Spleen et Idéal
La serata si era aperta per me con un preludio di
devastazione. L’arrivo dell’ondata gelida dei cupi presagi e della gelosia mi
investì il cuore e me lo avvolse repentinamente in una patina di malinconica
commiserazione: a nulla valsero gli sforzi del sole al tramonto e del mare
d’oro e rubino; la mia tristezza mi pareva laconica ed esulcerante, insensata,
malsana e deleteria, in procinto di condurmi, per via di quella sottigliezza
rilevante che si trattava di paranoie da me personalmente addotte senza
fondamento logico, verso il superamento dei confini ultimi della pazzia.
Così eressi la mia bolla attorno a me. Furono un fossato
profondo ed una muraglia insormontabile, e potevano facilmente essere ritenuti
odiosi da tutte le persone le quali non si dimostrano, mai una volta nella
vita, abili a comprendere le straordinarie dimensioni interiori di coloro che
sanno portarsi dentro una ricchezza tanto segreta da essere spesso confusa con
la vanagloria e la volontà di isolamento.
Non funziona così. Spesso la comprensione è un peso atroce
perché dono destinato a ben pochi.
Oh, quand’arrivò lui, com’ero già scosso e turbato! Mi
disse: “Non mi abituerò mai a vederti così disperato.”
“Ti sembro disperato?”
Ed annuì.
Abbassai il capo e mi dolsi nel ricordare come per davvero a
lui non fossi in grado di mentire o nascondere le mie angosce.
“Disastro!” Disse, e sospirò. Decise di riaccompagnarmi a
casa strappandomi dalle riflessioni nelle quali ero languidamente immerso e che
non avrebbero potuto trovar compimento altrove, lontano da quel mare sul far
della sera così stimolante e disinibente per i miei sensi acuti.
Avrei voluto arrivare ai confini del mondo. Che languore
avrei trovato agli antipodi? Magari una sensazione di appagamento.
In un lampo la visione fu chiara ed esemplificata per poter
venire compresa dalla mente annebbiata a discapito delle emozioni, come se
l’idea un tempo puntuta venisse smussata agli angoli dalla fortuna, onde
rotolare con più facilità sulla spiaggia, in balia delle correnti, incerta e
sempre indecisa tra terra e mare.
Lungo la strada, per la prima volta in una vita, mi accorsi
di odiare i lampioni.
“Perché?” Mi domandò con un’ingenuità commovente.
“Perché questa luce artificiale è pura vanità evanescente, e
non ne vale la pena. O no? Come se volessero sfidare la notte! E poi, guarda
come si ricoprono di vergogna con la loro luce pungente, penetrante,
abbagliante ed innaturale, quasi fosse bella, mentre invece, in cielo,
vorrebbero brillare le stelle eterne, silenziose, immote, vibranti.
Non trovi che sia un affronto impareggiabile?”
“Ma i lampioni sono utili per noi, che un’altra volta ancora
siamo i Viaggiatori nella notte.”
“Io non mi sono mai lamentato del buio. Cosa vuoi che sia
l’oscurità per me, che ne ho il cuore avviluppato e l’anima impregnata! Come se
avessi bisogno di soli finti nella mia coscienza, ad illuminare un cammino che
non c’è, che non va studiato, né interpretato! Così nero, non può essere
compreso.
Ma ogni tanto passa una stella, e squarcia un po’ le mie tenebre
fitte e tutte angosciose.”
“Ed è in quel momento che è tutto chiaro?”
Gli dissi: “In quel momento, sì. Ma è proprio un istante di
indescrivibile bellezza, tutto mio per l’eternità. Sono sicuro che quel breve
attimo di vittoria sia destinato ad una persona sola, una per volta, che
nessuno possa essere illuminato da Dio, dal Fato, con la stessa sollecitudine
di un altro, e che non si possano condividere certe sensazioni e premesse di
suprema attualizzazione.
Ma cosa vorrebbe essere! Non è che ne vada fiero. Potrebbe
darsi che sul libro della vita qualche antico scrivano curvo su sé stesso
tracci il bilancio di tutti i rari e preziosi istanti di lucentezza
meravigliosa, di decisione imprescindibile. E allora, di tanto in tanto,
spunterà il mio nome per qualcuno che
compirà una certa solerte ricerca di redenzione nei miei confronti –anche
questo farà conto quando gli angeli peseranno la mia anima sulla loro
bilancia-.
Ma sai che ti dico? Loro, in un paradiso lontano e
serenissimo, disperso, dilatato ed ovattato dal candore della luce divina,
sanno che sono un essere pensante, conscio, confuso, così flebile rispetto alla
natura demoniaca ma straordinariamente luminoso per quella umana. Lo capiscono
dalle mie stelle. Ma che ne sanno di quello che vedo in certi abbagli? Non è
una visuale consolatoria e salvifica. Mi saltano all’occhio riflessi di
tragedia, dei più sciagurati. Vedo un’Atene sconvolta dalla peste ed una Londra
invasa dalle fiamme. A volte mi capita di scorgere di sfuggita il tortuoso
tracciato di un fiume di sangue che sgorga dalla sommità di un monte
asprissimo, e precipita in anse e curve a gomito, in cascate violente ed in
turbini efferati per sterili lande desolate.
Se vuoi la dolorosa verità, amara come il fiele per me che
la pronuncio quasi che ogni parola mi corroda la gola, poche volte mi sono
sentito in pace con me stesso. Quelle opportunità mi sono state offerte per
lenire il dolore spaventoso che mi portavo dentro attraverso la mia inopportuna
capacità di vedere. Se Dio m’ha dato la notte, forse, voleva coprirmi degli
orrori troppo grandi per essere attutiti col solo mio spirito di sopportazione.
Giardini meravigliosi e paesaggi incantevoli da fiaba mi sono stati mostrati
allora come medicine, senza nient’altro significato intrinseco che un inconscio
valore lenitivo: m’hanno consolato, e fatto credere di essere fondamentalmente
un’anima da compatire.
Ma so di per certo che non sono la reale, effettiva
proiezione delle mie ombre, dei miei momenti oscuri, delle mie zone di buio
incontrastato.
Questo, però, è un segreto. Non dirlo a nessuno!”
Le stradine che sceglievamo sempre ricalcavano la tortuosità
e l’inesattezza dei miei pensieri. Le seguivo divertito, ammirando come il caos
potesse manifestarsi in mille forme, e come talvolta potesse plasmare anche per
sé delle immagini esteticamente belle.
Distratto, lagnante e come al solito malinconico mi lasciai
trascinare da lui finché non mi sorprese con un’energica scossa davanti
all’uscio.
Entro le mura di casa mi sentii più sicuro, come protetto da
un vento fortissimo e da una tempesta dirompente al di fuori del mio ampio
spazio vitale. Scorsi le dita sulla ringhiera cesellata d’ottone, poi sulle
pareti dei corridoi infiniti che attraversavo con la certezza assoluta che
sarei arrivato da qualche parte, nonostante l’angoscia e l’incapacità di
recuperare il senso dell’orientamento o la cognizione del tempo. Quel semplice
e debole contatto serviva a ricordarmi che mantenevo pur sempre un appiglio
alla superficie terrestre, che se fossi stato in procinto di cadere, come di
volare nel mio mondo personalissimo di astrazioni, mi sarei potuto aggrappare a
quella solida consapevolezza di fabbricato umano e robusto.
Mi accasciai contro una parete liscia: “Mi spieghi perché
vuoi portarmi nel cuore dell’incubo?”
“Mi spieghi perché non ti liberi del cuore dell’incubo?” Mi
rispose.
“Il mio è un viaggio introspettivo, e come ogni ricerca, va
affrontato in due, perché solo con chi mi fa riflettere posso indovinare il
vero valore delle cose. Ed è inutile che tu mi plagi, io non appartengo a tutto
questo mondo.”
“Perché?”
“Perché nessuno mi ha voluto, a parte te. Quando ho provato
a mostrare Loro la mia visione distorta mi hanno fatto capire che la lente
d’ingrandimento che usavo era finta e fatta di superbia, non della sensibilità
superiore verso l’estetica delle cose. Non mi hanno mai capito perché sono
limitati.”
“Cos’è questa, magia? Mi dicesti, quando mi hai incontrato,
che è facile parlare con gli estranei delle faccende più intime, e allora mi
esprimesti il tuo solenne desiderio di incontrare qualcuno di potenzialmente
affine a te, in grado di reggere il peso del mondo, aiutandoti. Mi sono sempre
dimostrato il compagno di cui hai bisogno.”
“Ma come faccio a dirtelo di nuovo, che non sei più un
estraneo?”
Dal finestrone che mi stava innanzi proveniva ormai il tenue
chiarore pallido della luna che era succeduta al sole, in una rincorsa eterna
ed instancabile. Avrei voluto possedere la stessa tenacità di quei due amanti
disperati separati dalle barriere del tempo per l’eterno perpetuo.
E amen.
Neanche le case mi piacevano per ragionare, perché la
razionalità della costruzione doveva allegoricamente vincolare il mio pensiero
in una via di logicità e rigore, mentre io avevo bisogno di muovermi e languire
a briglia sciolta. Per questo amavo il mare, tutto fatto come me, profondo ed
agitato quattro volte al giorno da maree e tempeste; ed amavo anche la notte
che mi portava fuori, e che io, per rispetto e devozione, poi mi portavo
dentro.
“Tanto,” Gli dissi. “E’ bello anche indovinare le emozioni
dalle minime espressioni del viso e delle mani. Tu lo sai fare bene con me. È
sempre meglio che essere estranei e parlare con parole che non valgono le
immagini celate dai limiti dell’empatia.”
Mi appoggiai alla sua spalla forte. Se potevo sempre
consolarmi della sua presenza, in questa desolata Valle di Lacrime! Non era
stato il frutto della mia ricerca di affinità?
“Tanto sei sistemato con me.” Sorrise.
“Tanto,” Lo canzonai. “Col mio spleen ed il mio idéal
sono condannato alla malinconia poetica, e tu mi segui nel cuore dell’incubo.”
“Tanto,” Disse con una certa nota di urgenza nella voce,
come a volermi avvisare della sua decisione irrevocabile di tagliare il
discorso. “per quanto ci sforzeremo di uscire dalla galleria, tu ti porterai
dietro le tue stelle cadenti, io i miei lampioni. Ma in fondo saremo per sempre
incerti ed instabili Viaggiatori nella notte. E non può che andare così.”
Beautuiful
star in heav’n so bright,
Softly
falls thy silv’ry light,
As
thou moverst from earth so far,
Star
of the evening, beautiful star.
(James
Sayles, ‘Star of the Evening’)