sua volpe confermò i miei sospetti.

Il suo sogno non era dunque il frutto di casuali proiezioni oniriche: no, il dottor Chantel sapeva qualcosa. Ma Milo? Che ruolo aveva lui in questo tragico Grand Guignol?

“Dei testimoni ci sono sempre …”, ribatté placidamente sornione Saga, giocherellando col coltello per tagliare la brioche. Dovetti trattenermi a viva forza dall’impulso di levarglielo di mano, tanto quelle agili quasi circensi acrobazie e piroette tra le sue dita mettevano in agitazione. Non fui il solo: anche il nostro anfitrione pareva ad ogni secondo sempre più a disagio. “Il problema è che raramente si fanno avanti. Che  cosa orribile … l’omertà!”, concluse in un secco sibilo, puntando accusatori gli occhi zaffiri contro l’uomo.

In silenzio, il padrone di casa annuì piano.

“Dottor Chantel, vi vedo turbato: forse, non sarei dovuto essere così brutale, l’argomento è pur sempre arduo da digerire, non è vero? Dev’essere stata davvero terribile per voi, congedare una vostra paziente e venire a conoscenza neanche ventiquattrore dopo, che lei e sua figlia erano morte, mentre un terzo figlio si trovava in coma!”

In un guizzo, l’uomo si mise in piedi, dirigendosi a grandi falcate verso la finestra. “Come … come lo sai?”, balbettò, girandosi nervosamente verso di lui. Saga si schernì modesto, reclinando lieve il capo. In realtà, non mi era sfuggito l’insano bagliore trionfante nelle sue iridi.

“Non lo sapevo: ho sparato a caso … In ogni modo, negate forse che il pomeriggio del 8 novembre 2001 voi avevate un appuntamento con mia madre per un check agli occhi? Lo negate?”, infierì il gemello maggiore, sporgendosi in un violento scatto in avanti.

“Sì, è così … dovevo consegnarle i risultati di certe analisi, io non … non immaginavo che fosse … che fosse rivelante alle indagini!”

In un nervoso balzo, Saga fu a sua volta in piedi. Rapido, lo imitai, pronto a bloccarlo in caso la collera lo spingesse a qualche malagrazia verso padrone di casa. “Non era rilevante?”, berciò, tremando da capo a piedi. “Non era rilevante? Mon Dieu, Isabelle era alla guida! Aveva appena conseguito il foglio rosa, non era una guidatrice esperta, ergo non ha fatto in tempo ad eseguire la manovra che li avrebbe salvati! Perché? perché questo? Perché non c’era mia madre al volante? E perché lei è venuta da voi? Che analisi le dovevate consegnare?”

“Ma … forse tua sorella voleva far pratica! Che ne posso sapere io!”, si difese il dottor Chantel indietreggiando e rispondendo solo alle domande che gli facevano più comodo. Instancabile, Saga lo aggredì ulteriormente:

“Menzogne! Voi lo sapete! Ditemelo!”, lo intimò in un sordo mugghio.

“Il segreto professionale …” fu l’ultima spes dell’uomo, sbattendo le spalle al muro. Celere, il gemello maggiore gli si parò innanzi, bloccandogli ogni via di fuga.

“Al diavolo! Siete già stato un vigliacco una volta, abbiate il fegato di non ripetervi una seconda! Non parlaste allora, riscattatevi adesso! Dite: quali analisi consegnaste a mia madre?”, ringhiò minaccioso, costringendomi ad afferrarlo per il braccio, trascinandolo indietro di qualche centimetro, temendo che il dottore potesse poi rifarsi su di lui accusandolo di pestaggio. Evidentemente, la scenata ebbe l’effetto desiderato, poiché alla fine l’uomo crollò, dichiarando in un flebile  e frettoloso squittio:

“Va bene, va bene! Parlerò! Sì, tua madre era venuta nel mio ambulatorio  su appuntamento! L’ultima volta in cui veniste tu e lei, trovai nelle sue analisi gli evidenti sintomi del glaucoma! Così, le telefonai per una rapida visita d’urgenza, lo sai quanto in fretta bisogna agire una volta diagnosticato il glaucoma! Volevo darle le analisi, nulla di più! E …”, deglutì a fatica. Spazientito, il gemello maggiore lo spronò a continuare. “E lei mi rispose che, siccome era in centro per comprare il regalo ad un tuo fratello, si sarebbe senza dubbio recata da me verso tardo pomeriggio. Dopodiché è andata via … non so nient’altro, avevo un paziente dopo di lei, non ho mai lasciato la clinica lo giuro! Non so niente!”

Intanto, nel vestibolo percepii una concitata conversazione tra la cameriera e un terzo visitatore. Fissai ansioso la direzione dalla quale proveniva il rumore. Seigneur, fa’ che non sia lui … te ne supplico …

“Neanche noi sappiamo niente! Come posso fidarmi? Non furono mai trovate quelle analisi nei suoi oggetti personali! Chi mi assicura, che non stiate mentendo?”

Sorridendo nervosamente, il dottor Chantel gli rivelò: “Le aveva lasciate nel mio studio: infatti, fu distratta da qualcuno, che la costrinse a seguirlo in fretta e furia, dimenticandosele! È la verità! Se non mi credete, posso presentarvi le analisi!” e fece per dirigersi alla porta, sennonché Saga lo bloccò per il braccio, riportandolo indietro.

Un urletto di femminile indignata protesta. Il rumore implacabile di passi decisi.

“Sicuro, che le voglio vedere: ma domandate alla vostra bonne di portarle!”, gli consigliò minacciosamente affabile. “Tuttavia, diceste che qualcuno attirò l’attenzione di mia madre, tanto da turbala al punto da scordarsi le analisi. Ebbene, chi è costui? O costei?”

In evidente affanno, il padrone di casa si inumidì le labbra.

I passi si fecero sempre più vicini.

“Saga … basta così …”, ansimai, scacciando via dalla mia mente la terribile ipotesi da poco formulatasi. “Non servirà a niente …”, ma venni scacciato via come un moscone molesto.

“Chi?!?”

Lo scatto della serratura. “Monsieur, il dottore ha in questo momento ospiti e …”, protestò la cameriera, cercando di trattenere il nuovo arrivato.

“C’était moi!” , dichiarò quegli con voce chiara e decisa.

Chiusi gli occhi, appoggiandomi al mobile poco distante.

Il viso del dottor Chantel mutò dello stesso colore della farina di grano 00.

Il ghigno di Saga divenne impossibilmente grottesco. “Je vois …”, sussurrò lentamente, passandosi la lingua sui candidi denti. “Le voilà enfin, le quatrième côté du triangle!” (Eccolo infine, il quarto lato del triangolo, ndr.)

Il visitatore rimase in silenzio, affrontando risoluto il gemello maggiore, il quale lo invitò a sedersi sulla poltrona con un secco e impaziente gesto. “Mi rincuora, che tu abbia ritrovato infine la memoria!”, si congratulò beffardo. “Nevvero, Milo?”

 

***

 

“Cretino! Idiota! Cretino! Idiota! Cretino! Idiota! Cretino! Idiotacretinoidiotacretino …”, imprecava ad ogni giro di volante Kanon, zigzagando per le strade del centro storico, ascoltando a metà le indicazioni di Aiolia circa l’ubicazione della maison del dottor Chantel. “Io gli metto un microchip dietro l’orecchio … oh se lo faccio! Più collegato al satellitare e con scossa annessa, se va dove non mi aggradaaaaahhh!!!”, ululò, pigiando in un rombo di motori l’acceleratore per ripartire dopo il rosso.

I tre moschettieri difensori della Pax Domi avevano intrapreso una spericolata corsa automobilistica ai limiti del ritiro della patente, pur di arrivare in tempo ovvero nei loro piani d’intercettare Toma e Milo. Per quanto Kanon si fosse limitato ad una rapida e concisa spiegazione sui motivi, che avevano spinto il suo doppio a recarsi dal suo ex oculista, molti dettagli rimanevano oscuri e bene era, ché i suoi due ascoltatori non congetturano ipotesi tanto ottimiste a riguardo.

“Eccolo là! Eccolo là! Accosta, Kanon, accosta!”, gridò Marin concitatamente, mulinando il braccio in direzione di un ragazzo rosso sui sedici anni, che stava riavviando il motore della moto.   Roteando il volante neanche fosse il timone della HMS Victory, il gemello minore affiancò il giovanissimo centauro. “Finalmente, Thomas Armand Giraud! Dov’eri finito?”, sbraitò la sorella, pigliandolo per l’orecchio. Inutile aggiungere, quanto Aiolia gongolasse alla scena: il suo futuro (anteriore) cognato gli era risultato antipatico sin dal primo “Salut!”

“Grand soeur!”, protestò Toma, tentando di divincolarsi dalla presa ferrea della ragazza. “Ho solo dato un passaggio a Milo! Non ho fatto nulla di male!”

“Ah no?”, ruggì Kanon, sporgendosi fino ad uscire a momenti dal finestrino e spiccicando nel frattempo Aiolia al sedile. “Parla, bestia! A quale indirizzo lo hai portato?”

“Alla maison della marchesina Des Barras, enfin, Des Barras – Chantel …”, fece confuso il rosso, guardando disorientato i tre astanti, i cui peggior timori vennero confermati.

Silenzio del progettista.

“Marin, noi ci rechiamo dall’oculista: grazie per averci accompagnato, ma questa faccenda la dobbiamo concludere una volta per tutta tra noi!”, le disse il gemello minore, riallacciandosi la cintura e avviando il motore. La vicina di casa annuì, segno che aveva compreso.

“Avrà mai una fine, Nônon?”, inquisì abbattuto il lionceau, osservando dallo specchietto retrovisore i due fratelli farsi sempre più piccoli, fino a scomparire alla prima curva.

“Oggi, lo avrà!”, gli promise quegli risoluto, scalando con forza la marcia.

 

***

 

“Nevvero, Milo?”

Il ragazzo si rifiutò ancora di parlare, socchiudendo invece la porta del salottino.

“Ora comprendo, cosa intendevi quando, appena risvegliatoti dal coma, dicesti: “Bisognerà curare Maman … l’oculista le ha rivelato una brutta malattia …” per poi chiuderti nel tuo silenzio catatonico. Ah! Che sciocco fui a non darci subito il dovuto peso! Prima però illuminami in che occasione ritrovasti la memoria, che né otto anni, né le cure forniteti furono sufficienti a fartela recuperare!”, gli intimò un irriconoscibile Saga, il volto trasformato in una demoniaca maschera di collera ed eccitazione.

Silenziosamente, mi portai più vicino a Milo.

“Lunedì”, incominciò quegli atono, lo sguardo perso in un punto vuoto “lunedì mattina ho incontrato il dottor Chantel. Enfin”, si corresse subito, intercettando la protesta dell’anfitrione “fu puramente casuale. Ci eravamo imbattuti nel corridoio, veniva a ritirare delle analisi. Così mi disse, dopo esserci salutati. Mi sentii turbato appena lo vidi, seppur ne ignorassi il perché. Fu in tarda mattinata, durante la processione funebre di Pierre Renard, che ricordai appieno ogni cosa.”

“E … e tacesti con noi?”, la voce del gemello maggiore era ridotta ad un isterico mormorio. “Con me?”

“Sì”, rispose semplicemente Milo, il suo tono invece sempre distante ed incolore.

“Perché?”

“A che cosa sarebbe servito?”

Dapprincipio, Saga ripeté incredulo la frase appena proferita, assaporandone lo strano sapore; poi, afferrando il fratello repentinamente per le spalle, prese a scuoterlo con tale violenza, che temetti volesse spezzargli l’osso del collo. “Sarei stato io a giudicarlo! Io! Capito? Io!”, berciò impazzito, rifilandogli un possente manrovescio, che sbatté il ragazzo per terra.

Inerte, Milo replicò sommessamente: “Lo so, Saga. Lo so!”

 

“Sente  dolore?”

“Molto, dottore.”

“Da quanto?”

“Settimane, credo. Prima saltuariamente, poi con maggior regolarità.”

“Uhm …”, il medico abbassò la speciale torcia e lasciò libero il volto di Madame Anaïs, dirigendosi verso la sua scrivania. “Uhm …”

“Ebbene?”, domandò calmissima la donna, girandosi nella sua direzione.

Osservandolo attentamente, l’uomo commentò allusivo: “Speravo che me lo diceste voi, Madame.”

Ma ancora una volta, la signora non si scompose. “Lei è il medico, non io!”

“Hélas, i risultati delle analisi purtroppo confermano ciò che voi già sapete”, dichiarò il medico, incrociando le braccia e portandosi accanto alla ritta e rigida  Madame Anaïs, la quale inquisì atona:

“Non sono buoni?”

Appoggiandole la mano sulla spalla a mo’ d’incoraggiamento, l’oculista ribadì lentamente: “Non sono buoni.” Sospirò a lungo. “Certo, dovremmo sottoporvi a delle definitive analisi di accert- … oulà, Madame Valavitis! Dove state andando …?”, fece perplesso, notando come all’improvviso la donna si fosse alzata bruscamente in piedi, volando verso la porta dello studio, che spalancò con veemenza.

Alla povera Madame mancarono all’appello numerosi battiti cardiaci, quando vide fuori dall’ambulatorio medico suo figlio Milo pallido, tremante e con gli occhi follemente dilatati.

“Milou …”, mormorò la madre, allungando il braccio, ma il bambino indietreggiò inebetito e confuso, scappando poi via quasi avesse i diavoli dell’inferno alle calcagna. “Milou! Isabelle, corrigli dietro!”, ordinò alla ragazza seduta in sala d’aspetto, la quale annuì, precipitandosi nell’inseguimento. “Scusatemi, dottor Chantel, ma temo che debba proprio andare. Se vengo lunedì alla stessa ora per un accertamento, va bene?” e appena ricevuta la conferma dell’uomo, ella corse via dalla stanza senza guardarsi indietro.

 

“Sei stato tu …”, mormorò assente Saga, guardandosi inebetito attorno; quanto a me, non riuscii a non provare un’immensa pena per i miei fratellastri: per quanto trovassi crudele il giochetto tirato a Milo da parte del gemello, potevo percepire a fior di pelle il loro comune e tremendo dolore. “Hai origliato e … e sei scappato via … così loro ti hanno seguito e poi … l’incidente …”

Altrettanto inespressivo, Milo annuì in un silenzioso cenno del capo.

“Maledetto …”, fu l’unica parola che fuoriuscì dalle labbra di Saga, implacabile come una condanna, che il ragazzo non contestò, si limitò ad incassare mite.

All’improvviso, il fratello più anziano fu sopra il minore, atterrandolo con un pugno allo stomaco e tempestandolo poi una volta a terra di dolorosi colpi a caso. “Disgraziato! Perché non te n’eri rimasto tranquillo in sala d’aspetto? Eh? Che ti costava attendere ancora un poco? Lo so io, il motivo! Perché stava chiudendo il negozio dei giocattoli, vero? Lo volevi a tutti i costi il tuo assurdo regalo! Sei sempre stato un piccolo, lurido, bastardo egoista! Perché non sei crepato tra le macerie, perché?”,  e lacrime di rabbia e sofferenza presero a colare dagli occhi cremisi del gemello.

“Tu ignori quanto lo abbia desiderato! Lo ignori quanto avrei preferito, che i posti fossero stati invertiti, che io fossi morto, mentre Maman e Isabelle ancora in vita!”, lo rassicurò Milo, accettando docilmente quella che lui considerava la giusta sua punizione, evitando così di difendersi dai ceffoni e pugni.

Al diavolo.

“Smettetela voi due!”, gridai, interponendomi tra il boia e la sua vittima. “Smettetela! Non risolverà niente! Dottore, mi aiuti a separarli!”, ma il dottor Chantel era immobilizzato dalla paura contro la parete.

Appurando dunque, che non avrei potuto far in alcun modo affidamento sul suo appoggio, cercai freneticamente un  oggetto, che potesse essere utile al mio scopo: infatti, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a far indietreggiare Saga di un centimetro, neanche la corporatura del giovane appartenesse allo stesso materiale delle sculture di Rodin.

Dio ci salvi dalla forza nervosa e animale dell’uomo.

Finalmente, focalizzai il  mio strumento, pigliando il vassoio e calcolando rapido la traiettoria più dolorosa, scusandomi a mente col mio fratellastro per quel tiro mancino a tradimento. Tre … due … uno …

Patsciòooookk!!!

A onor del vero, non lo smosse neanche di un millimetro – con mio sommo orrore -  e tuttavia, mi concesse quell’attimo di distrazione, quando si voltò per vedere chi fosse stato il folle kamikaze a prenderlo a vassoiate, onde sottrargli il mio bicho dalle grinfie e porlo al sicuro dietro di me. Ebbene sì, mi eressi a suo scudo umano, spalancando a mo’ di crocefisso le braccia e gonfiando tutte le penne, sperando di apparire leggermente intimidatorio. Una pia speranza, ma che mi fossero cavati gli occhi, se avessi permesso al gemello di ritornare a pestare Milo in quella brutale maniera. Nessuno doveva picchiare nessuno in mia presenza. Nessuno!

“Levati di mezzo, Camus! Non sono affari che ti riguardano!”, sbraitò Saga, bloccandosi sul posto.

Pieno del coraggio di chi non aveva nulla da perdere, se non qualche paio di denti, replicai più composto, riutilizzando le loro stesse parole di lunedì scorso: “Non credo proprio! Sono vostro fratello! Nonché il fidanzato ufficiale di Milo, ERGO tutto ciò che lo concerne è ANCHE affar mio! E non sarai di certo tu a convincermi del contrario!”, fu la mia dichiarazione di guerra, cui già intravedevo il mio mesto finale all’ospedale. Vabbè, ci ero abituato.

“Saga ha ragione: non devi intrometterti!”

“Stai zitto, te! Se devo morire massacrato di botte, almeno che sia per una giusta causa e solo dopo che voi due vi sarete levati un po’ d’immondizia dalla testa, contemplando finalmente la vera realtà delle cose!”

“E’ presto detta”, sibilò Saga, indicando Milo col capo “per colpa sua Maman ed Isabelle sono morte!”

“Balle! Non è assolutamente vero e tu lo sai! Solo che entrambi vi rifiutate ostinatamente di accettare una volta per tutte la verità! Un capro espiatorio è molto più comodo, eh? Maledizione, vi credevo più maturi, invece vedo due bestie che si azzannano a vicenda! Anzi no, due cuccioli di animali, ché loro hanno più giudizio di voi!” e osservai piuttosto compiaciuto l’effetto delle mie parole sui due contendenti: per quanto volessero negarlo, l’aura assassina di poco fa stava lentamente scemando.

“Spostati, Camus, non costringermi a colpirti!”, fu l’ultimatum del gemello maggiore, seppur lui per primo poco convinto.

“Et bien, fallo allora! Avanti, sfogati su di me e poi dichiarati soddisfatto!”, lo provocai impettendomi, il cervello completamente in oca e domandandomi se Mamie avesse ancora nel freezer una borsa di ghiaccio. Ne avrei avuto mooolto bisogno dopo, oh que oui!

Vidi il dubbio agitarsi nelle iridi di Saga; vidi la sua esitazione. Poi, vidi solo il suo pugno che si levava su di me.  Infine, Milo che mi scostava dalla sua traiettoria.

E …

Una mano serrò il polso del gemello, bloccandola a mezz’aria. “Interessante notare, come la porta di servizio sia sempre quella chiusa peggio, se non proprio lasciata aperta. Ah, le case aristocratiche: in Francia o in Inghilterra o nel Burundi sono sempre uguali!”

Quattro paia di occhi furono addosso a Kanon, che, comparso alle spalle, tratteneva il suo doppio a viva forza, spingendolo lontano da Milo e me, intanto che Aiolia, dopo essersi scusato col dottor Chantel per l’invasione barbarica in casa sua, ci portava ulteriormente fuori dal raggio d’azione del fratello maggiore, informandosi sulla nostra salute o meglio, quella del bicho, il quale aveva un’aria sul serio malconcia.

“Ti vuoi calmare, bon sang?”, sbuffò per lo sforzo Kanon, storcendo la bocca in una smorfia, ogniqualvolta si beccava una gomitata o due dall’indiavolato gemello.

“Tu non hai sentito … tu non sai … quella persona ha detto …”

Quella persona è nostro fratello, innanzitutto!”, inveì sul serio arrabbiato il minore, riuscendo a sbattere contro il muro Saga, ansimando pesantemente. “Lo stesso, per il quale passasti tutti i pomeriggi ad assisterlo in ospedale, quand’era in coma! O anche tu hai perso la memoria, adesso?”

“Ignoravo, che razza di vipera malefica si fosse salvata a discapito di Maman ed Isabelle! Nostra madre andò dall’oculista e le fu diagnosticato il glaucoma! In sala d’aspetto c’erano nostra sorella e lui, il quale dopo aver origliato la notizia se ne scappò via, costringendole a seguirlo! Hai inteso? Se lui non si fosse mosso, loro sarebbero ancora vive!”, sbraitò Saga, livido in volto. Aiolia e Kanon trattennero il fiato, sconvolti alla notizia. D’istinto, strinsi la mano a Milo, che ricambiò con altrettanto fervore. “E il peggio, è che la memoria al signorinello è ritornata, sai? Da lunedì … e lui … lui se l’è tenuta dentro, pur sapendo quanto la cosa fosse importante!”

“Per te!”, gridò Aiolia, prendendo per la prima volta parola. Fulminandolo con lo sguardo, Saga replicò gelido:

“Per noi!”

Silenzio furiosamente rancoroso.

Sospirando a lungo, Kanon affermò, abbassando di molti Hertz il tono di voce: “Va bene, Milo ha fatto una sciocchezza a comportarsi così, ma … ma Cristo aveva nove anni! Intendi? Nove anni e non poteva immaginare una conseguenza così terribile al suo gesto! Saga”, lo richiamò, afferrandogli il volto con ambedue le mani e scrutandolo intensamente “perché ti ostini a rivangare il passato? Non le farà ritornare in vita!”

“Non capisci … Loro sono morte, Kanon …”, respirò affannosamente il suo doppio, lottando contro il nodo alla gola formatoglisi. “Sono cibo per vermi e nessuno ha pagato … nessuno … solo noi …”

“E’ ingiusto, lo sappiamo. Ma non è prendendotela con Milo, che risolverai la faccenda! Tu e lui siete stati due idioti con la I maiuscola! Come hai potuto pensare, che il tuo gesto avesse ucciso Maman e Isabelle?”, si rivolse  Aiolia a Milo, che abbassò ancora di più lo sguardo vergognoso. Gentilmente, lo costrinsi a rialzarlo.

“Kanon ed Aiolia hanno ragione: vi state pugnalando per qualcosa, di cui nessuno ha la colpa! L’unico che dovrebbe qui pagare è il balordo, che sbandò contro l’auto! Che omise di soccorrere vostra madre, sorella e te stesso! Ecco, chi è l’unico colpevole!”, mi voltai deciso verso i miei fratellastri, osservandoli uno ad uno. Non mi sentivo così degno e capace da risolvere la loro vicenda famigliare, oh no!, ciononostante, se potevo dare il mio piccolo contributo, lo avrei fatto senza rimorsi. Ormai mi erano divenuti cari, non volevo che soffrissero ulteriormente. Eravamo una famiglia, la mia famiglia.

“So quanto abbia significato la perdita di un genitore per voi! Anch’io l’ho perso! Mio padre, benché biologicamente vivo, è morto quando avevo cinque anni: si lavò le mani di me e fece …  fece altro che potrebbe equivalere benissimo ad un decesso affettivo. So che significhi crescere senza una figura, che ti possa guidare, consigliare, rimbrottare e correggere. Lo so! Quel che io non ho conosciuto, contrariamente a voi, è stato l’affetto che questa persona nutriva nei vostri confronti e che mai, mai e poi mai potrebbe morire, finché voi resterete uniti in suo nome. Vostra madre è morta, però … però i suoi ultimi pensieri sono stati per voi! Anche in punto di morte, vi ha benedetti del suo amore! E sono sicuro, che in questo momento stia ancora vegliando su di voi! Non voglio fare ora la vittima, ma io … io questo dono non l’ho mai ricevuto da mio padre! Mi ha sempre rifiutato, disprezzato e l’ultima volta che ci siamo incontrati lui …”, chiusi gli occhi, sopraffatto dal ricordo. Poi, sforzandomi, ripresi con più vigore di prima “… mi ha rivelato quanto fossi stato per lui un intralcio! Uno scherzo della natura! Mi ha … mi ha augurato ogni male! Di crepare! Ecco, l’affetto di quell’uomo!”, mi coprii gli occhi con una mano, respirando a pieni polmoni. Potevo farcela, dai, non dovevo interrompermi proprio ora!

“Perciò”, continuai “vi scongiuro non feritevi così! Quel che vi siete urlati è terribile, però so che non lo pensavate sul serio! A che pro accusarvi a vicenda? Che ci guadagnate? Gli unici lesi sarete sempre voi alla fine! E se non vi va di farlo per voi stessi, fatelo per questo pinguino frignone in manca di affetto!”, eruppi, battendomi il petto a mo’ di King Kong. “Voi siete stata la cosa più bella che mi sia mai capitata in tutta la mia vita e soffro anch’io come un cane, nel vedervi così! Oh, che diavolo! Ora siete la mia famiglia! E appunto per questo, non voglio più scene come quella cui sono stato costretto ad assistere oggi! Vi sbatto fuori tutti sotto i ponti! Basta, basta così! Almeno in casa … per favore …”

Un pesante silenzio piombò sulla stanza, non una sola mosca osava fiatare. Uhm, dovevo averli sul serio tramortiti col mio discorso … In effetti, riascoltandomelo in rewind mi suonò un po’ troppo melodrammatico e sconclusionato. Vabbè, ormai il danno era fatto …

“Ho finito …”, annunciai a disagio, notando preoccupato le espressioni imbambolate dei miei fratellastri.

Poi, chi più forte chi più contenuto, non riuscimmo a trattenere un pianto collettivo. Giudicatelo pure folle, strambo, ridicolo, avanti! Vi dirò solo che fu salutare, ci spurgò di ogni rancore, ansia e sofferenza. Lavò via il nero cupo della disperazione, dei sensi di colpa. Ah, ci sentimmo così leggeri poi! Non era una sommaria e sbrigativa assoluzione, no, quella forse non sarebbe mai venuta. Tuttavia, ci aiutò a capire che non siamo soli e circoscritti nel nostro dolore, che coloro che ci stanno accanto e che ci vogliono davvero bene in realtà soffrono quanto noi, se non di più, giacché oltre che alla nostra pena, esse si fanno cargo di quella di vederci prostrati dalle lacrime. Sta a noi accorgerci di questa pudica e stoica prova d’amore, che troppo spesso non scorgiamo, troppo siamo orgogliosi del nostro patimento, eleggendo un martirio personale che potremmo benissimo evitare, se ogni tanto avessimo l’umiltà di ammettere la nostra debolezza e domandare aiuto.

Allo stesso modo facemmo noi quella domenica d’Avvento, stretti l’uno accanto a l’altro e piangenti fino al singhiozzo, come accadde al povero Aiolia.

E a me, ovviamente.

 

***

 

Il ritorno fu consumato nel silenzio più assoluto, dividendoci in due macchine diverse altrimenti se Mamie non ritrovava il suo catorcio erano calci nelle fesses per tutti.

Aiolia, Milo ed io usammo il sopracitato macinino.

Saga e Kanon l’auto di famiglia. Compresi subito il perché di quel gesto: dopo le orribili frasi lanciatesi a vicenda, nonché le mani addosso, né il gemello maggiore né Milo avevano più il coraggio di guardarsi negli occhi. Ciononostante, ero fiducioso che si trattasse di un imbarazzo passeggero.

Il dottor Chantel, seppur molto scosso, ebbe il buon cuore di non denunciarci alla polizia per violazione della proprietà privata, rumori molesti, sequestro di persona, minacce, danni e rissa aggravata.  Forse fu il suo modo per mettersi il cuore in pace col proprio senso di colpa.

Una volta arrivati, fummo accolti dai nostri perplessi genitori, i quali, notando il nostro stato impresentabile, compresero, come solo loro erano in potere di farlo, quali pensieri ci martellassero il cranio e ci lasciarono ritornare mesti nelle nostre stanze.

Portai Milo in bagno, sottraendolo allo sguardo inquisitore di M. Christophe per via delle ferite sia al volto che sul corpo: erano lievi, per carità, ma il sangue rendeva ogni cosa più allarmante di quanto non fosse in realtà.

“Guarda che sono arrabbiato con te!”, esordii dopo dieci minuti buoni di ostinato silenzio. Odiavo, quando il bicho non parlava. Era nocivo e mi metteva un’ansia infinita in petto.

Il ragazzo non reagì, limitandosi a fissare assente la pezza bagnata che intingevo nell’acqua gelida e disinfettante, premendogliela poi delicatamente sulle ferite. Neanche in quel frangente, egli si mosse. Pareva una bambola rotta.

Sospirai.

“Affermare certe bestemmie! Vuoi lasciarmi già vedovo?”, la buttai sul ridere. Poi, ritornando più serio (vabbè, avevo appurato che come comico ero pari a nil) gli domandai: “Perché non ti sei difeso? Tra tutti, sei stato l’unico a non proferire parola, sebbene il grande imputato fosti proprio tu!”, gli accarezzai i capelli, avvicinando il suo capo al mio petto. “Uhm?”

Ancora Milo non fiatò. Socchiuse gli occhi, permettendo che i miei polpastrelli frugassero tra la sua capigliatura fino a trovare la cicatrice dell’operazione chirurgica. “Ero stanco”, disse infine, stringendosi a me. “Ero molto stanco di fingere una forza interiore che non possiedo; di trascinare un lutto che … che …”, s’interruppe bruscamente e affondò il viso sul mio torace, singhiozzando dolorosamente forte, le unghie affondate sui miei vestiti.

“Sh, ne pleure pas! Assez, mon cœur! Ne pleure plus, ma vie !”, sussurrai, continuando a carezzargli lievemente la testa, poi la schiena e cullandolo piano. “Jamais plus!”, ripetei convito, ponendogli un dolce bacio sul capo e accompagnandolo verso il letto, dove ci adagiammo uno avvinghiato all’altro. Subito, Milo s’addormentò sfinito in posizione fetale, la sua mano sempre stretta al mio maglione, quasi temesse che l’abbandonassi. Oh beh, non era mia intenzione. Almeno fino allo stimolo del bagno, quello sì che sarebbe stato un valido motivo.

Comunque …

Rimanemmo in un beato limbo indisturbati, protetti da quel piccolo guscio di reciproco affetto, che pian pianino lui ed io ci stavamo costruendo attorno. Era lontano dall’essere solido e perfetto, ma hé! Roma non era stata costruita in un giorno! E noi, a Dio piacendo, ne avremmo avuti ancora molti a disposizione.

Un timido battere alla porta ci risvegliò, destandoci.

“Scusatemi, stavate dormendo … tolgo il disturbo …”

Rapido, scattai in piedi, andando incontro al nuovo arrivato. “Figurati, Saga. Eravamo svegli!”, lo rassicurai, incrociando le braccia al petto. Povero caro! Aveva un aspetto  a dir poco stravolto, i segni delle lacrime ancora freschi sulle gote. Ci fissammo sospettosi in silenzio per una manciata di minuti, valutando ciascuno la prossima mossa.

“Posso …”, cedette il gemello maggiore per primo, mordendosi a disagio il labbro inferiore. “Posso conferire con … con mio fratello?”

“Devi proprio chiedermi il permesso?”, replicai senza particolare entusiasmo, sorpassandolo per uscire dalla camera. Tuttavia, all’ultimo momento, lo abbracciai forte, sussurrandogli all’orecchio: “Il Signore te lo ha risparmiato; ecco perché sono sicuro che tu non lo odierai mai!” e mi sciolsi da lui, socchiudendo la porta e pregando che i due si chiarissero definitivamente.

Scesi giù per le scale, trovando in salotto Aiolia, che accarezzava mesto il cane. Era proprio vero, che durante il periodo di lutto le armi venivano deposte! Accortosi della mia presenza, il lionceau mi salutò con un tremulo sorriso, minacciandomi poi giocosamente: “Se ti azzardi a dire in giro, che mi hai visto singhiozzare come una tapette, giuro che ti spedisco a Casablanca a calci nelle fesses, dopo averti staccato a morsi la tua pinguinesca codina!”

“Mi pare equo!”, commentai stando allo scherzo. Incrociai poi due dita alle labbra, dando la mia parola di gentiluomo. “E Kanon?”, m’informai, sebbene già intuissi la risposta.

“Appiccicato a Skype in videochiamata con Rhada! Sarà lì ormai da un’ora e mezza! Ah!”, sospirò, slungandosi sul divano. “L’unico che veramente mi fa pena in questo momento è Papa: poverino, non può più neanche consolare i suoi bébé! Ormai siamo grandi … quasi …”, si corresse, dopo averci rimuginato sopra un po’.

Sorrisi. “Forse, però … io ne avrei voglia, enfin, mi piacerebbe essere confortato da Chris- … da Papa!”, dichiarai e vidi come d’un tratto il volto di Aiolia si fosse illuminato.

“Davvero?”

“Ouais!”

“E allora”, affermò di umore più vivace, balzando giù dal sofà. “Andiamo!” e mi tese la mano, che afferrai senza indugio.

“Comunque, ho inviato un sms a Marin, descrivendole il tuo pianto a fontana di Trevi e il singhiozzo da ubriaco poi!”, gli rivelai maligno; ovviamente era una panzana.

“Nah, bastardo!”, la prese sul ridere quegli, passandomi un braccio al collo e dirigendoci assieme nello studio di M. Christophe, anzi no, di Papa, onde sfruttare la triste sindrome del padre solo e abbandonato da figli bell’e cresciuti per un’oretta o due di coccole da gosses viziatissimi.

Era un buon inizio.

 

 

 

 

To be continued …

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Ah! Lo avete voluto, lo avete cercato ed ora io vi elargisco Angst a tutt’allé  *lancia l’angst dal grembiule, danzando in vorticose 32 piroette*

Bien, con questo capitolo si chiudono le vicende del background della famiglia Valavitis. Ora, il prossimo in lista sarà appunto il clan di Camus!

E allora, piccolo spoiler, preparate tutti i bagagli, nel prossimo chappy si andrà a Parigi! E come dicono i francesi “Paris est la France et la France est Paris”, vecchie conoscenze faranno capolino!

Alla prossima, ciao!

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Capitolo 17
*** Paname, Paname - parte prima ***





Koukou!

Sfidando un semestre de fuego, vi presento il 17° capitolo! Purtroppo, scherzi a parte, sono impegnatissima, temo che dovrò cambiare la mia politica degli aggiornamenti!

In ogni modo, mi vorrei scusare coi miei favolosi recensori per non aver loro risposto alle loro bellissime recensioni! T^T Non è stata cattiva volontà la mia, la questione era semplice: il capitolo o le risposte. Adesso che mi riposo un po’, risponderò con calma, promesso!

Grazie ancora a voi lettori e a : Tifawow ; Diana924;  Angel_Dark_Light; Charm_ Strange; Titania76 ; Sagitta72 ; ArcadiaLaNotte, Eno;  Ignis;  Aasa5 e Aurora!

 

Prima di incominciare, vi pregherei di leggere queste piccole info storico –sociali francesi, in modo da poter capire alcuni punti, che potrebbero risultare poco chiari o in contraddizione con i nostri usi e costumi italiani:

·         Allora, rispondendo subito alla domanda di Eno, circa il conseguimento del foglio rosa, in Francia l’esame di teoria viene fatto a sedici anni; poi, per due anni, il patentando dovrà eseguire tot kilometri di preparazione, sempre sotto il controllo di un patentato, per poi sostenere l’esame di pratica a diciott’anni.

·         Poi, per coloro che magari si sono fatti un po’ di calcoli circa le età dei miei personaggi (se non l’avete fatto, tranquilli, non vi mordo!) avranno capito che Mamie e Dégel si sono sposati molto giovani, tra i 17-18 per lei, 20-21 per lui.  Dunque, prima di sindacare il nonno come un corruttore di quasi-maggiorenni, vi illuminerò con un po’ di storia sociale francese. Le loro vicende hanno luogo alla fine dei Trente Glorieuses, i Trenta Gloriosi (anni), che vanno dal 1945 al 1975. Ora, sebbene la maggiore età fino al 1974 fosse a 21 anni (dopo quella data, fu abbassata ai 18), era possibile contrarre comunque matrimonio, l’età minima dei maschi a 18 anni, le femmine a 15. (Sì, avete letto bene, 15!) Ergo, il matrimonio di Mamie e Papie era fattibilissimo. Questa legge del 1948 ca. fu abrogata e sostituita con un’altra il 4 aprile 2006, equiparando l’età minima di 18 anni per entrambi i sessi.

Durante i Trenta Gloriosi vi fu un vero boom di matrimoni e non solo di babies. In aggiunta, l’età era davvero precoce, ci si sposava in media sui 21-23 anni.

·         Il divorzio venne istituito in Francia nel 1975

·         In Francia, la maggior parte della popolazione religiosa è cattolica, tranne che in Alsazia, Cévennes, France-Comté in cui vi è una forte prevalenza protestante, che forma il 2% della popolazione religiosa.

·         Infine, il bac si divide in due parti: contrariamente alla nostra maturità italiana, il bac francese ha due round. Il primo, al penultimo anno, sono le materie dell’indirizzo intrapreso (e.g. se scientifico, sarà francese, matematica, biologia e chimica); il secondo, all’ultimo anno, le materie rimaste.

·         Strano, ma vero, un cognome tipico alsaziano non è francese, bensì tedesco. Questo perché, in seguito alla disfatta di Sedan (1870), l’Alsazia venne incorporata nel neonato Zweite Reich tedesco. (O Secondo Impero tedesco. Il primo fu ai tempi di Ottone I, nel Medioevo, e il Terzo, beh, è assai ben noto!) L’Alsazia ridiventò francese nel 1918, al termine della Prima Guerra Mondiale, per ritornare poi tedesca con l’invasione della Wehrmacht  nel 1940. Infine, ritornò definitivamente francese al termine del conflitto. Tuttavia a Strasburgo e altrove si possono sentire persone parlare sia francese, che tedesco, che uno strano miscuglio tra i due che funge da dialetto.

Inoltre, mi sono presa qualche licenza poetica per quanto riguarda l’esame di ammissione al Conservatoire de Paris; offesa mortale alla mia etica sul Realismo, ma perfetta per le dinamiche della storia. Pardon, Flaubert mon amour, rimedierò al mio orrido peccato!

Infine, Paname  del titolo è un vecchio termine in argot parigino per chiamare appunto “Parigi”. Ormai è disusato, non lo sentirete più, tranne che nelle canzoni di Edith Piaf!

Bien, che altro dire?

Buona lettura!

Vostra,

 

H.

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Dedicato a Ignis, lei sa perché!

 

 

“Doooo … la, si, la, soo-ol, resolfadododoreeee … fasisimii-idorelasolmiii … (un, due, tre) … uhm?”

Tumpf!

Sebbene avesse resistito stoico per un’ora e un quarto al mio sommesso cantilenare, unito al lieve e ipnotico ondeggiare della mia mano onde facilitarmi il giusto ritmo, la testa di Milo mi cadde definitivamente sulla spalla, dopo aver ciondolato per bene negli ultimi dieci minuti, quarantun secondi e qualche decimo. Chiudendo il libro di solfeggio, gli accomodai meglio il capo dormiente, approfittando alla vigliacca della fase rem di Mamie, così non si sarebbe insospettita di quell’ambiguo gesto da parte mia.

Sigh, per quanto gli volessi bene, a volte avrei desiderato così tanto, che Papie non avesse mai lasciato la sua consorte. Uhm, però se non l’avesse fatto, non sarei nato … nah, a che rimuginare? Il casino era successo e ora come ora avevo altri issues più concreti e orribilmente attuali cui pensare: la mia milosessualità; gli ultimi esami delle materie non esaminate l’anno scorso, nei quali era mia cura prendere anche lì  un 20 /20 Très bien  più Félicitation de la jury e infine, last but not least, l’esame di ammissione per il Conservatoire de Paris, la ragione per la quale in quel momento Mamie, Milo ed io ci trovavamo sul TGV Atlantique Bordeaux – Parigi da circa un’ora e mezza.

Eravamo partiti di tardo pomeriggio, non potendo infatti l’augusta avia familias accompagnarci prima a causa del suo lavoro di segretaria alla distilleria dell’Armagnac. Così, terminate le lezioni eravamo tornati a casa per aspettarla, tartassati nel frattempo dalle mille raccomandazioni di M. Chris- .. Papa, Maman, Saga e pure Kanon. (Ad Aiolia non venne concesso questo onore: il suo status di fratellino minore glielo impediva, almeno fino ai diciott’anni. ) Fu un sollievo per me, lasciare comunque una situazione domestica abbastanza tranquilla: dopo gli avvenimenti della settimana scorsa, temevo in una crepa nel rapporto tra i miei fratellastri. Invece, si erano ripresi con forza e buona volontà, malgrado Milo e Saga seguitassero ad abbassare gli occhi vergognosi ogniqualvolta s’incontravano. Ma se non altro, continuavano a parlarsi e questo era un bene.

Quanto a Maman e Papa, ormai era ufficiale: si sarebbero sposati in chiesa col rito religioso, dopo averlo celebrato alla mairie con quello civile. Il compromesso fu raggiunto in seguito ad una lotta senza esclusioni di colpi tra madre e figlia, tra cui la sdegnata fuga strategica di Mamie a Tolosa da una sua amica, rifiutandosi di ritornare a casa, finché Maman  non avesse esaudito il suo desiderio. Pur di non dargliela vinta, si consultò in extremis la Costituzione per vedere quali dei due fosse il più rilevante. E siccome la nostra Storia ci insegna quanto buoni fossero i nostri rapporti con la Chiesa (specie dal 1905 con la legge sulla secolarizzazione dello Stato, ma si sa, Parigi e la Francia sono due realtà differenti) trovammo il cavillo legale di Portia: il rito religioso era fattibile, solo se prima veniva eseguito quello civile. Ergo, o dinnanzi alla Marianne o nisba.

Impotente davanti alle leggi dell’Etat, Mamie dovette cedere, senza però aver avuto la soddisfazione di iscrivere personalmente i due futuri coniugi ai corsi prematrimoniali organizzati dalla nostra parrocchia. L’unica consolazione per la mia povera Maman era che Papa aveva già sopportato in precedenza quel calvario – erano passati sì ventiquattro anni da allora, ma certi traumi non si scordavano tanto facilmente. In questo modo, lui la poteva aiutare a resistere alle interminabili sessioni serali a discutere sulla bontà del matrimonio contro le sacrileghe convivenze, il tutto mentre il prete fissava a regolari intervalli proprio la scostumata demoiselle Molinier, finché un’occhiataccia greca da parte di Christophe non gli suggerì di guardare altrove, se non desiderava essere ricresimato all’antica. (Ovvero con lo schiaffone unto d’olio)

I due gemelli se la passavano anche loro piuttosto bene, o perlomeno studiavano qualche mezzora in meno rispetto a quand’erano alle rispettive uni; più spartiata che ateniese, Papa era stato inflessibile: divagherete con il corpo e con la mente solo durante le due settimane di Natale. Prima e dopo di allora, fino al rientro, si studia! Se tu – e indicò Kanon – mi pigli sotto il B+ e tu pure -  fu il turno di Saga – sotto il 2, giuro che vi pesto come baccalà e poi vi taglio i viveri!  I quali corrispondevano alla tassa universitaria. (In Inghilterra la valutazione comprende A, B+, B, C, D e F; in Germania 1, 2, 3, 4, 5. Il voto max in UK è A, in Deutschland è 1, ndr. ) Malgrado la ferrea disciplina spartana, i due studenti giudicavano mille volte meglio quello studio casalingo, serviti e riveriti, al confronto di quello durante i loro terms o semestri, caratterizzati da un parcheggio all’uni dalle nove di mattina fin quasi alle otto di sera (tra corsi e studio individuale in biblioteca, senza contare il lavoro part-time) arrivando a casa così stanchi, da riuscire appena ad aspirare la loro minestra col naso. (Almeno questa era la dura legge di chi mirava all’eccellenza negli studi.)

Per il resto, erano divenuti meno rumorosi e più tranquilli del solito, sebbene al gemello minore non garbassero le chiamate via Skype sempre più lunghe e frequenti di Saga a Hilda; dinanzi alle paranoie gelosissime del suo doppio, il più anziano si difese avvalendosi del diritto di avere anche lui un’amicizia di tanto in tanto, senza contare il fatto che fosse arrivata l’ora per Kanon di farsi definitivamente gli affaracci propri. Borbottando rancoroso, il giovane si ritirava ogni volta nella sua camera, distraendo la sua energia da buon samaritano verso un altro disgr- ehm, fortunato.

Milo e me.

No perché lui non trovava logico – secondo la sua visione dei rapporti interpersonali  -  che ancora non avessimo … ehm … enfin … galipettato un po’ … ehm … sì, come se fosse facile! In casa, era come essere al Grande Fratello: gente impicciona ovunque; a scuola, era fuori questione, dividevamo la stanza con un camerade! Certo, se Milo glielo avesse chiesto, Shura gli avrebbe ceduto il posto per una notte, tuttavia avevo l’impressione che lo spagnolo, piuttosto che condividere la camera con Shaka, si sarebbe travestito volentieri da Carmen, cantando l’Habanera a squarciagola per tutto il cortile della scuola. Questa era la nostra scusa ufficiale, sennonché fu rapidamente smontata da Aiolia, il quale affermò perfido che Shura doveva questo favore a Milo, avendolo quest’ultimo coperto dalle ronde notturne, quando il primo si appartava con Junet per le cajoles amoureuses. Saga si era riservato da ogni commento.

In poche parole, il mio spulzellamento era divenuto una questione di Stato e la cosa m’inquietava moltissimo: Dio solo sapeva, che mi avrebbero tramato alle spalle, pur di concludere la consumazione del matrimonio. Perché tanto alla fine era una realtà assodata, su chi esercitasse il ruolo della virginea sposa. E Milo non collaborava: nell’ultima settimana, era diventato estremamente fisico: cercava, preso da inspiegabili raptus d’ansia lubrique,  un contatto con me ad ogni momento, da un semplice tenermi la mano ad un … ah … handjob nelle toilette …

Hélas, che pazienza!

Fui quindi un pochino sollevato per la nostra partenza a Parigi, pregustando la tranquillità persa – e rimpianta solo al 5% -  più di un mese fa.  Da una parte, avrei avuto il mio bicho tutto per me, dall’altra c’era Mamie, ergo lui non avrebbe osato allungare le chele più di tanto.

Perfetto.

Una lieve carezza al dorso della mia mano mi riscosse dalle mie rêveries, costringendomi a voltarmi verso il fautore di quella moina tattile, il quale fingeva sornione di dormire, le labbra piegate in un birbante sorriso. Del medesimo umore, gli catturai la mano colpevole, giocherellando con essa sotto il tavolino. Ero contento, che poco a poco fosse ritornato ad essere il solito bicho furfante lubrique di sempre, seppur lo stesso giudicassi bizzarro il suo comportamento, alternando momenti in cui era dolcissimo con me, altri estremamente nervoso e irritabile. Pensai fosse a causa del mio esame: infatti, con la scusa che potevo presentare un brano a mia scelta anche accompagnato da uno secondo strumento, lo avevo invischiato volente o nolente nel vaudeville musicale. Mouais, forse si trattava di stress.

“E’ così che mi stai a sentire? Avevi promesso di seguirmi e di correggermi in caso di errori,  già scordato?”, lo rimbrottai scherzosamente, massaggiandoli di nascosto i polpastrelli fasciati dai cerotti. Sempre tenendo gli occhi chiusi, Milo cantilenò assonnato:

“Il solfeggio è noioso!” e sbadigliò sonoramente a dimostrazione delle sue parole. Sbuffai scettico.

“Ed è per questo motivo, che avevi smesso di suonare il violino?”, inquisii, essendomi in effetti sempre domandato il motivo per il quale lui avesse cessato di esercitarsi con uno strumento, con cui avevo notato sapeva destreggiarsi più che dignitosamente, come  anche Mamie aveva affermato, dopo aver assistito alla nostra prima performance musicale del brano senza interromperci.  Certo, era lievemente impreciso nell’esecuzione rispetto ad un vero studente e andava più ad orecchio invece di seguire lo spartito, tuttavia il modo in cui faceva vibrare le corde colmavano queste sue piccole lacune, trasportando l’ascoltatore in un vortice melodico ora brioso, ora malinconico, ora sensualmente birichino.

“No”, replicò quegli semplicemente, stiracchiandosi in una posizione più eretta e massaggiandosi il collo indolenzito dalla scomoda posizione. “E stato per un’altra ragione …”

“Ah ouais? E quale?”, piombai subito incuriosito sulla questione.

Puntandomi l’indice contro il naso, Milo sogghignò: “E tu? Perché vuoi entrare al Conservatoire? Non l’avevano frequentato anche i tuoi nonni?”

“Solo Mamie: era lei la vera pianista in casa; Papie era un amateur”, puntualizzai. Infatti, malgrado potesse suonare alquanto strano visto l’animo masnadiere della nonna, era lei che fece amare sul serio il pianoforte al marito, il quale lo suonava per circostanza, avendoglielo imposto la reine Catherine. “La musica li aveva uniti e … inconsciamente speravo potesse riavvicinarli un giorno! Ecco perché ho continuato a studiare il pianoforte: oltre a piacermi, il mio sogno fin da piccolo era di esibirmi un giorno in un concerto con tutta la mia famiglia riunita a guardarmi. Che mettesse da parte ogni rancore solo per … nah, non importa, non sono che chimere infantili!”, mi schernii, voltandomi verso il finestrino e fissando assente il paesaggio notturno a stento illuminato dalla luna morente e destinata a disertare il firmamento per qualche notte.

“E se i tuoi nonni non si fossero separati? Avresti comunque voluto intraprendere la carriera di pianista?”, perseverò Milo, a suo turno baloccandosi con le mie dita. Sospirai.

“Chissà … forse neppure sarei qui con te a discuterne …”

Serrando la presa al mio polso, il ragazzo mi costrinse a guardarlo negli occhi: “In che senso?”

“Non sarei nato, ecco tutto.”

“E lo affermi con tanta leggerezza?”

Per tutta risposta alzai le spalle: così era, non sussisteva la necessità di scervellarsi inutilmente. Era solo stancante e affatto piacevole, soprattutto per il sottoscritto.

Per niente convinto dalla mia spiegazione, il bicho mi spiò attento di sottecchi. “Che accadde tra i tuoi nonni?”, chiese d’un tratto, interrompendo il silenzio instauratosi tra di noi. “Enfin, come si sono conosciuti, come si sono separati … la loro storia, in soldoni!”

“E’ che …”, tentennai, mordendomi a disagio il labbro inferiore e scoccando una furtiva occhiata alla dormiente Mamie. “Non saprei … non ho voglia di parlarne!”, conclusi frettoloso e girando definitivamente il capo verso il finestrino, segno che la conversazione era conclusa.

Tzé!

“D’accord!”, convenne placido lo scorpion lubrique, tamburellando le dita sul tavolino. “Allora, non vedo perché dovrei rivelarti a mio turno ciò che Sasà ed io ci siamo detti domenica scorsa …”, aggiunse maligno, essendo a conoscenza – il delinquente! – di quanto fremessi di sapere almeno le linee generali del discorso di riconciliazione tra i due. Mon Dieu, era insopportabile quando mi teneva all’amo sfruttando la mia inesauribile curiosità e questa volta aveva ben due merci di scambio: quella sopracitata e la ragione del suo abbandono del violino. Argh! Briccone d’un sadico ricattatore patentato!

“E va bene!”, cedetti – che altro potevo fare? – storcendo le labbra in un’indispettita smorfia. “Purché tu dopo mi racconti perlomeno uno dei due!”, gli dettai le mie condizioni. Milo non commentò, limitandosi ad arcuare sarcastico il sopracciglio, sorridendo sommessamente del mio infantile broncio.

“Forse …”, fu l’unica parola che proferì, provocando il mio proverbiale rigonfiamento delle guanciotte. Ingoiando il brutto improperio a lui riservato, incrociai umiliato e offeso le braccia, appropinquandomi ad alzare il sipario sul dramma del secolo, altresì noto con il titolo Le Fiançailles  de Papie et Mamie.

 

“I due Pelléas et Mélisande si erano conosciuti, come ti avevo accennato tempo addietro, a Saint Tropez all’inizio degli anni Settanta, gli ultimi spiccioli dei Trente Glorieuses e gli anni del terrorismo politico: l’IRA elargiva gli ultimi colpi di coda alla Gran Bretagna, dopo quasi 50 di lotta armata per l’indipendenza dell’Irlanda; in Italia erano stati invece da poco inaugurati gli Anni di Piombo, così come la Germania occidentale era stata appena deliziata dall’entrata in scena della RAF di Baader-Meinhof. Ma queste notizie, in una delle molteplici roccheforti del capitalismo venivano filtrate e addolcite dall’aria frivola e coquette della Côte, dove il tanto osannato rigore francese s’infrangeva come le onde sugli scogli.

Papie faceva parte di quest’élite danarosa, conservatrice e assai rigorosa nella sua integerrima moralità. Di facciata, bien sûr. Suo padre, Philippe Molinier, era possessore di numerose aziende vinicole in Alsazia, nonché distillerie, appartamenti nelle città principali della regione e numerosi terreni. Aveva convolato due vantaggiosi matrimoni, o meglio partnership nuziali: il primo, con Béatrice Koch che morì in seguito ad una gravidanza ectopica, riuscendo a salvare per miracolo la mia prozia Jeanne; la seconda, con Catherine Regensbach, la mia vera bisnonna.”

“Scusa se t’interrompo, però ho notato che “Molinier” non è un tipico cognome alsaziano”, espresse Milo il suo dubbio, aggrottando perplesso la fronte.

“Vero, il mio – per così dire – casato è relativamente giovane; il mio trisnonno, Robert Molinier, in effetti era di Calais e il cognome originario della ditta era Hanns, cui poi lui aggiunse il suo, giusto per sottolineare che era stato proprio M. Robert a salvarla dal fallimento. Infatti, quando entrò alle sue dipendenze –era circa il 1910 – la società era sul viale del tramonto e il trisnonno ricercato dalla finanza francese per debiti di gioco, costretto quindi a rifugiarsi all’estero e, se ben ti ricordi, l’Alsazia all’epoca faceva parte dello Zweite Reich tedesco. Riassumendo, risollevò le sorti della ditta, la fece prosperare e addirittura acquisire altre aziende rivali. Fu la guerra uno dei fattori principali di questa rapida riscossa. Come ricompensa, oltre a divenire socio di Joseph Hanns, lui pretese la di lui nipote e pupilla – nonché erede universale di tutto il patrimonio -  Marie Elisabeth. Ella aveva appena vent’anni al momento del matrimonio, nel 1916 circa; non sapeva molto di tale scienza, né dei suoi meccanismi, se non questo: che avrebbe adottato un nuovo cognome e il titolo di Madame; che avrebbe perso la sua verginità, partorendo a Dio piacendo un erede al primo colpo, per poi essere messa in un angolo, costretta a sopportare l’odore di altre donne sul corpo del marito ogniqualvolta che le si coricava accanto, mentre lei pregava ferventemente acciocché quelle lorettes l’avessero soddisfatto appieno, in modo tale da farlo desistere da ogni tentativo di giacere con lei.  Dalla loro unione nacque solo il mio bisnonno Philippe, che lei non volle mai vedere, preferendo lasciarlo primo alle cure delle balie, dei precettori poi.  Al contrario, era attaccatissima al mio Papie, forse perché entrambi condividevano il medesimo temperamento riservato, schivo e tendente alla malinconia.

Il mio bisnonno prese un po’ da entrambi: abile e sfacciato negli affari, come il padre, quanto timido e sottomesso nel focolare domestico, qualità ereditate dalla madre. Il suo primo matrimonio con la Koch fu piuttosto riuscito e sereno, i due avevano imparato ad amarsi col tempo, mettendo al mondo quattro figli: Marguerite la zoppetta; Louis l’erede; Blanche la più bella e Jeanne l’ombra di Blanche. Il vero inferno scoppiò all’arrivo della  seconda moglie, Catherine, soprannominata la reine o la regina a causa del suo carattere dispotico, imperioso e terribilmente manipolatore. Una vera Caterina de’ Medici, ecco. E da lei nacque Papie, battezzato Jean - François in onore di suo nonno materno deceduto qualche mese prima della sua nascita.”

“Ahia!”

“Già, forse fu quello che incattivì la bisnonna. Non aveva già di suo un carattere facile e quel matrimonio d’interesse dovette averla amareggiata ancora di più. Ecco perché era triste al funerale del padre: avrebbe voluto accopparlo lei di persona!”

“Mi sembra un valido motivo … in ogni modo, il tuo Papie a chi assomiglia? Fisicamente, intendo!”

“Uhm … gli occhi verdi li ha ereditati dalla reine, mentre i capelli rossi dalla nonna Marie Elisabeth. Il bisnonno è castano come il padre e la bis invece mora o almeno lo erano stati in gioventù”, gli spiegai, rifacendomi alle pochissime foto intraviste a casa di Papie a Strasburgo. Poi, riprendendo: “Ti ho presentato brevemente la mia parte alsaziana, in modo da comprendere in che sorta di ambiente fosse cresciuto mio nonno: chiuso, severo, soffocante, luterano, estremamente rigoroso nell’etica kantiana e arrogante nella sua coscienza di classe supérieure …”

“Due palle micidiali …”

“Se vuoi essere così brutale …”, lo rimbeccai, seppur un sorrisetto compiaciuto mi sfuggì dalle labbra: nella sua diretta e spiccia maniera, il bicho aveva usato le medesime parole di Mamie, quando venne introdotta nell’ambiente domestico del consorte. “Comunque … i cinque fratellastri non andavano molto d’accordo, i due maschi soprattutto, e questo fu a causa sempre della reine: come tutte le seconde mogli, cercava di spingere il figlio a tutti i costi nelle grazie del marito, onde fargli ottenere più credito e peso alla redazione del testamento. Neanche Blanche lo sopportava e Jeanne copiava la sorella in ogni cosa. Solo Marguerite gli voleva davvero bene, chissà, forse perché tra esclusi ci s’intendeva. Per quanto riguardava le amicizie, perfino quelle erano monitorate dalla madre: una volta aveva impedito al figlio di frequentare – in virtù di amico, eh! – un ragazzo perché non apparteneva alla loro classe sociale. Inutile dire, che Papie ne soffrì tantissimo, era molto legato a lui!”

Scuotendo stupito il capo, Milo protestò basito: “Non poteva mandarla al diavolo?”

“Non conosci la reine Catherine! Bisogna avere un ego smisurato, per tenerle testa! Sembra innocua come donna, quando in realtà è un basilisco umano!”, lo rassicurai convinto, memore di quelle poche occasioni in cui ero stato ammesso alla sua regale presenza: mi era sembrato allora di essere dinnanzi ad un’icona bizantina, bella, altera e senz’anima. “Era oppressiva nei suoi confronti, nulla che suo figlio combinasse era abbastanza ben fatto per lei!  Ovviamente, la severità è una parte importante per la nostra educazione, però lei la esasperava al limite massimo, quasi il suo desiderio ultimo fosse di plasmare Papie a sua immagine e somiglianza! E tutto questo, fin dal giorno in cui lui mise su il primo dentino, un continuo lavaggio del cervello! Per carità, Mamie esagera sempre, però non ha tutti i torti, quando ha affermato che lo avesse castrato: altrimenti, ti immagini un giovanotto che a vent’anni ancora chiedeva alla madre se poteva fare questo o quest’altro? Ancora mi domando, come fosse riuscito ad iscriversi a medicina, invece che ad economia, come avrebbe desiderato al contrario sua madre!”

“Tuo nonno è medico?”

“Ouais. Medico legale!”, rivelai riluttante, conoscendo quanto quella professione rinvangasse brutti ricordi nella mente del mio bicho.

“Coi cadaveri o coi vivi?”

Mi morsi a disagio il labbro inferiore. “I morti …” e spiai attentamente la sua reazione. Al contrario, Milo non accennò a nessuna smorfia, osservando vago un punto indefinito davanti a sé.

“Ah, d’accord ! E poi ?”

“Hé, la pressione esercitata dalla madre non si allentò neppure quando Papie incominciò l’università alla Sorbonne: controllo totale, oh que oui! E visite a sorpresa! E imperativo il 20 su ogni cosa! E gli faceva i conti in tasca - doveva renderle conto di quanto spendeva ogni fine mese - ergo una vita sociale pari allo zero assoluto! E questo sì e questo no; puoi questo, quest’altro non se ne parla e via così finché, com’era ovvio immaginarsi, Papie scoppiò. Al termine del secondo anno ebbe un esaurimento nervoso, che lo costrinse per un certo periodo ad assentarsi dai corsi. La reine era furiosa, pensava fosse tutta una scusa per non continuare gli studi. Ciononostante, fu costretta ad arrendersi al verdetto del medico e a concedergli delle vacanze in montagna, che programmò – figurarsi! - lei. Ma, al momento della partenza, la nonna Marie Elisabeth, prendendo il nipote in disparte, gli infilò in tasca la prenotazione del treno e dell’albergo per la più venale Saint Tropez e una massima su cui meditare: Mon petit-fils, i mali dello spirito si curano con la carne e quelli della carne con lo spirito. Dopodiché gli diede un bacio sulla fronte, rimettendolo nelle mani di Dio.  E Papie, allo primo scalo, cambiò treno per la Côte, invece che per Saint Moritz come aveva deciso sua madre.

E con queste premesse, avvenne il fatto …

“Sérine! Sérine! P’tite chenapan, dove sei ? Smettila di folleggiare in giro, raccatta la tua carcassa e porta fra tre secondi le tue fesses alla porta! Dai che il Capo ci aspetta!”

Così tuonava per la milionesima volta Uriel Chauvin, o Unity per gli amici e le Drag Queen nel nightclub in cui lavorava, intanto che raccoglieva il portafoglio, le chiavi di casa e i costumi appena lavati e stirati per lo spettacolo di quella sera.

“Sérine! Muoviti!”, sbraitò infine decisamente scocciato, sfilandosi le scarpe e dirigendosi bellicoso verso la camera della sorella, spalancandola con piglio marziale e urlando all’assassinio, quando una pila di libri, dischi e spartiti gli cadde su entrambi in piedi. Ma il vero omicidio mentale fu la vista della sua p’tite soeur Séraphine Marie Chauvin slungata in canotta e mutande sul letto con una sigaretta tra le labbra; “Memoires d’une jeune fille rangée” della Simone de Beauvoir  aperto in mano e i Led Zeppelin a tutto spiano come musica di sottofondo. Strizzando inviperito l’occhio sinistro, Unity ululò al soffitto, sfilando la cicca alla sorellina, tirandola nel frattempo giù dal letto per la caviglia e spegnendo il giradischi molesto.

“Fila a vestirti!”, berciò porpora in volto il fratello, massaggiandosi la vena rossa che gli batteva sulla tempia. “Delinquente! Ingrata! Scansafatiche! È questo il modo di ringraziarmi per averti trovato un lavoro? Avresti preferito rimanere a Montpellier e lavorare nella lavanderia con Maman? E io che mi sono tanto adoperato, acciocché tu potessi studiare, migliorarti, divenire una signorina morigerata, fine e … METTITI IL REGGISENO, NON OSARE USCIRE DI CASA SENZA!!!”, ruggì, sventolandole il detto capo d’abbigliamento, mentre la sorella indossava apparentemente sorda la sua maglietta, dirigendosi poi verso la piccola cucina - salotto.

Stappata infine la  sua bottiglia di latte dal frigorifero e tracannandone il contenuto a canna, Séraphine commentò tranquilla: “Oulà Lulu, calme-toi, tu veux? Guarda che i vicini chiamano i flics e poi sarò costretta a portarti le goûter in cella!  Allora sì, che la tua carriera sarà per davvero rovinata, altro che ritardo!”

Per tutta risposta, Unity le elargì un piccolo scappellotto sulla nuca, sbattendole in mano il reggipetto. “Hai cinque minuti per presentarti alla porta, poi ti meno!”, fu il  suo ultimatum, cui la sorella replicò con un’immensa linguaccia, mangiucchiando rancorosa un biscotto e raccogliendo in camera sua gli spartiti necessari allo spettacolo, approfittandone poi per nascondere l’odiato bra sotto il letto. Dopodiché raggiunse sorniona il fratello maggiore, che borbottando sulla sua ingratitudine chiuse la porta di casa, dirigendosi infine assieme a pigliare il tram.

Unity e Séraphine vivevano insieme a Saint Tropez – ovviamente non nel centro – da quasi quattro anni, sei invece per il primo. Si esibivano entrambi nel nightclub A. (per motivi di privacy non citeremo il nome), lavoro che li permetteva di pagare il loro appartamento periferico di quattro stanze senza rinunciare a qualche piccola venalità extra. La loro vita era molto diversa dai clienti che intrattenevano con i loro numeri da palcoscenico, però rispetto alla fame patita prima ad Algeri durante la guerra, poi a Montpellier, beh,  i due si consideravano molto fortunati.

Per quanto bisticciassero in continuazione, i due fratelli si volevano un bene dell’anima e il loro rapporto si era rinsaldato alla notizia della recente morte della loro madre Madeleine, la quale, incapace di sopportare oltre una vita di stenti, umiliazioni e percosse fu ritrovata una mattina di febbraio impiccata al lampadario di casa. Lasciava loro in eredità qualche vestito, una medaglietta della Vergine di Lourdes e 984 franchi. (Circa 150 euro, ndr.) Da allora, il forte sentimento di protezione di Unity nei confronti della sorella era aumentato a dismisura, osservando apprensivo quanto ella crescesse selvatica e senza regole, peggio di un maschiaccio dei peggiori arrondissement di Parigi. Il suo fisico poi ancora acerbo per i suoi diciott’anni, longilineo e dalla muscolatura nervosa non la facevano per niente passare per una delicata pulzella.

“Oh, finalmente mes cochottes! Ci stavamo giusto chiedendo se fosse il caso di incominciare a scrutare i necrologi!”, eruppe la primadonna (se donna si poteva definire), intravedendo dal palco i due ritardatari durante le prove generali dello spettacolo serale. Scendendo, Albafica (o  Marcel all’anagrafe) venne loro incontro sgonnellando nel suo lungo abito di seta nero plissettato, eseguendo a turno con ciascuno un’aggraziata bise. “State tutte e due bene, colombine mie?”, s’informò poi, accarezzando il dorso della mano di Unity, che rispose:

“Ouais, non preoccuparti! È solo che qui qualcuno di mia conoscenza ha fatto un po’ la grasse mattinée!”

“La colpa è tutta tua, Unity: ieri sera sei tornato a casa alle quattro del mattino da quella festa coi tuoi amichetti! Ero preoccupatissima, non sono riuscita a chiudere occhio per tutta la notte!”, si lagnò invece Séraphine, tirando su col naso e lasciando che una furtiva lacrimuccia le scivolasse sul viso. “Ovvio, che ero stanca! Non mi hai neanche dato il tempo di colazionare!”

“Non è vero!”, protestò in un minaccioso sibilo il fratello scarlatto in volto.

“Oh, la pauvre!”, si commosse invece Albafica, schioccando in disapprovazione la lingua. “Unity, che razza di bestia sei? Bagordi notturni, tachicardie alla tua sorellina e ora pure l’affami? Sei senza creanza!”, sentenziò, passando un braccio attorno alla vita di Séraphine e traendola lontana dal balbettante fratello. “Adesso alla prima pausa di porto alla patisserie e ti scegli la pastina che più ti aggrada, ça va?”

E mezzora più tardi, la ragazza se ne stava seduta a gambe incrociate in “platea” accanto al Capo, ripassando il brano da suonare e sgranocchiando nel frattempo un rigonfio bignè al cioccolato.

Life was good.

 

“Porca trottola, Unity! Abbiamo provato e riprovato il numero, non uscirmi fuori con le solite ansie dell’ultimo minuto, ché ti accoppo!”, interruppe un’esasperata Séraphine, controllando che i lacci del costume di scena del fratello fossero legati quel giusto che, al momento dello scambio d’abiti, essi si sciogliessero senza perdere troppo tempo e il ritmo della danza d’entrata.

Essendo i due fratelli di altezza pressoché uguale, avevano elaborato un’entrata scenica per collegare le loro esibizioni, visto che avevano luogo una dietro l’altra. Comparivano assieme vestiti da un’elegante coppia pronta per andare all’opera, eseguendo una sorta di valzer finché, passando dietro il drappo rosso, che celava  il pianoforte, i due si scambiavano gli abiti, vestendosi lei da uomo e lui da donna. Poi al calare del panno Unity usciva di scena e Séraphine attaccava col suo brano.

Come avete dunque avuto modo di osservare, all’epoca la concezione di nightclub si fondava più su un birichino varietà, che un mero porno  tutta musica assordante bang bang d’oggigiorno.

“Andrà tutto bene!”, lo rassicurò la ragazza, abbracciando da dietro le spalle Unity, intanto che quest’ultimo finiva di sistemarsi la cipria bianca sul viso. Sospirando, il giovane osservò malinconico il sorriso fiducioso della sorella, domandandosi quanto ancora lei sarebbe rimasta nel nido da lui faticosamente costruito. Ormai, era maggiorenne e presto, purtroppo, qualcuno si sarebbe fatto avanti per portargliela via o, peggio ancora, sarebbe stata lei stessa a prendere l’iniziativa e volare verso la sua indipendenza. Nei loro continui battibecchi, la minaccia più frequente della sorella era di scappare via di casa col primo cliente danaroso che incontrava e di fargli da perenne concubina.  

“Su voi due! In scena, in scena!”, l’incalzò il Capo battendo le mani, mentre uno dei loro colleghi rientrava dietro le quinte al termine del suo numero.

“Dai Lulu! Tocca a noi!”, rise Séraphine, afferrandogli la mano e trascinandolo all’uscita. “Pronto?”, lo sfidò allegra, sistemandosi meglio la veletta nera, in modo da creare un’ulteriore confusione sull’identità dei due giovani. Stringendole piano le lunghe dita da pianista, Unity annuì, socchiudendo lievemente gli occhi quando le quinte si schiusero e la loro pelle venne baciata dalla livida e violenta luce dell’occhio di bue.

Era il loro momento.

 

Adorava la musica, adorava il teatro. L’eterna illusione di vivere ciò che la vita reale non poteva offrire; di essere quel che la società impediva di diventare. Ombre anonime si trasformavano in un arcobaleno di personaggi, danzando e recitando al culmine dell’applauso, re e regine incontrastate della scena e del mondo per quel tanto che durava la loro parte.

Séraphine era tra loro. Ignorata nel fiume di eleganza e sperpero della classe dabbene, quando l’occhio di bue  illuminava la sua figura e lei calcava il palcoscenico, allora in quell’istante ella esisteva sul serio, ché tutti gli sguardi erano per lei. Dimenticava di essere nient’altro che un ragazzaccio di strada, sopravvissuta per pura fortuna alla guerra d’indipendenza algerina e costretta a vivere ai margini di uno Stato che niente aveva fatto per la sua famiglia. Obliava tutto. In quell’istante, non esisteva altro che il valzer, il pubblico adorante e suo fratello che la guidava tra un volteggio e l’altro verso il drappo.

Un’ultima terzina di passi e Unity scoccò una rapida occhiata d’ammonimento alle iridi dorate della sorella, che ricambiò in quelle grigio argento del giovane.  Tre … due … uno …

Voilà! Il tendaggio rosso cadde in aggraziati e fluidi panneggi, rivelando ad un attonito pubblico il celere scambio, premiato prontamente da uno scroscio di applausi. Ridendo, dopo aver risposto con un educato e compiaciuto inchino, Séraphine eseguì uno scherzoso baciamano al fratello, il quale replicò con una riverenza dello stesso tono, uscendo di scena.

Rimasta sola, la ragazza si avvicinò allo strumento, il quale riluceva simile ad un magnifico opale nero, lambito dalla luce ora più calda dei riflettori. Lo accarezzò con la punta delle dita, sedendosi sullo sgabello e fissando trasognata il bianco e nero dei tasti, rivolgendo un ultimo sguardo agli spettatori.

E lo vide.

Stringendo indispettiva gli occhi dorati, Séraphine ghignò intimamente nell’aver scorto l’unico astante distratto, il cui viso era girato ovunque tranne che al palcoscenico. Verso il di lei.

Ah sì? Il pel di carota giocava allo sdegnoso? Et bien, gli avrebbe dato il suo giusto compenso!

Ecco quali furono i pensieri della giovane, nel momento in cui le sue agili dita diedero vita alle note de “La Campanella”, l’adattamento per il pianoforte che Listz fece alla composizione di Paganini, al posto del “Clair de Lune” di Beethoven in programma.

Scombussolato quanto il pubblico, che si mise a sfogliare confuso il programma ai loro tavolini, il giovane puntò ora i suoi occhi smeraldo sulla pianista, in particolare sul frenetico alzarsi ed abbassarsi delle dita, rapido, incessante, virtuoso, quasi esse fossero animate di vita propria e volessero staccarsi dalla mano per continuare a danzare autonomamente sulla tastiera. Nel frattempo, anche Séraphine lo spiava di sottecchi, quando per motivi di spartito doveva sbilanciarsi verso le note acute, e ora le sue gote si erano arrossate di soddisfazione, sentendosi appagata e contenta di quella discola attenzione malgrado le promesse di un prossimo strangolamento da parte del fratello, lanciatogliele da dietro le quinte.

Infine, l’ultimo accordo pose termine ai vibranti fuochi d’artificio e la pianista si lasciò andare all’indietro stremata, ma col sorriso stampato sulle labbra, gratificata dallo scroscio di applausi che invase la sala e da qualche rosa lanciatale dai più entusiasti.

Cinque minuti. Per cinque minuti aveva tenuto col fiato sospeso il pubblico, nessuno escluso. Per cinque minuti non era esistita che lei. Le venne quasi da piangere, al pensiero di alzarsi, inchinarsi e dirigersi dietro le quinte, là dove la vita reale l’attendeva.

Ma così doveva succedere, era la dura legge del palcoscenico.

“Ma mignonne!”, esclamò entusiasta Albafica, abbracciandola forte appena uscì di scena. Nel frattempo, il sipario era calato, lasciando che i clienti riprendessero la loro cena o aperitivo con tutta calma, prima della seconda parte dello spettacolo. “Tu as été magnifique! Perfetta! Ecco, ci hai fatto venire un bel coccolone, ma se questi sono i risultati, ti prego, ripetiti!” e le schioccò due bacioni sulle guance, imbrattandole col forte rossetto da scena.

Del medesimo umore euforico, Séraphine annuì, serrando le mani tra di loro ancora tremanti e domandando alla primadonna del locale, se poteva poi sedersi un attimo, poiché le girava lievemente la testa. Servizievole, Albafica le disse di usare tranquillamente il suo camerino personale. Una volta lì, la ragazza si lasciò cadere pesantemente, giurando a se stessa di non riprovarci mai più con quei coup de tête: troppo faticosi! Ancora le dolevano i polsi, uffa! Dopo l’ennesimo sbuffo, afferrò lo struccante e si appropinquò a levarsi via il pesante maquillage, liberando nel frattempo i capelli biondo miele dalla parrucca.

Un rumore di passi.

Percependolo immediatamente, Séraphine si voltò nella sua direzione, trovando però il nulla. Lentamente e circospetta, ella ritornò a struccarsi, ponendosi in piedi brusca quando lo risentì in maniera più distinta. Non c’erano dubbi: qualcuno si era intrufolato dietro le quinte e stava salendo le scale, che conducevano una al tetto, una alla casa del Capo e di Albafica. Ovviamente, la giovane era troppo smaliziata d’aspettarsi che uno si dirigesse verso il tetto; un ladro, senza dubbio. Essere a Saint Tropez non era una garanzia d’immunità ai furti.

Desiderosa di proteggere il suo salario – tenuto nella cassaforte – la ragazza afferrò il bastone nodoso che fungeva da scopa, seguendo quatta quatta lo scricchiolio sulle scale e rimanendo di sasso, quando si accorse che la figura nascosta nell’ombra si stava sul serio recando verso il tetto.

Il mondo era bello in quanto vario, però davvero quella era una piega inaspettata!

E incuriosita dalla faccenda, Séraphine lo seguì, aprendo pianino la porta e respirando a pieni polmoni la dolce brezza serale portata dal mare. Si guardò intorno, cercando il misterioso passeggiatore e lo trovò sporgersi con fare equivoco dal parapetto.

Ora, forse era la giovane che aveva le allucinazioni post- Listz, ma quello ai suoi occhi parve un tentativo di suicidio in piena regola. Memore del medesimo fato accaduto alla madre, ella avanzò battagliera verso lo sconosciuto, afferrandolo saldamente per le spalle e berciandogli più indiavolata di un Panda in manca di bambù: “Oy, idiota! Che diavolo stai combinando? Sei un trapezista per caso? E’ arrivato il circo e nessuno me l’ha detto?”

“Stammi lontano! Mi sto suicidando!”, protestò sbiascicando il giovanotto, dimenandosi dalla sua molesta e indesiderata salvatrice, la quale, notando la folta capigliatura ramata, lo riconobbe come il suo provocatore del cambio di programma. E ciò la fece gonfiare di rabbia doppiamente.

“Questo l’avevo capito! Piuttosto, porta un po’ qua le tue fesses!”

“No! Lasciami in pace, pensa agli affari tuoi!”, la spinse via con uno strattone. Offesa a morte, Séraphine gli elargì due possenti ceffoni, che lo inebetirono per due minuti belli e buoni.

“Ha! Certo che ci penso! Perché se tu ti dovessi suicidare, sai cosa succede? No?”, lo schernì falsamente bonaria, mentre lo pigliava dolorosamente per l’orecchio.  “Te lo dico io quel che succede: che in meno di un’ora i flics saranno qui a chiuderci il locale!  E mentre tu starai a marcire sottoterra divorato dai vermi, io sarò sbattuta in strada a fare la battona! E dopo con chi me la prendo? Col tuo scheletro? Non farmi ridere! Se proprio vuoi farla finita, ci sono tanti metodi senza coinvolgere terzi, che non solo della tua morte non sanno che farsene, ma che pure si scoccerebbero assai di rimanerne implicati!  Vuoi morire? Riempiti le tasche di sassi e buttati in acqua! Impiccati!  Sparati un colpo alla tempia! Tagliati le vene o la gola! Inghiottisci del veleno! Trattieni il respiro! Fatti un overdose,  che ne so … usa la tua immaginazione! Ma va’ a crepare da un’altra parte, compris? Très bien!” e mollò la sua presa solo quando fu a debita distanza dal parapetto, ovvero alla soglia della porta per rientrare dentro l’edificio. “E non scazzare, oh là!”

Il giovane abbassò il capo vergognoso, annuendo piano e il respiro accelerato. Poi, coprendosi gli occhi con una mano, prese a singhiozzare disperato.

Séraphine divenne più bianca di un sudario ottocentesco.

“No, dai, non piangere! Stavo scherzando! Suvvia, fatti una bella risata! Si diceva così, senza cattiveria, pour parler!”, tentò di consolarlo, guardandosi furtivamente in giro e sperando che nessuno fosse nei paraggi: le mancava solo questa ora! Se il Capo avesse scoperto quell’incresciosa situazione, l’avrebbe cacciata su due piedi per maltrattamento di cliente e lei avrebbe avuto il suo bel daffare a spiegargli, che stava tentando di salvare il nightclub. (E il suo stipendio con esso). “Adesso ti porto in camerino e lì mi spieghi tutto, ça va?”, gli propose come ultima spes, conducendolo a braccetto – in caso non intendesse fare dietrofront e tuffarsi giù dal tetto – nella piccola stanza, che si apprestò a chiudere a chiave, sennonché venne intercettata da Albafica.

“Sérine, c’è Unity che starnazza come un’oca sotto puntura perché … oh! Bonsoir!”, salutò serafica il Drag Queen lo scampato suicida, che ricambiò molto titubante, indietreggiando.

“Alba, sarei leggermente impegnata …”, tentò di spiegarsi la ragazza, rigirandosi nervosa le dita. “Potresti dirottare mio fratello da un’altra parte, eh?”, lo supplicò, elargendogli un paio di occhi languidi da cerbiatto nostalgico.

Arcuando malizioso le labbra rosse, Albafica dichiarò entusiasta: “Ma certo, ma chérie! Lo sai che in nome dell’amore farei qualsiasi cosa! Che gli dico?”

“Mah, che il mio padre spirituale è appena tornato da una missione segreta in Tanzania e che ho sentito un impellente desiderio di andarlo a trovare, subito sbarcato!”, suggerì pensierosa Séraphine, scusante che parve buona anche alla primadonna, che convenne con lei, congedandosi poi in fretta, poiché richiamato dal suo socio negli affari e nel letto.

“Bien, j’vais maintenant! E mi raccomando, divertitevi!”, augurò alla perplessa coppia, socchiudendo la porta dopo aver elargito loro un ultimo bacio a distanza.

“Hé … non ti angustiare … è un po’ tapette, ma infondo è innocuo come un agnellino … tapette!”, spiegò tranquilla la ragazza al suo ospite, versandogli dell’acqua in un bicchiere e cedendogli il suo fazzoletto. Dopodiché, osservandolo di sottecchi mentre beveva silenzioso il liquido offertogli, domandò di punto in bianco: “Moi, je m’appelle Séraphine Chauvin! Sérine per gli amici! Et toi?”

Posando piano il bicchiere sul tavolino, il giovane rispose sommessamente: “Jean – François Molinier e nessuno per gli amici” e la sua molto allegra affermazione provocò una frattura di mascella nella ragazza, la quale, mangiucchiandosi il labbro inferiore, appurò quanto fosse ardua una normale conversazione con uno scampato suicida.

“J’vois …”, sospirò scoraggiata, scrocchiandosi le dita. Quand’ecco, che i suoi occhi dorati s’illuminarono. “Et bien, te lo do io il soprannome! E poiché sei più triste di un cubo di ghiaccio, per antifrasi ti ribattezzo Dégel, con l’augurio che ti sciolga un po’! Dis donc, c’est sympa, hein? Sorridi, che la bocca ce l’hai anche tu!” e gli elargì un’entusiasta zampata sulla schiena, spingendolo a terra giù dallo sgabello in un doloroso tonfo.

E tuttavia, l’ex partecipante al bungee jumping dai tetti di nightclub increspò le labbra in un lieve sorriso.

 

“Dunque …”, esordì incredulo Milo, fissando basito Mamie in fase ultrarem, “dunque i tuoi nonni si sono conosciuti durante un tentativo fallito di suicidio? Mon Dieu, c’est amour fou!”

“Lo dici a me?”, replicai altrettanto stupefatto. “Quando Mamie mi raccontò del loro primo incontro, ho pensato che si  trattasse di una barzelletta! Invece, Maman mi confermò a tutti gli effetti la versione  narrata e il prozio pure!”

Mordicchiandosi un’unghia, il bicho sogghignò malizioso. “Ancora mi risulta arduo immaginarli sposati … due caratteri totalmente differenti …”

“Ecco, dopo quella serata i due presero a frequentarsi. Enfin, fu Mamie che, una volta scoperto in quale albergo Papie alloggiasse, lo seguiva ovunque, giusto per accertarsi che non volesse elargire un bis al mondo. Tuttavia, lui perse ogni interesse nel suicidio: molto probabilmente quella sera era ubriaco e si sa, in vino veritas … In ogni modo, uscirono insieme, si conobbero più approfonditamente, notarono che andavano piuttosto d’accordo e … e da cosa nasce cosa e da quest’ultima nacque Maman.”

“Immagino la faccia delle rispettive famiglie alla notizia …”

Sorrisi, appoggiando la guancia sul suo petto. “Il prozio non la prese molto bene …”

“Ah non?”

“No! Mamie dovette tramortirlo con la padella, altrimenti la lasciava anzitempo vedova del fidanzato: Papie e il prozio se le diedero di santa ragione, una corrida umana! Tuttavia, fu ancora più terribile, quando si venne a sapere che Mamie era rimasta nel frattempo incinta. Ahi, che dolori! Certo, a Saint Tropez non ci si stupiva più di nulla, però comunque all’epoca una signorina non maritata e con un bébé a carico era comunque motivo di gossip molesti. Almeno, nelle classi piccolo e medio borghese. Ciononostante, Papie si assunse più che volentieri le sue “responsabilità” nei confronti della nonna e in meno di una settimana erano marito e moglie. Il vero issue fu presentarla alla famiglia di lui: già la reine era incazzata nera per la fuga strategica del figlio e vederselo ritornare sposato, con la moglie incinta  e cattolica, tzé! Un vero colpo basso, bum!”

Gettando indietro il capo, Milo rise sonoramente alla sola immagine. “Povero Papie! Lo compatisco! Con due belve simili in casa!”

“Nah, non rimasero a vivere a Colmar. Prima si trasferirono a Strasburgo, poi definitivamente a Parigi. Papie riprese gli studi e Mamie frequentò il Conservatoire, optando poi per la strada dell’insegnamento privato, poiché i professori o maestri dell’ateneo musicale li considerava alla stregua di noiosi gibboni mummificati!”

“Strano! Me l’avevi descritta come una giovane che adorava il palcoscenico: non sarebbe stata male nei panni di concertista!”, obiettò Milo, scoccando una rapida occhiata alla Bella Avia Addormentata nel TGV.

“E’ stato prima il matrimonio, in seguito la maternità a cambiarla. Inoltre, stravedeva per Maman, la teneva come una bambolina! Era il suo orgoglio! Specie, dopo i due aborti naturali che seguirono e …”, abbassai il tono di voce, sussurrandogli all’orecchio  “... e Papie che dopo un po’ smise di giacere con lei.”

“L’amante”, concluse lo scorpion sommessamente, arcuando il sopracciglio.

“Già. Come hai avuto modo di appurare, Mamie non la prese affatto con cristiana rassegnazione. Era innamorata pazza del consorte e come tale agì fino ad arrendersi all’evidenza che tra loro era inesorabilmente finita. Abbandonò l’insegnamento, ritirandosi più tardi a Mont-de-Marsan, il suo provinciale esilio”, sospirai, stringendomi di più al mio bicho. “Temo che Papie inconsapevolmente le abbia inflitto il colpo di grazia: il matrimonio aveva placato i demoni interiori della nonna, la sua selvatichezza e aggressività. La separazione li fece esplodere in tutta la loro potenza. Un tempo era più signorile e aveva anche lei uno stuolo di mosconi, che le ronzavano attorno!”

“Hai … hai mai saputo chi fosse l’amante?”, mi domandò a bruciapelo il ragazzo, facendomi sussultare per l’inattesa questione. Perché era così curioso di apprendere quel particolare?

“No, non conosco il suo nome. Però l’ho visto … tanto tempo fa, non mi ricordo molto bene il suo viso …  e però ti confesso che ne ero terrorizzato: sembrava un vampiro, un non-morto! Era impressionante!”

“Ok, abbiamo scoperto che è Robert Pattinson l’amante segreto di Papie!”, scherzò Milo, che colpii al braccio offeso  a morte per aver preso alla leggera il mio sincero timore, che da piccolo nutrivo nei confronti di quel cadavere ambulante. D’umore improvvisamente giocoso, lo scorpion lubrique mi afferrò per i polsi, trascinandomi a sé, in modo che appoggiassi la mia testa sulle sue ginocchia. Approfittandone infine del tavolino che copriva la visuale, calò febbrile le sue labbra sulle mie, richiamo cui risposi esuberante e intimamente eccitato dal fatto, che ci stavamo baciando proprio sotto il naso di Mamie.

E …

“Che combinate voi due là sotto?”, ci richiamò la detta avia familias dai nostri ciucciotii amorosi, appello cui Milo, per la sorpresa, rispose sbattendo la testa contro il tavolino ed io di conseguenza rotolando per terra, illividendomi le fesses.  “Uhm?”

“Ahuah …”, si lagnò il bicho, accarezzandosi mesto lo scalpo dolorante. “Ho perso Camus …”

Fissandolo tra lo stupito e l’intrigato, Mamie volle saperne di più: “Prego? Hai perso …? Momus! Che accidenti ci fai sotto il tavolino? Per terra poi!”, mi ribeccò, inginocchiandosi al mio stesso livello e porgendomi una mano, onde aiutarmi a rialzarmi.

“La penna …”, bofonchiai tramortito, mostrandole l’oggetto colpevole, tenuto nei casi d’emergenza in tasca. E per una volta, si era dimostrato proprio utile.

Sbattendo via ogni eventuale impurità e sporcizia dai miei vestiti con secche e pesanti zampate, l’avia familias commentò senza particolare entusiasmo: “Boff! Invece, puzzola, rimettiti in verticale e raccogli le tue cose: siamo arrivati!”, ci annunciò solenne, indicandoci la sagoma della Gare Montparnasse che si avvicinava sempre di più, definendosi pian piano ai nostri occhi.

“Beh, in fin dei conti, è stato un viaggio tranquillo! Le tre ore non le ho neanche sentite!”, ci rivelò la nonna, mentre dalla stazione, una volta scesi con le nostre valigie, ci dirigevamo verso le metrò. Alzando il colletto del cappotto fin sotto il mento, a Parigi la temperatura era decisamente più fredda che da noi, Milo replicò ambiguo:

“Noi nemmeno! Sotto certi aspetti, il solfeggio può anche essere interessante!” e mi fece un furtivo occhiolino, passato inosservato tanto eravamo pigiati tra i passeggeri. Trascinandomi più appresso a lui, gli intimai senza tanti giri di parole:

“Adesso è il tuo turno! Che vi siete detti te e Saga?”, richiesta cui il bicho rispose con una confusa e innocentina occhiata smarrita. Mi si gonfiarono di nuovo le guanciotte. “Me lo avevi promesso, sale cafard!”, protestai, martoriandogli il braccio di schiaffi e piccoli pugni.

“Moi? E quando? Hey, Ionesco, a furia di girovagare nel tuo mondo di note, adesso hai le allucinazioni sonore? Ha! Che roba!”, se la filò all’inglese dall’argomento, del tutto sordo alle mie proteste, inghiottite dal mare di rumori cittadini di una metropoli senza sonno.

 

***

 

“Trovato?”, l’eco della mia voce si sparse dalla porta d’ingresso fino ai recessi del sottoscala, da cui simile ad un boomerang ritornò la risposta di Milo.

“Mouais! Dovrebbe funzionare ora: et lux fiat!”, esclamò, dandomi l’agognato segnale. Appena ricevutolo, feci segno a Mamie di accendere la luce e, in corrispondenza alle parole del mio bicho, l’appartamento s’illuminò, denunciando alla nostra Rue il ritorno dei vecchi inquilini da ben tredici anni di assenza. Oddio, qualche volta sia Maman, che Papie lo usavano come piede di appoggio per lavoro, quindi non si poteva dire che la casa fosse del tutto abbandonata.

“Certo però, che quel bel tomo di tuo nonno, oltre a far pulire in giro, poteva prodigarsi a riempire anche il frigo!”, brontolò Mamie, la testa affondata dentro il sopracitato elettrodomestico. “Tirchione alsaziano! Le pulizie sì, ma il cibo no, eh?”

“Eddai, non siamo mica nel Burundi!”, lo giustificai, appurando che la credenza non fosse in realtà così drasticamente vuota, come descritta dall’avia familias. “Domani andiamo a fare la spesa!”

Mamie grugnì ancora di più alla sola idea.

“Bien, il contatore è a posto! Che c’è per cena?”, domandò Milo, chiudendo la porta e ritornando vincitore dalla sua lotta contro l’elettricità. 

“Niente! Ceneremo al Moulin Rouge, perché qualche bischero di mia conoscenza, quando gli parlo il messaggio gli entra da un orecchio, per poi uscire dall’altro! Gli ho detto: E ricordati le provviste! Lo ha fatto? No, dimmi Momus, lo ha fatto? Certo che NON lo ha fatto! Che diavolo!”, sbuffò, galoppando irrequieta avanti e indietro per tutto l’appartamento.

“E meno male, che si era rilassata durante il viaggio!”, sogghignò lo scorpion, riempiendo tre bicchieri di acqua fresca. “Comunque, devo purtroppo ammettere che siete ricchi da far schifo: un appartamento a Montmartre, con salotto, cucina, due bagni, una lavanderia, quattro camere da letto, uno studio – biblioteca e una stanza per il pianoforte, anzi, per due pianoforti e pure con vista sulla –quasi - intera città? Non oso immaginare il vostro castello a Colmar!”

“A Ribeauville, volevi dire!”, lo corresse Mamie, ricomparendo dai suoi andirivieni per la casa. “A Colmar si sta in centro storico, ovviamente! Eppoi, non solo l’appartamento è nostro, enfin, della famiglia di mio marito: il caro vecchio Philippe è l’affittuario dell’intero edificio!”

Sputacchiando l’acqua che stava bevendo e tossendo in cerca d’aria, Milo balbettò incredulo: “C- cosa? Tut- tutto vo-vos-vostro?”, ansimò tramortito, intanto che gli battevo la mano sulla schiena, aiutandolo a respirare.  “Mi sento un barbone, davvero!”, mormorò umiliato, nascondendo il capo in segno di lutto sotto il cappuccio della felpa.

La mia trisnonna Marie Elisabeth Hanns tra la sua ingentissima dote aveva portato al consorte anche quel complesso a Montmartre, che lui fece subito restaurare, lucrandovi sopra. Esso era entrato in possessione degli Hanns in quanto un loro esponente si era sentito in dovere di partecipare alla vita bohémienne degli studenti universitari e artisti, che animava la Parigi di fine XIX secolo.  Sennonché, passati i furori giovanili e maturato in un cinico e affarista avvocato di successo, si era sovvenuto di quell’appartamentino ai piedi del Sacré Coeur e, ritornandovi, comprò di punto in bianco l’intero edificio, sfruttando poi il fatto che il suo proprietario e antico affittuario si trovasse sinceramente nei guai coi conti, mezzo soffocato dai debiti e dalla fatina verde.  E così, esso divenne parte integrate dei fixed assets della famigliare balance sheet, divenendo col tempo, visto e considerata la rapida metamorfosi della città, una danarosa fonte di rendita, poiché nel corso degli anni quella che era stata considerata la tana dei morti di fame (a.k.a gli studenti e gli artisti, anche i più geniali) si stava rivalutando in un quartierino assai gettonato anche da parte di coloro, che l’affitto potevano pagarlo senza rifilare scuse, false promesse, quadri o altra robaccia, dei quali anime meno sensibili non sapevano che accidenti farsene.

Papie, la pecora nera della famiglia, aveva scioccato il clan, quando si ritagliò un appartamento personale per viverci da privato nel momento in cui si trasferì a Parigi con moglie e figlioletta. Infatti, prima di allora, nelle occasioni in cui per affari ci si spostava nella capitale era d’uopo alloggiare – massima assoluta e inconfutabile – all’Hotel Ritz Paris a Place Vendôme n°15. Hé, perché spaccarsi la schiena nel management di una casa, quando invece venivi servito e riverito? Mah, misteri!

“Suvvia, nipote, guarda il lato positivo: per giungere a questi livelli d’opulenza, il clan ha avvelenato l’esistenza a una miriade di persone, loro stessi in primis! Una vera carneficina!”, lo consolò Mamie, consultando l’elenco telefonico, onde appurare se il ristorante che conosceva fosse ancora lì. “La prima impressione che ho avuto, entrando in quella casa fu: Beh, se mi ritrovo il giorno dopo un coltello in pancia, so che non è stato il maggiordomo! Sono come un branco di cani affamati, pronti a sbranarsi a vicenda per il più minimo rimasuglio di carne sull’osso! Da vergognarsi da quanto sono avidi! E tirchi! Ohé, non ti regalerebbero neppure la corda per impiccarti! Puah! Se mia figlia avesse deciso di ritornare dalla parte paterna della famiglia, quando quel porco sparì fortunatamente per sempre dalla sua vita, io stessa sarei venuta a trascinarla via da quel nido di vipere! Tzé! Non avrei permesso, che lei e mio nipote crescessero lì! No, no!”, e con quest’ultima risoluta dichiarazione terminò il suo appassionato monologo, chiudendo solenne il librone. “Il ristorante esiste ancora!”

E fu la notizia più bella della serata.

Rinfilammo quindi i cappotti e ci apprestammo per uscire, dopo un rapido controllo di aver serrato bene le finestre – aperte in precedenza per ventilare via l’odore di chiuso – già pregustando una cena, che i nostri stomaci avevano preso a pretendere intransigenti e sordi ad ogni compromesso.

“Allora”, fece Mamie, aprendo la porta d’ingresso “io ho vi consiglio di ordinare il … GYAHAY!”, urlò, quando, voltandosi, si ritrovò faccia a faccia con una donna in procinto di suonare il nostro campanello. Più rapida di una pianta carnivora, ella avviluppò la nonna in un soffocante abbraccio, stritolandole qualche osso della cassa toracica.

“Séraphine! Quelle surprise! Sei tornata! Appena ho notato le luci provenire dalle finestre ho pensato: Mah, sarà o Corinne o M. Molinier che sosteranno qui per la notte! e invece, no! Eri tu! Ho subito riconosciuto la tua voce! Fatti vedere, carissima! Come stai?”

“Errgghhh …”, boccheggiò l’avia familias, riprendendosi dal tentato omicidio da parte della sua antica vicina di casa, Madame Bérenice Lyralique, da noi segretamente soprannominata Violetta Valéry per il semplice fatto che, da brava dama delle camelie, rifuggiva la luce del sole, ridestandosi nelle ore notturne con serate mondane, concerti, opera lirica, cene di beneficenza, pièce teatrali, expos, gli immancabili balletti all’Opèra e tanti altri svaghi realizzabili solo con la complicità delle tenebre e in sintonia con la sua età. Ella stessa teneva un salotto dedito soprattutto alla musica, uno forse degli ultimi in cui venivano organizzati piccoli concerti – con annesso rinfresco - per la gioia di una piccola cerchia di conoscenti.

Mamie un tempo aveva fatto parte di questa sfera di eletti, poiché, oltre ad essere stata l’insegnante del figlio di Madame Lyralique, era guarda caso la moglie del figlio del suo affittuario e, siccome il bisnonno Philippe aveva un’altissima opinione della nuora con sommo chagrin della reine,  Violetta aveva compreso che forse era meglio tenersela buona e amica, specie durante quei campi di battaglia passati alla storia sotto il nome di riunioni condominiali.

Neppure in seguito l’esilio volontario da Parigi della nonna, lei smise di tartassarla con lettere e mail, nelle quali la subissava di gossip e di lamentele e dell’ultima tarte flambé di Madame Tal dei Tali.

“Ah, ma guarda: ti vedo in forma! Sarà sicuramente l’aria delle Landes!”, continuava imperterrita la vicina di casa, ignara dell’espressione distante e distratta di Mamie, la quale aveva di sicuro reciso i cavi di connessione del suo cervello.

“Tu sais, ora comprendo perché la nonna abbia scelto una villa a 30km dalla città e un unico vicino a qualche metro di distanza! Ancora qualche anno, ed era l’eremo delle Carceri!”, mi rivelò sottovoce Milo, sogghignando perfido. Inumidendomi le labbra, ridacchiai sommessamente di gusto.

Piccola parentesi d’ilarità subito captato dalla chiacchierona Madame Lyralique, che spostò la sua attenzione su di noi. Roteando gli occhi al cielo, il bicho sussurrò: “Presentazioni!”

“Oh!”, cinguettò estasiata la donna, pigliandomi per mano e trascinandomi alla luce più viva, onde meglio esaminarmi. “Tu sei il nipote … Albert, vero?”

“Ehm, quasi … sarebbe Camus!”, nicchiai, pestando il piede ad un Milo porpora a causa delle risate represse. Mamie, intanto, si rigirava i pollici tra l’imbarazzato e l’annoiato. Possibile, che tutto il mondo civilizzato trovasse strano il mio nome, scambiandomi poi sempre con quello di Albert?

“Ah oui, scusa, scusa! Mi confondo ogni volta!”, fu l’apologia della vispa Madame, la quale, senza neanche attendere la mia replica, partì  con l’analisi della mia persona. “Eggià … Seigneur quanto sei cresciuto! Ti ricordavo più piccolo di un broccolo e adesso sei svettato in un giunco! Sei diventato un bellissimo giovanotto, lasciatelo dire! Assomigli moltissimo al nonno, però gli occhi! Hé, quelli li hai presi dalla nonna! Come le mani, del resto!”, dichiarò solenne, studiando le mie povere manine prigioniere dalle sue unghie laccate.  “Uhm … le riconoscerei ovunque … dita lunghe, affusolate, magre e nervose … un’apertura dal do fin quasi al fa, notevole … già … mani da pianista …”, mormorò e fu interessante notare, come la sua espressione civettuola ai limiti della nausea si fosse trasformata in una di seria professionalità, quasi avesse delle valide conoscenze in quel campo. Ma fu un attimo.  “Suoni dunque il pianoforte?”

“Oui, sarei qui per - …”

“Oh, sarebbe semplicemente magnifico, se tu entrassi al Conservatoire!”, esclamò deliziata la donna, lasciandomi le mani e congiungendo le sue.

“Non per fare gli sgarbati, ma per noi sarebbe magnifico raggiungere il ristorante, prima che chiuda!”, s’intromise Mamie, afferrandomi per il braccio e facendomi segno con gli occhi d’incamminarmi verso il portone principale. Inarrestabile peggio delle piaghe d’Egitto, la Madame non si arrese.

“Oh, Séraphine! Te ne vai via senza presentarmi l’amico di tuo nipote?”, la rimproverò velatamente, accennando col capo a Milo, il quale fino a quel momento se n’era rimasto buonino in disparte, onde meglio sghignazzare dell’assurda situazione.

“Il fratellastro!”, la corresse prontamente il bicho, stringendole la mano. “Sono il fratellastro di Camus. Lieto di conoscervi, Madame!”, si presentò, mostrandole il carnivoro avorio dei suoi denti. La vicina di casa alla notizia strabuzzò tramortita gli occhi, boccheggiando confusa parole inintelligibili e cambiando colore dal rosa al giallognolo ovetto sbattuto.

“Mais alors …”, proferì, mentre il suo cervello elaborava la novità. “Corinne si è sposata? E da quando? Séraphine perché non me l’hai riferito?”

Lo sguardo scettico che Mamie l’elargì, fece intendere che l’avia non le  avrebbe comunicato l’imeneo di Maman neanche se si fosse presentata la first lady Carlàlàlà Sarko (nickname ufficiali di Sarkozy  e consorte tra i francesi , ndr.) sotto la sua finestra, strimpellandole serenate inudibili. Perché sul serio, non si capiva niente quando cantava, da quanto flebile era la sua voce.

Vabbè, divagazioni.

“Sì, mia figlia si sposerà a breve col padre – un  onesto e distinto signore - di questo ragazzo”, esordì lentamente Mamie, ponendo una mano sulla spalla di Milo. “Il qui presente è un esemplare della sua prole di primo letto. In stalla, ne abbiamo altri tre!”, aggiunse, godendosi sorniona il lieve choc della donna, quando furono terminati i calcoli mentali su quanta gente girovagasse nella villa della vicina a Mont-de-Marsan.

“Ah, je vois …”, borbottò perplessa, fissando ora lo scorpion con rinnovata attenzione. “Uhm … scusa se te lo chiedo, ma … ma ti ho già visto da qualche parte?”, s’informò, scostandogli dietro l’orecchio una ciocca. “Hai un volto famigliare …”

“Je regrette Madame, ma temo che vi sbagliate!”, la deluse Milo, sciogliendosi dai suoi artigli inquisitori. “Del resto, se avessi incontrato una come voi, me ne sarei sovvenuto a vita!”, affermò amabile, sebbene l’ambigua frase potesse essere soggetta a più interpretazioni ottimistiche o meno.

Silenzio, per una volta.

“Bien!”, eruppe Mamie, battendo le mani e prendendo le redini della situazione ora decisamente tesa. “Madame Bérenice carissima è stato un piacere, ma ho paura che dobbiamo sul serio andare! I ragazzi sono digiuni da Bordeaux e  tu sai quanto suscettibili diventino, se non hanno un po’ di sana pappa nei loro stomaci!”, dichiarò convinta, nel frattempo che ci trascinava per le spalle giù dalle scale verso il sospirato portone d’ingresso. Un’ultima promessa di pagarle una prossima visita fu fatta e finalmente respirammo l’aria fresca di una Parigi notturna e innevata.

“Dieu merci, non mi sono scordata i tappini per le orecchie …”, sospirò sollevata l’avia familias, levandoseli dai padiglioni auricolari e ponendoli in un vezzoso portapillole, che poi ripose nella borsetta. “Mi domando, come abbia fatto a sopportarla per quasi quattro lustri …” e pure noi formulammo quella questione, mentre scendevamo per i gradini dell’entrata in stile liberty del metrò.

 

Il ristorante di cucina normanna nel Boulevard Saint-Michel era sopravvissuto allo scorrere inesorabile degli anni e delle mode e il suo proprietario, M. Duroy da Rouen, seppur relegato nella sedia dietro la cassa alla quale batteva la nuora, era ancora in circolazione, tanto che al momento di pagare ci sequestrò in un tavolino più isolato, offrendoci del Calvados del tutto sprezzante della minore età di Milo e me   (io non sfiorai neppure il bicchiere, mentre il bicho ebbe la faccia tosta di bere il suo, il mio e di accettare il bis donatogli da M. Duroy) e raccontarsela con Mamie di quando la dieta era un’opinione e non bisognava inventare strane e ardite presentazioni del cibo per invogliare l’avventore a mangiare,  dei figli e nipoti che se ne crescevano, della politica, delle grèves (scioperi, ndr.) infinite a Parigi dei mezzi di trasporto, del diabete che lo stava tormentando negli ultimi periodi, etc. Cicalarono tranquilli del più e del meno per ore, totalmente dimentichi di noi due, cui rivolsero la parola solo se volevamo ancora da bere e perfino in quel frangente, fui scambiato con il nome di Albert dal proprietario del ristorante. 

Ora capivo, perché Mamie aveva tanto insistito – o meglio deciso, non v’era stata alcuna discussione a riguardo -  per andare lì a cenare. Evidentemente, doveva essere stata in passato un’assidua frequentatrice, se il gestore ancora si sovveniva di lei.

“T’sais, Albert”, bofonchiò M. Duroy, ormai la lingua sciolta dall’eccellente Calvados e perso nella dolcezza dei ricordi del passato “che la tua Mamie veniva da noi ogni benedetto sabato  a mezzogiorno spaccato? Sempre dietro la colonna, sempre da sola …”

Tamburellando distratta le dita sul tavolo e osservando i camerieri, che riordinavano il locale adesso vuoto da ogni cliente, Mamie annuì in un enigmatico sorriso, poggiando la guancia su di una mano e con l’indice dell’altra eseguiva continui cerchi sul bordo del bicchiere, ascoltando in un giudizioso silenzio le rimembranze dell’uomo.

“Sempre da sola …”

Infine, venimmo raggiunti dai famigliari di M. Duroy e  il nostro tavolo divenne un piccolo alveare chiacchierante di una Parigi che si addormentava, mentre l’altra si apprestava al notturno risveglio.

 

“Milo! Va au ton lit! Maintenant!”, tuonò implacabile  la voce di Mamie dal suo ex talamo nuziale. “Momus doit se reposer! Et toi aussi!” (Milo ! Vai al tuo letto ! Adesso! / Momus deve riposarsi! E anche tu!, ndr.)

“J’t’ai dit, que j’y vais ! Encore un minute !” (Ti ho detto, che ci vado! Ancora un minuto!; ndr.), sbuffò il bicho, seduto a gambe incrociate sul mio letto e sottoposto alle mie cure riguardo i suoi polpastrelli martoriati dalle vesciche: diavolo, aveva la pelle delicatissima! Non riusciva a fare callo sufficientemente in fretta, se continuava di quest’andazzo la faccenda finiva in brutte piaghe.

“Pas de questions ! Allez, va te coucher!” (Neanche per sogno! Avanti, vai a coricarti!, ndr.), replicò l’avia, sorda ad ogni trattativa.

Sbuffando nuovamente, Milo si guardò crucciato le dita fasciate, storcendo il naso quando gli levavo il cerotto pregno di pus e siero per disinfettarlo, applicandovi poi della polvere cicatrizzante, acquistata ormai all’ingrosso visto il conflittuale rapporto tra l’epidermide del ragazzo e le corde del violino. “Mince … non mi ricordo più quand’è stata l’ultima volta, che ho visto i polpastrelli della mano destra  e meno male, che sono mancino, altrimenti … disastro …”

Applicandogli delicatamente il cerotto pulito, lo rassicurai: “Porta ancora pazienza: dopo l’esame, nessuno ti obbligherà più a suonare il violino, potrai smettere!”

Piccato, lo scorpion replicò: “Non ho detto, che voglio abbandonarlo! Solo, aspetterò che mi vengano i calli, non ce la faccio più ad andare in giro per il mondo coi cerotti, neanche avessi le verruche!”, e si appoggiò imbronciato col mento sulla mano sana, espressione alla cui vista non riuscii a trattenere un lieve sorriso: almeno, i miei timori circa solitari pomeriggi al pianoforte erano stati confutati dalla sua promessa di tenermi compagnia e oh! se gliela avessi fatta mantenere!

“Bien, finito! Libero dalla tortura!”, esclamai, accartocciando le cartine rimaste e gettandole sul cestino accanto allo stipite della porta. Ritornando al mio letto, mi sfilai delicatamente la fede – che per motivi di discrezione avevamo deciso portare in comune accordo sull’indice – e aprii il vasetto di crema, spalmandomela tra le dita ed eseguendo piccoli esercizi per riscaldarne i muscoli. Intanto, Milo mi osservava di sottecchi in silenzio, dispiaciuto per via della mano destra di non poter più eseguire quel che era divenuto il nostro piccolo rituale serale. Ma il ruvido contatto dei suoi cerotti andava oltre la mia sopportazione e dopo un po’ smise, accontentandosi di assistere. “Puoi coricarti, se vuoi!”

“Mi cacci via?”

“Ho sonno!”, ammisi, infilandomi sotto le coperte che il bicho, giusto per dimostrarmi che non era un invalido totale, mi rimboccò indispettito. Si sedette poi accanto a me, sorridendomi carnivoro.

“Sa Majesté des Glaces mi concede, almeno, il supremo privilegio di donarle un bacio della buona notte?”, fece tutto pomposo e solenne, ponendosi una mano al cuore. Sospirando – ero troppo stanco per ribattere – annuii col capo, tuttavia contento di ricevere un bisou da parte dello scorpion. Sì, i suoi bisous.

Soddisfatto del mio consenso, il ragazzo si chinò su di me, tanto che potevo percepire il suo alito caldo solleticarmi la pelle e le labbra pizzicarmi d’anticipazione.

Et basium fiat.

Sulla fronte.

Gueh?

“Uhm, Ionesco? Cos’è quella faccia? Hai detto che eri stanco, no? E allora dormi!”, commentò falsamente disorientato Milo, in realtà assai divertito dalla mia espressione tra lo scioccato e il frustrato. “Che ti aspettavi? Tzé!”, fece sornione, elargendomi una scorpienesca linguaccia, mentre chiudeva la porta ed evitando di un soffio il cuscino che gli tiravo dietro.

Stizzito, mi portai le coperte fin sotto il mento, stringendomi al  guanciale rimasto. Sentii ad un tratto qualcosa di ruvido graffiarmi i polsi, costringendomi a riaccendere la bajour e a controllare tra le lenzuola alla ricerca di quel fastidioso intruso, il quale si rivelò essere una lettera.

Come fulminato, balzai seduto portando sotto la luce la busta e riconoscendo immediatamente la calligrafia di Papie. Ah ouais! Ero stato così preso dai miei issues famigliari, scolastici e musicali da dimenticarmi della risposta del nonno alla mia ultima lettera inviatagli verso o fine novembre o inizi dicembre. Ouvre-la à la fin de l’examen (Aprila alla fine dell’esame, ndr.),  era l’unica direttiva scritta sulla carta color pergamena. Perché?, mi domandai, rigirando la lettera tra le dita, valutandone il peso. E accidenti, che vi aveva messo dentro? Un romanzo? Le mie missive erano lunghe, ma quella doveva essere infinita, a giudicare dal peso.

Uhm …

Et bien, on attendra …, mi ripromisi, lottando contro il feroce impulso d’infischiarmene e strappare la busta, che per sicurezza posi dentro il cassetto del comodino, ripetendomi mentalmente di seguire le istruzioni di Papie e leggerne il contenuto una volta terminato l’esame.

Forse però, provando in controluce …

“MOMUS, FERME LA LUMIÈRE OU JE T’ÉCRASE LES FESSES!” (Momus, chiudi la luce o ti distruggo le chiappe !, ndr.)

Il ruggito dell’avia familias riuscì là dove la mia volontà aveva fallito e, dopo aver raccolto la lettera cadutami di mano per lo spavento, la nascosi al suo posto, chiudendo poi la bajour e tirandomi subito il piumino sopra la testa. E, con la sensazione di trovarmi ancora sul TGV Atlantique, mi addormentai nel giro di neppure qualche minuto, sognando Madame Lyralique che mi rincorreva con delle cesoie per aggiungere le mie mani alla sua collezione, mentre Milo mi accusava di aver perso la sua, presentandomi piangente assieme a Mamie i loro sanguinanti moncherini.

 

***

Nel frattempo, a kilometri e kilometri di distanza, un efferato crimine si stava consumando nella villa a Mont-de-Marsan.

Un’ombra quatta e minacciosa si appropinquava sospetta al laptop di Saga, staccando tutti i fili che lo collegavano alla presa elettrica  e portandoselo sottobraccio nella sua tana, sotto le coperte, dove lo aprì, sfogliando e copiando su una chiavetta tutte le ultime mail, conversazioni via chat su Skype o MSN (niente Facebook o Twitter  in quanto sapeva che il gemello maggiore non vi era iscritto), il tutto dopo aver cliccato su: Dimenticato la password?, acciocché le fossero inviate le istruzioni per scoprire la parolina magica per intrufolarsi nell’account del fratello. Per la sua perfida e distorta mente, le domande di sicurezza erano state una baggianata da aggirare.

Terminato quindi il suo lavoro di monitoraggio gemellare, l’ombra puntò il cursore su Cambiare password?

“Oh que oui!”, sogghignò, cliccando sull’icona e inserendo quella nuova.

Il mattino seguente, quando il legittimo proprietario si svegliò dal sonno ristoratore, il laptop era nello stesso posto della sera precedente, non un centimetro più in là.

 

***

 

Due giorni erano già passati dal nostro arrivo a Parigi, per me tutti caratterizzati da una full immersion nel ripasso di teoria, solfeggio e dei brani da presentare alla commissione. Per Milo e Mamie corrisposero al primo ad un tour de force di Saint-Saëns, alla seconda all’elaborazione di un piano strategico, onde evitare la sua personale stalker, ehm, vicina di casa, ogniqualvolta lei mettesse il naso fuori dalla porta di casa. In poche parole, Madame Lyralique ci aveva cinti d’assedio, insistendo al limite della molestia di venire ad una serata musicale da lei organizzata a casa sua. E tanto disse, tanto ci pedinò e tanto Mamie dovette controllarsi dal non strangolarla, che alla fine fummo obbligati  a cedere, presentandoci due sere prima del mio esame nel suo salon.

La stanza principale era stata adibita in modo da creare una piccola, ma completa, sala da concerto, provvista verso il fondo di due pianoforti a coda uno incastrato oppositamente all’altro; un violoncello; un violino; un’arpa e infine un flauto traverso. Questi erano gli strumenti liberati dalle loro prigioni di legno e vetro, osservati malinconici dai loro fratelli ancora rinchiusi nelle lussuose teche, che adornavano le pareti della sala, assieme ad una notevole libreria ripiena fino allo straripamento di spartiti musicali.

Davanti ai sopracitati strumenti musicali, erano state disposte tre file di comode sedie, ciascuna provvista di un piccolo programma, sul quale stranamente erano segnalati solo i brani eseguiti e non i musicisti.

“Oh, pardon! Scusa, eh!”, fu l’apologia di un giovane uomo, il quale tanto andava di fretta, che non si era accorto della mia presenza sul suo cammino, cozzando contro di me dolorosamente. “Nessun rancore, vero?”, mi sorrise incoraggiante, inginocchiandosi per terra e raccogliendo  veloce gli spariti caduti. Doveva essere uno dei concertisti di stasera, pensai, incominciando a spiarlo di sottecchi incuriosito: infatti, era troppo giovane per essere un professionista, forse era uno studente. Inoltre, mi domandavo quale strumento suonasse, non essendo riuscito ad individuare subito il contenuto degli spartiti. Tuttavia, non mi sfuggirono i cerotti sulle dita, alla stessa maniera di quelli di Milo, con la sola differenza che li portava su ambedue le mani. Che fosse l’arpista?

“Grazie!”, fece il giovane musicista, infilando il pacco cartaceo sottobraccio, porgendomi poi la mano. “Michel Messler, piacere! Arpa!” e fui avviluppato da una presa assai robusta, malgrado le sue mani apparissero piccole e delicate.

“Camus Molinier”, risposi cortesemente, illuminando gli occhi di Michel di una birbante vivacità.

“Molinier, hai detto? Sei imparentato in qualche modo con Séraphine Molinier?”

In qualche modo? Hé, se lo ero! “Sono il nipote”, gli rivelai, chiedendogli poi in quali circostanze l’avesse conosciuta o sentita nominare. Facendo spallucce, l’arpista replicò semplicemente che il suo maestro al Conservatoire, Orphée Lyralique, aveva sempre avuto ottime parole nei confronti della sua ex insegnante, qualora ne parlasse ai suoi allievi. Confuso, gli dissi che era mia convinzione, che il Maestro Lyralique suonasse il pianoforte, non l’arpa; dubbio, cui un serafico Michel risolse affermando che Orphée era un musicista eclettico in ogni senso: non vi era uno strumento, che non sapesse suonare. Tuttavia, gli unici che insegnava erano appunto il pianoforte, l’arpa, il flauto traverso e all’occasione anche il violino.

“E’ uno stronzo di prima categoria, ma nel suo lavoro è il migliore in circolazione! Posso dirmi onorato, di averlo come insegnante!”, concluse, ponendosi una solenne mano al petto, ridacchiando poi compiaciuto.

“Ah! Eccoti qui, Michel! Finalmente! E il tuo compagno dov’è finito?”

Una profonda voce maschile ci fece sussultare contemporaneamente. Alle nostre spalle avanzava un uomo sui quarant’anni circa, molto alto e da penetranti occhi blu ghiaccio, simili a quelli di un husky. Mi porse la mano, la quale si prefissò di stritolare la mia, cosa che gli impedii ritirando in fretta l’arto.

“Orphée Lyralique, molto piacere. E tu dovresti essere il nipote di Séraphine, giusto? Riconosco gli occhi! E le mani!”, aggiunse, soppesandomi enigmatico. Era bizzarro, sentirmi subito paragonato a Mamie: di solito o a Maman o a Papie, da parte di coloro che lo avevano conosciuto. Ma alla nonna quasi mai. “Allora Michel? Dov’è il tuo partner in crime?”, inquisì con falsa severità, gli occhi brillanti di acuto sarcasmo.

“La febbre è scesa, maestro, ma stasera il dottore gli ha consigliato di rimanere comunque a letto; ciononostante, credo che dopodomani verrà sicuramente alle lezioni!”

“Riferiscigli i miei più sentiti auguri di pronta guarigione! E di ripresentarsi ai corsi solo se del tutto guarito: non voglio kamikaze sulla mia coscienza!”, commentò conciso Orphée, congedandosi da noi e raggiungendo il neo arrivato gruppetto di ospiti.

“Bien! J’crois che dovrò seguirlo: fra poco s’inizia e lui è stato tanto gentile da mettermi per primo! Tzé! Dio ci salvi dalle serate di beneficienza o presunte tali!”, scherzò il giovane arpista, salutandomi di nuovo e mescolandosi tra la piccola folla. Rimasto solo, mi spostai anch’io da quell’angolino, prendendo finalmente posto accanto a Mamie e a Milo, pigliando dalla prima l’ennesimo rimprovero per essere questa volta in ritardo.

“Enfin, t’es arrivé!”

“Mais Mamie …”

“Chut, che incomincia !”, tagliò corto l’avia familias di evidente cattivo umore, tamburellando nervosa le dita sulla borsetta.

Calò un rispettoso silenzio, infranto dal discorso di circostanza della padrona di casa, che ci illuminò sullo scopo a fondo benefico di questa serata e per dare il bentornato all’elemento fuggiasco del loro piccolo circolo, ergo Mamie, la quale appunto per quell’esatto riconoscimento ad inizio programma si era seduta a fondo sala, strategicamente seminascosta dalle occhiate curiose degli astanti e dai loro tiepidi applausi a fine discorso.

Infine si chetarono, dando così il via al concerto vero e proprio.

Come mi aveva rivelato in precedenza Michel, quest’ultimo si esibì per primo ne La Scalfona di Antonio Vivaldi, accompagnato dal Maestro Lyralique, in quanto assente il flautista per malattia. E tuttavia, l’esecuzione non parve risentire della perdita del compagno di studi, al contrario fu assolutamente straordinaria, impeccabile. Le note scorrevano via in precisi e fluidi botta e risposta, non un’esitazione né un ritardo e i due suonavano La Scalfona per la prima volta assieme! Iniziavo seriamente a considerare valida l’affermazione del giovane studente circa le capacità di Orphée.

Non dovetti essere l’unico ad essermene accorto, ché le ultime note non erano ancora state assorbite dall’ambiente, che subito il pubblico si fece sentire in un’entusiasta ovazione di apprezzamento per i stupendi otto minuti di debutto serale. Ancora una volta, rimasi stupito dalla modestia, vera o apparente che fosse, del maestro: invece di accogliere lui gli applausi, si era tenuto in disparte, permettendo che fosse l’allievo a riceverne  di più.

Il seguito consistette in una parata di sonate tra cui un Schönberg Opus 33b; la Fantasia di Schumann in do maggiore; Les Réminiscences de don Juan di Listz; le Variations dall’Opus 2  Là ci darem la mano di Chopin ed infine il terzo movimento dell’Appassionata di Beethoven, tutte suonate dai colleghi  e amici di Orphée fino alla breve pausa del rinfresco, durante il quale ebbi modo di complimentarmi con Michel per la sua ottima esecuzione iniziale.

Dopodiché, Madame Lyralique ci richiamò per la seconda parte del concerto, inaugurata da Orphée, il quale ci deliziò con il primo movimento della Sonata n°2 dell’Opus 36 di Rachmaninoff, allegro agitato. Lo ascoltai rapito, perso nel mare della sua indiscussa bravura. E non erano i soliti parametri di assenza di sbavature, ritmo e virtuosismo, no era qualcosa di più, di arduo da descrivere a parole. Egli sembrava essere in completa fusione col pianoforte, tanto che aveva smesso da un po’ di seguire lo spartito, lasciandosi guidare dalla melodia dettatagli dalle note, diligentemente portate in vita dal frenico sali e scendi dei tasti. E quel che mi stupì maggiormente, fu il sorriso segreto che comparve sulle labbra di Mamie, la quale teneva gli occhi ben puntati sull’ex allievo, il viso disteso in un’espressione di intimo orgoglio. Abbassai il capo, mitigando ora l’entusiasmo per quella meravigliosa esecuzione in una più amara delusione e perché no? anche invidia, giacché mai a memoria mia mi ricordavo di averle visto in volto un simile sentimento nei miei confronti, quando sin da piccolo le suonavo i brani imparati.

Il mio spleen mi tappò le orecchie per le due sonate che seguirono, percependole appena. Il mio interesse si ridestò solo all’entrata in scena della moglie di Orphée, Eurydice, fino a quel momento rimasta seduta accanto alla suocera e cognata. Ignorando del tutto il programma, ella porse al marito l’arrangiamento dell’aria Martern Aller Arten  da Die Entführung aus dem Serail (o il Ratto del Serraglio ) di Mozart, piazzandosi bellicosa poi nel centro esatto tra l’arpa e il pianoforte e respirando profondamente, onde prepararsi alla difficile prova canora. Il maestro iniziò deciso l’introduzione musicale che avrebbe fornito un’anticipazione del tema dell’aria cantata dal soprano, nonché dandole il tempo d’impostare l’attacco, che avvenne puntuale e cristallino, procedendo in una vorticosa scalata di coloriture e arpeggi, uno più flamboyant e arduo dell’altro. Il finale, poi, era la gioia della virtuosità canora, la gola della cantante si era mutata in uno strumento perfetto, brillante. Madame Eurydice non mostrò incertezze neppure nel punto più critico del “doppio respiro”, dove il lungo respiro di pausa veniva invece tagliato a metà da una nota nel mezzo, corrispondendo ad una perenne sfida per la sua esecutrice.

E quando le note si spensero negli ultimi accordi, un meritato scroscio di applausi sommerse la donna, che abbozzò ad un cortese inchino assieme al marito, il quale le scoccò un rapido bacio sulle nocche.

“E adesso, lasciamo spazio un po’ alla jeunesse!”, dichiarò sibillino Orphée, rivolgendosi al pubblico attento. “A parte per il mio allievo, direi che questa sera era la parata dei musicisti matusa!”, scherzò e una calda risata echeggiò tra le mura domestiche. “Ah, battuta ignobile, lo so. Quel che volevo dire è che abbiamo saputo, che due nipoti della mia ex insegnante privata, Madame Molinier, si dilettano anch’essi nella musica  e che corrisponderebbe per noi a un grande favore, poterli vedere esibirsi in un brano a loro scelta!”, spiegò in seguito, puntando quegli occhi azzurrissimi specialmente contro di me.

Non seppi spiegarmi cosa mi accadde in quel momento, tranne che udii un fastidioso ronzio alle mie orecchie, sentendomi d’un tratto inspiegabilmente rancoroso e ostile nei confronti del musicista. Di certo, la sua era solo una scusa per ridicolizzarmi: non mi era piaciuta, infatti, la sua espressione quando ci presentammo; anch’egli aveva dimostrato un sottile astio nei miei confronti. E questa volta, non mi soffermai neppure a soppesarne i motivi, giunsi spedito alla conclusione che mi sottovalutava. Et bien, gli avrei dimostrato il contrario.

Afferrai la mano di Milo, ponendolo in piedi malgrado le sue flebili proteste e trascinandolo verso il piccolo “palco” sul quale ci attendeva un sornione Orphée. “Il Trio n°2 dell’Opus 100 di Schubert è alla vostra portata, mes enfants?”, fu la sua fin troppo premurosa domanda, sfogliando gli spartiti nel frattempo. “Io suonerò il violoncello!”

E ignorando di nuovo le parole rivoltemi dallo scorpion, presi posto al pianoforte, elargendo una celere occhiata alle note. Sempre sogghignando enigmatico, Orphée pigliava il suo violoncello, mentre Milo osservava invece dubbioso il violino cedutogli, mordendosi il labbro inferiore a disagio. Infine, sospirando a lungo, lo impugnò sì, ma con la sinistra e non con la destra com’era suo solito fare.

Ciò avrebbe dovuto avvisarmi. Al contrario, non solo non vi dedicai la benché minima attenzione, bensì trovai strano che verso metà sonata Orphée avesse lievemente rallentato l’originale ritmo indicato dal compositore, per uno più dolce e lento. Onde non apparire fuori tempo, mi adeguai in fretta, ribollendo dentro di collera per quella storpiatura melodica, che tuttavia gli spettatori non parvero accorgersene, giacché il loro applauso fu di sincera ammirazione e di fatti, rimescolatomi tra di loro, venni circondato da Mesdames entusiaste e prodighe di complimenti.

Milo, dal canto suo, si era eclissato rapidamente nel bagno, la mano sinistra ben calata nella tasca dei pantaloni.

Il concerto poteva dirsi concluso e un concitato cicaleggio di ospiti si fece baldanzosamente avanti, ognuno commentando i vari brani, esponendo le loro impressioni o dilettandosi in discorsi più mondani e meno attinenti alla musica.

A fatica, mi liberai dalle signore, cercando subito Milo tra la piccola folla, d’un tratto apprensivo per la sua improvvisa e silenziosa sparizione. Fu così che, girovagando per la sala, pizzicai Orphée e Mamie in un angolo a conversare, il primo incredibilmente più rilassato e amabile, mentre la seconda rigirava a suo turno ambigua il bicchiere di vino tra le mani, un sorriso alla Monna Lisa stampatole sulle labbra.

“Et bien, Orphée”, la udii, avvicinandomi a loro e celandomi dietro la colonna. “Vedo che hai abbandonato la carriera di direttore d’orchestra per l’insegnamento, come mai?”

Alzando le spalle, l’ex allievo rispose conciso: “Dopo l’incidente, Eurydice aveva bisogno di una vita più tranquilla e meno girovaga!” e sorseggiò il suo vino. Mamie annuì assente, ridacchiando poi.

“Alla fine, ti sei sposato!”, lo accusò scherzosamente, gli occhi che le si illuminavano di malizia.

“Sorpresa?”

“Affatto. Niente figli?”

“Eurydice non ne ha voluti avere!”

“E tu?”

“Non li rimpiango!”, concluse semplicemente l’uomo, ingollando gli ultimi sorsi rimasti nel bicchiere. “C’è sempre mai sorella! Invece, come va? Ho sentito dire, che adesso lavori come segretaria in una distilleria! Quasi mi veniva da ridere!”

“Fai bene, avrei fatto la stessa cosa! Tuttavia, non era un mestiere a me del tutto sconosciuto: d’estate ero solita aiutare mio suocero coi conti delle sue distillerie e quindi l’abc l’avevo già in tasca al momento del colloquio. Eppoi, M. Lefèvre è stato molto comprensivo nei miei confronti, un vero galantuomo …”, gli spiegò Mamie, ticchettando l’unghia contro il vetro del bicchiere. “Probabilmente, tua madre te l’avrà già comunicato, però ci tenevo ad annunciarti di persona il prossimo matrimonio di mia figlia; ero sicura, che ti avrebbe fatto piacere, no? Eravate molto amici da ragazzini!”

“Come dimenticarsi di quei bellissimi pomeriggi!”, sospirò nostalgico Orphée, reclinando lievemente il capo. “Tu ed io al pianoforte e Ninne al violino …”

Silenzio perso nel tepore di ricordi addolciti dalla loro natura passata.

“Mio nipote sosterrà dopodomani l’esame di ammissione al Conservatoire!”, lo informò di punto in bianco Mamie, spiandolo attenta di sottecchi. “E’ bravo, vero?”, e ai miei orecchi quella non parve una domanda alla ricerca di una conferma o smentita, bensì una provocazione, quasi la nonna volesse tirar fuori ad ogni costo il vero giudizio dell’ex allievo nei miei confronti.

E quel che udii, fu davvero sconcertante.

“Dopo tutto quest’entusiasmo generale da parte degli astanti, amici e colleghi, delle riserve un po’ più giudiziose sembrerebbero antipatiche e fuori luogo!”, esordì, passandosi pensieroso la punta della lingua sulle labbra.  “Il giovane Molinier suona come un automa, un carillon: pulito, preciso, senz’anima. Fastidiosamente impersonale. Gli stessi suoi livelli potrebbe raggiungerli una scimmia addestrata. Il suo approccio ai vari autori sa molto di maniera, copia in poche parole gli artisti che sente, non vi mette del suo, non si mette in gioco. L’altro, il violinista, è incerto sulla tecnica, però posso percepire la sua personalità attraverso le note, vi è un’interpretazione del brano eseguito, rendendolo più piacevole da ascoltare. Meno male, che non sono nella commissione esaminatrice, altrimenti avrei senz’ombra di dubbio votato contro di lui: di inanimate marionette, sinceramente non so che farmene!

Inoltre, devo aggiungere che tuo nipote è piuttosto immaturo per suonare con un accompagnatore. Oh, niente da rimproverargli sull’esecuzione di per sé, però la sua suonata è assai egoista, sorda. Ad un certo punto, durante l’esecuzione del Trio di Schubert, sono stato costretto a rallentare il ritmo, perché il violinista arrancava a seguire il pianista e lui non se n’era accorto. Sospetto che l’altro tuo nipote sia mancino, anzi lo è di sicuro, ecco spiegata la sua reticenza ad esibirsi con un violino, che non fosse quello suo solito!”, sentenziò secco e inclemente Orphée, riempiendosi nuovamente il bicchiere.

Quanto a me, avevo per un attimo smesso di respirare.

“Sì, il ragazzo è mancino e gli risulta molto ostico destreggiarsi con un normale violino; per questo, malgrado le sue capacità, ha abbandonato lo strumento. Così mi ha riferito suo padre”, confermò tranquilla Mamie.

“Gli hai dunque ceduto il violino per mancini, fatto costruire apposta dal liutaio per tua figlia?”, il tono dell’uomo era un poco incrinato da una vena d’indignazione, come se nessun altro avesse il diritto d’impugnarlo, se non la legittima proprietaria.

Velata accusa, cui la nonna replicò freddamente schietta: “Io non ho messo becco nella questione. Lo strumento era di Corinne e lei ha ritenuto giusto regalarglielo. Ecco tutto!”, poi, ridendo di gusto, esclamò gioviale: “Suvvia Orphée, non essere troppo duro nei confronti di mio nipote: è ancora un pulcino, un dilettante pieno di giovanile arroganza! Quando frequentai a mia volta il Conservatoire, il leitmotiv del Maestro Apollion era di abbassare la cresta e di essere meno teatrale nella mia esecuzione! Suoni per un teatro, non bordello! Senza contare, mon cher apprenti sorcier, tutte le tue gaffe musicali: sorrido perfino adesso al ricordo del tuo pianto  sconsolato, quel giorno che ti presentasti alle mie lezioni con la trasposizione per pianoforte della sinfonia 25 di Mozart studiata male e a metà!”

“Fosti l’unica a vedermi in quelle condizioni: neanche al Conservatoire ci riuscirono!”, concesse mite Orphée, annuendo lentamente col capo.  “Sei stata per me un’ottima insegnante! Eri perfetta …”, mormorò, sfiorandole la mano, che Mamie ritirò subito, osservandolo severa e allo stesso tempo divertita.

“Tua moglie è a qualche passo da te …”, sorrise sibillina, finendo di bere il suo vino. “Ti dirò solo una cosa, Orphée: so bene, quali siano i tuoi sentimenti nei confronti degli spiacevoli avvenimenti accaduti anni fa. Tuttavia, conosco altrettanto bene il tuo senso del fair play. Dunque, se dovessi ritenere giusto bocciare Camus all’esame, vas-y, vorrà dire che lo ritenterà quando sarà musicalmente più maturo. Ma se gli tarperai le ali per quel motivo, sappi che tutta la stima che nutro per te la perderai inesorabilmente!”

“Non è un granché, come ricatto!”, replicò serio l’uomo, raddrizzando incomodo la schiena.

Appoggiando il bicchiere sul tavolino, Mamie dichiarò sfacciatamente convita: “Però so quanto essa significhi per te!”

“In ogni modo, a che serve? Non sarò nella commissione!”

“Oh, chi mi assicura?”, terminò il discorso Mamie, dirigendosi sorniona verso  Madame Bérenice, la quale, ben nascosta in un angolo, applicava del ghiaccio sulle dita di Milo, il quale tentava di spiegarle la mancanza di necessità di accudirlo come un infante.

Non resistetti più.

E, pigliando silenzioso il mio cappotto, uscii piano dall’appartamento, restando per tutto il resto della serata seduto sulle scale, la mente talmente in oca da rivelarsi incapace dal formulare qualsiasi pensiero coerente, se non questo: che ero stato un cretino cieco di prima categoria.

 

***

 

Soddisfatto dell’esito della sua spedizione notturna, Kanon osservava compiaciuto i suoi effetti. Per tutto il primo pomeriggio, Saga aveva cercato di accedere ai suoi account, senza però riuscirvi a causa appunto della nuova password rinfilatagli a sua insaputa. Così, arrendendosi all’evidenza, il gemello maggiore era ritornato a studiare, maledicendo in sordi borbottoni il suo ordinateur de merde. (Computer di merda, ndr.)

E adesso, dopocena, ancora egli si sforzava di aprirli, sbuffando e imprecando in coloriti epiteti.

Sennonché, tornando dalla lavanderia col bucato appena fatto, Kanon notò assai preoccupato che il torrente di improperi si era d’un colpo chetato, lasciando spazio ad un’incomprensibile cascata di risolini e vivaci esclamazioni.  Apprensivo, corse nel piano superiore, là dove c’era il computer in comune.

Il suo cuore smise per un nanosecondo di battere.

Seduto alla scrivania, il suo unico doppio, munito di cuffie col microfono, stava cicalando tranquillamente in videochiamata con Hilda per la sua gelosa disperazione. Accorgendosi della presenza gemellare alle sue spalle – o forse la sua coinquilina dovette averglielo fatto notare – Saga si girò, sorridendo a trentadue denti al gemello. “ … ah-aha! Na gut! Jetzt muss ich gehen … ja sicher … ich rufe dich morgen an … tja … kein Problem … bis bald, tschüss!“ ( … ah-aha! Va bene! Adesso devo andare … sì certo … ti chiamo domani … sì … nessun problema … a presto, ciao!, ndr.)

“Divertito?”, inquisì lentamente Kanon, stringendo convulsamente la cesta del bucato. Candido, Saga sbatté le palpebre confuso da dietro le spesse lenti degli occhiali, cliccando il tasto per terminare la videochiamata.

“Uhm? Oh, Skype … Beh, stavo raccontando ad Hilda quel che era accaduto stamattina – sai, gli account che non vanno, etc. – e di come abbia risolto la situazione!”

“Ah ouais? E come?”, s’informò uno spassionato gemello minore, il quale al contrario non desiderava affatto condividere quella nozione.

“Hé, se l’account non mi si apriva più, allora, perché non crearne uno nuovo?”, gongolò contento il giovane, tamburellando felice le dita sullo schienale. Quand’ecco, che il sorriso gli morì sulle labbra. “Nônon, ma perché hai infilato la testa nel cesto del bucato? Ti senti poco bene?”

In verità, Kanon godeva di perfetta salute, se non fosse stato per il tentativo di auto strangolamento col reggiseno di Maman.  “La sveglia domani è alle otto e mezza …”, mormorò trasognato, scendendo a mo’ di automa per le scale, scontrandosi contro Aiolia, che lo mandò in malora giacché durante la collisione il gemello minore lo aveva macchiato col latte che stava portando seco.

 

***

 

Il giorno dopo fu semplicemente orribile.

Rimasi per tutta la giornata in uno stato catatonico, ripassando come in trance le ultime nozioni per l’imminente esame. In realtà, le uniche parole che mi riecheggiavano in testa erano quelle udite la sera precedente da Orphée, martellandomi il cranio incessantemente in un doloroso carosello. Perché mi avevano ferito nel più profondo,  e non per la critica alla mia impostazione musicale, quella era ovvio che fosse imperfetta, non mi sarei mai e poi mai degnato di considerarmi il nuovo Mozart sceso in terra (tranne forse per qualche raro istante esageratamente euforico).

Era stata la mia cecità nei confronti di Milo. Non mi aveva chiesto di non farlo suonare quella sera? Ed io, non lo avevo volutamente ignorato, solo per farmi bello (?) davanti ad Orphée? Mi ero accorto, della sua difficoltà durante l’esecuzione? No, mi ero rintanato nel mio ego vanitoso, dando per scontato che lui mi avrebbe sostenuto nell’impresa. Perché non avevo collegato subito, che l’essere mancino era per lui un handicap al violino?

Mi arrovellai il cervello con simili domande dalla mattina alla sera, che passai fissando infelice e colpevole i cerotti ricoprire anche i polpastrelli sinistri del bicho, che stoico, seppur sfiorandolo appena, si ostinava ad esercitarsi nella sua parte, trascurando le piccole macchie rosse sul color carne dei nastri medicativi. E quando, sentendosi osservato, alzava il capo per sorridermi d’incoraggiamento, mi voltavo vergognoso dall’altra parte, ritornando ai miei spartiti.

Forse esageravo, era stato uno spiacevole incidente, però … però se tralasciavo queste piccolezze di routine, questi accorgimenti quotidiani, potevo affermare di volergli davvero bene? O il mio era solo un sentimento di gratificazione per le sue attenzioni nei miei confronti?

Oppure, sotto sotto, neanch’io ero tanto diverso da quell’uomo?

“Tout ira bien, Momus”, la voce stranamente dolce di Mamie mi fece sobbalzare dal letto. Quella sera mi ero ritirato presto e non per la stanchezza, bensì un atroce mal di testa e una lieve nausea. Bizzarro, non mi ero mai sentito prima di allora così alla vigilia di un esame. Docile, avevo preso poco fa la pastiglia offertami da Milo, ma quando quest’ultimo si apprestò ad accarezzarmi il capo, mi ero sottratto rapido a quel tocco. Visibilmente deluso e amareggiato da quel mio gesto, il ragazzo aveva pigliato il bicchiere vuoto, uscendo silenzioso dopo avermi augurato la buona notte.

E adesso era il turno di Mamie. “Hai studiato; ti sei impegnato con tutto te stesso, adesso devi solo dare il rush finale! Non angustiarti, fai solo peggio!”, mi consolò, passando la mano leggera tra i miei capelli, carezza che non ripeteva da quando avevo dieci anni e ancora avevo gli incubi riguardo a quell’uomo.

“Mamie …”, gracchiai, la voce incerta. Io per primo mi stupii del suo suono a me ora sconosciuto. “In caso dovessi fallire l’esame tu … tu mi vorrai ancora bene?”

La nonna non rispose subito, contemplando assente il vaso di gigli nuovi sul tavolino di vetro. “Che domanda sciocca, Momus! Tu passerai l’esame!”, affermò infine, schioccandomi un bacio sulla fronte. “Altrimenti, dovrò salvarti dall’ira funesta del tuo fratellastro, che a momenti si fa venire una cancrena alle dita per te!”, esagerò scherzosa, carezzandomi un’ultima volta la testa. “E ora a nanna!”

“Come il principe di Condé avanti la battaglia di Rocroi?” [1]

Socchiudendo la porta, Mamie sorrise: “Mi rallegro, che I Promessi Sposi ti abbiano insegnato almeno qualcosina! Bonne nuit!” e spense la luce, lasciandomi solo col mio spleen un poco ammansito, ma non placato.

Chiusi gli occhi, addormentandomi subito, sognando questa volta un sabba di mani mozzate danzanti attorno ad un Orphée in versione diavolesca, il quale ballava una giga sopra un enorme violino, suonando uno strano ibrido tra flauto, violoncello e arpa.

“Ti piace quel violino?”, vidi comparirmi Milo alle spalle. Indietreggiai, notando che ora i moncherini erano divenuti due. “E’ speciale, sai? L’anima delle corde non sono di budello di gatto, oh no! Sono …” e alzò la maglia, rivelando uno sbrego lungo tutto il ventre, dal quale gocciolavano sangue e altri fluidi mucosi. “Così, suonerò meglio per te …”, mi sorrise malsano, allungando le braccia prive di mani verso di me …

“Laisse-moi! Lasciami! Per favore, scusa! Scusa!”, urlai, alzando subito le mie a  mo’ di scudo. “Pardonne-moi! Perdonami! Scusa! Je ne voulais pas, je ne savais pas!”

“Hé, Ionesco! Calme-toi, tu veux?!”

Spalancai gli occhi, sussultando violentemente nel processo di risveglio. Respirando in dolorosi singulti, mi guardai attorno, osservando i timidi raggi mattutini farsi largo attraverso le tende tirate e Milo sedutomi accanto, le sue mani fermamente strette ai miei polsi. E ben presto intuii il perché di quel gesto: su di esse erano comparsi profondi graffi fino ai polsi stessi, che ben mi ricordavo non esserci la sera precedente.

“Se vieni in bagno ti disinfetto …”, si propose il bicho, allentando la presa. Doveva essere venuto a svegliarmi, trovandomi poi a grattarmi via alla San Bartolomeo la pelle delle mani. Poco importava.

“No, lascia. Non serve!”, replicai secco, sottraendogli le mani e alzandomi bruscamente. E con lo stesso piglio, mi diressi verso il bagno, tagliandomi le unghie fin quasi ad entrare in carne viva. Poi, posi delle leggere garze sui dorsi sanguinanti, confidando in una rapida guarigione per il giorno della prova pratica. Dopodiché, risciacquandomi il viso con dell’acqua gelida, uscii per la colazione, evitando di guardare per tutto il tempo Milo dritto negli occhi.

La giornata incominciava male.

 

“A che ora terminerà la prova di teoria?”

“Non lo so”, risposi evasivo alla domanda del bicho, continuando a tenere lo sguardo ostinatamente ovunque, tranne che sul suo viso. Eravamo in attesa sul corridoio assieme ad altri aspiranti studenti, ognuno perso nelle varie cogitazioni su come si sarebbe svolta la prima parte dell’esame.

L’aria era dannatamente calda  e soffocante. Mi levai sbuffando la sciarpa, cercando un minimo di sollievo da quell’umido umano.

“All’incirca ...?”, insistette il ragazzo, cercando di guardarmi in viso, gli occhi turchesi ansiosi ed apprensivi.

“Non lo so!”, ripetei scocciato, raccogliendo la mia borsa a tracolla e dirigendomi all’interno della sala ora accessibile agli esaminandi. “Non ti obbligo ad aspettarmi! Vengo a casa da solo, casomai!”, gli ricordai all’ultimo, girandomi verso di lui.

Invece, Milo si sedette su di una sedia ora vuota, incrociando caparbio le braccia.

Mi morsi colpevolmente a disagio il labbro: perché infieriva così? Cosa voleva dimostrarmi?

 

***

 

Ora Kanon era sul serio in agitazione, neanche fosse una partoriente al momento della rottura delle acque. La situazione si stava inclinando verso una linea affatto piacevole e il giovane si vedeva attaccato su due fronti, entrambi problematici e bisognosi di pronta soluzione.

Altrimenti, era una gastrite assicurata.

Incendiato dai suoi furori di buon samaritano delle coppie, il gemello minore meditava  nel suo solitario letto disertato dal suo meco, su quale dei due problemi focalizzarsi prima . Eggià, non gli bastava l’offensiva teutonica da occidente, ora pure la batosta franco-greca da nord! L’agitato appello del fratello alle otto e un quarto precise del mattino, durato circa mezzora in un’escalation d’isteriche paranoie, aveva istillato nel suo cuore brutti scenari, uno più nero dell’altro.

Il pinguino andava inchiap- ehm, neutralizzato, altrimenti la situazione finiva à foutre le bordel! (nel caos, ndr.) Ma come? Il suo piccolo bicho stava soffrendo in quel preciso istante della sindrome del seme indulgente: con la scusa di assumersi il ruolo del passivo, l’uke lo teneva inesorabilmente in scacco. Lo si poteva minacciare, ricattare, tentare la deflorazione-stupro, ma se l’eraste ne era sul serio innamorato, con la scusa che il suo diletto metteva in gioco le sue fesses per la prima volta, il senso di colpa e la paura di fargli male equivalevano per lui ad un deterrente micidiale, peggio della visione di Depardieu nudo.

Eppoi, era come l’imprinting di Lorenz: se riusciva bene, il bis sarebbe stato accordato; in caso contrario, hé, l’affare si complicava …

“Basta!”, eruppe convinto Kanon, battendo i pugni sul materasso. “Devono trombare! Solo così il loro matrimonio sarà salvo!” ed euforico della sua decisione, scese dal letto, tuffandosi alla ricerca del suo cellulare e, una volta trovatolo, sfogliò l’agenda, chiamando un numero registrato sotto il nome di Ariel.

“Uhm … chi è?”, rispose dopo qualche minuto una voce impastata dal sonno, seguita da un enorme sbadiglio.

L’amore era un gioco d’azzardo, potevi vincere al bancone il tuo amore o perderlo alla prima giocata. Questa lezione, Kanon l’aveva ben appresa; ma anche sapeva, grazie ad una gitarella estiva al principato di Monaco coi suoi amici, che fin dagli antipodi nel gioco d’azzardo il baro era una verità assodata e imprescindibile. 

“Yo! C’est moi, Nônon! Abbiamo un serio problema tecnico …”, sogghignò il gemello minore, allungando il collo oltre la sua porta, avendolo distratto un rumore inusuale per quell’ora mattutina. Infatti, i suoi occhi zaffiro avevano pizzicato un Aiolia già vestito con indosso il cappotto, rientrare circospetto in casa, portando appresso un grande scatolone.

La faccenda si complicava …

 

***

La prova non era stata così difficile da come me l’ero immaginata, al contrario l’avevo trovata relativamente facile: domande di teoria a crocette; suddivisione dei pentagrammi in base al tempo indicato ed infine riempimento degli stessi con note, in modo da creare una frase musicale attinente sempre alle indicazioni di ritmo fornite.

Invece, qualcosa mi suggeriva che la vera sfida sarebbe stata la prova “orale”, i brani al pianoforte. Del resto, il programma che dovevo presentare non era ostico, solo denso di brani e le possibilità di deconcentrazione erano alte, dopo sei sonate di seguito.

Sospirai stufo, massaggiandomi il collo indolenzito. Qualche giorno prima, avrei dato la mano destra pur di trovarmi al Conservatoire de Paris e lì sostenere l’esame d’ammissione. Invece, adesso che effettivamente lo stavo facendo, la cosa non mi riempiva di eccessiva gioia, anzi, non vedevo l’ora che fosse tutto finito.

Anche perché, fintanto che la mia mente era impegnata nella prova scritta, essa non aveva avuto modo di tormentarsi ulteriormente con le parole di Orphée. Ma ora che la fonte di distrazione era svanita, quel discorso era tornato a torturami con maggior vigore.

Sei cattivo dentro, diavoletto mio. Sei una pula, che soffoca qualsiasi cosa ti stia intorno. Hé, visto che razza di bestia era tuo padre, non mi sorprenderebbe, se tu avessi ereditato il suo sangue marcio! Come si suol dire, tale padre tale figlio, eh?

“Mince!”, imprecai, notando come inconsciamente avessi preso a grattarmi le mani. Le mie unghie corte fino all’inesistenza non potevano far alcun danno materiale, però era il gesto di per sé a preoccuparmi: era da  anni, che quel tic non mi capiva più e adesso non desideravo per nulla al mondo, che mi ritornasse. Non dopo averlo soppresso con tanti sforzi.

Mi calai a viva forza le mani nelle tasche del cappotto, proteggendole di più con i guanti, dirigendomi poi verso il punto esatto dove Milo ed io ci eravamo congedati; senza accorgermene, ero uscito dalla parte opposta.

Forse avrei dovuto dirgli, ciò che avevo udito due sere fa; d’altro canto, però, avevo paura che lui mi confermasse quanto proferito da Orphée, giudicandomi un egoista insensibile. No, pensai, trovandolo fermo e immobile nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato due ore fa. Per il momento, era meglio tacere. Dopo la sezione finale dell’esame, ecco, gli avrei rivelato tutto. Solo allora.

Mi appresati a salutarlo, quand’ecco che dalla parte opposta del corridoio gli galoppò incontro un giovane dai corti e arruffati capelli biondo cenere, recante in mano uno scintillante flauto traverso. Raggiuntolo, lo abbracciò a tradimento, schioccandogli due feroci baci sulle guance, stritolandolo quasi.

Indispettito da quell’atteggiamento troppo confidenziale nei confronti del bicho, accelerai il passo, onde fare il punto della situazione con quell’impertinente, ogni senso di colpa subito accantonato.

“Milou!”, esclamò quegli, liberandolo dall’asfissiante abbraccio, “Ché! Non si saluta il tuo ex cognato?”, sogghignò dinanzi all’espressione prima confusa, poi stupefatta di Milo, che balbettò piacevolmente sorpreso:

“Sor- Sorrento?”

“Mouais, dalla fossa delle Marianne!”, scherzò il flautista, sedendosi accanto a lui a gambe incrociate. “Sono tanto invecchiato, che non mi riconoscevi?”, gli domandò falsamente preoccupato, stirandosi fantomatiche rughe.

Milo ridacchiò. “No, però hai dato un brusco taglio ai capelli: ti ricordavo una versione femminile di Raperonzolo!”

“Tzé! Ha parlato il pelatone!”, bofonchiò Sorrento offeso, scompigliando con un’energica zampata la chioma di Milo, che gli lambiva le spalle. Ad un tratto, voltandosi nella mia direzione, il giovane uomo si raddrizzò più composto, inquisendo estremamente formale: “Posso fare qualcosa per voi?”

Lo scorpion ed io aprimmo la bocca per replicare, ma una quarta s’intromise assai sbuffante e scocciata: “Toi! Sorrento! Ti paiono scherzi da fare? Scappare dalla caffetteria e lasciare a me il conto da pagare?”

Tutti e tre ci girammo verso il nuovo arrivato, uno studente più o meno coetaneo dell’accusato. I suoi capelli biondo-rossicci me lo identificarono subito in Michel l’arpista, il quale, in quell’istante, pareva essere molto propenso ad usare le corde del suo strumento, onde strangolare il fellone fuggitivo.

“Mime!”, giubilò impunito Sorrento, battendo la mano sulla sedia, invitandolo a sedersi. “Guarda un po’ chi ho pizzicato in questa Alcatraz musicale: il fratello del mio ex! Com’è piccolo il mondo, eh?” Lo sguardo spassionato di Michel – perché poi lo appellava Mime? – gli riferì che non era una novità poi così straordinaria: era risaputo, che la maggior parte della popolazione francese risiedesse nella capitale.

“E tu? Che diavolo hai ancora da guardare? Fatti i cavoli tuoi, aria!”, m’intimò scocciato, neanche fossi un molesto moscone.

“Abruti!”, mi venne in soccorso l’arpista, elargendo un piccolo buffetto alla guancia di Sorrento. “Sii un po’ più rispettoso nei confronti del fratellastro del tuo ex cognato!”

“No, sei il famoso Pingu Paguro?”, si mordicchiò interessato il flautista le sue labbra, già di loro abbastanza gonfie e offese dalle lunghe ore di studio e esercitazione dello strumento. “Kanon mi ha parlato moltissimo di te! Enfin, lo faceva quando ancora stavamo insieme! Sei tu il furbastro, che ha tenuto Milou all’amo per ben sei anni?”, e stringendosi a me, dopo essere balzato giù dalla sedia: “Avanti, confessa! Qual è il tuo segreto?”

Tirandolo via per il coppino, Michel replicò perentorio: “Magari te lo rivela a fine lezione, cui noi due dobbiamo presentarci, altrimenti il maestro ci fa blu e viola!”

“Eddai, Mime! Abbiamo ancora dieci minuti!”, pigolò il flautista, arricciando triste la bocca.

“Smettila di chiamarmi Mime! Ce n’est pas sympa!”, ringhiò quegli altamente innervosito dal nickname. Poi, intuendo la nostra perplessità, ci svelò l’arcano dei suoi intimi crucci: “Mime sono le iniziali del mio nome e cognome, Michel Messler. E questo cretino lo trova divertente! Perché appellarsi come una città campana non lo è!”

Ineffabile, l’altro studente replicò serafico: “Hé, Mime! Che colpa ne ho, se i miei mi concepirono a Sorrento in viaggio di nozze? Poteva anche andarmi peggio: ancora qualche kilometro, ed era Amalfi! O Castellammara (di Stabia); o …”

“O Capri direttamente!”, sbuffò Michel, incrociando spazientito le braccia. “In ogni modo”, sospirò, rivolgendosi a me “essendo concittadini, credo che tu conosca il qui delinquente Sorrento Sirène!”

“Ne ho sentito parlare …”, ribattei freddamente, stringendo gli occhi alla vista del braccio di Sorrento avvinghiato alla vita di Milo e soprattutto, che quest’ultimo se ne stesse tranquillo immobile, senza respingere quel contatto.

“Bien! Era lui il flautista scomparso del concerto di due sere fa! Sai, noi due suoniamo quasi sempre assieme!”

“Eddai, Mime, puoi anche dirgli che altro facciamo noi due …”

“Ta gueule! Non insinuare, quel che non esiste! Io non sono né il tuo p’tit ami, né la tua concubina, né il tuo partner occasionale, quando torni dalle soirée hype così ubriaco fradicio, da non sapere neppure da che parte si tiri lo sciacquone! Solo il tuo coinquilino!”, berciò rosso in viso l’arpista, gesticolando freneticamente.

“Gli sto facendo una corte serrata …”, spiegò il flautista sornione all’orecchio del bicho, approfittandone per sfiorargli la nuca. “Ormai sei sul punto di cedere, dai Mimì ammettilo!”, disse invece ad alta voce al compagno di studi.

Esasperato, il giovane studente si appoggiò sconsolato sulla mia spalla. Capivo, ora, il motivo per il quale Sorrento e Kanon si fossero messi assieme da ragazzi; tra due giannizzeri ci s’intendeva anche fin troppo.

“Uhm, temo che dobbiamo congedarvi da voi … Orphée ci attende … casomai, che ne dite di vederci questo pomeriggio? Abitiamo alla Résidence Michel de Bourges, al XX arrondissement !”, ci propose Sorrento, dopo aver controllato l’orologio. “Alle quattro e mezza?”

A onor del vero, avrei avuto intenzione di declinare l’invito, poiché avevo in progetto di ripassare i brani per l’esame. Ciononostante, fui costretto a cedere  in quanto Milo fu subito entusiasta di accettare quel rendezvous ed io non mi fidavo di lasciarlo solo con quell’esuberante flautista, no no.

“Perché gli hai detto di sì?”, domandai al bicho, mentre i due musicisti si allontanavano in direzione della loro aula. Senza voltarsi, Milo fece spallucce, replicando laconico:

“E a te, che importa?”

Arretrai di un passo, quasi mi avesse schiaffeggiato.

Parlagli stupido! Spiegati! Non ti legge nel pensiero!

Non feci nulla.

Coglione!

 

***

 

“Nônon”, esordì pacifico Saga, scribacchiando sul suo quaderno qualche nota dal voluminoso Gray’s Anatomy (il manuale medico-chirurgo scritto dall’inglese dottor Henry Gray e Sacra Bibbia per ogni studente di medicina). “Hai notato, che ultimamente Iou – Iou è un po’ strano?”

Alzando gli occhi dal suo libro, invece, di  The Business Environment on the Net, Kanon si lasciò sfuggire a bruciapelo: “Pure lui?” e il suo sguardo si fermò sull’ignaro oggetto della loro conversazione, il quale scendeva le scale tranquillo, recando sottobraccio il libro di matematica per l’ultima verifica del prossimo martedì.

“Mais oui, sono quasi tre giorni che circola con fare sospetto intorno alla casa; per non parlare del fatto che, piuttosto di assentarsi, preferisce alzarsi all’alba pur di dormire qui da noi!”, espresse il gemello maggiore le sue preoccupazioni.

“Si sentirà solo, forse …”

“Chi è, che si sente solo?”, interruppe Aiolia il secondo fratello maggiore, appoggiando il suo libro e quaderno sul tavolo, sfogliandoli distrattamente. “Uhm?”

Tamburellando incomodo le dita sul tavolo, Saga diede voce alle sue perplessità di mamma chioccia: “Ehm, Iou – Iou, volevo … anzi, volevamo chiederti se … se così, per caso, ti sentivi un po’ giù,  ecco … enfin, te ne stai sempre in disparte … sei schivo … meno estroverso del solito … stai bene?”

Aiolia sbatté le palpebre confuso, chiedendosi a che quota di caffè corretto fosse arrivato quella mattina il fratello. “Mais non, ça va …”, nicchiò, trovando d’un colpo attraenti i vari teoremi e postulati del libro.

“Sul serio? Ti vedo a disagio …”, insistette il gemello maggiore, posandogli il dorso della mano sulla fronte, onde tastarne la temperatura. “No … sei fresco … comunque, c’è qualcosa che non va? Vuoi parlarne?” e per “discuterne assieme” Saga intendeva l’imperativo categorico di vuotare il sacco con lui, o altro.

“Tranquillo, non c’è problema …”, ribadì il lionceau, apprestandosi a filarsela all’inglese e prontamente intercettato da Kanon.

“Dai, Iou – Iou, lo sai che ti puoi confidare con noi! Ti senti depresso? Demotivato? Nostalgico? Malinconico? O un po’ gay?”

“EH?!?”, squittì Aiolia indignato per l’ultima opzione, giacché tutti i suoi solit- eh-ehm, tutte le sue aspirazioni le dedicava ad un’unica figura dolcemente curvosa, rossa e con una quarta di reggiseno. “Ti sei rimbambito? Che dici? Sto benissimo! Non preoccupatevi per me!”

Afferrandogli le guanciotte, Saga esclamò ultra - apprensivo: “Mon p’tit lionceau! Non mentire: dimmi che cosa ti turba!” e gli ruppe a momenti qualche vertebra, tanto lo scuoteva a destra e a manca.

“Il n’y a rien!”, ululò esasperato Simba, rabbrividendo quando il gemello maggiore gli accarezzò il capo contropelo. “Laisse-moi tranquille! Insomma, non ho più cinq- …”

Birupiri, piripurupuuuhhhh …

Silenzio apocalittico.

“BASTA CON QUESTA HILDA!!!”, esplose il Vesuvio, assordando e ingollando Pompei, Ercolano e Stabia. “Non ne posso più! Vi chiamate a tutte le ore su Skype! O MSN! E adesso pure via sms?”, si strappava i capelli, sotto lo sguardo attonito di Aiolia e scocciato di Saga, che rispose gelido:

“Innanzitutto, non è Hilda, ma un mio compagno di corso; secondo, le nostre conversazioni non sono affari che …”

“Non scazzare! Non è normale, che vi sentiate tre volte al giorno! Siete più appiccicosi del moschicida! O di un waffle malriuscito!”, lo interruppe isterico, saltellando da un piede all’altro. “Lo so, che tu mi stai tramando alle spalle qualcosa! Confessa!”

“Moi?”, ribatté incredulo il suo doppio, soppesando l’ipotesi di avviluppare Kanon nella camicia di forza d’emergenza e rinchiuderlo in cantina. “Ma Nônon, ti stai rendendo conto delle caz- …”

“Perché mi vuoi lasciareeehhh???”, si mise a frignare senza vergogna il gemello minore, afferrando disperato il cane, che aveva avuto la sfortuna di passare di lì. Solidale, Fred iniziò ad ululare assieme a lui.

“Dove vuoi che vada?”, chiese esterrefatto Saga a nessuno in particolare e massaggiandosi la tempia dolorante. Seigneur, quanta pazienza … “Sono qui, oggi non ho impegni  a parte studiare e …”

“Ti porterà sulla via della perdizione!”, continuava Kanon il suo straziante Bocete, seguito a mo’ di coro dai guaiti del pastore tedesco. “Ti disonorerà!”

“Chi?”, s’informò ora irritato il gemello maggiore, il quale iniziava a capire dove l’altro voleva andare a parare.

“Lei! Quell’innominabile Fritz! Con la scusa, che sei tutto pulzello e ignaro del mondo, ti costringerà a fare cose molto brutte e cattive! E io non sarò lì a proteggere la tua virtù! Ti sei salvato una volta in extremis, ma la prossima?!” e l’ultima affermazione provocò un feroce rossore sulle guance alabastrine di Saga, che, irrigidendosi, commentò acido:

“E se anche fosse, che te n’importa?”

Lamentandosi ancora più forte, tanto che forse pure i vicini l’avevano udito, Kanon eruppe: “Ma ti senti? Ti ha già corrotto! Povero il mio fratellone! Eri troppo buono e puro per questa landa di lascivi peccatori!”

Trattenendosi dalla matta voglia di appenderlo alla grotta di Lourdes – quella vera – il detto Candido cercò, ardua impresa, di far ragionare il povero traviato. “Senti Nônon, lo scherzo è bello quando dura poco! Ora, Hilda ed io siamo in ottimi termini, ma non significa …”

“E’ tutto un bluff! Così tu abbasserai la guardia!”, gli ricordò il suo doppio, testardo.

“Ma non è vero! La conosco bene: non è il genere di persona, che …”

“Ne riparleremo, quando ti avrà legato al letto alla sadomaso, costringendoti in un’orgia a sei! Allora, ti pentirai di non avermi ascoltato!”, l’ammonì Kanon, puntandogli contro il dito in posa da profeta. Seriamente seccato, Saga tentò di morderglielo. Quanto ad Aiolia, per la sua sanità mentale aveva chiuso la connessione col suo cervello.

“Che orgia e orgia d’Egitto? Eppoi, non ti permetto di sparlare di lei in sì volgare maniera! Hilda, contrariamente a chi so io, non mi ha mai ingannato, è sempre stata molto sincera  e corretta nei miei confronti! Mi ha aiutato a muovermi nell’ambiente universitario al primo anno; mi ha trovato una casa … le devo molto! Quindi, azzardati a riempirla oltre di codeste infamanti accuse e quant’è vero Iddio ti spacco la faccia!”, tuonò Saga, battendo livido e porpora il pugno sul tavolo.

“Vedi? Vedi? Ti ha messo contro di me, la gueuse!” (baldracca, ndr.)

“Ah ouais? Incomincio io a sputtanare Rhada?”, lo sfidò il gemello maggiore, sorridendogli malsano. Aiolia andò a riempire un catino di acqua gelida, pronto ad usarla per calmare i due tori gemelli.

“Provaci!”, sibilò minaccioso Kanon, rimboccandosi le mani e scrocchiando le nocche. “Avanti, provaci! Così ti castro definitivamente! Mi preoccupo per il tuo bene, e così tu mi ripaghi?”

Sbollendo la rabbia, intuendo la buona (?) fede del gemello, Saga tentò un ultimo disperato approccio: “Se solo mi lasciassi finire di spiegare, di che natura sia il nostro rapporto, allora comprenderesti che Hilda è …”

“Non lo voglio sapere!”, pestò infantile Kanon i piedi per terra, dispettoso come un gosse in manca di caramelle. “Non me lo dire!”

“E invece sì!”

“Non!”

“Si!”

“Non!”

“Si!”

“Non!”

“Si!”

“NON! JAMAIS!”, fece Kanon per uscire dalla cucina, prontamente riacchiappato per il coppino da Saga, che lo trascinò al suo centro.

“SI! E adesso!”, berciò, piazzandoglisi bellicoso davanti, le mani poste ai fianchi.

“Non voglio ascoltare nulla di te e di quella tua concubina!”, strillò impazzito il minore, scuotendo il lampadario al soffitto con le sue vibrazioni sonore.

Fu la goccia, che fece traboccare il vaso. Perché arrivato ad un certo punto, il cervello di Saga aveva elaborato le solite due strategie: o l’accoppo, cosa che non poteva per scrupoli di coscienza, o doveva zittirlo in un modo o nell’altro. Tuttavia, l’ultima opzione era un bell’issue, giacché il suo doppio non pareva molto disposto alla conversazione. E fu così che, stordito dagli acuti del gemello, il maggiore ripiegò sull’unica notizia in grado di chetare la gallina partoriente, qual si era trasformato Kanon.

“Non è la mia concubina, bon sang, è la mia ragazza!”, dichiarò con veemenza, rimanendo lui stesso stupito delle sue parole: non era esattamente quella, la notizia che intendeva nei suoi astrusi ragionamenti. L’effetto, tuttavia, fu proprio quello desiderato. Infatti -  tralasciando il piccolo particolare del bicchiere caduto di mano ad Aiolia -  non solo Kanon tacque, strangolandosi per poco con la sua stessa saliva, bensì …

“Seigneur, Kanon!”, esclamò Maman, appena rientrata a casa e subito attirata sul luogo del delitto dalle urla belluine in cucina. Correndo, parò al volo il giovane cascante all’indietro.

Ebbene sì.

Saga non solo aveva zittito Kanon.

Lo aveva pure fatto svenire.

 

***

 

La temuta domenica sera arrivò prima di quanto desiderassi. Oddio, era passato solo un giorno dal nostro incontro con Sorrento e Michel, detto Mime, però intimamente avevo sperato fino all’ultimo che qualche dio del tempo potesse cancellare con la gomma quel giorno ai miei occhi ora assai molesto.

Sabato pomeriggio, come promesso, ci eravamo recati alla Résidence Michel de Bourges a Belleville, nella quale i due musicisti dividevano un appartamento. Un posto abbastanza tranquillo, anche se, ci confessarono, ogni tanto  vi erano certi pote de couilles che li facevano venire voglia di accopparli senza tanti rimpianti e scaricarli poi alla discarica più vicina.  I soliti rompiballe delle due del mattino, insomma.

Trascorremmo assieme un pomeriggio piuttosto piacevole, o meglio, fu grazie alla buona volontà di Michel, il quale trattenne Sorrento dal comportarsi nella sua solita eccessivamente esuberante maniera. Infatti, benché ormai avesse più o meno capito come stessero le cose tra Milo e me, il giovane studente si era lo stesso incollato al bicho peggio di una patella, ridacchiando insieme a lui costantemente ed elargendogli di tanto in tanto qualche ambigua carezza. E l’altro, come al solito, non vi si sottraeva.

Poi, terminato il caffè col dolce, l’arpista insistette a recarci al Café Culturel di Saint-Denis, visto che per quella sera era stata organizzata l’ultima sessione di poesie slam, che a suo parere non dovevamo perdercele per nulla al mondo. Fu lì, che Sorrento uscì con la sua proposta indecente: Perché domani sera non venite con noi ad una soirée hype? E dinanzi le mie argomentazioni circa il piccolo e trascurabile dettaglio della nostra minore età, quegli rispose tranquillo che il modo per farci entrare lo conosceva molto bene e che le expos e le soirée hype erano uno dei tanti must, per coloro che vivevano a Parigi.

Impotente al tre contro uno durante le votazioni, ancora dovetti arrendermi alla volontà del gruppo, sperando di non commettere nulla di illegale da farci sbattere dentro. O comunque un giretto alla gendarmerie.

 Quale poi fu il metodo infallibile di Sorrento, forse non l’avrei mai saputo, fatto stava che in meno di un quarto d’ora di attesa eravamo dentro ad un edificio diviso in tre piani, ciascuno fornito da una pista da ballo, un angolo “conversazione” caratterizzato da spaziosi divanetti di pelle e un bar, dove le bevande analcoliche erano state bandite categoricamente. Non mi sarei stupito se perfino dai rubinetti fosse sgorgata vodka, invece che acqua.  Il tutto condito da un  qualcosa di strano nell’ambiente: non ero un esperto in materia, tuttavia quel locale non mi sembrava la solita discoteca, aveva un che di bizzarro, grottesco … le decorazioni geometricamente distorte; i colori dai toni forti e violenti dell’arredamento, mescolati alle luci sparate in irregolari fasci e la stessa musica ossessivamente ripetitiva mi ricordavano molto il film espressionista Das Cabinet des Dr Caligari.

E non mi capacitavo, dove i partecipanti a questo sabba domenicale trovassero il divertimento in quell’obbrobrio da paranoia party. Ciononostante, mi sforzai ad adeguarmi all’umore della serata, imitando gli altri astanti in danze – sempre che si potessero definire così – ai limiti dell’epilessia, anzi no, del Candomblé  (Non è il cordon bleu, è una religione afrobrasiliana, ndr.) pur di non apparire come mio solito fuoriposto. Ma a confronti di quei posseduti danzanti, parevo una marionetta che aveva ingoiato la mattina a colazione un bastone di legno stagionato, invece che un croissant. Resistetti finché potei, poi dovetti cedere all’impellente bisogno di respirare aria pura e di vedere luci più stabili e meno abbacinanti.

“Esco un attimo!”, urlai all’orecchio di Milo, essendo la musica così forte, da ovattare le mie parole. Gli afferrai il braccio, appurando che neppure sgolandomi riuscivo ad ottenere la sua attenzione. “Io. Esco. Un. Secondo!!”, articolai, appello cui lo scorpion, sposandosi una ciocca dalla fronte imperlata di sudore, rispose abbracciandomi forte.

“Dai, resta ancora un po’! Questa e poi esci, eh?”, mi pregò, ingoffando i miei movimenti, onde impedirmi di procedere di un passo. Delicatamente, mi sciolsi da lui, sfuggendo ai suoi tentativi di riacchiapparmi. Gli feci intendere che sarei tornato presto; il ragazzo annuì, seppur intravedessi – tra un bagliore e l’altro – una certa delusione farsi largo nei suoi occhi. Mi dispiacqui di ciò, ma sul serio mi sentivo poco bene.

L’aria fredda invernale mi sferzò salutare sul viso, riempiendo i miei polmoni di quella frescura di cui tanto necessitavo. Mi sedetti sui gradini del club, grato di come la mia testa avesse smesso di girarmi. Giudicando passatomi il piccolo malessere, mi riposi in piedi e rientrai, salendo lievemente traballante le scale.

Mi fermai di colpo, pugnalato al cuore.

Ben celati in un angolo oscuro, Milo e Sorrento si stavano baciando.

Corsi in bagno e vomitai perfino l’anima.

 

 

Qualche minuto prima …

 

“Hey, Cendrillon! Che ci fai tutto solo soletto sulle scale?”

La voce ilare di Sorrento fece sobbalzare Milo, il quale si era appostato nello stesso punto, da cui aveva visto passare il suo meco per uscire dal locale. Appurando trattarsi dell’ex del fratello, il bicho alzò le spalle, alzandosi lentamente.

“Non ti piace la festa?”, inquisì il flautista con nonchalance, mangiucchiandosi un’unghia.

“Nah, è ok …”, rispose incolore il ragazzo, appoggiandosi stancamente al muro. “Forse sono un po’ stanco …”

“Ah! Proprio tu, che alle cinque e mezza del mattino ancora saltavi come un grillo strafumato? Hai battuto perfino il record di Kanon, che aveva fatto le quattro e trequarti!”, scherzò il giovane, ponendosi appresso a lui. Poi, però, il suo sorriso si commutò in uno più dolce. “Come sei cambiato, Milo. Ancora non mi capacito di trovarmi innanzi lo stesso ragazzetto arrogante, che lasciai a Mont-de-Marsan due anni fa …”

“Tutto cambia, è la legge della natura. Anche tu sei diventato meno frignone del solito!”, insinuò malizioso lo scorpion, incrociando al petto le braccia.  Ineffabile, Sorrento alzò le sue.

“Invece, che ti porta ad isolarti nel bel mezzo del divertimento? Il tuo bel pinguino ha scodinzolato la codina altrove e tu abbassi la tua, uhm?”, lo provocò il flautista sornione. Milo spostò il peso da una gamba all’altra,  d’un colpo irritato.

“Sei ubriaco, Sirène?”, l’accusò infastidito, apprestandosi a disertare la sua compagnia; rapido, l’altro giovane gli bloccò la strada parandogli davanti. “Spostati!”, gli ordinò perentorio. Sogghignando ambiguo, lo studente replicò sarcastico:

“Perché così in fretta? La conversazione era interessante … Che ridere! Da quando in qua scappi come una donnicciola spaurita? Tempo addietro, avessi tentato di trattenerti contro la tua volontà, ero già orizzontale per terra!”

“Chissà … magari ho deciso d’iniziare ad ascoltare ogni tanto anche il cervello, invece dell’ipofisi …”, ribatté dello stesso tono Milo, riappoggiando la schiena contro il muro e fissando di sottecchi il flautista, valutandone la prossima mossa.

“Oppure ti sei così rammollito da essere relegato al ruolo di lap dog di quel mocciosetto rosso!”, concluse serafico Sorrento, nascondendo le mani dentro le tasche. Curiosamente, il suo sguardo era perso verso l’uscita, vagando da essa alle scale e viceversa. “Sei anni! Come diavolo avrà fatto quel ragazzetto noioso, senza qualità, scialbo e più represso di una suora in menopausa ad averti lasciato pendere come un salmone per tutto questo tempo? A meno che, in letto non si trasformi in un’altra persona più soddisfacente …”, alluse perfido, stringendo gli occhi in due fessure.

Spingendosi via dal muro, Milo partì infuriato alla carica, levando il pugno per far tacere quella bocca maligna ed indiscreta. Al contrario, Sorrento lo intercettò, bloccandogli il polso e sbattendolo contro la stessa parete, tappandogli la bocca in un insistente bacio.

“Ahua!”, esclamò il flautista indietreggiando, le dita portate a protezione del labbro inferiore. Si mise a ridere. “Piccola belva: mi hai morso!”

“Avvicinati ancora, e vedi che altro ti faccio sanguinare!”, lo minacciò lo scorpion tutto chele e pungiglione. Portando in avanti le mani, lo studente dichiarò sincero:

“Non è mia intenzione! Anzi, sono contento di appurare, che finalmente ti sia innamorato nel vero senso della parola, al posto di giocare a farlo come in passato! Ah non, adesso non negare che quel piccolo peluche rosso non ti piace, ché ti disconosco!”

Milo non rispose, si limitò a girare lo sguardo da un’altra parte. “Tu che ne sai?”

Avvicinandosi un poco a lui, Sorrento l’assicurò: “Due anni fa mi ricordo benissimo, che era gara tra Kanon e te a chi si portava più gente a letto. Ergo, se sul serio questo Camus non ti fosse interessato, avresti risposto tranquillamente al mio bacio. Invece, mi hai respinto. E questo non perché sono l’ex di tuo fratello, sii sincero con te stesso!”

Lo scorpion si ostinava nel suo silenzio.

“Néanmoins, neanche il piccoletto ne è immune: da ieri mattina, mi avrà assassinato una miriade di volte con lo sguardo!”, commentò, allontanandosi verso la sala. “Datevi una mossa voi due! O avrai più probabilità di vedere prima i tuoi nipoti!” e sornione si rimescolò tra quelle figure danzanti in luci da trip psichedelico, lasciando solo il bicho coi suoi propri pensieri.

Sbuffando irato, il ragazzo lo seguì poco dopo.

 

“Allora Petit Chaperon Rouge, che ti posso preparare? Il classico gin tonic o vuoi qualcosa di più forte?”

Il tono del barista era giovale, come solo i lavoratori nel settore dell’ospitalità riuscivano a fingere di essere. Doveva trattarsi di qualcosa di innato, il risultato raramente era così naturale.

“Et bien?”, m’incalzò l’uomo, leggermente accigliato della mia lentezza. Tzé! Come se fosse facile con quella luce a scatti della malora!

“Uh … un … un … un Swirling of Heaven!”, articolai alla fine, scegliendo il cocktail più bizzarro della lista, il quale si rivelò una caraffa di quasi un litro blu scuro misto a giallo. Pagai i dodici euro dovuti e, pigliata una cannuccia, mi acquattai sul mio sgabello, affondandovi i miei dispiaceri. (La testa era troppo grande, purtroppo) Perché quella visione era stata una mazzata infernale; di tutte le cose terribili che mi potevano capitare, assistere all’infedeltà di Milo era la peggiore. Faceva male, maledizione se faceva male! Non avrei mai più contraddetto Kanon, quando si esibiva nelle sue gelosie verso Rhada. Ma quel che era orribile, era di sentirmi come spezzato dentro: avevo tanto investito su di lui, mi ero tanto sbilanciato, aperto, affidato. E adesso? Qual era il feedback?

Uhm?

Stupido, stupido Camus! Ancora una volta ti eri lasciato fregare da un’allettante promessa di affetto e amore e ora ne dovevo di nuovo pagare le amare conseguenze!

Terminai in poche sorsate il cocktail, reclamandone un altro a casaccio, purché mi distraesse dal fastidioso tremore alle mani, nonché al groppo in gola formatomi. Il mio sollievo arrivò celere e altrettanto velocemente ripresentai la caraffa all’esterrefatto barista.

“Il prossimo te lo offro io!”, mi sussurrò accanto una voce melliflua, ponendomi un’immonda zampa sulla mia spalla. Rabbrividii di disgusto.

“Ho i miei soldi! Aria!”, replicai intransigente, limitandomi questo giro ad un normale bicchiere. Vuotatolo, mi apprestai ad allontanarmi dal bancone, sennonché le mie gambe cedettero per un istante e rischiai di cadere. D’istinto allungai la mano al primo appiglio disponibile, che si presentò sotto le sembianze dello scocciatore di prima.

“Oplà! Pare che abbiamo un problema di stabilità! Vieni, ti porto al bagno …”, disse, conducendomi effettivamente alla toilette. Lì, però, ogni sua intenzione da buon samaritano vacillò, giacché una volta dentro mi strinse contro di lui, tentando di baciarmi.

Schifato, mi separai stizzito da lui, spingendolo via bruscamente. Dopodiché, mi diressi infastidito al lavandino, sciacquandomi il viso e il collo con dell’acqua gelida.

“Ah, così ti piace il foreplay violento, eh?”, mi fu di nuovo addosso, cingendomi la vita da dietro e scorrendo le sue luride manacce sul mio corpo. Ebbi voglia di vomitare.

“Laisse- moi tranquille!”, ringhiai pericoloso, stringendomi ai bordi di ceramica del lavandino. “Fiche moi la paix!”, ribadii allo stesso tono, irrigidendomi, i muscoli contratti al punto di ebollizione.

Sorde, quelle zampe continuarono nella loro impudica esplorazione anche sotto la mia camicia, mentre delle volgarità irripetibili mi molestavano le orecchie.  Un magma di fango pieno di rabbia, umiliazione, dolore e frustrazione mi investì in pieno, annebbiandomi la mente in un turpe turbinio di scariche furiose elettriche attraverso i miei nervi. Le dita mi si contraevano ormai fuori controllo. Il mio respiro si era assottigliato fino ad essere un filo d’aria impercettibile. Il resto del mio corpo vibrava in un rancoroso spasmo, esigendo vendetta per quell’indesiderato approccio. Infedele o meno, solo Milo poteva toccarmi. Solo lui.

“J’t’ai dit de me lasser tranquille, putain de merde!”, imprecai fuori di me, voltandomi di scatto e colpendo in pieno viso il tizio, stendendolo con un sol pugno. Sogghignai poi compiaciuto, circondando il mio assalitore in languidi giri, il mio sguardo incollato alla sua figura supina.

“T’es fou ou quoi, espèce de psycho?”, protestò quegli, portandosi la mano sul labbro spaccato. “Tu m’as frappé, p’tit con!” (Sei pazzo o cosa, razza di psicopatico?, Mi hai colpito, piccolo coglione!, ndr.)

Gli lanciai un calcio al fianco, zittendolo. “Silence: je t’interdis de me parler!” (Silenzio : ti proibisco di parlarmi !; ndr. ) Risi di nuovo, cattivo, crudele. “Allons, ne sois pas si surpris: tu m’avais dit jusqu’avant, que le foreplay rude est de ton goût, hein ? Et moi aussi, il me plaît à foutre la merde , surtout si c’est moi, qui te frappe la colonne vertébrale dehors de ton cul ! Hein ?”(Eddai, non essere così sorpreso: non mi avevi appena detto, che il foreplay rude era di tuo gusto, eh? Anch’io l’adoro alla follia (in realtà il termine sarebbe più prosaico), soprattutto se sono io, quello che ti calcia la colonna vertebrale fuori dal culo! Eh?, ndr.), ripetei, elargendogliene un altro più doloroso.

Boccheggiando e celando la parte lesa con la mano, l’uomo ansimò :“T’es malade! T’es un sale chien pervers!”(Sei malato ! Sei un lurido cane perverso !, ndr.)

“Silence, j’t’ai dit ! De la salissure comme toi n’a pas le droit de me parler!”(Silenzio, ti ho detto ! Della sporcizia come te non ha il diritto di parlarmi !, ndr.), gli ricordai, ponendomi a cavalcioni sopra di lui e martoriandolo di pugni e ceffoni. Ormai, non era più il mio assalitore. Quel lurido porco. Ai miei occhi eccitati dal sangue, il corpo che tenevo sotto di me era la summa del mio odio profondo, l’incarnazione della mia intima sventura: quell’uomo.

“Tu verras, misérable, tu verras …”(Vedrai, miserabile, vedrai …), ebbe ancora la forza di sbiascicare,  liberando dalla bocca un misto vischioso di saliva e sangue. Con falsa premura, glielo ripulii. Poi, ridendo fuori di me gli diedi l’ennesimo manrovescio, sputandogli in faccia.

“Quoi ? Allons, dis –moi! Que vas-tu me faire, hein? Que pourrait me faire  un pote de couilles comme toi? Hein ? Parle, sale merde! J’attends!”, (Cosa? Avanti, dimmelo! Che cosa mi farai, eh? Che mi potrebbe fare un vaso di merda (lett. coglioni) come te? Eh? Parla, lurida merda! Aspetto!, ndr. )lo sfidai, ponendolo bruscamente in piedi e sbattendolo contro la parete. Guidate di propria volontà, le mie mani corsero al collo dell’uomo, serrandolo implacabili.  Le mie unghie, ora lunghe, rosse e affilate come artigli gli perforavano la carne in piccoli rivoletti scarlatti di sangue. “Allora, dimmi, sono curioso: così ti sentivi bastardo, eh? Cosa si prova ora ad essere dall’altra parte della barricata?”, giubilai ringhiante, strattonandolo violentemente fino ad alzarlo da qualche centimetro per terra.

L’uomo rise.

“Ah si? Guardati un po’ allo specchio …”, mi provocò, sfida che raccolsi dopo qualche esitazione, voltando il capo verso il sopracitato oggetto. Sbiancai.

L’immagine che il riflesso mi restituiva era assai diversa dalla realtà dei fatti. Ero io quello appeso alla parete e, a strangolarmi, era quell’uomo. Avrei riconosciuto quegli occhi neri come l’inferno ovunque.

“Hai visto? Tale quale a tuo padre! Non sei tanto meglio di lui, credimi!”

Mugghiando di rabbia, lo rilasciai -  o mi rilasciai? -  uscendo irato dal bagno, incurante di ogni cosa. Barcollai in mezzo a quei corpi estranei eppure così vicini, aspirandone l’acre misto di sudore, floreali profumi e sì, l’eccitazione per quell’ambigua e tollerata vicinanza, per l’illusione di un contatto umano in via d’estinzione. Mi immersi in quel mare di suoni, di odori, di visioni sempre più rapide e frammentarie, guidato da loro simile ad un battello nel mare in gran tempesta.

Finché, sballottato confusamente, attraccai al mio amatissimo e infedele porto. Mi strinsi a lui, affondai il viso nei suoi capelli biondo come l’oro; scorsi la mia lingua sulla sua pelle salata, assaggiandola. Ebbi d’un colpo fame di lui, fame di un poco d’affetto e considerazione. E appunto affamato lo baciai, infischiandomene di quel che gli altri avrebbero potuto dire di noi.

Eravamo solo Milo e me.

Il ragazzo ricambiò subito, divorandomi la bocca. Chiusi gli occhi, gorgogliando soddisfatto. E quando li riaprii, una smorfia di puro orrore si dipinse sul mio volto.

“Mon joli enfant!”, mi sussurrò dolcemente assassino quell’uomo, mio padre, staccandosi da me. Percepii immediatamente un acuto dolore allo stomaco. Ritirai le mani ivi poste ad istintiva protezione, analizzandole: grondavano di sangue. Caddi a carponi sul pavimento. “Mon joli enfant!”, fece di nuovo, elargendomi il colpo di grazia.

 

***

 

Annaspai.

“Hé! Doucement, doucement!”, mi trattennero dolci mani sdraiato, obbedendo al comando di una voce femminile. Qualcosa di fresco mi attraversò la fronte e le tempie, lungo fino al collo. Rabbrividii di puro benessere, affondando la testa nella setosa morbidezza del cuscino, annusandolo forte: già, era l’odore del detersivo al gelsomino di Mamie, come scordarselo? Sorrisi contento di trovarmi lì, invece che in quel sabba infernale. Era dolce. Era tranquillo. Era sicuro.

Finalmente mi decisi a schiudere le palpebre, le quali vennero appagate dalla vista del biancore della mia cameretta. Seduti accanto a me, trovai Mamie e Milo, la prima severa nello studio della mia saluta; il secondo, con gli occhi cerchiati da profonde occhiaie. Il mio primo istinto fu di serrarmi a lui, sennonché la presenza della nonna e i ricordi della sera precedente me lo impedirono; così, mi limitai a fissarlo, stringendo nel frattempo le coperte.

“Mi fa male la testa …”, fu l’intelligente costatazione che riuscii a gracchiare.  Arcuando scettica il sopracciglio, Mamie convenne:

“Te lo meriti! Così impari a tornare alle due e un quarto del mattino, completamente ubriaco! In tre ti hanno dovuto riportare; li scivolavi via come un’anguilla, saltellando avanti e indietro per le scale, ridendo sguaiato peggio di una iena in calore! Hai la sbornia un po’ peperina, sai? Dovresti fare più attenzione in futuro …”, si raccomandò, cedendo a Milo la pezza di acqua bagnata. “Tamponagliela un po’ tu … Intanto, io vado a riscaldargli il pranzo …”

“Come?”, squittii stupefatto, puntellandomi sui gomiti. “Il … il pranzo?”

Fermandosi alla porta, Mamie confermò annoiata.

“Fino a che ora ho dormito?”

“Direi le tre del pomeriggio. In ogni modo, una minestra la puoi anche buttare giù, non ti farà di certo venire il mal di pancia! Tzé! Mi domando come sosterrai domani l’esame in queste condizioni!”, borbottò l’avia familias, tamburellando impaziente le dita sullo stipite.

“C’è l’ho alle cinque …”, mi giustificai, infossandomi colpevole sotto le coperte.

“Ah bene! Conti di dormire fino a quell’ora? Fra cinque minuti ti voglio a tavola, senza né ahi né bai!”, sentenziò secca Mamie, sparendo celere in cucina.

Silenzio.

“Non sei stato proprio così vispo …”, tentò Milo un abbozzo di conversazione, che subito soffocai sul nascere.

“Vado a mangiare”, gli annunciai incolore, scostando le lenzuola e infilando le ciabatte. Rapido il ragazzo si affrettò ad offrirmi il braccio. Rifiutai categoricamente. “No, merci. Ce la faccio da solo!”, in realtà una grossa grassa bugia, ché la testa ancora mi girava a causa della gueule de bois. (dopo sbornia, ndr.)

“Aspetta, lascia che ti aiuti!”, mi afferrò prontamente Milo, avendo ancora le mie gambe en coton d’Egitto. Il suo gesto, per quanto premuroso, mi riportò alla mente i ricordi della serata scorsa. Sogno o realtà che fossero stati, essi in ogni modo mi scuotevano ancora i nervi.

“No, ce la faccio!”

“Mais non, ti dico di no!”

Sbuffando gli rimbeccai spazientito: “Devi sempre impormi la tua volontà?”, cui il bicho, drizzando le spalle bellicoso, replicò freddamente:

“Solo quando ti comporti come un cretino!” e mi prese in braccio, trasportandomi graffiante e miagolante come un gatto selvatico, parcheggiandomi infine a tavola, sotto lo sguardo divertito di Mamie. Ostile al mondo, presi il mio cucchiaio e slurpai senza tante storie l’odiosa minestra di porri e patate.

 

***

 

“Non suonerò con te all’esame.”

Les Etudes di Chopin s’interruppero bruscamente, lasciando spazio ad un incomodo silenzio. Lentamente, levai gli occhi dalla tastiera, puntandoli contro Milo, il quale, seduto sul divanetto, ricambiava altrettanto attento.

“Prego?”, mormorai flebilmente, sperando di aver confuso musica e parole in un unico, indistinto suono.

“Hai sentito bene: non è più mia intenzione eseguire La Danse Macabre domani. Ne ho abbastanza”, ripeté per pura cortesia Milo.

Portai le mani in grembo, abbassando il capo, sentendomi d’un tratto molto stanco. Avrei voluto, che anche adesso si trattasse di uno di quegli incubi, che ultimamente mi avevano turbato il sonno. Tuttavia, l’intera scena era veritiera fino alla nausea. Niente sogni, né illusioni. La squallida e sicura realtà.

E va bene, il calice amaro sarebbe stato bevuto del tutto. Forse era meglio così, non gli avrei fatto ulteriormente del male. “D’accordo”, convenni atono, alzandomi dallo sgabello e recandomi alla finestra, che spalancai, ingollando rapidi singulti d’aria.  Distrattamente, controllai se riuscivo ad intravedere magari Mamie, sebbene sapessi che non sarebbe ritornata prima di cena. “Non importa. Avevo già preparato un brano d’emergenza, in caso ti fossi ammalato o …”

“Al diavolo!”, sbottò improvvisamente Milo, lanciando via irato lo spartito che stava studiando, e ponendosi furioso in piedi. “Neanche questo ti smuove?”

Girandomi perplesso, inquisii sorpreso: “Che intendi? Non capisco …” o molto probabilmente non volevo.

Sibilando inviperito, il bicho non demorse: “Ah non?”

Scossi il capo.

“Bien!”, ringhiò Milo, avvicinandosi minaccioso nella mia direzione. Chiusi d’istinto la finestra, se voleva squarciarmi le orecchie con le sue urla, che almeno non si udisse in strada.  “Allora, avanti, dimmi perché la cosa non ti turba? Infondo, ti ho dato buca all’ultimo momento, eh? Non ti senti indispettito? Amareggiato? Non hai voglia di menarmi? No? Cristo, perché sei così arrendevole Camus? Perché? Perché non protesti mai?”, tuonò, gettando via rabbioso qualsiasi cosa incontrassero le sue mani. E ciononostante, si teneva a debita distanza da me, quasi per sicurezza. E pensando a quella, mi appoggiai alla parete, respirando il meno possibile.

“Scusami”, sussurrai, abbassando lo sguardo contrito, sperando di calmarlo. Come mai quello scoppio d’ira così repentino nei miei confronti? Non mi sovvenivo di avergli mai fornito modo di lamentarsi di me.

Alzando al cielo le braccia, Milo esclamò esasperato: “E si scusa pure!”, passandosi poi le mani tra i capelli. “Sii sincero, Ionesco: ti sto indifferente?”

Di nuovo, negai energicamente con la testa.

“Bien, e allora mi spieghi perché diavolo non parli con me?”, mi accusò lo scorpion, ponendo l’indice contro se stesso.

“Non … non lo stiamo facendo adesso?”, sbattei confuso le palpebre. Battendo nervoso il piede per terra, Milo si morse collerico il labbro inferiore. Poi, pigliò di malagrazia lo sgabello del pianoforte, posizionandolo al centro della stanza.

“Siediti!”, mi invitò imperioso con un secco gesto della mano. Esitai, guardando prima lui, poi lo sgabello e viceversa. “Non ti picchierò, se è questo quel che temi”, mi assicurò in un sibilo, continuando ad indicarmi la sedia. Docilmente, a quelle condizioni, occupai il posto offertomi.

“Ieri sera”, esordì ora calmissimo, sedendosi accanto a me, seppur distante. “Ieri sera ho mentito a Mamie, quando le ho raccontato di te che zumpavi sulle scale. Sai qual era la verità, Camus? Ti ho trovato nel bagno del locale, che urlavi oscenità disgustose contro la tua immagine riflessa! Cercavi … cercavi di strangolarla! E quando ti ho raggiunto, mi hai abbracciato, sussurrandomi euforico all’orecchio: L’ho ammazzato, Milo! Finalmente l’ho ammazzato! Dopodiché, mi sei crollato in braccio. Questo, era ieri. Sabato mattina,  ti ho pizzicato a spellarti le mani in carne viva, tu che sei sempre così pignolo nella loro cura. Per tutto il giorno, non hai fatto che ignorarmi; ti infastidiva ogni mio cenno o detto. D’accordo, tutti possono avere una giornata no, una sbronza allucinogena e tic autolesionistici, però … però se ne discute, vero? Perché non ti sei confidato con me? A che servo, se non ti fidi di me? Se in qualche modo, non posso esserti di aiuto?”

Tormentandomi le dita a disagio, borbottai la prima spiegazione che mi venne in mente, in barba alla logica. No, non era quello il vero motivo del mio scorso atteggiamento, aveva frainteso tutto! Almeno, il giorno dell’esame. “Avrei dovuto?”, feci, provando poi un’improvvisa vergogna per le mie azioni di ieri sera, che neppure poi rammentavo, temendo ora il giudizio negativo del ragazzo di fronte a me, o peggio di un suo allontanamento. Dopo quella scenata al club, mi avrebbe ancora voluto vicino?

“Certo che sì!”, ribadì con energia Milo. “Non ho anch’io forse il diritto di conoscere cosa ti passa in quella tua testolina contorta? Di appoggiarti in caso di necessità? Bon sang Camus, sono il tuo ragazzo!”

“Ah no!”, saltai sia in aria, che dalla sedia, il corpo vibrante a sua volta di rinnovata collera. Potevo sorpassare il fatto, che avesse completamente mal interpretato le mie intenzioni; comprendevo le sua perplessità e la sua apprensione per l’orrenda figuraccia al locale, ma l’ultima affermazione mi fece comunque girare i famosi cinque minuti. Perché secondo il mio personale e alterato parere,  riaffermare il suo status di fiancé dopo avermi decorato la testa con Sorrento, no! non era davvero il caso! “Questa proprio non l’accetto! Fratellastro, se vuoi! Ma p’tit ami, quello te lo sogni!”

“E perché di grazia?”, inquisì placido il bicho, socchiudendo attento gli occhi.

“Ti pare, che siano cose da dire, dopo che mi hai … dopo aver … con Sorrento?”, sbrodolai, troppo arrabbiato anche solo per formulare un pensiero coerente. “Ipocritone! Ti ho visto, furbastro fedifrago, slinguazzarti con quello sfacciato!”

Inarcando il sopracciglio, Milo replicò leggermente stizzito, quasi annoiato: “Non ho corrisposto! Anzi, l’ho morso subito!”

Ponendomi le mani ai fianchi, mi dilettai in un sarcastico risolino sfottitore. “Sì sì, dicono tutti la stessa cosa! Brutto … alla fine, tu cercavi solo un po’ di fesses, eh? E siccome il cretino qui presente non te le dà, andiamo a raccattarne un altro paio altrove! Allez! Che poi siano state di tuo fratello, è irrilevante! Bastardo! Ed io che mi sono riempito la testa di … di … di seghe mentali dalla sera, in cui udii quel coglione di Orphée accusarmi di essere uno zotico incivile con te! Mi … mi sono tormentato, cercando una soluzione per essere più … più … meno egoista con te! Di non farti più del male! Mi sono sforzato e tu … tu vai a toccare delle fesses altrui?!? Sotto il mio naso, poi! Vai al diavolo! Mi veniva il magone a vederti martoriate le dita! Tzé! Ben ti stanno! Altro che vesciche sui polpastrelli! Ti dovevano venire sulle verge! Traditore! Puttaniere! Scorpion putassier lubrique! Vai a farti un giro dai tuoi antenati greci inchiap- mmmmmnnghghghhg …”, venni interrotto bruscamente dalla mia brillante (ohé!) orazione, acchiappato a tradimento da un bicho preda dei furori dionisiaci, che ben aveva creduto opportuno sfogare su di me avviluppandomi in un abbraccio ferreo e baciandomi quasi volesse ingoiarmi in un sol boccone, novello Crono. [2] Serrai indispettito la bocca, rifiutandomi di farlo entrare, malgrado le ottime argomentazioni della sua lingua. No, ero arrabbiato con lui, non l’avrebbe passata liscia. Però … però … ho! Dove stava toccando?!?

Più rapido della luce, un ceffone volò sulla sua guancia.  

“Ainsi … tu ne crois pas à mon amour?”, (Così … tu non credi al mio amore?, ndr.) mi sfidò lievemente ansante Milo, cessando il suo attacco alle mie labbra sia per la mancanza d’aria, che per il mio personale riscaldamento del palmo sul suo viso. Mi scrutò euforico, sorpreso, dolce, agguerrito. Una strana gamma di sentimenti in netto contrasto tra di loro, ciononostante tutti legati da quell’ambigua luce di trionfo che gli illuminava il turchese dei suoi occhi, come se col mio atteggiamento gli avessi dimostrato qualcosa per lui di estremamente rilevante.

“Mais non!”, eruppi indignato, cercando di sciogliermi da quella sgradita e allo stesso tempo benvenuta presa.

Per nulla impressionato dalla mia replica negativa, lo scorpion dichiarò energico, scuotendomi allo stesso modo: “Et bien, tu m’entendras, maintenant!” (Ebbene, mi ascolterai adesso!, ndr.)

“Je ne veux rien entendre !”, (Non voglio sentire nulla!, ndr.) sibilai con altrettanta veemenza, storcendo il viso dall’altra parte. Tanta era la mia rabbia, che quest’ultima aveva represso la mia proverbiale curiosità.

“Tu m’entendras !”, insistette egli, passandomi una mano dietro la nuca e costringendomi a voltarmi verso di lui, onde fissarlo dritto in faccia. Spazientito, lo accontentai, solo per berciargli ironico:

“Va te faire attendre !” (Aspetta e spera!, ndr.)

Circondandomi ora il volto con ambedue le mani, Milo lo portò più vicino al suo. “Oui , tu l’feras!”, (Sì, lo farai!, ndr.) ribadì schifosamente convinto.

“Non ! Non!”, protestai, afferrandogli i polsi, sentendomi ad ogni secondo sempre più a disagio per via di quel contatto troppo stretto, di quel corpo troppo caldo. Socchiusi gli occhi, incerto sul da farsi.

“Quoi que tu veuilles ou pas, Camus, tu m’écouteras!”, (Che tu voglia o no, Camus, tu mi ascolterai!; ndr.) fu la promessa di Milo, il quale mi scosse di nuovo, piccato di come mi ostinassi a tenere serrati gli occhi, segno che la conversazione per me fosse chiusa. O questa almeno era la sua interpretazione, in seguita smentita quando abbassai le mie mani dai suoi polsi, cessando di dimenarmi.

Sia quel sia!,  pensai, scoprendomi d’un tratto stufo di nascondermi nel mio guscio di schemi mentali, atti a preservarmi da ogni vicissitudine positiva o negativa. In quell’istante, ebbi un piccolo snapshot della mia vita, tutta irta di barriere che avevo coscienziosamente eretto attorno a me nel corso degli anni, onde proteggermi da tutto e tutti. Le avrei mantenute, questo era certo, ma era giusto anche con Milo? No, non dopo ciò che avevo assistito, a quel che lui mi aveva reso partecipe. Ci eravamo feriti stupidamente in passato, troppo infantili ed orgogliosi per ammettere che soffrivamo per quel dolce sentimento, che chi per un motivo, chi per un altro volevamo a tutti i costi soffocare.

“Je mentais … moi, moi je te crois, Milo … et pardonne-moi, si j’ai douté de toi!”, (Mentivo …  io … io ti credo, Milo … e perdonami, se ho dubitato di te!, ndr.) confessai piano, schiudendo le palpebre e sfiorandogli le sue labbra con le mie.

Il bacio che seguì, fu meno casto.

Vi impressi tutta la mia volontà di fargli intendere fisicamente, quanto lo amavo. Per sottolineare, che la sua sola presenza era motivo di conforto e sostegno. Per invitarlo a soddisfare lo stesso desiderio con me.

Rabbrividii in esso, nel sentire le dita di Milo scorrere dalla mia guancia, lungo le spalle, poi la schiena per artigliarsi possessive alle mie fesses prima, alle cosce poi. Fui invitato a schiuderne una, permettendo che le nostre erezioni si concedessero il primo contatto dell’amplesso. Deliziato, gettai indietro il capo, offrendo al mio dolce torturatore inconsapevolmente il mio collo, che baciò, leccò, ricoprì di piccoli morsi, dalla mandibola fino alla fossetta del giugulo. Desideroso di ricambiare, attesi che la bocca di Milo ritornasse sulla mia; mi sottrassi al bacio, focalizzandomi sulla sua fronte, sulle palpebre, scendendo  verso lo zigomo per terminare al lobo dell’orecchio, mordicchiandolo appena. Un piccolo grugnito soddisfatto scappò dalla gola del ragazzo, che si scostò delicatamente, ricercando una nuova vicinanza col mio viso. A suo turno, si dilettò micione a negarmi le sue labbra, punzecchiando le mie in piccoli e rapidi tocchi con le sue, storcendo il volto quando tentavo di catturarle. Finché, notando la mia espressione d’infantile dispetto, terminò il gioco in un conciliante bacione sulla guancia, che ci procurò un divertito e malizioso risolino.

E un altro di lasciva aspettativa seguì poco dopo, quando, in un improvviso e rapido movimento, Milo mi issò acciocché le mie gambe potessero circondargli la vita. Tenendomi ben stretto alle sue spalle, calai la mia bocca sulla sua, costringendola ad aprirsi, reclamando mia la sua intimità boccale, intanto che lui mi trasportava fino al tavolino poco distante, che, una volta raggiuntolo, si premurò di sgomberare da spartiti, quaderni e appunti in un impaziente gesto del braccio.

Delicatamente, mi fece sedere su di esso, spogliandomi della camicia e passando all’attacco del mio petto, mentre io mi adoperavo a liberarlo dalla felpa, esigendo la sua pelle contro la mia. Il mio ragazzo mi afferrò cupido i fianchi, spingendoli contro il suo inguine, ritagliandosi un posticino tra le mie gambe,  che, simili ad una pianta carnivora, serrai inclementi, imprigionandolo a me, elargendogli piccoli morsi appagati sul collo, nel momento in cui percepii le sue unghie risalire piano dalle mie natiche fino alle spalle, in un unico caldo brivido. Catturai una delle due mani colpevoli, intrecciando le nostre dita e inumidii il suo polso, avambraccio e infine tutto il braccio di un fine tragitto di saliva, lasciando che il medesimo forte arto mi avvolgesse onde addolcirmi il freddo contatto tra la superficie del tavolo e la mia epidermide, una volta ivi sdraiatomi.

Sempre con attenzione, Milo mi coprì col suo corpo, la medaglietta dello scorpione che solleticava birichina la mia pelle in piccoli cerchi. Affondai le mani tra i suoi capelli, avvicinando i nostri visi, rubandoci il rispettivo respiro.

“Montre-moi ta vraie musique …”, (Mostrami la tua vera musica …, nrd.) mi mormorò roco, calando la zip dei miei pantaloni, che abbassò piano assieme ai boxer. “Mon pianiste …”, sussurrò, percorrendo la mia gamba sinistra, piegandola e baciandone il ginocchio. Ripeté la medesima azione con l’altra, calmando i piccoli spasmi dei muscoli che la percorrevano. “Mon Virtuoso …”, si leccò le labbra tumide e scarlatte, inginocchiandosi e nascondendo il viso tra le mie cosce.

Oh!

Mi arcuai di puro piacere, affondando diligentemente nelle sue lascive profondità, come l’argonauta Ila sprofondò nel lago, vittima delle ninfe ingannatrici.

Ricordo che ad un certo punto, vi fu una piccola puntura dolorosa, seguita da una vampata di delizioso e immenso calore.

Poi, fu solo il bianco.

 

***

 

“Non ci credo, che avevi per caso un condom in tasca!”, bofonchiai imbronciato, tirandomi al petto la coperta, scoprendo così Milo, che, ridendo, fermò la sua avanzata almeno quel che tanto bastava a non lasciarlo del tutto nudo.

Eravamo accampati nella sala del pianoforte, la quale si era trasformata in un vero brodo primordiale tra fogli, spartiti e quaderni aperti e sparsi ovunque disordinatamente, assieme ai nostri vestiti i quali notammo di aver gettato più in là, di quanto ci saremmo in realtà aspettati. La coperta era stata poi un accorgimento del bicho – oltre alla porta chiusa a chiave – per un pochino di comfort post-amplesso, che fu ben accetto da parte mia, poiché un certo fastidioso bruciore mi impediva subito di mettermi seduto. Sperando che passasse presto, era una vera noia.

“Uffa, te l’ho detto! Non mi ricordavo di averlo mai messo in tasca!”, si lagnò Milo, appoggiando il mento sulla mia pancia. “E’ stato un caso …”

“Sì, sì hai messo la manina lì e toh! ce n’era uno! Ma che coincidenza! Dimmi, hai i jeans dello stesso materiale della borsa di Mary Poppins?”

Sinceramente, non mi sovviene il motivo per il quale incominciammo quella disputa. Forse risiedeva nel fatto, che i nostri cervelli non si sentissero ancora in grado di affrontare serenamente il loro primo pillow-talking (parlata del cuscino, in genere riferita dopo l’atto sessuale, ndr.), senza scivolare nei soliti cliché, circa una valutazione oggettiva e spassionata delle reciproche performance. Anche perché il sottoscritto non aveva materiale sufficiente per una discussione pregna di argomentazioni fondanti.

“Senti Ionesco, poiché noto con piacere che sei tutto bell’e vispo e pieno di energie, invece di spenderle starnazzando, non è che …?”,  e prima che lo scorpion lubrique potesse terminare di formulare la sua proposta indecente, lo interruppi con una cuscinata in faccia.

“No! Le mie fesses avranno bisogno di almeno ventiquattrore di riposo assoluto per riprendersi!”, protestai, acchiappando un altro cuscino e stringendomelo addosso a mo’ di scudo.

“Esagerato: fra tre ore al massimo ti passa tutto!”, sbadigliò annoiato Milo, ripigliando il possesso del suo guanciale umano, ergo il mio ventre, ancora un po’ appiccicaticcio di sudore e sperma, malgrado la prima repulisti generale con le salviette umide.

Uhm … forse eravamo ancora in tempo per un bagno non sospetto, Mamie non sarebbe tornata che fra un’ora  e mezza …, pensai, osservando l’orologio, illuminato a fatica dai lampioni della strada: non vi era la luna, quella sera.

“Milo?”

“Uhm?”

Deglutendo un poco, mi azzardai a formulare la domanda che da tempo mi ronzava per la testa: “Mi vuoi bene?”

Puntellandosi sui gomiti, egli reclinò perplesso il capo: “Cosa ti fa pensare il contrario?”

“Niente.”

“Allora, perché me lo domandi?”

“Così”, feci, alzando le spalle. Dolcemente, Milo mi sfiorò la guancia, tacito invito a fissarlo schiettamente negli occhi e a confidarmi con lui. E a tale richiamo, non potei resistere. “Ho avuto paura”, ammisi, inumidendomi le labbra. Presi un lungo respiro e piano, con calma, gli rivelai ciò che negli ultimi giorni mi aveva roso l’animo, dalle considerazioni di Orphée all’intima mia paura di rassomigliare in comportamento a mio padre verso coloro che amavo, accennandogli a vaghe linee – l’intera storia sul serio non riuscivo per il momento ad esternarla – del suo atteggiamento dispotico e crudele nei confronti di Maman,  di come l’avesse reso quei cinque anni di convivenza un vero inferno.

Milo ascoltò silenzioso, senza interrompermi mai, la sua mano stretta alla mia. Quando terminai, mi sentii più leggero, purgato di una velenosa e corrosiva bile. “ … Ecco perché, se tu sul serio non vuoi suonare domani con me all’esame, ti ribadisco che non me la prendo. Anzi, sarei io a doverti ringraziare per il tempo perso dietro il mio capriccio. Non mi rendevo conto, quanto sforzo in realtà ti costasse, avevo giudicato la tua difficoltà una pigrizia. Orphée ha ragione: sono stato solo un vanesio egoista!”

Il ragazzo scosse il capo biondo, baciandomi le nocche. “Per me è un piacere suonare con te, giuro! Eppoi, cosa credi che sia, dopo tutto quel che hai fatto per me? Per i nostri fratelli? Non potrò mai ringraziarti abbastanza per le tue decise parole di una settimana fa! Sei stato per noi un piccolo paffuto pinguinesco dono dal Cielo!”, scherzò, portandosi la mia mano alla guancia, stringendola alla sua.

Sul serio, gli era piaciuto quel mio discorso cretino vittimista?, pensai, divenendo più rosso dei miei capelli.

“Domani ci esibiremo insieme e se qualcuno osa dire, che suoni da cani … beh, hai presente il mio archetto?”, riprese lo scorpion battagliero, acchiappando il detto oggetto e percorrendolo in tutta la sua lunghezza con l’indice.

Incominciai a preoccuparmi.

“Glielo ficco tutto tutto …”, continuò il biondo, passandosi carnivoro la lingua sui denti candidi.

“Milo!”, esclamai, non essendo esattamente disposto a sentire la fine della sua minaccia, specie dopo aver provato qualcosa di simile, sebbene con un diverso strumento.

“… giù per l’esofago!”, concluse invece il bicho, sorridendomi birbone. E, ridendosela poi alla grossa, mi chiese con le lacrime agli occhi dalle risate: “Che faccia avevi! Da foto! Ma dai, maliziosetto, cosa pensavi che dicessi?”, mi sfotté, saltandomi addosso e torturandomi col piripicchio, rotolandoci in giocose galipettes.

“Uhm?”, fece birbante, schioccandomi lievi bacetti sulle labbra scosse dagli ultimi rimasugli delle sguaiate risa. “E comunque, hai una bella faccia tosta a rimproverare solo me, di andare in giro coi preservativi! Guarda un po’ che ho scoperto nelle tue tasche ieri sera spogliandoti!”

Sbiancai.

Chi aveva osato?!? Chi aveva osatooohhh???

 

 

***

 

La ragazza prima di me uscì in lacrime dall’aula, in cui le prove orali avevano luogo. La cosa poco rassicurante era che lei non fosse stata la prima ad essersi ripresentata in quelle condizioni nel corridoio di attesa. Al contrario, ben nove avevano subito la lama della commissione. Ed eravamo in quindici quel giorno. Mi domandai il perché di quell’inaspettata severità: a mezzogiorno, augurandoci in bocca al lupo, Sorrento ci aveva assicurati, che gli esaminatori di solito erano di manica molto più larga, rispetto a quelli invece degli esami di effettivo conservatorio. Infondo, il vero perfezionamento sarebbe stato sviluppato lì, non ad un esame di ammissione.

Sebbene esteriormente non lo dessi a vedere, una certa ansia si era instaurata nel mio cuore.

“Tout ira bien!”, mi parlò Milo in labiale, appoggiato ad una parete, avendomi ceduto l’unico posto disponibile rimasto. Infatti, tutti gli altri esaminandi erano o in piedi o per terra.

Gli sorrisi fiducioso.

“Molinier Camus!”, la voce di una professoressa giunse arida e monotona alle mie orecchie. Sospirai, alzandomi e acchiappando la mia borsa a tracolla. Silenzioso, Milo afferrò la custodia del suo violino, seguendomi.

L’aula era semplice, anonima. Al centro, un magnifico pianoforte, davanti il quale la commissione aveva riunito i banchi, in modo da creare una casalinga platea. Li squadrai uno ad uno e i loro volti confermarono le parole di Sorrento: non parevano così severi. E allora, chi …?

“Siediti pure!”, m’invitò uno di questi, un professore dalla barba alla D’Artagnan. Pigliai una sedia, esaudendo la sua richiesta. In disparte, Milo osservava la scena.

“Dunque … dunque …”, fece quegli, sfogliando la mia domanda d’iscrizione. “Molinier Camus, giusto?”

Annuii.

“Nato a Parigi, il 7 febbraio 1992? E residente a Mont-de-Marsan, dipartimento delle Landes, della regione Aquitania?”

Di nuovo confermai quanto dichiarato.

Scribacchiando sul foglio dinanzi a sé – similmente agli altri suoi colleghi – l’uomo continuò: “Da quanti anni suoni il pianoforte?”

“Ho incominciato nel 1999”, risposi brevemente.

“In seconda elementare?”

Scossi il capo. “Secondo quadrimestre della prima elementare.”

Sentii una certa aura d’interesse emergere ora negli occhi stanchi degli esaminatori. Strano, non mi consideravo così degno di nota! In giro per il mondo alcuni studenti iniziavano ben prima!

“Sei andato in qualche scuola di pianoforte?”

“No, fino al collège mi ha insegnato mia nonna, poi ho proseguito gli studi in lezioni private col maestro Lucien Mendras.”

L’esaminatore assentì, sospirando a fondo. “La prova scritta è andata superbamente bene; non vedevamo un punteggio totale del 100% da anni, ormai! Ciononostante, esaminando il tuo programma, esso ci è parso un po’ difficile, per uno studente che ha solo frequentato corsi privati, quasi da autodidatta. (Con le ore di lezione siamo  al minimo requisito). Ora se per caso, ripensandoci, lo hai cambiato, sappi che a noi va bene così, non vogliamo che …”

“Il mio programma è quello che vi ho inviato a settembre: a parte la Danse Macabre,  che ho aggiunto a novembre, non è stato modificato di una virgola!”, lo interruppi cortese ma deciso, non desideravo che mi sottovalutassero, giudicandomi uno sbruffone che sperava d’impressionarli. Quel che li presentavo era alla mia portata, ne ero sicuro.

“E vorrei ben vedere!”, esclamò una voce alle mie spalle. Come fulminato, mi girai verso la porta dalla quale entrava sornione il maestro Orphée Lyralique, un quaderno rosso sottobraccio. “Detesto, coloro che ritornano sui loro passi alla prima difficoltà: è segno di profonda demotivazione, nonché codardia!”

E con la stessa flemma, prese posto in uno dei banchi vuoti. “Perdonate per il ritardo: c’era la fila al bagno!”

“Nessun problema, Orphée. Sbrigavamo solo le piccole formalità burocratiche!”, lo rassicurò il professore barbuto. “Ci dispiace di non averti informato prima, Camus. Purtroppo, il maestro Supiot ha contratto l’influenza e non poteva presentarsi oggi. Il maestro Lyralique si è gentilmente offerto di sostituirlo appena saputolo!” e il detto buon samaritano sorrise compiaciuto.

Ghignai verde.

L’intera atmosfera era d’un colpo cambiata dall’arrivo di Orphée: da una di incoraggiante bonarietà, era passata ad una severa freddezza. Davvero opprimente.  E di certo, non molto stimolante per un principiante nervoso.

“Allora, riassumendo …”, riprese il professore, leggendo a voce alta il mio programma, che non ascoltai, tanto ero preso dal mio studio personale di Orphée, il quale ricambiava sibillino e imperturbabile il mio sguardo.

“E’ questo?”

Annuii deciso.

“Ho sentito dire”, annotò una professoressa, rivolgendosi alla mia nemesi musicale, “che hai avuto già modo di ascoltare questo ragazzo; Mathieu, che ha suonato quella sera assieme a te, me lo ha descritto come molto talentuoso per la sua giovane età! Spero, che ci confermerai!”

Roteando pensieroso la sua penna tra le lunghe dita, Orphée ribatté seraficamente carnivoro: “Oh, l’unica cosa che notai quella sera, fu la spiccata predisposizione, che M. Molinier ha nei confronti del pianoforte e della musica in generale. Ma di talento, non ne ho visto. Forse”, sorrise perfido, sfidandomi con gli occhi “faceva il prezioso quella sera, giudicandoci troppo banali e obsoleti per deliziarci con le sue effettive capacità. Tuttavia, confido che oggi, sotto esame, M. Molinier abbia l’infinita bontà di mostrarci sul serio questo sua tanta favoleggiata bravura!”

La sua era una dichiarazione di guerra a tutti gli effetti. Mi voleva boicottare, ecco perché aveva accettato di sostituire il professore ammalato.

Poco importava. Come mi disse Mamie, il mio lavoro lo avevo fatto, e glielo avrei schiaffato in faccia con tutta l’arroganza a me disponibile! Anni sudati al pianoforte non sarebbero stati resi vani a causa dell’immotivata antipatia, che lui provava verso di me! Non mi avrebbe precluso la strada per il Conservatoire!

Mi alzai sicuro dalla sedia, dirigendomi verso il pianoforte e prendendo posto sullo sgabello. Lanciai un’ultima occhiata a Milo, che mi sorrise incoraggiante.

“Inizia con Bach: Sonata n°2 in re maggiore, Opus 5, primo movimento!”

Levai a mezz’aria le mani …

… e iniziai.

 

 

 

 

To be continued …

***************************************************************************************

Fiuh! Che parto! *si massaggia i polsi doloranti*

He-he, sorpresi, eh? Dite, che non ve l’aspettavate lo spulzellamento di Camus!!! Ormai, ve l’eravate messa via, che i due si dedicavano all’astinenza di coppia, eh? Eh?

XD  XD XD

*se la ride dietro il ventaglio con la gemella malvagia*

Bien, adesso vedrò se troverò le forze per continuare nel prossimo capitolo, sono sfinitaaaaaahhhh!!!

Ciao!

Un po’ di noticine:

[1] Principe di Condé =  vi ricordate l’inizio del secondo capitolo de I Promessi Sposi?

“Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già dato tutte le disposizioni necessarie, e stabilito cosa dovesse fare. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose.”

La morale (che sempre il Manzoni ci dà una morale!) è che quando si è fatto il proprio dovere si ha la coscienza a posto, senza agitarsi in mille e più paurose ansie. E dormire sereni la notte è la tipica metafora di questo stato d’animo tranquillo verso noi stessi.

[2] Crono = quando gli ovetti Kinder non erano stati inventati! Profetizzatogli che un giorno sarebbe stato spodestato da uno dei suoi figli, il dio Crono si pappò appena nati ciascun suo figlio. Si salvò solo Zeus, sostituito dalla madre in una più indigesta pietra. Primo caso di peso sullo stomaco. Una volta cresciuto, Zeus sconfisse il padre e gli fece la prima lavanda gastrica della storia.  Dalla panza del paparino uscirono i suoi fratelli e sorelle, già grandi. Essì, in barba agli acidi gastrici e lo spazio un po’ umido, buio e stretto, i fratelli di Zeus erano nel frattempo divenuti adulti! E uscirono interi! Yuk! E poi andate a vedere Saw? Hostel? Kill Bill? Leggetevi la mitologia greca, c’è più gore lì che nei film di Tarantino! XD

 

 

 

 

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Capitolo 18
*** Paname, Paname - parte seconda ***





Koukou! Eccomi qua, dopo un esilio da questa fic di quasi un mese! Weee …

Allora, controllando le bellissime recensioni, ho fatto un po’ i miei conti: su 13 recensori che hanno espresso il loro giudizio su Orphée:

10 lo vogliono bruciare al rogo;

3 lo trovano degno di vivere.

Uhm … mi domando cosa accadrà dopo aver letto questo chappy …

In ogni modo, grazie per la vostra pazienza: tra esami, altre fic da continuare  e una piccola crisi creativa, se state ancora leggendo questa fic vuol dire che ancora merita! Yeah! Thumbs up, baby!

Un ringraziamento ai miei lettori, a quelli che hanno messo “Niente di Buono” sulle preferite, da ricordare e seguite! Merci beaucoup! Un ringraziamento speciale ai miei recensori: Tifawow ; Diana924;  Angel_Dark_Light (grazie per i tuoi consigli!) ; Charm_ Strange; Titania76 ; Sagitta72 ; Eno;  Ignis (piccolo regalino per te …);  Aasa5; Jeje_12, Dragon Girl31 (benvenuta!), Elizabeth Tempest, Aurora, Gondolin Dima (benvenuta!) e San il Distruttore (welcome!), thanks y’all!

Bien, buona lettura e buon divertimento!

 

Vostra,

 

H.

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Il ragazzo annaspava per l’aria e grazie tante: correre in salita la scalinata di Montmartre e sperare di uscirne indenni senza l’ausilio del polmone d’acciaio era davvero da ingenui sprovveduti.

Dannate grèves!

Controllò l’orologio: le quattro meno cinque. Forse era ancora in tempo per la lezione di pianoforte; se fosse arrivato in ritardo, chi la sentiva poi Madame Molinier?

Ah, di nuovo maledette grèves!

Frugando nello zaino tra i suoi quaderni, il giovane tirò fuori gli spartiti, ponendoli sottobraccio, in modo da portarsi in avanti e non perdere ulteriore preziosissimo tempo. Sbatté quasi al portone della palazzina, armeggiando maldestramente con le chiavi e salendo poi a quattro a quattro le scale.

Le quattro. Ce la poteva fare.

Quand’ecco, che la piccola figura della figlia della sua insegnate lo bloccò all’ultimo.

Ella se ne stava seduta sugli scalini, lo zaino alla sua destra. Sgranocchiava assente la sua merenda, senza neanche accorgersi del suo timido saluto, spronandolo a ripetere a voce più alta. Solo allora, lei, sbattendo disorientata le palpebre, sembrò ridestarsi dalle sue rêveries, sorridendogli appena a mo’ di risposta.

“Comment ça va, Ninne?”

Dalla tremula smorfia che lei gli elargì, il ragazzo intese che le cose non andavano esattamente per il meglio. Era stato facile del resto intuirlo: altrimenti, come mai avrebbe bruciato scuola quel giorno? I due frequentavano lo stesso liceo, seppur due anni di età li separassero.

Che avesse a che fare con il vergognoso incidente della notte scorsa? Il liceale sperò di no.

Tuttavia, egli non poté far a meno di collegare a lei e alla sua famiglia quelle urla disumane, quei diffamanti insulti e le immondizie, ritrovate sparse sull’uscio della palazzina il giorno dopo, che una voce sgolata dalla rabbia e dalla disperazione aveva gettato nel bel mezzo della notte, per poi chetarsi all’arrivo di un poliziotto, disperdendosi nel vento notturno.

Si sovveniva bene come sua madre e tutti gli abitanti dell’edificio si fossero sporti per scoprire l’identità di quel folle girovago. Tutti tranne i Molinier, la cui finestra era rimasta al contrario ben serrata e buia.

“Dégel, maudit chien! Crois-tu que j’suis ton jouet, hein? Que tu peux prendre ton amusement et puis m’abandonner comme un sale lépreux? De t’enfuir de moi ? Pour qui m’as-tu pris, pour ta pute ? Tu n’es que la pire salissure du monde et à travers elle tu devras passer, si tu vaudras sortir demain matin! Dégel ! Maudit connard! Salaud putassier!” (Dégel, maledetto cane! Credi che io sia il tuo giocattolo, eh? Che tu possa divertirti e poi lasciarmi come un sudicio lebbroso? Di scappare da me? Per chi mi hai preso, per la tua puttana? Non sei che la peggior sporcizia del mondo e attraverso lei dovrai passare, se vorrai domani mattina! Dégel! Maledetto coglione! Porco puttaniere!, ndr.)

Al ricordo di quel vergognoso assalto verbale – chiunque fosse stato quel Dégel, avrebbe fatto bene a seppellirsi vivo dopo la scenata notturna – lo studente rabbrividì impercettibilmente, sperando con tutto il cuore, che le sue supposizioni si rivelassero erronee. Era troppo legato alle due donne, per tollerare una simile umiliazione per loro: la gente era pettegola, crudele.

“Orphy …”, lo appellò Corinne, dividendo a metà il merendino e porgendogli la fetta più grossa, che il ragazzo accettò per pura cortesia, giacché aveva lo stomaco chiuso. “Maman mi ha detto di riferirti, che la lezione di questo pomeriggio è rimandata”, gli annunciò concisamente, passandosi stancamente una mano sulla fronte.

Deluso e rammaricato dalla notizia, Orphée annuì lentamente. “Per quando?”

Alzandosi bruscamente in piedi, la ragazza replicò laconica: “Che vuoi che ne sappia io?”

 

***

Strinsi caparbiamente le labbra, aggrottando concentrato le sopracciglia e deciso a non sgarrare proprio a qualche frase dalla conclusione del Grand Galop Chromatique di Liszt, l’ultimo della lista prima del brano a scelta. Ovviamente, gli esaminatori non mi avevano graziato di un’esecuzione lineare, nel senso che sarei partito dal primo pezzo musicale in ordine fine all’ultimo; al contrario, essi mi venivano domandati a caso, saltando da uno all’altro come un grillo e questo grazie al suggerimento di Orphée, il quale aveva sostenuto la sua idea mediante la ferma convinzione, che ogni brano era a sé e non parte di un’unica amalgamata catena musicale.

Come se non lo sapessi già!

Terminai i quattro minuti più duri della mia vita in un bell’accordo finale, sospirando di intimo sollievo per l’essere arrivato sano e salvo fino alla fine. Sinceramente, farmi suonare Liszt per ultimo era stata una bella carognata da parte di Orphée: i quasi acrobatici virtuosismi richiesti dal compositore  ungherese erano una perenne sfida per l’esecutore, quasi quanto il temuto Rachmaninoff e fui dopo in effetti costretto a massaggiarmi i polsi doloranti e le dita intorpidite, mentre la commissione discuteva sulla prima parte della mia prova pratica, lasciandomi nel frattempo una piccola pausa di quindici minuti. 

Con la scusa di stiracchiarmi – giurai d’aver sentito qualche scrocchio sospetto -  spiai di sottecchi la mia nemesi musicale, il maestro Orphée Lyralique. Il suo atteggiamento, nel corso dell’esaminazione, mi aveva assai incuriosito: innanzitutto, pareva non trarre diletto nel sedersi tra i suoi colleghi, anzi, si era sistemato a debita distanza da loro; in secondo luogo, non lo avevo mai scorto scrivere alcunché sul suo quaderno, come al contrario facevano ogni volta gli altri esaminatori a fine brano. Si limitava a fissarmi insistentemente, quasi … quasi stesse cercando qualcosa in me, qualcosa che neppure io ne immaginavo la natura. E nei rari momenti in cui i nostri occhi s’incrociavano, egli allora imprimeva al suo studio maggior vigore, costringendomi ad abbassare i miei a disagio, se non ero già impegnato a tenerli legati alla tastiera.

“Vorrei tanto sapere cosa ci trova d’interessante nel guardarmi tutto il tempo!”, borbottai piano a Milo, il quale aveva estratto il violino e si accingeva a riscaldarsi in brevi scale. I membri della commissione non si erano accorti del mio spostamento dal pianoforte alla sedia del ragazzo, tanto erano presi nel loro scrutinio. Solo appunto Orphée mi aveva seguito con lo sguardo, il quale si era assottigliato in una guardinga fessura.

“Forse si sta chiedendo come mai arricci di continuo il naso, quando suoni!”, fece Milo serissimo, girando uno dei piroli nella cavigliera del violino, “scordando” appositamente la corda più alta, acciocché potesse essere meglio reso lo stridulo effetto dello spettrale violino suonato dalla Morte.

Toccandomi perplesso l’arto colpevole, inquisii per una speranzosa smentita: “Davvero?”

“Uh-uh, alla stessa maniera in cui lo fa il nostro carissimo maestro” e indicò con un breve cenno del capo l’imputato, il quale finalmente si era deciso a scrivere il suo giudizio sulla prova. Piccato per quell’affermazione – figurarsi se tolleravo un qualsiasi paragone con quell’antipatico -  diedi un colpetto al braccio del bicho, che sogghignando giurò quanto la sua dichiarazione corrispondesse al vero.

Il professore dalla barbetta alla D’Artagnan mi richiamò al pianoforte, presto seguito da Milo, che portò seco un leggio: non essendo esaminato, poteva godere del privilegio di leggere lo spartito.

“Dunque Camus, come brano a scelta hai optato per il poema sinfonico La Danse Macabre, Opus 40 di Camille Saint-Saëns?”, mi chiese conferma l’uomo, cui annuii sbrigativamente.  “Adattamento per pianoforte e violino?”, di nuovo convenni. “Bene, procedete pure!”

Scoccai un’ultima occhiata ad Orphée, il quale si era raddrizzato sulla sedia e le cui dita erano corse subito pensose sotto il mento. Questo suo atteggiamento mi suggerì lo spiacevole sospetto, che l’uomo non avesse prestato la benché minima attenzione agli altri brani da me suonati e che si fosse presentato solo per assistere all’esecuzione dell’ultimo a scelta. Le sue parole circa la mia incapacità di esibirmi con un accompagnatore riaffiorarono subito alla mia memoria e con esse un’incredibile e acida bile, nonché una voglia matta di dimostrargli quanto false fossero state le sue assurde considerazioni.

Mi sistemai meglio sul sedile, girandomi verso Milo per appurare se fosse o meno pronto; il suo cenno affermativo mi incoraggiò e, dopo l’ultimo minuto di intima meditazione onde impostare il primo attacco, posi le mani sulla lucente tastiera, pronto per la sonoramente visionaria danza dei morti, che incominciò prima coi dodici rintocchi annuncianti la mezzanotte, presto accompagnati dallo stridulo e sbagliato - dal punto di vista della tonalità - tema del richiamo: infatti, il poema di Henri Cazalis che ispirò La Danse Macabre si apriva con la comparsa della Morte, la quale accordava il suo violino nel cimitero e così, mentre io eseguivo il brano sulla scala del mi maggiore, Milo stonava con accordi in mi minore, seguito poi dal re, mi bemolle e sol. Questo era il preludio della reviviscenza dei morti, i quali appunto venivano richiamati dalla Morte onde partecipare ad un macabro festino.

Zig et zig et zag, la mort en cadence

Frappant une tombe avec son talon,

La mort à minuit joue un air de danse,

Zig et zig et zag, sur son violon.

 

Sei semitoni in successione cromatica – sol, la bemolle, la, si bemolle, si e do – tutti in fortissimo descrivevano il notturno risveglio dei morti e il loro temporaneo congedo dai rispettivi sepolcri, onde godere ancora una volta della frescura dell’aria dei vivi. Frescura? Ah no! Un vento impetuoso, inclemente fungeva da accompagnamento allo spettrale e scordato violino della Morte, la quale battendo il piede indicava un ritmo sempre più frenetico ai danzatori, le cui ossa cozzavano tra di loro in sinistri tintinnii.

 

Le vent d’hiver souffle, et la nuit est sombre,

Des gémissement sortent des tilleuls ;

Les squelettes blancs vont à travers l’ombre

Courant et sautant sous leurs grands linceuls,

 

La Danse Macabre fu per me amore a primo orecchio. Questo coup de foudre avvenne all’Opéra Garnier e dovevo aver avuto all’incirca sei anni ; era la prima volta che Maman, Mamie ed io ritornavamo a Parigi in seguito alla sospirata sparizione di quell’uomo dalle nostre vite e non potevamo essere di spiriti migliori. Inoltre, quel giorno era il mio compleanno e siccome avevo subito dimostrato una certa passione per la musica, Maman era riuscita ad ottenere dei biglietti – nel palco, incredibile! – per un concerto, che si sarebbe svolto la sera stessa. Mi ricordo, che Mamie era stata un po’ scettica: temeva che mi annoiassi. Al contrario, non solo mi divertii parecchio, ma quando l’orchestra eseguì il poema sinfonico di Saint-Saëns, in quell’istante sentii come esso mi fosse entrato nel sistema nervoso: seppi, che l’avrei amato per tutta la vita.

Zig et zig et zag, chacun se trémousse

On entend claquer les os des danseurs,

Un couple lascif s’assoit sur la mousse

Comme pour goûter d’anciennes douceurs.

 

Eppure, quella lontana sera esso m’ispirò qualcos’altro. Un’emozione che andava al di là del mero rapimento musicale; ebbi l’impressione di udire un richiamo, un tentativo di dialogo, ma cosa? Qual era il messaggio celato dietro quell’appello? E da parte di chi?

Zig et zig et zag, la mort continue

De racler sans fin son aigre instrument.

Un voile est tombé ! La danseuse est nue !

Son danseur la serre amoureusement.

 

Un attimo di pianissimo. Ma era solo una mera illusione; sotto ad essa il tema musicale si rinforzava per il crescendo finale; il violino della Morte voleva creare un piccolo, fuggevole e idilliaco momento per una coppia ultraterrena, divisa in vita, felicemente unita nell’annullamento eterno.

Non era sublime?, avevo pensato all’epoca, mentre mi sporgevo dal palco, cercando di cogliere avido ogni singolo gesto dell’orchestra e del suo direttore, il quale preciso e ritto guidava come un fiero generale la sua truppa verso lidi cui solo la musica poteva condurre.

La dame est, dit-on, marquise ou baronne.

Et le vert galant un pauvre charron – Horreur !

Et voilà qu’elle s’abandonne

Comme si le rustre était un baron !

 

Avanzava una larva umana, orribile a vedersi e priva di ogni grazia terrena : la sua pelle dura e raggrinzita poteva competere con la medesima centenaria corteccia di un vecchio salice, eppure il suo incedere dignitoso e regale evocava una lieve reverenza perfino tra i morti. Ella tese la mano. Uno scheletro più intaccato dall’azione corrosiva dei vermi gliela afferrò, baciandola devoto. Quella notte, la nobildonna sarebbe stata la sua compagna. La Morte sorrideva compiaciuta al chiarore infernale della luna.

Mi sovviene di aver ad un certo punto sottratto il cannocchiale da teatro a Mamie, tanto ero curioso di vedere se fossi riuscito a scorgere il viso del direttore d’orchestra, onde verificare se in esso vi fosse descritto fisicamente il travolgente trasporto emotivo con il quale impregnava la sua sempre più concitata direzione.

Zig et zig et zig, quelle sarabande !

Quels cercles de morts se donnant la main !

Zig et zig et zag, on voit dans la bande

Le roi gambader auprès du vilain !

 

Eccolo infine, il folle crescendo. Inarrestabile. Un torrente in piena. La notte non sarebbe durata a lungo, la Morte lo sapeva e dunque ella pressava il ritmo della danza in un esagitato sabba; il suono prodotto dalle corde ormai roventi del suo violino si confondevano alle medesime folate del vento rabbioso, creando un grottesco tutt’uno, rendendo impossibile ogni discernimento acustico. Un unico magma uditivo che ribolliva vivace fino a raggiungere lo zenit del fortissimo, in un’esplosione indomabile e grandiosa.

E quasi ne fosse il padrone e artefice, il giovane direttore d’orchestra controllava quel vulcano sonoro, i suoi gesti imponenti - quasi ieratici nella loro sicurezza malgrado il loro frenetico susseguirsi - manipolavano a loro gradimento i due temi principali, rimescolandoli in scoppi d’archi e ottoni sempre più assordanti  e feroci. Il suo viso concentrato si distrasse per un attimo dallo spartito, permettendomi di catturarlo infine.

E il me stesso diciassettenne tremò a quel ricordo riesumato dal cimitero della memoria.

Mais psit ! tout à coup on quitte la ronde,

On se pousse, on fuit, le coq a chanté

Oh ! La belle nuit pour le pauvre monde !

Et vive la mort et l’égalité !

 

Improvvisamente, arrestai Milo con un accordo. Era arrivata l’alba. Il gallo, foriero del mattino, cantava la vittoria del giorno sulla notte, della Vita sulla Morte, la quale, impotente e adirata, si ritirava lamentosa assieme alla sua sepolcrale masnada sotto l’eco sempre più flebile del suo spettrale violino scordato che, con una serie di ultimi pizzicati, poneva fine all’illusione di poter essere di nuovo, ciò che si era stati in passato.

Dopo il breve silenzio che seguì, due scrosci di applausi s’incrociarono d’un tratto nella mia mente: uno di undici anni fa, ascoltato dalle orecchie della rimembranza; l’altro del presente, percepito coi miei effettivi organi uditivi. E sempre due persone si girarono, sebbene a distanza d’anni: il giovane direttore d’orchestra verso un entusiasta pubblico e il sottoscritto verso i positivamente impressionati esaminatori e …

… e la versione più anziana del medesimo direttore di quel lontano concerto,  che non batté le mani, né si complimentò con me. Un breve cenno di assenso del capo fu tutto ciò che ebbe da comunicarmi silenziosamente.

Un gioioso sorriso si allargò sul mio volto tirato dopo quasi un’ora di prova pratica.

Ero ritornato al principio, alla mia epifania artistica. Il preciso istante in cui avevo deciso di dedicarmi alla musica; quella profonda e intima motivazione, senza la quale non ero che un rigido automa senz’anima.

Ora finalmente comprendevo il punto del discorso di Orphée.

Milo ed io uscimmo in silenzio dall’aula, mantenendo una seria maschera da sopravvissuti ad un’esaminazione assai dura e impegnativa. Tuttavia, alla prima svolta, incominciai a saltellare come il coniglio pasquale lungo tutto il corridoio, fino ad abbracciare euforico il mio bicho coprendolo di scatenati baci. “Sono così contento, Milo! Così contento!”, balbettavo sconnessamente, peggio di un evaso da Bedlam. “Non m’importa, se Orphée dovesse votare contro: sono lo stesso felice!”, ripetevo demente, affondando il viso sul suo petto.

“C’est bien, mon amour. C’est bien!”, rideva ilare lo scorpion, coinvolgendomi in una sconclusionata volta rinascimentale, ridendo assieme a pieni polmoni e mai così lieti di essere in quel momento viva carne e sangue.

 

***

 

“E’ molto grave dottore?”, la voce di Maman era venata di sincera apprensione, mentre fissava attenta il suo secondo figliastro seduto immobile sul letto, le braccia incrociate al petto e gli occhi spalancati cerchiati di occhiaie, i quali erano puntati ostinatamente sul muro della propria camera.

Il dottor Savre chiuse perplesso la luce della sua pila medica, osservando entrambi i presenti sconcertato. Infine, sistemandosi il colletto della camicia d’un tratto troppo stretto, dichiarò stupefatto: “Madame” (ormai la voce si era sparsa in paese) “il vostro figliastro, medicalmente parlando, è in perfetta salute …”

“Ce n’est pas possible!”, protestò Maman, ponendosi bellicosa le mani ai fianchi. “Enfin, è da sabato sera che è inchiodato a quel letto, senza parlare, mangiare, dormire e lavarsi! E oggi è martedì!  Si alza solo per bere e fare i suoi bisogni e voi affermate, che è il ritratto della salute?”

Boccheggiando, il dottore si discolpò: “Mais Madame, l’unica malattia che potrei diagnosticare al giovane sarebbe catatonia volontaria!” e indietreggiò alla vista del modo in cui Maman arcuò irata il sopracciglio, rara occasione in cui assomigliava in tutto per tutto alla madre, invece che al padre.

Staccandosi dal muro, sul quale si era appoggiato, Saga prese la parola per la prima volta in quel momento. “Mère, ascolta il dottor Savre! Questo disgraziato mio doppio sta bluffando: è tutta scena!”, commentò scocciato, lasciando un’occhiata obliqua a Kanon, nella quale parevano essere rinchiusi tutti e sette i demoni di Maria Maddalena.

E malgrado ciò, il gemello minore non lo degnò di un battito di ciglia.

Appurando, che neanche il medico poteva risolvere quell’incresciosa situazione - e che il loro padre non sarebbe tornato dalla conferenza a Tours prima di mercoledì – Maman trovò giusto congedare il dottor Savre, augurandogli un Buon Natale e maledicendolo mentalmente per non essere stato di alcun aiuto.

Intanto che la matrigna disponeva del dottore, Saga pigliò una sedia e si sistemò accanto al muto gemello, acchiappando il piatto di zuppa e intingendo il cucchiaio, che porse bello pieno a Kanon, che, senza neppure girarsi, lo schifò platealmente. Serrando le mascelle, il gemello maggiore tentò un secondo approccio, nuovamente rifiutato. Un terzo. Un quarto. Al quinto il geyser diede spettacolo.

“Tu lo fai apposta, vero?”, ringhiò Saga, ogni sua buona intenzione lanciata dalla finestra. “E’ inutile, che ti ostini ad esibirti in queste scene madri, ormai ho deciso: mi piace Hilda; è la mia ragazza; fine della questione! E non cambierò idea! Neanche se ti svenassi sotto i miei occhi! Anzi, perché non inizi da subito?”

Muovendo le labbra secche, Kanon articolò infine il primo motto dopo ben tre giorni di silenzio: “Tu vuoi la mia morte, eh? Vuoi uccidermi, non è così? Come hai potuto farmi questo, Sasà? Come?”

Appoggiando il piatto sul comodino, Saga si passò una mano sulla tempia: accidenti, si era scordato di pigliare una pastiglia contro il mal di testa … “Nônon, credo di essere abbastanza grande per stare con una ragazza, che mi piace: ci intendiamo, stiamo bene assieme … enfin, che problema ti crea, se la frequento?”

“Ci sei andato a letto?”

Arrossendo, il gemello maggiore balbettò: “P-pardon?”

“Tzé! Visto?”, sbottò Kanon, infossandosi sotto le coperte, “Tu non sai nemmeno com’è fatta una donna!”

Su quel punto, il suo doppio ci tenne a precisare: “E invece sì, su questo ti sbagli! Ti ricordo, carissimo gemellino, che ne ho dissezionate ben cinque durante le lezioni pomeridiane domenicali di anatomia col professor Shion!” e gongolò fiero di sé, inumidendosi le labbra con la punta della lingua. Quanto al minore, si limitò a girare il capo disgustato.

“In ogni modo, non mi va che tu esca con Hilda!”, borbottò capriccioso Kanon, storcendo indispettito le labbra. “Lo sapevo, che quelle due oche ti avrebbero rincitrullito!”

“Modera i termini”, lo avvertì minaccioso Saga, aggrottando la fronte. “E parla al singolare: Freja è l’oca, non Hilda!”

“Ma lo stesso lei non mi garba!”

“Non ci devi mica galipettare tu assieme!”

“Ah sì! Perché tu galipetti con lei! Certo, Sasà, sicuro, come no! E io aspetto il terzo figlio di Rhada!”, sbuffò sarcastico il gemello minore, storcendo ironico la bocca.

Impassibile, il maggiore alzò il sopracciglio, replicando incolore: “Felicitazioni! Senti, Nônon carissimo, in tutta onestà cos’è che ti irrita? Il fatto che io abbia la ragazza o il fatto che la detta gonzesse sia Hilda?”

“Hilda!”

“Oh, almeno fin qua ci siamo chiariti! E come mai?”

“Non è donna per te!”

“Ah, giusto!”, spalancò falsamente contrito Saga, arricciando le labbra. “Dimenticavo! Tu sì che sai, quale sia la compagna adatta per me! Che sciocco! Devo essermelo dimenticato, hélas, quest’Alzheimer!”, sospirò teatralmente, battendosi la mano sulla fronte, gesto che Kanon non trovò affatto divertente.

“Non fare lo spiritoso: sei solo più grottesco del solito!”

“D’accordo, d’accordo. Fingiamo di essere seri. Eh-ehm … Kanon, Kanon gran rompizizì del reame, chi sarebbe infine la donna delle mie brame?”, lo consultò il doppio più anziano, sfruttando le sue lontane rimembranze circa una sanguinosa storia appellata Blanche Neige.

Pausa riflessione.

Appena possibile, le sarà passato un operatore. La preghiamo di attendere e rimanere in linea, merci.

“Gueh … boh …”, capitolò infine Kanon, non trovando in effetti alcun candidato di sesso femminile, che potesse intaccare l’adamantina virtù di Saga, forse neppure l’Angelica dell’Ariosto.

Schioccando trionfante la lingua, il maggiore dei gemelli elargì al povero minore un malefico coup de grâce. “Visto? Lo ignori anche tu! Di conseguenza, smettila di sindacare su tutto quel che faccio e mettiti l’anima in pace!”

“Jamais! Giammai!”, berciò Kanon indiavolato d’un tratto vispo, scostando teatralmente la coperta e ponendosi in piedi sul letto. “Non avrei mai voluto ricorrere a questi metodi medievali, ma tu mi ci hai costretto! Perdonami, Sasà, sappi che anch’io soffro nel commettere questo sacrilegio! E’ però per il tuo bene!” e levò in aria quel che a prima vista sembrava un paio di mutande di ferro.

Saga sbiancò, balzando bruscamente giù dalla sedia e arretrando di numerosi passi. “Nônon, cos’è quel … quel coso?”, balbettò terrorizzato, voltandogli all’improvviso le spalle e correndo a gambe levate verso la porta. In un unico balzo felino, il minore gli bloccò la strada e, approfittando dell’attimo di scombussolamento del suo doppio, lo spinse forte sul letto, saltandogli poi addosso.

“Aiuto! Au secours!”, strillò indecentemente acuto il gemello maggiore, dimenando le gambe, acciocché Kanon fallisse nel suo intento di sfilargli di dosso i pantaloni. “Corinne! Soccorso! Nônon mi vuole mettere la cintura di castità!”

Afferrandogli una caviglia imbizzarrita, il minore puntualizzò professionale: “E’ un gabbiotto anti-masturbazione dell’epoca vittoriana! L’ho fregato dalla soffitta della Manor di Rhada!”, fu la sua spiegazione, attivando il meccanismo, precedentemente da lui ben oleato, cosicché quando inserì la chiave, esso si aprì in un chiaro  e sinistro click!,  provocando una sincope nel suo doppio.

Per coloro che fossero un po’ scettici circa l’esistenza di simile amorevole accorgimento dei genitori, onde frenare le scoperte onanistiche dei loro pargoli maschi, ebbene vi confermo che in musei come il Victoria and Albert è possibile ammirare il detto strumento, il quale piagò generazioni di adolescenti frustrati e che permise a Freud di formulare bene il concetto di repressione sessuale.

Ecco dunque l’infernale oggetto attraverso il quale Kanon sperava di preservare il suo adorato gemello dalla corruzione del mondo, in particolare da parte di una certa bionda Fräulein tedesca.

Peccato, che qualche mente perversa da lassù volesse altrimenti. “Ma … ma che state facendo voi due? Tu soprattutto!”, esclamò indignata Maman, specie nel pizzicare il suo secondo figliastro d’un colpo tutto bell’e pieno d’energie e col gabbiotto e i boxer di Saga tra le  mani. Il maggiore dei due masnadieri pigliò rapidissimo un cuscino, ponendoselo sulle sue omeriche vergogne d’uomo, gli occhi quasi umidi di lacrime dalla vergogna e la faccia sul punto d’ebollizione tanto era diventata rossa.

Spudorato, Kanon dichiarò fieramente: “Metto il merlo in gabbia, mère!”, disorientando per qualche minuto buono Maman, la quale si riprese in fretta.

“E pourquoi ça? Non puoi lasciarlo folleggiare in santa pace?”

“Non!”

Sistemandosi una rossa ciocca dietro l’orecchio, la matrigna non si scoraggiò. “Quale sarebbe il problema?”

“Sasà ha la ragazza! E non va bene! Me lo vuole portare via, la gueuse!”, piagnucolò Kanon, mentre il suo doppio tentava di sottrargli le mutande: avrebbe fatto prima a pescare una trota a mani nude nel torrente.

Decisamente interdetta, Maman tentò di far ragionare il figliastro: “Kanon, non puoi costringere tuo fratello ad essere gay per forza! Se gli piacciono le donne, devi conformarti ai suoi gusti! Non lo vorrai mica renderlo infelice, spero?”

Scuotendo vivacemente la zazzera biondo oro, il minore dei gemelli ansimò: “Certo che no! Tuttavia, non è il fattore etero di per sé che mi preoccupa, bensì la scelta della gonzesse! Non capisci? Lei è … è … oh, putain! Come dirlo? Enfin, Sasà sbava dietro a una dominatrix!”

Silenzio postconcussivo.

“A chi piace una dominatrix?”, chiese Aiolia a nessuno in particolare, rientrando proprio in quel momento sia da scuola, che da una delle sue misteriose spedizioni: il fango fino al ginocchio lo tradiva spudoratamente.

Tre teste si voltarono rigide verso di lui. “Aiolia?”, l’apostrofò atona Maman.

“Ouais?”

“Vai a fare i compiti!”, gli suggerì una stralunata matrigna, sottraendo i boxer di mano a Kanon e restituendoli al suo legittimo proprietario, che si prodigò a rindossarli sotto le coperte.

Scrollando le spalle, il lionceau seguì senza tante storie il suo consiglio, premurandosi tuttavia di gettare prima nel caminetto acceso una busta dai bordi neri.

 

***

Mimì: Addio, dolce svegliare alla mattina!

Rodolfo: Addio, sognante vita …

Mimì:  Addio, rabbuffi e gelosie!

Rodolfo: … che un tuo sorriso acqueta!

Mimì: Addio, sospetti! …

Rodolfo: Baci …

Mimì: Pungenti amarezze!

Rodolfo: Ch’io da vero poeta, rimavo con carezze!

 

Un diciottenne Orphée rabbrividì violentemente non appena varcò la soglia della stanza, nella quale Madame Molinier era solita impartire lezioni di pianoforte. Infatti, benché avesse incominciato a nevicare copiosamente, la finestra era spalancata, accogliendo il gelido vento invernale e qualche fiocco di neve all’interno del tepore domestico e la stessa padrona di casa, in barba ad ogni eventualità di broncopolmonite, osservava pensosa la strada innevata, stringendo le labbra ormai violacee dal freddo in una dura linea, mentre le struggenti note de “La Bohème” di Puccini risuonavano tristemente commuoventi nell’ambiente a malapena illuminato dalla luce del leggio.

“Madame?”, si schiarì la voce il ragazzo, annunciando il suo arrivo.

Senza voltarsi, la donna gli indicò lo sgabello con un laconico gesto della mano. “Prendi pure posto, Orphée!” e dopo aver liberato un ultimo pesante sospiro, ella chiuse la finestra, stringendosi al golfino di lana, intanto che si sistemava accanto al suo allievo. “Cosa mi hai portato oggi?”

“Allora, innanzitutto il“Traumerei” di Schumann, Opus 15, movimento n°7! Poi …”, rispose prontamente lo il pianista in erba, tirando fuori il libro contenente tutti e tredici i movimenti dell’opus e sfogliandolo in cerca della pagina desiderata con una certa impazienza: si era esercitato notte e giorno su quel brano e gli altri assegnatigli, acciocché la sua insegnante potesse essere fiera di lui. Sin dalla sua prima lezione -  quando lui aveva all’incirca cinque anni -  il giovane aveva sempre provato una grandissima devozione nei confronti di Madame Molinier; sentimento che aveva sfidato lo scorrere degli anni e lo sbalzo d’età e ormoni, sfociando infine in un affetto ancora indefinito e che tuttavia era capace di scombussolare appieno il cuore e la mente di Orphée, spronandolo a migliorarsi senza sosta, tutto pur di poter ammirare i radiosi sorrisi che la sua insegnate gli elargiva, quando gli dimostrava il duro impegno dietro un’esecuzione pressoché perfetta.

Ma per quanto i suoi risultati divenissero giorno dopo giorno inarrestabilmente più brillanti,  Madame Séraphine non sorrideva più così spesso, come soleva fare in passato; al suo posto si era insinuata un’amara smorfia di bellicosa rassegnazione, quasi la donna stesse attendendo un terribile e inevitabile evento, contro il quale, tuttavia, si sarebbe battuta fino all’autodistruzione. Del resto, il giovane studente aveva notato che l’intera famiglia della pianista aveva cambiato atteggiamento negli ultimi anni: Monsieur e Madame Molinier comparivano sempre di meno assieme in pubblico e a volte, pure nella  loro stessa casa. Infatti, Orphée si ricordava assai bene, come durante le lezioni pomeridiane fosse solito scorgere il marito di Madame Séraphine o come lui in persona gli aprisse la porta. Invece, poco a poco quei piccoli incontri si erano annullati e il ragazzo si chiedeva sovente, se il marito ritornasse mai a casa la sera.

“Orphée?”, lo richiamò la sua insegnante alla realtà, fissandolo tra il divertito e lo stanco.

“Oui, Madame?”

“Non ti scaldi prima le dita con gli esercizi dell’Hanon?”

Arrossendo imbarazzato per quella sciocca dimenticanza, l’allievo ripose Schumann e prese gli esercizi preparatori di Charles-Louis Hanon, riempiendo la sala di vorticose scale, arpeggi e altri virtuosismi atti a preparare e a sciogliere le dita del pianista prima di cimentarsi in un’effettiva esecuzione musicale.

Fu durante uno di questi musicali andirivieni, che il telefono squillò interrompendo il giovane, che guardò interrogativamente la sua insegnate, la quale gli fece cenno di proseguire, intanto che si alzava per andare a rispondere. E fu sempre per l’enorme affetto che provava per lei, che Orphée non levò mai le dita dalla tastiera, imprimendovi anzi maggior forza, onde celare il più possibile le adirate urla provenire dal salotto. Un’enorme bile gli risalì l’esofago, quando, ritornando nella stanza del pianoforte, vide gli occhi di Madame Séraphine cerchiati di rosso, come scarlatte erano le chiazze sparse sul suo viso, tipiche di chi aveva sfidato la pressione sanguigna del proprio corpo mediante un’incredibile arrabbiatura.

E di fatti, la lezione mutò il tono rilassato di prima in uno assai più nervoso: ogni singola e lieve sbavatura da parte di Orphée veniva rimproverata in acidi e sarcastici commenti, fino a raggiungere lo zenit in un maligno suggerimento di ritornare a Clementi, se per l’allievo Schumann era troppo difficile da suonare senza maltrattarlo sconsideratamente.

“L’andamento è moderato, benedetto ragazzo, moderato! Pensavo, che tu fossi abbastanza maturato da non costringerti a usare di nuovo il metronomo! Stiamo regredendo, per caso? E qui”, sbottò infine la donna, puntando con veemenza l’indice contro lo spartito, “devi modulare il passaggio dal fa maggiore in do maggiore, capito? Mo-du-la-re! Non dirmi, che è per te un concetto troppo difficile da afferrare?”, inquisì snervata l’insegnante, che, dinanzi all’interdetto mutismo di Orphée, prese stizzita lo spartito, chiudendolo con la medesima foga. “Torna la prossima volta, non hai studiato a sufficienza: detesto, quando mi si fa perdere del tempo così!” e detto questo, si alzò brusca dallo sgabello, portandosi nuovamente alla finestra, la mano corsa rapida sugli occhi, mentre l’altra riattivava il giradischi, riprendendo l’aria là dove l’arrivo di Orphée l’aveva interrotta.

Rodolfo e Mimì: Chiacchieran le fontane

la brezza della sera.

Balsami stende sulle doglie umane.

Vuoi che spettiam la primavera ancor?

 

“Sei sordo o cosa?”, l’apostrofò piccata Madame Séraphine, sebbene con minor aggressività di prima. “Ti ho detto di andartene! La lezione è finita!” e indicò la porta, onde sottolineare quanto affermato. Invece, il suo studente rimaneva fermo in piedi, non accennando ad un solo passo, se non verso di lei al posto della porta.

“Madame, è successo qualcosa? Vi vedo così turbata!”, le chiese preoccupato il ragazzo, lo sguardo colmo di pena infinta per la sorte dell’insegnante, la quale, ricomponendosi dopo un attimo di smarrimento dinanzi quella domanda così inaspettata, rispose in un sbrigativo “non”.

“E quelle lacrime, allora?”

La donna si voltò dalla parte opposta, gli occhi persi ovunque e disorientati nella loro vana ricerca di un punto fisso su cui focalizzarsi. Inconsciamente, il suo pollice e il suo indice erano corsi all’anulare, là dove brillava spenta la sua fede nuziale.

Mimì: Sempre tua per la vita …

 

“Suvvia, Orphée! Credi davvero, che mi metta a piangere? L’ultima volta fu da bambina e ora, come ben vedi, non lo sono più! Non ho motivo di singhiozzare!”, ansimò Madame Séraphine, tentando di calmare il furioso alzarsi ed abbassarsi dell’agitato petto. “Non ne ho bisogno!” e si coprì la bocca con la mano, appoggiandosi con l’altra al bordo di un tavolino poco distante. Celere, il giovane le fu accanto, allungando una mano onde consolarla, ma che bloccò a mezz’aria, incerto se procedere o frenare quel temerario tocco.

Rodolfo: Ci lasceremo …

Mimì: Ci lasceremo alla stagion dei fior …

Rodolfo: … alla stagion dei fior …

 

“Pardonnez-moi, Madame! Sono stato indiscreto e devo avervi offesa col mio atteggiamento! Col vostro permesso, levo il disturbo!”, si scusò contrito lo studente, notando la postura rigida della pianista e si apprestò a riadunare le sue cose, quando la voce della donna incrinata dal pianto a stento represso lo fermò, fulminandolo.

“Anche tu mi abbandoni?”

Orphée si girò di scatto, quasi fosse stato punto da un insetto molesto. In pesanti e disordinati tonfi, i libri gli scivolarono di mano, sparpagliandosi sul pavimento in un’ecatombe di fogli di carta. Sperò di aver udito male; ciononostante, pregava fervente di aver al contrario inteso perfettamente le parole di Madame Séraphine. Abbandonarla? Mai!, urlava il suo cuore, agitato ora da possenti e antagonisti sentimenti: un odio viscerale verso il fautore di quelle amare lacrime, le quale rigavano impietose il viso sempre forte e deciso della sua insegnante, rendendola ora non dissimile da una bambinetta spaurita. E un’altra emozione, che lo istigava ad abbracciare la donna, a consolarla, ad asciugare il volto umido e pallido. Mon Dieu!

“Te ne vai?”

Seigneur, ayez pitié de moi!, fu l’appassionato e contrito mea culpa di Orphée, mentre accorciava in pochi passi la distanza tra di loro, afferrando Madame Séraphine per le spalle e attirandola verso di sé, la mente ormai lontana da qualsiasi pensiero coerente; la realtà gettata dalla proverbiale finestra.

La baciò, semplicemente.

Mimì: Vorrei che eterno

Durasse il verno!

 

Un lieve, casto e reverente tocco, lo stesso che avrebbe impresso ai piedi della statua di Notre-Dame. Nessuna ardente e terrena passione infangò quel bacio da lungo tempo covato nel cuore del ragazzo.

Le palpebre semi abbassate, Madame Séraphine non si oppose per qualche istante, finché accarezzandogli dolcemente la guancia, gli fece intendere di scostarsi da lei. “Non è leale da parte tua, Orphée!”, lo rimproverò tenera, scorrendo la mano tra i suoi capelli.

“Pardonnez-moi encore, Madame!”, boccheggiò l’allievo, il viso un’indistinta macchia rossa di vergogna. “So di avervi offesa, però … però non sopporto di vedervi così triste per colpa”, si morse a disagio il labbro inferiore “ … delle infedeltà di vostro marito! Come osa prendervi in giro in codesta odiosa maniera? A … a infischiarsene della fiducia che voi gli concedeste il giorno dell’imeneo? Non è giusto, Madame, non è giusto che voi soffriate a causa sua!”, eruppe il giovane appassionatamente, scaldandosi di sdegno al solo pensiero dello sgarbo, cui M. Molinier stava sottoponendo la sua signora.

Sorridendogli invece, la donna dichiarò stanca: “Ciò che affermi è vero, Orphée: mio marito mi è infedele. Fatto che sarebbe più tollerabile, se la rivale in questione fosse del mio genere: sarei gelosa, certo, ma non umiliata come mi sento in questo preciso istante! Ciononostante, per quanto provi nei suoi confronti rabbia e dolore e odio, non posso commettere lo stesso peccato che rimprovero a mio marito! Che lui mi tradisca, non è una valida scusante per tradirlo a suo turno.”

Incredulo, Orphée esclamò: “Lo amate a tal punto?”

“Se lui mi supplicasse in qualsiasi momento di perdonarlo, lo farei senza esitazione alcuna. Ed è appunto questo, che mi riempie di enorme disgusto verso me stessa!”, ammise amara la pianista. “Mi dispiace Orphée, ma ti sconsiglio di investire il tuo cuore su di me; tranne che mio marito, non saprei come amare chiunque altro. Sono un patetico caso perso!” e sorrise di nuovo, abbracciandolo forte. “Je suis navrée, vraiment!”

Rodolfo e Mimì: Ci lascierem alla stagion dei fior!

 

“Madame?”, le domandò sottovoce Orphée, sciogliendosi a malincuore dalla tiepida e delicata stretta.

“Oui, mon fils?”

“Possiamo terminare la lezione per l’ora stabilita?”

Dinanzi al timido e speranzoso sguardo umido del suo allievo, Madame Séraphine annuì dolcemente: “Oui, mon enfant. Vas-y! Je t’écoute!”

E il Traumerei di Schumann sostituì il silenzio del giradischi in una sognante e malinconica melodia.

 

 

***

 

Ben cotto dai vapori di una doccia bollente, uscii dalla cabina fumando e rosso peggio del granchietto Sebastian; sinceramente, il concetto di acqua tiepida non esisteva in quella casa: o gelida o bollente. E siccome dopo un’imburrata pomeridiana di sano vento invernale parigino non me la sentivo di raffreddarmi ulteriormente, a quel punto era sul serio meglio sacrificare qualche nervo e cuocersi al vapore. Sperando di non svenire intontito dai fumi, bien sûr. L’ultima cosa che volevo, era di farmi trovare privo di sensi e agonizzante per terra in quella neo-sauna.

Tzé!

Infilandomi l’accappatoio, mi sedetti sul bordo della vasca da bagno, pettinandomi nel frattempo i capelli e cogitando se fosse o meno il caso di asciugarmeli col fon: ancora un’esalazione calda e forse sarei per davvero finito tramortito sul pavimento. Tuttavia, se mi fossi tenuto la testa bagnata …

“Sgurublé!!!”, gridai in una vergognosa vocetta acuta e terrorizzata, nel medesimo istante in cui percepii due dita solleticarmi i fianchi in un’unica letale stilettata, la quale mi costrinse inoltre ad un acrobatico salto dal bordo della vasca. “E’ una tradizione del vostro paese, quella d’invadere i bagni occupati? E soprattutto, di evitare ad ogni costo un’entrata da cristiani, espèce de vandale?”, berciai inviperito contro un sornione bicho, il quale doveva aver forzato la serratura con la proverbiale forcina, violando così l’intimità della mia doccia serale.

Aprendo un poco la finestra, Milo ribatté ineffabile: “Embé? Flûte, sei stato nel brodo bollente per quasi mezzora, sono solo venuto a controllare a che punto fossi con la cottura!”e mi elargì un buffetto sulla guancia. “Certo, però”, aggiunse, ventilandosi con il bordo della felpa “che sul serio sembra di essere in un bagno turco!”

“Appunto, turco! Ergo, i greci qui non posso entrare!”, replicai scocciato, facendo per alzarmi sennonché lo scorpion lubrique fu più rapido e grazie ad un bello strattone planavo sulle sue ginocchia.

“Tzé, siamo già agli sbalzi d’umore? Non è che sei incinto? Sono sicuro, che Iou – Iou apprezzerebbe moltissimo la notizia!”

Non potei trattenere un sorrisetto maligno nell’immaginarmi la faccia sconvolta del lionceau di famiglia.

“Sono solo un po’ stanco”, ammisi, massaggiandomi il collo dolorante “e di certo, tutto questo vapore deve avermi squagliato il cervello più del dovuto!” e ronronnai quando le mie dita sulla nuca vennero sostituite da quelle di Milo, le quali si mossero forti e delicate in lenti movimenti circolari.

Mince, si c’est bon!, pensavo, piegandomi in modo da fornirgli maggior accesso anche alle spalle.

“A propos, sei stato fenomenale questo pomeriggio! Sai, stentavo quasi a riconoscerti: non ti avevo mai visto suonare così rilassato e allo stesso tempo scatenato; verso il crescendo, per poco non saltellavi sullo sgabello!”, mi confessò entusiasta il bicho, provocandomi compiaciuti gorgoglii: dopo la batosta del maestro Lyralique, essi erano più che ben accetti, anche perché in effetti Milo non mi aveva mai detto chiaro e tondo, se la nostra performance ne La Danse Macabre fosse o no degna di essere ascoltata, né come andassi in generale.

Sogghignando dinanzi al mio appagato mutismo, il ragazzo insinuò giocosamente perfido: “Alors? Si è gonfiato abbastanza il tuo ego?”, sfottò cui risposi inavvertitamente, più preso dal massaggio alla schiena, che dalle sue parole:

“Se continui ad impastarmi come una baguette, mi si gonfia qualcos’altro!”

“Gueh?”

Silenzio post-apocalittico.

Le labbra dello scorpion lubrique tremarono, mentre la mia circolazione sanguigna rifluiva impazzita sulle mie gote. Infine, un ruggito di risate riempì il bagno ora più fresco.

“Cos’hai da ridere?”, protestai in un indignato balbettio, colpendo ripetutamente il braccio del bicho, il cui volto superava il mio in rossore, ma per cagioni differenti.

“Ha - ha !!!! Mon Dieu! Ha - ha !!! Mon Dieu!!! Rien, Ionesco, rien de tout! Ha - ha !!! E’ che mi pare strano, sai, sentire certe cose venire proprio da te! Ha - ha !!!” e continuava a massacrarsi il diaframma a suo di risate.

Sbuffando, ribattei scocciato: “Uff, e va bene! Sono stato preso dall’emozione del momento, et alors? Mi fai il predicozzo? Proprio tu, il ninfomane per eccellenza di Mont-de-Marsan?”

“Nah, non sono ninfomane”, si difese giocosamente Milo, abbracciandomi stretto per i fianchi, “sono solo diversamente arrapato! Specie, quando si tratta di pingouins rouges! Ammetto che ho un debole per le loro codine …”

“Ah ouais? Ma non mi dire, non me n’ero accorto!”, commentai sarcastico. “Razza di materialista pervertito!”

“Eddai Ionesco! Non affermava forse Petronio, che l’uomo per non essere infelice ha bisogno di cibo, sesso e soldi?”

Roteai gli occhi: ovvio che lo sapevo, soprattutto se avevo dovuto costruire attorno a quella citazione un’intera risposta nel compito di novembre. “Ah Milo!”, sospirai melodrammatico. “Mi sorprende e mi rammarica apprendere, quanto la tua vita si circoscriva aridamente in tre concetti così gretti e privi di ogni afflato contemplativo!”

Arcuando il sopracciglio e pungolato dalla sfida, lo scorpion lubrique raccolse il quanto: “Ah non! Ogni tanto, Ionesco carissimo, anch’io elevo la mia anima venale, dedicandomi alla contemplazione!”

“Ouais, alla contemplazione delle mie fesses!”, replicai ironico, osservando nel frattempo leggermente apprensivo il modo in cui le chele del bicho giocherellassero con la cintura del mio accappatoio.

“C’est exact!”, confermò sornione lo scorpion lubrique, arrotolandosi tra le dita la bianca fascia, che stringeva il mio indumento. “Delle tue fesses!” e quella mano ancora più lubrique s’intrufolò tra le pieghe dell’accappatoio, mentre l’altra mi denudava le spalle.

“Ehm … voleva … voleva essere una battuta … enfin, non … tu … le mie … ppprrrrr  …”, e m’interruppi in rumorose ed estremamente  soddisfatte fusa grazie ai maliziosi giochetti, che il ragazzo si prodigava ad eseguire tra le mie cosce, per poi girarmi a cavalcioni su di lui e baciarmi euforico, il mio accappatoio quasi strappatomi di dosso. “Mi sono appena lavato”, protestai flebilmente, puntando le mani contro il suo petto e spingendomi via dal suo viso. “Eppoi, adesso non ne ho voglia!”, mentii poco convinto e di fatti, Milo non ci mise tanto a captare il bluff.

“Conneries!”, fu il lascivo ringhio, che uscì dalla sua gola, riacchiappandomi e persuadendomi con tutta la sua corporale dialettica a concedergli le mie fesses per qualche tempo.

“Mi prenderesti dunque contro la mia volontà?”, ansimai falsamente scandalizzato, alzandomi e traballando verso la porta del bagno.

“No!”, fece un Milo altrettanto sfiatato, gli occhi due pozze di pura lussuria. “Contro la parete della doccia!” e sempre mantenendo il suo sguardo lubrique puntato contro la mia figura, aprì in modo molto significativo l’acqua.

Serrando a chiave la porta, sorrisi di compiaciuta aspettativa.

L’acqua risultò perfino tiepida.

 

 

“Certo che voi due vi siete presi il vostro tempo, eh? Tra uno e l’altro, quanto siete stati in doccia a macerarvi?”

Il boccone di pesce per poco non mi andò di traverso, mentre il bicho continuava a tagliare il suo filetto di orata più tranquillo, sebbene non mi fosse sfuggito un lieve e furtivo tremito della sua mano sinistra.

Chissà perché, Mamie possedeva l’inquietante dono di porre sempre le domande giuste al momento giusto alle persone, hélas, giuste! Eppure, non scorsi in lei alcuna malizia dietro al quesito postoci, solo un’impicciona curiosità senile. Ché in effetti, un’ora e mezza sotto la doccia avrebbe lasciato perplesso chiunque.

“Sentivamo entrambi il bisogno di una bella ripulita!”, nicchiò Milo, sorseggiando con nonchalance il suo vino bianco. “Camus in particolare!” e mi scoccò una birbante occhiata.

Strinsi piccato gli occhi: naturale, che mi ero dovuto lavare una seconda volta! Cosa credeva, che me ne sarei andato in giro coi segni del rodéo de jambes en l’air addosso?

“Umphf! Avrà voluto risciacquare via gli ultimi rimasugli della sua perduta verginità!”, ipotizzò la tremenda grand-mère.

Silenzio.

Nuova edizione de Le Monde et de Le Figaro: Nonna assassina il nipote facendolo soffocare con una patata! Leggete, gente, leggete!

Battendomi sconcertato una mano sulla schiena, intanto che tentavo di respirare dopo aver rischiato di morire asfissiato dalla patata arrostita che stavo masticando, il bicho inquisì balbettando: “Come …?”

“Hé, hé”, sogghignò sibillina Mamie, ticchettando l’unghia sul vetro del suo bicchiere “ho percepito l’odore del testosterone fare finalmente capolino! Lo sapevo, io, che lasciarti andare a quella serata hype avrebbe compromesso la tua virtù, mon p’tit pingouin! Hélas, spero solo che tu non abbia traumatizzato quella povera ragazza!”, sospirò teatralmente, ridendosela in realtà alla grossa sotto i baffi.

Tzé! Se solo avesse saputo come e con chi avevo perso la verginità, non avrebbe sicuramente conservato quell’espressione sfottitrice sul viso. No, sarebbe stata una assassina.

Brrrr …

“Mamie!”, protestai vivacemente, inforcando un ulteriore pezzo di orata. “Certi argomenti a tavola!”

Del tutto sorda alla mia esortazione a tacere, l’avia familias continuò imperterrita: “Chissà che performance da parte tua … ” e grugnii esasperato, concentrandomi sul delizioso pesce, il cui gusto mi veniva reso amaro ad ogni boccone grazie alla brillante conversazione istauratasi. Ma parlare di argomenti più neutri e superficiali no, eh?

“Dai, Mamie! Non essere troppo critica!”, mi venne a suo modo in soccorso il bicho. “E’ il pensiero quel che conta! Ma vedrai che con un po’ di pratica …” e lo sguardo perverso che mi lanciò, mi fece intuire quanto lo scorpion lubrique scalpitasse di assumersi la responsabilità di un mio futuro training nell’ars amatoria.

Enfoiré!

“In ogni modo”, cambiò fortunatamente discorso Mamie “domani usciranno i risultati finali dell’esame! E in caso Momus non l’abbia passato, ci dovrà offrire a tutti il pranzo al ristorante Le Moulin de la Galette sulla rue Lepic!”

“E se avvenisse, invece, il contrario?”, la provocai, pulendomi la bocca col tovagliolo.

Mamie si sporse con fare complice verso di me. “Pranzo e cena!” e tutti e tre ridemmo di gusto alla battuta, terminando la cena senza ulteriori siparietti cochon.

 

***

 

“Saga, ma sul serio Hilda ti picchia?”

L’interpellato in questione smise di scrivere gli appunti sul suo quadernetto, lasciando immobile a mezz’aria la punta della matita. Se a pronunciare codesta frase fosse stato un certo gemello di sua conoscenza, sicuramente il giovane uomo avrebbe preso il temperino alla sua destra e gli avrebbe temperato senza esitazione alcuna la sfacciata linguaccia troppo lunga. Invece, il quesito fuoriusciva dalle labbra della sua matrigna – enfin, futura matrigna ufficiale -  la quale, dopo aver appreso la rivelazione choc di Kanon circa la concezione di Hilda riguardo le effusioni amorose, vi aveva rimuginato sopra per quasi il resto della giornata, giungendo alla conclusione che era meglio chiarire a che livelli arrivasse il loro rapporto BDSM.

E visibilmente colpito dalla serietà che traspariva dal volto di Maman, Saga inghiottì la risposta acida che già la sua mente aveva formulato – nel caso si fosse trattato di Kanon – e rispose tranquillo: “Mais non! Hilda non è una manesca! Enfin, se la tampini più del dovuto, una scopa in testa non è un miraggio, però mai per il gusto di menare fine a se stesso! Ha un carattere tosto, ecco! E Nônon non la può soffrire, perché è l’unica – a parte Rhada – che lo zittisca senza ricorrere alla violenza fisica!” e si morse la lingua prima che quest’ultima potesse rivelare quale metodo di tortura la tedesca utilizzasse, onde domare la gemellare bestia antropomorfa.

Sospirando di intimo sollievo, Maman riprese: “Quindi, il fatto che … ehm … su date preferenze a letto, lei sia … come dire … esuberante … non influisce sul suo comportamento quotidiano, giusto?”

Ora Saga incominciava a sudare freddo, sebbene le guance gli ribollissero per l’imbarazzo peggio della lava dell’Etna. Insomma, certi argomenti erano difficili da confessare perfino a suo padre, figurarsi alla matrigna! Inoltre, vi era un piccolo orribile dettaglio legato ai vari tentativi di godere – in tutti i sensi – della compagnia di Hilda e che gli impediva ogni approccio più diretto.

L’eczema!

Infatti, per quanto in generale il gemello maggiore non fosse un grande amatore del sesso, doveva riconoscere che la giovane donna tedesca ultimamente gli turbava la psiche e qualcos’altro nell’emisfero sud. Ma siccome all’epoca Hilda stava con Siegfried e Saga era un uomo d’onore, egli si era tenuto ogni lascivo proposito per sé, barricandosi ulteriormente dietro la sua promessa di casto celibato. Il terribile issue dell’eczema aveva fatto poi il resto.

“Ecco … ouais, ad Hilda piace il bondage sadomaso, però solo nel contesto … ehm, intimo! Sai, lei lavora come revenue manager all’hotel M. di Colonia e quindi ha una necessità quasi patologica di avere tutto sotto controllo”, spiegò Saga pazientemente “anche i partner di letto”, aggiunse poi sottovoce, ricordandosi dei vari giochetti trovati in camera sua durante le grandi pulizie del loro appartamento.

“Ah bene! Quindi, non ti ha mai fatto deliberatamente del male?”, il tono della matrigna non aveva ancora disertato quella vena ansiosa, che lo caratterizzava.  

“Non, ma mère, te lo giuro! È dura da ammettere, tuttavia da lei non ho mai preso più di un’ombrellata e una pioggia di insulti per essere rientrato troppo tardi dalla biblioteca!”, la rassicurò Saga, sorridendole incoraggiante e Maman parve calmarsi.

Stringendogli energica la mano, la donna esclamò: “Bien, non immagini che sollievo tu mi abbia dato, mon coeur! Sono davvero contenta, che vi rispettiate a vicenda!”

Confuso, il gemello maggiore inquisì senza riflettere: “Perché non dovrebbe?”, mordendosi poi il labbro inferiore alla vista del viso della matrigna incupirsi d’un colpo. “Ma mère, che cosa …?”

Ma prima che Saga potesse terminare la sua domanda, un urlo agghiacciante di animale ferito a morte riecheggiò nel salotto.

 

Ché infatti, mentre figliastro e matrigna discutevano sull’ars amandi di Hilda, Kanon si era trovato per caso a duellare a singolar tenzone con la detta tenera fanciulla. Il gemello minore aveva avuto l’orrida sfortuna di rispondere al cellulare di Saga, anche se tuttavia un po’ era andato incontro al suo mesto destino, giacché invece di ignorare la chiamata o cedere il telefonino al suo legittimo proprietario, aveva accettato la conversazione sebbene lo schermo indicasse a chiare lettere Hilda.

“Âllo?”

“Saga?”, s’informò subito la sospettosa voce di Hilda dall’altra parte della cornetta, verso il fronte orientale.

Era un grande rischio, quel che il cadetto dei gemello prendeva, ma la posta in alto era altrettanto grande. “Oui, c’est moi!”, rispose con sfacciata nonchalance.

Silenzio teutonico.

“Kanon, non fare il cretino e passami tuo fratello, schnell!”, lo intimò snervata la giovane donna: figurarsi, se si lasciava menar per il naso da un pivellino, tzé! Non era divenuta un revenue manager in sì breve tempo per niente! Inoltre, era rimasta appunto per il suo lavoro bloccata in ufficio ed erano le sette e mezza di sera anche per lei: neppure una pausa caffè poteva sedare il suo crescente nervosismo di ritrovarsi a tre giorni da Natale in piena e frenetica attività lavorativa, con il pranzo ancora da preparare, i regali da comprare e una sorella rompiscatole e una madre che lo era doppiamente da gestire. L’unico palliativo erano le conversazioni col suo coinquilino, che la tiravano molto su di morale.

Infatti, Hilda non necessitava proprio di un locatario – l’affitto se lo pagava benissimo anche col suo stipendio – ciononostante, sin dal primo giorno in cui la giovane aveva preso sotto la sua ala protettiva lo sperduto pulcinotto franco-greco, tra i due si era instaurato un saldo rapporto di reciproco sostegno, poiché entrambi tartassati dai rispettivi fratelli minori e ambedue pilastri fondanti di una famiglia menomata. I due giovani si erano scorti e riconosciuti; una più approfondita amicizia fu la conseguenza più naturale e Hilda aveva buon gioco a difenderla con le unghie e con i denti, anche se ciò significava combattere contro Mr. Kanon Hyde.

 “Hé, mio fratello è al momento impossibilitato a parlare: sta studiando!”, ribatté serafico il franco-greco, apprestandosi a chiudere la chiamata.

Invece …

“Non gli ruberò molto tempo, solo cinque minuti. Me lo passeresti, per favore?”

“E se mi rifiutassi?”

“Uhm, prova ad immaginare la fine più dolorosa cui potresti andare incontro: ecco, a quella ti sottoporrò se non mi passi Saga!”, lo minacciò dolcemente la manager senza tanti giri di parole. Kanon deglutì a disagio: quella môme era davvero un osso duro …

“Considerata la distanza, mi parrebbe un po’ difficoltoso per te!”, ridacchiò sornione il giovane, rassicurato dal notevole numero di kilometri che lo divideva da ogni possibile teutonica rappresaglia, in caso di disobbedienza.

Un risolino gutturale. “Ah beh, dimentichi che ho il mio agente all’Avana!”

“Tzé, illusa! Credi davvero di essere anche solo minimamente capace di manovrare a tuo piacimento mio fratello?”, fu la sarcastica pernacchia di rimando da parte di Kanon, il quale scoccò una rapida occhiata all’ignaro gemello intento a chiacchierare con Maman.

“E perché no? Se si è capaci di far ballare un orso, cosa vuoi metterci con un uomo?”, commentò spassionatamente Hilda, guardandosi dall’altra parte del suo ufficio le unghie pericolosamente perfette tanto erano ben affilate.

Per nulla compiaciuto di essere paragonato al peloso mammifero mélifilo, (amatore del miele, ndr.) il gemello minore sbuffò, ricordando solenne alla giovane: “Certo, certo! Comunque, sappi che il tuo teddy bear non leverebbe mai una mano contro di me! Mi vuole troppo bene!”

“Ah davvero? Che strano, a me sembrava di aver sentito al contrario nient’altro che lamentele sul tuo conto, tutte caratterizzate dal continuo refrain: Seigneur, perché non è nato muto?!”, imitò Hilda alla perfezione la voce di Saga, provocando una scarica di brividi freddi nel franco-greco, difficile dire se per la sua bravura vocale o per la sua conoscenza di quel segreto di famiglia.

“Non l’ammetterebbe mai! Enfin, quasi mai!”, si premurò a contraddirla subito: una conferma sarebbe stata troppo imbarazzante.

“Lo dice, lo dice …”, lo rassicurò invece la manager, sorseggiando il suo caffè serale.

Ricomponendosi, Kanon schioccò scettico la lingua: “Ouais, quando è ubriaco!”

Appoggiando la tazza sul tavolo e slungandosi sulla sedia, Hilda sentenziò sadicamente placida: “Non solo, tesorino, non solo. Sai, dev’essere un vizio di voi uomini: a letto non riuscite proprio a tenere la bocca chiusa!”

Zip! Prima stilettata!

Portandosi rapido una mano al cuore – che per la cronaca aveva smesso di battere per cinque folli secondi – Kanon boccheggiò, le ginocchia che gli tremavano ancora dallo spavento preso: “Bugiarda! Non ti sei mai scopata mio fratello! Lo saprei in caso contrario!”

Sogghignando dinanzi a quella nervosa prosaicità , la manager pensò bene di infierire, visto che a Natale siamo tutti più buoni: “Ovvio, tuttavia lui non è un satiro esibizionista puttaniere infoiato come te! Simili argomenti Saga ha la decenza di tenerli per sé! Soffri forse di ansie da prestazione, Kanon?”

“Se non fossi homo ti monterei fino a farti vedere io, chi ha l’ansia da prestazione!”, squittì un livido franco-greco, soffocandosi a momenti con la sua stessa saliva: etero o gay, mai schernire la virilità di un uomo!

“Tutte scuse!”, scosse il capo la giovane donna, trattenendosi dal ridere: prima, doveva mettere al tappeto quel rompizizì e poi si sarebbe concessa quel gioviale lusso.

Ignorando volutamente l’ultimo commento, Kanon proseguì imperterrito, sempre più paonazzo in volto: “E in ogni modo, meglio essere il re dei dongiovanni ciarloni, che la regina dei castrati frignoni! Che poi, se hai osato con Saga …”

“Tranquillo, la virilità di tuo fratello è ancora intatta … per il momento …” e l’ultima affermazione fece saltare esplodere il Vesuvio.

“Non azzardarti a sfiorarlo!”, berciò fuori di sé il gemello minore, puntando il dito contro la fantasmagorica figura della manager, che, gongolando come un riccio, s’informò falsamente innocentina:

“Per sfiorarlo, intendi forse legarlo al letto con le manette; bendarlo con un foulard di seta nera; imbavagliarlo …”

“La ferme! Stai zitta, pervertita di una domininatrix!”

“… fargli indossare un collare borchiato, divertendosi nel frattempo a sculacciarlo col frustino?”

“Non mi sorprende, sai, che Siegfried sia scappato da te dopo un po’! Anzi, mi sorprendo proprio che tu riesca a trovare qualcuno, che si sottoponga a queste porcherie!”, dichiarò moralista e convinto Kanon, prendendo nel frattempo però rapidamente appunti.

“Sei solo invidioso, perché non è il tuo bel culetto che percuoto!”, sospirò rammaricata Hilda, scarabocchiando qualche disegnetto sul suo block notes.

“Non mi piace lo spank con il frustino!”, protestò offeso il gemello minore, sebbene si fosse appuntato mentalmente di provarlo, una volta ritornato da Rhada ad Oxford.

“Oh scusa, hai ragione: era la racchetta da ping pong!”, si corresse in fretta la giovane donna, arricciando compiaciuta le labbra, quando un basito Kanon ansimò al limite dello sconcerto:

“Come cavolo …?”

“Te l’ho detto: Saga è moooolto ciarliero a letto!”

Battendo irato ambedue i piedi per terra, il franco-greco mugghiò: “Conneries! Lui la tua alcova sadomaso non l’ha mai visitata!”

“Umphf! Quanto sei noioso, Kanon!”

“Meglio noioso, che cacciaballe!”

“Bum! Ha parlato il cavaliere senza macchia e senza paura!”

“L’hai detto, donna!”, convenne il giovane energico, ponendo bellicoso una mano sul fianco. “E ti avverto: se ti permetti a  traviare il mio povero e virgineo fratello tramite strane pratiche alla Marchese De Sade, giuro sulla mia racchetta preferita che ti trasformo nel perverso virago quale sei a furia di *censurato* nel *censurato* dopodiché ti *censurato* subito seguito da *censurato* senza dimenticare *censurato* ed infine *censurato*!!!! Capito??!!”, terminò in uno stridulo acuto la sua lista di torture ad evidente sfondo sessuale.

Per  nulla colpita da quella lista di depravate punizioni, Hilda commentò incolore: “Impressionante! Kanon?”, lo chiamò poi.

“Eh?”

“Posso dirti una cosa?”

“Dimmi!”

Silenzio pre-coup de grâce.

“Fatti i cazzi i tuoi!”, fu il conciso consiglio della manager, il medesimo che ormai da quasi quindici anni ogni conoscente di Kanon gli suggeriva, senza però evidenti risultati.

“…”

Mordicchiandosi compiaciuta un’unghia per quell’eloquente silenzio – segno che il messaggio era stato in qualche modo recepito- Hilda continuò spietata: “Esatto! E lascia in pace tuo fratello, anzi no! lascialo a me! Saprò come farne buon uso!”

“Tu. Non. Lo. Devi. Toccare!!! Tu sei il male! Sei l’innominabile lato oscuro dell’Acquario!”, le ricordò scandalizzato Kanon, memore dell’inquietante responso del profilo zodiacale di Hilda.

Ridendo perfida, la giovane replicò beffarda: “Bravo, ci sei arrivato finalmente! Così come avrai inteso, che l’unica ragione per la quale tollero la tua presenza è solo perché tuo fratello mi soddisfa appieno tutte le notti!”

“Noooooo!!!”, gorgogliò mezzo tramortito Kanon, incassando l’ennesimo teutonico colpo basso.

“Sì! E tre alla domenica!”, ci tenne a puntualizzare l’impietosa manager.

“Bastarda!”, fu l’unico aggettivo, che la mente sconvolta del franco-greco riuscì a formulare, senza scendere nella sfera del censurabile.

“Come te, Kanon. Per questo c’intendiamo alla perfezione!”

Stringendo indispettito gli occhi, Kanon inquisì lentamente: “Ci stai provando?”

“Che c’è? La tua fede gay vacilla? O t’intriga la novità di a te ignoti … territori?”

“Mai! Sono homo fino al midollo e non saranno le tue lascive e vogliose forme a concupirmi!”

“Quanto fuoco! Pare che tu abbia paura di tradirti!”, derise Hilda la fin troppo veemente replica del franco-greco, che sbuffò di rimando. “Tzé! Aspetta di vedermi in corsetto di nero di pelle e in giarrettiere, prima di giudicare! A proposito, ho sentito dire che a Rhada piacesse particolarmente vedere Pandora svestita così: che peccato, che la tua anatomia ti renda con questi indumenti intimi addosso, come dire, sgraziato e ridicolo? Di sicuro, a Rhada mancheranno quei piccoli spettacolini e chissà, visto che tu sei lontano … forse … in una notte solitaria … uno squillo … tre salti e …”, fu l’estocade finale della giovane donna, il cui ego si gonfiò a mille quando percepì l’urlo terrorizzato di Kanon dall’altra parte della linea, seguito da un pesante tonfo. Eh, aveva ragione Bacon quando affermava che scientia potentia est: se Hilda non avesse appreso casualmente quale fosse il tallone d’Achille del gemello minore, il primo round sarebbe finito più tardi del previsto.

 “Kanon?”

Silenzio.

“Sei morto?”

Ancora silenzio.

“D’accordo, chiamerò più tardi! Buon Natale!”, gli augurò serafica, ricordandosi che infondo era Natale e che le buone maniere andavano sempre rispettate. E, controllando un poco accigliata il costo della chiamata, Hilda giunse alla conclusione, che forse pestare verbalmente il gemello di Saga era stato più rilassante che parlare con il suo coinquilino. Poco male, pensò, raccogliendo le sue cose e dirigendosi al meeting serale, aveva ancora tre giorni a disposizione per fare gli auguri al gemello maggiore, impegni lavorativi e famigliari permettendo.

Nel frattempo, Saga, Maman e Aiolia trasportavano il cadavere in camera sua, sobbalzando dallo spavento e dalla sorpresa all’udire una voce chiedere imperiosa e implacabile alle loro spalle: “Chi è che ha la ragazza? Avanti, confessate! Chi è che ha la ragazza? E dov’è finita la posta?”

 

 

***

 

Quattro anni.

Quattro lunghi anni di intimo silenzio, ché al Conservatoire di Parigi trovarlo era cosa assai rara. Tuttavia, volendo essere melensi, la nostra anima possiede diversi organi udivi e di conseguenza, ciò che captano le nostre orecchie possono non essere similmente ascoltate dallo spirito.

In questa contraddittoria dicotomia Orphée aveva oscillato per tutto quel tempo, immergendosi appieno nello studio e mantenendo la promessa fatta a Madame Séraphine e siccome occhio non vede, cuore non duole, onde prevenire ogni possibile vacillamento nella sua risoluzione, il giovane si era trasferito in un altro arrondissement, dividendo l’appartamento con dei suoi amici anch’essi musicisti. La terapia parve funzionare per il meglio, ché il dolce affetto portato verso la sua insegnante si era affievolito in un lento e sereno diminuendo o almeno quella fu l’impressione dello studente del Conservatoire.

La sua volontaria lontananza aveva quindi ovattato le ultime vicende dei suoi vicini a lui riferite dalla madre; tuttavia, molto spesso Orphée si sorprendeva a cercare inconsciamente con gli occhi o la figura di Madame Molinier o di sua figlia, della quale aveva solo saputo tramite sua madre – Madame Lyralique – che si era iscritta all’università Paris I Panthéon-Sorbonne in scienze economiche e management, una volta ottenuto il suo bac économique.

Per il resto, silenzio.

L’unica distrazione dalla ferrea disciplina musicale di Orphée era incarnata in Eurydice Rossignol, la sua partner nella vita e nella musica: poco più anziana di lui, ella era ben avviata nella lirica in qualità di soprano e già un poco conosciuta e apprezzata dalla critica in seguito ai prestigiosi concorsi da lei vinti. E forse, fu proprio la sua voce quasi strumentale nella sua cristallina perfezione, che attirò e sedusse Orphée come un navigatore concupito dall’ammaliante canto della sirena. Quanto agli altri sentimenti, essi erano apparsi agli occhi del mondo subito ambigui e poco chiari: infatti, l’unico affiatamento vigente tra i due sembrava essere solo dal punto di vista musicale, nient’altro. E ciononostante, non si erano ancora lasciati dopo due anni di convivenza.

Fu verso la fine del quarto anno di volontario esilio, che, in un fine maggio assolato, le carte in tavola vennero ancora rimescolate, in modo da creare una nuova ragnatela di avvenimenti.

Seduto al Café L. nelle vicinanze di Central Park, Orphée scorreva crucciato il menù, domandandosi se doveva portare la sua carcassa fino a New York per mangiare un waffle belga. Non fosse stato per il disperato appello di Eurydice, in ansia per la sua prima tournée fuori dall’Europa, il pianista non si sarebbe mai sottoposto a quell’infinito e snervante volo intercontinentale. Inoltre, New York lo soffocava: un insonne formicaio marciante in una fitta foresta di palazzoni e grattacieli, ecco qual era stata la sua primissima impressione, dopo aver sofferto tre o quattro imbottigliamenti col taxi dall’aeroporto fino all’hotel dove alloggiava la sua gonzesse, la quale in quell’esatto momento era in spaventoso ritardo e Orphée ne conosceva fin troppo bene la cagione.

Appoggiando il menù per ordinare quella pseudo – americana colazione, il suo sguardo cadde casualmente su di un’avventrice  di due tavolini più lontano da lui.  Ella era voltata di spalle, ma l’uomo non ebbe difficoltà a riconoscere in lei – complice la folta chioma rossa – la figlia di Madame Molinier. Lo stupore e l’intima gioia di rivedere l’amica d’infanzia lo spronarono ad alzarsi e raggiungere il tavolo della giovane donna, la quale leggeva rigida davanti una tazza fumante di cappuccino, che si riversò abbondantemente sulle pagine, quando, sfiorandole appena la spalla destra onde richiamare la sua attenzione, Corinne si esibì in un violento sobbalzo che spaventò un poco anche Orphée.

“I’m so sorry”, borbottava contrita la giovane, ripulendo in secchi e rapidi gesti la superficie pregna di liquido caldo. Passò qualche minuto buono, prima che, fermandosi bruscamente, si voltò di nuovo verso il musicista, riconoscendolo. “Orphy? C’est toi?”, domandò incredula, sgranando quegli occhi dorati a lui tanto cari, che, a detta dell’uomo, parevano ora essere divenuti più grandi da come se li ricordava.

“Oui, c’est moi! Posso?”, e le indicò il posto vuoto di fronte a lei. Sedendosi, Orphée notò sorpreso la metamorfosi apportata dai quattro anni trascorsi ed essa lo lasciò alquanto perplesso: il viso della donna era pallido e smagrito, gli zigomi fin troppo in evidenza e le ciglia rosse sbattevano quasi forsennatamente su profonde occhiaie, che il fondotinta celava a malapena. Un vago e cupo sospetto s’instaurò nella mente del musicista, quando, ordinandole a mo’ di scusa un nuovo cappuccino e un dolce, egli vide come Corinne spezzettasse il flan in piccolissimi pezzetti, prima di mangiarne a malapena un quarto.

“Va tutto bene al Conservatoire?”, la domanda della giovane colse impreparato Orphée, il quale cadde letteralmente dalle nuvole, sbattendo confuso le palpebre.

“Gueh? Ah oui, anche se la strada è ancora lunga, hélas! Gli anni per il flauto traverso e direzione d’orchestra e coro li ho quasi terminati, quanto ad arpa, pianoforte e violino … uhm … la vedo dura! Se non fossi tremendamente motivato, a quest’ora già galleggiavo sulla Seine!”, scherzò, spiando di sottecchi il timido sorriso di Corinne far capolino agli angoli della sua bocca. Strano: una volta aveva un riso più radioso. “Dis donc, et toi? Economia e management? Conoscendoti, scommetto che sei la prima del corso!”

“Idem per te!”, ribatté laconica la giovane, contemplando il flan barbaramente massacrato sul piattino. “Me la cavo, ecco tutto. Come mai a New York?”

“Potrei porti la stessa domanda!”

Di riflesso, Corinne serrò ulteriormente le labbra.

Orphée sospirò. “La mia p’tite amie è in tournée con la sua compagnia: stasera al Metropolitan Opera interpreterà Micaela alla  prima della “Carmen” di Bizet ed è così agitata al solo pensiero, che mi ha richiamato da Parigi!”, le raccontò brevemente, anche perché sul serio la questione era assai semplice, seppur laboriosa nel suo pragmatico processo. “Tu, invece?”

“Il mio mec è venuto qui per motivi di lavoro e siccome ho terminato gli esami, ho pensato di seguirlo: una breve vacanza di riposo mi farà bene!”, disse, seppur dal suo tono di voce lei per prima non ne pareva tanto convinta e di fatti, per tutta la durata del succinto riassunto, Corinne aveva tenuto lo sguardo ben puntato sul liquido fumante del cappuccino. Un lieve sorriso le increspò ad un tratto la bocca. “Una cantante, hai detto? Soprano? Scommetto, che ti sei innamorato subito  della sua voce! A propos, come si chiama?”

Mantenendo il tono gioviale faticosamente raggiunto, il musicista rispose: “Eurydice Rossignol. Ah, vero! Sì,  sono le sue doti canore che mi affascinano di lei;  inoltre, è pur sempre una bella voce!” e si sciolsero in una tiepida risata. “Mi dispiace, Ninne carissima, ma sono un edonista della musica! Ed è per questo motivo, che il mio maestro è costretto ad infilarsi costantemente le mani nelle tasche per non strangolarmi ogni cinque secondi!” e si rilassò nel vedere il modo in cui le fossette ritornavano pian piano sul sorriso dell’amica d’infanzia, la quale rideva ora con maggior gusto e meno controllata di poco fa. “Mi ricordano molto le lezioni di tua madre! Certi scappellotti …”

“Te l’eri cercata: nasconderle il suo metronomo!”

“Hé, mi metteva in ansia! Tic, tac, toc, tic, tac, toc … Che ci potevo fare?”, fu la giocosa discolpa dell’uomo, girandosi poi in direzione del nuovo arrivato, che coprì entrambi con la sua ombra. “Ah, te voilà enfin, Dice! Hai visto com’è piccolo il mondo?” e le indicò la vicina di casa, la quale si pose celere in piedi, scambiando la bise di saluto e dando così ad un incredulo Orphée l’occasione di assistere alla pesante perdita di peso subita dalla giovane donna. A confronto, Eurydice passava per una florida matrona di Rubens.

I tre si risedettero, riprendendo la conversazione là dove si era interrotta, sebbene l’uomo ormai non la seguisse più con il medesimo interesse, tanto era impegnato nell’attento studio della giovane rossa, la quale sembrava essere subito entrata nelle grazie della sua p’tite amie. Eurydice giubilava inoltre contenta nell’apprendere che la sua nuova amica era riuscita ad ottenere il biglietto per la prima  teatrale di quella sera.

“Ma verrai da sola, ma chérie?”, fece un poco delusa la cantante, avendo infatti sperato intimamente di poter conoscere il meco della giovane donna, la quale giustificò la sua assenza in un vago:

“A Charles non piace l’opera, solo la prosa”, dopodiché, controllando l’orologio, si scusò in un lieve borbottio: “Perdonate, ma devo proprio lasciarvi: lui mi sta aspettando e …”

“Eccoti qua, finalmente! Come al solito, hai una nozione molto relativa del tempo, Corinne! Avevi detto, che ci saremmo incontrati appena terminata la mia riunione, ergo alle tre e un quarto, e sai che ore sono? Meno cinque alle quattro! Su, muoviti!”

Tre teste si voltarono all’udire l’irata osservazione; la coppia si limitò poi ad alzare perplessa il sopracciglio per  quell’entrata in scena assai inaspettata e bellicosa, mentre Corinne assumeva un colorito più cadaverico del solito. 

“Scusami, Charles è che … che … h-ho …”, balbettò imbarazzata per quel pubblico rimprovero, gli occhi dolorosamente spalancati e la pelle del viso tirata in una piccola smorfia di dolore, quando quello che doveva essere il suo meco l’afferrò per il polso magro, issandola a momenti dalla sedia. Accommiatandosi dalla sua, Orphée si sporse verso il nuovo arrivato, porgendogli la mano acciocché quella dell’altro uomo con la scusa delle presentazioni si staccasse dalla sua preda, che la giovane si affrettò a celare, massaggiandolo.

“Perdonate, la colpa è solo mia, M …?”

“Charles Davis.”

“Orphée Lyralique, molto piacere. Come vi stavo dicendo, sono io il responsabile di questo ritardo: con la mia incessante parlantina ho tenuto la vostra gonzesse incollata al suo posto e Corinne è stata così paziente, da non interrompermi!”, fu la giustificazione che il musicista diede a M. Davis, il quale, invece che rassicurarsi o metterla sul ridere, strinse ulteriormente gli occhi nero pece.

E senza accennare ad una sola parola, spinse per poco Corinne fuori dal locale, seguito dallo sguardo contrariato di Eurydice, che, pagando nel frattempo il conto di entrambi, schioccò la sua secca sentenza:

“Oulà, quelle homme horrible!”

 

Tre ore e mezza dopo l’ouverture, il sipario calava sulla scena tra lo scroscio entusiasta di applausi da parte del pubblico, mentre le comparse, il coro, i cantanti e il direttore di orchestra si esibivano in profondi inchini, sfiniti in volto per la dura prova e ciononostante radianti di soddisfazione.

La prima della “Carmen” era stata un indiscusso successo, aprendo quel che si annunciava una stagione lirica senza precedenti.

E di fatti, le concitate chiacchiere e risate dei vari interpreti risuonava ancora perfino dietro le quinte, tra un frenetico struccarsi onde poter arrivare in tempo al rinfresco celebrativo. L’unica che al contrario si concedeva una vezzosa calma era proprio Eurydice, la quale scioglieva piano e attenta i nodi del suo costume di scena, un abito blu tipico della Navarra.

“Dovresti velocizzarti: così farai troppo tardi …”, le consigliò il suo meco, osservando tuttavia divertito il modo sornione in cui la compagna riponeva il vestito, passando poi all’acconciatura.

“Non m’importa del rinfresco, se lo possono tenere!”, dichiarò divertita, liberando i capelli biondi dalla severa treccia. “Eppoi, ne ho uno molto più importante!”

Orphée roteò gli occhi. “Non ha perso tempo, eh? Ti ho scorto a parlarci assieme nella pausa tra il secondo e terzo atto e lui ti divorava con gli occhi!”

Voltandosi verso di lui, il soprano ribatté giocosamente beffarda: “Sei geloso?”

“Sei la mia signora?”, replicò il musicista con un’altra domanda, provocando una fitta di risolini in Eurydice. “Ne deduco, quindi, che stanotte mi lascerai solo soletto in camera d’albergo?”

“L’hai detto, Orphée: non sono tua moglie”, affermò pragmatica la cantante, buttando via la salvietta struccante. “E l’impresario è un uomo molto piacente!”, aggiunse, ponendogli infine un lieve bacio sulle labbra. “Bonne nuit, mon chéri!”

“Bonne nuit, Dice!”

 

“E’ molto gentile da parte tua accompagnarmi, ma sul serio, posso ritornare tranquillamente da sola all’hotel!”

Quasi correndole dietro, Orphée argomentò le sue ragioni: “Ninne, non credo che girovagare senza nessuno all’una e mezza del mattino sia una saggia idea, sai?” e l’uomo si chiese quale razza di bestia fosse il meco di Corinne, a non degnarsi neppure di venirla a prendere al termine della rappresentazione teatrale, magari fermandosi per cicalare un poco al rinfresco: d’accordo, uno può non amare l’opera, ma almeno un po’ di galanteria, bon sang! Inoltre, il fatto che Orphée avesse scorto l’amica d’infanzia allontanarsi a piedi,  invece che chiamare un taxi l’aveva sia insospettito, che scosso: per quanto New York fosse insonne, non era comunque prudente affrontare da soli le sue strade. “Dai, prendiamo un taxi e ti porto al tuo hotel, ça va?”

Corinne s’arrestò di colpo. “No, non ho voglia di tornare subito!” e si morse a disagio il labbro inferiore, abbassando il capo.

“D’accordo”, convenne lentamente Orphée, scrutandola attento “possiamo recarci al mio: che io sappia, il suo bar è aperto 24 su 24. Dopodiché, ti chiamerò da lì un taxi, uhm?”

La giovane abbozzò ad un piccolo sorriso. “Non sei cambiato di una virgola, sei il premuroso Orphy di sempre …”

Il musicista avrebbe voluto rispondere, ma non vi riuscì. Invece, sospirò, pensando a quanto la sua amica d’infanzia fosse mutata e non esattamente per il meglio: l’aveva lasciata piena di vita e serena, per ritrovarsela l’ombra di se stessa. Che quel suo stato di fisico sconforto fosse derivato dalla “separazione” dei suoi genitori, come l’uomo aveva udito per caso nei fitti pettegolezzi di Madame Lyralique? Eppure, Orphée giurava che vi fosse qualcos’altro, una simile metamorfosi non era scatenata solo da un avvenimento, che in ogni modo a diciannove anni veniva affrontato più razionalmente che in età meno matura. Tuttavia, una ferita così fresca – non era trascorso neanche un anno – unita ad un’altra più letale …

“Eurydice non ci raggiunge?”, domandò candidamente Corinne, rigirando il bicchiere di gin tonic tra le bianche dita. Si erano sistemati in un angolino tranquillo del bar, che, malgrado l’ora avanzata della notte, era incredibilmente vispo e affollato.

Senza scomporsi, Orphée le rivelò serafico: “Dice è stata trattenuta a causa di un colloquio informale e fuori programma coll’impresario!” e terminò flemmatico il suo drink.

“Oh, capisco. E la cosa ti lascia indifferente?”

Il musicista fece un cenno affermativo col capo.“Assolutamente sì. Ho ripensato, sai, alle tue parole di questo pomeriggio e sono giunto alla conclusione, che in effetti è proprio vero, che di Dice non amo null’altro che la sua voce!” Sorrise. “E ora, puoi sfottermi quanto vuoi!”

Corinne scosse in segno di diniego la testa.

Silenzio ovattato.

Sporgendosi verso l’amica d’infanzia, l’uomo tornò al gentile attacco: “E tu, invece? Cosa ti ha spinto verso una persona, che ti …” e sfiorò con la punta dell’indice il gonfio livido sul polso: bluastre e un poco giallognole, i segni delle dita ne marchiavano la pelle alabastrina.

Come scottata, la giovane donna allontanò il braccio dal raggio d’azione dell’amico. “Non lo so”, ammise infine sottovoce, deglutendo a fatica. “Non lo so. Dopo che Papa se n’è andato via di casa, non so più quel che mi capita o quel che faccio: ne ignoro lo scopo ultimo. È come se percorressi un sentiero buio senza alcun sussidio per orientarmi, alla cieca! A volte, ho l’orribile sensazione di vivere alla  giornata!”, fu la sua confessione, mentre si passava una mano sugli occhi stanchi e inconsciamente su di un leggero rigonfiamento sullo zigomo. “Tuttavia, i miei dubbi esistenziali” e tentò di sorridere a quel che voleva essere una battuta, tirandone al contrario fuori una tremula smorfia “sono niente se paragonati a quel che Maman ha dovuto passare: si è così incattivita Orphée, non la riconosco più! In certe occasioni, mi fa paura! Del resto, a parte mio zio Unity e me, non c’è nessuno che la possa consolare e come poi? Un anno è passato, eppure siamo ancora sulla bocca di tutta Montmartre! Non possiamo muoverci nel quartiere senza che non veniamo subito puntati e tu conosci quanto Maman sia estremamente suscettibile a certi atteggiamenti! Siamo ostracizzati! Abbiamo poi rischiato una denuncia, perché lei ha preso per i capelli una Madame, che sparlava di lei mentre facevamo la fila al panificio!”, ricordò la giovane quell’episodio in un misto di imbarazzo e di intimo orgoglio. “Ecco perché, quando ho conosciuto Charles ho subito accettato di frequentarlo seriamente, senza aspettare di conoscerlo meglio; è stato un errore, lo riconosco, però non ce la facevo più  a vivere in quella casa! Ogni giorno era una spina al cuore, soprattutto perché ero consapevole che per quanto mi sforzassi, i miei tentativi di consolare Maman sortivano solo l’effetto contrario; la mia somiglianza, poi, con Papa non l’aiutava affatto …” Sospirò. “Sono stata egoista ad agire così, Orphy: egoista, cattiva e vigliacca! Avrei dovuto …” e un singulto le impedì di continuare. “Mi merito tutto ciò che mi sta capitando. Fino all’ultima goccia!”

Scuotendo per nulla convinto di quella rassegnata accettazione, Orphée le afferrò delicatamente le mani, invitandola ad alzare lo sguardo dal tavolo. “Ninne, ma pauvre Ninne! Non lo devi considerare un castigo: mi ricordo molto bene del tuo enorme affetto nei confronti di tua madre, quindi sono sicuro che tu abbia fatto del tuo meglio per aiutarla in quel periodo nero. Sai, però, quanto difficile sia sempre stato il suo carattere! Sii paziente e lascia che sia anche il tempo a mondare le ferite. È un’orgogliosa, percepisce una sincera preoccupazione per della fasulla pietà!”, disse, osservando rapito il dorato negli occhi di Corinne: solo ora si rendeva conto, di quanto fossero simili a quelli della sua ex-insegnante, nella forma e nell’espressività.

La gentile presa si strinse lievemente. “Lascia quel Davis, Ninne! Non ho avuto per niente una buona impressione di lui! Egli … egli possiede un che di obliquo, non m’ispira fiducia! Lascialo e trovati un uomo che sia tale, che ti rispetti innanzitutto! Perché mi gioco la mano destra, che l’eccessivo fondotinta è per nascondere la sua contrarietà circa la tua serata all’opera, nevvero? No, non piang- …” e la frase di Orphée rimase tronca, poiché il respiro aveva disertato i suoi polmoni.

Infatti, il caldo fiume di lacrime che stava scorrendo copioso sulle scarne guance di Corinne avevano trascinato nella loro corrente anche dell’abbondante trucco, rivelando così che quel che erano sembrate essere occhiate in realtà erano qualcosa di assai peggiore.

“E tu credi che mi lasci?”

“Ninne, ascolta …”, ma una mano bianca si posò leggera sulle labbra del musicista, intanto che la sua proprietaria scuoteva il capo. “C’è qualcosa, che possa fare per aiutarti?”

La giovane donna lo fissò a lungo in silenzio, ponderando attenta la proposta. Infine, avvicinò il suo viso a quello di Orphée, sfiorandogli appena la bocca con la sua.

“Niente, merci. L’avermi ascoltata mi ha consolato abbastanza”, disse, raccogliendo le sue cose e mettendosi in piedi, percorrendo un bar ora più silenzioso e vuoto.

“Niente?”, ripeté Orphée, scortandola fino all’uscita del locale.

Corinne si fermò, voltandosi.

Oro e ghiaccio s’incrociarono.

Un bacio dettato dalla solitudine interiore.

“Niente”, ribadì piano la giovane donna, scostandosi leggermente da lui.

Un secondo bacio sigillò quel patto segreto.

 

***

 

“Per essere uno che attende i risultati dell’esame d’ammissione, mi pari piuttosto tranquillo!”

Appoggiato al muro e gli occhi ben serrati, grugnii una vaga e poco chiara risposta al commento di Milo, il quale giocherellava seduto a gambe incrociate per terra con una penna estratta dalla mia borsa a tracolla.  A onor del vero, il mio cuore ballava il cancan per la paura: l’euforia del giorno prima e la mia dichiarazione choc su quanto me n’infischiassi di una possibile bocciatura si erano volatilizzate nello stesso istante, in cui la sveglia suonò quella mattina. Il fatto, poi, che Mamie fosse stata di umore placido durante l’intera colazione non m’ispirava nulla di buono: per esperienza personale, potevo ben affermare che i silenzi della nonna equivalevano alla calma prima della tempesta, anzi, di un cataclisma naturale.

“E chi ti assicura, che sarò io quello a leggere il punteggio finale?”, tradussi l’incomprensibile messaggio di poco fa. La penna cessò di roteare tra le dita incerottate del ragazzo.

“Gueh? Ti devo riferire i risultati sul tabellone?”, mi domandò lentamente, arcuando perplesso il sopracciglio. Perspicace come sempre, lo scorpion lubrique.

“Ovvio! Così ti rendi un po’ utile, bicho!” e magari mi tiravi giù verso di te, abbracciandomi e ricoprendomi di bacetti e piripicchio fino all’arrivo degli altri studenti, che segnò la fine delle cajoles amoureuses mattutine. Infatti, grazie alla mia ansia ben celata, lo avevo strappato brutalmente dal letto pressoché all’alba, arrivando in un anticipo più che abbondante.

La porta dell’ufficio amministrazione finalmente si aprì, da cui uscì in un ritmico ticchettio di tacchi una professoressa della commissione, appiccicando con del nastro adesivo i risultati degli esami su di un pannello al muro. Pianissimo, intimoriti e soggiogati, i vari esaminati barcollarono verso i fogli, scorrendoli apprensivi con gli occhi. Considerata la folla piangente del giorno prima, mi stupii di vedere la più parte dei giovani lì accalcati sospirare di sollievo. Forse avevano solo scaricato la tensione accumulata: del resto, non mi ero messo a saltellare peggio di uno scimpanzé?

“Et bien?”, interpellai Milo, che ritornava dal tabellone leggermente maltrattato dalla pressa della piccola folla.

Incrociando le braccia, lo scorpion lubrique annunciò solenne: “Se ti riferissi, che Sa Majesté des Glaces ha preso 19/20, non ti strappi i capelli, vero? Ionesco? Oy, Ionesco? Dove vai?” e il bicho seguì uno stralunato sottoscritto, che correva verso i fogli,  nei quali trovò conferma al miraggio udito dalla bocca del biondo.

Avevo passato l’esame d’ammissione. No, sul serio! Lo avevo passato! Ero stato ammesso! Am-mes-so! Mi sentii vacillare le gambe, leggendo e rileggendo incredulo i numeri e quella parolina inaspettata. Sguazzavo ormai in un maelstrom di emozioni così contraddittorie tra di loro, che sinceramente non seppi se piangere, ridere, strappare il foglio in mille coriandoli o divorare il mio bicho dalla contentezza.

“Dai, Ionesco! Di’  qualcosa!”, scherzò Milo, incrociando contento le braccia al petto. “Le tue prime parole come studente dell’illustrissimo Conservatoire de Paris?”

Aprii la bocca, dalla quale uscì uno strozzato: “Gueh …” e che provocò una fitta di risate nel mio ragazzo.

“Molto eloquente!”, scosse il capo lo scorpion lubrique, mentre mi trascinava via lungo il corridoio, essendomi infatti irrigidito per lo stupore in un baccalà.

Fu a metà tragitto che mi sovvenne il discorso, che era mia intenzione fare ieri, sennonché la contentezza post- esame me l’aveva impedito. Mi scusai con Milo, domandandogli se per cortesia poteva aspettarmi nella caffetteria del conservatorio, dove l’avrei raggiunto fra una manciata di minuti. Dopodiché, corsi verso la segreteria, chiedendo del maestro Lyralique. L’impiegata al banco mi scarabocchiò veloce un numero, giacché impegnata al telefono.

Forse era una sbruffoneria, un patetico tentativo da parte mia di rivalsa nei confronti dell’uomo che mi aveva ghigliottinato mediante pesanti critiche. Ciononostante, non fui guidato da alcun sentimento ostile alla porta di Orphée, solo dal desiderio di sapere il perché di quell’immotivata antipatia nei miei confronti. Ché di certo, era lui l’artefice di quel punto in meno.

Umettandomi le labbra, chiamai all’appello tutto il mio razionale coraggio e battei alla porta. La risposta del musicista non si fece attendere. “Entrez!”, m’invitò dentro, il tono di voce scocciato di chi aveva appena terminato una lezione. E di fatti, trovai Orphée che risistemava l’aula per il prossimo allievo, arieggiandola, preparando gli spartiti e controllando il metronomo. “Che posso fare per te, Molinier?”, inquisì incolore, levando dalla lucente tastiera gli occhi color del ghiaccio su di me. “Spicciati, fra dieci minuti incomincia la prossima lezione!”, m’incalzò, sfida che raccolsi entrando completamente nella classe e chiudendo la porta dietro di me.

“Sono stato ammesso”, dissi infine senza tanti giri di parola. Che speravo di ottenere da parte sua rivelandoglielo?  Rabbia? Noia?

“Ah d’accord!”, commentò atono l’uomo, riportando lo sguardo sullo spartito. “Vuoi le mie felicitazioni, Molinier? Certo tu saprai, che ho votato contro di te!”

“Era palese, maestro. Tuttavia, voi mi avete un po’ deluso!”

Ora l’attenzione era ritornata nello sguardo freddo del musicista, che si voltò nella mia direzione, scrutandomi incuriosito. “Davvero? E come?”, chiese intrigato.

Avanzai verso di lui, fermandomi giusto all’estremità “acuta” della tastiera. “La commissione era composta da dieci esaminatori, ciascuno con due punti a disposizione nella votazione definitiva”, gli spiegai clemente, ticchettando l’unghia sulla liscia superficie dello strumento. “E appunto per questo, che mi aspettavo un 18/20 come risultato finale; pensavo, che avreste votato totalmente contro di me, non in parte! Ecco perché sono deluso: mi sento tradito, credevo fossi il vostro esaminando preferito per antipatia, non uno dei tanti cui vi divertite a rendere impossibile la vita!” e scrutai attento la sua reazione.

Le labbra di Orphée si curvarono in un divertito sorriso, fino a scatenarsi in una profonda risata. Perplesso, indietreggiai di qualche passo, domandandomi se il musicista fosse uscito di banana.

“Ah! Allora anche tu possiedi un orgoglio!”, esclamò gioviale dopo che si fu calmato da quello scatto d’ilarità, riscaldandosi intanto le dita in rapide scale. Lo spiai ammirato dalla rattezza mediante la quale eseguiva quegli esercizi preparatori. A confronto, le mie mani parevano quelle di un imbranato bradipo. “Ovvio, che ti ho solo levato un punto, Molinier: così mi odierai per i prossimi anni a venire, nei quali ti prometterò sangue, sudore e lacrime,  finché all’esame finale vendicherai quel punto, facendomi ascoltare non la suonata del pianista tal dei tali, non la suonata del tuo maestro, no! la suonata di Camus Molinier. La stessa, che hai finalmente mostrato ne La Danse Macabre. A mio giudizio, è stata quella che ti ha salvato: gli altri brani erano passabili, ma lontani dai miei canoni di sufficienza!”, fu il suo spassionato giudizio, facendomi nel frattempo cenno di prendere posto accanto a lui sullo sgabello.

Fu bizzarro sedergli vicino, come lo fu quando gli strinsi la mano per la prima volta. O nell’occasione in cui lo vidi a quel concerto di tanti anni fa. Per quanto la mia ostilità nei suoi confronti non fosse scemata, essa era stata diluita da un altro sentimento indefinito, una Sehnsucht che mi rassicurava sul suo conto, permettendomi di avvicinarlo senza timori. La stessa che provavo verso le persone delle quali percepivo, che mi potevo in qualche modo fidare. Forse era questo il motivo, per il quale le parole di Orphée mi avevano ferito più del dovuto? Perché sotto, sotto cercavo la sua approvazione, accostandolo con l’unico mio talento, ergo la musica? Che il suo rimprovero fosse stato quindi da me interpretato non come un pungolo, onde migliorare bensì un rifiuto della mia compagnia?

Uff! Perché il mondo deve essere così complicato?

“Voi avevate diretto quel poema sinfonico … undici anni fa, all’Opéra Garnier  … foste … foste magnifico e non lo dico per lisciarvi, veh!”, ricordai a voce alta, giocherellando coi tasti bianchi. “Da allora ho pensato che … che forse avrei potuto divenire un giorno un pianista …”

“Leva quel forse, Molinier. Ormai, ci sei dentro: non puoi più fare dietrofront! Ma stai tranquillo: trascorreremo insieme degli anni accademici musicali molto interessanti!”, fu la spiccia replica dell’uomo, passando dalle scale agli arpeggi.

Sbiancai. “Significa che …?”

Un sarcastico sbuffo accompagnò le note nell’aria. “Esatto, Molinier! Ho chiesto espressamente al direttore di essere il tuo maestro. Dalla foga con la quale i miei colleghi ti contendevano tra di loro, temevo che non avresti imparato un granché, tanto di avrebbero osannato e basta!”

Sinceramente, fui indeciso se rallegrarmi o meno della prospettiva di spendere i prossimi anni sotto il giogo della dittatura musicale di Orphée, piuttosto di un clima più rilassato e indulgente. Tuttavia, non potevo più  dare torto a Sorrento e a Mime quando affermavano, che sul serio il maestro Lyralique nel suo campo era il migliore.

“E a proposito: riferisci al tuo amichetto”, riprese l’uomo il discorso, mentre i suoi occhi si stringevano in maniera assai significativa, trasformandomi in una fornace antropomorfa “che può provare a levare l’umido della pelle con delle lavande di acqua di colonia e buttarci poi sopra del borotalco. Tua madre aveva il medesimo problema. Ma sai perché? L’ansia e la paura di rovinare la performance dell’accompagnatore: le mani sudano e voilà le vesciche! Trattamelo bene, quel poveraccio o appena ritorni qui a settembre ti scudiscio con l’archetto!”, scherzò, terminando i suoi esercizi preparatori e bloccando il metronomo.

“Maestro Lyralique?”

“Oui, Molinier?”

Mi morsi a disagio il labbro inferiore. “Ritornerete mai a dirigere un’orchestra?”

Orphée mi scrutò a lungo, le mani poste sul grembo. La sua espressione era d’un tratto mutata: non vi notai in lui più alcuna traccia del severo rigore di insegnante, bensì una dolce malinconia. Evidentemente, abbandonare quel sentiero da lui tanto amato era stato per Orphée una scelta dura e sofferta. “Ne dubito; non è mia consuetudine ritornare indietro sui miei passi, sebbene mi manchi moltissimo la direzione d’orchestra”, rispose semplicemente, ritornando ai suoi spartiti.

“Maestro Lyralique?”

“E adesso, che ti turba Molinier?”

Sorrisi alla battuta. “Niente, maestro. Mi chiedevo se …” abbassai il capo vergognoso per il mio ardire “se potevamo suonare qualcosa assieme, prima di lasciarci.”

Ora mi sputa in un occhio simil lama, pensai, osservando apprensivo il ghiaccio brillare obliquo nei suoi occhi. Poi, senza avvisarmi, le sue mani diedero voce alla Sonata K381 in re maggiore per pianoforte di Mozart.

Contento, mi unii celere alla sonata.

 

***

 

Papa si svegliò la mattina del 23 dicembre di ottimo umore: la sua conferenza a Tours era finita nel primo pomeriggio del giorno precedente e lui, piuttosto che rimanere un giorno in più nella città della Turenna, aveva preferito rientrare a casa e godersi una giornata intera con la famiglia, senza tuttavia dimenticarsi qualche regalo per l’imminente festa natalizia.

Ma la notizia più bella in assoluto, che l’aveva risollevato dal solitario e tosto viaggio di ritorno, era che finalmente il suo primogenito aveva dato prova di ricordarsi di essere anch’egli fatto di carne e sangue e quindi bisognoso di un po’ di coccole terrene.

“Mon bébé Sasà ha la ragazza!”, ripeteva commosso a colazione, avviluppando in un abbraccio simil anaconda il gemello maggiore mentre beveva il suo café au lait mattutino. “Ha la p’tite amie! Chi l’avrebbe mai detto? La gonzesse! Ed io che non speravo di vivere abbastanza da vederlo sistemato! Sul serio, mon bébé, questo è il regalo più bello che mi potessi mai fare per Natale!”, dichiarò euforico, stringendo entrambe le guanciotte di Saga in una presa pressoché maniacale nella loro contentezza. Da dietro la tazza di latte e miele, Kanon esprimeva la sua contrarietà in sordi ringhi.

“Manca solo che mi presenti un nipotino e il tuo Papa potrà dichiararsi completamente appagato!”

Sciogliendo le sue gote da quelle paterne tenaglie, Saga balbettò disorientato: “Un che?”

“Un nipotino! Un tenero, morbido, piccolo cuccioletto tutto ciccia e bollicine da poter coccolare fino all’esaurimento nervoso!”, sognò ad alta voce il pater familias, deliziandosi della rêverie di vedersi attorniato almeno dai marmocchi del primo e ultimogenito. “Perché tu mi farai il nipotino, vero mon enfant? Eh? Eh?”

“Se vuoi, a Natale ti posso regalare un Cicciobello! Così lo puoi coccolare!”, tergiversò il gemello maggiore, tentando sfuggire via al fin troppo entusiasta genitore, che rapido lo riportò al suo posto, ricordandogli i suoi doveri di erede del casato.

“Niente storie! Tu mi darai un nipotino, capito? Te lo impongo! Altrimenti, il mio spirito ti perseguiterà fino alla fine dei tuoi giorni, attendendoti nell’Aldilà dove potrà prenderti a calci nelle fesses per l’eternità!”, berciò indispettito Papa, lavando a momenti la faccia di Saga, tanto era preso dalla foga del suo discorso. “Fallo per questo povero vecchio!”, lo supplicò, scuotendolo come un cocktail cubano. La futura discendenza del suo nome non doveva limitarsi solo ad Aiolia! Nossignore!

Avvicinandosi al lionceau, Kanon gli sussurrò all’orecchio: “Io fossi Papa, mi preoccuperei invece: un figlio di Saga ed Hilda potrebbe benissimo un giorno conquistare il mondo!” Peccato, che le orecchie del padre captarono quel bisbiglio – abilità migliorata in anni e anni di esercizio – provocando la paterna ira funesta, che sibilò:

“Quanto a te: sarà meglio che incominci a rassegnarti all’idea, che tuo fratello si sposerà e avrà uno stuolo di nipotini per la gioia del suo Papa!”

“Certo, Papinou, certo!”, lo rassicurò placido il gemello minore, la cui espressione sorniona indicava quanto al contrario si sarebbe battuto onde preservare il suo doppio da quell’etero fato.  “Però scusami, perché accelerare i tempi? Sei ancora forte, giovane, virile, non puoi avere un bambino da nostra madre? A me piacerebbe tantissimo avere una sorellina!”,disse, sorridendogli accattivante. Peccato, che la sua matrigna non la pensasse allo stesso modo, a giudicare da come i suoi occhi si erano stretti piccati.

“E tu Iou – Iou, che dici? Sei stato insolitamente silenzioso a riguardo!”, puntò Papa l’attenzione sul piccolo Simba, il quale ingollò malamente il suo canelé, rischiando di morire soffocato.

“Gueh? Sasà ha la gonzesse? Tiens, tiens, non me n’ero accorto … enfin, dopo il casino di Nônon sì, ma questo non implica che io … non … cioè … wow! Ha la ragazza! Lo sapevo che Sasà fosse uomo … Voglio dire, non che non lo sia di suo, però ha dimostrato di essere un uomo che … fa l’uomo e non …  un uomo che non fa l’uomo, anche se è uomo, ma che per convinzioni personali si atteggia a  … he-he, che bello Sasà la ragazza!” e dopo il suo sconclusionato monologo, onde evitare ogni possibile contemplazione delle espressioni tramortite dei presenti, Aiolia affondò la faccia nella sua scodella di latte.  E fu un bene, ché le occhiate assassine di Saga lo avrebbero pietrificato all’istante, peggio del Gorgone Medusa.

“In ogni modo, Papa, il rapporto tra Hilda e me non è così importante da …”

“Cooosa? Non è importante? Ma cos’è questa amorale filosofia di una bottarella e via, che si è diffusa a macchia d’olio tra voi giovani? È così, che mettete in pratica quanto vi ho insegnato?”, protestò il pater familias vivacemente, puntando gli occhi contro Kanon, che roteò colpevole i suoi altrove. “Enfin, Sasà! Mi deludi: non avrei mai pensato, che tu potessi agire in maniera così meschina nei confronti di una povera, indifesa, delicata pulzella!”

“Ma io …”, boccheggiò Saga, sull’orlo di una crisi isterica.

“Tranquillo Papinou: Hilda non è così fragile come la si dipinge: vedrai, che la caverà in caso Sasà troncasse con lei!”, affermò sornione Kanon, sfoderandogli il suo sorriso più velenoso.

Ineffabile, Papa arcuò il sopracciglio, incrociando le braccia: “Kanon, sappiamo che tu sei l’agente segreto dell’Arcigay, ma questo non significa che tu abbia la licenza primo, d’intrometterti nelle vite sentimentali altrui e secondo, di impostare quest’ultime sotto un profilo gay! A non tutti piace la verge! Quindi, lascia che Saga e Aiolia maturino in santa etero pace i loro affari amorosi e non t’immischiare!”

“E Camus, scusa?”, s’intromise Maman, appoggiando fin troppo lentamente la sua chicchera sul tavolo. “Non hai nominato mio figlio nella tua lista di “etero”. Dove lo hai messo?”, disse, gli occhi ridotte a due fessure.

Nel letto di Milo?, sarebbe stata la risposta più vera e scioccante, però il capoclan giudicava i tempi ancora troppo acerbi per rivelarla alla futura consorte.

“Solo perché è un ragazzo timido, introverso e silenzioso ne fa di lui conseguentemente un homo? Anche voi siete trincerati dietro il principio machista della dicotomia uke-seme? È a questo, che stai alludendo?”

“No! Te lo giuro Corinne, non insinuando niente! Me lo sono … dimenticato, ecco! Non è vero ragazzi?”

E gli esponenti del casato Valavitis si esibirono in una furiosa serie di gesti di diniego, che fu un miracolo se le loro teste non si fossero staccate, rotolando per terra, nel frattempo che dichiaravano in un turbinio incomprensibile di esclamazioni, quanto la sessualità del fratellastro non li concernesse, aggiungendo poi che lui poteva essere benissimo l’erede di Casanova e la cosa gli avrebbe lo stesso lasciati indifferenti.

Masnadieri patentati.

“Non fraintendetemi”, si spiegò poi meglio Maman, “non avrei nulla in contrario, nel caso Momus si scoprisse essere homo. Purché me lo comunichi!”

“Ovviamente”, sbuffò cinico Aiolia, ricevendo un pronto pestone da parte di Saga, costringendolo a miagolare di dolore.

“L’unico problema sarebbe mia madre: dubito che la notizia la riempirebbe di gioia …” e un silenzio partecipe scese nella cucina, mentre i commensali annuivano gravi col capo.

“In ogni modo”, riprese Maman, passando i croissant al miele a Kanon “non vi è parso strano come negli ultimi giorni, non ci sia arrivata alcuna lettera? A parte le varie bollette, non ho trovato nulla: pubblicità, le riviste in abbonamento, altri tipi di missive, gli auguri di Natale … nisba! Mi domando se il sistema postale non sia già andato in ferie!”

“E’ possibile!”, convenne anche fin troppo in fretta Aiolia, finendo la sua colazione e riponendo la tazza nel lavello, ignorando gli sguardi obliqui dei gemelli, i quali senz’ombra di dubbio si erano già appuntati mentalmente di sottoporre il gattaccio ad una pettinata contropelo, altresì nota col nome secolare di interrogatorio.

 

I fratelli Valavitis erano rinomati in tutta Mont-de-Marsan per il loro Q.I.  diversamente sano di mente; malgrado ciò non erano stupidi e avevano ben capito, che il loro Simba stava nascondendo qualcosa sotto la sua crescente criniera.  Del resto, ultimamente Aiolia aveva dato prova di comportarsi in maniera meno stravagante del suo solito, limitandosi a mattutine e serali ronde per la casa; sguardi e sospiri inquieti e soprattutto, preoccupanti soggiorni nella cantina.  All’inizio, i gemelli avevano collegato quello sbalzo d’umore o allo stress pre-vacanze natalizie, o allo stordimento amoroso verso la loro vicina di casa, o alla partenza dei due fratelli. Tuttavia, trovavano assai strano che il loro gattone indulgesse per troppo tempo nella malinconia; era dura ammetterlo, ma la solarità di Aiolia era l’unico punto fisso nel marasma caratteriale di famiglia e sebbene nessuno gliene desse merito apertamente, quando il lionceau era sul serio triste allora l’atmosfera di casa si deprimeva anch’ella. Di conseguenza, i gemelli si erano prefissati di curare al meglio delle loro capacità lo spleen del piccolo Aslan, Kanon per la sua inguaribile sindrome di Emma e Saga per dirottare definitivamente l’attenzione dai pettegolezzi su Hilda e lui.  In fin dei conti, era davvero un ragazzo timido su certi argomenti e le continue visite notturne del suo doppio, che gli intimava di descrivergli le performance amatorie di Hilda, avevano esacerbato questo lato del suo carattere. Di conseguenza, ecco spiegata la sua attiva partecipazione alla missione “salviamo Iou – Iou dai vapori inglesi”, lui che normalmente aveva la tendenza di rispettare l’altrui privacy.

L’occasione favorevole si presentò di primo pomeriggio, ovvero quando gli adulti erano impegnati a pianificare il N-day, o più comunemente noto come Giorno di Natale. Tra pranzi, regali e auguri erano molto indietro e per la casa si sentivano spesso dei borbottii indispettiti, soprattutto da parte del pater familias, il quale si chiedeva dove accidenti si fosse seppellito suo zio Cardia, visto che non rispondeva a nessuno dei cinque numeri telefonici ceduti al nipote.

Con i can da guardia, quindi, ben occupati,  i gemelli si mimetizzarono nel corridoio che conduceva alla cantina, aspettando pazienti e sornioni l’ignara vittima, che prontamente uscì dallo scantinato dieci minuti più tardi, guardandosi circospetto prima di chiudere a chiave la porta e dirigersi verso la sua stanza.

Tre …

Due …

Uno …

“Cattura il micio!”, fu l’urlo di guerra di Saga e Kanon, che si gettarono addosso ad Aiolia, il quale si esibì in un misto tra un grido strozzato e un’imprecazione sonora quando fu issato per le spalle e le gambe e trascinato in salotto. Il tutto, mentre il gemello minore frugava nelle sue tasche alla ricerca della chiave, completamente sordo alle maledizioni lanciategli dal fratello minore.

“Mais vous êtes fous ou quoi?”, si dimenava il lionceau, storcendo il viso dalla pila puntatagli contro da Kanon. “Che accidenti vi salta in mente, espèce des salauds?”

“Silence, puzzola!”, lo chetò severamente Saga, incrociando ieratico le braccia al petto. “Il tuo comportamento altamente sospetto ci ha messo in ansia e quando noi siamo preoccupati, ci trasformiamo di conseguenza in una masnada di vecchie zitelle apprensive impiccione! Tutto questo per dirti, che o molli il sacco e ci confessi, che cosa stai combinando o concedo carta bianca a Nônon di torturarti a suo piacimento e credimi: dopo il Bedlam, cui mi avete sottoposto negli ultimi giorni, mi sento molto atto ad assistere ad un po’ di sano sadismo!”, fu l’antifona del gemello maggiore, al quale mancava solo una tunica bianca e nera e poteva passare perfettamente per un inquisitore cinquecentesco.

 “E se mi rifiutas- … hey, Nônon! Sale pervers, che fai? Cosa annusi?”, squittì spaventato Aiolia, interrompendosi all’improvviso e saltando dal divano di qualche abbondante centimetro. Infatti, nel frattempo che Saga delineava al piccolo Aslan il suo metodo investigativo,  Kanon era già passato alla raccolta delle prove, annusando peggio di un bracco da caccia la testa e i vestiti del fratellino. Una volta terminato, egli esclamò indignato il suo responso:

“Hé! Il gattaccio puzza di bruciato!” e, pigliandolo per il bavero, “Chenapan! Ti fumi di nascosto le mie sigarette?!”, sbraitò, prefiggendosi di staccargli la testa a furia di dolorosi scuotimenti di spalle.

“O l’erba?”, fu il più pessimista scenario del gemello maggiore, che si unì alla centrifuga, provocando serie vertigini nell’ultimogenito, che tuttavia ebbe la forza di ribattere:

“La cosa? Ma la fumi te, casomai!”

“Non ci pigliare per le fesses, puzzola!”

Sogghignando perfido, Aiolia replicò maligno: “Ah, per quel che ti concerne, quello lo lascio a Rhada, Nônon chéri!”  e  ancora una volta Saga dovette respingere il suo doppio con uno spintone, impedendogli di compiere una strage: già il suo carattere era alterato e bramoso di sangue, non c’era bisogno di esacerbarlo.

“Piuttosto, rispondi sincero: ti droghi? Ti doppi? O spacci direttamente?”, inquisì spazientito il gemello più anziano.

Il lionceau sbuffò sarcastico. “E perché, sentiamo? Per farmi sbattere fuori dalla squadra di rugby, dopo tutte le botte che mi sono preso? Non scherziamo! Anch’io ho le mie ambizioni, sai?”

“E allora, che diavolo combini lì dentro? Le orge con Marin? O con suo fratello? O con entrambi? Perché se è così, voglio essere invitato, visto che si condivide in famiglia!”

Massaggiandosi la tempia pulsante, chiaro segno che l’unico lucido in quell’interrogatorio fosse proprio lui, Saga affermò lentamente: “Senti, Iou – Iou, nascondere la cacca sotto la sabbietta come il gatto non risolverà i tuoi problemi: al contrario, devi confidarti con noi acciocché possiamo trovare assieme una soluzione! Ci siamo sempre detti tutto – anche fin troppo, nel caso di Nônon – perché quest’improvvisa segretezza da parte tua?”

“Yuk! Ma non potevi utilizzare una figura retorica meno schifosa?”, commentò disgustato Aiolia, storcendo il naso.

La vena batteva il Candomblè. “Tu … sei ancora fermo lì? Non mi hai ascoltato?”, sibilò un irato Saga, gli occhi che cangiavano verso una tinta scarlatta. Accarezzandogli accondiscendente la bionda capigliatura, Kanon l’ammansì, sussurrandogli complice all’orecchio:

“Dai, frangin! Ormai, abbiamo appurato che la puzzola non parla; allora, l’unica opzione che ci rimane è: o sottoporla ad una ceretta completa o” e gli sventolò la chiave sotto il naso “andare a verificare personalmente, cosa Iou – Iou nasconde in cantina!”

E neanche fossero stati un unico corpo, i gemelli si appropinquarono a raggiungere detto luogo.

“Nooooooo!!!”, li anticipò invece Aiolia, sorpassandoli in un felino balzo e sbattendo la sua carcassa contro la porta, ergendosi ad ostacolo. “Non entrerete!”, giurò risoluto.

Kanon strinse estremamente irritato i pugni. “Iou – Iou, non mettere alla prova i miei nervi: ho appena scoperto che la mia futura cognata prende a frustate mio fratello sulle fesses, quindi ho già di mio i zizì girati! Se non vuoi che mi sfoghi evirandoti, ti consiglio di lasciarmi passare, capito?!”

“No, non posso permettervi di attraversare questa porta! Non posso!”, scuoteva il lionceau agitato il capo e puntando ulteriormente i piedi per terra. “Non posso proprio!”

“E spigaci almeno perché!”, lo supplicò quasi Saga,  la pazienza al suo limite massimo.

“E’ troppo crudo come argomento!”

“Ih … dopo aver mangiato il polpo alla coreana, (ergo vivo con la salsa, ndr.) non mi stupisco più di nulla: levati!”

“No!”

“Te lo ordiniamo!”

“Pfui! Come se mi faceste paura!”

“Ma allora vuoi che ti meni?”

“Hé, ovvio Sasà! Con Hilda avrai avuto sicuramente modo di esercitarti, no? Avanti, mostrami quel che ti ha insegnato la regina del sadomaso!”

“Aiolia …”

“Basta con questo BDSM, banda di pervertiti lussuriosi!”

“Bum! Sentire questo genere di affermazione proprio da uno, che si fa sculacciare con la racchetta da ping pong, poi è il colmo!”

“Uffa! Com’è che sapete tutti l’unico mio segreto?”

“Forse perché tieni sotto il letto un paio di racchette da ping pong, malgrado in casa  non abbiamo il tavolo adatto?!”

“Scusami Sasà, ma tu da che parte stai?”

“Da quella che vuole entrare in cantina!”

“Oh! Ora ti riconosco: orbene, aprite quella porta!”

“Casomai, non aprite quella porta!”

“Lo sapevo, Iou – Iou,  che in qualche modo c’entrava Leatherface! Non ti sarai mica dato alla macelleria fai-da-te, vero?”

“…”

D’accord, se non intervengo la situazione non si smuove di un millimetro, pensò sconsolato Saga, levandosi gli occhiali e arrotolandosi le maniche. Dopodiché, scrocchiandosi ben bene le nocche, afferrò un ignaro Kanon per le spalle, prese la rincorsa e lo spinse esattamente contro Aiolia,  che pur di evitare l’ariete umano si spostò, permettendo al gemello minore di planare in una dolorosa spanciata contro il legno, aprendo infatti la porta e cascando prono e semicosciente per terra.  Tuttavia, la fibra robusta del giovane gli permise di rialzarsi e partire all’attacco del segreto del lionceau, il quale si manifestava in tre scatoloni, che Kanon incominciò a frugarvi dentro simil furetto, nel frattempo che il gemello maggiore tratteneva sollevato Aiolia in una ferrea mossa di lotta greco-romana.

“Ecco dov’era finita la nostra posta!”, esclamò incredulo il secondogenito, mostrando le lettere e i giornali svaniti misteriosamente ad un altrettanto basito doppio e ad un cinereo fratellino, che prese a dimenarsi con maggior vivacità. “Sì, sì non c’è dubbio è proprio lei: pubblicità, gli auguri di Natale e … che cos’è questo?”, chiese ad alta voce, rigirando pensoso tra le dita una busta orlata di nero che subito si premurò ad aprire.

“Nooooooo! Non farlo!!”, urlò terrorizzato Aiolia, tirando una dolorosa tallonata sui zizì di Saga, il quale, accartocciandosi su se stesso, lo liberò dalla sua prigione di braccia, mentre cadeva per terra senza fiato. Rapido, il lionceau caricò sull’altro gemello, placcandolo neanche si trovasse ad una partita di rugby e sottraendogli la lettera dalle dita, per poi correre forsennatamente verso la cucina, subito seguito da Kanon e qualche minuto dopo da uno zoppicante Saga.

“Prendilo! Prendilo!”, istruiva sbiascicando il gemello maggiore al suo minore, la mano posta ancora a protezione della sua virilità barbaramente offesa. Oltraggio, cui Kanon pareva molto incline a vendicare a detta di come rincorreva per la cucina il lionceau, che, ritrovandosi ad un certo punto con le spalle al muro, decise di compiere l’unica azione sensata onde impedire ai fratelli di leggere il contenuto della missiva della discordia.

“No! Se la sta mangiando! Fermati, bastardo!”, ringhiò il gemello minore, bloccando un ruminante Aiolia, che riuscì tuttavia a sottrarsi dalla sua presa, seppur sacrificando il suo maglione, rimanendo così in canotta. E dopo aver gattonato tra le gambe di Kanon, il piccolo Aslan spalancò il frigo, il viso porpora dallo sforzo di scappare e inghiottire una pingue pallottola di carta.

“Seigneur! La Pespi per mandarla giù?”, fece schifato Saga, riprendendosi dal colpo letale e rubando la bottiglia dalle mani del fratellino, in un neo zuccheroso battesimo per entrambi. Intanto, Kanon era scivolato dietro ad Aiolia e lo issò per le ascelle, mentre il maggiore gli pigliava le caviglie, depositandolo poi sul tavolo per una casereccia e improvvisata operazione chirurgica.

In questo modo, il primogenito diede prova di aver effettivamente imparato qualcosa dalle lezioni di anatomia del professor Shion, poiché, nel frattempo che Kanon teneva fermo un indemoniato Aiolia, Saga estraeva la pallottola di carta tra un’imprecazione e l’altra, dovute ai feroci canini che l’umiliato e offeso lionceau si divertiva a sperimentarne  l’affilatezza sulle sue dita, mordendole inferocito. Finché, in posa epica e un’espressione assai disgustata in viso, il gemello maggiore appoggiò  sul tavolo la lettera pregna di saliva, srotolandola appena con la punta dei polpastrelli.

Impallidì.

“E voi tre, state forse giocando all’Allegro chirurgo al posto di aiutarci coi preparativi?”, la voce del pater familias fece sobbalzare i fratelli;  rapido Aiolia ne approfittò per scendere dal tavolo e correre verso Papa, frignottando le atrocità cui i maggiori lo avevano sottoposto.

“Ta gueule! Tu per poco non compromettevi le mie capacità di genere figli, sale chaton!”, sbraitò Saga, tenendo accuratamente la lettera dietro la schiena.

“Niark! Peccato, così non poteva più soddisfare Hildaaaaahia!”, protestò Kanon il suo dolore al suo povero piedino, crudelmente martoriato da un vendicativo suo doppio. “Uff! Non si può più scherzare ora in questa casa?”

“No, non si può!”, replicò serio Saga, mostrando al padre la lettera zuppa di bava. E appunto per quello, il capoclan chiese gentilmente al maggiore di riassumergli i contenuti. “Papa, lo zio … enfin, il prozio Cardia è morto!”, fu la sintesi della lettera di condoglianze ricevuta e celata dall’ultimogenito dei Valavitis, che teneva nel frattempo il capo chino, un poco vergognoso delle sue azioni.

Silenzio di tomba.

“C-come? M-morto?”, balbettò l’uomo, sedendosi stralunato sulla sedia. Si levò gli occhiali, ripulendoli meccanicamente, dimenticandosi però di rindossarli. “Quando?”, chiese poi lentamente, strabuzzando gli occhi già velati di tristezza, per la sorte dell’unico parente che l’aveva soccorso in tempo di necessità. (O fuga strategica, come volete)

Rileggendo lo schifo appiccicoso, Saga tradusse alla buona il messaggio impiastricciato di inchiostro: “La morte è avvenuta il 18 dicembre”, ovvero quando Aiolia aveva incominciato a comportarsi stranamente. “La causa è un infarto e … oh putain!”, imprecò portandosi la mano alla bocca e fissando incredulo il lionceau, che miagolò afflitto:

“Ora comprendi, Sasà, perché non volevo che queste lettere venissero lette?”

“Ce ne sono più di una?”, s’informò perplesso Kanon, aggrottando la fronte. Il piccolo Aslan annuì.

“Dal 18 ne arrivavano minimo tre ogni giorno! Ma non è questo il punto! Leggete dove si terrà la veglia funebre!”

“E allora? Il prozio non ci ha mai dato un suo indirizzo, né fisso né temporaneo! Fortuna, che almeno da morto sappiamo dove abita: a … Nooooooo!!! Sacré bordel des putes en chaleur!” , si pose le mani sui capelli Kanon e tirandoli con forza, neanche volesse sradicarli dal cuoio cappelluto. “C’est la merde! La merde, j’dis! Perché? Perché ci hai fatto questo, bastardo?”

Chetandolo con un imperioso gesto della mano, il padre l’apostrofò severamente: “Un momento, eh? Invece di insultare così il vostro prozio – cosa da evitare quando si parla dei morti  - volete avere la bontà di spiegarmi perché mai sarebbe un problema per noi, se la veglia funebre avesse luogo a …”

“Sssssshhhhhhh!!!”, lo zittirono in coro i suoi figli, lavandogli a momenti la faccia e imitando alla perfezione le vipere, che infestavano la loro isola greca d’origine.

Abbassando il tono di voce, Papa eruppe confuso: “Allons! Parlate, bon sang! Dov’è l’impiccio?”

Aiolia venne eletto portavoce della tragedia. “Allora, una volta mi è capitato per caso – e sottolineo per caso – di guardare nei cassetti della scrivania di Momus, poiché mi serviva la colla. Lì dentro trovai al contrario un enorme pacco di lettere, tutte provenienti dal seguente indirizzo …”, raccontò con fare complice, estraendo a mo’ di prova una lettera dalla tasca dei suoi jeans,  che porse al padre. Saga gli cedette la sua per un confronto.

Silenzio pre-Giudizio Universale.

E le trombe di Gerico squillarono in tutta la loro dirompente gloria.

“Malàkas! Karatas! Skatòfatsa! Pùstis!”, (Coglione! Bastardo! Pezzo di merda! Frocio!, ndr.) ruggì Christophe Valavitis dinanzi alla sua scioccata prole: mai, mai in vita loro avevano assistito alla scena del padre parlare in greco, né tantomeno sentirlo imprecare così pesantemente! A quanto pareva, l’iniziale sofferenza e confusione per la morte dello zio – che lo aveva comunque aiutato ad inserirsi in Francia – in seguito al confronto delle due lettere dovevano essersi commutate rapidamente in un sentimento assai più furibondo e sanguinario. E se i pargoli avevano ancora qualche dubbio su chi fosse  il loro padre, hé, l’imbizzarrito volo di ogni utensile, che aveva avuto la malcapitata sorte di trovarsi nel raggio d’azione di Papa, confermò i loro esuberanti mediterranei natali. Ché il pater familias, del tutto dimentico della sua aura sacrale di guida e figura di riferimento, stava allegramente ridecorando la cucina in un’escalation di violenza verbale e fisica.

“Mio zio sapete cos’è,  figlioli? Un gran figlio di buona donna! Un porco! Un coglione ! Un bastardo arrapato, ecco cos’è ! Parthéna Maria, voithìa! (Maria Vergine, aiuto!, ndr.) Di tutti  … proprio lui? Eh? Lo stronzo puttaniere! Perché il destino me lo ha messo come zio? Perché? Ma io lo ammazzo, quel cane, lo ammazzo quant’è vero che non so che!”

“Papa, è già morto …”, lo rassicurano i suoi figli, in modo che il loro genitore non si scomodasse troppo nel suo zelo vendicativo.

Sordo nella sua ira, il capoclan si sgolò nel suo collerico sfogo: “E ha pure avuto la gran faccia tosta di dirmi, dopo che gli ho riferito del mio fidanzamento con Corinne: “Ho che bello, felicitazioni!” Che bello? Io brucio il suo cadavere, lo spezzetto, lo sfrutto per concimare l’orticello, mi ci pulisco le scarpe, lo uso come sabbietta per il gatto, …” e via imprecando.

Era proprio vero, che il fuoco greco era difficile da spegnere!

Peccato, che le colorite manifestazioni d’affetto verso lo zio e l’esercizio fisico pomeridiano avessero attirato l’attenzione di Maman, la quale si portò circospetta all’entrata della cucina, domando ai suoi pietrificati figliastri:

“Ma cos’è preso a vostro padre?”

Per tutta risposta, Aiolia ingoiò definitivamente la lettera.

 

***

 

Fu strano ritornare a casa; ormai, mi ero ambientato alla quotidianità parigina e soprattutto, a godere della compagnia di Milo senza un rumoroso terzo o quarto o quinto a completare il quadretto. Per tutta la durata del nostro soggiorno, Mamie era stata infatti impegnata dai continui goûter pomeridiani con la vicina di casa, Madame Lyralique, permettendoci così di godere un po’ di quality time da soli. Vi sembrerà curioso, però ebbi l’impressione di essere stato in viaggio di nozze, seppur con in mezzo un esame, e adesso che ero in procinto di riprendere il mio trantran quotidiano, mi domandavo quando il bicho ed io avremmo avuto un attimo di tranquillità per una mezzoretta non solamente di coccole, ma anche per discutere delle nostre questioni più personali.

L’unica prospettiva che si delineava all’orizzonte erano le ore di studio musicale: lo scorpion lubrique mi aveva promesso di assistere alle mie esercitazioni al pianoforte e di suonare il violino ogni tanto con me. La cosa mi consolava moltissimo e già scalpitavo d’incominciare: Orphée, prima di congedarci fino a settembre, in un raptus di generosità mi aveva regalato il suo metronomo. Enfin, era quello che lui aveva sottratto tanti anni fa a Mamie, giacché lo considerava troppo inquietante. Rigirando lo strumento tra le dita, m’immaginavo incuriosito mille suoni che potevano renderlo degno di tale aggettivo.

Arrivammo di pomeriggio alla maison, in un buio così fitto che non mi sarei sorpreso se il tassista avesse sterminato con la macchina l’intera fauna delle Landes. Ci stupimmo, inoltre, che né Maman né Papa fossero venuti a prenderci alla stazione: il nostro accordo era che a Bordeaux li avremmo chiamati, informandoli del nostro prossimo arrivo. Invece, alla Gare de Mont-de-Marsan non trovammo nessuno e il cellulare suonava a vuoto.

Forse, avremmo dovuto iniziare a preoccuparci da quell’istante e in particolare, nel momento in cui varcammo la soglia di casa: ovunque regnava sovrano il caos ma nulla, se paragonato all’uragano che aveva stravolto la cucina dalle sue fondamenta. In aggiunta, non mi piacquero le espressioni sulle facce dei cinque astanti.

Maman era rossa in viso e i suoi occhi brillavano come la lava dell’Etna. Solo quando si scontrò l’ultima volta con quell’uomo aveva quella terribile smorfia dipinta in volto.

Papa era ancora più paonazzo, le mani  che gli tremavano. Non portava gli occhiali, sottolineando così la somiglianza coi figli. Anch’egli pareva estremamente arrabbiato.

Saga, Kanon e Aiolia erano pallidissimi, i rispettivi visi pieni di graffi, i capelli arruffati e i vestiti maltrattati tipici di chi doveva aver sostenuto un violento corpo a corpo. Hé, il famoso metodo valavitisiano per risolvere le beghe in famiglia: menarsi a sangue. Ma in questo caso, quale?

“Embé? Non si saluta?”, esclamò perplessa Mamie, curiosando incredula il marasma generale e chiedendosi tra sé e sé chi ne fosse l’artefice. “Eppoi, perché non siete ven- …”

“Maman”, la interruppe mia madre, serrando ulteriormente i muscoli facciali. “Ho una notizia da comunicarti!”

Levandosi il cappotto, Mamie la pregò di continuare.

“Abbiamo ricevuto una … enfin, delle lettere da Strasburgo”, proseguì Maman, sistemandosi accanto a Papa. “E’ morto!”, riferì concisa, lanciando al futuro consorte una furtiva occhiata.

Sentii le gambe divenirmi di cotone. No, non era possibile! Il mio Papie non poteva essere deceduto, non doveva! Non …

Altrettanto scossa, Mamie sussurrò: “Dégel è morto?”

Maman negò col capo, rassicurandola almeno su quel fronte. “No, Maman. Papa è ancora è vivo” ed io ripresi a respirare più a mio agio.

“E chi è deceduto allora?”, s’informò disorientata la nonna, in cuor suo sperando si trattasse della suocera.

Mia madre prese fiato, umettandosi le labbra. Un brivido freddo mi percorse la schiena: ella agiva sempre così, quando doveva dare un brutto annuncio alla famiglia. Quanto al mio patrigno e ai miei fratellastri, essi trattenevano il loro respiro, soffocandosi quasi in quella forzata apnea.

“L’amante di Papa”, disse infine Maman, serrando le labbra in una sottile linea.

Silenzio.

Il cappotto cadde dalle mani di Mamie in un pensante tonfo di stoffa. A Milo e me le nostre valigie.

L’amante di …?

Oh, merde!

 

 

 

 

 To be continued …

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E anche quest’opera pia è compiuta! Ora, vi lascio a macerarvi fino al prossimo aggiornamento! XD

Dite, adesso odiate ancora Orphée? Eh?

Alla prossima, ciao!

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** Momus Ubique: la Maldicenza è Dappertutto ***




Koukou
!

Sono tornata!

 *rombo di un tuono in lontananza, la Gemella Malvagia apre il mantello scuro ieraticamente*

Ebbene sì, sono di nuovo qui, anzi siamo  di nuovo qui – la Gemella Malvagia non è un’opinione - sono ancora viva e prima che telefoniate a Chi l’ha visto? per investigare dove Hoel abbia piantato le sue innumerevoli radici, rieccomi qui ad aggiornare questa fic! La quale, per chi l’ha seguita fin da quando era una tenera infante, ogni tanto conosce lunghi periodi di silenzio, giacché la sua mamma è sempre impegnata.

Eh, la vita universitaria … non posso vivere senza di lei … *pausa, la Gemella Malvagia strimpella il violino malinconicamente* … la nostra è una grande storia d’amore …

Ora mi chiedo, quanti dei lettori che ho lasciato ad aprile seguiteranno a leggere questa storiella. Spero che ci siate tutti, sinceramente! ^^ Dai, perdonate questa povera bimba! *sguardo alla Occhidolci*

Un sentito ringraziamento a tutti i miei lettori e recensori e a coloro che seguono questa storia o che l’hanno messa tra le preferite o tra le da ricordare!

Un grazie speciale a: Tifawow ; Diana924;  Angel_Dark_Light ; Charm_ Strange; Titania76 ; Sagitta72 ; Eno;  Ignis ; Aasa5; Jeje_12, Dragon Girl31; Elizabeth Tempest, Aurora, Gondolin Dima ; San il Distruttore; _Camus_  (welcome!); Darkalexandra85(welcome!); ArcadiaLaNotte; Hota_Chan (welcome!), thanks y’all!

 Bien,  l’ora è tarda e Hoel incomincia a vedere triplo!

Spero sinceramente che il capitolo mi compri il vostro perdono! >_> Mi sono impegnata, eh …

Buona lettura! ^^

Bisous,

 

 

H.

*********************************************************************************************************

 

 

 

Devonshire, Inghilterra. Notte tra il 22 e il 23 dicembre.

 

Era in situazioni come queste, che Alexander Rhadamanthys Edward Miles de Wyvern-Hargreaves malediceva la sua eccessiva disponibilità e pazienza. L’essersi temporaneamente separato della sua dolcissima e remissiva metà franco-greca non era affatto equivalso per lui ad un periodo di riposo, al contrario, pareva che tutto il mondo non avesse atteso altro per saltargli addosso e tampinarlo con richieste e favori. E siccome, malgrado il monociglio e lo sguardo truce, Rhada era in fin dei conti un bravo ragazzo e anche piuttosto dolce (ma su questo aspetto poteva garantire solo Kanon), lui non era riuscito a declinare questi SOS da parte di amici e parenti, specialmente di una persona in particolare.

Era stata appunto codesta privilegiata ad averlo indotto a passare nella sua camera due orette buone, finché, stufo di rimanere a letto ad attendere i suoi comodi, l’inglese si era alzato col suo fardello, prendendo a passeggiare tra lo sfinito e il nervoso per la stanza.

“Perché finisco sempre immischiato nei casini degli altri?”, si chiese ad alta voce, attirando così l’attenzione della donna semidistesa sul medesimo giaciglio, la quale rise di cuore dinanzi lo sconforto dell’altro, scuotendo il capo corvino.

“Eddai, Rhada! Non essere così melodrammatico! Si tratta solo di un piccolo favore!”, sdrammatizzò sempre sorridendo la mora, provocando per poco una sincope nel biondo, che, voltandosi nella sua direzione di scatto, berciò scocciato:

“Un favore? Un favore? Domandarmi di fare queste cose nel pieno della notte ti pare un favore?”

“Ih, noiosone! Queste cose, dice lui!  Neanche si fosse reso complice di chissà quale crimine!”

Sbuffando sonoramente, Rhada borbottò tra i denti, guardando inviperito di sottecchi la giovane donna che si stava mettendo seduta sul giaciglio scomposto. “Spero solo che Kanon non lo venga mai a sapere …”

“Uhm, temo che lo sospetti già … Insomma, conoscendo come stanno le cose tra te e me … lui non è poi così stupido … Bah! Vedrai che, comunque vada, si rassegnerà!”, sentenziò decisa la giovane, sistemandosi il reggiseno e balzando vivacemente giù dal letto. Si stiracchiò languidamente sorniona e raggiunse il giovanotto al centro della stanza, circondandolo infine per la vita e scoccandogli un tenero bacio sulla guancia. “Eppoi, non avevi detto che volevi fare un po’ di pratica? Quale occasione migliore ora che il tuo meco è ben a distanza da te, lasciandoti finalmente del tempo libero per esercitarti quanto vuoi?”

Rhada si morse a disagio il labbro inferiore. “Ho paura che mi stia già pentendo della mia decisione …”, le confessò sconsolato, emettendo un lungo e stanco sospiro. “C’mon Regulus! Fai questo dannatissimo ruttino, così lo zio Rhada può tornarsene a dormire!”, supplicò il biondo il nipotino, che teneva con apprensiva cura in braccio, battendo delicatamente di tanto in tanto la piccola schiena del bébé, il quale pareva intento a tutto – compreso mangiucchiare e riempire di bava la camicia del pigiama di Rhada – fuorché spalancare la sua boccuccia e confermare l’avvenuta digestione, permettendo così allo zio di proseguire il suo viaggio nel mondo di Morfeo.

Quand’ecco che finalmente il segno di apprezzamento del latte materno riecheggiò nella camera da letto e il povero Rhada levò gli occhi al cielo, muta preghiera di ringraziamento alla sua buona stella. Dopodiché, cedette più che contento il bébé alla sua mamma, la quale lo ripose amorevolmente sulla culla, massaggiandogli un poco il pancino e attendendo che s’addormentasse.

“Dai, dai cugino!”, lo incoraggiò Violante, lo sguardo ben fisso sul figlioletto sazio e assonnato. “Del resto, mi pareva di aver capito, che avevi in progetto di mettere su famiglia e poiché il tuo mec è materno quanto una mantide religiosa …” e lasciò cadere allusivamente il discorso, acconciando i capelli in una stretta coda di cavallo.

Scrollando le spalle, il cugino ribatté annoiato: “Anche tu con questa storia? Ho solo detto, che mi piacciono i bambini, non che voglio trasformare la mia casa in un asilo nido! Perché vi siete tutti incaponiti che voglia avere dei figli? Eppoi, lo sai quanto Kanon mal sopporti i bambini, specie se piccoli e maschi!”, fece, sovvenendosi ad un tratto dell’aut-aut del suo fidanzato come se glielo avesse appena urlato alle orecchie: Alright, Rhada! Ci penserò su! E in ogni modo, se proprio devo abbandonare il mio ego virile per addomesticarmi in uno più femminile, ebbene i nostri bébé devono essere tutte femmine! Yes, non mi fissare come un pesce lesso che è stato appena risvegliato da un rompiballe alle tre del mattino e in maniera anche piuttosto brusca: voglio una femmina, capito? Tante, tantissime bambine da crescere! Solo se mi prometti questo diventerò madre! Buonanotte! (Informiamo il gentile lettore che questo sfogo avvenne esattamente alle tre del mattino, quando un Kanon assai scocciato svegliò di soprassalto il suo meco, rischiando di fargli partire una o due coronarie e ignorando categoricamente le proteste dell’altro, che gli domandava che accidenti gli fosse preso a quell’ora tarda). “Già, decisamente i maschietti non li può soffrire …”, ribadì, memore delle tristi confessioni del franco-greco, tutte storie tragiche e sofferte circa un’infanzia rovinata dalla totale assenza di una sorellina da coccolare e viziare. “Piuttosto”, cambiò all’improvviso discorso, optando per altri pensieri acciocché la sua sanità mentale rimanesse in piedi per ancora qualche mese “che fine ha fatto il tuo futuro marito, nonché il padre di Reggie e …”, ma il biondo si morse la lingua, evitando all’ultimo di terminare … e quel tanghero che ti ha messo sconsideratamente incinta, oh mia cugina adorata?  Se non si era capito, il fortunato in questione era Mr. Aiacos Ravenswood, il quale, malgrado le perplessità di Rhada era sul serio “preso” da Violante, tanto da aver anticipato per sua stessa iniziativa il matrimonio a gennaio, invece che a febbraio come si erano messi d’accordo l’estate scorsa. A complicare le cose, la futura sposa aveva preteso - tanto pagava la famiglia – che fossero invitati anche i fratelli del suo testimone e futuro padrino di suo figlio: infatti, sin da quando aveva conosciuto Kanon le era sempre rimasta una certa Sehnsucht di fare anche la conoscenza del resto della sua famiglia, ecco perché aveva sottoposto il cugino ad un terzo grado dopo che quest’ultimo era ritornato dal breve soggiorno in Francia.

“Bah! Aveva i suoi impegni …”, disse Violante con indifferenza, attirata al contrario dalle silenziose vibrazioni emesse dal cellulare del cugino sul comò. “Chi ti chiama a quest’ora?”, inquisì curiosa, indicando al giovane l’impazzito telefonino.

C’era una sola persona al mondo che poteva telefonare Rhada a quasi l’una di notte e quest’ultimo era sempre incerto se doversi felicitare o meno di quell’onore. In ogni modo, era prudente rispondere ogni volta, altrimenti il suo silenzio avrebbe peggiorato ulteriormente la paranoia del gemello minore: infatti, una volta era addirittura successo che, durante una breve visita dell’inglese ai suoi nonni materni a York, Rhada avesse inavvertitamente chiuso il telefonino, ignorando così per sbaglio la chiamata di Kanon a mezzanotte circa. Risultato: il mattino dopo si era ritrovato il fidanzato alla  porta di casa, costringendolo così a presentarlo ai nonni.

Afferrato quindi il cellulare, il giovanotto si apprestò a rispondere quando una voce rotta dal pianto lo zittì in un colpo solo.

“Rhada! Rhada!”, singhiozzava disperato Kanon dalla riva opposta della Manica. “Rhada! Non immagini che tragedia è successa! Mon Dieu, Rhada! Quel malheur!”, e gli ululati divenivano sempre più rumorosamente acuti e dolorosi tanto da sembrare in vivavoce, costringendo di conseguenza Rhada ad uscire dalla camera da letto pur di non svegliare il nipotino dormiente. Preoccupatissimo, rare erano le volte in cui il suo meco piangeva sul serio, Rhada tentò di cavare dal franco-greco un discorso coerente, ottenendo tuttavia solo inquietanti singulti sconnessi.

“E’ morta, Rhada, è morta!”

In un filo di voce, l’interpellato mormorò tramortito sotto lo sguardo interrogativo della cugina, che lo aveva raggiunto in corridoio: “Chi è deceduto?”, s’informò, temendo il peggio.

“Mamie! Mamie è morta! È caduta dalle scale e si è rotta l’osso del collo! Mon chouchou, c’est terrible!”, piangeva senza ritegno il franco-greco. Quanto all’inglese, era al limite dello sconcerto: com’era possibile? La nonna acquisita morta? Dalle scale? Ma se quella donna dava l’impressione di poter vivere fino ai cent’anni! Che fosse stata ubriaca? E perché poi? Che senso aveva sbronzarsi in quella giungla di casa, dove al contrario bisognava mantenere una parvenza di lucidità per non venire sopraffatti dall’alto tasso di casino lì vigente?

“Listen Kanon, lo so che è dura ma … spiega almeno …”

Un acutissimo ululato lo interruppe malamente. “Chouchou, ti scongiuro, vieni a Strasburgo!”, fu la disperata richiesta di Kanon, sordo a qualsiasi protesta del fidanzato, il quale dovette accomodarsi per un istante sul divano nel corridoio, essendogli le gambe divenute di cotone e la testa assai leggera.

Ciononostante, fu lo stesso capace di discernere una nota stonata in quell’affranto appello. “Eh? Ma non abitate a Mont-de-Marsan?”, puntualizzò un poco sospettoso, non quadrandogli infatti i conti: da quando in qua l’inflessibile ava familias avrebbe voluto aver a che fare con la città nella quale si era rifugiato il marito fedifrago? Vabbè che un morto non ha poi così tanta voce in capitolo quando gli eredi si attivano, però … insomma … tra tutti i posti …

“Mamie voleva essere lì seppellita …”, gli spiegò il meco, il tono ora più calmo e lento, quasi avesse percepito l’aura guardinga emanata dall’inglese attraverso la cornetta, o meglio, il cellulare.

Rhada aggrottò la fronte. “Lei odia Strasburgo!”, gli disse perentorio e più che mai scettico, nel frattempo che l’idea di uno scherzo natalizio di pessimo gusto si stava insinuando nella sua testa.

Evidentemente, però, quella replica era stata prevista dal suo notturno interlocutore. “Colmar, vorrai dire!”, lo corresse infatti Kanon con tono annoiato, come se fosse la cosa più normale del mondo e onta a Rhada di essersela dimenticata così sfacciatamente. Dopodiché, assumendo un’intonazione più dolcemente afflitta, continuò: “Ti prego, mon doudou, vieni! Non ce la faccio, mi sento uno schifo! Ho bisogno del tuo aiuto!”, lo supplicò ora inquietantemente serio, tanto che il fidanzato dovette ricorre a tutto il suo sangue freddo per non alzarsi e oltrepassare a nuoto la Manica, più che altro per dare due schiaffoni calmanti a Kanon.

Certo era che a Rhada non piacesse poi così tanto ricorrere a quei metodi brutali, solo che l’ora era sul serio tarda e gli ultimi giorni erano stati invero stressanti anche per lui: tutta la famiglia si era riunita nella Manor del Devonshire e lui aveva passato brutti quarti d’ora per impedire quei demoni di nipoti e cugini si sbranassero a vicenda! Aggiungendo inoltre il nipotino bébé che con sadico gusto piangeva di notte e ronfava di giorno, i nervi del povero inglese erano sul punto del collasso e tuttavia, a qualcuno da lassù era parso divertente infliggergli il coup de grâce con la chiamata di Kanon. “Listen, ne riparleremo domani mattina  con calma! Ora vai a letto e dormi: agitarti così ti fa solo male! Domani ti chiamo, promesso!”, fu l’unica valida soluzione che il suo cervello affaticato sembrò trovare: il mattino successivo, ogni cosa sarebbe apparsa sotto una luce migliore e soprattutto – cosa molto importante- più razionale.

E invece no. Le Moire volevano altrimenti, volevano che fosse l’irrazionalità a governare gli eventi. “Verrai a Strasburgo il 27 dicembre per il funerale, vero?”, gli chiese Kanon flebilmente con un retrogusto di zuccherosa civetteria. Fu un bene che Rhada fosse in quel momento seduto.

“Vedremo! Ora vai a dormire!”, rimandò lui la questione, essendo al di là delle sue forze prendere una decisione: con il suo meco non si sapeva mai, neccesse erat una profonda cogitazione prima di promettergli alcunché, pena una poderosa fregatura.

Forse dall’altra parte della Manica il franco-greco dovette essersene accorto, ché infatti gli concesse il privilegio di ritirarsi a dormire. “D’accordo chouchou. G’night!”, gli augurò con voce tremula e melensa, costringendo il fidanzato ad un lungo sospiro sconsolato prima di ricambiare l’augurio inutile, ché tanto, dopo quella notizia, figurarsi se Rhada avrebbe dormito!

“Good night!”, disse laconicamente, allungandosi poi sul divano e tappandosi le orecchie col cuscino quando, dalle stanze di Aaron e Sasha si levò un urlo belluino da far tremare i vetri (ovviamente il lanciatore di quel garrisco infernale era stato il maschio), subito seguito sia dai latrati dei labrador retriever  Hypnos e Thanatos sia dalle risate sguaiate e convulse di Valentine e Simon detto Sylphide per delle ottime ragioni - costoro erano i cugini per via paterna di Rhada - che sicuramente in quel momento si stavano reggendo la pancia e asciugando le lacrime, sebbene la questione all’origine di quegli infiniti litigi tra fratello e sorella fosse vecchia come il cucco. Spesso, infatti, Rhada si domandasse che accidenti quegli scemi dei suoi cugini ci trovassero di divertente.

Un ultimo poderoso strillo ebbe infine la naturale e nefasta conseguenza di svegliare il piccolo Regulus, il quale si mise a piangere disperato come se non ci fosse un domani, provocando a sua volta una poderosa arrabbiatura da parte dello zio che balzò inferocito giù dal divano, dirigendosi rosso in viso nella stanza dei ragazzi, la cui porta venne spalancata brutalmente. “RAZZA DI MALEDUCATI!”, ruggì una Vouivre indiavolata “VI SEMBRANO ORE DA STARNAZZARE COME LE OCHE CHE SIETE? Aaron, a letto a dormire! No, non m’importa di quel che ti ha combinato Sasha, ne riparleremo domani!”, interruppe il biondo la pronta replica del nipote Emo, che si era messo a frignottare indecentemente, indicando una sorniona e impunita sorella. “E voi due ...” e gettò un’occhiataccia infernale ai due cuginetti minori, che impallidirono simil cencio appena lavato , specialmente quando il maggiore se li caricò in spalla senza il minimo sforzo apparente “… pure! O l’avrete a che fare con me!”, berciò, accingendosi ad uscire dalla camera da letto. Quand’ecco che all’ultimo si bloccò, voltandosi verso Sasha. “Quanto a te, ritorna quei boxer al suo legittimo proprietario: non occorre che ci ricordi del tuo hobby perverso tramite sozzi trofei, nipote scostumata!” e serrò gli occhi piccato dalla risata di lei, prima di uscire dalla stanza degli orrori, scaricando poi il suo doppio bagaglio nei rispettivi letti, augurando loro di dormire bene o altro.

Finalmente liquidati tutti i mocciosi presenti nella Manor, Rhada si trascinò esausto in camera sua, chiudendola a doppia mandata e ripromettendosi il giorno successivo di strigliare per bene i nanerottoli, dopodiché avrebbe telefonato a Kanon e …

… e altro non seppe pianificare, essendo crollato dal sonno, ignaro che nel frattempo, nei pressi di Ribeauville in Alsazia, una matita rossa stava cancellando con una soddisfatta riga rossa il suo nome.

“Meno uno …”, ridacchiò compiaciuta la persona alla scrivania, lasciandosi trasportare da una dionisiaca risata maligna con tanto di ombra malvagia alle spalle che si allungava inquietante sul muro.

“Silence, idiot! C’è gente che vuole dormire!”, la interruppe bruscamente una stizzita voce femminile e il bizzarro personaggio, strozzandosi a momenti con la sua medesima saliva, tacque vergognoso, ridimensionando la sua figura e l’ombra stessa.

Calò finalmente il silenzio e si poté dormire tranquillamente.

 

 

***

 

Mont-de-Marsan, Francia, Vigilia di Natale.

Mattina.

 

Nel mezzo della confusione tipica della Vigilia di Natale - e più intimamente parlando anche del mio stato d’animo - mi ritrovai a vagabondare per il centro di Mont-de-Marsan senza alcuna meta apparente. O forse sì. Infatti, citazioni scandalosamente dantesche a parte, dopo aver girovagato da solo come un’anima in pena per vie e viuzze con le mani in tasca e il naso all’aria, capitai nell’ultimo posto che avrei dovuto mettere piede, in seguito alla svolta matrimoniale della mia incredibile relazione con lo scorpion lubrique: ebbene sì, carissimi lettori.

La chiesa della Madeleine.

Ora, ignoravo quale necessità mi avesse spinto davanti al portone e soprattutto a varcarlo, lasciandomi catturare di conseguenza dall’oscurità rotta dalla tenera luce delle candele e dal profumo congiunto di incenso e fiori. Lo avevo fatto, semplicemente.  Anche perché avevo bisogno di riflettere, di rannicchiarmi in quell’ambiente neutro, cullato dal silenzio di quelle mura e di sfruttare il benefico buio ristoratore. Perciò procedetti all’interno dell’edificio sacro, sedendomi poi al primo bancone disponibile, né troppo distante dal portone d’ingresso, né troppo lontano dall’abside.  Infine, appoggiai la testa sul legno gelido del bancone, maledicendo quell’irritante emicrania che aveva preso sin da quella mattina a martellarmi il cranio; succedeva sempre così, quando il mio povero cervello veniva sottoposto a troppe emozioni sconvolgenti e, giudicando a mente fredda (magari!) gli avvenimenti degli ultimi giorni, decisamente ne avevo vissute troppe per uscirne indenne.  Chissà, forse un feroce mal di testa poteva essere una risoluzione anche fin troppo lussuosa per la terribile rivelazione del giorno prima, 23 dicembre. Ecco perché me ne ero andato solo: per quanto ormai considerassi famiglia in ogni senso i miei fratellastri e Papa Christophe – a parte Milo che era un caso a sé – non me la sentivo, non subito almeno, di affrontarli direttamente, non dopo quella discussione. Vero era, che fu un confronto pomeridiano e che trascorremmo insieme poi la sera, ma eravamo ancora talmente storditi dalla novità, che solo in seguito a molte ore potemmo renderci conto di quale mattone ci fosse cascato sadicamente in testa.

Questo dal mio punto di vista, gli altri, hélas, non avrei saputo dire con esattezza.

Seigneur, ayez pitié de moi!

Sospirai affranto e, neanche a farlo apposta, un suo emissario in terra mi si avvicinò, ponendomi gentilmente la mano sulla spalla, molto probabilmente preoccupato per la posizione di estrema sconsolazione da me adottata. E si sa, chi erano loro per negare un po’ di conforto terreno e spirituale ad una pecorella smarrita?

“Figliolo, tutto a posto?”, mi disse il prete, scrutandomi compassionevole e tentando al medesimo tempo di scrostarmi dal bancone cui ero appiccicato simil patella umana.

Ti pare che io abbia la faccia di uno che stia sguazzando in una situazione “a posto”?, avrei voluto replicare, ma mi morsi la lingua, essendo la buona educazione un dato di fatto e non un’opinione. Eppoi, si trattava del povero Père Jean, così vecchio e bacucco che si vociferava avesse insegnato a leggere e a scrivere a Noè in persona! Non era mica il primo che passava! Anche se …

“Oh!”, esclamò quegli, strabuzzando gli occhi cisposi e guardandomi fisso i lineamenti del viso. “Albert! Non ti avevo riconosciuto!”, mi salutò entusiasta, emozione che condivisi mediante un sorriso forzato: sentirmi sbagliare o storpiare il mio nome non era dissimile dall’accarezzarmi contropelo.

“Sarebbe Camus, Père Jean …”, lo corressi diplomaticamente, tenendo conto della sua veneranda età e dell’errore in buona fede.

“Ah, giusto!”, convenne sempre serafico l’uomo, prendendo faticosamente posto accanto a me. “E come stai, Albert?”

“Beh, ecco … io … veramente …”,  m’impappinai in maniera piuttosto vergognosa, giacché non possedevo ancora la faccia tosta di mentire in chiesa. Mi torsi a disagio le dita, sperando che fosse il vecchio prete a venirmi incontro, malgrado io per primo ignorai come. “Sono … hé … mi sento come un … un …”, eseguii persino la mia proverbiale bocca a trombetta, tanto le parole non mi salivano sulle labbra. “Un … una salsiccia!”, dissi infine, schiaffeggiandomi mentalmente per l’orribile similitudine: cavolo, tra tutte! …

Père Jean aggrottò la fronte, giustamente perplesso. “Una salsiccia?”, ripeté piano, lasciandomi ciononostante la possibilità di spiegare senza fondermi col bancone per l’imbarazzo.

“Oui Père, una salsiccia! Avete presente le salsicce degli hot-dog? Ehm, lo sfilatino … oui, quello! Ecco, io mi sento così: in mezzo, sommerso da una valanga di rogne e casini e situazioni una più stramba dell’altra che stanno per il ketchup, la mayo e le cipolle, mentre le due fette di pane simboleggiano delle persone mie conoscenti che, non so come mai, benché su barricate opposte mi opprimono entrambe, spiccicandomi il tutto in un unico corpo che poi qualcuno si divertirà a smozzicare pian pianino fino a divorarlo!” e feci una pausa significativamente melodrammatica, sperando di essere riuscito ad esplicare l’arcano dietro quell’allegoria mangereccia.

L’anziano prete assunse un’espressione pensosa. “In poche parole, ti senti preso in giro?”

Silenzio commosso.

“Molto Père!”, mi sfogai, nascondendo il mio viso come avevo osservato fare tante volte Kanon, ovvero lasciando una certa fessura tra gli indici e le altre dita, così da spiare di nascosto le reazioni del mio interlocutore. Tuttavia, la mia affermazione era sul serio sentita e non stavo affatto sparando frottole, sia ben chiaro! “Sono come una bambola di pezza contesa da tre sorelle capricciose!”

Père Jean abbassò il capo partecipe. “T’sais, Albert”, esordì, posando ambedue le mani sul pomolo del bastone “temo che questo tuo senso di oppressione derivi dalla tua nuova famiglia …”

“Ma è ovvio!”, sbottai lievemente spazientito. Poi però, rendendomi conto che per uno spettatore esterno non lo fosse, addolcii il tono di voce e ammisi più docile la supposizione dell’anziano prete. “Sentite, Père Jean”, sospirai infine, alzando il mio sguardo verso di lui “potreste confessarmi?”

“Non è corretto sfruttare il segreto confessionale per sparlare impunito della propria famiglia, sai?”, mi sventolò l’uomo severo l’indice sotto il naso.

“Beh, non sto sparlando …”, mi schernii, assumendo l’espressione più convincente nel mio repertorio facciale. “Vorrei solo … confidarmi!”, sì mi pareva un verbo abbastanza adeguato. Rimasi dunque in trepida attesa, le dita nervosamente intrecciate tra di loro finché Père Jean, guardando il soffitto - quasi stesse cercando un aiuto da Lassù per affrontare quella prova – annuì, eseguendo in seguito un segno della croce che immediatamente imitai.

“Au nom du Père, du Fils et du Saint Esprit, amen. Dimmi figliolo, che cosa hai combinato?”, mi sollecitò paziente, il capo reclinato in modo che sembrava stesse schiacciando un pisolino.

“Fosse solo colpa mia, Père … staremmo tutti meglio …”, mormorai affranto, massaggiandomi le tempie doloranti e, con tutta la diplomazia possibile, incominciai a narrargli gli avvenimenti del giorno pretendente, una versione edulcorata e senza parolacce e riferimenti homo o cochons. In poche parole, nulla che turbasse il suo animo: la parrocchia aveva ancora bisogno di lui per qualche lustro a venire. “Dunque padre, ieri pomeriggio  …”

 

Il giorno prima, 23 dicembre …

“Abbiamo ricevuto una … enfin, delle lettere da Strasburgo”, proseguì Maman, sistemandosi accanto a Papa. “E’ morto!”, riferì concisa, lanciando al futuro consorte una furtiva occhiata.

Sentii le gambe divenirmi di cotone. No, non era possibile! Il mio Papie non poteva essere deceduto, non doveva! Non …

Altrettanto scossa, Mamie sussurrò: “Dégel è morto?”

Maman negò col capo, rassicurandola almeno su quel fronte. “No, Maman. Papa è ancora è vivo” ed io ripresi a respirare più a mio agio.

“E chi è deceduto allora?”, s’informò disorientata la nonna, in cuor suo sperando si trattasse della suocera.

Mia madre prese fiato, umettandosi le labbra. Un brivido freddo mi percorse la schiena: ella agiva sempre così, quando doveva dare un brutto annuncio alla famiglia. Quanto al mio patrigno e ai miei fratellastri, essi trattenevano il loro respiro, soffocandosi quasi in quella forzata apnea.

“L’amante di Papa”, disse infine Maman, serrando le labbra in una sottile linea.

Silenzio.

Il cappotto cadde dalle mani di Mamie in un pensante tonfo di stoffa. A Milo e me le nostre valigie.

L’amante di …?

Oh, merde!

E dopo questa raffinata e spontanea esclamazione mi guardai di nuovo attorno disorientato, scrutando attento le varie espressioni dei presenti e confesso, che non mi piacquero affatto: troppo colpevoli. Infatti, per quanto potesse essere temuta l’eventuale  reazione di Mamie,  facce simili non si trovavano nei volti di coloro che avevano la coscienza  pulita, nossignore.

Papa era livido, quasi grigiastro, e i suoi occhi miopi dietro gli occhiali che aveva convenientemente rinforcato erano ancora fiammeggianti di collera e allo stesso tempo timore, vagando inquieti da Maman a Mamie e - questo mi allarmò particolarmente-  da Milo a me. Cambiava di continuo peso da una gamba all’altra e sembrava sempre sul punto di proferire qualcosa, trattenendosi però all’ultimo.

Saga, dal canto suo, serrava talmente le labbra che pareva essersi prefissato di ingoiarle con o senza il sale. Teneva le braccia conserte, ma le nocche bianche dei lividi e i muscoli contratti delle dita artiglianti i gomiti la dicevano anche fin troppo lunga.

Kanon non ci guardava proprio: teneva il capo chino e si era sistemato convenientemente tra il padre e il gemello maggiore.

Aiolia pareva sull’orlo delle lacrime e con questo ho detto tutto.

Inclinando interrogativamente il capo e avanzando verso la figlia, Mamie arcuò il sopracciglio, inquisendo troppo piano per essere sicuro: “L’amante?” e si morse inconsciamente il labbro superiore, accentuando così la linea della mandibola, posa che incuteva sempre una certa ferina pericolosità. Stranamente, però, ricacciò indietro i denti e assunse un’aria pensosa, incerta. “Uhm … morto hai detto …”, parlottò tra sé e sé, grattandosi perplessa il mento e raggiungendo la poltrona più vicina, sulla quale prese posto.

Allungammo tutti il collo in spasmodica attesa, temendo ovviamente sempre per il peggio.

“Ouais”, confermò Maman lentamente, socchiudendo cauta gli occhi come se volesse prevedere in  anticipo su chi la madre si sarebbe scagliata per prima, una volta fatto il nefasto collegamento who’s who.

“Per morto, intendi morto, vero? Cioè, morto morto? Stecchito? Orizzontale? Sull’inesorabile via della decomposizione? Kaputt ohne Hoffnung?” (rotto senza speranza, ndr.), s’informò scettica Mamie, neanche temesse che il suo rivale per il dominio incontrastato su Papie possedesse nove vite, dimostrando la sua indiscussa parentela coi gatti.

Ci fissammo l’un l’altro confusi e turbati: era invero bizzarra tutta quella calma nell’avia familias e, rimanendo in termini felini, lì gatta ci covava e anche troppo. “Ouais”, annuì di nuovo Maman, azzardando qualche passo verso la madre, la quale arricciò le labbra, la fronte aggrottata all’inverosimile, copia perfetta delle maschere comiche greche.

“Morto …”, sospirò incolore mia nonna, posando due dita sulla guancia prima e tamburellandole sulla stessa poi. “Morto …” Un altro sospiro. Poi, divenne improvvisamente rossa in volta, tanto che tememmo per un istante che le scoppiassero tutte le vene delle tempie. “Morto? E come si è permesso di morire così su due piedi? Era persino più giovane di me!” e Mamie ci tenne a precisare, che ciò non influiva sul suo essere ancora una gagliarda donzella di primo pelo, benché avesse una figlia che si avvicinava alla quarantina e un nipote fra due mesi maggiorenne.

“Bien sûr”, le concesse mia madre, “ma … l’essere stato più giovane di te non è di certo una garanzia … enfin, può essere morto per un incidente … una disgrazia … malattia” e scoccò un’occhiata significativa a Papa, le cui gote divennero cremisi per un nanosecondo per poi ritornare al loro colore naturale. Il medesimo processo colpì anche Milo, il quale però sbiancò fino al violaceo e quando tentai con lo sguardo di chiedergli che accidenti gli fosse preso, lui preferì volgere il suo altrove non senza avermi intimato di serbare a più tardi la mia tacita domanda.

Mamie si sistemò meglio sulla poltrona. “Malattia?”

“Ouais: un infarto, ad esempio …”

“O un’overdose di Viagra …”, suggerì invece sottovoce a denti stretti Kanon, messo subito a tacere in combo da Aiolia e Saga, il primo con una gomitata, il secondo tappandogli senza girarsi la bocca. Chissà, magari la sua era proprio l’ipotesi più azzeccata …

Ancora una volta, l’augusta avia sospirò affranta. “E chi se ne frega!”, sbottò d’un colpo inviperita, incrociando imbronciata le braccia al petto. “Non è valido! È  morto slealmente, il gaglioffo! Non mi ha aspettato! Io” e si batté fieramente il petto e  balzando subito in piedi, stupendoci oltre ogni dire “io lo dovevo ammazzare! Gliela avevo giurata! Non si fa così! Questo si chiama imbrogliare! Non è giusto! Tricheur! Dov’è finito il vecchio e sano senso del fair play?” e si mise a frignottare neanche fosse regredita ai cinque anni, arrivando perfino a battere i piedi per terra come una bambinetta viziata cui erano state negate le caramelle da lungo tempo promesse.

Silenzio da morte cerebrale.

Seppur titubante, Maman le diede ragione: in fin dei conti, Mamie era nata in un paese dove le onte di famiglia, invece che lavarle con l’acqua e sapone, si lavavano col sangue. Ovviamente, però, finché questi progetti di morte e redenzione rimanessero ben confinati al sicuro nella sua scatola cranica. “E’ davvero una situazione incresciosa, non lo metto in dubbio … purtroppo però, Maman,  non è questo il punto!”, continuò mia madre, bloccando sul nascere la replica della genitrice con un deciso gesto della mano, invitandola a riprendere posto sulla poltrona e possibilmente in silenzio. Notai chiaramente che proseguire le costava molto dal modo in cui strascicava lievemente le parole, quasi stesse prendendo tempo, intanto che il suo cervello elaborava il miglior approccio per presentare all’avia una verità alquanto spinosa ed esplosiva. “Il fatto è … è che lo zio di Christophe è morto e  …”

Mamie assunse l’espressione di chi era appena stato bollato come cretino, interrompendola subito. “E che me ne dovrebbe importare? Con tutto il rispetto parlando”, aggiunse poi in fretta rivolta a Papa e ai miei fratellastri, portando in avanti i palmi per sottolineare che non aveva nulla di personale contro il famoso zio Cardia o Theodoros o come accidenti si chiamasse. L’ostinata assenza di reazione da parte dei di solito iper-suscettibili franco-greci mi risultò sospetta e sgradevole: seguitavano, infatti, a rimanere impassibili se non proprio inespressivi, tranne che per qualche rapida e furtiva occhiata al padre e al fratello terzogenito.

Mi sorse nel cuore una gran voglia matta di gridare di smetterla con quello stillicidio e di dire chiaro e tondo, quale dannatissimo collegamento ci fosse tra la morte dell’amante di Papie e lo zio di Papa. Una disgraziata coincidenza? Si vergognavano di chiedere a noi di presenziare al funerale? Ma che problema c’era? Enfin, era pur sempre famiglia e di certo a noi non avrebbe dato fastidio, a meno che proprio lo zio Cardia non fosse il … famoso …

Oh merde!

Mi tappai la bocca con una mano, voltandomi dalla parte opposta. Dopodiché mi girai nuovamente verso la mia famiglia. Infine, roteai ancora di 180°, restando lì a contemplare il muro per qualche minuto, prima di ritornare definitivamente con il viso verso gli astanti per assumere, similmente a loro, la medesima espressione vuota, malgrado la mia mente fosse in completo subbuglio: mon Dieu, questo significava che l’uomo-vampiro dei miei ricordi d’infanzia era lo zio Cardia? L’amante di Papie? Ma … ma … come avevo fatto a non riscontrare alcuna somiglianza tra i due? Neanche quando Milo mi aveva mostrato la foto? E a proposito di Milo … mon Dieu! Madame Lyralique! Cosa aveva borbottato a Parigi, sulle scale? Uhm … scusa se te lo chiedo, ma … ma ti ho già visto da qualche parte? Hai un volto famigliare … E … e Milo e questo suo prozio si assomigliavano moltissimo e … e quest’ultimo era il … il … coso … di Papie e … e ora Mamie … e io … con il pronipote … cioè …

Ebbi bisogno di sedermi anch’io, stringendo convulsamente i braccioli della poltrona ed evitando di guardare negli occhi Milo, il quale doveva condividere lo stesso mio disagio, giacché aveva appoggiato la nuca al muro, gli occhi bassi e rancorosi, come se stesse in quel momento augurando ogni male al morto per averci complicato inutilmente la vita.

“Eddai, Ninne, stringi e vieni al punto!”, la pregò scocciata Mamie, la quale intuivo non desiderasse  null’altro che rinchiudersi in camera sua e finire di impirare con gli spilli la bomboletta voodoo del suo rivale in amore: hobby ormai inutile, ma almeno non sarebbe vissuta col rimorso di non averla trafitta con tutti gli aghi a disposizione in casa. “Cosa c’entra la morte di M. Valavitis …”

“Kasandakis … è di parte materna …”, la corresse dolcemente Papa, tenendoci a sottolineare che lui aveva pochissimo a che fare con lui, almeno dal punto di vista dell’anagrafe, quando invece dal punto di vista somatico assomigliava più a suo zio che ai suoi fratelli stessi.

Mamie accennò ad un frettoloso svolazzo della mano. “D’accordo, M. Kasandakis … insomma, cosa c’entra la sua morte con quella del Tanghero Innominabile?”, ci chiese candidamente disorientata, costringendoci ad abbassare ulteriormente il capo e serrare le labbra e, per coloro che si trovavano in piedi, di arretrare di qualche passo di sicurezza.  Possibile, mi chiesi, che non ci arrivasse? O forse, non voleva capire lei per prima? Mamie non era mai stata una sciocca, anzi, avevo sempre sospettato che lei ne sapesse più di quanto desse ad intendere; tuttavia quel suo atteggiamento, quel suo dominarsi non era da lei, era alieno al suo carattere impetuoso: perfino la scenetta di poco fa in cui si era messa a frignare mi appariva fasulla, artificiosa. Cosa non avrei dato per capire che diavolo le stesse frullando in quel momento nella testa!

“Maman …”, si decise infine mia madre, le dita avvinghiate penosamente fra di loro. “Maman … ho paura che … ho paura che l’amante di Papa e lo zio di Christophe siano la stessa persona …” e tacque, posizionandosi in maniera strategica, acciocché non le ammazzasse il suo futuro marito, giusto per precauzione: nella vita non si sa mai.

Ecco, lo aveva detto: i due erano la medesima persona. Finalmente la verità, per quanto odiosissima, era venuta a galla. Interessante sapere, come fosse innanzitutto minuscolo il mondo - per non dire la Francia -  e in secondo luogo, quanto una singola persona avesse influenzato le vite di tutte noi: della serie, chi ha voglia di giocare un po’ a domino con le esistenze altrui?

In quell’istante non seppi se maledire a mia volta il fu Cardia o Theodoros Kasandakis o di ringraziarlo … uhm …

All’udire la novità, il viso di Mamie chiamò a raccolta tutto il sangue delle sue vene, per poi scomparire in un giallognolo malsano, nel frattempo che le sue labbra si contorcevano, quasi si stesse sforzando a non …

… ridere?

Ridere?!

R-I-D-E-R-E ?!?

Sì, gentile lettore, ridere. Sguaiatamente, irrefrenabilmente, a bocca bella larga e gettando all’indietro il capo, un riso da maniaco che sconvolse perfino i miei fratellastri, una risata grassa e stridente da provocare una sincope a noi e le lacrime a lei. Una sferzata alla povera gola, un raglio inquietante. Un gargarismo diavolesco.

“Ah! Questa sì che è buona!”, esclamò Mamie tra una fitta di risate e l’altra, asciugandosi gli occhi e portandosi una mano al ventre dolorante. “Suvvia, che storia è mai questa? Da dove l’avete tirata fuori? Cattivelli, il primo aprile è ancora lontano, sapete?” e scosse ilare il capo, mentre al contrario noi lo facevamo in diniego, tentando di spiegarle che no, non era uno scherzo era tutto dannatissimamente vero! Papie se la intendeva allegramente col Prozio! Ma che bello!

“Maman, s’il te plaît, non fare così …”, l’avvicinò mia madre, ché infatti qualcosa di inaspettato era avvenuto: in quel crogiolo di risate, Mamie si era afflosciata su di un bracciolo, il capo ben celato dagli avambracci e ben presto lo sconquasso del riso venne sostituito da quello del pianto e un flebile ma udibilissimo: “P’tain de merde!”

“Maman …”

“E Maman un corno!”, urlò infine Mamie, alzando il viso rosso e rigato di stizzite lacrime, che lei si asciugò con altrettanta noia.  “Cosa volete da me? Che salti come da copione in aria, che pigli le sedie e ve le lanci contro, imprecando neanche provenissi dai bassifondi di Marsiglia? Ai vostri occhi non sono altro che una pazza, forse? E va bene, allons, gridiamo, bestemmiamo, facciamoci tutti una bella e grassa risata alle spalle di  Mamie la folle!” e si mise a battere le mani istericamente.

Nessuno rise.

“Tuo zio”, proseguì letteralmente paonazza in volto, scattando dalla sedia e dirigendosi pericolosamente verso Papa, l’indice puntatogli contro “quel gran degenerato di tuo zio ha inchiappettato mio marito e allora? E allora? Me ne dovrebbe importare qualcosa? Eh? Eh? Che mi rispondi, tu, che condividi gli stessi geni impudichi? Tu, che mi sventoli tuo figlio gay sotto il naso?” e indicò Aiolia, che fece un salto indietro.

“Non sono gay …”, protestò debolmente il lionceau, portando in avanti le mani e scuotendo la criniera con molta energia.

“Zitto, Iou – Iou!”

“Mais …”

“Zitto, Iou – Iou, non complicare ulteriormente la faccenda: si sta sfogando, non sa quel che dice!”, lo ammonì severamente Milo, zittendolo con uno sguardo feroce dopo averlo trascinato a sé per il braccio. Strisciando sulla parete, Kanon ci aveva raggiunto così da formare un gruppo piuttosto compatto. Solo Saga era rimasto impietrito dietro suo padre, gli occhi puntati su Mamie e in particolare sul suo indice furioso. “Inoltre, meglio che se la prenda con te, piuttosto che con Nônon e me:  almeno, tu non hai nulla da nascondere, non ti pare?”, aggiunse poi lo scorpion, ignorando volutamente l’espressione sconsolata del fratello minore, al quale di sicuro il ruolo di capro espiratorio della famiglia non doveva andare così tanto a genio.

“Madame”, venne subito Papa in soccorso dell’ultimogenito, scacciando l’indice accusatore come una mosca molesta. “Non è che dando dell’omosessuale ad Aiolia – che per la cronaca vi assicuro che non lo è – si risolve la questione, anche perché poi non ha …”

“Ah no? Lo sai, disgraziato, che si vocifera che quel tuo figlio tanto etero sia stato pizzicato nel reparto Yaoi? E poi mi dici, che la casa non  mi si corrompe?”

“Cosa?!?”, si strozzò Papa per poco con la sua saliva, sotto lo sguardo trionfante di Mamie e quello abbattuto di Maman. “Iou – Iou, tu …”

“Non!”, pigolò Aiolia, pestando veemente i piedi per terra “io non sono gay! È tutto un malinteso! Calunnie e maldicenze!”

“Però ammetti di essere stato nel reparto Yaoi!”

“Ecco io …!”

Per quanto dovessi serbare rancore a quella famiglia attira –guai e dal dubbio senso del mos maiorum, mi sentii in obbligo di difendere l’elemento più mimichoupi (puccio, ndr.) e indifeso del branco: altrimenti, se cadeva lui, con chi mi sarei poi sfogato? “Ero con lui, Papa,  e ti assicuro che non ha neanche sfiorato un manga Yaoi!”, giurai solennemente, alzando due dita e assumendo un’aria seria e convincente, la quale, però, non bastò a Mamie, che, stringendo gli occhi, ributtò la palla in campo:

“E allora, M. Avocat du Diable, come mai ho trovato delle pagine di  Maiden Rose semi-bruciacchiate nel caminetto?”

Gueh? Credevo di essermi sbarazzato del tutto di quel manga, malgrado le appassionate proteste di Kanon! Come aveva fatto a salvarsi dall’annientamento totale?

“Era in omaggio …”, borbottai una scusa al volo, la quale puzzava moltissimo di campata in aria.

Ed infatti alla nonna sorse il dubbio. “Ah, ouais? Ne avete comprati degli altri?”, ci chiese giustamente ché lo Yaoi era come la droga: una volta incominciato, non si tornava più indietro. Dipendenza totale. Mai più coppie etero, piuttosto castità rigorosa. Brrrr …

Notandomi in difficoltà, fu il turno di Kanon di mobilitarsi. “No! Avevamo comprato … ehm … un manga stupido, innocuo … uh … Doremì?!”, fece scandalizzato al mio suggerimento, arcuando scettico il sopracciglio dinanzi alla mia smorfia, che tradotta voleva dire: Ma sì, fidati! Dille Doremì!

Fumetto così innocuo e stupido, che lasciò perplessa anche Mamie. “Tu, grande e grosso, leggi Doremì?”, s’informò incredula, squadrando stupefatta la figura del secondogenito dei Valavitis, al quale si poteva rimproverare tutto, tranne che di leggere manga balzani e melensi come appunto Doremì.

Ridacchiando nervosamente, Kanon si schermì con deliziosa modestia e imbarazzo. “Hé … quando vado al gabinetto … t’sais, dicono che il fumetto faccia tanto ca’ …”e tacque tossicchiando in maniera rumorosa, lasciando a noi l’arduo e schifosissimo compito di terminare – mentalmente, veh! – la frase.

“Buon per te! Sai quanti soldi risparmiamo di purga?”, commentò incolore Mamie, abbandonando per un attimo la sua posa battagliera, per ripigliarla in seguito. “In ogni modo, M. Valavitis! Come pensate di risolvere la faccenda, ora?”

Papa assunse un’espressione bislacca, che tradotta poteva significare: Per chi mi ha preso, per il Padre Eterno forse? Come vuole che la risolva, io?

“Potremmo metterci una pietra sopra e non pensarci più?”, suggerì candidamente Aiolia,  beccandosi nell’arco di un nanosecondo la sua giusta e sferzante punizione verbale:

“Silence, tapette! O ti metto io qualcosa!”, lo minacciò Mamie neanche tanto velatamente, seguitando a fissare rancorosa Papa, come se fosse lui la fonte di tutti i mali e non quel gran mascalzone di suo zio.

“Ma io non sono gay!”, frignò disperato Simba, portando la sua tonalità vocale ad un inquietante acuto, tanto che lanciammo inconsciamente una furtiva occhiata al suo cavallo, giusto per controllare che ogni cosa fosse intatta e al suo posto. Dopodiché, gli fu elargito un sonoro scappellotto da mano ignota, giusto per ribadire la sua totale incapacità a tener saldamente serrata la sua boccuccia di rosa.

“Peu m’importe … et puis tu m’énerves …”, liquidò annoiata la nonna la faccenda, cosa che indusse Aiolia a voltare la testa nella mia direzione, scoccandomi un’occhiata basita. Gli feci cenno di lasciar correre, era meglio. “Sto ancora aspettando, M. Valavitis: in questo frangente, come mi debbo comportare? Volete un refreshment? Dunque, mio marito viene sedotto da un tanghero senza né arte né parte, che, ironia della sorte, mi risulta essere vostro zio …” e, intrecciando le dita, gli puntò contro entrambi gli indici “quel bischero debosciato – no, Ninne, zitta che è vero, non difenderlo! – proprio quel deficiente si fa abbindolare, per non dire peggio, da lui e ci scappa assieme, abbandonando mia figlia e me al nostro assai triste destino, sebbene lo ammetto raddolcito da un pingue assegno mensile …”, aggiunse poi, sovvenendosene dopo qualche secondo.

“Niark, non vale se la mettete così … Ovvio che siamo dalla parte del torto!”

“Quindi, M. Valavitis, che si fa? Cosa può fare una povera donna sola ed indifesa, quando sta per imparentarsi con la famiglia dell’uomo che le ha fottuto il matrimonio (e il marito con lui)? Cornuta e pure mazziata? ”, gli chiese tremendamente seria, quasi desiderasse per davvero ascoltare un eventuale suggerimento da parte del futuro genero. “Perché”, proseguì invece la nonna imperterrita, bloccando sul nascere la replica di Papa, “se l’affare dipendesse da me, vi caccerei via a calci sulle fesses, incominciando dal moccioso homo …”

“Ma io non sono gay, bordel de merde! Chi è che sta dando ora sui nervi?!”

“… tuttavia”, ignorò Mamie l’ennesima sconsolata protesta di Aiolia, preferendo piuttosto proseguire nel suo sconclusionato – ma anche no – monologo “se vi sbattessi fuori di casa, sono sicurissima che a Ninne darebbe fastidio …”

“Molto fastidio!”, ribadì decisa Maman, annuendo grave con il capo. Che strano, però!, pensai disorientato: assieme all’avia, anche mia madre aveva sofferto a causa del naufragio (o volo) del matrimonio dei suoi genitori, eppure, malgrado fosse in procinto di maritarsi col nipote di tale mascalzone, ella si ostinava a difendere lui e la sua famiglia e a volerlo comunque sposare nonostante le ovvie perplessità e antichi rancori non del tutto sbolliti. L’intera faccenda mi sorprendeva soprattutto perché tale sentimento era condiviso anche dal sottoscritto: per un folle istante, tentai di immaginarmi come sarebbe proseguita la mia vita, se il desiderio di Mamie si fosse realizzato e se i miei fratellastri e il mio patrigno fossero spariti dalla circolazione.

In tutta onestà, mi sentii male al solo pensiero: a parte che ci avrei forse guadagnato qualche mal di testa di meno e più spazio alla mia privacy, beh, era impossibile negare che non mi fossi in qualche perverso modo affezionato a loro, in particolare a Milo.

E lì sì, che ero molto perverso.

Vabbè, mie solite divagazioni.

Ripigliamo da Mamie.

Sospirando a lungo, la nonna batté impaziente il piede per terra, piccolo tic a lei molto congenito e fonte di gran guadagno per i calzolai. “C’est exact, anche perché è Ninne quella che paga la maggior parte dell’affitto di questa casa …”

“E non te lo scordare mai, mamma!”, le ricordò perfida la figlia.

“Come potrei?”, le accordò sorniona la genitrice, passandosi carnivora la lingua sulle labbra. “Bien, mi pare che la discussione termini qui: tanto, non ho mai voce in capitolo nelle questioni famigliari …”

“Benvenuta nel club …”, borbottai forse a voce un po’ troppo alta, attirando prontamente l’attenzione malefica di Mamie, che, voltandosi di scatto verso di me, berciò velenosissima:

“Chi ti ha domandato alcunché, pel di carota?”

“Voleva solo sdrammatizzare …”, corse in mia difesa Milo, facendo delle poco credibili spallucce innocentine. E la scudisciata verbale, però, se la prese nuovamente Aiolia.

“Silence, tapette!”

“E che palle, però!!”

“Ouais, proprio quelle che piacciono a te!”

Riprendendo in mano la situazione – complice anche l’impellente bisogno di impedire una crisi d’identità sessuale nel più etero dei suoi maschi – Papa osò richiamare indietro Mamie, la quale, dal punto di vista inglese, se la stava filando alla francese in camera sua. “Madame”, esordì risoluto, seppur con gentilezza “lo so quanto il comportamento scostumato di mio zio vi abbia provocato un’immane sofferenza e che vi abbia scaraventato nella depressione più nera …”

“Depressione? Quale depressione?”, negò Mamie sospettosamente in fretta, allungando il passo verso la salvezza della sua stanza, sennonché Papa le si piazzò davanti, bloccandole il passaggio. Perché come suole affermare un saggio detto tra i medici, il vero malato lo si riconosce dall’ostinarsi a negare il suo male. “Sei ubriaco?”

Sì, dei figli, zio compreso.

“Eri depressa?”, rincarò la dose un Kanon basito, troppo lontano dal raggio d’azione di Saga per poter essere messo a tacere e per quel che riguardavano i suoi fratelli, hé, nessuno pareva incline ad assumersi quello spinoso fardello. “Tu … depressa …?”, non riusciva sul serio a credere che una donna come l’avia familias potesse essere vittima del malessere psicologico più abusato del mondo. In fin dei conti, chiunque avesse scritto sul Libro del Destino la vita di Mamie poteva sinceramente inventarsi qualcosa di meglio e meno scontato.

Messa ora in difficoltà – si stava giocando, infatti, il suo ruolo di donna indistruttibile – mia nonna si rigirò i pollici, mordicchiandosi apprensiva il labbro inferiore: eterni dèi, che dilemma! Ammettere la giusta verità o ripararsi dietro un’orgogliosa menzogna? Fragilità o – come direbbe Po il Panda – tostaggine?

“Et bien, Mamie?”, volemmo sapere tutti, sinceramente interessati a questo nuovo aspetto di nonna, che, incredibile, s’impappinò vergognosamente in una sfilza di …

“Non - mais  - oh – mais – euh - hein? Ce ne sont pas de questions très polies, espèce de salauds !” (Non sono domande molto educate, razza di sporcaccioni !,  ndr. )

Silenzio pausa pranzo.

“Ma andate tutti a cagare, te soprattutto!”, berciò all’improvviso Mamie offesissima e indicò com’era da aspettarsi il piccolo Aslan, che si rifugiò piangente tra le braccia di Kanon, rivendicando al mondo la sua bistrattata eterosessualità. Mamie era davvero crudele quando voleva. In ogni modo, aveva vinto il suo orgoglio.

Ma la battaglia era lungi dall’essere conclusa.

“D’accord, non siete caduta in depressione! Tuttavia, non è aggirando il discorso che risolveremo la faccenda!”, insistette Papa, il quale aveva ben capito che, con le buone o con le cattive, bisognava finire una volta per tutte quell’annosa questione di corna: finché Mamie non si fosse purgata dal Grande Male, le nozze non sarebbero mai state benedette da una dolce serenità.

Magari …

“E chi la vuole risolvere?”, fu la spontanea replica della nonna, che si divincolò molesta dalla presa del futuro genero. “Non c’è più nulla da dire! Il danno è fatto: mio marito sta con vostro zio! Point final!” e prese ad elargire piccoli buffetti sul dorso della mano di Papa, che la fissò incuriosito come una mamma gatto vittima delle giocose attenzioni dei suoi esuberanti piccoli nei confronti della coda.

“Che è morto, piccolo dettaglio!”, precisò Milo, affermazione che tutti sostenemmo vivacemente. “Non è malvagia come soluzione …”

No, affatto, e anche l’avia parve prendere in considerazione questo punto di vista.

“Che poi”, proseguì mellifluo lo scorpion lubrique “ora che il Prozio è fuori dalla circolazione, Papie è libero e disponibile ad essere tort-ehm, coccolato da te! Completamente a tua disposizione!”,e le sorrise incoraggiante. In disparte, Kanon diede una compiaciuta gomitata alle costole di Saga. “Ha preso tutto da me, il mio bicho!”

“In effetti …”, mormorò pensosa Mamie, posando due dita sotto il mento, roteando in alto gli occhi ed eseguendo la famosa tabella dei pro e dei contro. “Dubito, però, che la mera sparizione del bischero schifoso potrebbe farmi dimenticare in un battibaleno ogni rospo ingoiato … Certo, potrei vendicarmi fisicamente su Dégel, ma leverebbe trequarti della soddisfazione … Uf! Non è divertente picchiare un cadavere!”

Arcuai sconsolato un sopracciglio, espellendo un lungo sospiro: fino a questo livello dovevamo giungere?

No, evidentemente si poteva mirare a ben di peggio e lode a Papa Christophe, che, cogliendo la palla al balzo, esclamò risoluto: “Avete perfettamente ragione, Madame! Non è equo pigliarsela con un cadavere!”

“Exactement! Non lo è!”, convenne l’avia familias, le braccia conserte e un’espressione grave dipinta sul volto. Mon Dieu, che qualcuno li fermi!, pensai tra me e me, non presagendo alcun risvolto positivo tra i due contendenti: avevo sì fiducia nell’equilibrio interiore di Papa, tuttavia, a giudicare dalla psiche diversamente funzionante delle sue creature, sospettavo che quel peculiare germe potessero averlo anche ereditato da lui, perché no? A meno che non fosse di parte materna, ma non avendo mai cicalato a tu per tu con la fu Madame Valavitis … difficile dire …

Nel frattempo che mi interrogavo sul patrimonio genetico dei miei fratellastri, Papa proseguiva nel suo incredibile elenco di fustigatore, trovando inspiegabilmente supporto da parte di Mamie, che concordava ad ogni cavolata da lui dichiarata con preoccupante serietà. “Quando uno pecca, dev’essere punito!”

“Giustissimo!”

“Specie, se è contro gli ancestrali principi del mos maiorum!”

“Non avrei saputo affermare di meglio!”

“Un’onta simile, deve essere lavata via!”

“Condivido appieno!”

“Eh bien, Madame! Mio zio è morto, ma io sono ancora vivo!”

Mamie sbatté le palpebre leggermente interdetta. “E manco male …”, proferì piano, spiazzata da quell’inaspettata affermazione: una figlia vedova prima ancora di sposarsi non era esattamente il sogno proibito di ogni madre.

Tossicchiando a mo’ di scongiuro, Papa ci tenne a precisare: “Quel che volevo dire, è che, in quanto suo nipote e rappresentante – per mia grande sfortuna – della famiglia, mi assumo tutta la sua colpa! Di conseguenza  …”, ma non fece in tempo a concludere la frase, che la futura suocera spalancò incredula bocca, esclamando scioccata:

“Di conseguenza hai inchiappettato anche tu mio marito?!”

Silenzio da film dell’orrore, mentre la conturbante – e terrificante – raffigurazione mentale di Papa intento a zuzzurellare con Papie ci frantumava i nervi in minuscoli coriandoli, logorandoli fino al loro ipotetico midollo. Altro che Freddy, Jason e Leatherface: quello sì, che era il vero gore innominabile! Come si era permessa Mamie anche solo a suggerire quello schifo di immagine? Come? Non aveva un minimo di creanza, la Madame?

Papa si accorse – e come non poteva, visto che avevamo le bocche più pendenti della Torre di Pisa – che l’affermazione di Mamie stava compromettendo la sua posizione di pater familias e garante della morigeratezza famigliare per le sue creature dall’incasinata sessualità. “Ehm … no, quello no … se mi lasciaste finire, forse …”, la pregò sull’orlo dello sfinimento, malgrado non ci fosse sfuggita una certa risoluzione nel suo sguardo miope, la quale impressionò perfino la nonna, che, abbassando gli occhi di circostanza, fece la giusta ammenda:

“Pardon, chiedo venia … prosegui pure …”

Sospirando a fondo onde raccogliere tutto il suo coraggio, Papa si levò lentamente gli occhiali, le labbra strette in segno di profonda determinazione. “Euh … dicevo … ah oui!” Dopodiché, allargò all’improvviso le braccia, costringendo Saga ad indietreggiare di qualche passo, se non desiderava una manata dritta sul naso. “Di conseguenza, Madame, se volete sfogare la vostra giusta collera, ebbene … son qui!”, si offrì vittima volontaria, pronto ad espiare le malefatte del morto sul suo stesso corpo???

“QUOI?!?”, fu infatti la logica esclamazione cui ci abbandonammo, Mamie per prima. Avevamo ben capito?

Purtroppo per noi, sì.

“Esatto! Sono pronto, Madame: colpitemi più forte che potete, così da dichiararvi soddisfatta!”

Mon Dieu de la France et de l’Angleterre … non pensavo di vivere così a lungo per assistere pure a questo …

E evidentemente anche la prole di primo letto dovette condividere le mie perplessità, giacché Saga, sbattendo le palpebre assai tramortito dalla novità, inquisì con voce strozzata:“Mais Papinou, sei impazzito?”

Papa Christophe sorrise sornione, quasi sottintendesse Ma da che pulpito viene la predica, anzi, la domanda! “Eh, Sasà, da qualcuno dovevi pur prendere …”, gli disse, incrociando al petto le braccia. In seguito a quell’affermazione, mi chiesi se avrei o meno seguitato a guardare il mio patrigno alla medesima maniera di prima. Ecco che evaporava l’aura sacrale di padre e capoclan di Christophe Valavitis. O forse no?

“Ma … farti menare … dalla nonna …”, protestò Kanon, che fu subito bloccato da un ieratico gesto della mano da parte del padre, che ribatté contegnoso:

“Nônon, un uomo deve sapere quando assumersi le proprie responsabilità! Iou – Iou, reggi gli occhiali e mi raccomando: qualsiasi cosa accada, tu non sei gay e non lo sarai mai, capito?”, fu l’ultima raccomandazione di Papa, cedendogli intanto quel che fra qualche istante sarebbe divenuta una preziosa reliquia.

“Oui, Papa!”, annuì commosso Aiolia, portando le preziose lenti al petto. “Non lo dimenticherò mai, sebbene avessi sempre saputo che mi piacciono le nanans!”

Silenzio ai caduti.

“C’est bien, mon enfant! Quanto a voi due …” e guardò a lungo Milo e me. Sospirò di nuovo. “Bah! Lasciamo perdere!”, liquidò la questione in fretta, scostando i miei altri tre fratellastri da lui. “Un po’ di spazio, please … parfait! E ora, a noi Madame! C’mon! Hit me! Colpite forte!”, la provocò ardito come solo un kamikaze poteva essere, lo sguardo dritto e senza paura del malsano luccichio che rifulgeva nelle iridi dorate di Mamie, neanche vi ribollisse la lava dell’Etna.

“Ne sei sicuro, mon cher? Questo sì che è parlar da galantuomini!”, volle prima assicurarsi l’avia, scrocchiandosi le dita, fatto che non piacque a nessuno, a Maman in particolare, che, cingendola per la vita, l’allontanò dalla sua preda designata.

“Non, Maman! Pas bien! Ti proibisco di colpirlo! Laisse-le! Che metodi sono mai questiiiiiiiii????!!!!! OH MON DIEU, CHRISTOPHEEE!!!!!!”

“MEEEEEEEEERDE!!!”

 “PAPINOUUUHHH!!!! NOOONNN!!!”

“OOOH LA VAAACHEEE!!!”

“AAAAAAAAAHHHH, QUELLE DOULEUR ATROCE!!!”

Silenzio da traumatizzato a vita.

Ehm, rewind? Ouais, direi proprio di sì!

Dunque, se fosse stato possibile riguardare a rallentatore l’intera sequenza, ne sarebbe venuto fuori più o meno questo:

Nel frattempo che Maman rivendicava l’integrità fisica di Papa, trascinando via la vendicativa genitrice dal futuro consorte – affermare padre dei suoi figli era azzardato e fuori questione – ella si era divincolata furbescamente dalla presa della figlia, avanzando bellicosa alla velocità della luce e, prima ancora che qualcuno potesse impedirglielo (e qui si inseriva il:  Oh mon Dieu, Christopheee!!!!!!”) già il suo pugno martoriava l’occhio destro di Papa, sbattendolo senza tante cerimonie tra le braccia di un Kanon con gli occhi fuori dalle orbite (e qui sarebbe d’uopo il: Meeeeeeeeerde!!!) e fornendogli una buona scusante per indossare in inverno gli occhiali da sole. Nello stesso istante, Saga nascondeva con la mano quella mesta visione alle iridi innocenti di Aiolia (e qui: Papinouuuhhh!!!! Nooonnn!!!). Milo ed io non osammo respirare per un minuto buono, limitandoci a quel che avrete intuito essere stato il tanto raffinato e sincronizzato Oooh la vaaachee!!! (Lett. Oh la vacca! Corrisponde a Oh la peppa!, ndr.)

Infine, il misterioso Aaaaaaaaahhhh, quelle douleur atroce!!!, non fu gridato come logica presupponeva da Papa – che in quel momento era troppo stordito anche solo per percepire il concetto di dolore fisico – bensì da Mamie, la quale si massaggiava la mano offesa, le nocche insanguinate specialmente. “Mon Dieu, je me disais bien, que ce grec avait la tête dure!”

Scuotendo il capo e il padre semicosciente, Kanon sospirò affranto. “Ah, si tu savais! C’est dire!” (-Mio Dio, facevo bene a dirmi, che questo greco ha la testa dura! – Ah, sapessi! E’ tutto dire!, Gioco di parole tra testardo e resistente, ndr.)

Mamie sogghignò compiaciuta, il polso tuttavia lo stesso ben stretto nell’altra mano. “E comunque, mon toutou”, soggiunse infine rivolta al secondogenito maschio, uscendo nel frattempo trionfale dalla cucina per leccarsi le ferite nella tranquillità della sua stanza “lo sapevo che eri tu quello gay e non le p’tit chat!” e allargò il suo sorriso da maniaca alla vista delle nostre facce al limite dello sconcerto. Insomma, lei era sempre stata a conoscenza dell’intero intrigo e si era presa gioco di tutti noi fino a questo momento, arrivando perfino a menare suo genero? Ma da quale bordello algerino la mia bis aveva tirato fuori mia nonna?

Tranquillissimo, almeno in apparenza, il gemello minore s’informò incuriosito: “Ah ouais? Perché cucino?”

L’avia familias reclinò pensosa il capo. “Anche per quello … Ma soprattutto, perché solo a uno accecato dall’amore più profondo e sincero non viene una crisi epilettica quando gli viene sbattuto in faccia un orrido monociglio! Bien, mi ritiro! B’nuit à tous!”, ci augurò sparendo teatralmente dalla scena, benché non fosse ancora l’ora di cena …

“Mi ha dato, quindi, del gay per niente?”

… ma in tutta onestà, chi aveva voglia di cenare, in seguito a quel teatrino?

 

 

 “Uhm … è molto triste quel che tu mi racconti, Albert!”, commentò partecipe Père Jean, la fronte corrugata. “Enfin, scoprire che la donna responsabile della rottura tra tua nonna e tuo nonno è la zia del tuo futuro patrigno … Non deve essere stato affatto piacevole!”

Scossi il capo gravemente. “Affatto, Père Jean!”

“Tuttavia, sono perplesso: non si vociferava che fosse stato in realtà un uomo a soffiarle il marito?”

Niark!, maledii con vivo trasporto le chiacchiere pettegole della gente; dopodiché, schioccando sonoramente la lingua, dichiarai piano, sperando che la grazia divina chiudesse un occhio sulla balla che stavo per raccontare ad un ministro di Dio e per di più nella casa di quest’Ultimo: “Nah, Père Jean: si tratta solo di maldicenze frutto della mente annoiata di qualche vecchia beghina provinciale …”e lo fissai attento di sottecchi, aspettando una sua eventuale reazione, la quale non avvenne, giacché l’anziano prete conservava la medesima espressione di serena imperturbabilità, meglio conosciuta col nome di Connessione disattivata.

“Peut-être oui … peut-être non … ciononostante le corna ci sono e belle grosse!”, toccò l’uomo il dolente nocciolo della questione, accarezzandosi pensieroso il mento. “E tu temi più dell’ira di tua nonna, di guardare in un futuro neanche troppo prossimo la tua famiglia con occhi diversi, n’est-ce pas? Hai paura che il sentimento che provi verso i tuoi nuovi parenti venga mitigato dal rancore?”

Riflettei abbondantemente prima di rispondere. “Ouais!”, fu poi la mia molto succinta replica, accompagnata da un energico annuire del capo.

“Come pensavo … Hé, Albert, le uniche soluzioni che vedo sono: una, che come tua nonna ti rodi il pancreas attentando alla vita di chiunque sia relazionato alla tentatrice sfasciafamiglie oppure …”

“Non, jamais ça!”, esclamai a voce un po’ troppo alta, tanto che i fedeli seduti a qualche banco più in là si voltarono incuriositi nella mia direzione. Arrossendo, mi feci piccolo, piccolo così da evitare i loro sguardi indagatori.

“Oppure potresti perdonare tutto e tutti e proseguire con cristiana accettazione ciò che la vita ti sta offrendo! Prendila come un’occasione donata dal Cielo per poter trovare quella pace famigliare, che quella donna vi ha sottratto; un’occasione per riconciliarsi coi propri demoni! E’ attraverso difficoltà come queste, che i legami più forti e duraturi si saldano”, concluse Père Jean molto convinto, sentimento che avrei tanto desiderato contraccambiare, se un certo scetticismo non mi facesse arcuare perplesso un sopracciglio. “Mal che vi vada, vi terrete il broncio per qualche mese …”

Mi grattai deluso la testa.

“Una risoluzione più facile non c’è, n’est-ce pas?”

“No, non c’è!”

“Ah!”

Silenzio ieratico.

“Bien, se non hai altro da aggiungere, mon très cher Albert, io ti darei l’assoluzione …”, riprese l’anziano prete, borbottando concentrato la formula e imponendomi le mani sulla testa, terminando infine con il segno della croce. Mi segnai velocemente, seguendo poi con lo sguardo Père Jean che si rimetteva in piedi, il peso tutto portato sul bastone. “A propos: Joyeux Noël, Albert, se non dovessimo rivederci per la Messa di Natale! E mi raccomando: salutami la nonna, la mamma, il papà e Samuel, Kristian, Michel e Antoine!”

Gueh? Plaît-il?

“Euh - ouais et bien- heu, bien -heu … pardon, chi?”, fu la mia intelligentissima e acuta richiesta di ulteriori delucidazioni, sennonché l’imperturbabile sacerdote si era già appostato accanto ad un’altra anima bisognosa della confessione pre-natalizia. Perché solo a Natale si mandava al diavolo l’orgoglio laico, sovvenendoci d’un tratto di essere anche noi mortali ed eleggibili alle pene ultraterrene.

“Tzé! Sedici anni che bazzico in questa parrocchia e ancora non ha imparato il mio nome! Beh, almeno non me lo storpia in uno più femminile!”, captarono le mie orecchie questo sardonico e improvviso commento alle mie spalle.

“Gyah!”, squittii indecentemente, eseguendo un’acrobatica capriola che portò le mie fesses a stretto contatto col gelido pavimento della chiesa, nello specifico quasi sotto il bancone dove trovai per la cronaca una moneta da un euro. Fortunatamente, non trascorsi troppo tempo nella mia nuova accommodation di fortuna, giacché una forte zampa mi issò in piedi, spolverandomi in seguito là dove la polvere mi aveva infarinato di grigio. “Aiolia, espèce de sauvage: che ci fai tu qui?”, rimbrottai severamente l’ultimogenito dei Valavitis, il quale era sbucato alla vigliacca dietro di me.

Guardandomi dritto negli occhi da dietro il banco, il piccolo Aslan mi ritorse contro abilmente la domanda: “Potrei dire la stessa cosa a te! Passi per Sasà, ma te? Che ci fai tu qui?” In tutta onestà, se non avesse assunto quell’aria da gattone desideroso di coccole, avrei spinto lui sotto il bancone a far compagnia alle monetine cadute e agli acari della polvere.

“Ti ho posto prima io la domanda …”, gli ricordai dolcemente e al medesimo tono replicò il lionceau, mostrandomi sornione il candore dei suoi denti:

“Ouais, ma sei tu quello che è scivolato via impunito stamattina da casa, senza avvertire nessuno!”

Touché!

Sospirai a lungo. “Ero alla ricerca di consiglio …”

“In poche parole, scappavi codardamente!”

“Solo per sopravvivere, Aiolia, solo per so-prav-vi-ve-re!”, puntualizzai, scandendo la sillabazione del verbo ticchettando il ritmo sulla punta del naso di Simba, che lo arricciò, starnutendo immediatamente. “E adesso sputa il topo, eh oui mon p’tit chat!”, lo spronai, la mia proverbiale curiosità solleticata da quell’inaspettata entrata in scena del fratellino.

Sbuffando sonoramente annoiato, il lionceau mi cinse il braccio destro col suo, conducendomi fuori dal sacro edificio, emettendoci di nuovo nel traffico di un centro città pieno zeppo di persone intente nello shopping natalizio last minute. Nel frattempo, le campane della Madeleine battevano mezzodì. “A parte venirti a cercare – Milou è stato sequestrato da Papa per via di tu-sai-cosa - ne ho anche approfittato per comprare il regalo a Marin!”

All’udire il nome della mia vicina di casa, roteai rassegnato gli occhi al cielo: quando si dice essere una tête de mule! (testardo come un mulo! ndr.) Poi, però, sorse spontaneo il giusto dubbio. “Ah ouais, e con che soldi? Li hai chiesti in prestito ai tuoi fratelli?”, inquisii severo, essendo a conoscenza di quanto Papa non fosse esattamente di manica larga, quando si trattava delle paghette mensili; il che, sotto certi aspetti, era anche giustificato: finché i maggiori erano all’università, era bene badare alle spese e soprattutto, era un utile esercizio ai minori ad essere parchi e giudiziosi nei loro acquisti.

Simba eseguì una smorfia non dissimile ad un felino, cui era stata pestata la coda. “T’es fou ou quoi? Soldi ai miei fratelli? Tzé! Ignori che razza di strozzini siano quelle sanguisughe antropomorfe, coi loro interessi al secondo! Contrariamente a te …” e mi lisciò sornionamente il braccio. Arcuai sospettoso un sopracciglio: mica voleva dei soldi da me, vero? No, apparentemente no, ché Aiolia proseguì imperterrito sebbene meno vivace di prima. “In ogni modo, mi sono recato dall’amico del cugino di un mio amico per uno scambio vantaggioso … così ho ottenuto i soldi per il regalo di Marin …”

Per nulla rassicurato dalla dubbia natura di quel commercio, mi bloccai all’improvviso, sciogliendomi dalla dolce presa del mio fratellastro, che avanzò di riflesso di qualche passo senza di me. “Plaît-il? Aiolia, cosa diavolo hai combinato? Che genere di scambio?”, mi preoccupai immediatamente, sospettando che si fosse messo in grossi, grassi e seri guai. Sperai di sbagliarmi, ma con loro non si sapeva mai.

Cambiando nervosamente peso da una gamba all’altra, il ragazzo protestò vivace, sebbene evitando ad ogni costo il mio sguardo indagatore. E ciò non mi tranquillizzava di certo. “Ma che pensi? Si è svolto tutto in un contesto assai morigerato!” e per poco non mi provocò una sincope, giacché l’ipotesi di uno scambio in natura non mi era neppure passato per l’anticamera del cervello e strangolai mentalmente il lionceau per avermela anche solo suggerita.

“Peu m’importe!”, berciai molesto, battendo imperioso il piede per terra, più che altro per scacciare l’orribile immagine di un Aiolia impegnato in situazioni cochonnes. “Che genere di baratto, chenapan?”, e accorciai in lunghe e infuriate falcate la distanza tra noi due, i nostri nasi a qualche centimetro tra di loro.

“Mais …”, farfugliò a disagio lui, ancora rifiutandosi di guardarmi dritto negli occhi e le gote d’un tratto cremisi e non esattamente a causa del freddo invernale.

“Aiolia!”, lo incalzai  allora inclemente, strattonandolo per il braccio e costringendolo ad alzare lo sguardo. “Non fare il cretino e dimmi che cosa hai dato a questo tizio in cambio dei soldi!”

Tirando su col naso, Simba mormorò a voce bassissima: “Non mi sfotterai, vero?”, volle assicurarsi in un flebile sussurro, cosa che causò un sonoro e spazientito sbuffo da parte mia. Spronandolo per l’ennesima volta a confessare il suo misfatto, il piccolo Aslan si inumidì le labbra e, respirando profondamente, mi rivelò il suo scandalosissimo segreto: “Questo tipo è il proprietario di un negozio di gadget e trappole varie … sai, quello un po’ fuori centro, hai presente?” e, dinanzi al mio cenno affermativo, egli proseguì: “Bien, perché da mesi mi tampinava su una certa mia raccolta che desiderava acquistare, ma che io gli ho sempre negato … fino ad oggi …”

“Arriva al dunque!”

“Ehm … gli ho venduto la mia intera collezione di cards dei Pokemon! Quelle della prima serie!”

Spalancai incredulo la bocca, non riuscendo a credere alle mie orecchie. “Quelle del 1998 della prima generazione?!”

“Ouais!”

“Avevi tutti i 151 e glieli hai venduti?!”

“Ouais, c’est ça!”

Silenzio sbalordito.

“Pazzo!”, gridai forte per la seconda volta nel giro di qualche ora, attirando nuovamente l’attenzione di qualche passante. “Come hai potuto?”, gli chiesi scandalizzato, strappandomi a momenti i capelli.

Aiolia scrollò le spalle. “L’ho fatto e basta!”, ammise candidamente, seppur lui per primo apparisse non proprio orgoglioso delle sue azioni. “Mi servivano tanto quei soldi, Momus! Eppoi, mica glielo ho regalata: ne ho ricavato un bel gruzzoletto!” e a mo’ di prova mi aprì un portafoglio assai gonfio di banconote.

“Uhm, je vois …”, ammisi un po’ rabbonito davanti quella danarosa visione: se la metteva così, la sua idea appariva meno folle di prima. “Mais quand même, Aiolia! Non avrei mai pensato, che saresti arrivato a tanto pur di fare il regalo a Marin! Enfin, eri molto affezionato a quelle cards!”, obiettai perplesso, addolcendo la presa al braccio del lionceau che si strinse nuovamente al mio arto, proseguendo la nostra passeggiata. In fondo, però, lo capivo: fossero stati i ruoli invertiti, mi sarei molto probabilmente comportato come lui. La maledizione di essere troppo generosi.

 “Beh, sono affezionato anche a Marin! In ogni modo, non so cosa mi abbia preso! Semplicemente, ho telefonato al tizio dicendogli che accettavo la sua offerta, poi sono corso in camera di Milou e ho tirato fuori dal baule l’album; ho preso la corriera ed eccomi qua!”, mi riassunse Aiolia l’intera vicenda, calciando un sassolino distrattamente. “Mah! Sarà stata l’ennesima litigata tra Kanon e Rhada ad avermi persuaso a compiere questo gesto!”

Di nuovo, mi bloccai bruscamente, trascinando però stavolta anche il mio fratellastro. “Frena, frena, frena! Quale litigata?”, m’informai disorientato: passasse per Kanon vs. il mondo, ma bisticciare con Rhada? Che avessi inteso male? Enfin, scatti di gelosia a parte, quei due parevano il ritratto della salute di coppia, com’era possibile che ci fosse stato un motivo di alterco tra di loro?

“Stamattina, subito dopo che te l’eri filata via all’inglese!”, mi spiegò infelice Aiolia, le cui orecchie dovettero ancora pulsare a causa degli strilli inumani di un gemello minore furente. “Rhada era furioso perché ieri Nônon aveva ignorato completamente le sue chiamate. Non era colpa di quest’ultimo, però! Enfin, la discussione di ieri …” e mi lanciò un’occhiata significativa. “Comunque, non ho mai sentito mio cognato così arrabbiato:  Se non ti rispondo io, casca il mondo! Ma se Vossignoria non si degna di controllare di tanto in tanto il cellulare, allora tutto va bene!, gli ha berciato lui. E Nônon: Contrariamente a chi so io, non sono telefonin-dipendente! e Rhada:  Giusto! Ha parlato quello che mi chiama a tutte le ore, in ogni luogo si trovi! Non pigliarmi per fesso! e via litigando … In sostanza, Rhada accusava Nônon di avergli telefonato l’altro ieri verso mezzanotte-l’una e di avergli causato per poco un infarto …”

“Non sarebbe la prima volta …”

“C’est exact!”, convenne il lionceau, annuendo grave col capo per poi sciogliersi in una fresca risatina, cui mi unii volentieri.

Dopo un po’ ci calmammo, riprendendo il filo del discorso. “Ma … ma cosa aveva Kanon di così urgente da comunicargli a quell’ora?”, gli domandai incuriosito, rimanendo un poco deluso dalla rassegnata alzata di spalle di Simba.

“E’ qui l’inghippo: Nônon ha affermato di non aver mai effettuato quella chiamata, malgrado il suo alibi non reggesse! Inoltre, stamattina era di umore orribilmente  nero – causa anche quel che è successo ieri – sembrava letteralmente impazzito! Quindi ci è andato un po’ pesante con le parole: non voglio neanche ripeterti cosa gli ha urlato dietro! Non che Rhada sia stato più clemente, veh! Pensa che ad un certo punto – mi pare  quando Nônon gli abbia accennato del funerale, senza però dire che era del Prozio - gli ha sbattuto in faccia il telefono e, sebbene nostro fratello, dopo essersi calmato per benino, abbia disperatamente cercato di richiamarlo, non si è neppure degnato di rispondere lui questa volta!”

Rimasi sinceramente allibito da quell’inaspettato lato del carattere del mec di Kanon: bordel, non me l’ero mai immaginato così vendicativo! Tuttavia, riflettendoci, fui costretto a raffreddare la mia sorpresa per una triste consapevolezza; mi era passato di mente, infatti, che Rhada condivideva il medesimo segno zodiacale di Milo e di conseguenza la sua diversa concezione della parola perdono. E gli anni trascorsi a ricevere le ripicche del bicho mi avevano hélas confermato questa teoria.

“E Kanon come l’ha presa?”

Sconsolato, il lionceau scosse il capo. “L’ultima volta che l’ho visto, Sasà e Milou lo stavano trascinando via dalla cucina; a quanto pare, era sua ferma intenzione tentare il suicidio per overdose di polpette ripiene di Mamie …”

“Un momento!”, mi voltai di scatto verso lui, provocando per poco una collisione tra i nostri due nasi. “Mamie sta preparando le polpette?”

Confuso, il piccolo Aslan annuì incerto. “Pourquoi? Y a-t-il quelque chose de louche?” (Perché ? C’è qualcosa di losco ? ndr.), s’informò preoccupato, il settimo senso – quello della sopravvivenza a tutti i costi – attivato immediatamente.

“Se per losco intendi un Natale on the road, beh, hai perfettamente ragione!”

Silenzio del ramingo pellegrino.

“Oh, vuoi dire che …”, esclamò Aiolia tra il deliziato e l’apprensivo, unendo i polpastrelli all’altezza della bocca.

“… ouais, che Mamie è d’accordo a presenziare con noi al funerale del Prozio Cardia!”, terminai per lui, incrociando le braccia al petto. “Quando siamo in partenza, prepara sempre le polpette!”

“Il funerale è fissato per il 27 dicembre di mattina … Hey! Mica hanno intenzione di sottoporci a undici ore consecutive di macchina, vero?”

“Uhm, dubito: per questo ho previamente affermato un Natale on the road. Se non erro, partiremo proprio il 25 e sosteremo a Parigi, dove abbiamo la casa, e già lì sono quasi sette ore; dopodiché, il giorno dopo per Strasburgo sono solo cinque ore di viaggio. In questo modo, possiamo assistere alla veglia funebre prima del funerale effettivo!”

“Come se scalpitassi di presenziare all’inumazione del Prozio!”

Feci spallucce, segnalandogli tacitamente che neanch’io impazzivo all’idea di rovinarmi il primo Natale con la mia nuova famiglia, per partecipare al funerale del mascalzone che aveva sfasciato quella di Maman. Inoltre, ritornare così presto là dove l’intero imbroglio aveva avuto inizio - e dove si era ulteriormente ingarbugliato a causa mia e di Milo– non mi entusiasmava affatto, anzi, era piuttosto inquietante sotto molti aspetti.

Specialmente l’essere costretti in otto in un appartamento …

 

***

 

Münster, Germania, Vigilia di Natale.

Sera.

 

 “E se mettessi i tovaglioli rossi a tavola?”

“Uhm …”

“E se preparassimo altri cinque Knodel?”

“Uhm …”

“E se andassimo alla Messa di mezzanotte, invece che a quella delle dieci di domani mattina?”

“Uhm …”

“E se facessi pace con Hagen, invitandolo a pranzo?”

“Uhm …”

“E se …”

“E se mi lasciassi telefonare in santissima pace, Freyja? Uh? Che  ne dici di questo?”

“Ma, sorellona …”

“Sparisci!”

(Esempio di conversazione banale pre-natalizia in una famiglia tedesca medio – borghese.)

“Na gut, na gut … Tzé! Che caratteraccio!”, capitolò una Freyja alquanto offesa, ritirandosi sdegnata nel tepore della cucina, nella quale bollivano e sfrigolavano le padelle a gogò. Riappostatasi accanto alla madre e agli membri della famiglia lì riunitasi, incominciò allora subito a tampinarli con quei suoi dubbi esistenziali riguardanti la cena della Vigilia e il pranzo di Natale del giorno successivo. Il tutto, condito dal refrain Tanto Saga non ti risponde, è inutile che ti ostini a chiamarlo!

Ignorando con ogni fibra  del suo essere la sorellina rompiscatole, la signorina Hildegarde Morgenstern ricompose per la milionesima volta il numero del suo inquilino, promettendogli al suo ritorno un semestre degno dell’inferno dantesco, se non le avesse immediatamente risposto: eppure, si erano messi d’accordo di sentirsi alla Vigilia per scambiarsi gli auguri! La giovane donna sbuffò sonoramente, interrogandosi sul motivo di quello strano silenzio da parte del ragazzo. Che, come al solito, ci fosse stato dietro lo zampino del suo insopportabile gemello? Uhm …

A onor del vero, tuttavia, non si sarebbe sorpresa se quell’improvviso eclissarsi fosse stata una diretta iniziativa di Saga: ultimamente, benché si sentissero abbastanza spesso via Skype, si comportava in maniera più ermetica del solito, fatto sottolineato dalla nuova e cattiva abitudine di abbassare gli occhi o volgerli altrove ogniqualvolta Hilda discorreva con lui. Senza contare i suoi goffi tentativi di cambiare discorso, quando la conversazione volgeva su questioni leggermente più private. Vero era, che con il terzo incomodo nei paraggi – Kanon – era pressoché impossibile terminare una chiacchierata in santissima pace, senza che quest’ultimo interferisse in qualche perversa maniera, tipo manomettere l’account di Saga su Skype. Ciononostante, aveva percepito lo stesso una crescente aura di disagio provenire dal gemello maggiore, come ad esempio era accaduto un giorno in cui lei, sistemando quel casino che era la camera del giovane nel periodo in cui era sotto esami, gli aveva accidentalmente sfiorato la guancia con l’avambraccio. La reazione di Saga era stata fulminea: neanche l’avesse ustionato coi ferri roventi, egli era scattato bruscamente in piedi, raccogliendo in fretta i libri e gli appunti, rifugiandosi in un nanosecondo alla volta della cucina.  Da quel momento in poi, il franco-greco si era auto esiliato in biblioteca, costringendo l’infaticabile locatrice a venirlo a prelevare per i capelli, quando era seriamente tardi per la cena.

Strano comportamento, eh?

E invece no: incredibile, ma vero, c’era una spiegazione logica a quell’intricato bordello affettivo.

Perché infatti Hilda non era arrivata per niente al ruolo di middle manager di R&P a neanche ventisette anni suonati: aveva intuito benissimo, dopo settimane di acuta osservazione e riflessione, cosa bolliva nel complicato cervello del suo inquilino. Sì, complicato, ecco l’unica parola per descrivere al meglio l’atteggiamento di Saga nei suoi confronti. Che lei non gli fosse indifferente l’aveva sospettato, così come s’era insospettita che tale interessamento fosse nato proprio quando Siegfried e lei stavano insieme. Voluttuosa curiosità che si era prontamente ritirata nella sicura trincea dell’amicizia, non appena Hilda aveva chiuso col suo meco: infatti, da allora Saga era sempre stato sulla difensiva, abbandonando tutte quelle piccole carinerie e attenzioni  con cui aveva sovente coperto la giovane donna. Un comportamento, riassumendo, apparentemente irrazionale e contraddittorio, nel quale Hilda seppe trovare contro ogni pronostico e scetticismo una logica alquanto inquietante nella sua semplicità: appunto perché lei era, per così dire, occupata che Saga l’aveva cercata; in questo modo, aveva trovato il compromesso perfetto per appagare l’istintuale desiderio di avvicinarsi fisicamente a qualcuno e, al medesimo tempo, di rifuggire codesto contatto giacché non stava bene insidiare l’altrui fidanzata.

Masochistico, pazzesco e cervellotico, ma il ragazzo sembrava assai soddisfatto di quella soluzione e Hilda, non esercitando la professione di balia, non lo aveva forzato a spiegarle chiaro e tondo le sue ragioni. Tanto, alla fine le aveva comprese lo stesso, specie dopo aver inquadrato per bene quella bestiaccia selvatica del suo inquilino.

E poi, c’era la questione dell’Altro. Una piccola e trascurabile questione invero, che però aveva il potere di scatenare i peggiori istinti sadici da tutte le parti coinvolte.

Con calma, però, un fatto alla volta.

Dunque, come ogni esponente del sesso femminino, neppure Hildegarde Morgenstern era esente dai nocivi effluvi del gossip; fatto assai naturale del resto, ritrovandosi appunto un soggetto interessante quale Freyja come sorella, la quale non perdeva occasione di subissarla degli ultimi succosi pettegolezzi sui vicini, amici, parenti e serpenti. Infatti, la ragazza aveva l’inquietante dote di essere più informata sugli affari degli altri dei medesimi interessati e questa sua abilità venne prontamente confermata anche nel giorno in cui Saga divenne il loro inquilino: intanto che il ragazzo disfaceva la sua valigia, la sorellina l’aveva presa in disparte nello studio, raccontandole eccitata una certa storiella che correva sul conto del gemello maggiore, la quale aveva avuto luogo nel periodo in cui Saga aveva studiato per un anno in un liceo di Weimar per migliorare le sue conoscenze del tedesco. Com’era ovvio immaginarsi, Hilda non ci credette neppure per un istante: la maldicenza è ovunque, diceva un vecchio e saggio proverbio ch’ella aveva sin da piccina onorato con  fervore.

Malgrado questa sua massima di vita, però, la giovane donna fu costretta a capitolare dinanzi alla veridicità di quanto spettegolato da Freyja, almeno circa la parte riguardante l’ardore con cui i due baruffanti si guardavano in cagnesco.

No, seriamente! Era da impazzire quando quei Caino e Abele s’incrociavano per strada!

Sebbene lei per prima fosse molto cauta ad esprimere certi giudizi sulle vicende umane, Hilda si era resa conto dell’assurdità vigente tra quei due cretini – altra parola non c’era per definirli – sin dal giorno in cui aveva avuto la (s)fortuna di accompagnare Saga alle lezioni extracurriculari di anatomia del Professor Shion – un altro soggetto poco raccomandabile  - ovvero quelle in cui pochi allievi coraggiosi e dallo stomaco forte riuscivano a reggere l’ennesimo cadavere sezionato da quel vecchio indiavolato e questo perfino di domenica pomeriggio.  Meno male, che erano divise in due turni, così lo studente poteva giostrarsi a seconda della velocità del suo processo di digestione. In ogni modo, il suo inquilino e lei avevano appena messo piede sul primo scalino conducente alla sala anatomica, quand’ecco che la porta di quest’ultima si era spalancata e la Pietra dello Scandalo, o Aiolos Bogenschütze per gli amici, uscì scendendo tranquillo, un quaderno rigonfio di appunti e schede sottobraccio e il camice bianco ancora indosso.

Gli sguardi dei novelli Tom e Jerry s’incontrarono immediatamente, facendo sì che i loro proprietari si fossero bloccati in sincronia perfetta. In mezzo a loro, Hilda li fissava in interdetta attesa di eventuali sviluppi.

Silenzio di morte.

“Oh, Guten Tag, Saga!”, lo aveva salutato cortese Aiolos, elargendogli un grande sorrisone. “Guten Tag, Fräulein!”, aveva aggiunto poi, rivolgendosi alla giovane donna, che assentì tramite un breve cenno del capo.

E con sommo stupore di quest’ultima, il gemello maggiore aveva anche lui adottato quella formale cortesia, sorriso di circostanza incluso nel prezzo. “Tag, Aiolos!”, aveva replicato gentile, sennonché, dopo qualche passo, Hilda giurò di averlo sentito borbottare abbastanza forte da essere udito dall’altro: “Stronzo!”, gentilezza che Aiolos aveva prontamente ricambiando con altrettanto fervore attraverso un sentito:

“Coglione!”, proseguendo infine entrambi in direzioni opposte, uno scendendo l’altro salendo le scale.

Queste furono le circostanze in cui Hilda conobbe la nemesi storica del suo lunatico inquilino.

Non che questo Professor Moriarty fosse meno problematico, anzi! Il loro secondo incontro, avvenuto senza Saga, si era svolto sotto circostanze piuttosto particolari e non esattamente favorevoli, non dopo essere stata costretta a una cascata di continue lamentale da parte del suo inquilino su quanto quel decerebrato gli stesse antipatico. Di conseguenza, il giorno in cui vide il detto scervellato sostare in maniera assai sospetta davanti al suo appartamento, lei non esitò un secondo a scendere giù; a salutarlo improvvisamente da dietro le spalle facendogli così prendere un colpo; a pigliarlo per il colletto della camicia quando lui tentò di scappar via ed infine a trascinarlo dentro casa, dove lo fece accomodare pesantemente sul divano, pronta  per l’interrogatorio.

Quella non proprio tacita faida tra i due caballeros aveva, infatti, raggiunto livelli troppo schifosamente cosmici per essere ulteriormente ignorata; necesse erat una spiegazione, che non fosse annacquata dal velenoso fiele del preconcetto. Degna erede, quindi, del caro Salomone, Hilda desiderava ora anche la versione dei fatti di Aiolos, giacché quella di Saga ormai l’aveva imparata a memoria fino alla nausea, tanto gliela aveva ripetuta ogni qualvolta s’imbatteva nel das Wesen (l’essere, ndr.).

Il verdetto era stato positivo.

Lo aveva, infatti, ascoltato senza interromperlo, silenziosa e attenta, la mente sgombera da ogni pregiudizio. E mentre parlava, Hilda non aveva scorto in quegli occhi dal colore così strano né doppiezza né inganno; al contrario, solo una sincera volontà di spiegare, di chiarirsi e chissà, magari pure di riappacificarsi con una persona cui lei percepiva essergli in qualche oscuro modo cara. L’ostinato –e  perché no – altezzoso rifiuto di Saga di perdonarlo lo faceva soffrire, era palese.

Peccato, che il gemello maggiore avesse trovato una testa più dura delle statue di Egina come avversario. Vero era che Aiolos, benché arciere di cognome, poteva apparire non esattamente una freccia (Gioco di parole: in francese, ne pas être une flèche significa “essere stupido”, ndr.) col suo atteggiamento così testardo, tuttavia Hilda conveniva con lui quando affermava, che era suo desiderio chiarire il famoso malinteso se non per tentare di ricucire quell’amicizia subdolamente stracciata, almeno per proseguire i prossimi anni di università in santa pace, senza che Saga continuasse a tormentarlo con dispetti che, a detta del ragazzo, offendevano assai il suo QI. In effetti, quando il gemello maggiore si metteva d’impegno sapeva essere forse più infantile di suo fratello Kanon. Inoltre, il machiavellico imbroglio tessuto a scapito di entrambi i giovani uomini era stato così ben pianificato, che la signorina teutonica non si era stupita del reciproco risentimento che uno provava nei confronti dell’altro.

In ogni modo, al momento di congedarsi, Hilda aveva assicurato Aiolos che sarebbe potuto tranquillamente passare a casa sua tutte le volte che ne aveva voglia, senza il bisogno di ricorrere allo stalkeraggio, premurandosi inoltre di dargli il numero del telefono fisso e gli orari in cui Saga non era in casa, così da poter chiacchierare indisturbati un po’ insieme: quel tipo non le dispiaceva, in fin dei conti. Leggermente scettico, lo studente di medicina aveva annuito, infilando rapido il  foglietto nella tasca del cappotto.

Infine, dopo averlo scortato con lo sguardo dalla finestra fino alla prima curva della strada, Hilda aveva aperto tutti i vetri, arieggiando l’ambiente: la paranoia del suo inquilino nei confronti dell’altro giovane arrivava a livelli tali, che solo dall’odore lasciato da quest’ultimo Saga era in grado di affermare se Aiolos avesse o meno sostato in una data stanza.

Tutto questo era accaduto all’incirca due mesi fa.

“Hilda! Molla il telefono e vieni ad aiutarci in cucina!”, la richiamò la voce della madre dalle sue cogitazioni, facendola trasalire così violentemente, che per poco non cadde dal bracciolo della poltrona, sulla quale si era appollaiata. Ricomponendosi in fretta, la giovane donna si strascinò molto lentamente verso la postazione dov’era richiesto il suo intervento, sperando man mano che procedeva nell’arrivo del proverbiale deus ex machina onde sottrarla da quell’immane supplizio.

Messo salvifico che fece il suo rumoroso ingresso attraverso lo strillo infuriato del telefono.

Hilda sorrise a trentadue denti, ringraziando mentalmente la sua buona stella. “Es tut mir Leid, Mutti! Corro a rispondere!”, si giustificò falsamente desolata, ignorando le vivaci proteste della genitrice e degli altri esponenti femminili della famiglia; pigliò invece in fretta e furia la cornetta e si rinchiuse rapidissima nella sicurezza del suo studio, la sancta sanctorum che nessuno osava varcare, se voleva seguitare a camminare sulle sue gambe e con le orecchie ancora funzionanti.

“Hallo?”, fece gioviale la giovane, entusiasmo che si smorzò in un tono più professionale quando intese assai presto, chi era il suo interlocutore dall’altra parte della linea. “Ach so, Herr Lehmann! Nein, nein, nein … non mi disturbate, figuratevi! …” In realtà sì, la disturbava eccome! Non era proprio il suo sogno proibito essere importunata dal suo capo alla sera della Vigilia di Natale! Uf! “Cosa posso fare per voi?”, gli domandò disponibile, sebbene nel suo intimo gli stesse augurando una bell’indigestione coi fiocchi.

Nel frattempo, Freyja si era affacciata incuriosita sulla soglia semiaperta dello studio, cercando di capire con chi la sorella fosse al telefono. L’unica cosa che fu tuttavia in grado di captare, fu solo un borbottio inintelligibile.

“Ach so … ich verstehe … ja, ja … il nostro partner … scusate, quando questo? Il 28 dicembre? Di già? Aber ich … insomma, avevo intenso che avrei avuto le ferie fino al 30 … nein, non è quello … tra tutti, proprio me ha richiesto? No, non rifiuto, è che è strano: per simili competenze, ci vorrebbe un senior, non un middle manager … lui è fiducioso delle mie capacità? Me ne rallegro … na gut, se la mettete così … ja, riferirò, statene certo … e sì, accetto l’incarico … partirò il 27, non vi preoccupate! Potete per cortesia ripetermi l’indirizzo? Vielen Dank! Und Fröhliche Weihnachten! Auf wiedersehen!” e riattaccò con un sonoro sbuffo la cornetta, la fronte corrugata interrogativamente: bizzarro davvero, che il loro partner – che non aveva mai visto di persona, solo sentito in quale rara occasione nominare - avesse chiaramente domandato di lei! Cosa poteva averlo spinto? Bah, era comunque una buona opportunità per accumulare dell’ulteriore e benefica esperienza nel suo dipartimento e soprattutto, avrebbe potuto chiamare quel gran marrano del suo inquilino senza spendere una fortuna!

“Allora, Hilduccia, chi era?”

Alla domanda curiosa della sorella,  l’interpellata in questione rilesse pensierosa il pezzettino di carta sul quale era scarabocchiato il nome dell’irraggiungibile vacca sacra, nonché il suo indirizzo d’ufficio per un veloce colloquio: stando alle varie indiscrezioni sul suo conto, il gran tycoon riceveva solo nel suo studiolo in centro, in barba all’etichetta del business, che gli imponeva di parcheggiare la sua carcassa nella postazione di lavoro come tutti i mortali. 

“Era il tuo capo, vero?”

Hilda assentì con uno scocciato grugnito. “Era lui: mi vogliono a Colmar!”

Il cucchiaio di legno della più giovane delle Morgenstern cadde un po’ troppo rumorosamente per terra, sporcando il pavimento con qualche goccia di minestra. “Wie bitte? Ma avevamo già prenotato l’albergo a  Garmisch- Partenkirchen per cinque giorni!”, protestò scandalizzata la biondina, spalancando indignata i grandi occhi grigio-azzurri.

“E tu disdici la mia prenotazione! Vai pure, non ti costringo a restare sola soletta a casa a filare la calza!”, fece spallucce Hilda, giocherellando distrattamente con la penna, prima di portarsela alla bocca, masticandone lentamente il cappuccio. Era un suo piccolo tic per scaricare lo stress.  

“Non è questo! Ti eri presa da tempo queste ferie e solo perché quel … quel Maunier … Molier …”

“ … Molinier-Hanns …”

“… esatto, lui! Solo perché quel vecchio bavoso schiocca le dita e il tuo capo è così pavido da non rifiutare al suo richiamo, tu sei costretta a rinunciare alle tue ferie?”

“Sono solo due giorni in meno!”, sdrammatizzò Hilda distrattamente la questione: la sua attenzione era, invece, ancora concentrata sul cognome del partner della catena d’alberghi in cui militava, suonandogli infatti inquietantemente famigliare. Dove l’aveva già sentito quel cognome?

“Ma comunque devi partire il 27 per raggiungere Colmar!”, pestò Freyja irata il piede, attirando gli altri astanti, che si sporsero incuriositi dalla cucina. “E io che speravo che avremmo trascorso un po’ di quality time insieme!”

Arcuando annoiata un sopracciglio, Hilda sbadigliò: “Ma se viviamo sotto lo stesso tetto! Di che ti lamenti?”

La minore la crocifisse con lo sguardo. “Ja sicher! Però è come se fossi invisibile, visto che te ne stai tutto il tempo o con Saga o con quell’altro comediavolosichiama … Non m’ignoravi così tanto quando eri con Siegfried …”, si lagnò la ragazza, tirando su col naso e voltandole offesa le spalle. E la maggiore era sì di carattere duro e poco atto alle smancerie, però era pure lei fatta di carne e di sangue e fu appunto per questo, e forse anche a mo’ di scusa per la vacanza sfumata, che Hilda abbracciò forte da dietro la sorellina, promettendole una seconda occasione  per andare a sciare assieme. Per tutta risposta, Freyja le intimò di girare la crema di funghi e patate, ché non si attaccasse alla pentola. Nel codice domestico, tuttavia, era il suo modo di comunicarle che l’aveva perdonata. Rincuorati, i famigliari tirarono un bel sospiro di sollievo.

In quello stesso istante, a Ribeauville, l’infaticabile matita rossa cancellava imperterrita e soddisfatta il nome di Hilda.

 “E meno due …”, commentò sorniona sempre la stessa persona alla scrivania di mogano, lasciandosi trasportare nuovamente da quella dionisiaca risata maligna con tanto di ombra malvagia alle spalle che si allungava inquietante sul muro.

“Ancora? E dillo che il tuo è un vizio, espèce de vaurien!”, la interruppe bruscamente quella voce femminile ora decisamente incavolata nera e il nostro personaggio fu costretto a chetarsi vergognoso, ridimensionando la sua figura e l’ombra stessa.

“Ma neanche un minutino?”

“Non!”

E altro non fu detto.

 

***

 

 

Mont-de-Marsan, Francia, Notte di Natale.

 

Tutta la casa era in fermento a causa dei preparativi dell’imminente partenza fuori programma: non era possibile, infatti, circolare liberamente senza sbattere contro qualcuno, pigliandosi di conseguenza una scocciata e distratta strigliata, diretta per lo più a casaccio, giacché il fustigatore di turno era così impegnato che neanche guardava in faccia l’autore dell’innocuo misfatto. L’obiettivo ultimo era di terminare ogni cosa per partecipare puntuali alla Messa di Natale, sebbene l’inesorabile avanzare delle lancette della vecchia pendola in salotto non facilitasse l’intera operazione, anzi, col suo affrettarci ci spronava a incasinarci di più la vita, lavorando rapidamente e male. A peggiorare la situazione, v’era lo spettro dell’arrivo dei nostri vicini di casa, coi quali ci saremmo recati in chiesa.

Onde velocizzarci, ciascuno si era assunto un proprio incarico e cercava di portarlo a termine meglio che poteva, impresa assai ardua, visto che appena si credeva di aver finito su di un fronte, ecco che saltava fuori un issue da un altro. Nessuno, in effetti, aveva pianificato questa gita – e non di piacere – a Strasburgo e la nostra organizzazione ne aveva risentito altamente.

E mentre le valigie venivano forsennatamente riempite e le ultime faccende liquidate, Kanon al contrario se ne stava immobile col telefono in mano, emulando l’immoto sole al centro del suo caotico sistema. Più volte e più di un componente della famiglia aveva tentato invano di schiodarlo dalla sua postazione, invitandolo ora con moine ora con imprecazioni ad attenersi al dover suo e di rendersi un poco utile nei preparativi. Niente: neanche fosse stato tramutato in sasso, il gemello minore seguitava a rimanersene vicino al mobiletto, la mascella contratta in una dura smorfia e le dita tamburellanti nervosamente sul legno. “Allez … rispondi …”, era il continuo refrain captato ogniqualvolta ci si avvicinasse a lui.

“Enfin, Nônon! Scrostati da lì e dacci una mano!”, tentò ad un certo punto Saga un ultimo disperato sforzo di smuoverlo, arrivando perfino a tirarlo per un braccio. Prontissimo, il suo doppio si era artigliato al mobiletto, minacciando di cadere con lui se lo si fosse spinto oltre. E, senza levare dall’orecchio la cornetta che squillava a vuoto, borbottò astioso:

“Sasà, vai a mangiarti in un angolino un pipistrello ammuffito e fiche-moi la paix!”

“Mon oeil!”, sbuffò l’altro, strattonando più ostinato di un mulo. “Non è possibile che qui tutti lavorino e tu te ne stia bell’e tranquillo a rigirati i pollici!”

Voltandosi di scatto, Kanon gli elargì un’occhiataccia indiavolata, comunicandogli tacitamente che non era in vena di esaudire alcuna richiesta. “Sasà … non  mi scocciare …”, sibilò pericoloso, sfida che il suo gemello non gradì – grave atto d’insubordinazione – e di fatti, le sue gote d’un colpo rosse urlarono al pestaggio natalizio.

Fortuna volle che almeno la rissa gemellare ci fosse stata risparmiata e questo grazie, inspiegabilmente, all’intervento di Mamie, che, uscendo vincitrice dalla sua ennesima dozzina di polpette, pigliò rapida Saga per l’orecchio, allontanandolo a viva forza da Kanon. “E la lascia in pace tuo fratello, non vedi che sta cercando di contattare il suo …”, e sospirò affranta, non credendo neppure lei alla parola che stava per pronunciare “…  meco?” e, dinanzi alla nostra giusta domanda sul perché avesse accettato con cristiana rassegnazione il nipote gay – cosa che dubitavo sarebbe mai accaduta nei miei confronti – ella ci rispose tra il pragmatico e il frustrato: “Che volete, mes enfants? Quel briccone mi è utile, non posso disfarmene! Eppoi, in tutta onestà, quanti uomini sarebbero disposti a cucinare al posto vostro e soprattutto a ripulire la cucina?” e dopo quest’ultima domanda esistenziale si avviò verso la detta stanza, trascinandosi seco l’altro sbuffante nipote acquisito.

“Uf, è una persecuzione questa? Tutti trascorrono un Natale tranquillo, altamente fluffoso e melenso, perché noi no? Enfin, che diavolo …”, udimmo lamentarsi il gemello maggiore, mentre Mamie se lo portava via là dove la sua presenza in fin dei conti non era necessaria, tranne per dare la possibilità al minore di riparare al casino da lui medesimo combinato in mattinata. Infatti, malgrado i numerosi messaggi inviati via internet e cellulare, il suo meco si era rifiutato sdegnosamente di rispondergli, ignorando inclemente ogni sua iniziativa di riconciliazione.   E non che Kanon non fosse stato costante nel suo proposito: molti eventi si erano susseguiti durante la giornata e lui seguitava testardo in quelle chiamate a vuoto.

Stava ancora telefonando, quando Aiolia ed io eravamo rincasati con il nostro regalo di Natale.

Era ancora attaccato alla cornetta, perfino quando venni a mio turno sottoposto al tribunale domestico, ergo confessare pubblicamente davanti a Maman e a Papa la mia relazione di natura non esattamente fraterna con Milo e meno male che avevo il bicho a farmi da avvocato difensore: temetti, infatti, di aver rischiato di qualche grado lo scioglimento, tale era l’imbarazzo di dover spiegare certe cosucce a Maman, la quale mi aveva fissato per tutta la durata dell’interrogatorio dolcemente sconsolata. Almeno, mi disse alla fine, abbracciandomi neanche fossi moribondo, almeno sei stato sincero con te stesso. Ma soprattutto, la vera manna consistette nella totale assenza di Mamie a quel simpatico colloquio. In ogni caso, non fu poi così terribile come Milo ed io ce l’eravamo immaginato, sebbene sospettai che la fetta più grande della solenne lavata di capo se la fosse beccata proprio lo scorpion lubrique.

Insomma, nel frattempo che tutti questi avvenimenti prendevano luogo, Kanon aveva piantato le radici davanti a quell’insulso mobiletto sia a pranzo, che per le ore che seguirono, degno emulo della povera Dafne. Il mondo poteva cascargli addosso nella sua interezza, lui non si sarebbe spostato di un centimetro.

Senza però dirlo ad alta voce e per ovvi motivi di sopravvivenza, non potei non provare pena per lui: benché dalla parte evidente del torto – Milo mi aveva riferito in bagno la valanga di insulti con cui aveva subissato Rhada – il suo pentimento era evidente e l’espressione tesa, quasi fosse sull’orlo delle lacrime – quelle vere – mi persuadeva ad ogni minuto che passava quanto si stesse maledicendo per non aver saputo trattenere la lingua. E il respiro di sollievo, commutato in un singulto di pura delusione quando finalmente qualcuno dall’altra parte della Manica si degnò di rispondergli, mi spinse a pensare che forse Rhada era stato un po’ troppo crudele nei suoi confronti.

“Ah, sei tu Violante!”, mormorò amareggiato Kanon, appoggiando pesantemente il mento sul palmo della mano, onde non romperselo contro il duro legno del mobiletto. Sistemandoci in un punto strategico, drizzammo le orecchie onde captare qualche succoso dettaglio riguardante le cause di quell’inaspettato litigio natalizio.

“Of course, chi ti aspettavi? Beowulf?”, la voce della giovane donna era dura, severa. A quanto pareva, il cugino doveva essersi sfogato con lei e il cielo solo era a conoscenza dell’infinita lista di j’accuse, che il giovane le aveva srotolato.

Tossicchiando a mo’ di incoraggiamento, il gemello minore avanzò la sua proposta indecente in un lieve sussurro: “Volevo conferire con Rhada …”

Una secca risatina. “Ah, adesso vuoi parlargli!”,ovviamente, il tono di Violante era canzonatorio.

Nuance, che non sfuggì di certo al re degli sbeffeggiatori, ora detronizzato e deriso da ciascuno a causa della capricciosa ripicca del suo regale consorte. “Ho sbagliato, scusami!”, fu il suo sentito mea culpa, intanto che scuoteva veemente la cornetta del telefono, triste sostituto delle spalle della mora.

“Con me ti scusi?”, giusta osservazione.

Nuovamente, l’impunito per eccellenza tentò il secondo attacco alla torre dov’era rinchiusa la sua bella, dimenticandosi che il meco – più che la damigella in pericolo – corrispondeva forse più al drago guardiano contro cui scontrarsi. Molto probabilmente, nessuno aveva mai istruito a dovere Kanon sull’abc delle fiabe della buonanotte. “Se me lo passassi, magari chiederei scusa a lui!”, le propose dolcemente sfacciato, oh que oui, perché  bisognava essere ciechi, sordi e cretini per non comprende che il franco-greco si stava rivoltando dal rimorso.

A quanto pareva, Miss DeBeaumont doveva rientrare in una delle tre categorie; siccome però è una signorina e di loro non è gentile sparlare, non mi dilungherò oltre su questo punto. “Non può! È occupato!”, gli spiegò assai vaga, troppo per essere credibile.

Sentendosi giustamente preso per i fondelli, Kanon ci tenne a precisare che sì, era disposto ad emulare Enrico IV a Canossa, ma che tuttavia primo, la sua buona intenzione fosse presa sul serio e secondo, che gli fosse lasciata perlomeno una parvenza di dignità nella sua cosparsa di ceneri sul capo in diretta telefonica. “Listen, Violante, digli che se non mi vuole parlare, di scegliere almeno una scusa migliore!”, protestò indignato il gemello minore. Gli cadde per poco la mascella, e noi assieme a lui, quando Violante replicò invece candidamente:

“No really, è sul serio occupato: è uscito adesso con Aiacos e i ragazzi, tornerà fra qualche ora …”

“Quando posso richiamare allora?”, l’incalzò il gemello minore, fiutando speranzoso una tenue speranza di riconciliarsi con la sua Vouivre adorata. Ma …

“Uhm, sincerely I don’t know. Dopo andiamo alla funzione di mezzanotte e …”

 E ogni speranza di ottenere il perdono da parte di Rhada era salita nella slitta di Père Noël per le gelide lande del Polo Nord. “Ho capito; gli manderò domani un messaggio di auguri …”, bofonchiò Kanon stordito e sconfitto, sedendosi lentamente sui talloni, la testa che gli girava d’un tratto.

“Meglio così ...”, commentò incolore la giovane mora. Ne seguì un incomodo silenzio per entrambi. Infine, sospirando a lungo, gli augurò un poco entusiastico: “Happy Christmas, Kanon!”, cui il beneficiario replicò in un sordo e scettico:

“Uhm …”

“E Kanon … Mi … mi dispiace tanto per la vostra perdita … Condoglianze, davvero!”, aggiunse Violante con la più sentita partecipazione, chiudendo in seguito la chiamata e abbandonando il gemello minore alle sue lugubri elucubrazioni per qualche minuto buono, con la cornetta ancora appoggiata al padiglione auricolare, ascoltando come trasognato il monotono tambureggiare della linea occupata. Dopodiché, ridestandosi da quella inquietante trance, si pose in piedi e barcollò fino al divano, sul quale sostò immobile e indisturbato (la sua espressione prometteva le pene dell’inferno a chiunque lo importunasse) finché i vicini di casa non suonarono il campanello, pronti ad accompagnarci alla piccola chiesa del paesino a qualche kilometro da casa nostra. Solo in quel frangente lui si alzò e, facendosi quasi violenza, tornò a comportarsi come il solito birbo malnato qual era.

Ma era un sorriso falso, falso …

Fu durante la Messa che - sgomitando per respirare un po’ di aria fresca, che non fosse appestata dal tanfo di profumo, incenso, fiori e hélas anche sudore – scoprii finalmente l’intimo dubbio, che aveva spinto Kanon a comportarsi da vandalo in ogni senso possibile e immaginabile. Il ragazzo si era infilato quasi strisciando dove Milo era schiacciato contro la parete da due floride matrone, essendo infatti la chiesetta talmente piena da impedire una qualsiasi forma di circolazione normale; infatti, benché la mia famiglia ed io avessimo varcato la soglia dell’edificio sacro con la ferma intenzione di rimanere uniti fino alla fine, dopo appena qualche passo eravamo già stati travolti da una pressante massa di fedeli che, benché laici fino al midollo durante l’anno, si riscoprivano d’un tratto cristiani a Natale. Di conseguenza e senza sapere come, mi ritrovai incastrato assieme a Saga nel confessionale in fondo alla chiesa, lui direttamente sugli scomodi gradini di legno, mentre io avevo eletto le sue gambe a mia personale poltrona, mettendo a dura prova la resistenza e sensibilità dei suoi arti inferiori. Il che mi dispiaceva, specie quando lo sentivo mugugnare per i crampi. Fu per questo motivo che ad un certo punto mi staccai da lui alla ricerca degli altri desaparecidos: Mamie, Maman , Papa e i vicini, cui ovviamente non riuscii a ricongiungermi, benché qualcosa mi dicesse che Aiolia aveva trovato un subdolo escamotage per potersi avviluppare impunito attorno a Marin e che se la stesse godendo abbondantemente.

Ritornando a Kanon, egli si era faticosamente appropinquato a Milo,  e, una volta raggiuntolo, lo aveva tratto in disparte, ovvero messo a sedere dietro una sicura barriera di formose gambe nascoste da altrettanto voluminosi cappotti o pellicce. Ignorando quanto gelido e duro fosse il pavimento sotto le loro ginocchia, si misero poi a gattonare per qualche metro, riparandosi definitivamente nell’angolo di fortuna provvisto dal piccolo altare di pietra di un tabernacolo. E lì per puro caso, badate non mi piace origliare, assistetti alla confessione del mio secondo fratellastro maggiore.

“Milou”, esordì quegli, torturandosi a disagio le dita guantate, “crois-tu … credi che … che io mi sia comportato esattamente come il Prozio Cardia?”, gli chiese tremendamente serio, lo sguardo attento. Ora comprendevo perché, tra tutti i fratelli, avesse scelto proprio il bicho: la dura lex del similis cum similibus valeva anche per i dubbi esistenziali e quelli di Kanon, essendo di natura assai particolare, necessitavano di un parere appartenente al suo stesso campo. Ma cosa più importante, realizzai il motivo alla base di quell’atteggiamento così nervoso e suscettibile da parte sua. Nonché della sua paranoica gelosia nei confronti del meco.

L’espressione d’un colpo tesa di Milo al solo udire nominato Le Grand Coquin  (Il Gran Mascalzone, ndr.) lo spronò a spiegarsi meglio: la fedina dei Valavitis era già abbastanza piena di capi d’accusa, da non lasciar spazio ad una seconda canagliata rispetto a quella perpetuata dal famoso Prozio, a.k.a la fonte di tutte le magagne famigliari, corna in primis.

“Ecco, è da un po’ che ci penso … enfin, dal momento in cui Rhada ed io ci siamo messi ufficialmente insieme …  La storia di Mamie, poi … il modo ignobile in cui il Prozio ha circuito suo marito … poverina, io le voglio tanto bene, le malefatte del Prozio mi fanno sentire indirettamente una carogna nei suoi confronti … (Mi chiedo come tu possa convivere col senso di colpa dopo averle sverginato il nipote … Ops! Dai, via quell’espressione omicida, tanto lo sapevo già!) … E stamattina, quando Rhada mi ha telefonato, ecco io … mi … mi sono sentito male, quasi in colpa e più del solito … Non potevo ascoltare serenamene la sua voce, senza  … Enfin, a volte ho come l’impressione di averlo rubato ingiustamente a Pandora … Voglio dire che lui … ehm … lui non solo non mi aveva considerato in qualità di futuro compagno … non  … non si era mai neanche immaginato di sapersi … hai capito, no? E’ … è quasi l’avessi costretto … se io non mi fossi messo in mezzo … forse a quest’ora non avrebbe avuto un rompiscatole a montargli su tante scenate di gelosia … sarebbe più felice … tranquillo …”, si confidò Kanon al fratello, corrugando afflitto la fronte. Ponendosi dal canto suo due dita sulla guancia, Milo ascoltava in silenzio, intuendo che quella sofferta confessione era lungi dall’essere conclusa e soprattutto che al termine di essa il gemello minore avrebbe affermato qualcosa di estremamente cretino, tipo: “E ci lasciassimo?”, proposta che fece arcuare il sopracciglio ad uno scettico scorpion lubrique. “Non mi guardare così o ti spacco la faccia!”, lo rimbeccò adirato l’altro giovane, non tollerando di essere sfottuto adesso perfino dai mocciosi. Quand’era troppo era troppo. “Sono serissimo, che credi? Che ti stia pigliando in giro? Ci ho riflettuto a lungo e forse sarebbe meglio troncare qui la nostra relazione: a conti fatti, ci faremmo un reciproco favore …”

Schioccando pragmatico la lingua, Milo commentò sardonico: “Se per favore intendi spedire Rhada a soli ventitré anni sottoterra per lo shock e poi fargli compagnia un minuto dopo per il dolore di tal perdita, eh bien, vas-y hai la mia benedizione!”, beccandosi per il suo ardito consiglio un doloroso colpetto al braccio.

Infatti, Kanon non ne aveva apprezzato il grondante sarcasmo. Stringendosi invece al fratello, gli passò un braccio attorno ai fianchi, sfogando in un concitato e a volte poco coerente fiume tutte le spine, che gli martoriavano il cuore: “Tu non capisci, bicho! Finché è ancora studente, il nostro rapporto verrà giudicato come un capriccio, una parentesi dovuta alla curiosità! Ma poi, quando incomincerà ad esercitare la sua professione, cosa diranno? Non voglio in alcun modo intralciargli la carriera! Senza contare l’ostracismo famigliare in caso dovessimo consolidare una volta per tutte il nostro legame: per quanto lo camuffino bene, Rhada a causa mia è già a malapena tollerato dai suoi genitori, non voglio che egli se li alieni completamente! Quelle poche volte che li vedo, sto male! Mi fissano pieni di stizza, come se avessi trasformato il loro figlio in un delinquente! Mi accusano, sì, mi accusano tacitamente di averlo traviato! Di averlo rubato alla legittima propriet-ehm, fidanzata! Non lo sopporto! Alla lunga è snervante! Senza contare, che Rhada ha un debole per i bambini … Fa il nesci ogni volta che entriamo in argomento, si comporta da vecchio brontolone coi nipoti e cuginetti, però … però vedo come sotto sotto gli piacerebbe avere dei figli tutti suoi! Che io non posso dargli ! … E viceversa, ovviamente, oh, chi l’ha detto che io devo fare la mamma?!”, aggiunse convinto dopo averci riflettuto un attimo. Dopodiché scosse il capo, riprendendo la sua agitata confessione: “Certo, potremmo ricorrere a … eh no! Col cavolo che voglio il suo Dna mischiato a quello di un’altra donna!”, si arrabbiò col vuoto il gemello minore, stritolando la vita del bicho, il quale appoggiò una mano al suo petto facendovi leva, onde evitare di ritrovarsi un indesiderato vitino da vespa. “E se diventassi donna?”, gli domandò il fratello maggiore, provocando per poco una sincope nel minore, che strabuzzò disgustato le palpebre. “Nah, mi piace essere maschio … Eppoi, sarebbe dura accomiatarsi dai miei zizì …”, e Milo annuì con insolita energia, la mente ancora turbata dalla tremenda visione di un Kanon in versione transessuale. “Che poi c’è la quest- …”, fece il più anziano per continuare, sennonché l’altro glielo impedì, tappandogli estenuato la vulcanica e inarrestabile bocca.

“Nônon, assez parlé!”

“Mmmnnnppphffff …”, s’ostinò invece il gemello minore a continuare, muovendo alacremente le labbra dietro il palmo della mano del bicho, che, aggrottando severo la fronte, ripeté un po’ più forte, quel tanto per richiamare il fratello dal mondo delle Idee.

“Nônon!”

“Moui?”, articolò a fatica il giovane, respirando contento quando Milo liberò la bocca dalla sua prigionia.

Dal canto suo, lo scorpion lubrique lo squadrò attento, per poi dichiarare senza tanti peli sulla lingua uno schietto e conciso: “Sei un idiota!”, lasciando alquanto perplesso Kanon, che spalancò gli occhi sinceramente interdetto.

E benché ci fosse un coro assordante, che acclamava la nascita di Nostro Signore e le campane suonassero la chamade, neanche si fossero prefissate di demolire il campanile, s’impose un significativo silenzio tra i due.

Il bicho reclinò allusivo il capo.

Kanon ingoiò quasi il labbro inferiore.

Milo gli sorrise incoraggiante.

Il gemello minore si grattò la tempia sinistra, per poi sciogliersi anch’egli in un ghigno poco raccomandabile,  estraendo subito dalla tasca il cellulare – che figurarsi se l’aveva chiuso – sbaciucchiandosi felicemente sornione il piccolo mostro da lui medesimo creato con malefica pazienza nel corso degli anni.

 “Merci, Milou!”, lo ringraziò vivacemente, nascondendosi meglio assieme a lui dietro l’altare e sistemandoselo poi in grembo acciocché lo scorpion potesse leggere tranquillamente quel che Kanon stava scrivendo via sms a Rhada.

E non fu nulla di rassicurante per il suo inglese, a meno che non gli dispiacesse ricevere questo genere di auguri di Natale:

Mon seul unique chouchou tout doudou: so che mi sono comportato con te come le roi des cons (re dei coglioni, ndr.) e che hai ogni ragione per serbarmi rancore. MA ti giuro sulla testa di Saga che NON era mia intenzione offenderti in quel modo e che non ho mai pensato sul serio tutte le cattiverie che ti ho stupidamente urlato dietro. Di conseguenza, accetto il tuo indignato silenzio e puoi anche augurarmi, per quel che mi riguarda, il coma etilico a Capodanno. Sappi, però, che non ti disferai tanto facilmente di me, ché ovunque andrai, ovunque sarai io ti scoverò per rimanere assieme per sempre, uniti fino e oltre la morte. Ci risentiamo, quindi, a gennaio quando ritornerò ad Oxford! Salutami tutti! Happy Xmas! XXX Kanon.  P.S. Ho intenzione di chiedere al tuo Daddy la tua mano: ho deciso di sposarti, Rhada! Non sei contento? ^^

Ora capite, perché in Inghilterra si canta a Natale Silent Night? (Corrisponde al nostro “Astro del ciel”, ndr.) In tutta onestà, chi avrebbe mai avuto il coraggio di replicare a questo messaggio?

E Rhada, com’era ovvio immaginarsi, non lo fece. Non fu codardia la sua; era semplicemente troppo impegnato a rinvenire tra le braccia di uno sghignazzante Minos, mentre Aiacos, schiaffeggiandogli delicato il viso, gli rammentava sadicamente che prima o poi la gogna del matrimonio doveva pur capitare anche a lui.

Felicitazioni, mate! , si congratularono sardonicamente entusiasti una volta ripresosi l’amico, soffocando a viva forza le loro risate dietro il libro dei canti natalizi.

 

 

***

 

Weimar, Germania. Notte di Natale.

 

Non v’è nulla di più stressante al mondo di giungere alla propria casa e sentire dietro la porta squillare il telefono come un assatanato. Infatti, il primo istinto è di incominciare ad agitarsi ansiosi, frugando convulsamente nella borsetta per le demoiselle o nelle tasche dei pantaloni per i messieurs alla ricerca del più antico strumento di tortura: le chiavi di casa. No, seriamente, chi non è mai impazzito almeno una volta in vita sua nel tentativo di reperirle in tempo? In alto le mani!

A simile supplizio venne sottoposto anche l’illustrissimo signor pastore (luterano) Ilias Bogenschütze, che, reduce da una veglia e funzione natalizia a dir poco estenuante, chiuse in bellezza la giornata – o meglio vista l’ora l’aprì – correndo a grandi falcate verso il salotto, rischiando d’incrinarsi qualche costola giacché nel buio era inciampato in uno dei tanti giocattoli sparsi per terra dai figli più piccoli.  “Hallo?”, rispose  infine il reverendo, sollevando sfiatato la cornetta. Nel frattempo e con calma, la sua famiglia lo raggiungeva all’interno dell’abitazione, sparpagliandosi stanca in giro per la varie stanze.

Una piacevole voce tenorile inquisì leggermente sorpresa: “Entschuldigen Sie, sto parlando con Aiolos Bogenschütze?”, e dalla dolcezza strisciante della calata, l’uomo intuì trattarsi di uno straniero.

E non ebbe un buon presentimento.

“Nein, der bin ich nicht!”, gli disse incolore Ilias, pregando il Padre Eterno che il telefonista notturno non fosse chi lui temeva che fosse in realtà: sinceramente aveva le scatole piene di lui, per quanto la sua professione gli imponesse di amare, perdonare e comprendere il suo prossimo.

“Me lo passereste, per cortesia?” Se la voce del serpente tentatore desiderava scegliersi un degno interprete, quello scocciatore era di certo il candidato più ideale in assoluto.

“Ja …”, gli accordò l’uomo sebbene a malincuore: in fin dei conti, giudicava suo figlio abbastanza maturo da cavarsela da solo tranne per qualche clamorosa defaillance, come quella avvenuta tre anni addietro quando lui era entrato nelle loro vite,  incasinandole ulteriormente. Al solo ricordo di quello spiacevole incidente, il pensiero di Ilias volò alla fotografia conservata gelosamente in un cassetto dal doppio fondo, nascondiglio a lui solo conosciuto: Dio del cielo, era mai possibile che non si potesse sfuggire al destino? O peggio ai … “Aiolos! Vieni, è per te!”, gridò infine in direzione della cucina, da dove spuntò fuori qualche istante dopo l’interessato in questione, il quale alzò interrogativamente il sopracciglio, appoggiando sul tavolino il bicchiere da cui stava bevendo.

“Für mich?” e per tutta risposta, il padre gli cedette la cornetta con un po’ troppa energia, allontanandosi in direzione della sua camera da letto. Scrollando le spalle, il giovane portò il ricevitore all’orecchio. “Hallo?”

“Sei tu Aiolos?”

“Ja! Con chi parlo?”

Suspense.

“Conosco il tuo segreto!”

Silenzio assassino.

“Vai a cagare Saga!”, berciò Aiolos schietto, conciso e fulmineo, chiudendo molesto la chiamata. Dopodiché pigliò scocciato il suo bicchiere, riportandolo in cucina e là lo svuotò con veemenza, le gote sempre rosse di collera. Infine, borbottando irato improperi che non si dovrebbero ripetere a Natale, salì a quattro a quattro le scale e si trincerò nella sua stanza al piano di sopra. Il tutto sotto lo sguardo attonito della madre, che chiese interdetta al marito chi mai poteva essere questo personaggio, che in soli tre secondi era riuscito a far arrabbiare così tanto suo figlio  di carattere di solito assai mite.

Santa donna!

Quanto al reverendo, egli scosse il capo. Sophie, Sophie … ovunque tu sia, proteggici dal male, anzi, dai Valavitis!, fu la sua intima preghiera, coricandosi ora agitato nel letto.

Amen!

Nel frattempo, sempre a Ribeauville, la matita rossa batteva scocciata sul nome di Aiolos, vicino al quale v’era una fotografia raffigurante due ragazze sorridenti e anche piuttosto carine. “Uhm, mi sa che devo usare un approccio diverso con questo qui … Il problema sarà il padre … Ma lo domerò alla fine, nyéhéhéhé … Nessuno mi sfuggirà, muahahahahahah!!! Nessuno!!! Hé, je me fais peur tout seul!” (Mi faccio paura da solo!, ndr.), si lagnò e meno male, che lo ammetteva lui per primo! Quanto all’immancabile voce femminile, ella non condivideva affatto la sua stessa corrente di pensiero.

E infatti non perse tempo a dimostrarglielo.

 “SALE SACRIPANT, FERME TA P’TAIN GUEULE, VEUX TU?!”, ruggì impazzita, sfondando le porte dello studio e irrompendo vandalicamente al suo interno, gli occhi di bragia. E senza aggiungere altro, atterrò il proprietario della matita rossa con un solo manrovescio, facendogli sbattere la testa contro il legno ben lucido della scrivania. A spedizione punitiva completata, ella girò sui tacchi sdegnosa, apprestandosi ad uscire teatralmente dalla scena del mancato-per-poco-ma-l’intenzione-era-quella delitto. Sennonché, all’ultimo si bloccò e, tornando indietro sui suoi passi, afferrò la trapunta appoggiata sulla poltrona e l’adagiò amorevole sulle spalle del personaggio ancora sonoramente svenuto. “A propos: Joyeux Noël, mon coeur!”, gli augurò mielosa, schioccandogli un tenero bacio sulla fronte.

Si chiuse definitivamente la porta e non una foglia osò più muoversi. Volente o nolente pace era infine calata in quell’enorme casa.

Peccato che alle cinque del mattino a Mont-de-Marsan, la sua più grande rivale, saltando sul divano di casa, si mise a  gorgheggiare col megafono il suo urlo di guerra: “Allons, tutti in piedi! Si parte per Strasburgo!”

Dichiarazione di guerra presto seguita dai dolorosi lamenti degli zombie che lì vi abitavano, strappati in maniera rumorosamente crudele dal loro letto.

La discesa negli Inferi era ufficialmente incominciata.

 

 

 




To be continued …

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Allora, che ne dite ? Mi perdonate la mia latitanza da aprile ? Spero di sì! In ogni modo, questo capitolo ha la funzione di entr’acte, infatti, anticipa tutte le (s)fortunate circostanze che porteranno agli eventi successivi! E se  non dovesse esservi piaciuto, beh, niente gelato e biscotti! XP

Quanto alla reazione di Mamie, questa era per me la più azzeccata. Né troppo drammatica, né esagerata. Anche Mamie ha un cuore! T^T Eppoi, non è stupida: sa che quei monelli e il loro capo sono indispensabili per la sua famiglia e un certo paguro di nostra conoscenza conferma! ;-) Ma anche la nonna avrà la sua vendetta!

Infine, la new entry: lo avete bramato, lo avete cercato, me lo avete domandato ebbene ecco a voi, mesdames e messieurs, Aiolos! XDDDDDD Ingresso trionfale o in sordina? A voi la scelta! Inoltre, è vero che il ragazzo studia a Münster, però abita a Weimar dove ritorna per le vacanze. In caso questo particolare vi avesse lasciato perplessi.  

Bien, direi alla prossima, no?

E per chi mi segue anche nelle altre fics, direi al prossimo aggiornamento!

 

Bisous!

 

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Capitolo 20
*** On the Road: Autostrada 90, Uscita 48 ***


La Quaresima è passata da un pezzo, ma non ho problemi a cospargermi il capo di ceneri.

Sì, chiedo venia per quella che io per prima chiamo idiozia. Ma sapete, ero così furibonda, che ho agito prima di riflettere. Per questo, chiedo scusa ai 51 utenti che hanno messo questa storia tra le preferite ai 10 tra le ricordate e ai 35 tra le seguite e ovviamente ai miei lettori e recensori.

Ho cancellato le altre mie storie, verissimo. Ma erano o complete o comunque da molto tempo ferme e sarebbe stato sciocco tenerle lì ad ammuffire per sempre. Ora restano “Un Incontro” e questa qui. Del resto, si chiamano “pulizie di primavera” per qualcosa no? Aria nuova! Aria nuova!

Detto questo, sappiate CHE QUESTA STORIA NON FINISCE, CHE ANDRA’ AVANTI FINO ALLA PAROLA FINE E CHE QUESTO E’ UN VERO CAPITOLO! Voi, lettori, mi siete più cari e di nuovo vi chiedo di sorvolare per amore della storia su questa mia cavolata.

I capitoli saranno un po’ più brevi per mancanza di tempo, ma tenterò di rimanere regolare negli aggiornamenti.

Grazie dell’ascolto e buona lettura.

 

 

 

 

 

H.

P.S. Odio il mio HTML

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“Saga!”

Nessuna risposta.

“Saga!”

Silenzio.

“Saga!”

Silenzio ostinato.

“Sasà!”

Doppio silenzio ostinato.

“Sasuccio!”

Triplo silenzio ostinato.

“Sagounet!”

Ancora più silenzio.

“Saga! Saga! Sagagagagaggagagaga!  Sasà! Sasino! Sagone! Sagupuccione! Saghello! Sagasaputello! Sagaquattrocchi! Saga! Saga! Sagaounetpepepepe! Lady Gaga! Sagasagasagasaga! Seg- …!”

“CHE ACCIDENTI VUOI ?!?”

“Siamo arrivatiiiiii???”, strascicò Milo l’ultima vocale sfacciatamente piagnucoloso, emulando lo strido di cento unghie affilate su di una lavagna, nel frattempo che gli lanciava dietro le polpette che ci avevano fatto da colazione durante l’attraversata Mont-de-Marsan - Strasburgo, ennesimo atto di un vaudeville allucinante. La prospettiva di dissacrare il cadavere del prozio fedifrago era stata così allettante, che Mamie aveva insistito per un’unita grande tirata last minute – minacciando Papa di annullare il matrimonio, neanche se lo sarebbe dovuto sposare lei.

Perché sapete una cosa?

I miei fratellastri per l’intera durata del viaggio non chiusero la bocca per UN secondo, che fosse stato uno!

Quasi avessero deciso di esibirsi in un quadruplo suicidio acustico-vocale! Neppure l’iPod poté lenire il loro continuo, ininterrotto tambureggiare di lingue, una snervante burlesque di lagne, insulti, provocazioni e discussioni altamente filosofiche sul sesso degli angeli e del bimboninja, a.k.a Naruto.

Ma ora con calma, cerchiamo di riordinare un poco questa confusa matassa di eventi (e dialoghi).

Eravamo partiti esattamente alle cinque del mattino di Natale, dopo aver dormito a malapena quattro o tre ore, poiché, una volta ritornati dalla Messa di mezzanotte, ci eravamo tutti accampati in salotto coi vicini a scartare i regali. Non mi soffermerò ad elencare cosa abbiamo ricevuto – oggi mi sento assai pigro e la penna si sta scaricando, mannaggia! – riporterò solo che il regalo di Aiolia per Marin fu gradito moltissimo da quest’ultima e ci credo! Un profumo di Yves Saint Laurent, mica niente! Ora comprendevo, il perché di quella vendita assurda: di certo, per un perenne squattrinato in manca di paghetta settimanale non era facile potersi permettere un siffatto regalo costoso. Provai un’enorme ondata di tenerezza nello scorgere la mia vicina sussultare di piacere alla vista del profumo, ma soprattutto quando notai come il regalo di Aiolia da parte sua corrispondesse esattamente a quella collezione di card dei Pokemon, dalla quale il piccolo Aslan si era separato tra mille pianti. Fui un po’ spaventato quando, invece, Aiolia in uno slancio di isterico affetto per quel gesto gentile e inaspettato abbracciò vivacemente Marin, baciandola sulla bocca e ricevendo in cambio il giusto ceffone, che gli fece ruotare la testa di 180 gradi sul lato sinistro, marchiandogli a fuoco vivo la guancia.

“Mi ha schiaffeggiato! Mi ha schiaffeggiato!”, ripeteva estasiato il lionceau in un’oscena litania compiaciuta. “Oh, la sagoma delle sue delicate ditina saranno per sempre nella mia guancia! Oh, quelle joie!”

“Chapeau! Che ne dici ora di fare il bis?”, replicava spassionato Milo, tamponandogli il marchio rosso fuoco sulla gota con un asciugamano inumidito. Per fortuna delle sua epidermide, Aiolia non s’azzardò più a ripetere la sua impresa. Ma il segno restò fino al mattino dopo, ovvero al momento della sveglia infernale in cui fummo brutalmente sottratti dal calore delle nostre lenzuola da una Mamie sul piede di guerra. Le reazioni a quella tortura acustica furono molteplici: ci fu chi cadde giù dal letto, come Maman e Papa; chi borbottò un Fiche-toi, je dors! (fottiti, io dormo!, ndr.), come Kanon mentre si rigirava dall’altra parte; ci fu chi sbatté la testa contro la lampada da comodino lasciata incautamente troppo inclinata sul letto la notte prima, come Saga che la centrò in pieno nello scatto di porsi seduto; ci fu qui estrasse il silk-épil da sotto il cuscino urlando Bats-toi, espèce de lâche! (battiti, razza di vigliacco!, ndr.) e chi lo guardò sconcertato, domandandosi il motivo per il quale un silk-épil rosa si trovasse sotto il proprio cuscino, come Milo e me; infine, ci fu chi non la sentì affatto, come Aiolia che seguitava a sognare beatamente  e indisturbato Marin che lo tempestava prima di ceffoni poi di baci, vestita da poliziotta sexy.

Trascinandoci  come zombie strafatti in direzione del salotto, ognuno fulminò alla sua maniera l’avia familias tra uno sbadiglio e l’altro.

“Era ora, pelandroni che non siete altri, che vi alzaste bordel! Ma guardatevi: siete ancora in pigiama, pardi! Enfin, quasi …”, si corresse, lanciando una lunga occhiata ai gemelli, i quali portavano i boxer e una maglietta lunga fino alle ginocchia.“In ogni modo, ho sistemato fino adesso i pacchi nella macchina bon sang! Mi sono vestita! Ho colazionato! Ho persino portato Fred a pisciottare di qua e di là! Riassumendo, sono pronta per partire e voi? Non avete combinato nulla, espèce de tarés! Non siete altro che dei pigroni sfaticati! Disossata massa informe di ignavia e stravizi sibaritici! Vi si legge la corruzione negli occhi! Sbadigliate più di un ippopotamo mentre rutta! O di un boa mentre sta per divorare il famoso vitello grasso! Non vi vergognate neppure un pochino, razza di dormiglioni festaioli scansafatiche? Che bordelli avete combinato ieri sera, brutti fancazzisti impenitenti? No! Non c’è bisogno di rispondere:  basta vedere le vostre occhiaie più nere di un eye-liner da battona! Sembrate lo zio Fester dopo un’orgia con Mano! ”

Nel frattempo che Mamie si esibiva in quest’appassionata filippica, noi ci guardavamo sbalorditi e interdetti l’un l’altro: questo significava, che l’augusta avia familias aveva passato la notte in bianco? Ora si spiegava quel suo atteggiamento da generale drogato sia di caffeina che del film Full Metal Jacket, senza però gli insulti pesanti. Certo, fu benefica la caramella al propoli che Maman schiaffò sornionamente in  bocca a Mamie, zittendola a tradimento così da evitare che il suo futuro marito potesse mai riconsiderare l’ipotesi di fare fagotto e scappare via lontano.

“Beh, a questo punto non ci resta che affidare Fred ai vicini …”, sbadigliò in seguito Maman, apprestandosi ad acchiappare il collare del cane per infilarglielo.

“Il cane viene!”

Se mia madre era ancora assonnata, l’ultima affermazione di Mamie la destò completamente. Come noi del resto. “Quoi?”, farfugliò disorientata, sbattendo più volte le palpebre.

“Ouais, hai sentito benissimo: il cane viene!”, dichiarò combattiva la nonna, abbracciando il cane con fare mieloso. “Ho deciso che gli farò fare la cacca e la pipì nella bara del morto!”

“Mamie! Un po’ di rispetto per i defunti!”, protestammo in coro: va bene che l’avia familias avesse ogni diritto di serbare rancore nei confronti del Tanghero Innominabile, però che almeno si trattenesse dal profanare le sue spoglie mortali!

Mais oui, mais oui. E i maiali volano …

“Preferite che vi cacci tutti fuori a calci nelle fesses?”, ricattò sfacciata Mamie i nuovi componenti della mia famiglia, i quali replicarono un traditore:

“Non!”, alla faccia della pietas mediterranea riservata ai morti! In effetti, la terra era destinata ai vivi e del buon pragmatismo non guastava mai.

“Très bien”, sorrise sorniona la terribile nonna, accarezzando soddisfatta il cane “non occuperà spazio se lo sistemiamo a dovere; senza contare, che lui è più giudizioso ed educato di certe bestiacce che gironzolano in questa casa …” e ammiccò a Kanon che le rispose con un’automatica linguaccia. “Ultima cosa: guido io per le prossime due ore!”, batté le mani entusiasta, soffocando ogni cenno di protesta di Papa, che ci teneva a non farla surriscaldare troppo, onde evitare così un cortocircuito: Mamie non sarebbe sopravvissuta a troppe emozioni, come ad esempio prendersela con tutti i conducenti contro i quali inveiva e suonava il clacson.  L’avrebbe solamente incattivita di più e Dio solo sapeva di cosa sarebbe stata capace una volta vista la bara del mascalzone e il suo fedifrago marito nei panni della vedovella inconsolabile.  “Mais bien sûr, a patto che lui stia accanto a me!” e sogghignò perfida nell’osservare come Saga si nascondesse intimorito dietro Kanon, che ribatté serio pronto alla difesa del suo doppio:

“Pas question! Il mio frangin resta dietro con noi … a meno che il cane non stia davanti con lui!”, mercanteggiò invece con una flemma vagamente anglosassone -  di certo sviluppata durante gli anni d’esposizione alle radiazioni britanniche - e spiazzando tutti, gemello compreso . “Che ne dici? Ti cedo Sasà in cambio di Fred davanti e non dietro con noi!”

Un nanosecondo di profonda cogitazione onde trovare la fregatura dietro quell’offerta.

“Ci sto! Andata!”, esclamò Mamie, allungando cupida le mani su di un esterrefatto Saga, che ringhiava al gemello un rancoroso “Giuda!”, nel frattempo che il minore scrollava le spalle, chiaro segno che bisognava pur sacrificarsi per una buona causa, e facendogli un soddisfatto Bye! Bye! con la manina.

Partiti dunque verso la nostra meta finale, Strasburgo, riassumerò scrivendo che il viaggio fu orribile, un’oscena odissea, un’unica tirata in cui si susseguirono scenette che non dovrebbero mai essere raccontate e che vi descriverò solamente in parte.

Dunque. Innanzitutto.

 La guida di Mamie era al limite del ritiro della patente e tutti pregammo il Bambin Gesù di non aver beccato alcun autovelox e che i vigili non ci scorgessero. Era un po’ improbabile il giorno di Natale (quale sfigato si metteva mai in viaggio proprio quel giorno?) ma se avevo imparato qualcosa da Halloween, era che Madama Sfiga si era appollaiata sopra la nostra casa stile cicogna e che sembrava assai contenta di rimanervici lì inchiodata ancora per un bel pezzo. Tra sorpassi alla Fast and Furious, tra strombazzate e Pédé! a coloro che ai suoi occhi parevano delle lumache e soprattutto tra due infernali inversioni ad U (per fortuna non in autostrada) che ci sbilanciarono su di un lato  tanto da spiaccicarci tutti peggio delle crêpes, ancora mi domando come feci a resistere per due ore senza provare l’impellente desiderio di gettarmi fuori dal finestrino senza aprirlo. Ovviamente, perché in quei due episodi di spiaccicata letale, il lato malefico era il mio cosicché  divenni la regina col titolo di Sa Majesté des Crêpes Suzettes.

Ringraziammo unanimi il cielo quando Papa, esasperato, prese in mano la situazione forzando Mamie a sedersi accanto a Maman. La nonna si mise a strillare che voleva Saga; quest’ultimo gridò che ci sarebbe andato da morto; Papa ruggì al maggiore dei gemelli di prendere posto vicino a Mamie e di non rompere le pigne. Kanon, a mo’ di benvenuto, diede un calcio al sedile dov’era seduto Saga, proiettandolo un bel po’ in avanti.  (In caso ve lo foste dimenticato, ricordiamo che all’epoca avevamo un unico macchinone, meglio dire un furgoncino: due posti davanti, tre in mezzo e quattro dietro.) Papa tentò di elargirgli uno scappellotto, ma Kanon fu più lesto e si abbassò, cosicché la zampata punitrice martoriò il capo di Aiolia, il quale scoppiò a piangere, adducendo che nessuno al mondo gli voleva bene; che tutti ce l’avevano con lui, che sarebbe divenuto un modello anoressico, morendo così giovanissimo; etc. etc. Sghignazzando perfido, Milo tirò fuori un miniregistratore e voilà che la voce piagnucolosa di Aiolia riprendeva là dove lui si era interrotto per riprendere fiato. Furente, il lionceau pigliò Milo per i capelli, dandogli del vigliacco, del cialtrone e del ruffiano. Quanto a me, osai difendere il bicho intercettando gli artigli di Simba, sennonché sbilanciandomi in avanti colpii Kanon sullo stomaco col gomito. Per sfogare l’immane dolore, il giovane uomo scalciò peggio di un mulo, spedendo nuovamente Saga contro il sedile davanti e chiudendo quell’imbarazzante Uroboro.

Osservandoci tra il compassionevole e il disgustato, Papa richiuse in silenzio la portella, sistemandosi al posto di guida e intimandoci di comportarci bene fino a Strasburgo, pena l’inferno e senza attenuanti alcune.

A onor del vero, ci sarebbe piaciuto trascorrere anche a noi un viaggio tranquillo. Tuttavia, dovevamo ancora affrontare un’altra insidia delle lunghe trasferte: i crampi.

Mi ero finalmente appisolato per un glorioso istante sulle note di Mussorgsky, quando percepii qualcosa battermi sul polpaccio. Sbirciando tra le fessure delle palpebre, scorsi Milo che stava cercando di stirare la gamba destra la quale, a giudicare dalla smorfia sul viso, doveva dolergli non poco. Il bicho pareva infatti in agonia, nel frattempo che si massaggiava i muscoli sofferenti e o era sul serio un crampo coi controfiocchi o lo scorpion lubrique era la drama queen del secolo.

“Ti duole molto?”, m’informai apprensivo, impedendo che Milo si contorcesse peggio di un fachiro indiano nella speranza di calmare quelle spinose fitte assassine. Per tutta risposta, il bicho misurò quanto spazio poteva occupare la sua gamba inferma se appoggiata sul mio grembo. Ne rimase deluso, giacché essendo l’ultimo vicino alla portella non potevo offrirne molto.

“Bordel, dovevo mangiare la banana stamattina!”, borbottò il ragazzo e per vendetta, riprese a lanciare le polpette a Saga, che lo mandò in malora assieme al padre, rifilando il proiettile di fortuna al cane. Dopodiché Milo sistemò con enorme perizia la gamba sul grembo di Kanon, il quale ronfava gustosamente, il capo ben accollato sulla spalla di Aiolia, che stava leggendo tutto concentrato un volume di Naruto. Non c’era stato verso di farlo desistere dal suo orrido intento di portarsi dietro tutti i fumetti del bimboninja! Pestando i piedi e minacciando il suicidio, Aiolia aveva impacchettato tutti i volumi, nessuno escluso, e ora sfidava la nausea indotta da lettura in macchina pur di impararli a memoria.

Avesse studiato filosofia con la medesima perizia e passione! Il disgraziato!

“Sapessi dove gliela ficcherei io la banana …”, borbottò scocciato il leoncino di casa, strangolando per poco il fratello quando questi gli bagnò la pagina con la sua saliva.

Sentendo la parolina magica, Kanon si destò, si leccò le labbra, sbadigliò, si arruffò i capelli, lanciò l’ennesima polpetta a Saga, ci salutò e, dando un’occhiata al volume che Aiolia stava leggendo, gli rivelò maligno: “Tanto alla fine si scopre che …”

“Ta gueule, espèce de tarte flambée aux saucisses!”, lo fece tacere il lionceau, chiudendo il manga e sbattendoglielo in testa. “Perfida serpe! Sei peggio di Orochimaru!”

“Mi stai accusando di pedofilia, tappo?”, lo pigliò Kanon per il bavero, pronto a cavargli gli occhi, malgrado il Parley invocato all’ultimo minuto dal fratellino.

E nel frattempo che il gemello minore s’apprestava a guerreggiare contro un Simba tutto artigli e sbuffi, mi rivolsi a Milo, chiedendogli incuriosito: “Ma … chi è Orochimaru?”

Al bicho caddero le chele. “Ionesco, in tutta onestà, dove hai vissuto in questi diciassette anni? Nel pollaio? Orochimaru è il ninja che ha rapito e stuprato Sasucchia l’Emo!”, mi guardò scandalizzato similmente ai miei fratellastri. Kanon bloccò addirittura il suo pugno rivolto ad Aiolia a mezz’aria, fissandomi con la bocca più larga del Gorgone Medusa quando Perseo gli annunciò: “E adesso ti taglio la testa!” Perfino il cane a momenti si strangolava con la polpetta, tanto la mia uscita pareva aver traumatizzato il mondo intero!

“Sasuke, ignorante!”, lo corresse Saga, ripresosi dall’attimo di sconcerto e  girandosi verso di noi. “E comunque, non lo ha stuprato, sono solo maldicenze dei fan. In realtà”, mi spiegò zelante il gemello maggiore, avvicinando il suo viso al mio e fissandomi seriamente dietro le spesse lenti “questo ninja gli aveva appioppato un segno maledetto  …”

“… succhiotto …”

“Kanon, taci! Un segno maledetto con lo scopo di …”

“… divenire più maculato di un macaco …”

“… di legarlo a sé …”

“… GPS …”

“… e di aumentare la forza …”

“… steroidi …”

“… così da poter uccidere suo fratello Itachi …”

“…  o Saga in versione meno psicolabile e più figa!”

Il povero gemello maggiore sfoderò un’espressione di tale sconforto, che per un attimo temetti volesse strangolarsi con la cintura, dopo aver frustato con la stessa il suo doppio, ben inteso.

“E perché voleva ammazzare suo fratello?”, chiesi disorientato, attirando conseguentemente l’attenzione di tutti i miei fratellastri, i quali si drizzarono d’un colpo vispi e desiderosi di iniziarmi ai misteri del bimboninja arancione.

“Perché Itachi aveva ammazzato tutto il clan Uchiwa!” (ndr. Per spirito di ricerca, ho controllato in Francia un fumetto di “Naruto” e “Uchiha” loro lo scrivono “Uchiwa”. Non domandatemi perché. )

“Davvero?”, feci perplesso. Ammazzare un intero clan? Wow, suonava piuttosto faticoso come lavoro …

“Ouais”, convennero solenni i miei fratellastri, annuendo gravemente col capo.

“E quindi Saga ammazzerebbe tutto il suo “clan” se potesse? Se così fosse, in sostanza dovrebbe decimare metà della popolazione di Karpathos!”

Silenzio da WTF.

“Ehm, Ionesco, non comprendo il collegamento tra le due cose …”, riprese Milo per primo il discorso, spiando di sottecchi un confuso fratello maggiore. Kanon, dal canto suo, sembrava l’unico non particolarmente sorpreso dalla mia ingenua domanda.

“Beh, io non mi sorprenderei se lo facesse sul serio. Anzi, scommetto che sotto il letto nasconde una katana e sta progettando di accopparci tutti nel sonno!”, sentenziò Aiolia con tale serietà, che mi appuntai, una volta rientrati a casa, di controllare sotto il letto del gemello maggiore.

“Iou – Iou, non esagerare …”, lo guardò preoccupato Saga e forse un pochino imbarazzato: le orecchie di Papa s’erano sospettosamente drizzate. “Sai che non lo farei mai!”, giurò, guardandoci con un’aria tanto angelica, che ad ognuno di noi venne un brivido freddo dalla paura.

“Seeee, come no!”, lo contestò Simba, scartando una caramella e ficcandosela in bocca. “Dietro a quella faccia da chierichetto si nasconde un assassino, altroché!”

 “In effetti, Saga ha il potenziale di Itachi”, si riprese Milo, stando ora al gioco e citando addirittura Alex. “Non dimentichiamoci di una sua piccola performance all’inizio della nostra convivenza …”, alluse maligno, roteando gli occhi in maniera molto poco innocente.

Saga arrossì fino al violaceo, l’omicidio del gallo Jean-François che ancora gli pesava sulla coscienza.

“Bravo, Milou, spargi sale sulle ferite! Spargi sale!”

“Eppoi, Saga si è tinto i capelli di nero!”, rincarò la dose Kanon – di sale, bien sûr. Il suo doppio si odiava coi capelli neri.

“E quando è strafatto di caffè, sfodera pure un bel paio di occhietti rossi! Il Coffee Sharingan!”

“E ha i capelli lunghi!”

“Ed è una talpa!”

Digrignando i denti per quell’involuto invito a presenziare al prossimo raduno di cosplayers, Saga sfoderò il suo tono più velenoso, pigliandosela col suo tormentatore per eccellenza. “Ma almeno, Nônon, una cosa anche tu la condividi con Itachi!”

“Ah ouais?”, inarcò Kanon il sopracciglio intrigato, scattando avanti e appoggiando la punta del suo naso a quella del gemello. Se non mi avessero ricordato due cani pronti a sbranarsi a vicenda, avrei giudicato quella posizione come molto tenera e dolce. “Per il fatto che chiami i miei fratelli  minori Stupidi ottentotti?”

Otouto, sale cafard!”

“Le mie fesses che ci chiami stupidi!”, si unì Aiolia alla protesta di Milo. “Ci rifili epiteti ben peggiori di stupidi, connard!”

“Aiolia!”

“Ma Papinou! Nônon mi dice le cose cattive!”

“Kanon … Smettila d’immedesimarti nei personaggi dei manga!”

“E manco male, Papinou! In ogni modo, Sasà, ti pare che io prenda i miei fratelli a calci sullo stomaco, sbattendoli sulla parete e tenendoli per gola mentre sussurro loro: “Siete così deboli! Sapete perché? Perché non possedete abbastanza palle da uccidermi!”, per poi violentare la loro psiche per 72 ore tramite immagini orrorifiche! E che poi alla fine si scopre che lo facevo in realtà per proteggerli dal corrotto capo dei servizi segreti di Konoha e un psycho antenato? Eh? Eh? Questo faccio, che mi paragoni ad Itachi?”

“Ehm … non proprio …”, gli concesse Saga, portandosi a disagio una ciocca di capelli dietro l’orecchio, conscio di averla stavolta sparata grossa. Certo, perché aveva provocato il suo pestifero doppio. “A dire il vero, perché anche tu, come Itachi, hai un fidanzato che è un cesso bipede!”

Silenzio scandalizzato.

“RHADA NON E’ UN CESSO BIPEDE!!”, lo afferrò Kanon per le spalle, palesando la sua intenzione di trascinare Saga nel sedile anteriore, fregandosene altamente del piccolo e trascurabile dettaglio che era legato dalla cintura. “E’ diversamente affascinante, p’tit vaurien! Non insultarlo! Altrimenti, ti strappo le budella e te le faccio uscire fuori dal naso! Quel suo monociglio è un handicap! Non s’insultano i disagiati, capish?”

“Allora, avevo ragione quando dicevo che similmente a quel personaggio, anche Saga potrebbe ammazzare i propri parenti?”, ripresi titubante la mia domanda, osservando preoccupato i due gemelli che si accapigliavano con Aiolia in mezzo che tentava di salvare il suo prezioso manga o la causa scatenante di quella rissa. Vabbè, sarebbe scoppiata comunque … prima o poi … uff, quanta pazienza … avrò anche una vita mia no?

“Ehm, ora come ora, direi che il più prono a stragi familiari sia Nônon …”

“Nah, sicuro che Saga ci accopperebbe tutti!”, contraddisse il bicho il piccolo Aslan. “E il giorno in cui succederà, prima di fare sushi delle mie carni,  gli chiederò”, pausa d’effetto, “Saga, in tutta onestà, è stato Kanon a suggerirtelo?”

Alla battuta di Milo, un ruggito di risate riecheggiò nella vettura e perfino il deriso, Saga, si unì alle nostre rumorose espressioni di ilarità, seppur sotto l’ascella di Kanon.

Il clima pareva essersi rilassato – tre urrà per il bimboninja! – e i miei fratellastri calmatisi notevolmente; i crampi sparirono e le polpette, Deo gratias!, finite, cosicché Saga cessò di essere il loro tiro al bersaglio. Ma soprattutto, perché dopo aver discusso animatamente su tutte le cinquanta sfumature dell’arancione del bimboninja, il trasporto per simile dibattito ci portò ai vertici della follia, ergo andare tutti a Lucca a novembre, vestiti come i membri dell’Akatsuki. “Dai, facciamolo!”, aveva strillato Aiolia entusiasta, saltando sul sedile e battendo le mani. “Coloriamo gli accappatoi di nero, disegnandoci delle nuvolette rosse! Ah ouais, e poi ci dipingiamo le unghie di viola! Verrà fuori una figata, tu verras!”

Delirante euforia prontamente soppressa da Papa, che ringhiò al suo ultimogenito. “Aiolia! Osa anche solo avvicinarti ai miei accappatoi per sì turpi scopi e ti ammazzo! Dopodiché, sputo sul tuo cadavere per esserti messo lo smalto!”

“Già, l’onore delle unghie dipinte lo lasciamo a Momus!”, mi sorrise perfido il bicho, provocandomi un feroce arricciamento dei capelli.

“Na, eh? E chi me le ha dipinte a tradimento nel sonno, un?”

“Ah! Momus lo travestiamo da Deidara! Ha perfino lo stesso tic verbale!”

“Aiolia!!!”

“Massì, Christophe! Lasciali andare alla convention! Che si travestano pure! A patto che venga anch’io e soprattutto vestita da Nonna Chiyo, così posso finalmente prendere mio nipote a calci in culo! Tanto, i capelli rossi ce li ha già … e da piccolo giocava pure con le bambole …”

“Mamie!!!”

Eravamo nel frattempo arrivati in un’area di sosta.

“La sai una cosa, Milou?”, chiese Kanon al fratello, il quale lo aveva avvicinato solamente per chiedergli che accidenti ci facesse in posa plastica nel bel mezzo dell’area sosta, ovvero con un piede sulla panca di legno per quei tavoli da picnic e lo sguardo assorto e in piena contemplazione del paesaggio innevato davanti a sé.

“Non, Nônon. Anche se immagino che tu stia morendo dalla voglia di istruirmi”, replicò spassionatamente Milo, ficcando le mani sotto le ascelle per riscaldarsele. Mince! Se a Mont-de-Marsan faceva freddo, lì si stava congelando! Oh beh, a me non dispiaceva, ma i quattro, anzi cinque, maschiacci franco-greci  battevano le brocche!

“Et bien, Milou! Tu mi conosci! Tu sai quale sia la mia natura ! Imperfetta e capricciosa, ma chi siamo noi per giudicarci?”

“Io non potrei mai giudicarti, Nônon. Ma foi,  ci ho da tempo rinunciato!”, lo rassicurò Milo, battendogli empatico la mano sulla schiena.

“Merci, mon doudou! Eppure, nella nostra vita ci scontriamo contro forze avverse, sguazziamo in situazioni ostili, nelle quali spesso ci viene richiesto di cambiare cappotto come il serpente o mutande come il bradipo!”

“Il bradipo porta le mutande?”

Ma ormai Kanon era partito per la tangente, completamente infiammato dal suo astruso monologo. “Perché non c’è pace in questa vita! È una continua lotta di sopravvivenza, verso chi ha e chi non ha, chi indossa il cappotto e chi le mutande! Ma non ci si può lamentare, anzi! Guai! Guai, se in battaglia si frigna! È roba da tappettes!”

“Kanon, non ti seguo …”

“Che importa se mi segui o meno, Milou? Siamo comunque destinati a perderci! È la nostra natura! Noi siamo destinati allo smarrimento psico-para-pseudo-fanta-cognitivo-trascendentale!”

“Gueh?”

“Ecco perché, posso affermare con certezza, che copiare un autore fa schifo, non pagare il biglietto dell’autobus fa schifo,  mandare al diavolo la vecchietta rompipalle e guardona fa schifo, ma noi non possiamo sottrarci, perché facciamo tutti schifo in quanto uomini!”

“Parla per te!”

“Ma io ti perdono, Milou! Perdono te e tutti i tuoi peccati! Anche se, d’ora in avanti, mi chiamerete tutti: Kanon della Malasorte!”

“Oppure O’Malamente e basta!”

“Nah, quello è Sasà!”, scrollò Kanon le spalle, riassumendo un’aria meno istrionica. In lontananza, mentre sorseggiavamo placidi il nostro caffè bollente davanti alla porta delle toilette – nella speranza che Saga si sbrigasse – ne approfittai per inquisire:

“Kanon sta bene? Lo vedo piuttosto … perplesso”, dissi, incrociando le gambe per meglio trattenere le pressanti fitte della mia vescica.

“Nah, è in perfetta salute. Si tratta solamente di una delle sue sporadiche crisi filosofiche!”, mi spiegò il lionceau, prendendo la porta del bagno a calci. “Sasà, muoviti! Svuota tutto ed esci! C’è gente che se la sta facendo addosso!”

“E da che cosa sono dettate queste crisi?”, tentai di distrarre sia il mio fratellastro sia il sottoscritto dall’inarrestabile pressione liquida.

Saltellando da un piede all’altro, il lionceau sciolse l’enigma: “Forse perché Rhada ancora non ha risposto al suo sms, in cui gli chiede di sposarlo?”

“E si sorprende?”, ribattei incredulo, scoccando un’ultima occhiata al mio bicho e a Kanon, il cui cellulare prese a suonare per la sua somma gioia, portandolo ad esibirsi nella danza della vittoria-matrimoniale. “Toh, ecco che finalmente gli ha telefonato, così la smetterà di … Oh mon Dieu! Scappa, Aiolia! Kanon incazzato a ore dodici!”

Non era fifa la mia, nossignore!

Insomma, avreste voi avuto coraggio di fronteggiare un bufalo imbizzarrito quale si presentava Kanon in quel preciso istante, dopo aver ascoltato quella che doveva essere stata un’infausta chiamata? Infatti, il gemello minore non aveva ancora riattaccato il cellulare, che già si dirigeva verso di noi con un incidere che non prometteva un normale funzionamento delle gambe per le prossime cinque settimane.

“Questa è pazzia …”, balbettò terrorizzato Aiolia, aggrappandosi a me e cercando di preservare la sua dignità, ergo non unire l’utile al dilettevole, quale ad esempio fare pipì senza l’ausilio del gabinetto.

“Pazzia?”, sibilò Kanon, il Coffee Sharingan attivato. “QUESTA. E’. LA. CARTA. IGIENICA. SAGA!”, ruggì, elargendo un possente calcio alla porta del WC – facendoci nel frattempo squittire dallo spavento – che per poco scardinò, rivelandoci un oltraggiato Saga, che cercava di coprirsi il davanti col capotto.

Ciliegina sulla torta, Mamie sbucò alle nostre spalle, commentando: “Però!”

“Sale putassier d’un con sodomisé à l’anglaise!”, si strangolò il gemello maggiore con la sua medesima saliva e arrossendo più dei capelli della famosa Anna. “Che modi sono questi? No, Mamie, metti giù la macchina fotografica! Milo, fai qualcosa! Aiolia, uccidilo! Momus … bah, lasciamo perdere …”

Lanciandogli il rotolo della discordia, Kanon lo apostrofò duramente: “Te lo meriti, Sasà! Come hai osato chiamarmi al cellulare, annunciandomi che ti era finita la carta igienica proprio mentre stavo attendendo con ansia uno squillo da parte di Rhada? Come ti sei permesso?”

“Speravo in un minimo di comprensione da parte tua, Nônon!”, si difese Saga, intanto che chiudeva umiliato e offeso la porta semi-scardinata del gabinetto. “In ogni modo, questa me la paghi!”, lo sentimmo bofonchiare da dentro la cabina.

“Se mi prenderai vivo, nii-san!”, lo sfotté Kanon, tirandosi indietro i capelli con una melodrammatica zampata e avviandosi alla macchina neanche fosse ad una première ad Hollywood.

“Primadonna no Jutsu”, commentò sardonico Milo, spiando le foto che Mamie stava sfogliando dal menù.

“Drama Queen no Jutsu”, annuì Aiolia.

“Cos’è uno Jutsu?”

“Deficiente no Jutsu …”, terminò Saga, uscendo finalmente dal bagno e ripulendosi le mani dal lavandino. Dopodiché, appropinquandosi a Mamie, le domandò: “Quanto vuoi per le foto?”

Il sorriso dell’avia familias lo fece indietreggiare di ben tre passi.

“Devo aver in qualche modo adirato il Big Boss O’Heavens, altrimenti non mi spiego perché mi sono ritrovato dei criminali per figli”, sospirava Papa per l’ennesima volta all’ennesima stazione di gas GPL, nel frattempo che contemplava una delle molteplici manifestazioni di affetto tra fratelli, tipo un esagitato e ridacchiante Kanon rincorso da Aiolia, il quale reclamava imbizzarrito un volumetto di Bleach (aveva insistito di portare pure quello). Seduti in macchina e slungati sibariticamente, gli altri Valavitis assistevano sornioni allo spettacolino, facendo perfino delle scommesse: quanto avrebbe resistito il lionceau prima di crollare per terra con la lingua fuori lunga due metri?

“Eddai, lascia che sgroppino! Hanno ancora quattro ore di viaggio davanti a sé!”, lo consolò Maman, sebbene pure a lei incominciasse a venire un principio di mal di testa per l’incessante cicalare dei suoi figliastri.

Affatto impressionato dall’affermazione della compagna, Papa rincarò la dose: “Eh? Quale crimine ho commesso?”

“Euh, sei scappato di casa?”, gli suggerì Maman sollecita, guadagnandosi uno sconsolato guaito da parte del futuro consorte.

“Non era mia intenzione, sono state le circostanze ad avermi spinto!”

“Uhm”, si passò la genitrice una mano sotto il mento. “Le stesse parole che mio padre ci scrisse, il giorno in cui fuggì di casa con tuo zio!”

Secondo Miao! di dolore: le parti basse ringraziavano commosse e sofferenti. “Corinne …  ne abbiamo già parlato … sai che non c’entro niente … lo zio Cardia non m’aveva mai detto chi fosse il suo meco, me ne aveva accennato solo vagamente … non te la prendere con me!”, pigolò Papa, congiungendo supplice le mani.

“E perché non dovrei, scusa? Sei abbastanza imputabile! E sospetto! Non ti è mai venuto in mente di indagare nella vita sentimentale di tuo zio?”

L’espressione totalmente scandalizzata di Papa fu molto esaustiva, denunciando la presenza oscura di segreti innominabili, dei quali era molto meglio tacerne la presenza se non si voleva scivolare nel Grand Guignol in salsa rosa. Cioè amorosa. Cioè harmony … cioè … In ogni modo! Papa raggiunse il suo scopo: indietreggiando un poco in soggezione da quell’occhiata intensa da pesce lesso in croce, Maman si persuase che forse non era saggio da parte sua punzecchiare troppo il suo futuro marito; non che Papa l’avesse minacciata visivamente, anzi, l’unica minaccia presente in quegli occhi miopi era di accendere il cellulare in una stazione di benzina. Cosa da niente!

Risultato?

Kaaaa-boom, my friends!

“Ehm, Christophe? Il … telefonino … non è che potresti rimetterlo in tasca?”, gli suggerì la genitrice leggermente preoccupata, indicando timida timida la miccia che avrebbe anticipato il falò di Capodanno. Papa, accortosene all’ultimo, impallidì, arrossì, lo buttò in macchina e bofonchiò qualcosa: “Testa calda … sangue greco … poco caffè … Kanon lo uccido …”

Il gemello minore, impegnato nel frattempo a piangere sulla spalla di Milo per ragioni assolutamente random, starnutì sonoramente. Fu solo alla fine che si scoprì che Saga – spodestato il bicho dal suo titolo di campione assoluto d’incontinenza -  aveva finito la carta igienica e che anche lui doveva usufruire del WC. Un WC senza carta igienica. 

Tragedia.

Come quella che sfiorammo una volta entrati a Strasburgo e finalmente! (Non la tragedia, non la tragedia!) Lasciatemi spiegare meglio: finite le polpette e finito di ripulire la macchina di esse lercia - visto che a Papa era venuto un colpo alla vista del sugo sparso ovunque – finita l’erudita spiegazione sul mondo di Naruto, Bleach, Death Note, Avatar (The Last Airbender, oh!), Inuyasha, Fairy Tail, un manga bislacco pieno zeppo di effeminati cavalieri in armature che utilizzano il cosmo (ma dai!, questa poi! Che s’era fumato il mangaka?), malgrado le mie disperate proteste di: “Li conosco! Li conosco tutti!” (ma anche no! purché stessero zitti!), terminati gli ultimi pettegolezzi, sfottò sull’Mpreg, diatribe tra Maman e Mamie sull’abito da sposa, minacce di morte di Papa a chiunque osasse fiatare, pause pipì per il cane e per gli incontinenti, palpeggiamenti involontari, dispute sulla dubbia bellezza di Rhada … insomma, quando questi masnadieri non riuscirono più a trovare un argomento su cui litigare, ebbene in quel momento ci accorgemmo di essere arrivati a Strasburgo.

Oh, Strasburgo!

Un silenzio di morte calò su di noi.

Anche perché ci accorgemmo troppo tardi che avevamo imboccato la pista ciclabile invece di quella riservata alle auto. Prima, però, di darci dei teppisti, dei barabba e degli scellerati, concedeteci una spiegazione: non ne sapevamo niente! Sul serio! Quella dannata pista ciclabile per il Parking Austerlitz era camuffata benissimo! Non aveva il pavimento rosso! E il cartello era seminascosto!  Come speravamo di evitarla?

Ci riuscimmo e ringraziammo l’urlo terrorizzato di Maman, l’unica sveglia fra noi tutti, la quale, tenendosi con una mano al portagiacche e con l’altra accarezzando voluttuosamente spaventata il freno a mano, gridò all’assassino, il quale guarda caso portava il nome di Mamie. Ah-ha! Credevate fosse Papa, eh? E invece no! Il pover’uomo era crollato cinquanta kilometri prima e manco s’accorse della brusca frenata della suocera, seguitando a dormire serafico, nel frattempo che noi raccattavamo gli organi sparsi per il tappetino, organi fuoriuscitici dal naso.

“Beh, dai! È stato un viaggio tranquillo!”, commentò Papa, svegliatosi una volta parcheggiato e sgranchendosi il corpo indolenzito in un sonoro scrocchiare d’ossa. “Io non l’ho nemmeno sentito … Gueh? Cosa sono quelle facce da funerale?”

“L’hai detto, p’tain!”, ringhiò Mamie, ancora inviperita dalla lavata di capo subìta dalla figlia circa le sue dubbie doti di guidatrice. “Un funerale …”

Resosi conto dell’affermazione infelice e assolutamente fuori luogo, Papa si rimpicciolì tutto vergognoso, mentre i figli scuotevano il capo come quelli che giocarono a dadi sotto la Croce. Solo Aiolia osò avvicinarsi al vituperato, offrendogli un abbraccio empatico e finendo inevitabilmente stritolato da un povero genitore, che si vedeva la sua patria potestas costantemente messa in discussione.

Eravamo infine arrivati a Strasburgo.

Ancora mi domandavo come.

L’unica mia certezza era che piuttosto di rivivere un Natale e Santo Stefano così, mi sarei flagellato per un’intera Quaresima per le vie di Bordeaux, altroché!

“Fermi tutti! Cos’è questa puzza?”

“Non ditemi che il cane ha pisciottato sui nostri cappotti …”

“Positivo, man!”

Appunto.

 

 

 

***

 

 

 

Vivere in centro è una gran bella fortuna, poiché chi ti viene a visitare si ritrova una miriade di informazioni per recarsi a casa tua e non deve neanche rompersi particolarmente le pigne in carte e cartine o a chiedere informazioni! Dove si trova Place Gutenberg? Oh, toh! C’è un cartello grande come la Parigi-Dakar! Ma non mi dire! Seguiamo, seguiamo … Un’occhiata qua … Un’occhiata là … Guarda che bella la Cathédrale Notre-Dame de Strasbourg (o Liebfrauenmünster zu Straβburg, perché tutto in Alsazia è semi-boche)! E a proposito di presenze crucche! Non riuscii a trattenere un sogghigno alla vista dei miei fratellastri, che tentavano di leggere la doppia scritta nei cartelli segnaletici, in particolare quella in dialetto alsaziano o il lotaringio Platt. Il solo che non fece una piega fu Saga, in quanto abituato a parlare boche 24/7 all’università, sebbene neanche lui nascose un certo interesse linguistico per la differenza sia di scrittura che di fonetica.

Intanto, perché dovevamo sempre farci riconoscere, raggiungere l’appartamento di Papie si presentò un’impresa non da poco: infatti, durante la lenta marcia degli zombie (chi aveva voglia, in tutta onestà, di assistere al funerale di uno sfasciafamiglia? E con i cappotti che puzzavano inoltre di piscio di cane?), ci imbattemmo nell’argomento principale delle discussioni dell’ultima generazione Valavitis, le fumetterie. Anzi, la fumetteria! Bordel, non avevamo mai visto una fumetteria vera e propria, solo un reparto in libreria!

“E hanno perfino le action figures! E articoli per le cosplay!”, esclamò incredulo un Aiolia con le lacrime agli occhi per la commozione, o forse per il dolore dell’essere spiaccicato sulla vetrina dai bacini dei fratellastri, i quali anch’essi stavano ammirando tutto quel ben di Dio da maniaci e per una volta, fui contento di essermene tirato fuori, rimanendo al fianco di Papa. Trascinati via i pargoli – Aiolia piantò addirittura le unghie sulla vetrina tanto oppose resistenza -  proseguimmo per la nostra triste meta, senza dimenticarci, e qua a peccare furono le signore, di rimirare incuriosite le boutiques e gli abiti esposti. Saggiamente, noi ruvidi uomini tirchi come non so cosa, accelerammo il passo prima che le matrone memorizzassero il vestito, che ci avrebbero puntualmente obbligato a comprare il giorno di riapertura dei negozi.

Pericolo scampato? Neanche per sogno! Ringraziate M. Primadonna!

Oddio, comprendevo il malessere interiore di Kanon quando, una volta bussato alla porta di casa di Papie, invece del domestico ci aprì l’ultima persona che avremmo mai immaginato trovarsi a Strasburgo, Place Gutenberg: il signor Rhadamanthys.

Compresi un po’ di meno, nell’istante in cui il gemello minore volle sfogare questo suo malessere rifilando un pugno dritto al naso del suo meco, ricacciandolo negli abissi del corridoio.

Non compresi affatto, infine, l’urlo terrorizzato di Kanon dinanzi al suo gesto – e al fidanzato riverso per terra che si massaggiava il naso offeso -  e quel suo precipitarsi a coccolarlo, sbaciucchiarlo (Mamie guardò altrove) e scuoterlo alla milkshake bum-bum tra un “Ma che ci fai qui?” e l’altro.

“In effetti, Nônon ha ragione”, commentò Papa, aiutando il genero a rialzarsi e a sedersi sulla sedia in entrata. (I cappotti erano stati nel frattempo prontamente rifilati al domestico coll’espressivo ordine: Lavali!) “Non ci attendevamo questa tua improvvisata! Anzi, neppure sapevamo che conoscessi mio zio Cardia!”

Levando il fazzoletto dal naso gocciolante di sangue, Rhada aggrottò disorientato la fronte. “Lo zio Cardia? E chi è costui?”

Ah, e io pensavo che questa frase potesse essere rifilata solamente a Carneade!

“Gueh?”, esprimemmo in coro la nostra somma sorpresa. Che cos’era codesta novità? Ci stava forse pigliando per i fondelli?

“E perché lei è viva?”, rincarò la dose Rhada, eleggendosi inconsapevolmente matto totale dell’anno. Essì, bisogna essere davvero folli per sospettare di un probabile (e prematuro) decesso di Mamie, la quale balzò all’indietro, toccando di riflesso ogni oggetto di legno reperibile a mo’ di scongiuro.

“Tié che sono morta!”, berciò pallidissima in volto, sfregando il mobile fino a provocarsi una scia di vesciche sui palmi delle mani. “Razza di roastbeef homo! Non augurarmi di crepare tanto presto!”

“Ma di che ti preoccupi, Mamie?”, aiutai il povero inglese (da quando mi ero assunto il ruolo di p’tit ami ufficiale del bicho, stranamente incominciai a provare una sempre maggior empatia nei confronti di Rhada, il quale si doveva sorbire il peggiore dei Valavitis).  “Ti ha appena allungato la vita: è scientificamente provato che, più auguri ad uno di tirare le cuoia, più quello campa!”

Silenzio meditativo.

“Quindi in tutti questi anni, ho augurato per niente a quel porcello di tuo nonno di morire tramite cancrena alla prostata?”

“Apparemment, oui”, sospirai.

“Eh merde!”

Tossicchiando timidamente, Saga tentò di riportarci all’argomento più pressante, ovvero quello che ci aveva messi in viaggio per due giorni e per di più a Natale. “Non vorrei intromettermi, ma non dovremmo recarci alla veglia del morto?”

“Ah già il morto! Beh, può anche attendere, tanto mica scappa!”, scrollò Mamie le spalle.

“Okay, io ci ho provato …”

“Appunto, Sasà! Lasciamo prima che Rhada ci racconti la sua storia! Soprattutto le parti sanguinolente e sconce!”, allargò Aiolia un sorrisone da pervertito, il quale fu prontamente punito da uno scappellotto da parte di– udite, udite – Kanon.

“Beh, non c’è molto da spiegare …”, temporeggiò ancora sconvolto l’inglese, torcendosi in palese imbarazzo le dita. (E aveva pure le guance rosse: se non fosse stato per il monociglio truce, lo avrei pure abbracciato, tanto era mimichoupi! Argh! Incominciavo a pensare come Kanon!) “Poco prima di Natale ho ricevuto una chiamata dal mio bischero” e indicò il gemello minore, che venne messo a tacere da Saga, onde evitare una fastidiosa interruzione. “In cui mi diceva, che Mamie era morta e che il funerale si sarebbe tenuto qui a Strasburgo. Siccome questa telefonata ha avuto luogo in piena notte” e una seconda occhiataccia a Kanon ci persuase, che quello doveva essere stato un vizio molto verosimile da parte di M. Primadonna. “Ho creduto trattarsi di uno scherzo! Quindi, il giorno dopo, ho tentato di chiarire con la mia belva, ottenendo appunto solo latrati per risposta. Ne ho dedotto che lo choc doveva averlo rimbambito definitivamente e ho deciso di raggiungerlo qui per impedire … ehm … per consolarlo.”

“Che uomo!”, commentò Mamie commossa, asciugandosi una lacrimuccia. “Mi avrai augurato di crepare, ma ti voglio bene lo stesso! Abbracciami!”

Memore della sfiorata depilazione-tranello, Rhada sorrise debolmente, portando in avanti le mani. “Magari dopo la veglia …” e già si alzava per scappare via.

“Invece, signorino!”, gli impedì Kanon la fuga strategica, afferrandolo per il braccio e riportandolo al suo posto (ergo sulle sue ginocchia, Mamma Dragon rulez!). “Ancora non hai risposto al mio SMS!”

La replica di Rhada non tardò a venire. “Non ho ricevuto nessun SMS!”, mentì alla velocità della luce e di fatti non convinse la sua dolce metà, che s’appropinquò a stritolargli le guanciotte, sennonché il provvidenziale arrivo del domestico lo salvò appena in tempo da quella tortura franco-greca.

“A proposito”, cogitò Maman insospettita. “Che fine ha fatto Papa?”

Riponendo le pinzette dentro la borsetta (lode al sesto senso di Rhada), Mamie arcuò il sopracciglio. “Giusto! Non m’ero accorta della sua assenza!” Ovvio, alla fine ci aveva fatto il callo. “Aldebaran …”

“Ma no, Madame Séraphine! Chiamatemi pure per il mio nome di battesimo!”, si schermì imbarazzato l’omone, il quale ancora mi domandavo in quale scuola di box nei bassifondi di Parigi fosse stato raccattato da Papie. “Non mi è mai piaciuto il mio cognome …”

Sbattendo perplessa le ciglia, l’avia augusta ribatté lentamente: “Aldebaran non è il tuo nome?”

“No, è Consuelo. Consuelo Aldebaran, Madame Séraphine: vostro marito  mi ha tanto parlato di voi!”

Ci astenemmo da ogni commento. Perfino quella linguaccia lunga e biforcuta di Mamie non osò proferire parola dinanzi a tale scioccante rivelazione. Specie, se poi avesse avuto la curiosità di indagare anche in quale contesto Papie avesse parlato di lei a quel marcantonio dal  nome di dubbio genere maschile.

“Ah”, disse solo, avviandosi a passo spedito verso la camera ardente.

“Comunque, Papa Dégel non c’è?”

“No, Mademoiselle. È uscito un’ora fa!”

“Pah! Tipico di quell’idiota”, udimmo la voce di Mamie dall’altra parte “Ha ospiti e se la fila all’inglese!”

“Alla francese”, borbottò Rhada.

“Non se sei in Francia, roastbeef!”

“Damn frogs …”

“Ti ho sentito!”

“Mamie, non dovevi ingiuriare il cadavere?”

“Oh giusto! Ma voglio il pubblico! Su, venite!”

Scuotendo il capo rassegnati, la raggiungemmo.

Trovammo la sala arredata con macabro gusto: ogni quadro, mobile, lampadario, tavolo ed esponente dell’arredamento era stato coperto da pesanti drappi neri, come nere si presentavano pure le tende delle finestre. I pochi presenti – Cons-ehm-Aldebaran e un’infermiera – vestivano in maniera sì formale, che ci vergognammo della nostra mise assolutamente –argh, non trovo altro termine – scialla: il massimo del lutto da me portato consisteva in una felpa nera e pantaloni grigi. I miei fratellastri portavano abiti scuri, dal grigio, nero, viola e marrone (immagino per non rinvangare brutti ricordi) tranne che per Kanon, che aveva affermato a chiara voce che secondo lui la morte altro non era, che il primo vero giorno di ferie.  Papa e Maman sarebbero apparsi decenti, se non avessero avuto gli abiti spiegazzati dal viaggio. Rhada si fregiava dello scarlatto accessorio di una scia di sangue sulla camicia nera (e per fortuna che il naso non s’era rotto!). Mamie vestiva di giallo canarino.

Il catafalco dove la bara era stata sistemata poteva vantare di una nauseante quantità di gigli, tanto che l’istinto di aprire la finestra e far circolare un po’ d’aria fu molto forte. Invece, ci accontentammo di prendere posto diligentemente sulle sedie appositamente sistemate da Cons-argh!-Aldebaran e di sventolarci con le mani. L’unica ad essere rimasta in piedi fu Mamie, la quale si accostò melodrammaticamente alla bara scoperchiata, pronta al grande monologo.

Salaud putassier”, incominciò, “o Tanghero Innominabile per gli amici. O Theodoros Kasandakis. O Cardia, che facciamo prima. Insomma, schifoso figlio di puttana se non s’era capito. Io ti odio, dovresti saperlo. Mi hai fregato il marito sotto il naso, me l’hai sodomizzato, hai fatto sì che mio nipote Momus nascesse disturbato tanto quanto Sasori: infatti, si dipinge le unghie, fa comunella con un fricchettone dai lunghi capelli biondi e rumoroso come un tarlo e da piccolo giocava pure con le barbie …”

“Sta parlando di noi due?”, mi chiese perplesso Milo, nel frattempo che mi nascondevo il viso dall’imbarazzo totale per quell’assurdo e umiliante paragone. “Da quando in qua ho il ciuffo alla emo davanti agli occhi? Oh, Ionesco! Tua nonna mi ha appena accusato di usare il mascara!”

“Almeno, non sei stato bollato come gay!”, gli ricordò severamente Aiolia, ancora traumatizzato da quella terribile esperienza.

“… Ho tentato di correggere queste mancanze prendendolo a calci in culo, ma, come puoi vedere, il gaglioffo è più recidivo di un serial killer con gravi disturbi di personalità” e indicò Saga, che roteò esasperato gli occhi in senso orario e antiorario. “Ma non importa: Momus sopravvivrà fino alla pensione e di questo ne sono felice. Magari si sposerà. Magari farà dei figli. E magari si farà anche lui sedurre e inchiappettare.” Pausa d’effetto. “Da un greco.”

“Trop tard!”, bisbigliò Kanon maligno all’orecchio del bicho.

“Franco-greco conta?”, rincarò la dose Aiolia.  Papa prese a scappellotti tutti e due.

“Quindi, per colpa tua, non solo la mia vita è rovinata, bensì pure quella del nipote il cui nonno tu hai barbaramente violentato …”

“Ma non è vero!”, protestò Consue-ehm-Aldebaran.

“Ta gueule!”, inveì Mamie con gli occhi fuori delle orbite. “Se io dico che l’ha violentato, l’ha violentato! E tu non obietterai un bel niente se non vuoi essere seppellito vivo con questo tamarro!”

“Bien, Madame! Taccio!”

Facilmente persuadibile il tipo.

“Dunque, se in questa dannata casa qualcuno mi lasciasse finire di parlare, il succo della questione è che ti odio. Tuttavia ti ringrazio e sai per che cosa? Per avermi risparmiato cinquant’anni di galera per omicidio plurimeditato con aggravante di mutilazione, sberleffi post mortem, asportazione di organi interni, vendita dei suddetti a fabbriche di cibo per cani e occultamento di cadavere nei porcili. Ah sì e prosciugamento del conto corrente, ma sono venalità, no?

Di conseguenza, caro il mio Cardia, io ti perdono per tutto quello che hai combinato! Vogliamoci bene!”

Che. Cosa. Aveva. Appena. Vaneggiato?

“Ouais, ti perdono perché tanto sei morto e quindi non puoi più rompermi le pigne. Mai più! Pascola quindi felice nei verdi campi del gran Manitù! Adieu, mio bastardo, adieu e vai a quel paese!”, concluse Mamie, incrociando le braccia al petto e inchinandosi neanche si aspettasse da parte nostra un applauso. Beh, vero era che il suo “perdono” significava non poco per lei e per un attimo mi sentii orgoglioso: finalmente, aveva messo da parte l’orgoglio per un minimo di carità cristiana. Chapeau Mamie!

Balzammo quindi in piedi per i nostri saluti personali, sennonché …

“Davvero mi perdoni?”, esclamò giulivamente eccitata una voce alle spalle di Mamie, la quale, assieme a noi tutti, ruggì:

“AAAAAAAAAAAAAAAAAARRRRRRRRRRRRGGGGGGGGGHHHHHHHHHH!!!”

Oh, mesdames et messieurs!

Novanta, la paura!

Mentre eravamo riversi per terra, una mano che reggeva il cuore impazzito.

“Ne, bambini? Allora, come vanno le coronarie, pezzenti?”

Quarantotto, morto che parla.

E che se la rideva pure dalla bara.

Come stava facendo in quel momento il prozio Cardia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

To be continued …

 

***********************************************************************************************

 

E così siamo arrivato alla fine del 20°capitolo …

Da qui in poi incomincia la luuuuunga discesa verso la conclusione di questa storia! Misteri verranno svelati, incomprensioni chiarite e matrimoni celebrati.

O no?

Alla prossima, ciao!

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