Spleen

di Love_in_idleness
(/viewuser.php?uid=2759)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Spleen et idéal ***
Capitolo 2: *** Weltschmerz ***



Capitolo 1
*** Spleen et idéal ***


Spleen et idéal

Spleen et Idéal

 

La serata si era aperta per me con un preludio di devastazione. L’arrivo dell’ondata gelida dei cupi presagi e della gelosia mi investì il cuore e me lo avvolse repentinamente in una patina di malinconica commiserazione: a nulla valsero gli sforzi del sole al tramonto e del mare d’oro e rubino; la mia tristezza mi pareva laconica ed esulcerante, insensata, malsana e deleteria, in procinto di condurmi, per via di quella sottigliezza rilevante che si trattava di paranoie da me personalmente addotte senza fondamento logico, verso il superamento dei confini ultimi della pazzia.

Così eressi la mia bolla attorno a me. Furono un fossato profondo ed una muraglia insormontabile, e potevano facilmente essere ritenuti odiosi da tutte le persone le quali non si dimostrano, mai una volta nella vita, abili a comprendere le straordinarie dimensioni interiori di coloro che sanno portarsi dentro una ricchezza tanto segreta da essere spesso confusa con la vanagloria e la volontà di isolamento.

Non funziona così. Spesso la comprensione è un peso atroce perché dono destinato a ben pochi. 

Oh, quand’arrivò lui, com’ero già scosso e turbato! Mi disse: “Non mi abituerò mai a vederti così disperato.”

“Ti sembro disperato?”

Ed annuì.

Abbassai il capo e mi dolsi nel ricordare come per davvero a lui non fossi in grado di mentire o nascondere le mie angosce.

“Disastro!” Disse, e sospirò. Decise di riaccompagnarmi a casa strappandomi dalle riflessioni nelle quali ero languidamente immerso e che non avrebbero potuto trovar compimento altrove, lontano da quel mare sul far della sera così stimolante e disinibente per i miei sensi acuti.

Avrei voluto arrivare ai confini del mondo. Che languore avrei trovato agli antipodi? Magari una sensazione di appagamento.

In un lampo la visione fu chiara ed esemplificata per poter venire compresa dalla mente annebbiata a discapito delle emozioni, come se l’idea un tempo puntuta venisse smussata agli angoli dalla fortuna, onde rotolare con più facilità sulla spiaggia, in balia delle correnti, incerta e sempre indecisa tra terra e mare.

Lungo la strada, per la prima volta in una vita, mi accorsi di odiare i lampioni.

“Perché?” Mi domandò con un’ingenuità commovente.

“Perché questa luce artificiale è pura vanità evanescente, e non ne vale la pena. O no? Come se volessero sfidare la notte! E poi, guarda come si ricoprono di vergogna con la loro luce pungente, penetrante, abbagliante ed innaturale, quasi fosse bella, mentre invece, in cielo, vorrebbero brillare le stelle eterne, silenziose, immote, vibranti.

Non trovi che sia un affronto impareggiabile?”

“Ma i lampioni sono utili per noi, che un’altra volta ancora siamo i Viaggiatori nella notte.”

“Io non mi sono mai lamentato del buio. Cosa vuoi che sia l’oscurità per me, che ne ho il cuore avviluppato e l’anima impregnata! Come se avessi bisogno di soli finti nella mia coscienza, ad illuminare un cammino che non c’è, che non va studiato, né interpretato! Così nero, non può essere compreso.

Ma ogni tanto passa una stella, e squarcia un po’ le mie tenebre fitte e tutte angosciose.”

“Ed è in quel momento che è tutto chiaro?”

Gli dissi: “In quel momento, sì. Ma è proprio un istante di indescrivibile bellezza, tutto mio per l’eternità. Sono sicuro che quel breve attimo di vittoria sia destinato ad una persona sola, una per volta, che nessuno possa essere illuminato da Dio, dal Fato, con la stessa sollecitudine di un altro, e che non si possano condividere certe sensazioni e premesse di suprema attualizzazione.

Ma cosa vorrebbe essere! Non è che ne vada fiero. Potrebbe darsi che sul libro della vita qualche antico scrivano curvo su sé stesso tracci il bilancio di tutti i rari e preziosi istanti di lucentezza meravigliosa, di decisione imprescindibile. E allora, di tanto in tanto, spunterà il mio nome per  qualcuno che compirà una certa solerte ricerca di redenzione nei miei confronti –anche questo farà conto quando gli angeli peseranno la mia anima sulla loro bilancia-.

Ma sai che ti dico? Loro, in un paradiso lontano e serenissimo, disperso, dilatato ed ovattato dal candore della luce divina, sanno che sono un essere pensante, conscio, confuso, così flebile rispetto alla natura demoniaca ma straordinariamente luminoso per quella umana. Lo capiscono dalle mie stelle. Ma che ne sanno di quello che vedo in certi abbagli? Non è una visuale consolatoria e salvifica. Mi saltano all’occhio riflessi di tragedia, dei più sciagurati. Vedo un’Atene sconvolta dalla peste ed una Londra invasa dalle fiamme. A volte mi capita di scorgere di sfuggita il tortuoso tracciato di un fiume di sangue che sgorga dalla sommità di un monte asprissimo, e precipita in anse e curve a gomito, in cascate violente ed in turbini efferati per sterili lande desolate.

Se vuoi la dolorosa verità, amara come il fiele per me che la pronuncio quasi che ogni parola mi corroda la gola, poche volte mi sono sentito in pace con me stesso. Quelle opportunità mi sono state offerte per lenire il dolore spaventoso che mi portavo dentro attraverso la mia inopportuna capacità di vedere. Se Dio m’ha dato la notte, forse, voleva coprirmi degli orrori troppo grandi per essere attutiti col solo mio spirito di sopportazione. Giardini meravigliosi e paesaggi incantevoli da fiaba mi sono stati mostrati allora come medicine, senza nient’altro significato intrinseco che un inconscio valore lenitivo: m’hanno consolato, e fatto credere di essere fondamentalmente un’anima da compatire.

Ma so di per certo che non sono la reale, effettiva proiezione delle mie ombre, dei miei momenti oscuri, delle mie zone di buio incontrastato.

Questo, però, è un segreto. Non dirlo a nessuno!”

Le stradine che sceglievamo sempre ricalcavano la tortuosità e l’inesattezza dei miei pensieri. Le seguivo divertito, ammirando come il caos potesse manifestarsi in mille forme, e come talvolta potesse plasmare anche per sé delle immagini esteticamente belle.

Distratto, lagnante e come al solito malinconico mi lasciai trascinare da lui finché non mi sorprese con un’energica scossa davanti all’uscio.

Entro le mura di casa mi sentii più sicuro, come protetto da un vento fortissimo e da una tempesta dirompente al di fuori del mio ampio spazio vitale. Scorsi le dita sulla ringhiera cesellata d’ottone, poi sulle pareti dei corridoi infiniti che attraversavo con la certezza assoluta che sarei arrivato da qualche parte, nonostante l’angoscia e l’incapacità di recuperare il senso dell’orientamento o la cognizione del tempo. Quel semplice e debole contatto serviva a ricordarmi che mantenevo pur sempre un appiglio alla superficie terrestre, che se fossi stato in procinto di cadere, come di volare nel mio mondo personalissimo di astrazioni, mi sarei potuto aggrappare a quella solida consapevolezza di fabbricato umano e robusto.

Mi accasciai contro una parete liscia: “Mi spieghi perché vuoi portarmi nel cuore dell’incubo?”

“Mi spieghi perché non ti liberi del cuore dell’incubo?” Mi rispose.

“Il mio è un viaggio introspettivo, e come ogni ricerca, va affrontato in due, perché solo con chi mi fa riflettere posso indovinare il vero valore delle cose. Ed è inutile che tu mi plagi, io non appartengo a tutto questo mondo.”

“Perché?”

“Perché nessuno mi ha voluto, a parte te. Quando ho provato a mostrare Loro la mia visione distorta mi hanno fatto capire che la lente d’ingrandimento che usavo era finta e fatta di superbia, non della sensibilità superiore verso l’estetica delle cose. Non mi hanno mai capito perché sono limitati.”

“Cos’è questa, magia? Mi dicesti, quando mi hai incontrato, che è facile parlare con gli estranei delle faccende più intime, e allora mi esprimesti il tuo solenne desiderio di incontrare qualcuno di potenzialmente affine a te, in grado di reggere il peso del mondo, aiutandoti. Mi sono sempre dimostrato il compagno di cui hai bisogno.”

“Ma come faccio a dirtelo di nuovo, che non sei più un estraneo?”

Dal finestrone che mi stava innanzi proveniva ormai il tenue chiarore pallido della luna che era succeduta al sole, in una rincorsa eterna ed instancabile. Avrei voluto possedere la stessa tenacità di quei due amanti disperati separati dalle barriere del tempo per l’eterno perpetuo.

E amen.

Neanche le case mi piacevano per ragionare, perché la razionalità della costruzione doveva allegoricamente vincolare il mio pensiero in una via di logicità e rigore, mentre io avevo bisogno di muovermi e languire a briglia sciolta. Per questo amavo il mare, tutto fatto come me, profondo ed agitato quattro volte al giorno da maree e tempeste; ed amavo anche la notte che mi portava fuori, e che io, per rispetto e devozione, poi mi portavo dentro.

“Tanto,” Gli dissi. “E’ bello anche indovinare le emozioni dalle minime espressioni del viso e delle mani. Tu lo sai fare bene con me. È sempre meglio che essere estranei e parlare con parole che non valgono le immagini celate dai limiti dell’empatia.”

Mi appoggiai alla sua spalla forte. Se potevo sempre consolarmi della sua presenza, in questa desolata Valle di Lacrime! Non era stato il frutto della mia ricerca di affinità?

“Tanto sei sistemato con me.” Sorrise.

“Tanto,” Lo canzonai. “Col mio spleen ed il mio idéal sono condannato alla malinconia poetica, e tu mi segui nel cuore dell’incubo.”

“Tanto,” Disse con una certa nota di urgenza nella voce, come a volermi avvisare della sua decisione irrevocabile di tagliare il discorso. “per quanto ci sforzeremo di uscire dalla galleria, tu ti porterai dietro le tue stelle cadenti, io i miei lampioni. Ma in fondo saremo per sempre incerti ed instabili Viaggiatori nella notte. E non può che andare così.”

 

Beautuiful star in heav’n so bright,

Softly falls thy silv’ry light,

As thou moverst from earth so far,

Star of the evening, beautiful star.

 

(James Sayles, ‘Star of the Evening’)

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Weltschmerz ***


II

Questo secondo capitolo è stato del tutto imprevisto (infatti avevo messo come avvertenza one-shot) ^_^ furba, Marto, furba… forse noterete una certa discontinuità, anche perché io qui ci vedo l’antefatto. È stato scritto mesi dopo.

 

II.

[Full circle]

 

“Il sentire il dolore cosmico deve necessariamente ricondurre al punto di partenza.” Fu la constatazione amara dell’irreprensibile Viaggiatore nella Notte. “Solo in una dimensione onirica si può immaginare il treno su cui viaggia la coscienza, la mia coscienza inquieta.

Sono stanco di viaggiare.”

Gli sembrava, questo pensiero allucinato dai mille possibili risvolti, una tragica evidenza fallimentare, come una parabola che s’innalza nell’ascesa gloriosa del mattino e che poi, raggiunto lo Zenit, decade con un ultimo spasimo di grazia, soffocata dal buio incombente.

Era proprio notte, in quell’attimo cristallizzato di delirio. E non a caso veniva sempre di notte il momento della partenza inaspettata.

- Il cerchio si conchiude, - Ripeté per se stesso – e mi lascia prigioniero al suo interno, in un labirinto senza via d’uscita. -

Anche il treno, prima o poi, avrebbe preso a viaggiare in cerchio, muovendosi in spirali concentriche senza mai raggiungere una fine, come avviene per ogni segmento, ma proseguendo all’infinito, perché all’infinito, per infinite volte, sarebbe stato ricondotto al punto di partenza.

Il ragazzo sdraiato sul sedile in fronte a lui si svegliò, leggermente stordito dall’ora tarda. Si alzò, socchiuse lievemente il finestrino facendo penetrare una sottile lama di aria gelida dal frammento di cielo penetrante attraverso il vetro. Si accese una sigaretta e cominciò a fumare respirando il fumo con una certa voluttà.

Al solitario Viaggiatore nella Notte faceva seriamente difficoltà la presenza di un estraneo interposto tra sé e l’esplorazione del estremo mondo sensistico di distorsioni percettive che lo animava durante quella particolare notte insonne. I suoi pensieri vennero bruscamente interrotti dal curioso studio dell’altro, dall’analisi della sua gestualità e della mimica, delle piccole espressioni del volto che sembravano celare un universo nascosto.

Si considerava un ottimo osservatore, perché presupponeva che il punto di partenza fondamentale in ogni ricerca fosse il senso e la percezione. La prima regola per concentrarsi era osservare in silenzio. Allora fissava l’altro, muto.

Fuori dal finestrino poteva catturare scorci e schegge saettanti di Oltremondi crudeli ed alternative dimensioni metafisiche. Ben serrato in se stesso, meditabondo, in mente solo il suono di campane a distesa che festeggiano il lutto, gli pareva che il treno deragliasse in una realtà intangibile, sprofondando in un baratro di luce ed affondando in una sofficezza effimera dove anche le stelle come le vediamo noi sarebbero risultate solo macchioline scure e sfocate.

L’altro cercava l’accendino. Frugava in borsa provando a non emettere il minimo rumore, ma il tintinnio di chiavi e il fruscio lo ricondussero indietro nel suo corpo.

Una sensazione spiacevole, lo sapeva bene, non va mai sottovalutata, e quel ragazzo tutto indaffarato col suo accendino riusciva ad emanare una strana, abbacinante lucentezza che non si sapeva ricondurre altrimenti dallo scomparto deserto, buio, freddo.

Gli allungò il suo accendino solo per non dover più sentire quei rumorini atrocemente amplificati nel suo cervello, lo mandavano fuori di senno.

L’altro ringraziò, s’accese la seconda sigaretta e gliene offerse una. Lui declinò gentilmente.

“Eppure non capisco,” Cercò di scusarsi agitando la mano con la sigaretta che formava un filo intricato di fumo nell’aria adamantina. “era qui un attimo fa, e ora non lo trovo. Che rabbia.

Quando ti serve una cosa non la trovi mai. Non succede anche a te?”

“Sì.” Il tono si intristì particolarmente, facendosi elegiaco, nostalgico. Catastrofico.

“Hai perso qualcosa di importante?”

Si voltò lentamente: “Ho perso molto tempo e molte persone. Forse il treno di stanotte mi porterà in un luogo in cui valga la pena costruire qualche cosa dalle ceneri.”

“Oh!” Tirò una boccata. “Suchende! La tua non è certo una cerca occasionale come per il mio accendino. To’, eccolo…”

“Certo.”

“Ma – hai guardato bene?”

“Ora guardo bene te e la tua ingenuità. Mi impegno davvero, cosa credi! Trovo solo me stesso, torno al punto di partenza. Gli uomini sono affetti da moto perpetuo come certi meccanismi di certi orologi. Il mio, però, è un moto perpetuo circolare. Una maledizione.”

“Capisco. Ma forse è normale.”

“Cosa? Tornare immancabilmente al punto di partenza?”

“No, che tu conosca solo te stesso. Succede. Vuol dire che sei un pensatore formidabile. Noli foras ire! Quante sciagure uno s’arreca per nulla: la disgrazia è una forma mentale. Credo.”

“Con gli estranei è facile parlare anche delle faccende più intime. Ti rivelerò un segreto: vorrei solo qualcuno che mi possa aiutare a sostenere tutte le mie distorsioni percettive, il mio movimento circolare ed il mio spleen. Allora dovunque andrebbe bene. Ma da solo è davvero complesso.”

“Hai guardato bene? Sei sicuro?”

“Me l’ha già chiesto.” Si appoggiò meglio allo schienale del sedile polveroso.

“Te lo dico perché il mondo pullula di gente che si sente sola. Mi sembra strano – A meno che tu non abbia smesso di cercare.”

Annuì.

“Beh, complimenti. Ci credo che sei ancora al punto di partenza!” Rise.

Quella risata lo irritò profondamente: “Mi stai prendendo in giro?” Sibilò tra i denti.

“In cerchio. Sì.

Non essere arrabbiato. Non le vedi le stelle che ci brillano incastonate nel petto? Ti dico queste cose perché le sento anch’io.

C’è un arco delizioso che si stende davanti ai tuoi occhi, un ponte di cristallo e di diamante e pietre lunari. Conduce esattamente dall’altra parte del fiume: a te, che stai di qua, sembra tutto scintillante, ma in realtà è la stessa terra, la stessa medesima occasione, la stessa virtù, la stessa possibilità. Solo che sei rincuorato.”

La campagna sferragliante dietro a quel vetro di muta accettazione continuava a scorrere davanti ai suoi occhi colpita da mille riflessi grotteschi. Le stelle ancora non danzavano, la loro non era una pioggia leggera e delicata di buoni sentimenti.

Eppure il treno continuava a procedere dritto, lineare come il suo tempo, continuava a marciare verso, a tendere, mai a tornare indietro, al punto di partenza.

La sua sensibilità verso il dolore cosmico si acuiva, rendendosi paradossalmente meno fastidiosa.

Sorrise quando il ragazzo gli restituì l’accendino, chiedendogli: “Ma tu dove stai andando?”

“Non so.” Scrollò le spalle.

“Ah.”

“Sì, sono uno Zigeuner. Mi fermo un po’ qui, un po’ lì, ed alla fine, sempre nel cuore della notte, mi desto come da un sogno che m’abbia stordito i sensi: vedo l’errore macroscopico, la disarmonia, il punto di rottura. La mia presenza.”

“E te ne vai senza sapere dove?”

“Sì. Prendo il primo treno e viaggio till the end, fino al capolinea.”

“Nemmeno io so dove sto andando, quindi magari –“

Il treno si arrestò a quel punto, quando già albeggiava e un nastro di sole incandescente e caldo si snodava con grazia oltre le colline dolci, come a voler investire tutte le cose nella luce.

 

 

 

--- Ho chiuso con ‘luce’, che bello! Di solito finisco con immagini brutte… Over the hill and far away ^_^

Ho scritto questo secondo capitolo in vacanza, in un periodo in cui ero fuori dal mondo. L’ispirazione mi è venuta osservando la copertina di Octavarium, ci sono quattro palle che girano… il pendolo di Focol-o-come-cavolo-si-chiama. Ecco la mia teoria del moto perpetuo… sempre grazie ad Octavarium poi, ora sono fissata coi cerchi e col tornare al punto di partenza. Un’altra fonte di ispirazione è stata l’introduzione di Siddharta col Suchende che significa letteralmente ‘colui che cerca’.

Volevo postare il chap prima del ponte di Ognissanti ma mi sono scordata. Sono una disgrazia.

Commentate ^_^ ---

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=51215