†~Resurrection~† [Feeling of Darkness]

di Fiamma Drakon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Voci, sensazioni ***
Capitolo 2: *** Scomodi contrattempi ***
Capitolo 3: *** Come un redivivo sopravvive nel mondo dei vivi ***
Capitolo 4: *** Notizie non proprio rassicuranti ***
Capitolo 5: *** Informazioni da trovare (ad ogni costo) ***
Capitolo 6: *** Vergata di sangue ***
Capitolo 7: *** Trappola fuori ''casa'' ***
Capitolo 8: *** Nell'ombra della prigionia ***
Capitolo 9: *** A casa di Marcus ***
Capitolo 10: *** Storie e teorie ***
Capitolo 11: *** La Setta dei Corvi ***
Capitolo 12: *** Piume nere e vuoto tetro ***
Capitolo 13: *** Decisioni drastiche ***
Capitolo 14: *** Trame nere all'orizzonte ***
Capitolo 15: *** A tu per tu ***



Capitolo 1
*** Voci, sensazioni ***


1_Voci, sensazioni
†~Resurrection~† [Feeling of Darkness]



Gli spari riecheggiavano contro le mura degli edifici circostanti, rimbombandole attorno con forza inaudita, togliendole il respiro.

Acquattata sul sedile, le mani premute sulla testa come a proteggersi, teneva un occhio chiuso e con l’altro guardava la strada davanti a sé.
«Papà, per favore, cerca di guidare dritto!!!» esclamò, spaventata.
«Che cosa credi che stia cercando di fare?!».
Un ennesimo sparo e un proiettile perforò il vetro posteriore dell’auto, fendendo lo spazio tra i due sedili, mandando in frantumi il parabrezza. Fortunatamente, la maggior parte della pioggia di vetri si riversò all’esterno dell’abitacolo, anche se qualche frammento riuscì a ferirla.
Strinse a sé con maggior forza la piccola piramide di granati che aveva nella tracolla sulle sue gambe.
«Papà... - chiamò la ragazza, le lacrime agli occhi - ... fa male morire...?».
Era una domanda dannatamente stupida, lo sapeva, eppure non poteva fare a meno di porla, men che meno a suo padre: chi, meglio di lui, poteva risponderle?
Questo fece per risponderle, quando un secondo colpo lo centrò in pieno al petto, schizzando fuori dallo sterno assieme a del sangue scuro, sfrecciando fuori dal parabrezza rotto.
«PAPÀ!» urlò Erika, presa dal panico.
L’uomo sterzò e girò in una stretta stradina laterale, troppo per il veicolo, al quale furono bruscamente asportati gli specchietti laterali.
Era un vicolo cieco, ma se ne accorsero troppo tardi.
Un’esplosione rimbombò nell’aria e una vampata di fuoco si affacciò dal vicolo, costringendo gli inseguitori a fermarsi.
«Dici che sono morti?»
«Che cazzo di domande fai? Certo che sono morti! Nessuno riuscirebbe a sopravvivere ad una simile esplosione!»
«Allora, che facciamo?»
«Andiamo a fare rapporto al capo».
E ripartirono, sgommando.
Erika cercò di districarsi dalle lamiere contorte del mezzo, senza riuscirci.
Della piramide che aveva gelosamente custodito, nessuna traccia.
Le lacrime le pungevano gli occhi e il fumo le impediva di respirare. Gli occhiali erano volati chissà dove a seguito dell’impatto e tutto il mondo circostante le appariva come una sfocata chiazza di colori.
Tossì, lacrimando.
«Papà! Papà!» chiamò, piangendo e imprecando tra sé.
Ma io, come diavolo ci sono finita in questo inferno...?!


«Erika!».
Il richiamo giunse dal corridoio, cogliendola di sorpresa.
«Erika!!».
La porta si aprì, riversando nella stanza una quantità di luce esagerata.
«Mamma, chiudi la porta!» si lamentò la ragazza, nascondendo la testa dietro un grosso leggìo dall’aria antica.
«Erika, stare a leggere chissà quali libri satanici per tutto il giorno, al buio per giunta, non giova affatto alla tua miopia!».
«Non è buio qui, solo che con tutto questo sole non si vede la luce della candela! E poi io non leggo libri satanici, ma di Alchimia!»
«Tesoro, dovresti uscire...».
Erika conosceva bene quel tono di voce: era quello che sua madre usava per rimproverarle dolcemente qualcosa, prima di passare a toni più bruschi, ma lei non era intenzionata a cedere.
Non ancora, almeno.
«Mi hai tolto la paghetta, per cui non posso andare in libreria» obiettò.
Arianna mandò un lungo sospiro carico d’esasperazione, mentre varcava la soglia dello studio che la giovane Erika Reagh utilizzava come biblioteca e laboratorio, come lasciavano intuire gli alambicchi e le ampolle che aveva sparso un po’ ovunque tra piccoli tavoli e scrivanie.
Osservando la figlia, ne colse l’espressione e gli occhi, così dissimili dai suoi e tanto simili a quelli di Alan, il padre che non aveva mai conosciuto: se ne era andato un mese prima che lei nascesse e da allora non aveva più avuto sue notizie.
«L’ultima volta che mi hai chiesto la paghetta l’hai spesa per comprarti un libro sulle pratiche alchemiche!»
«Libro che, tra l’altro, mi hai sequestrato e non ho mai potuto guardare! - contestò Erika, offesa - Perciò non vedo l’utilità di uscire».
«Adesso basta! Erika Reagh, ti ordino categoricamente di uscire da questo studio e da questa casa!».
La ragazza si alzò con un sonoro sbuffo: ecco arrivati i modi bruschi.
A quel punto non aveva altra scelta se non quella di ubbidire.
«Va bene, vado... ma tu non toccare niente!» avvisò, con espressione seria.
Come Arianna poté ben constatare, Erika indossava il suo solito completo: shorts verde militare e canotta azzurra; teneva i capelli, decisamente lunghi, raccolti in un’alta coda di cavallo, cosicché non le cadessero sugli occhi, grandi e marroni.
Si vestiva in modo forse troppo mascolino, ma proprio per questo, pur nella differenza di sesso e di età, le ricordava terribilmente Alan.
«Che c’è da fissare?» domandò la ragazza, risvegliando la madre da quella sorta di trance in cui era caduta.
«Niente, tesoro. Divertiti»
«Già, come se potessi...» mormorò lei, afferrando la sua tracolla nera preferita ed uscendo dalla stanza.
Le occorsero alcuni minuti perché i suoi occhi si abituassero alla luce che entrava dalle finestre del corridoio, così intensa rispetto a quella cui era abituata a stare nel suo laboratorio.
Attraversò il corridoio, il soggiorno ed uscì da casa, incamminandosi verso la fermata dell’autobus.
Ma perché la mamma non riesce a farsi una ragione della mia voglia di solitudine?! So che non le piace che stia sempre da sola in casa, ma non può obbligarmi ad uscire se io non voglio!
Uffa... se solo papà fosse qui...
Erika...? Sei tu?
La ragazza si fermò, sbattendo più volte le palpebre, accigliata e confusa: aveva davvero sentito una voce nella sua testa che... la chiamava?
Scosse il capo.
Non devo auto-suggestionarmi. Sono solo fantasie. Le mie fantasie. Niente di così eclatante.
Perciò riprese a camminare.
Arrivò alla fermata pochi minuti più tardi, appena in tempo per prendere il bus diretto in centro, con sua immensa “gioia”.
Mentre stava seduta in fondo al mezzo, addossata al sedile, non riusciva a fare a meno di ripensare a quanto appena successo: non era capace di farsene una ragione, per il semplice fatto che, nell’istante in cui quella presunta “allucinazione sonora” aveva pronunziato il suo nome, il suo stomaco aveva sussultato e il cuore le aveva mancato un battito.
Era come se il suo organismo avesse riconosciuto quella voc... “allucinazione sonora”, in un modo a lei completamente sconosciuto.
Starò impazzendo...? Non dovrebbero esserci voci nella mia testa. Tranne la mia, s’intende.
Riuscì a riaversi dai suoi pensieri appena in tempo per scendere alla sua fermata.
Eppure, ripensandoci, ho come la sensazione di... aver già sentito quella voce, da qualche parte, anche se non riesco a ricordare dove, maledizione!
Nel frattanto che si lambiccava su quel pensiero, camminava, senza prestare attenzione a dove andava, lasciando all’abitudine la guida dei suoi passi.
Questa la condusse fino davanti al negozio che, nelle ultime settimane, l’aveva più interessata: non era un edificio molto ben tenuto, esteriormente. In vetrina erano esposti una serie di articoli magici e alchemici dall’aspetto intrigante, soprattutto per chi, come Erika, aveva una malsana passione per i misteri magici e gli antichi rituali alchemici.
Niente di satanico, ma neppure troppo nella norma.
Come la ragazza non tardò a notare, il telaio della vetrina era stato recentemente riverniciato d’una bella tonalità d’oro, come la porta, anche se la riverniciatura non era riuscita a ridare all’uscio un po’ dell’antico vigore: appariva comunque vecchio e sul punto di rompersi.
Sopra ad essi spiccava a grosse lettere, dorate e dalle forme arabescate, il nome del negozio: “Magie e misteri”.
Erika fissò la porta alcuni istanti, indecisa se entrare o meno: in fondo, non aveva soldi con sé ed entrare per farsi tentare e basta non le avrebbe affatto giovato alla salute.
Dovrò fare a meno dei miei adorati gingilli per qualche tempo, almeno finché la mamma non si deciderà a darmi di nuovo la paghetta... uff...
Erika... vieni.
Sussultò, facendo scivolare gli occhiali fin sulla punta del naso.
Riassettandoli, continuò ad esaminare la porta, mentre la sua mente lavorava febbrilmente.
Infine, la soluzione del mistero le capitò sotto mano più per caso che per altro: aveva capito dove aveva già sentito quella voce.
È... strano, no, pazzesco! Non posso credere che quella voce sia la stessa di quei sogni!
Ora la ricordava bene, forse anche troppo: negli ultimi tempi aveva avuto dei sogni piuttosto singolari. Solo un personaggio, un uomo, li accomunava tutti, oltre al tipo di ambiente, spettrale anche se diverso di volta in volta.
Più d’una volta aveva addirittura paragonato quei sogni ad un telefilm a puntate: in qualche strano e bizzarro modo, sembravano tutti collegati.
Comunque, una cosa era certa: era di quello sconosciuto la voce che udiva nella testa.
Cercando di far un po’ di luce nella memoria, riuscì a ripescare una delle ultime “puntate”, ambientata in una piccola casa, dove si trovavano il misterioso personaggio e una donna di bell’aspetto, ma dall’aria pericolosa.
«Per tornare... cosa devo fare?» aveva chiesto l’uomo.
«Devi contattare qualcuno, ma non ti basterà mantenere il contatto: il tuo corpo non sopravviverebbe dall’altra parte» aveva replicato la donna in tono serio.
«E allora come faccio?».
Sembrava che lui si stesse arrabbiando.
«Dovrai nutrirti»
«Di cosa?».
A quel punto, lei gli aveva sorriso in modo candido e malevolo.
«Non vorresti saperlo...»
Era tutto ciò che si ricordava, l’ultimo pezzo prima che sua madre la svegliasse.
Non vi aveva badato molto, accusando la stanchezza di quel suo sogno così bizzarro, ma adesso non ne era più tanto sicura.
Che cosa dovrei fare? Inizio ad avere paura...
Non devi spaventarti, Erika. Vieni... vieni da me.
Okay, adesso ho paura sul serio.
Indietreggiò di qualche passo, decisa a non entrare in modo categorico, poi una strana sensazione s’impossessò di lei: era fatta di nostalgia e... tristezza.
Non aveva mai provato una cosa del genere prima di allora.
Prima che potesse fare qualcosa, qualsiasi cosa, la sensazione crebbe, divenne più forte, più intensa, finché non ne fu completamente sopraffatta.
Che cosa mi sta accadendo?! Perché mi sento... affogare? Sto affogando nelle mie stesse emozioni...?
Erika... entra.
Era chiaro, ormai: chiunque o qualunque cosa le stesse sortendo quell’effetto, voleva che lei entrasse in “Magie e misteri”. Con ogni probabilità la stava aspettando là dentro.
Che fare?
Da una parte era curiosa di scoprire che cosa voleva il misterioso figuro del suo sogno, ma dall’altra temeva di farlo.
Erika vieni!
Fu quell’ultimo richiamo, più deciso e potente di tutti gli altri, che la convinse a muovere i primi, timidi passi verso l’entrata del negozio, le mani serrate attorno alla spallina della sua tracolla, nella vana speranza che ciò le potesse dare coraggio.
Camminò a passi lenti verso l’uscio; con mani tremanti la spinse e varcò la soglia.
Dentro, come sempre, la luce era debole, soffusa, ed i grossi, vecchi scaffali che decoravano le pareti e l’interno del negozio, erano immersi in una familiare, mistica penombra. Gli articoli parevano trarre immenso beneficio da quella semioscurità, che li faceva apparire ancor più preziosi e interessanti.
«Signorina Penelope?» chiamò Erika con voce incerta, avanzando all’interno, senza poter fare a meno di guardarsi intorno.
La signorina Penelope era la proprietaria del negozio, nonché sua amica. Erano ormai tre anni che lei frequentava quel negozio e aveva avuto modo di conoscere la padrona come questa aveva avuto modo di fare altrettanto.
«Signorina Penelope...?» chiamò ancora, a voce lievemente più alta: forse era nel retrobottega e non l’aveva sentita.
Un improvviso tonfo sordo proveniente proprio dall’altra parte della porta del retrobottega la costrinse a fermarsi, i sensi all’erta. Non era stato un tonfo “normale”, quello dei vasi che cadono e si frantumano, o di un qualsiasi altro oggetto. In realtà, non credeva neppure che ci fosse differenza tra il tonfo di un oggetto e di qualche altra cosa, eppure in quella circostanza le era parso proprio diverso.
Anche perché aveva carpito nel rumore un che di vagamente umido e carnale. Non sapeva neppure come potesse aver afferrato un’informazione del genere, fatto stava che l’aveva recepita.
Sembrava il rumore di un corpo morto... che cadeva.
Scosse con forza la testa: come poteva anche aver solo pensato ad una cosa del genere?
La signorina Penelope non tiene cadaveri in negozio.

Nell’istante in cui formulò quel pensiero la porta fatidica si aprì.
«Oh, Erika!».
«S-salve» replicò la ragazza, nervosa, all’apparire della proprietaria.
Questa si appoggiò elegantemente allo stipite dell’uscio, incrociando le braccia sul petto.
Penelope era davvero una bella donna: capelli biondi lunghi fino alla vita, occhi azzurri e look da maga dell’antica Grecia. Il suo stile si addiceva molto al genere di negozio che gestiva.
La donna le sorrise cordialmente.
«Sei venuta per qualcosa in particolare?».
Erika si guardò intorno un’ultima volta: niente di anomalo. Scosse la testa.
«Niente» esclamò, volgendosi per uscire.
Mosso un passo, udì distintamente un rantolo soffocato alle sue spalle, qualcosa di ovviamente non umano e inquietante. Rabbrividì palesemente e, decisa ad uscire da lì il più in fretta possibile, si affrettò verso la porta, tuttavia...
«Erika».
Il richiamo la fece girare un’altra volta: Penelope si era scostata dallo stipite. Adesso era in piedi al centro della soglia e la fissava con sguardo dolce ma indecifrabile.
«Sì...?»
«Vieni, ho qualcosa da mostrarti...».
Così dicendo la donna rientrò nel retrobottega - completamente buio, da quel che la ragazza poteva vedere - facendole cenno di avvicinarsi.
Le gambe di Erika tremavano - non sapeva dire se per paura, emozione o ambedue le cose - mentre lentamente ubbidiva, il cuore che le martellava in gola, il cervello in febbrile lavoro.
Cosa vorrà farmi vedere...? E cosa è stato ad emettere quel rantolo di prima...?
Cosa nasconde... là dentro?
«Cosa c’è oltre quella... porta?» domandò, incapace di trattenere oltre la domanda.
Negli occhi di Penelope balenò una scintilla che non le piacque affatto: sembrava malvagia. Inoltre, pareva emanare pericolo come fosse un’aura che permeava non solo la sua pelle, ma anche l’aria tutt’intorno a lei.
Riusciva quasi a vederla.
«Vedrai... ti piacerà di certo» esclamò, ma dal tono con cui lo disse Erika non ne fu affatto convinta: sembrava eccitata dalla cosa, ma al tempo stesso malsanamente contenta. Tuttavia, la ragazza continuò ad avvicinarsi.
Quando giunse sulla soglia, un acre odore di carne non propriamente preservata la investì.
Non era un odore molto intenso, ma era pungente, tanto da darle un po’ di mal di testa.
Si fermò, senza azzardare un passo all’interno.
Non è... possibile...





Angolino autrice
Dopo una lunga riflessione e numerosi tira e molla, alla fine ho deciso di postarla, anche perché ormai l'avevo iniziata e, sinceramente, non mi andava di lasciarla a prendere polvere nell'anonimato, dato che è un lavoro estremamente sentito.
Per cui spero di ricevere qualche commento, per sapere se interessa o meno.
Well, al prossimo capitolo (forse).
F.D.

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Capitolo 2
*** Scomodi contrattempi ***


2_Scomodi contrattempi Nelle semitenebre del retrobottega era steso un corpo umano, un cadavere.
Era riverso a terra, vicino ad un pentolone nel quale era contenuta una strana sostanza verde fosforescente, e sembrava già in decomposizione, anche se non poi così tanto.
L’odore di cadavere era persistente, ma sottile, tanto che dopo qualche istante smise di farvi caso.
«Oddio... - sussurrò la ragazza, orripilata, mettendosi le mani a coppa sulla metà inferiore del viso - Signorina Penelope, cosa...?».
«Guarda» la interruppe quest’ultima, un sorriso tenero ad incresparle le labbra.
La donna le circondò le spalle con un braccio e le indicò l’uomo steso a terra, che... si stava muovendo?!
Erika sbatté più volte le palpebre, incredula: non c’erano dubbi, si stava muovendo sul serio!
Le braccia tremavano un po’, nello sforzo di rimettersi in piedi. Sembrava che avesse preso una bella botta.
«C-che cosa... è?» domandò la ragazza, intimorita.
Penelope non rispose: era troppo occupata ad ammirare l’uomo mettersi carponi, una mano alla testa, che scosse con vigore.
«Fanculo, Circe! Che male...» ringhiò, sedendosi sul pavimento.
Erika sgranò gli occhi: la voce che aveva sentito nella testa era la sua, non c’erano dubbi e pure il suo aspetto le era familiare. Era l’uomo che aveva visto nei suoi sogni!
La proprietaria del negozio rise.
«La mia antenata ha fatto la sua parte, Alan...» esclamò, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del suo interlocutore.
Alan... dove ho già sentito questo nome?
La ragazza lo esaminò, incuriosita: alla luce del calderone poté notare che i capelli erano ispidi e un poco lunghi, castano scuro, della stessa tonalità dei suoi, e gli occhi pure somigliavano un sacco ai suoi. La pelle era pallida e smorta, ma c’era ancora indice di un vecchio colorito scuro, abbronzato. Indosso portava una t-shirt verde militare e un paio di pantaloni alla militare. Ovviamente, i capi d’abbigliamento erano sforacchiati e macchiati di terra e quelli che sembravano essere aloni di sangue.
Era un uomo giovane, sulla trentina e atletico.
«Erika, lui è...»
«Erika?».
Lo sconosciuto alzò gli occhi verso di lei, incrociando il suo sguardo per lunghissimi, interminabili minuti. Lei si sentì stranamente completa, grazie a quella presenza, a quel contatto, ma non sapeva dire perché.
Quando lui si alzò, indietreggiò d’un passo.
«C-chi sei? E perché sei... sembri... morto?» chiese.
L’uomo parve rabbuiarsi.
«Arianna non ti ha mai parlato di me?».
Fu a quel punto che riuscì a ricordare dove aveva già sentito il suo nome, e il cuore le mancò un battito.
«Sei... sei... - balbettò, incredula - ... papà?».
A quel punto, lui sorrise e annuì.
«Vi somigliate davvero tanto» commentò Penelope.
«Già, non ci avrei mai sperato: pensavo avresti preso tutto da tua madre».
Iniziava ad essere veramente confusa: quello era suo padre? Perché era tornato così improvvisamente e in quello stato? Perché sembrava morto? Perché aveva nominato “Circe”, poco prima?
Cominciava ad avere davvero troppe domande e troppe poche risposte, ma non poteva negare che la loro somiglianza non fosse solo una supposizione, perché l’aveva notata anche lei.
Le ginocchia le tremarono e cedettero. Cadde a terra, gli occhi fissi al suolo.
«Erika! Tesoro, che cosa c’è?».
Lei scosse la testa, più per scacciare le lacrime che minacciavano di travolgerla che per rispondere a lui, tuttavia non riuscì a trattenersi a lungo. Fu così che si sciolse in un pianto carico di sollievo, gettando le braccia al collo di suo padre e stringendolo a sé forte.
«Papàààà...!» singhiozzò.
Alan parve sorpreso, ma poi le circondò le spalle a sua volta.
«Erika...».
Penelope si chinò vicino a lei, scostando l’altro per guardarla negli occhi.
«Tuo padre non è più...»
«Aspetta, lascia che glielo dica io: non voglio essere accusato d’essermi sottratto alle mie responsabilità».
Erika passò lo sguardo dall’uno all’altra, perplessa.
«C-che cosa... succede? Cosa dovete dirmi?» chiese, agitata.
«Be’, vedi...».
RATATATATATATATATATATANN!!!
La giovane Reagh schizzò in piedi, allarmata.
Penelope si volse verso la porta, coprendo la ragazza, mentre Alan le afferrava il braccio con forza, tanto da intorpidirle la mano.
«Cos’è stato?!» gridò, ma suo padre le tappò la bocca, ammonendola silenziosamente.
«Ehi, mezza-strega, cosa è successo...?» chiese a sua volta alla padrona del negozio, in un labile sussurro.
RATATATATATAN!
La donna digrignò i denti.
«Sono qui...» sibilò.
«Chi?» domandò Erika.
«Merda! - imprecò suo padre, rinsaldando la presa sul braccio della figlia, strappandole un soffocato gemito di dolore - Mi hanno già trovato?»
«Hanno uno stregone, e potente. Non è difficile per certi soggetti percepire la tua presenza».
«Che si fa?».
Silenzio.
«Prendete la mia macchina e fuggite. Potrò tenerli impegnati, ma non troppo».
Detto ciò, Penelope lanciò ad Alan una chiave, che questo afferrò al volo.
«Andiamo, tesoro» esclamò quest’ultimo, avviandosi verso una porta posteriore.
Erano quasi arrivati quando, dall’altra parte della stanza, fu violentemente abbattuta la porta e tre figuri si fecero avanti.
Erika strillò, terrorizzata, al vedere i mitra che due dei tre impugnavano.
«Eccola! Prendete il Contatto!!!».
Uno degli uomini armati si avvicinò a Penelope con l’intenzione di superarla, ma questa schioccò le dita, facendo apparire un grosso tomo sopra di lui. Con un sonoro slam il libro piovve sulla sua testa, mandandolo steso a terra, KO.
«E così tu sei una strega» esclamò un uomo che Erika non riuscì a vedere perché coperto dalla donna.
«Preferisco essere definita maga, se non ti spiace».
E schioccò le dita, materializzando istantaneamente un centinaio di sottilissimi dardi, che scagliò con potenza inaudita verso i suoi avversari.
«Troppo rudimentale per essere efficace» commentò aspramente l’uomo di prima.
La stanza fu subitaneamente illuminata da una fiammata che incenerì le frecce di Penelope, la quale tuttavia non si arrese.
«Sigfred, vai a prendere la piccola Reagh» ordinò poi.
L’uomo armato ancora in piedi si avvicinò a grandi passi, l’arma saldamente puntata contro mio padre.
«Pensi che quel giocattolino mi faccia qualcosa, allo stato attuale, eh?» esclamò Alan, sprezzante: l’importante non era la sua incolumità, bensì quella di sua figlia.
Ormai era tardi perché lui si preoccupasse di certe cose.
Penelope fece per dirigere il suo prossimo attacco contro Sigfred, ma lo stregone la precedette, materializzando robuste corde, che si avvinghiarono attorno al suo petto, immobilizzandola, quasi stritolandola.
«Signorina Penelope!» urlò Erika.
Non capiva più niente, tutto era così assurdo e stava accadendo così in fretta che il suo cervello non riusciva ad elaborarlo.
Tutto il mio tranquillo e noioso mondo sconvolto in pochi decimi di secondo... da non credere!
«Sta’ zitta, mocciosa...!» esclamò Sigfred, ormai arrivatole dinanzi, puntandole il mitra al petto.
La canna dell’arma le sfiorò la pelle, spaventandola: terribilmente vera e vicina.
«Ehi, razza di imbecille! - osservò Alan, arrabbiato, afferrando con la mano libera la canna del mitra, spostandola - Non ti azzardare a spararle, chiaro?!».
«Fottiti!» gli ringhiò Sigfred, sparandogli una raffica di proiettili in petto.
Lui si afflosciò contro la parete, la mano ancora stretta attorno alla canna.
Erika urlò, mentre le lacrime minacciavano di uscire di nuovo: l’aveva appena ritrovato ed era... era...
«Te l’ho detto che queste stronzate non funzionano con me» commentò suo padre, rimettendosi in piedi e ridendo di gusto.
«Cazzo! Che cosa...?».
«Sigfred! Prendi la mocciosa e andiamo! Il capo la vuole viva, razza di idiota! - esclamò lo stregone, che adesso stava sopra Penelope, osservandola dall’alto in basso con ostentata superiorità - Per quel che riguarda te, piccola “maga”...».
L’avrebbe uccisa, Erika lo sapeva.
Sentiva quella certezza strisciarle sulla pelle, insinuarsi in ogni suo singolo poro e penetrarle dentro, viscida come un serpente.
«Coraggio, ragazzina andiamo!» esclamò Sigfred, afferrando Erika per un braccio e strattonandola.
Tuttavia, incontrò la resistenza del padre, ancora saldamente ancorato all’altro braccio.
«Oh, no» disse, spingendolo con forza e velocità il mitra verso il sicario, il quale non poté fare niente più che incassare il colpo e cadere in ginocchio a terra, agonizzante.
Gli strappò quindi di mano l’arma e la puntò contro lo stregone.
«Avanti, liberala, altrimenti ti riempio quella testa bacata di piombo» minacciò, agitando il suo nuovo giocattolo.
Lo stregone, tuttavia, non fece niente di più che rimanere fermo dov’era.
«Non voglio ripetermi».
Iniziava a stufarsi di tutti quei contrattempi: voleva solo un po’ di pace per poter parlare con calma a sua figlia, spiegarle la situazione e, magari, riuscire ad ottenere qualche informazione sulla sua vita, che lui non aveva mai avuto il piacere di seguire.
Lo stregone, infine, obbedì: liberò Penelope e la rimise in piedi, scaraventandola contro Alan, che prontamente l’afferrò prima che cadesse a terra, spingendola poi verso sua figlia.
«Signorina...!» esclamò Erika, preoccupata.
«È tutto a posto, non mi ha fatto niente» assicurò la donna, carezzando con mani tremanti le guance esangui della ragazza.
Erano spaventate ambedue, ma sembrava che la più giovane avesse un maggiore controllo sui propri nervi, forse perché non era stata sul punto di morire.
«E adesso, te e i tuoi scagnozzi potete levare le tende» esclamò Alan, serio.
Lo stregone, a quel punto, rise.
«Non essere troppo presuntuoso, redivivo! Anche se ce ne andiamo, ricorda che io posso rintracciare la tua aura dovunque. Non avrai comunque scampo!».
«Redivivo...» sussurrò senza voce Erika, stringendosi a Penelope, gli occhi sgranati e stravolti che andavano lentamente a posarsi su suo padre.
No, non può essere! Questo vuol dire che...!
«Per il momento mi accontento che tu ti eclissi» continuò il castano, rinsaldando la presa sul calcio del mitra, pronto a premere il grilletto.
Nessun movimento da parte del misterioso aggressore.
Fu allora che Alan perse veramente la pazienza e sparò.
Il colpo perforò la spalla dello stregone, che imprecò a mezza voce, mentre un secondo colpo gli trapassava un fianco e un terzo la gamba destra.
«Vattene, adesso» avvertì l’uomo, pronto a sparare di nuovo.
La sua vittima lo fissò con occhi ardenti di ira.
«Verrà il giorno, redivivo, in cui la pagherai per questo, e cara».
Detto ciò, alzò le mani sopra la testa e le unì. In una nube viola, lui e i due tirapiedi sparirono.
Alan rilassò le spalle, gettò da un lato l’arma e si volse per tornare dalla figlia.
«Tesoro, come stai?».
Per tutta risposta, la ragazza picchiò debolmente i pugni sul suo petto e scoppiò in lacrime.
«Papà... perché non mi hai detto che... che... - deglutì e si fece forza, cercando disperatamente le parole che non riusciva a trovare - ... che eri morto?!».
Singhiozzò e cadde in ginocchio, mentre il pianto aumentava, dando sfogo alla sua tristezza e alla sua angoscia: l’aveva finalmente trovato, dopo ben quindici anni di vita, solo per scoprire che era già morto.
«Mi dispiace... ma volevo dirtelo, credimi. Non volevo che venissi a saperlo da una persona del genere!».
«Alan, non c’è tempo per queste discussioni, adesso: dovete andarvene. Di certo arriverà qualcuno, dopo tutti quegli spari» li interruppe Penelope, preoccupata.
Si prese qualche attimo per rifletterci, dopodiché annuì.
«Hai ragione. Erika, andiamo».
L’aiutò a rialzarsi e la trascinò via ancora in lacrime. Aprì la porta che dava sul retro e, quando stava per portarla fuori, la ragazza oppose resistenza, voltandosi verso la padrona del negozio.
«Signorina! - esclamò, attirandone l’attenzione - Protegga la mamma da quelle persone, la prego!».
Penelope si sorprese di una così acuta intuizione: aveva già afferrato il tipo di situazione in cui si era appena venuta a trovare.
Le sorrise in modo incoraggiante.
«Non preoccuparti, ci penso io! Tu impegnati ad aiutare tuo padre, mi raccomando!».
La porta si richiuse davanti alla ragazza, impedendole di rispondere.
Decisa, smise di lasciarsi trascinare e iniziò a camminare con le sue gambe.
Lo farò, non dubiti.





Angolino autrice
Dato che mi è sembrato di vedere un certo interesse per questo lavoro, il verdetto è di continuarlo, sperando che ciò non implichi da parte dei lettori una mancanza di opinioni nei capitoli a venire.
Ringrazio vivamente e con tutto il cuore Sachi Mitsuki, Nana_vampiro e xXxNekoChanxXx che si sono prodigate nello scrivere qualche riga per invogliarmi a proseguire la fic. Mi auguro che questo capitolo vi piaccia! ^^
Inoltre, ringrazio coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 3
*** Come un redivivo sopravvive nel mondo dei vivi ***


3_Come un redivivo sopravvive nel mondo dei vivi Raggiunsero la macchina di Penelope in pochi minuti: era parcheggiata all’imboccatura dello stretto vicolo che divideva l’edificio del negozio da quello adiacente. Non fu neppure difficile riconoscerla, dato che era l’unica lasciata in un posto tanto particolare.
Alan fece il giro e si mise al posto di guida, mentre Erika si sedeva al posto del passeggero, allacciandosi la cintura di sicurezza.
«Dove andiamo?» chiese la ragazza, mentre suo padre accendeva il motore.
«Non lo so...»
«Non a casa, vero...?».
Silenzio.
«No, non a casa» rispose infine l’uomo, partendo.
Fu in quel momento che il cellulare che lei teneva in borsa squillò. Tiratolo fuori, controllò il numero.
«È la mamma. Che cosa le dico?» chiese, preoccupata: non poteva certo raccontarle la verità.
“Ehi, mamma non preoccuparti, sono stata solo minacciata da un brutto ceffo e quasi rapita, ma sai cosa? Papà mi ha salvato. Ah, quasi dimenticavo, è un redivivo fresco di rito e probabilmente il mio quasi aguzzino tornerà alla carica, per cui... non aspettarmi per cena per i prossimi mesi!”. No, le avrebbe ordinato categoricamente di rientrare e, se si fosse rifiutata, avrebbe chiamato le autorità.
Era già successo, per cui sapeva che ne era capace.
«Dille che passerai la notte da una tua amica» esclamò Alan, sbrigativo.
«Okay... - replicò lei, quindi avviò la conversazione - Pronto?»
«Tesoro, sai che ore sono? Devi rientrare!»
«Ehm, già... mamma?»
«Sì, cara?»
«Mi sono dimenticata di dirti che stasera dormo da una mia amica. Avevo già programmato tutto e già portato le mie cose ieri l’altro... mi dispiace»
«Ah, da Katrina?».
«No... non da Katrina» la contraddisse Erika: troppo facile. Aveva il numero di telefono, l’avrebbe scoperta subito.
Frugò nella memoria alla ricerca di una sua amica di cui sua madre non conoscesse il numero telefonico, ma era un’impresa, dato che non era esattamente la più popolare della scuola.
«Sono da... Angela» rispose infine. Non ricordava bene se avesse anche il suo numero, ma le sembrava di no.
«Ah, perfetto! Allora ci si vede domani per pranzo, amore... okay?».
La giovane Reagh soffocò a stento un singulto: sua madre era ignara di tutto, per cui non poteva sapere quanto, in quel momento, avrebbe desiderato essere a casa con lei, a cenare come ogni sera.
Avrebbe voluto raccontarle tutto, sciogliersi in un ennesimo pianto, ma non poteva: si era ripromessa di aiutare suo padre.
Con uno sforzo immenso, riuscì a risponderle senza lasciare che il suo bisogno impellente di piangere le alterasse la voce: «Okay, a domani».
Chiuse la telefonata e mandò un mezzo sospiro e singhiozzo, buttandosi contro il sedile, chiudendo gli occhi per non mostrarsi ancora più debole e fragile di quel che aveva già fatto.
«So che vuoi tornare a casa, non importa che fai finta di niente» commentò suo padre in tono di rimprovero.
Lei non osò aprire gli occhi: si limitò ad abbassare il viso.
«No, non è vero»
«Sei stata catapultata in una questione che sfugge alla tua comprensione. È naturale che tu voglia tornare a casa. Inoltre, se sei qui la colpa è mia: avevo bisogno di stabilire un Contatto per tornare qui».
«Un Contatto?» domandò la ragazza.
«Sì, ma questo non è il posto più adatto ad una lunga chiacchierata. Sappi però che mi dispiace di averti trascinata in questo casino».
A quel punto Erika perse la pazienza e, riaperti all’improvviso gli occhi, si volse verso suo padre e lo picchiò sul braccio a lei più vicino.
«Smettila di scusarti! Ormai sono qui, per cui ti aiuterò, qualsiasi cosa tu debba fare e in qualsiasi casino tu sia, capito? Non ti permetterò di uscire di nuovo dalla mia vita per sempre!» esclamò, in tono duro e indignato.
Alan non riuscì a non sorridere: l’espressione imbronciata e al tempo stesso decisa che le si era dipinta in faccia gli ricordava sua moglie.
Di fuori somiglierà anche a me, ma dentro è uguale a te, Arianna: coraggiosa, ferma nelle sue decisioni... e fragile.
Il motivo principale per cui mi sono innamorato di te.
«Hai trovato una destinazione?» chiese la figlia, incrociando le braccia sul petto e sbirciando al di fuori del finestrino: il crepuscolo stava rapidamente lasciando il posto alla notte vera e propria, quella dove sicari come quelli da cui erano appena fuggiti potevano benissimo nascondersi e tendere loro un agguato.
Non aveva mai osato aggirarsi per le strade dopo il crepuscolo e il solo pensiero di poter essere nuovamente minacciata con un’arma da fuoco le bastò per farle desiderare che suo padre avesse già una meta in mente che fosse sicura.
«Sì, solo che... be’, potrebbe non piacerti granché» asserì l’uomo.
«Mi basta che sia sicura...» esclamò Erika.
«Non posso garantirtelo in modo assoluto, ma penso che sarà difficile localizzare la mia presenza laggiù...».
Confortante...
«Okay... quanto manca?».
Stavano attraversando la strada che costeggiava il cimitero e a lei tutta quella cupa spettralità dava fastidio. Oltretutto, iniziava a sentire i primi, per adesso ancora deboli morsi della fame.
«Ci siamo» esclamò Alan, parcheggiando proprio davanti all’entrata del cimitero.
«C-cosa? Qui?» domandò lei, scettica.
«Sì, perché? In mezzo ad altri morti sarà più difficile trovare me, ovvero un morto».
Ragionamento che non faceva una grinza, purtroppo per lei.
Sospirando, scese dalla macchina e si accostò al cancello. Cercò di aprirlo ma, sorpresa delle sorprese, era chiuso.
«Come facciamo ad entrare? È chiuso».
Suo padre si avvicinò all’inferriata e afferrò due sbarre di ferro, tirandole. Con somma sorpresa della ragazza, riuscì a piegarle come fossero di burro.
«Fatto» esclamò.
L’avambraccio destro rimase ancorato alla sbarra che la mano ancora stringeva.
Erika soffocò un grido grazie al cenno di suo padre, che riuscì a tranquillizzarla, anche se di pochissimo.
«Non preoccuparti, succede. Sono un cadavere, ricordi?» disse lui, strappando l’arto dal cancello e riattaccandoselo all’articolazione, che annunciò la risaldatura con uno sgradevole scrocchio d’ossa.
Già, è un cadavere... di che mi devo preoccupare se inizia a smembrarsi? Vorrei sapere dove ho la testa, certe volte...!
Varcò il passaggio da lui creato, seguito a ruota dalla figlia, che si tenne doverosamente attaccata a lui per tutto il tragitto fino alla chiesetta diroccata che si ergeva al centro.
«Mi sembri... spaventata» osservò suo padre, esitante, entrando nell’edificio, aggirando un pezzo di soffitto crollato.
«Non ho grande simpatia per i cimiteri...» commentò Erika, osservando l’ambiente circostante: la chiesa era vecchia e le parti rimaste integre parevano essere ancora in piedi per puro miracolo. Probabilmente era stata costruita qualche secolo prima, perché il collante usato per tenere insieme le mura non era dei migliori.
Il tetto era quasi del tutto crollato: solo la parte che ricopriva il piccolo altare dall’altra parte dell’entrata era rimasta al suo posto. Il resto era accumulato e sparso per la sala, assieme ai detriti delle pareti.
«Dovremo rimanere qui...? Non ci sono ripari... né letti» commentò la ragazza, osservando con un certo disgusto lo sporco incrostato sull’altare.
«Dietro l’altare c’è una piccola porta. Penso che conduca alla casa del prete» la informò Alan, che si era premurato di precederla nell’esplorazione del posto. Infatti, aveva già aggirato l’ara e stava cercando di forzare la porta appena menzionata.
Sua figlia scansò a sua volta l’ostacolo e lo raggiunse, appena in tempo per vederlo strappare dai cardini la porta, che gli rimase in mano.
«Cazzo. Devo riuscire a dosare le mie nuove energie da redivivo»
«Già...» convenne lei, dandogli qualche lieve pacca sulla spalla.
«Se non altro ti ho trovato un letto» fece notare Alan, come se ciò compensasse la porta scardinata.
Erika si affacciò all’interno: una piccola stanza, due letti, un micro-tavolo e una vecchia lampada ad olio, vuota e rotta, abbandonata sul pavimento. Una suite di lusso, non c’era che dire.
Sospirò.
«Sempre meglio che niente...» commentò, entrando.
Suo padre la seguì e fece per sedersi sul letto di fronte a quello di lei, quando il rumore del suo stomaco si fece chiaramente sentire nel silenzio.
Erika non poté fare a meno di ridere, dandogli le spalle.
«Non credevo che i morti potessero avere fame...»
«Infatti...».
La voce strozzata con cui suo padre le rispose la costrinsero a girarsi.
«Papà!» esclamò, avvicinandosi a lui: era piegato in due a terra e la guardava con occhi vacui e sgranati, le pupille bianchissime.
«Erika... devo...»
«Cosa? Devi cosa?!»
«Il tuo sangue. Devo... bere il tuo sangue...».
La ragazza lo guardò come se avesse appena detto qualcosa di inconcepibile. Dalla sua espressione sofferente ma disgustata trapelava chiaramente il suo totale disprezzo per quello che doveva fare.
«Come...?»
«Sto morendo... di nuovo?» chiese, ma la domanda non era rivolta né a lei né a se stesso.
La notizia la fece risvegliare da quella sorta di trance in cui era caduta.
Iniziò a frugare nella sua tracolla, cercando qualcosa di affilato, purtroppo senza riuscirci.
Si guardò intorno, vagliando con lo sguardo l’intera stanza, in cerca di qualcosa che potesse esserle utile. Infine, i suoi occhi caddero sulla lanterna rotta a terra: schegge di vetro erano sparse attorno all’oggetto, e parevano ancora affilate e certamente utili allo scopo.
Si precipitò, ne raccolse una particolarmente grande e tornò vicino a suo padre, il quale osservò il pezzo di vetro con un misto di orrore e bramosia.
Quando la ragazza lo poggiò sul dito, si sporse di scatto verso di lei, gridando: «No!». Poi si ritrasse, tremante, gli occhi sbarrati, dibattuto tra il disperato bisogno e il desiderio di proteggere sua figlia.
Non voleva che si ferisse per lui, ma la sua parte prettamente morta desiderava vedere scorrere il suo sangue e assaporarlo.
Si rannicchiò contro il fondo del letto, spingendosi contro di esso sempre di più, quasi volesse fuggire e nascondersi.
Erika lo fissò, non riuscendo a non mostrarsi compassionevole: sembrava dilaniato e scosso.
«Papà, non è niente. È solo un taglietto...» esclamò in tono rassicurante.
Pulì per bene il pezzo di vetro sulla maglietta, ricordandosi quanti batteri patogeni avrebbero potuto essersi accumulati sulla sua superficie negli anni, quindi lo pose sul dito e lo affondò nella carne, graffiando il polpastrello, dal quale iniziò a sgorgare un piccolo fiotto di linfa scarlatta.
All’inizio, la ferita le faceva un po’ male, ma non era intenzionata a lasciar trapelare il dolore nella sua espressione, che rimase seria e concentrata, mentre porgeva il dito ad Alan. Senza farsi vedere, poi, fece scivolare la scheggia di vetro all’interno della sua tracolla.
Quella vista sembrò alimentare il desiderio e l’orrore di suo padre, tuttavia il primo riuscì, in qualche modo, a prevalere sul secondo: come una bestia privata del cibo per lungo tempo, si chinò sul polpastrello e dapprima lo leccò, poi iniziò a succhiarne il sangue.
Non era doloroso, anzi, era piuttosto piacevole: nonostante la foga iniziale con cui si era avventato sul sangue, non era rude, ma piuttosto accorto.
La parte bestiale, a quanto sembrava, non aveva avuto totalmente la meglio su quella razionale. Suo padre non si era lasciato controllare completamente dal suo istinto di... morto vivente?
Il suo sguardo era addolorato ma pieno di desiderio, un misto che le sciolse il cuore.
Spinta da un naturale affetto, Erika si inginocchiò vicino a lui e appoggiò il capo sulla sua spalla, chiudendo gli occhi, desiderando che suo padre non fosse un redivivo, ma fosse solo vivo. Che potesse tornare a casa con lui e vederlo finalmente insieme a sua madre: la famiglia che aveva sempre sognato e che non aveva mai potuto avere.
Represse le lacrime: non voleva angustiarlo inutilmente, anche perché, se si fosse messa a piangere in quel momento, lui avrebbe potuto pensare che lo facesse per il dolore.
Infine, le labbra di suo padre si ritrassero, tremanti.
«Basta... così».
Si allontanò, sottraendosi al contatto con Erika, lo sguardo basso.
La ragazza parve notare un rossore piuttosto vivido sulle sue guance prima ceree e uno strano scintillio negli occhi.
Non pareva molto in sé.
«Papà...?» lo chiamò.
«Mi... dispiace» biascicò, cercando di mettersi in piedi.
«Smettila di dire “mi dispiace” per tutto! Te l’ho già spiegato» replicò lei, indignata.
Lui traballò e fu solo grazie al pronto intervento della figlia che non cadde.
Sembrava ubriaco.
«Tutto okay?» chiese la ragazza.
Alan sbatté le palpebre, confuso.
«Sì...» mentì: in realtà, non stava realmente bene.
Tutto il sangue che aveva appena assunto gli aveva dato alla testa.
Incredibile! Non credevo che sarei arrivato ad essere sbronzo addirittura di sangue... ora le ho passate davvero tutte.
Si scostò dalla figlia e si lasciò cadere sul letto, massaggiandosi le tempie.
«Non mi sembri molto in forma» osservò Erika.
«Questo perché ha appena assunto una ingente quantità di sangue...».
La ragazza si bloccò, allibita: una voce incorporea aveva seriamente appena risposto alla sua osservazione?
Alan mandò un sospiro carico d’esasperazione.
«Circe, non è il momento per le tue frecciatine idiote...» esclamò in tono stanco.
Erika sbatté più volte le palpebre: Circe...?
Lei conosceva - solo di fama, ovviamente - solo una Circe...
«La maga greca?» chiese, improvvisamente illuminata.
«Mmh...?» fece suo padre, perplesso.
«Sì, proprio lei. Tu devi essere il Contatto così lungamente cercato da Alan... Erika, se non sbaglio».
E così mi ha cercato... per un sacco di tempo?
Erika gettò un’occhiata di sbieco al padre che, accortosene, si affrettò a distogliere lo sguardo, cercando di mascherare meglio che poté un certo imbarazzo.
«Sono capace di sbrigarmela anche da solo, adesso» esclamò lui, per distrarsi dalle attenzioni della figlia.
«Non ne dubito, uomo dalle mirabili facoltà mentali... ma se non riuscivi nemmeno a ricordare il nome di tua figlia!!!»
«Non l’ho vista nascere, okay? Come potevo sapere che mia moglie le avrebbe dato sul serio il nome che mi aveva detto quand’eravamo fidanzati?!»
«Potevi comunque ricordartelo...».
Alan fece per interromperla, ma Circe proseguì: «Non mi sono comunque messa in contatto con te per parlare di questo, ma per spiegarti come funziona la tua particolare alimentazione in questo momento».
Fece una breve pausa, quindi continuò: «Ogni volta che ti alimenti, sei fuori combattimento per non meno di un’ora...».
«Cosa?!» esclamò lui, quasi urlando, esterrefatto e arrabbiato, tuttavia pareva che quello che Circe stava dicendo avesse un senso, perché si lasciò cadere steso sul letto, le palpebre socchiuse.
«I tuoi organi interni non sono più funzionali, per cui non stai digerendo il sangue di tua figlia. I tuoi tessuti lo stanno assimilando».
Circe sottolineò con particolare enfasi quell’ultima parola, come se avesse un qualche potere persuasivo nei confronti dei suoi ascoltatori.
In effetti, riuscì a schifare abbastanza Alan, che si puntellò fiaccamente sui gomiti, guardando il soffitto, come se la voce di Circe venisse da lì.
«Come sarebbe a dire “assimilando”?!» sbottò, arrabbiato.
«Stanno assorbendo il sangue appena preso. In parole povere, in questo mondo il tuo corpo deve essere impregnato di sangue per poter funzionare».
La spiegazione della maga fu stringata, ma decisamente chiara.
Questo spiega perché fosse sorpreso del suo improvviso attacco di “fame”... commentò tra sé e sé Erika.
«Che cosa?! Non mi hai affatto menzionato questa cosa, prima di spedirmi qui!!!»
«Contavo sulla pratica perché lo capissi sul serio»
«Vaffan...».
Alan si interruppe e, esausto, si abbandonò definitivamente sul letto.
«Papà...?» lo chiamò la ragazza.
«Non sta dormendo. Quello non può più farlo - esclamò Circe, e alla giovane Reagh parve di sentire una risatina aleggiare nell’aria e carezzarle dolcemente la pelle - Dolcezza, mi sembri davvero una ragazza speciale, per cui voglio dirti una cosa, prima che lui inizi a raccontarti tutto: le nozioni alchemiche e magiche che sento tu hai appreso non sono inutili in questa situazione. L’Alchimia e la magia esistono, Erika. Non sono solo favole».
Il suo cuore mancò un battito a quella rivelazione: tutto quello che aveva studiato non era mera fantasia? Non era pura e semplice stregoneria?
Sono davvero un’idiota... non ho appena assistito ad un combattimento magico...?
«Però, per voi umani, la pratica è ormai preclusa, salvo poche eccezioni, che hanno dovuto fare enormi sacrifici per recuperare l’antica capacità di praticare queste scienze. Per questo, voglio farti un dono...».
Circe s’interruppe ed Erika non riuscì a fare a meno di trattenere il fiato quando la sentì sussurrare: «Entfernung».
Attorno a sé, la fanciulla sentì alzarsi un improvviso turbinio d’aria, fresca e frizzante, carica di qualcosa di astratto e mistico che lei non riuscì a comprendere appieno. Quando cessò, si sentiva diversa, pur constatando che non c’era niente di differente nel suo corpo.
È una differenza interiore, anche se non riesco a capire in cosa.
«Ora ti lascio a tuo padre: immagino che avrete molte cose di cui discutere...».
La voce di Circe aveva un tono dolce, quasi materno. In esso, comunque, la ragazza percepì una nuova nota ilare.
«Grazie, Circe»
«Di niente, Erika».
Riuscì a percepire quando il contatto con la maga terminò: fu come se il tepore dell’aria attorno a lei fosse stato bruscamente risucchiato nel nulla.
Una strana, singolare sensazione, ma che certamente non le impedì di rivolgere tutte le sue attenzioni a suo padre: dopo tanto tempo, avrebbero potuto finalmente parlare.





Angolino autrice
Eccomi finalmente con il terzo - forse atteso - capitolo!
Qui ancora non si vede un piffero di trama, ma dal prossimo assicuro che sarà tutto chiaro.
Ringrazio infinitamente Sachi Mitsuki e xXxNekoChanxXx per le preziose recensioni che mi lasciano ad ogni capitolo e che mi riempiono di gioia e voglia di continuare a postare questa fic ^^ non so come farei se non ci foste voi due...!
Grazie anche a quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Spero a presto! ^^''
F.D.

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Capitolo 4
*** Notizie non proprio rassicuranti ***


4_Notizie non proprio rassicuranti Non perse tempo: corse al letto di suo padre e si sedette sul bordo, fissandolo in silenzio, in nervosa attesa.
Alan era ancora steso, con un braccio sopra gli occhi, come a ripararsi da una forte luce e sembrava che l’intenso rossore che fino a poco prima aveva imporporato le sue guance stesse pian piano scemando.
Il silenzio si protrasse per interi minuti, finché Erika non si decise finalmente a romperlo: «Allora... cosa devi dirmi?».
«Non è tanto un... “cosa devi dirmi”, quanto... piuttosto un “cosa devi raccontarmi”...» la corresse debolmente lui.
«È lunga?»
«Dipende da quanto sei disposta ad ascoltare: sembri stanca...» disse, spostando il braccio da sopra gli occhi, puntando questi ultimi su di lei.
Questa scosse il capo, scacciando ogni possibile segno di stanchezza dall’espressione.
«Tranquillo, sono tutta orecchi» esclamò, sorridendogli.
Lui allungò lentamente un braccio verso di lei, passando delicatamente il dorso della mano sulla sua guancia.
La sua pelle era fredda, di ghiaccio, ma il contatto era estremamente piacevole ed Erika non era disposta a rinunciarvi tanto in fretta: allungò le sue mani verso quella di lui e la trattenne contro il suo viso.
Alan le sorrise tristemente.
«È iniziato tutto quando ho lasciato te e tua madre. Non pensare che me ne sia andato perché non avevo intenzione di crescere un figlio - anzi tutt’altro: ti attendevo con impazienza - bensì per proteggervi»
«Da chi?» domandò di getto Erika.
«Un’organizzazione di loschi figuri con cui ero accidentalmente entrato in contatto nell’acquisto di un oggetto raro» continuò.
All’occhiata perplessa che la figlia gli rivolse, lui si spiegò meglio: «Ero solito commerciare oggetti rari, e questo lo era particolarmente, oltre che antico»
«Che cos’era?»
«Un’antica piramide di granato, di epoca azteca, che si favoleggiava possedere poteri magici».
Il tono con cui suo padre pronunciò le ultime due parole convinse Erika a chiedere: «Non credevi affatto che ne possedesse, vero?».
Lui si strinse debolmente nelle spalle ed emise un sospiro a metà tra l’esasperato e lo sfinito.
«Prima di morire ero piuttosto scettico circa questo genere di cose. Ora non posso certo esserlo: se non fosse per pratiche esoteriche io non sarei qui a raccontarti tutto questo».
La ragazza rise tristemente.
«Va’ avanti. Poi che è successo?» chiese.
«Quelli volevano la piramide ad ogni costo, ma io non ero disposto a cedergliela. Non dopo tutta la fatica che avevo fatto per averla» proseguì Alan.
Dal tono, pareva proprio che ci fosse dell’altro.
«Cos’hanno fatto poi?» lo incalzò prontamente la figlia, ansiosa di venire a conoscenza di tutto.
«All’inizio non avevo capito che genere di organizzazione fosse: sapevo solo che non era molto affabile e che sembrava losca. Ma poi è saltata fuori la verità - s’interruppe un istante - Gli acquirenti erano i boss di un’organizzazione illegale alla ricerca del potere sovrannaturale che risiedeva nella piramide. Mi hanno cercato per mezzo mondo, e alla fine sono riusciti a prendere me e la piramide, circa tre anni fa. Mi pestarono a sangue, cercando di convincermi ad aiutarli. Sfortunatamente per loro, qualcuno o qualcosa di sovrumano è arrivato in mio soccorso e ha sottratto loro l’oggetto. Ricordo di averlo visto svanire in un turbinio di piume nere, una cosa strana oltremodo. Allora i due che mi avevano preso, credendo che io sapessi chi fosse il ladro, hanno cercato di estorcermi l’informazione - s’interruppe ancora una volta - Quando hanno visto che non ero intenzionato a collaborare, mi hanno sparato. E così, eccomi qua, Alan Reagh, il redivivo...» concluse semplicemente e in tono rapido.
Erika lo osservò per qualche istante: la rassegnazione con cui accettava il suo essere morto era qualcosa che la inquietava e la rendeva estremamente nervosa e depressa.
Lo fissò intensamente negli occhi, senza sbattere le palpebre, in trance. Si riprese alcuni attimi dopo.
«E così devi ritrovare questa misteriosa piramide...?» domandò.
«Esatto...» confermò suo padre, annuendo debolmente.
«Ma te l’ha soffiata un essere misterioso quando eri ancora in vita...»
«Già»
«Quindi... - concluse Erika - ... non hai la più pallida idea di dove si trovi»
«Questo non è del tutto... esatto».
Alan emise un sospiro, sintomo inequivocabile di stanchezza. Pareva star male, però il rossore delle guance era meno evidente di prima, segno che stava lentamente “assimilando” il suo sangue.
«Mentre ero morto, ho incontrato Circe e le ho spiegato la situazione. Le ho raccontato anche del misterioso ladro... lei ha acconsentito ad aiutarmi e mi ha dato un possibile indizio circa la natura del ladro».
Erika percepì un’esitazione nella parte finale del discorso, come se suo padre l’avesse tenuta all’oscuro di una parte.
Cadde qualche istante di silenzio, che incrementò la tensione e la suspense del momento fino a livelli critici.
Erika fissava suo padre in spasmodica attesa, letteralmente appesa alle sue labbra. Infine, quest’ultimo decise di rompere il silenzio.
«Ha detto che potrebbe essere un guardiano appartenente ad una setta adoratrice dei corvi»
«Be’, perfetto! Le sette non sono così facili da trovare, e chissà dove potrebbe essere...» sbuffò la ragazza, contrariata.
«Ricorda che... la piramide l’ho acquistata in questa zona...»
«Però potrebbe benissimo esserne venuto a conoscenza anche a chilometri da qui e noi non abbiamo un punto di partenza!»
«Potremmo iniziare cercando informazioni sulla piramide stessa: se aveva dei poteri, finché era con me non ne ha mai manifestati. Probabilmente erano sigillati in qualche modo...» azzardò Alan.
«Certamente per mezzo di un rituale di qualche tipo» confermò Erika, sicura.
L’improvviso borbottio del suo stomaco la indusse a distogliere lo sguardo, a disagio.
Suo padre alzò il capo per poterla guardare meglio.
«Non è niente» si affrettò a dire lei, alzandosi.
«Davvero? A me pareva fame...»
«Sto bene, posso resistere»
«Devi mangiare. Tu sei ancora viva».
Dicendo ciò, Alan si tirò su, sedendosi sul bordo del suo letto, ma se ne pentì subito.
Stupido mal di testa...! esclamò tra sé, ma non si sdraiò di nuovo.
«Posso farne a meno, per stasera. E poi non vedo modo di procurarmi del cibo, ti pare?».
Anche quello era vero: non poteva andarsene in giro come se niente fosse, non con quei maledetti killer in circolazione. Magari erano già in agguato in qualche punto della città e stavano aspettando solo il momento più opportuno per catturarla.
Non aveva altra soluzione che darle retta, anche se ciò non riusciva a non preoccuparlo: era pur sempre suo padre, anche se morto! Era naturale che si preoccupasse per lei!
«Coraggio papà, dormi adesso. Domani penseremo al da farsi...» esclamò Erika.
«L’hai sentita Circe, no? Io non posso dormire» ribatté seccamente lui, ostinandosi a rimanere seduto, resistendo eroicamente alle vertigini che minacciavano di sovrastarlo.
«Già... è vero» convenne la ragazza tristemente, quindi si affrettò ad aggiungere un sentito: «Mi dispiace».
«E per cosa? Non posso sentire il freddo né il caldo, non posso morire, non patisco la sete e, fino a prima di tornare qui, non sentivo nemmeno la fame. Sono morto e non me ne pento. L’unico mio rimpianto è non averti vista crescere».
Erika lo fissò, scioccata: non credeva che suo padre ci tenesse a lei fino a quel punto, dato il fatto che era stato assente in tutta la sua vita fino a qualche ora prima. Non di sua propria volontà, okay, però lo era stato. Era abituata ad immaginarlo come un uomo privo di sentimenti verso sua figlia e scansafatiche, non così.
Diamine, adesso gli voleva un bene dell’anima e le sembrava il miglior padre del mondo, anche se morto!
«Vai a dormire. Terrò d’occhio la situazione, in caso quelli dovessero tornare...» esclamò Alan, alzandosi.
Barcollò un po’, ma non si risedette. Andò invece verso lo stipite della sacrestia e vi si appoggiò, guardando fuori.
La giovane Reagh piegò da un lato la testa, perplessa, ma non fece domande.
«Allora... buonanotte» si limitò a dire, togliendosi gli occhiali e infilandoli nella custodia che portava sempre con sé. Posò la tracolla vicino al lato del letto e si sdraiò sulle coperte: non voleva certo infilarsi sotto quel lenzuolo bucherellato, al di sotto del quale avrebbe potuto nascondersi di tutto.
Dopo qualche istante, suo padre le rispose con un dolce: «Buonanotte, tesoro...».
A quel punto, lasciò che la stanchezza avesse il sopravvento su di lei.





Angolino autrice
Spero che finalmente si riesca a capire qualcosa ^^''' anche se è ancora tutto un po' confuso u.u''
Cooomunque u-u i ringraziamenti *O*
Sachi Mitsuki
xXxNekoChanxXx
E coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite ^^
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 5
*** Informazioni da trovare (ad ogni costo) ***


5_Informazioni da trovare (ad ogni costo) Il mattino seguente, Erika fu svegliata da un leggero rumore vicino a sé.
Si mosse, sentendo qualcosa che la copriva.
Socchiuse gli occhi, per abituarli alla flebile luce che aleggiava all’interno della stanza come polvere sospesa, per poi aprirli del tutto. Dapprima si guardò addosso - riconoscendo la giacca che aveva sopra a mo’ di coperta per quella di suo padre - poi alzò gli occhi verso la fonte del rumore che l’aveva destata.
«AAAAAAAAAH!» strillò, schizzando seduta, chiudendo di scatto gli occhi.
«Erika, sono io. Non urlare, per favore!».
La voce pacata di suo padre la calmò un poco, tanto da convincerla a riaprire gli occhi: lui era ancora in piedi davanti a lei, a torso completamente nudo. Prima le dava la schiena, ma adesso era voltato verso di lei, cosicché la ragazza poté notare, anche se confusamente, la cicatrice che gli segnava il petto, esattamente in corrispondenza del cuore.
A quella vista, una fitta di nausea e dolore le strinse lo stomaco, che fortunatamente era già vuoto: era lì che gli avevano sparato...? Anche senza occhiali, riusciva a distinguere il circolo di quella cicatrice, che scintillava ancora di rosso, anche se scuro. Ormai pareva una ferita vecchia, anche se sapeva benissimo che non lo era poi così tanto.
Rimase ad osservarla, lasciandosi cullare dalla sgradevole sensazione che le aleggiava attorno e dentro, una sensazione fatta d’abbandono, dolore, tristezza e nostalgia, sentimenti che le bruciavano immensamente.
«Ehi, tutto bene?» esclamò suo padre, avvicinandosi a lei.
Intercettò il suo sguardo e si affrettò ad infilare la t-shirt, in modo da coprire l’oggetto delle dolorose attenzioni della ragazza.
«Erika, tutto okay?» ritentò, scuotendola un po’ per le spalle.
Quest’ultima scosse il capo e sbatté le palpebre con nuovo vigore, quindi lo fissò con del sentimento negli occhi.
«C-che c’è?» chiese.
Lui si rialzò, a disagio per il contatto.
«Mi sembravi... strana»
«Niente, tranquillo» lo rassicurò la figlia, accennando un sorriso del quale, in realtà, neppure lei era molto convinta: l’immagine, anche se confusa, del segno del proiettile che l’aveva ammazzato l’aveva scombussolata alquanto.
Non voleva immaginare gli effetti che le avrebbe sortito se avesse avuto indosso gli occhiali.
A proposito di occhiali... mormorò tra sé, piegandosi a prendere la custodia dei suoi nella tracolla.
Li inforcò e si guardò intorno, prima di posare nuovamente gli occhi su suo padre, notando solo in quel momento una differenza a dir poco fondamentale, che non si peritò affatto ad esporre: «Papà, quei vestiti nuovi da dove vengono?».
Alan le rivolse un mezzo sorriso, mentre si sistemava il giubbottino nero smanicato sulla t-shirt.
«Stamattina presto Penelope è venuta a portarmi dei vestiti meno logori e da morto...» spiegò.
«Come sta?!» volle sapere subito Erika.
«Bene. Mi ha anche detto che tua madre è sotto la protezione di vari incantesimi, adesso, così puoi stare tranquilla...».
La ragazza tirò un sospiro di evidente sollievo: almeno non avrebbe dovuto preoccuparsi inutilmente per lei.
«Ah, quasi dimenticavo... ti ha portato questa» aggiunse Alan, porgendo alla figlia una busta di plastica bianca.
Erika l’osservò per alcuni istanti, chiedendosi che diamine ci fosse dentro, prima di decidersi a prenderla e aprirla: all’interno c’era del cibo.
«Immaginava che avessi fame e non fossi nelle condizioni più idonee per comperarti qualcosa da mettere sotto i denti...» le spiegò, sorridendole.
Lei distolse lo sguardo, a disagio, mentre deponeva la busta - che si curò di chiudere per bene - sul letto.
«G-grazie...» balbettò, rossa in viso.
«Tieni, ti ha portato anche qualche vestito di ricambio...» aggiunse suo padre, passandole una piccola sacca chiusa con un fiocco, che la ragazza prese con qualche esitazione.
«Non preoccuparti - la rassicurò Alan - Ha detto che è passata a prenderne qualcuno dei tuoi, a casa».
Be’, non è proprio confortante l’idea di qualcuno che ti entra in camera mentre non ci sei... commentò tra sé e sé, comunque accettò di buon grado la sacca che le stava porgendo, riponendola con cura nella sua tracolla, che non era esattamente piccola, anzi, talvolta la definiva addirittura “la borsa di Mary Poppins moderna”.
«Oh... grazie» disse, anche se si accorse subito di aver detto una cavolata, dato che Penelope non era lì con loro.
A quel punto scivolò fin sul bordo del materasso, stringendosi nelle spalle.
«Qual è il programma per oggi?» chiese, fissando ininterrottamente suo padre.
«Andiamo a cercare informazioni sulla presunta setta di corvi» dichiarò Alan, deciso.
A quell’affermazione, Erika si alzò, risoluta.
«Allora dovremo andare alla Lirys Library: là ci sono libri per tutti i gusti. Troveremo di certo qualcosa in proposito» affermò la ragazza, cogliendo alla sprovvista il redivivo, che però annuì comunque.
«Okay... andiamo» disse, quindi precedette la figlia fuori della stanza.
Alla luce del giorno il cimitero non appariva così spaventoso e poco ospitale come di sera o, peggio ancora, di notte.
Le lapidi c’erano ancora, l’atmosfera cupa persisteva, ma non era acuita in modo inquietante dall’oscurità notturna.
Erika non riuscì ad evitarsi d’indirizzare qualche sguardo interrogativo al padre, il quale sembrava addirittura più guardingo della sera precedente, quand’erano arrivati.
Probabilmente perché alla luce del sole è più facile che ci individuino... anche se si è nutrito, c’è ancora una forte traccia del pallore cadaverico originario sulla sua carnagione... commentò tra sé, senza riuscire ad evitare di formulare quell’ultimo appunto.
Aveva notato la differenza immediata non appena si era nutrito del suo sangue, il rossore che si era diffuso sulle sue guance. Adesso, non c’era più traccia di quel caldo e vivo porpora né sul suo viso, né nel resto della pelle scoperta.
«Come fai ad essere così sicura che in quella biblioteca ci sia quello che stiamo cercando?» domandò all’improvviso Alan, rallentando il passo per tenere il suo.
«Ci sono stata... un paio di volte» replicò Erika, arrossendo e distogliendo lo sguardo.
Be’, un paio di volte era solo un misero eufemismo: aveva passato interi pomeriggi immersa tra quegli scaffali polverosi in cerca di testi su Alchimia, rituali antichi e similia. Aveva una certa esperienza in merito.
«Almeno uno di noi saprà orientarsi un po’...»
«Non eri tipo da biblioteca?» chiese Erika, curiosa.
Lui si strinse semplicemente nelle spalle, leggermente a disagio.
«Ero più un tipo pratico. Era tua madre quella appassionata di lettura» replicò Alan.
In effetti, non aveva tutti i torti: sua madre, in camera da letto, aveva una libreria quasi piena di libri, ai quali se ne aggiungevano uno o due di tanto in tanto.
Era una vera appassionata di libri ed era da lei che aveva ereditato il piacere del leggere.
Arrivati alla macchina, smisero di parlare e partirono.
La Lirys Library non era particolarmente lontana dal cimitero, però si trovava in una strada piuttosto trafficata, per cui impiegarono una mezz’oretta ad arrivare.
Trovare un posto per la macchina non fu difficile.
Scesi, si avviarono su per la grande scalinata di marmo che conduceva alla porta, immensa e di legno, ovviamente aperta.
Appena varcata, Erika sentì il profumo dei libri vibrarle nei polmoni: finalmente qualcosa di familiare, in quello sconvolgimento assoluto.
L’interno era immenso, come sempre, e poco illuminato, per non dire affatto, eppure lei non aveva problemi a muoversi nella semioscurità: che senso avrebbe avuto, altrimenti, stare giornate e giornate chiusa nella sua stanza a lume di candela?
Per sviluppare la sua incredibile “vista al buio”, aveva dovuto esercitarsi per un bel po’.
«Qui dentro non si vede un... niente!» commentò Alan, arrabbiato.
Erika sorrise: aveva colto l’esitazione di suo padre, segno che avrebbe volentieri utilizzato un’altra espressione per manifestare la sua irritazione.
«Vieni, per di qua» sussurrò la figlia, prendendogli una mano e conducendolo all’interno.
Si trattenne a stento dal lasciarla immediatamente: era fredda come ghiaccio.
Che scema... i morti non hanno circolazione. Per forza sono freddi... e pallidi.
Passarono davanti alla scrivania dove sedeva la bibliotecaria.
«Buongiorno» salutò Erika, sforzandosi di essere allegra come al solito.
Nessuna risposta da parte della donna, che, notò la ragazza, era intenta a leggere un giornale.
Non si preoccupò molto: la bibliotecaria era mezza sorda, per cui con ogni probabilità era talmente assorta nella lettura che non l’aveva comunque sentita, indipedentemente dall’essere sorda o meno.
Tirò avanti, ringraziando silenziosamente la semioscurità che regnava ovunque e che impediva a chiunque di vedere il pallore di suo padre: era certa che, se i loro inseguitori avessero chiesto in giro, un tipo così pallido se lo sarebbero ricordato in parecchi. L’ultima cosa che voleva era lasciare indizi che potessero mettere in pericolo sia lui che sé stessa.
«Erika...» sussurrò Alan.
«Sì?»
«Sei sicura che non ci siano interruttori della luce qui intorno?»
«Sei davvero così cieco?»
«Non vedo... nitidamente neppure con la luce».
Dal tono, pareva aver confessato una delle cose che più gli bruciava ammettere.
«Oh... sei miope?».
Che razza di domanda idiota... osservò tra sé subito dopo.
«No, ma in teoria sono un cadavere semovente. Circe mi aveva avvertito che avrei perso qualche cosa, in cambio della forza fisica»
«Hai perso dei decimi di vista?»
«A quanto sembra sì... ma pare un problema più serio di quel che è al buio....».
Maledizione! Ci mancava solo questa...!
La ragazza rinsaldò la presa sulla sua mano, mentre procedeva spedita tra gli scaffali, diretta a quelli in fondo, riservati all’esoterismo e a pratiche antiche. Era più che certa che avrebbero trovato qualcosa circa ciò che cercavano.
Quando scorse finalmente lo scaffale che le interessava, istintivamente lasciò la mano di suo padre e vi corse, lasciandolo indietro.
«Ah... Erika? Erika dove vai?» la chiamò Alan, tastando in qua e là nell’aria in cerca della figlia.
«Papà è qui!» esclamò la figlia, nella voce un filo d’eccitazione, voltandosi indietro.
«N-no, non di l...!».
Non finì neppure la frase che suo padre cadde con un pesante tonfo a terra, trasportandosi dietro la sedia in cui era inciampato.
«Ahio, che male...!» sibilò a denti stretti, massaggiandosi un braccio.
La ragazza ritornò indietro e lo aiutò a rialzarsi.
«Scusa, non avrei dovuto lasciarti» sussurrò, imbarazzata.
«Non importa... l’hai trovato?» chiese invece l’uomo, alzando il capo.
«Sì, da questa parte».
Lo scortò quindi fino allo scaffale in fondo.
«D-dov’è?»
«Ce l’hai davanti».
Alan protrasse un braccio in avanti e sfiorò le costole dei volumi. Erika non poté trattenersi dal paragonarlo ad un cieco che cerca qualche contatto col mondo esterno dal quale è visivamente escluso.
«Come posso aiutarti? Non vedo niente»
«Non preoccuparti: posso fare da sola»
«No, voglio aiutarti! Se siamo in questa situazione è soprattutto per colpa mia!».
La giovane Reagh rimase a fissare suo padre per alcuni istanti: nei suoi occhi dispersi nel buio leggeva distintamente un fuoco che ardeva come mille incendi, una decisione che, lo sapeva, non avrebbe mai potuto spazzar via.
Perciò ficcò una mano nella tracolla e iniziò a cercare: cellulare, chiavi di casa, la sacca dei vestiti... possibile che non avesse niente di utile, in quel momento?
Scansò un libriccino e una penna e, inaspettatamente, sfiorò qualcosa di solido, lungo e cilindrico, che si affrettò ad estrarre.
Con suo immenso sollievo, scoprì trattarsi proprio di una torcia elettrica.
«Papà, tieni questa» disse, afferrandogli la mano più vicina, mettendoci la torcia, accendendola.
«Una torcia?» domandò Alan, perplesso, muovendola, indirizzando il fascio di luce in varie direzioni.
«Così puoi vedere»
«Perché hai aspettato solo ora a darmela, se l’hai sempre avuta dietro?».
Stava per dire che si era dimenticata di averla, quando la luce traballò, fornendole una scusa migliore.
«La batteria è quasi esaurita. Mi sembra più utile adesso che per camminare, ti pare?».
Riuscì a zittirlo.
«Bene, che aspettiamo? Iniziamo a cercare» disse dopo un po’ lui, scostandosi dalla figlia.





Angolino autrice
*hero* Riesco ad aggiornareee! ù___ù Finalmente <3
Be', comunque u.u non dilunghiamoci troppo in chiacchiere inutili e passiamo ai ringraziamenti.
Per le recensioni:
Sachi Mitsuki
xXxNekoChanxXx
E chi ha aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 6
*** Vergata di sangue ***


6_Vergata di sangue «Trovato niente?» esclamò Alan, estraendo un altro volume dal titolo poco chiaro, se non addirittura incomprensibile.
«No, niente di utile» fu la risposta di Erika, dall’altro capo dello scaffale.
Accidenti, siamo qui da un sacco di tempo ormai! Non penso che questa cazzo di torcia duri ancora a lungo!
Si sentiva dannatamente inutile in quel posto, dove senza una seppur minima fonte di luce non riusciva a far niente di più che andare a sbattere contro le sedie.
Era l’unico luogo dove poteva trovare informazioni circa il bastardo che gli aveva sottratto la piramide, ma non aspettava altro che di uscire da quella biblioteca che puzzava di vecchio: il suo olfatto non riusciva più a sopportare quell’odore.
Puntò il fascio di luce della torcia verso gli scaffali più alti, stringendo gli occhi per cercare di carpire qualche lettera dei titoli.
Erika, più in là, si stava cimentando in audaci quanto pericolose acrobazie per raggiungere l’ultimo ripiano, fuori della sua portata ad altezza originale. In precario equilibrio sullo schienale di una sedia, si stava inerpicando in punta di piedi per raggiungere il libro dalla rilegatura nera che aveva attirato la sua attenzione per le sottili striature che aveva scorto, con un po’ di fatica, sul suo dorso.
Riuscì a sfiorarne l’estremità inferiore e un brivido le percorse la schiena.
«AAAH!» urlò, prima di riuscire a contenersi.
Suo padre si precipitò - la torcia in mano - giusto in tempo per vederla perdere l’equilibrio e cadere.
Fortunatamente, riuscì a gettarsi sotto di lei appena in tempo per prenderla, prima che si schiantasse al suolo.
«Erika, che c’è? Cos’è successo?» chiese, in ansia.
La ragazza pareva stravolta e alzò due dita verso di lui.
L’acre odore più familiare che potesse percepire gli s’insinuò nel naso, scatenando l’immediata reazione.
«Dove...?»
Erika indicò in alto, cosicché Alan, istintivamente, puntò la propria torcia nella stessa direzione, incontrando immediatamente la cosa che aveva spaventato la figlia.
«Lo prendo io» esclamò, rimettendola in piedi.
Si inerpicò quindi sullo schienale della sedia che lei aveva lasciato sotto lo scaffale e si sporse, riuscendo a prendere il libro con la rilegatura nera... striata di sangue.
Scese e lo illuminò con la torcia: tutta la copertina era rigata da inquietanti rivoli scuri.
Ne sfiorò uno.
«Il sangue non è ancora secco. Non dev’essere qui da molto» commentò il redivivo, serio.
«Il titolo... guarda» osservò Erika, indicandogli i caratteri d’argento che spiccavano in vivo contrasto con la copertina.
Era scritto con una grafia chiaramente leggibile, anche se sporca di sangue, e recitava: “RAVEN’S SECTS”.
«L’abbiamo trovato!» esclamò Alan, sollevato.
«Ma... perché è sporco di sangue?» chiese Erika, sollevando l’interrogativo più ostico, quello che suo padre aveva voluto ignorare.
«Non lo so» disse, scuotendo il capo, quindi aprì la prima pagina.
Vi trovarono una piuma, grande, nera... e piena di sangue.
«Che significa, secondo te?» domandò Alan, sollevandola.
«Guarda papà, qui c’è scritto qualcosa!».
Erika indicò una piccola scritta a margine della prima pagina, davvero troppo piccola perché lui potesse leggerla, anche se fosse stato sotto una luce al neon.
«Che cosa dice?» domandò.
«È... sembra un nome» disse semplicemente la ragazza, un po’ perplessa.
«C’è scritto “Marcus”. Ma chi è Marcus?»
«Probabilmente l’ex proprietario di questo libro...» disse Alan.
«Avanti, prendilo e andiamo»
«No, aspetta! Forse la bibliotecaria può dirci qualcosa a riguardo» obiettò Erika, logica.
«Okay, proviamo a chiedere, ma se non ne sa niente?»
«Siamo praticamente al buio. Non ci vedrà nemmeno» spiegò la giovane Reagh.
«Va bene».
Ripercorsero la biblioteca fino all’entrata.
La bibliotecaria era seduta ancora nella stessa posizione di prima, ancora intenta a leggere il giornale.
«Signora, mi scusi» la chiamò Erika, avvicinandosi.
Silenzio.
«Signora! Può dirmi qualcosa di questo libro?» ritentò, a voce più alta.
Di nuovo, silenzio.
Alan le si accostò, preoccupato.
«Qui c’è qualcosa che non va...» osservò, scuro in volto.
La figlia, allora, si sporse e scosse il braccio della donna. Questa, a sorpresa, cadde in avanti, strappando uno strillo alla ragazza, che vide solo un istante dopo l’elsa di un pugnale che le spuntava dalla schiena, circondato da una grossa chiazza di sangue scuro.
«Oddio...!» esclamò, senza fiato, portandosi le mani a coprire la bocca.
«È morta. Di recente» disse Alan.
Un istante di silenzio.
«ERIKA, SPOSTATI!» gridò suo padre, spingendola via.
Un proiettile fendette l’aria nel punto dove prima era la ragazza.
«C-cosa?! Cos’era quello?»
«Ci hanno trovati! Presto, dentro!».
Un altro proiettile attraversò l’aria e le sfiorò la spalla.
Non è possibile che anche qui... come hanno fatto a trovarci così in fretta?!
«Corri, Erika! Corri!» le gridò suo padre.
Spostando lo sguardo su di lui, la ragazza carpì un movimento verso l’alto, poi il fascio della sua torcia che vagava sul soffitto da sopra gli scaffali, segno che era saltato sopra, per cercare i loro inseguitori.
Che cosa poteva fare lei? Non aveva un udito abbastanza sviluppato - al contrario di quello di suo padre - da permetterle di percepire il rumore di un proiettile!
Continuò a correre a perdifiato, infilando in fretta il libro nella tracolla, per avere le mani libere.
Si guardava intorno freneticamente, in cerca di un’ombra o un fugace spostamento che le rivelassero la posizione, almeno approssimativa, dei suoi aggressori.
Sentì un sottilissimo click nell’aria, alla sua sinistra. Si chinò appena in tempo per evitare un altro proiettile.
Devo riuscire a fermarli, prima che mi ammazzino!
«Ah, eccoti qui mocciosa!».
Si fermò a poco più di un metro dall’uomo che, dal profilo, aveva riconosciuto essere Sigfred. Attorno a lui percepiva un forte odore di gel per capelli.
E ora, che cosa faccio? Cosa faccio?!
Avanti, usala! Usa la tua amata Alchimia. Puoi farlo, Erika... adesso.
Un’altra voce?
Questa sembrava più decisa e femminile... e le sembrava familiare, come se provenisse da qualche remoto o buio angolo del suo corpo.
L’impulso successivo quella voce fu di darle retta: si piegò, schivando appena in tempo un pugno di Sigfred, quindi convogliò la sua “energia interiore” nelle mani, che presero a formicolarle. Le batté con forza sul pavimento.
Un’onda d’urto di dimensioni notevoli, almeno dal suo punto di vista, si sprigionò da quel contatto, mentre assieme ad una sfrigolante sfera d’energia porpora si creava una piccola voragine nel pavimento, al centro della quale si ergeva una colonnina dello stesso materiale del suolo.
Alla luce rossa venutasi a creare riuscì a distinguere il viso del suo nemico, i suoi lineamenti da uomo adulto, gli occhi neri come i capelli, corti ed ispidi. Si fissò i tratti nella mente: se l’avesse incontrato di nuovo, l’avrebbe riconosciuto senz’altro.
Ad occhi sgranati osservò il frutto di quella trasmutazione, la sua prima trasmutazione, colpire sotto il mento Sigfred, spedendolo steso a diversi metri di distanza.
«Sigfred, che cazzo succede?!».
Un’altra voce maschile, più vicina di quanto volesse, la raggiunse, invogliandola a rialzarsi e correr via, prima che Sigfred o il suo compagno - al momento ancora anonimo - riprendessero ad inseguirla.
C-che cos’ho appena fatto? Quella era Alchimia! Quella era una trasmutazione alchemica!
Era ancora sbalordita: aveva davvero appena effettuato la trasformazione che aveva studiato così lungamente dalla tenera età di nove anni?
Stentava a crederci.
Quella voce... che sia quella la chiave di tutto? Che sia stata quella ad avermi permesso di farlo...? Ho la vaga sensazione che mi stia sbagliando, ma che altra possibilità c’è?
E mentre correva, saettando tra scaffali diversi, cambiando strada più e più volte, nella speranza di scorgere di nuovo suo padre, un pensiero - o, per meglio dire, un ricordo - le affiorò nella mente, senza che neppure l’avesse richiamato.
«L’Alchimia e la magia esistono, Erika. Non sono solo favole. Però, per voi umani, la pratica è ormai preclusa, salvo poche eccezioni...».
Era quello che aveva detto Circe, quando li aveva contattati al cimitero, la sera prima.
Ricordava perfettamente che, dopo quella breve spiegazione, aveva anche aggiunto un’altra parola, qualcosa di incomprensibile per lei, che però le aveva fatto provare una strana sensazione.
Che sia stata quella a rendermi capace di praticare l’Alchimia?!
Non poteva fare a meno di pensarlo: le pareva una soluzione molto più logica e coerente - per quanto tutta quella storia fosse irrazionale e surreale - di una semplice voce nella sua testa, o nel suo inconscio o quel che era.
Comunque, adesso non c’è tempo di perdersi in questo: devo trovare papà e mettere KO quei bastardi prima che siano loro a farlo.

Alan si aggirava ancora sugli scaffali, saltando dall’uno all’altro con rapidità e forza a dir poco stupefacenti persino per lui, la torcia ancora stretta in mano, il fascio che vagava di sotto, in cerca dei due sicari, dei quali non c’era traccia.
Si fermò, si volse e tornò indietro, percorrendo una strada diversa da quella che aveva usato per arrivare dov’era.
Ad un certo punto, la torcia balenò e si spense, costringendolo a fermarsi.
No, cazzo! Perché s’è spenta proprio ora?!?!
Si guardò intorno, cercando di percepire qualcosa con gli occhi, ma tutto ciò che vedeva era solo il buio.
Con cautela, scese dallo scaffale e si volse a fronteggiare la stanza che lui non vedeva.
Un colpo alla nuca lo prese totalmente alla sprovvista e lo lasciò tramortito, a terra.
«Hai finito di scappare, redivivo...» esclamò una voce a lui sconosciuta, probabilmente appartenente al sicario che era stato messo subito KO da Penelope.
Cercò di memorizzare qualcosa di lui, ossia l’odore intenso e alquanto dolce del suo dopobarba. Stomachevolmente dolce: non se lo sarebbe dimenticato per niente al mondo.
Tentò di rialzarsi, ma un altro colpo lo centrò in mezzo ai polmoni, mozzandogli il fiato e stendendolo di nuovo.
Che poteva fare? Era praticamente cieco.
Se solo non mi fossi separato da Erika...
In quel momento, un forte rumore di passi di corsa attirò la sua attenzione.
I suoi occhi vagarono nel nero dinanzi a lui, come se cercassero la fonte di quel rumore, anche se era consapevole che non l’avrebbe mai vista.
Poi si fermarono, a poca distanza, a giudicare dall’intensità.
«Ehi, pezzente! Lascia stare mio padre!!!».
Era la voce di Erika.
Un moto di sollievo gli allentò la tensione che si era accumulata sulle sue spalle, permettendogli di rilassarle almeno un po’.
«Erika...! Sei tu? Stai bene?» sussurrò.
«Ehi, mocciosa! Non mi sembri nella posizione di fare l’arrogante, ti pare? O forse vuoi che tuo padre finisca con la testa crivellata di proiettili?».
D’accordo, quel tipo iniziava a dargli sui nervi. Appena ne avesse avuto la possibilità, gli avrebbe spaccato la faccia: nessuno poteva minacciare sua figlia e sperare di passarla liscia.
Effettivamente, però, non aveva tutti i torti - per quanto gli bruciasse ammetterlo: Erika era solo una ragazzina e quello era un uomo, armato per giunta.
Non aveva molte speranze di uscire incolume da uno scontro con lui.
«Tu dici...?» le sentì dire.
Dal suo tono pareva molto sicura di sé.
«Ora te la faccio vedere io, picc...!».
Il misterioso uomo non ebbe modo di finire la frase, perché una sfera di energia porpora si sprigionò a pochi metri di distanza da Alan, il quale poté così finalmente vedere in viso sua figlia. La sua espressione era seria, concentrata, e terribilmente minacciosa. Non l’aveva mai vista così.
Stava piegata al suolo, le mani protese in avanti, a sfiorare il pavimento. Era da quel contatto che proveniva la luce.
Cosa diavolo...?
Prima che potesse rendersene addirittura conto, un blocco di pavimento schizzò verso di lui, anche se il vero obiettivo era l’uomo che si ergeva dietro di lui, che fu preso in pieno stomaco e scaraventato via dalla forza dell’impatto.
La luce cessò e Alan ripiombò nella sua snervante cecità.
«Papà, tutto a posto?» chiese Erika, prendendolo per un braccio, aiutandolo a risollevarsi.
«S-sì... tutto a posto» rispose, incerto.
«Te, invece? Come stai?» aggiunse.
La sentì stringersi nelle spalle.
«Sono sudata e sporca del sangue di quei due, ma per il resto sono okay» replicò, in tono quasi allegro.
«Sono fuori combattimento per un po’?» domandò Alan.
«Non ne sono tanto sicura...» confessò Erika.
«Allora meglio andarcene prima che si riprendano» asserì suo padre.
E, mano nella mano, corsero a perdifiato verso l’uscita.





Angolino autrice
Eccomi finalmente ad aggiornare di nuovo *-* capitolo lunghino, almeno per una volta <3 ma spero non noioso (per me che l'ho scritto no di certo, ma io sono di parte ùwù).
Anyway, ringrazio Sachi Mitsuki e xXxNekoChanxXx per le recensioni allo scorso capitolo e coloro che hanno messo la fic tra le preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 7
*** Trappola fuori ''casa'' ***


7_Trappola fuori 'casa' Appena furono fuori, notarono che aveva iniziato a piovere: l’acqua scrosciava fitta, accompagnata dal ripetitivo e basso rumore delle gocce che s’infrangevano al suolo. Sembrava quasi una melanconica nenia che fungeva da sottofondo musicale alla scena di quotidianità che scorreva davanti a loro.
Alan inspirò la fredda aria umida di pioggia come fosse un balsamo lungamente atteso: finalmente era fuori da quella biblioteca, libero di poter nuovamente prendere in mano la situazione e, soprattutto, rendersi di nuovo utile.
Quanto gli era mancata la sensazione di avere un’utilità in quella faccenda...!
Si voltò verso sua figlia e solo a quel punto notò quanto effettivamente fosse rimasta “segnata” da quello che era successo all’interno dell’edificio: i capelli erano schizzati di rade chiazze rosso scuro, così come il viso e i pantaloni. La maglietta, invece, era tutta bagnata di sudore e le era aderita al petto, mettendo in risalto il piccolo seno, così come alcuni ciuffetti scappati alla coda di cavallo si erano incollati sulla sua fronte.
«Non puoi andare in giro conciata così» affermò.
«Tranquillo. Andiamo al cimitero e mi cambio» disse lei, sorridendogli in modo radioso e caldo: era felice di essere sopravvissuta all’aggressione anche grazie al proprio personale contributo.
Si sentiva utile e ciò la faceva sentire bene.
«Okay» replicò semplicemente suo padre.
Andarono a recuperare la macchina e se ne andarono, diretti al cimitero.
Durante il tragitto biblioteca-auto, l’uomo aveva avuto modo di notare un certo persistente buonumore nella figlia del quale non riusciva a spiegarsi la ragione: insomma, erano appena stati aggrediti e lei aveva appena rischiato la vita!
Anche una volta avviato il motore della macchina e partiti, il sorriso di Erika continuò a rimanere impresso sul suo viso.
«Ehm... perché sei così contenta?» domandò dopo un po’ Alan, a disagio, dando un’altra occhiata sfuggente all’espressione allegra della figlia, che si guardava intorno come se vedesse tutto ciò per la primissima volta.
Lei arrossì un po’.
«Niente di particolare»
«No...?»
«Be’, forse... - esitò - È per via di quelle trasmutazioni» disse infine, come se si fosse finalmente tolta un grosso peso dal cuore. Forse era semplicemente ansiosa di mettere al corrente suo padre del motivo della sua gioia.
«Trasmutazioni?» ripeté l’uomo, inarcando con fare interrogativo un sopracciglio.
«Sono trasformazioni della materia. Quella cosa con cui ho messo KO il compare di Felix era stata trasmutata».
Non sapeva come altro definirla: non le veniva in mente niente di preciso.
«Intendi quella cosa che hai fatto con quella bolla d’energia rossa?»
«Sì... quella. È... be’, è stato fantastico! L’ho sognato per tutta una vita!!» esclamò Erika, addossandosi al sedile, rilassata, socchiudendo gli occhi.
Era la prima volta che la vedeva così tranquilla, da quando si erano incontrati.
Non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un mezzo sorriso: era bello vederla sognare ad occhi aperti, anche in mezzo ad un casino madornale come quello in cui si trovavano. Era dell’opinione che mantenere una certa dose di buonumore avrebbe impedito ad ambedue di perdere il senno.
Eppure, c’era qualcosa che, in quello che lei aveva appena detto, non gli tornava. Un suo dubbio, per l’esattezza, venuto fuori mentre ragionava sulle parole della figlia.
«Mi chiedo però... perché tu ora possa fare quelle trasformazioni. Cioè... hai detto anche tu che l’hai sognato per tutta la vita e... be’, mi sembra strano che un sogno del genere possa realizzarsi così, all’improvviso...» esclamò, spostando per un istante gli occhi dalla strada.
In quelli di Erika apparve un cipiglio vagamente serio.
«Me lo sono chiesta anch’io e credo di aver anche trovato una risposta: penso che c’entri Circe» replicò, soppesando ogni parola, come se volesse evitare di dire troppo.
«Circe?»
«Esatto. Ricordi ieri sera, quando ci ha parlato? Ricordo che aveva detto qualcosa riguardo all’attuale incapacità per noi umani di praticare riti alchemici e magici. Poi ha detto di volermi fare un dono... e ha pronunciato una parola strana, incomprensibile...» spiegò la ragazza.
Anche se durante la conversazione con Circe non era molto in sé, ricordava quell’ultima parte del discorso con chiarezza.
«Stai cercando di dire che ti ha in qualche modo... capacitata di fare queste cose?»
«Circe era una grande maga dell’antica Grecia. Non mi sorprenderei se sapesse fare certe cose» ammise Erika.
«Okay, quindi ipotizziamo che Circe ti abbia dato dei “poteri”. Di che cosa, probabilmente, saresti capace adesso?»
«Intanto posso praticare l’Alchimia. Per altre cose, penso che dovrò arrivarci per scoprirlo - rispose la ragazza - Comunque, meglio non lambiccarsi su questo per ora: dobbiamo cercare il misterioso ladro della piramide»
«Già, hai ragione».
E qui terminarono la conversazione, pochi minuti prima che Alan frenasse davanti al cancello del cimitero.
Scesero e si avviarono verso l’ingresso del camposanto.
Erika precedeva suo padre a grandi passi, ansiosa di togliersi al più presto quei vestiti sporchi. Poi...
«Ahn...!».
L’esclamazione strozzata di Alan attirò immediatamente la sua attenzione, facendola voltare: altri due tizi, due gemelli che non aveva mai visto prima di allora, alti e vestiti completamente di nero, tenevano suo padre immobilizzato, in ginocchio a terra, il viso rivolto al suolo.
Alla luce di un lampione poco distante riuscì a distinguere i tratti somatici dei due misteriosi aggressori: carnagione abbronzata, capelli e sopracciglia folte e nerissime, come le iridi. Le labbra erano sottili e piatte, prive d’espressione.
La cosa che però attirò di più la sua attenzione, era il fatto che le loro mani fossero circondate di luce, quelle di uno rossa e guizzante come il fuoco, quelle dell’altro azzurra e spumeggiante come l’acqua.
Chi diavolo erano quei tizi?
La ragazza si volse completamente verso di loro, decisa a fronteggiarli.
«Non provarci, ragazzina» sibilò uno dei due con una voce raccapricciante, quasi ultraterrena.
«Non vuoi che tuo padre soffra, vero?» minacciò l’altro, con voce simile a quella del primo.
Lei rimase immobile, digrignando i denti: avevano ragione. Per quanto avesse potuto fare, loro erano due uomini adulti e muscolosi e lei solo una smilza ragazzina. Non aveva chance.
«Chi siete? Cosa volete?»
«Chi siamo non deve importarti»
«Ma sai cosa vogliamo».
Si strinse a sé la tracolla: se volevano il libro, avrebbero dovuto prima riuscire a strapparlo dalle sue fredde mani morte.
Vide un sorriso balenare sul viso dell’uomo con le mani circondate d’aura rossa.
«No, non si tratta di quello stupido libretto inutile. Noi vogliamo te».
Lo disse in modo estremamente inquietante e minaccioso.
Fissò suo padre con un misto di paura e apprensione.
«N-non farlo, Erika... ci uccider... anno comunque...» esalò.
L’uomo dall’energia azzurra gli diede un calcio nel fianco abbastanza forte da strappargli un gemito di dolore e farlo ricrollare con il viso verso il suolo.
«Sta’ zitto. È il Contatto che deve scegliere, non tu!» minacciò l’aguzzino.
«Allora, che cosa vuoi fare? Ci seguirai in silenzio... o assisterai alla fine di tuo padre? A te la scelta» riprese l’altro, fissandola con uno sguardo insanamente malvagio e scaltro.
Suo padre alzò debolmente il viso verso di lei. Nei suoi occhi si dibatteva il dolore, ma anche una supplica chiara e ben leggibile: “Non pensare a me, Erika, scappa”.
Serrò i pugni lungo i fianchi, quindi corrugò lo sguardo in uno risoluto e serio.
«Va bene. Verrò con voi, ma non osate torcere un solo capello a mio padre» rispose, quindi camminò verso di loro.
«Scelta giusta. Non preoccuparti: non gli faremo niente...» replicò l’uomo dall’energia rossa.
Dal suo tono di voce, però, trasparivano intenti esattamente contrari.





Angolino autrice
°____° stramega ritardo, chiedo umilmente scusa a tutti quanti - anche per l'assurda brevità del capitolo.
Don't hit me, please.

Anyway, ringrazio Sachi Mitsuki e xXxNekoChanxXx per le recensioni allo scorso capitolo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 8
*** Nell'ombra della prigionia ***


8_Nell'ombra della prigionia Erika continuava a stropicciarsi nervosamente un lembo della canottiera sporca e sudata, mentre i suoi occhi si posavano su suo padre: l’uomo dall’aura azzurra lo teneva saldamente immobilizzato per le braccia in una posizione che doveva senz’altro essere dolorosissima anche per un redivivo come lui, costretto a camminare a capo chino e rapidamente, ignorando - o tentando di ignorare - il dolore alle braccia.
Razza di infami! Avevano detto che non gli avrebbero fatto del male! sibilò tra sé, profondamente arrabbiata.
L’ira le fluiva e rifluiva dentro, come magma incandescente, pronto ad eruttare da un momento all’altro. Voleva dimostrare loro quanto quella “ragazzina” potesse diventare pericolosa, quanto la rabbia potesse trasformarla in una macchina capace di far loro rimpiangere di essere nati; quanto quel sentimento che si agitava e si dibatteva ferocemente dentro di lei come un leone in gabbia riuscisse a darle la forza necessaria ad affrontarli.
Ribolliva silenziosamente di furia repressa, pazientando fino al momento in cui avrebbe potuto fargliela vedere. Dentro di sé, sentiva che quel momento non era poi così lontano.
I due uomini misteriosi li scortarono fino alla loro vettura, parcheggiata non troppo distante dall’ingresso del cimitero.
Quello con l’aura rossa le aprì la portiera posteriore, invitandola col silenzio ad entrare.
Ma mentre chinava la testa per sistemarsi nell’abitacolo, sentì un’esclamazione sofferente da parte di suo padre, che la spinse a voltarsi di scatto: l’uomo provvisto d’energia azzurra aveva lasciato cadere Alan sul marciapiede. Lo vide assestargli un poderoso calcio nello stomaco, mozzandogli di netto il fiato, per poi alzare lo sguardo sulla macchina.
Solo allora Erika capì che sarebbe rimasta sola.
«Papà! PAPÀ!!!» urlò, facendo per tornare indietro, ma ambedue i gemelli si gettarono su di lei e la misero a tacere con un colpo ben piazzato dietro la nuca.
Alan rialzò il capo in tempo per vedere i suoi aggressori scaraventare il corpo di sua figlia sui sedili posteriori e chiudere con un colpo secco la portiera dietro di lei.
«Erika...» sussurrò, disperato.
Mentre si protendeva verso lo sportello, vide l’ombra dell’uomo dall’aura rossa avvicinarsi a lui.
«Non provarci nemmeno, redivivo» sibilò, quindi abbatté un colpo violento sul braccio che aveva proteso verso la macchina. L’arto ricadde a terra, inerte.
Un grido di dolore tracimò dalle labbra di Alan, che si chinò e raccolse il braccio spezzato.
L’auto partì sgommando nell’istante in cui rialzava il capo, deciso ad ignorare il dolore per aiutare la sua bambina.
«Erika! ERIKAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!» chiamò, guardando impotente l’auto che si allontanava velocemente, sparendo nella pioggia.
Batté un pugno sul marciapiede sotto di lui e si chinò su di esso, piangendo: l’aveva persa. Non aveva fatto niente per salvarla, proteggerla.
E ora la sua Erika non era più con lui, ma in balia di quelle bestie.
L’acqua picchiettava sulla sua schiena e sulla sua testa, scivolando lungo i suoi capelli e unendosi alle sua lacrime di dolore.
Non sapeva dove la stavano portando. Non sapeva chi fossero. Aveva però un’idea di quel che volessero fare ad Erika, e ciò non faceva altro che aumentare esponenzialmente la sua voglia di trovarli e fargliela pagare, sfogare tutta la sua nuova forza sui loro corpi, massacrarli finché non avessero esalato il loro ultimo respiro.
Ma non avrebbe potuto farlo, non avrebbe potuto togliersi quello sfizio né salvare sua figlia.
Era davvero giunto al capolinea? Di già?
Una macchina frenò bruscamente davanti a lui, il quale alzò gli occhi su di essa: chi poteva essere...?
Una figura scese e gli si avvicinò.
«Come ti senti?» chiese una voce maschile a lui sconosciuta.
Si impegnò a scrutare, attraverso la coltre di dolore e pioggia, il viso del suo ignoto soccorritore, scoprendo i tratti del volto di un ragazzo: aveva gli occhi neri, capelli corti dello stesso colore e appiattiti sul capo dalla pioggia scrosciante; i delicati lineamenti del suo viso erano contratti in un’espressione adulta e seria, minata di preoccupazione.
Aveva un’aria vagamente familiare, anche se non riusciva a capire o ricordare dove l’avesse già incontrato.
Chi diavolo è questo ragazzo?
Prima che potesse formulare una domanda - o una risposta - il moretto gli prese il braccio rotto, strappandogli un gemito di dolore.
«È fratturato» asserì, poi riportò gli occhi su di lui.
«Andiamo. So dove hanno portato la ragazza» disse, lasciando Alan totalmente di sasso: lui... lo sapeva?!
Il redivivo si lasciò cingere e sollevare, quindi si lasciò trasportare fino all’interno della sua macchina.
Non appena all’interno, il giovane mise in moto e partì a tutta velocità. Mentre viaggiavano, Alan non riuscì a soffocare la domanda: «Come ti chiami?».
Notò un bagliore ilare brillare nello sguardo del suo interlocutore, prima che, con un mezzo sorriso, rispondesse: «Marcus».

Al suo risveglio, la prima cosa che Erika avvertì fu un sordo e pulsante dolore alla nuca. Non capiva dov’era perché, benché avesse aperto gli occhi, era tutto buio attorno a lei.
Mi avranno bendata... commentò tra sé, affatto entusiasta.
In quell’istante, tutto quello che era accaduto le riapparì nitidamente davanti agli occhi: i due aggressori avevano gettato suo padre sul marciapiede e l’avevano privata dei sensi.
Maledetti...! Che cosa vorranno mai da me? si chiese, irritata.
Era a terra e le mani erano legate dietro la schiena. Iniziò a muoversi, cercando di liberarsi, ma avvertì quasi subito il dolore alla nuca farsi più forte, costringendola a rimanere ferma.
Dannazione! Che cosa mi hanno fatto?!
«Ehi, Luke... la mocciosa si è svegliata!».
Era uno dei due, ed era incredibilmente vicino.
«Strano... con quella botta dietro la nuca sarebbe dovuta rimanere priva di coscienza ancora per un po’...»
«Allora, che faccio?»
«Che cosa vuoi fare, Ted? Tienila d’occhio e assicurati che non si liberi! Il capo è stato chiaro: dobbiamo consegnargliela viva».
Il capo... ripeté tra sé e sé Erika ... che sia la stessa persona che c’era nel retrobottega della signorina Penelope? Quello stregone...?
Ricordò le parole che aveva pronunziato quando era arrivato nel negozio: aveva ordinato ai suoi uomini di catturarla senza farle del male.
Sì, con ogni probabilità questi due sono altri scagnozzi di quello stregone... concluse infine Erika.
Però, non poteva lasciare che la catturasse senza opporre resistenza.
Devo riuscire a liberarmi! Mio padre mi aspetta! Non posso abbandonarlo, non voglio! Non devo essere un peso per lui! Devo aiutarlo a riprendere quella piramide, ma come faccio?! Mi sento la testa... a pezzi... mi fa male... che cosa mi hanno fatto?
«Ehi, ragazzina...! Smettila di muoverti tanto!» esclamò Ted.
Erika si piegò quando sentì un calcio arrivarle direttamente nello stomaco.
Digrignò i denti e serrò la mascella.
Se solo fossi libera... gliela farei vedere io...!
Non si arrese: continuò ad agitare le mani, cercando di farle sgusciare fuori dalla stoffa che avevano usato per legarla.
«Arrenditi, piccola mocciosa! Non ce la farai mai a liberarti!».
Stavolta il colpo le fu inferto al fianco, con un calcio tale da farla girare supina.
Le braccia le facevano male per la posizione assolutamente scomoda, oltretutto adesso schiacciate dal peso del resto del corpo.
Mugolò, cercando di rimettersi su un fianco, ma il suo aguzzino le premette un piede sulla pancia, schiacciandola sulle braccia.
«Ahah... e adesso che cosa fai, mocciosa, eh?» la schernì in tono tagliente.
A sorpresa, Erika scoprì che poteva far toccare le mani tra loro, anche se con un po’ di fatica. Il dolore e la paura di non poter vedere più suo padre e di deluderlo iniziarono a far lavorare febbrilmente il suo cervello.
Prima che l’uomo che l’aveva picchiata potesse far qualcosa, o rendersi comunque conto di quel che stava facendo, la ragazza fece toccare i palmi delle mani, autoinfliggendosi un forte dolore alle articolazioni, quindi fece in modo che le dita sfiorassero il terreno.
Riuscì a percepire del calore vicino a lei e qualcosa sfrigolarle contro il braccio, segno che lì doveva esserci la bolla d’energia rossa - come l’aveva definita suo padre.
Non riuscì a vedere se aveva colpito il bersaglio, né con cosa l’avesse colpito, ma sperava proprio che la sua Alchimia funzionasse ugualmente anche se non riusciva a visualizzare l’obiettivo.
A giudicare dal grugnito e dal piede sollevato dal suo stomaco, pareva di sì.
«Piccola str...!» esordì, ma la sua imprecazione fu soffocata da un boato assordante, il rumore di un muro che veniva abbattuto.
«Cosa cazzo succede?!» sentì gridare più lontano.
Erika udì dei passi di corsa allontanarsi da lei e rumori di lotta più lontano.
«ERIKA!».
La ragazza sussultò: era la voce di suo padre.
Era venuto a salvarla!
Si sentì immensamente sollevata e rincuorata, pensando che suo padre era attorno a lei, da qualche parte.
Cercò ancora di divincolarsi, agitandosi, riuscendo solo a mettersi su un fianco. Era comunque un qualche progresso: almeno le braccia non erano più costrette a sopportare il peso del resto del corpo.
«Papà! Papà!» chiamò: non sapeva se era in vista o no, così sperava che almeno seguendo la sua voce l’avrebbe trovata.
«Papà!!!»
«Tuo padre sta tenendo a bada quei due laggiù...».
Di chi era quella voce? Era maschile, giovane e profonda, ma non l’aveva mai sentita prima di allora.
Sentì delle mani scivolarle dietro la schiena e armeggiare con la stoffa che le imprigionava i polsi, quindi il suo misterioso salvatore passò alla benda sugli occhi.
Quando la tolse, finalmente il mondo riapparve attorno ad Erika, anche se orribilmente sfocato a causa della mancanza dei suoi occhiali, finiti chissà dove.
Riusciva a distinguere delle pareti grigio metallico, e dei cumuli di grosse scatole di legno intorno a lei. In lontananza, alla sua destra, scorse una macchia più scura, forse un’automobile. Maledisse tra sé e sé i suoi rapitori: senza gli occhiali, non era buona a niente. Era già tanto se riusciva a camminare senza inciampare in qualcosa.
Comunque, la probabile auto era quella con cui, quasi sicuramente, suo padre e il suo soccorritore erano arrivati.
A proposito del soccorritore...
La giovane Reagh si voltò, incrociando finalmente l’immagine del misterioso ragazzo che l’aveva liberata. Grazie al cielo era abbastanza vicino perché riuscisse a vederlo in modo abbastanza nitido: aveva i capelli neri e spettinati, occhi dello stesso colore, carnagione pallida ed era magrolino.
Be’, è già tanto che riesca a vedere questo... commentò tra sé.
«Chi sei?» chiese subito dopo, assumendo un cipiglio perplesso.
«Ah, scusami, io sono Marcus. Tu devi essere...?»
«Ha-hai detto “Marcus”?!» scattò immediatamente la ragazza.
Lui si ritrasse un po’, stupito di una reazione del genere.
«S-sì... perché?».
No, non è questo il momento di chiedergli del libro: papà è in pericolo...!
«Ho bisogno della mia tracolla e degli occhiali! Vai ad aiutare papà, mentre cerco qui intorno!» disse lei, abbassando gli occhi.
Era stupido da parte sua anche il solo pensare di riuscire a trovare le sue cose in quel posto a lei completamente sconosciuto, oltretutto senza vederci ad un palmo dal naso.
Accidenti alla mia dannata miopia! sbottò in silenzio, contrariata.
«Ah, penso allora che siano tue queste cose...».
Marcus le porse una borsa nera e un paio di occhiali.
Inforcando questi ultimi, la ragazza sbatté più volte le palpebre: finalmente vedeva di nuovo! Ora riusciva a distinguere nitidamente Marcus e, soprattutto, cosa aveva intorno!
Ad una seconda occhiata - finalmente data con un minimo di consapevolezza - riuscì a capire che erano in un capannone in lamiera di quelli utilizzati per conservare le merci in attesa di essere imbarcate.
Senza perdere neppure un istante, Erika si rialzò in piedi, ma barcollò subito e fu solo grazie al pronto intervento del suo salvatore che non ricadde a terra.
«Attenta: sei ferita alla testa. È meglio se non cammini da sola» la ammonì dolcemente il moro, fissandola intensamente negli occhi, grandi pozzi di nera pece in cui la Reagh si perse.
I suoi occhi sono... così belli...!
«Ah, non pensare a me! Vai ad aiutare mio padre, ti prego!» esclamò, rossa in viso, scostandosi da lui e appoggiandosi a degli scatoloni situati alle sue spalle.
In quel momento, con un grido di dolore, uno dei due gemelli volò sopra di loro, atterrando sopra un cumulo di scatole in lontananza, fracassandole.
«Be’, non sembra abbia bisogno di aiuto...» commentò Marcus, stupito da una tale dimostrazione di forza.
Alan fece il suo ingresso in scena in quel preciso istante a passi pesanti, le mani contratte come da uno spasmo convulso d’ira, lo sguardo acceso d’una furia selvaggia.
«Brutto stronzo... non credere di passarla liscia così, dopo avermi strappato la mia bambina!!!» sibilò.
«Sembra che ti sia molto affezionato...» osservò il giovane al fianco di Erika.
«Eh-eh... già...» disse semplicemente quest’ultima, senza fare a meno di apparire un po’ imbarazzata, anche se dentro di sé era felice di una reazione così esagerata da parte di suo padre.
Era certa che, se ne avesse avuto la possibilità, lui sarebbe riuscito a riversare in onde concrete la sua stessa ira.
«Papà, perché non ce ne andiamo?» lo chiamò la ragazza.
«Eh? - fece lui, voltandosi - Erika!» esclamò, sgranando gli occhi nel vederla.
Le corse incontro e la strinse a sé in un abbraccio stritolatore.
«Sono così contento di rivederti! Stai bene?» chiese, prendendole fra le mani il viso per guardarla dritta negli occhi.
«È ferita alla testa e non si regge in piedi molto bene... per il resto è okay...» rispose Marcus al posto suo.
La ragazza sentì i muscoli dell’uomo contrarsi in modo repentino a quella risposta e seppe che i suoi rapitori stavano per finire male.
Alan fece per rialzarsi, ma lei lo trattenne.
«No, papà andiamocene. Prima parlavano di consegnarmi al loro capo e non voglio che ci trovi qui quando arriverà... non voglio che ti faccia del male per me» disse lei, cercando di assumere un tono sincero.
In realtà, non voleva vederlo diventare un aguzzino, ma se gliel’avesse detto era certa che non avrebbe comunque rinunciato a vendicarsi dei due gemelli.
Vide l’indecisione accendere il suo sguardo, poi lo sentì mormorare: «Tsk! Va bene, andiamo».
Prima che lei potesse dire o fare qualcosa, si ritrovò in grembo a suo padre.
«Allora, Marcus... già che ci hai aiutato con questi... hai anche un posto dove poter andare?»
«Penso che prima dovreste tornare al cimitero e prendere quel che avete lasciato là: non è saggio lasciare dei vostri oggetti in giro, soprattutto quando avete a che fare con questo genere di gente. Comunque, vi porterò in un posto più sicuro: ora che sanno dove vi nascondevate, è pericoloso per voi rimanere lì» rispose il ragazzo, avviandosi verso la porta.
«Come ce ne andiamo? Voglio dire...  l’auto è distrutta» commentò Erika, perplessa, aggrappandosi stretta alla maglietta di suo padre.
Il moretto volse il busto verso di lei, inchiodandola con uno sguardo bellissimo e malizioso. Da una tasca dei suoi stretti jeans neri estrasse una chiave.
«A quei due dev’essergli caduta sulla scrivania laggiù per sbaglio...» esclamò, in tono scaltro, quindi riprese a camminare.
Erika rimase ad osservarlo, folgorata, mentre suo padre la portava fuori.





Angolino autrice
Sono in orribile, schifoso ritardo °____° non so davvero come scusarmi ç__ç sono incasinata un sacco, per di più è periodo di compiti e il pc è un lusso che mi permetto un giorno sì e tre no ç____ç è una tristezza infinita... bei tempi, l'estate <3
Anyway, ringrazio Sachi Mitsuki per la recensione allo scorso capitolo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 9
*** A casa di Marcus ***


9_A casa di Marcus La macchina dei rapitori era parcheggiata proprio di fronte alla porta. Con la chiave che erano riusciti a sottrarre loro non fu affatto difficile aprire gli sportelli e salire.
Erika fu adagiata con delicatezza infinita sui sedili posteriori, mentre i due uomini occupavano i sedili anteriori.
Marcus era davvero bravo a guidare persino un’automobile che non aveva mai visto prima d’allora: la sua postura dritta e l’assoluta padronanza di sé, per non parlare di quel charme particolare tutto suo, facevano di lui un soggetto interessante sotto molti punti di vista per Erika, che lo scrutava di sottecchi dal retro del veicolo.
È anche davvero carino...! si ritrovò a commentare mentalmente, sperando che suo padre, che stava seduto a braccia incrociate e con un’espressione non precisamente rilassata, non avesse pure poteri telepatici inclusi nel pacchetto “capacità redivivi”.
«Marcus, perché hai voluto aiutarci? Non ti abbiamo mai visto da nessuna parte...» indagò Alan, spostando lo sguardo dalla strada al guidatore.
Questo replicò tranquillo: «Non è vero».
«Come sarebbe a dire “non è vero”?»
«Semplice - disse il moro, scrollando lievemente le spalle - Perché io e te ci siamo già visti... un po’ di tempo fa».
Erika passò lo sguardo dall’uno all’altro, perplessa: sembrava che suo padre non stesse capendo granché di quello che Marcus gli stava dicendo - per non dire niente - mentre invece il giovane sembrava solo annoiato di dovere delle spiegazioni.
Un’accoppiata unica.
«Se ci siamo già visti, perché non mi ricordo di te, eh?» sbottò Alan, un po’ irritato.
«Semplice: perché io sono sparito davanti a te... mentre quei due scagnozzi ti stavano pestando».
Cadde un silenzio lugubre, estremamente sgradevole. Erika si prese qualche minuto per riflettere su quella frase, mentre sul viso di suo padre si dipingeva lentamente l’espressione di chi solo in quel momento capisce tutto.
Ma nella mente della ragazza il ricordo di parole diverse ma col medesimo significato riaffioravano con una facilità impressionante, anche perché non erano così lontane nel tempo: “... alla fine sono riusciti a prendere me e la piramide, circa tre anni fa. Mi pestarono a sangue, cercando di convincermi ad aiutarli. Sfortunatamente per loro, qualcuno o qualcosa... è arrivato in mio soccorso... ricordo di averlo visto svanire in un turbinio di piume nere...”.
Era... era...?
«Eri tu quello che mi ha preso la piramide, quella volta?!».
Alan diede voce all’interrogativo che ronzava nella testa della figlia con un tono pieno di vivo sconcerto che, a quanto parve, non intaccò per niente la tranquillità di Marcus, il quale - contrariamente ad ogni possibile aspettativa - sorrise.
«Esatto» disse semplicemente, lasciando gli altri due completamente di stucco.
«C-CHE COSA?!?!» inveì il redivivo, improvvisamente conscio di chi avesse accanto.
«Perché tanta sorpresa?» domandò il ragazzo in tono innocente.
Erika si gettò con irruenza tra i due sedili.
«Significa che tu hai la piram... ahn...!».
Con un gemito, la ragazza ricadde pesantemente all’indietro, abbandonando il capo contro il poggiatesta con sollievo.
«Ehi, piano te! Sei ferita, non sballottarti tanto» l’ammonì Marcus senza girarsi.
«Ha ragione, Erika, non...»
«Non cambiamo discorso! - esclamò lei, stavolta senza tirarsi avanti - Marcus, hai te la piramide?» chiese.
L’attenzione di Alan si unì a quella della figlia e ambedue si concentrarono sul ragazzo, il quale tacque per qualche minuto, poi disse: «L’avevo io».
«Come l’avevi?! E ora dove...»
«Vi spiegherò tutto dopo, a casa mia, okay? Adesso vai a prendere un cambio per tua figlia. Ti aspettiamo qui» tagliò corto il moro, fermandosi davanti al cancello del cimitero.
L’uomo rimase dov’era alcuni momenti, guardando la figlia, che sbuffò: «Vai papà, tranquillo. Non mi mangia mica!».
Senza rispondere, lanciò un’occhiata d’avvertimento al giovane accanto a lui ed aprì con un gesto seccato lo sportello, quindi scese e se lo chiuse alle spalle con una botta.
«Non sembra fidarsi molto di me...» rifletté Marcus ad alta voce.
«Ha appena scoperto che sei tu quello che gli ha sottratto la piramide... mi sembra comprensibile» intervenne Erika, osservando il profilo di suo padre che si inoltrava tra le lapidi.
«Potrebbe prenderla con un po’ di filosofia. Insomma, avevo le mani legate!» commentò subito dopo il moro, un po’ indignato, voltandosi finalmente verso la ragazza.
A sorpresa, si sporse verso di lei, estraendo un fazzoletto di stoffa dalla tasca.
«C-che fai?» domandò Erika, al colmo dell’imbarazzo, mentre il giovane si faceva strada attraverso il varco tra i due sedili e si posizionava accanto a lei.
Gli occhiali le scivolarono fin sulla punta del naso e lui, gentilmente, li riportò al loro posto con un mezzo sorriso sulle labbra.
«Tranquilla, non voglio farti del male».
Prima che lei potesse replicare, le pose il fazzoletto sulla nuca, sfiorandole un punto preciso. A quel contatto, mandò un gemito di dolore.
Marcus ritrasse il fazzoletto e glielo mostrò. Con orrore, Erika vide che il proprio sangue aveva sporcato la stoffa immacolata. Fece per portarsi la mano dietro la testa, ma lui glielo impedì.
«Meglio non toccarla tanto: potrebbe infettarsi. Girati, per piacere, cosicché possa almeno farti una medicazione provvisoria...» la invitò lui con una voce calda e suadente che la fece obbedire all’istante.
Diede la schiena al giovane e piegò in avanti la testa, non senza avvertire un po’ di dolore, quindi sentì le sue mani trafficare con la coda.
Sentì i capelli staccarsi dal sangue che le si era evidentemente raggrumato sulla nuca, quindi scansare il tutto sulla spalla destra, in modo da avere la ferita libera e medicabile.
Vi passò delicatamente il panno ed Erika avvertì la sgradevolissima sensazione di qualcosa di appiccicoso e ormai secco che veniva smosso per essere pulito. Cercò di non visualizzare mentalmente che cosa stesse facendo Marcus, ma di pensare invece a cosa dovevano fare adesso. Purtroppo, era pressocché impossibile, per lei, pianificare qualcosa: doveva aspettare che il giovane le fornisse qualche delucidazione sulla piramide, prima di poter ideare qualcosa.
Spero che non ci si stia invischiando in qualcos’altro di pericoloso... pensò in un primo momento, poi rise tra sé e aggiunse: ma chi cerco di prendere in giro! Tutto questo è pericoloso, per cui non vedo come in futuro la situazione possa migliorare! Siamo braccati come fuggiaschi, messi alle strette da una banda capeggiata da uno stregone e dobbiamo recuperare un manufatto dagli incredibili poteri sovrannaturali.
Se non è questa un’avventura pericolosa, allora vorrei proprio vedere cosa lo sia...!
Sentì le mani di Marcus passarle lungo i lati del collo, unendosi sulla sua giugulare, spezzando il filo dei suoi pensieri.
Lo sentì annodare qualcosa e la stoffa del suo fazzoletto si strinse sulla sua pelle, anche se non tanto da farla soffocare.
«Ecco, così si dovrebbe arginare almeno un po’ la perdita di sangue...» osservò Marcus, il tono compiaciuto, probabilmente per il suo buon lavoro di medico.
«Mmmh? Sta tornando tuo padre, meglio che non mi faccia trovare qui accanto a te...» aggiunse subito dopo, infilandosi di nuovo tra i sedili, rimettendosi al posto di guida, assumendo rapidamente una posa e un’espressione d’annoiata attesa.
Ottimo attore... constatò Erika nel notare che suo padre, arrivato proprio in quel momento, non aveva neppure sospettato che stesse fingendo: si era limitato a fare il giro dell’auto e salire dalla parte del passeggero, allungando alla figlia la busta con i viveri e la giacca con cui lui l’aveva coperta durante la notte passata. Parve non accorgersi minimamente neanche della fasciatura attorno al suo collo.
Marcus riaccese il motore e partì.
«Sarà un viaggio un po’ lunghino: non abito esattamente in città. Erika... forse è meglio se riposi un po’» suggerì il ragazzo.
Avrebbe voluto contraddirlo, ma la stanchezza le opprimeva i muscoli e le palpebre erano pesanti.
Assentì debolmente col capo, quindi si addossò contro il sedile e si lasciò avvolgere dal caldo e confortevole abbraccio di Morfeo.

«Erika... siamo arrivati».
La tenera voce di suo padre la ridestò dal suo sonno. Sbatté le palpebre, confusa, fissando gli occhi dell’uomo chino su di lei, che le prese la mano e la condusse fuori della vettura.
Appena uscita dall’abitacolo un freddo pungente le vibrò attorno, facendola tremare e svegliandola completamente.
Si guardò intorno con rinnovata consapevolezza, sistemandosi gli occhiali sul naso: le sfumature crepuscolari striavano il cielo, segno che avevano viaggiato per tutto il pomeriggio. Adesso si trovavano in uno spiazzo completamente vuoto, pavimentato da mattonelle vecchie e screpolate posizionate a formare una figura circolare.
Dinanzi a lei c’era un grosso cancello scuro, spalancato, in metallo massiccio e con punte che correvano sulla sommità. Ai due lati s’innalzavano due pilastri sopra i quali si trovavano due grossi corvi con le ali spiegate come a spiccare il volo.
Mettevano i brividi.
Marcus era davanti al cancello e la sua posizione a dir poco statuaria le mozzò il fiato: gambe lievemente divaricate, il busto girato per metà nella sua direzione e il viso rivolto a lei, lo sguardo pieno di mite affetto e un ciuffo che, trasportato dal vento, gli copriva la pupilla destra.
In una parola: bellissimo.
«Andiamo» li esortò, avviandosi.
«Di’ un po’, non è che anche te ti stai nascondendo da qualcuno?» chiese Alan in tono sarcastico e di rimprovero.
«Se fosse così non vi ci porterei» replicò il moro, senza voltarsi.
«A meno che tu non stia dalla loro parte».
A quel punto, Marcus si volse, lo sguardo di ghiaccio.
«Non avrei avuto motivo di salvarvi se stessi dalla loro. Comunque, siete liberi di andarvene»
«Papà, ti prego dagli un poco di fiducia» intervenne Erika, prendendo il braccio del padre con dolcezza e fissandolo supplichevole.
Lui si sottrasse alla presa della ragazza e girò con stizza il viso dall’altra parte.
«Tsk! Va bene» esclamò, precedendo la figlia.
Quest’ultima sorrise e si avviò in coda al terzetto, procedendo a passo lento per evitare che la testa le pulsasse in modo eccessivamente doloroso.
Le lapidi lì erano decisamente più grandi di quelle del cimitero cittadino ed anche infinitamente più pregiate.
Una ritraeva addirittura un angelo disteso sulla base della scultura, una mano sul petto, morente. Il viso era così preciso e delicato da apparire quasi vero. Se da un momento all’altro l’avesse sentito esalare l’ultimo respiro, non se ne sarebbe affatto sorpresa.
Poco più in là notò una lapide statuaria che ritraeva una donna con un indosso un lungo vestito che ondeggiava, come i lunghissimi capelli, in una brezza inesistente.
Tutte le statue in quel luogo avevano qualcosa che le rendeva quasi vive, figure a fermo immagine che avevano catturato in un flash l’attimo fuggente della vita di un’anonima creatura.
Per quanto fossero lugubri, non poteva negarne l’incredibile bellezza.
Per quanto fossero meravigliose, non poteva contestarne le apparenze funeree.
«Eccoci, siamo arrivati».
La voce di Marcus attirò il suo sguardo su di lui: era fermo davanti a quello che sembrava a tutti gli effetti un mausoleo, abbastanza vecchio, ma anche bello.
Le mura erano ricoperte da rampicanti neri che vi tracciavano oscure trame piene di mistero; sopra l’entrata c’era un grande rosone del quale non si riusciva bene a distinguere la decorazione e la porta...
Erika si perse nell’osservare le rose rampicanti in ferro battuto che costituivano il cancello d’ingresso e le minuziose cesellature dei fiori che componevano i petali, dando all’opera qualcosa di inspiegabilmente vivo.
«Vivi in un mausoleo...?» domandò Alan, curvando le spalle come schiacciato improvvisamente dal peso della sua delusione. L’espressione che gli si dipinse in viso fece increspare le labbra di Marcus: il suo modo d’esprimere perplessità era esilarante.
«È... è... bellissimo!» commentò invece Erika, avvicinandosi ulteriormente, negli occhi una scintilla di profonda ammirazione che pareva accentuata dalle lenti degli occhiali.
Era così presa dalla struttura che non vide neppure la buca in cui inciampò.
«Ah, Erika!» esclamò suo padre, protendendosi verso di lei, ma non ci fu bisogno del suo intervento, perché il ragazzo l’aveva già afferrata e rimessa in piedi, tenendole una mano su un fianco e l’altra intrecciata con la sua.
«Devi stare attenta...» le disse dolcemente.
Nel vedere lo sguardo adorante e imbarazzato di sua figlia un sentimento nero che non provava da quand’era ragazzo trafisse il cuore di Alan come migliaia d’aghi venefici.
Strinse i pugni e contrasse i muscoli, cercando di contenersi, mentre i due si scambiavano un ultima fugace occhiata prima di separarsi.
Lo odiava. Non riusciva a non farlo: si sentiva di troppo, inutile, e a lui non piaceva sentirsi inutile.
Marcus precedette la ragazza all’interno e quest’ultima fu superata da suo padre, che le rivolse solo un’occhiata di sbieco, che le fu però sufficiente a capire che qualcosa non andava: nei suoi occhi c’era un gelo profondo.
Qualcosa lo turba... si disse, quindi lo seguì: appena ne avesse avuta l’occasione, gli avrebbe chiesto spiegazioni in merito.
Varcata la soglia, si ritrovarono in una stanza spoglia - senza contare i feretri che occupavano gli anfratti delle pareti - in fondo alla quale si trovava un altro piccolo cancello, anche se questo era tenuto chiuso da un lucchetto.
Marcus armeggiò con quest’ultimo per qualche secondo, riuscendo ad aprirlo, spalancando il cancello con un cigolio di cardini, quindi si fece da parte per lasciar passare i suoi due ospiti, i quali s’addentrarono senza tante cerimonie.
Si attardò a richiudere il cancello, non fosse mai che qualche visitatore inatteso li cogliesse impreparati, quindi raggiunse padre e figlia e si rimise in testa.
Scesero una lunga scalinata senza farsi scappare nemmeno un sospiro, niente: vuoto silenzio che appesantiva l’aria come una cappa di piombo. Il cunicolo era in penombra e solo verso la fine, quando le scale terminavano in favore di un corridoio, iniziarono a vedersi alcune fiaccole ad illuminare decentemente il passaggio.
Erika ringraziò silenziosamente quei mozziconi di legna da ardere: anche se aveva una certa dimestichezza con la visione al buio, aveva paura di metter male un piede e rompersi il collo rotolando giù per le scale, o di inciampare di nuovo.
D’un tratto notò un alone di luce dorata stagliarsi in fondo al cunicolo. Dovevano essere quasi arrivati.
Il corridoio si aprì poco dopo in una sorta di grotta scavata nella pietra e arredata rozzamente in modo da farla almeno lontanamente somigliare ad un appartamento.
C’erano dei piedistalli addossati contro le pareti che reggevano grossi ceri accesi e gocciolanti, che fornivano una tremolante illuminazione all’ambiente. In un angolo, su un piccolo materasso tutt’altro che in buono stato, era abbandonata una coperta logora. C’erano diverse pile di libri accumulate in un angolo, e volumi sparsi un po’ ovunque.
Dappertutto regnava una povertà che rasentava la miseria, nonostante Marcus ci tenesse a vestirsi in modo carino, tutto sommato. Forse un po’ tenebroso, con quei jeans scuri e la felpa nera, ma l’aspetto era curato.
«Perdonate il disordine...» esclamò, raccogliendo un po’ di libri e mettendoli uno sopra l’altro assieme agli altri.
Fece loro cenno di accomodarsi sul pavimento appena liberato, dove gettò un paio di vecchi cuscini.
«Ora... dove avrò messo il disinfettante...?» rifletté a voce alta, mettendosi le mani sui fianchi e studiando il caos attorno a sé.
Erika non riuscì a trattenere un sorriso: era buffo così.
Il ragazzo si chinò a frugare in quel macello.
«Ah, eccolo!» disse dopo un po’ riemergendo con una bottiglietta violacea e un pacchetto di batuffoli di cotone, forse l’unica cosa pulita e ben tenuta in tutto quel minuscolo appartamento.
«Tu vivi qui sul serio?» chiese Alan, nella voce una ben percepibile nota di perplessità e anche un po’ di ironia.
«Sì. Non è proprio una casa a cinque stelle, però è confortevole... e soprattutto isolata. Nessuno si è mai accorto di me» disse Marcus, quindi porse disinfettante e batuffoli all’uomo.
«Immagino che voglia medicarla tu» spiegò semplicemente il moro quando il suo interlocutore gli rivolse un’espressione accigliata.
Non sembra avere cattive intenzioni... né mettermi da parte, ma mi dà comunque fastidio il modo in cui si sono guardati, lui ed Erika... commentò tra sé Alan, accettando ciò che lui gli porgeva.
Si voltò verso la figlia, che scostò la coda e lasciò libero il collo, ancora avvolto dal fazzoletto di Marcus, che si affrettò a togliere.
«Quello chi te lo ha dato?» domandò il padre.
«Me lo ha prestato Marcus per fermare un po’ la perdita di sangue...» rispose Erika, e non era una bugia: c’era solo una piccola omissione.
Alan non era mai stato portato per fare l’infermiere, come ben gli tenne presente quel ricordo di quando aveva dovuto medicare Arianna dopo che si era ferita ad un ginocchio cadendo sulla ghiaia mentre giocavano nel giardino di casa sua. Ricordava ancora bene lo schiaffo che aveva ricevuto dalla giovane moglie dopo il lavoro, assieme ad un “sei davvero un pessimo infermiere!” che ancora gli riecheggiava nella testa, come se l’avesse udito solo pochi minuti prima.
Sperava solo che sua figlia avesse una grande sopportazione del dolore.
Le ripulì di nuovo la ferita, che nel frattempo si era nuovamente ricoperta di sangue, quindi gliela disinfettò alla meglio. Erika non emise un fiato, anche se il disinfettante le bruciava a contatto con la lesione.
Alla fine, gliela bendò con delle garze che Marcus gli porse.
«Come va?» chiese il ragazzo.
«Mi fa meno male di prima...» confessò lei.
«Non sono un granché come infermiere... spero di non averti fatto troppo male» confessò Alan, a disagio.
«Non preoccuparti, ora sto meglio» lo tranquillizzò Erika, accarezzandogli un braccio e sorridendo.
A quel punto, la sua attenzione si rivolse totalmente al padrone di casa: «Marcus, perché adesso non ci racconti un po’ che fine ha fatto quella piramide?».
Il ragazzo tacque alcuni istanti, quindi esordì: «Okay, per...».
Fu tuttavia interrotto da un rumore strozzato che fece presagire alla ragazza altro dolore.





Angolino autrice
Chiedo umilmente perdono per l'orribile ritardo çOç ma è un capitolo così lungo che mi c'è voluto un sacco per controllarlo scriverlo e controllarlo per bene. Spero almeno di farmi perdonare per il capitolo precedente, che era cortissimo ^^''
Anyway, ringrazio Sachi Mitsuki per la recensione allo scorso capitolo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^''
F.D.

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Capitolo 10
*** Storie e teorie ***


10_Storie e teorie Marcus sbatté perplesso le palpebre, mentre l’attenzione di Erika si spostava su suo padre, seduto accanto a lei. L’espressione costernata e avvilita che portava stampata in faccia la diceva lunga su quel che stava provando in quel momento, ma non poteva soffocare il suo bisogno di sangue nel senso di colpa.
Il suo stomaco emise un nuovo e più forte ringhio.
«Papà...» iniziò la ragazza, ma lui scosse la testa.
«No, posso aspettare!» replicò, deciso.
L’espressione che adesso gli si era dipinta in viso somigliava al broncio di un bambino cocciuto.
«C-che succede?» chiese il padrone di casa, passando confuso lo sguardo dal padre alla figlia.
Quest’ultima diede una pacca sul braccio dell’uomo e lo guardò, severa.
«Non fare il bambino! Non puoi resistere e sai che è così! Hai bisogno di nutrirti di me
«Hai perso troppo sangue! Non voglio che ti...!».
Venne interrotto dalla mano di sua figlia che saettava a prendere qualcosa nella tracolla. Quando la estrasse, riconobbe la scheggia di vetro con cui si era ferita nell’altro cimitero.
«F-ferma! Che stai facendo?!» inveì Marcus, correndo verso di lei, ma prima che i due uomini potessero fermarla, la ragazza si premette il filo del vetro sul palmo della mano, aprendovi una nuova ferita, quindi allungò il braccio fino a che il suo sangue non fu davanti alla bocca del padre.
Alan iniziò a perdere il controllo quasi subito: l’odore del sangue e della vita pulsante che esso portava insito in sé gli era diventato irresistibile, benché lui odiasse questo suo lato di resuscitato. Poteva lottare, cercare di fermarsi, ma il suo organismo chiedeva quel liquido scarlatto. Ne aveva un disperato bisogno.
Con gli occhi sbarrati e un’espressione strana dipinta in viso, come se fosse in tralice, il redivivo si avvicinò la mano della figlia alle labbra e prese a succhiare il sangue che ne sgorgava in sottili fiotti sotto lo sguardo scettico di Marcus, pietrificato dalla scena.
Per qualche minuto l’unico rumore che permeò l’aria fu il risucchio della linfa che abbandonava le vene, poi Alan si ritrasse di scatto, allontanando Erika con forza tale da scaraventarla a terra, quindi si rannicchiò in un angolo, strisciando via da lei, ponendo tra loro quanta più distanza possibile.
«Erika! Tutto bene?» chiese Marcus, accorrendo in suo aiuto.
«Sì, non preoccuparti...».
La Reagh si rialzò e fissò il padre: nei suoi occhi c’erano di nuovo disgusto e orrore, la stessa miscela d’emozioni che aveva avuto modo di contemplare pure nell’altro cimitero.
«M-mi dispiace... Erika...» sussurrò.
Sembrava un pazzo, un assassino che capiva di esserlo solo dopo aver ammazzato qualcuno, ma che si pentiva di tutto il dolore causato. La sua espressione colpevole e costernata l’aveva lasciata con un grande vuoto dentro: non aveva mai visto uno sguardo così incisivo. Comunicava in modo diretto tutto ciò che quelle pupille racchiudevano.
Era a dir poco stupefacente.
In quel momento Erika provò una pena immensa per lui e il disperato bisogno di consolarlo, e così fece: si alzò e andò da lui, che si era allontanato di qualche metro, andando a rintanarsi contro la parete, cercando di sparirvi dentro, quindi gli si inginocchiò davanti e gli tese con cautela una mano.
«Papà... è tutto a posto. Non fa niente, davvero. Ora sei così, hai bisogno di sangue per sopravvivere... non è un problema, credimi. Te lo darei tutto, se servisse a farti rimanere ancora con me» disse, avvicinandosi progressivamente.
Vide i suoi muscoli rilassarsi all’istante, mentre lacrime rosso sbiadito prendevano a scorrergli sulle guance. Erika gli accarezzò la pelle e terse via una lacrima, sorridendogli con fare rassicurante, poi si avvicinò ancora di più, lentamente, quindi lo circondò con le braccia e lo strinse a sé, cercando di regalargli un po’ del calore del suo corpo, tentando di consolarlo.
«Devi smetterla di farti problemi per quello che sei, capito? Hai bisogno di sangue, e allora? Hai bisogno del mio sangue, che problema c’è? Ti ho detto che ti avrei aiutato e così ho intenzione di fare! Per cui... basta con le scuse se mi prendi un po’ di sangue, chiaro?» esclamò in tono di dolce rimprovero.
Suo padre tacque e a quel punto sentì il peso del suo corpo abbandonarsi contro il proprio. Si ricordò allora di quello che era accaduto la sera prima e di quanto aveva detto Circe a proposito del “dopo pranzo”.
«Marcus, puoi aiutarmi a sdraiarlo?» chiese la ragazza, alzandosi e tirandosi dietro il corpo di suo padre.
Assieme, i due ragazzi riuscirono a trasportarlo fin sul materasso.
«M-mi potresti spiegare cos’ha?» domandò il moro, sedendosi a gambe incrociate accanto al materasso, dinanzi ad Erika, che accarezzava un braccio al genitore con fare meccanico ma protettivo e pieno d’affetto.
«Facciamo così: io ti racconto di mio padre e dopo tu mi spieghi questa storia della piramide, okay?» propose la giovane Reagh.
«Okay, ma anche lui dovrebb...» esordì Marcus, guardando l’uomo.
«Tranquillo, non sta dormendo. È solo stanco, ma può benissimo stare ad ascoltare» lo interruppe Erika con una tonalità di voce lievemente più alta del normale a causa di un principio d’esaltazione per l’imminente storia da parte del padrone di casa.
«Allora okay» convenne quest’ultimo, annuendo.
Così Erika iniziò a spiegare di suo padre, partendo dal momento in cui si erano ritrovati nel retrobottega del negozio di Penelope fino a quando, quella mattina, avevano fatto ricerche nella biblioteca. La spiegazione non impegnò più di un’oretta e, una volta terminato il racconto, la ragazza frugò nella tracolla e ne estrasse il libro inzaccherato di sangue che aveva preso nella biblioteca, porgendolo al ragazzo, il quale sgranò bruscamente gli occhi.
«... questo l’abbiamo trovato in biblioteca. Nella prima pagina, in basso, c’è scritto il tuo nome, per cui volevo chiederti se... era tuo...»
«Sì, certo che è mio!» esclamò il moro, aprendolo e sfogliandolo.
«Davvero?» chiese Erika, gli occhi che brillavano d’eccitazione: finalmente una pista.
«Sì, ma non capisco come abbia fatto a finire in una biblioteca pubblica!!» aggiunse il suo interlocutore, mandando in frantumi le speranze della fanciulla.
«C-come? Non ce l’hai messo... te?» chiese con un filo di voce Alan, sbattendo forte le palpebre, come a voler focalizzare a tutti i costi il profilo del ragazzo seduto accanto a lui.
«No, cavolo! Almeno, non questo libro. Io l’avevo lasciato ad un amico...» disse.
«Allora forse il sangue che vedi sulla copertina è suo...» esclamò Alan, in tono alquanto tetro.
Il silenzio si insinuò tra loro, mentre la peggiore delle ipotesi prendeva rapidamente forma nella mente di ciascuno di loro.
«Perché è così importante?» domandò Erika dopo un po’, spezzando quel momento di silente lutto.
Per tutta risposta, Marcus alzò il libro e le mostrò la copertina con un moto di lieve stizza.
«Il titolo parla da solo...»
«“Sette di Corvi” - tradusse lei, perplessa - E allora...?».
Lui emise un sonoro sbuffo, quindi curvò le spalle e abbassò il viso, appoggiandosi il libro su una coscia.
«Immagino che affinché capiate debba raccontare tutto dal principio...»
«Forse sarebbe meglio...» ironizzò debolmente Alan.
Teneva le palpebre socchiuse, come se stesse per addormentarsi e la sua pelle aveva acquisito nuovamente quel colorito roseo e vivo che Erika gli aveva visto pure la sera precedente.
«Immagino che tutto sia iniziato quando sono nato...»
«Addirittura?» chiese la ragazza, stupita.
Marcus assentì con un lento gesto del capo.
«Non ho mai conosciuto i miei genitori: fui lasciato davanti al cimitero più importante della capitale quand’ero ancora molto piccolo. Che ci crediate o no, conservo ancora ricordi di quel momento, anche se sbiaditi dal tempo. Comunque, venni raccolto da Alejandro»
«Chi è Alejandro?» domandò di getto Erika.
«È il capo della Congrega del Corvo. È un’associazione di diverse Sette dei Corvi che operano in tutta la regione» spiegò Marcus.
«E sei stato... cresciuto da... lui?» domandò Alan.
«Sì, imparando tutto quanto sulle Sette dei Corvi e sui rituali di tali compagini».
«Sono come degli stregoni?» chiese Erika, esaltata al solo pensiero.
«Mettila così se vuoi. Comunque possiedono qualche potere, almeno i componenti più illustri. Alejandro mi ha trasmesso una qualche capacità»
«D-davvero?»
«Sì, posso trasformarmi in un corvo... be’, non proprio, insomma... mi spuntano le ali - tagliò corto il ragazzo, annuendo con fare imbarazzato - ... e sono capace di comprendere il linguaggio di quei volatili»
«Stupeeeendo!» commentò la Reagh.
«Stregonerie...» sibilò suo padre con una lieve inflessione disgustata.
«Be’, il fatto è che, due o tre anni fa, Alejandro mi incaricò di recuperare un oggetto sacro della nostra Congrega, la Piramide di Jupiter» continuò Marcus, ignorando l’appunto dell’uomo, che fece per mettersi seduto, ma ricadde pesantemente all’indietro.
«Papà, sta’ buono!» lo rimbrottò Erika come se fosse un bambino, scoccandogli un’occhiata fugace.
«Mi dissero dov’era e che era di fondamentale importanza che venisse riportata alla Congrega. Così sono partito e... be’, l’ho trovata. Si trovava poco distante da tuo padre, vicino ad uno degli uomini che osservavano mentre i suoi compagni lo pestavano per estorcergli informazioni»
«CHE COSA?!?!»  sbottò Erika, sbalordita.
Marcus ignorò anche lei, evidentemente a disagio per la sua reazione, e proseguì: «La presi e me ne andai, anche se avrei voluto prestargli soccorso. Il resto immagino che voi lo sappiate già».
«Hanno continuato a picchiarmi per... farmi dire chi fossi... e dove avessi portato la piramide. Poi mi hanno felicemente sparato» terminò Alan debolmente, in tono amaro.
«Mi spiace» disse Marcus, sconsolato.
«Va’ avanti - tagliò corto Erika, interrompendo quell’inizio quasi certo di tutt’altro tipo di discussione - Cos’è successo poi, quando hai riportato la piramide da Alejandro?»
«Ha detto che l’avrebbe riportata al suo posto e non ne ho più saputo niente».
«Sei sicuro... che sia ancora... là?» domandò il redivivo, cogliendo di sorpresa il ragazzo.
«C-che vuol dire?»
«Papà, potresti spiegarti?» si aggiunse sua figlia.
Quest’ultima osservò il padre per qualche istante, poi trasse a sé la busta con i viveri che aveva messo da parte e ne cavò fuori una mela, che morse con noncuranza: aveva davvero fame, visto che era dalla sera prima che non metteva niente sotto i denti.
Era stata una giornata così movimentata che le era passato completamente dalla testa di mangiare, benché il suo stomaco continuasse a produrre sommessi borbottii e percepisse un tenue dolore diffuso in tutto il corpo.
Marcus e Alan fecero finta di niente.
«Quando ero nell’Aldilà, Circe mi ha detto che c’era uno... “squilibrio del potere”. Sì, disse proprio così... e disse anche... che era collegato alla piramide... è per questo che ho insistito tanto... per tornare» raccontò brevemente l’uomo.
«Marcus?» chiese la ragazza, voltandosi verso di lui, trovandolo chino a sfogliare le pagine del libro.
«Ehm... Marcus? In quel libro... cosa c’è scritto di preciso?».
La domanda di Erika venne accolta da un semplice e rigoroso silenzio interrotto solo dal frusciare delle pagine girate con violenza dal giovane dai capelli corvini.
Finita la mela, la ragazza gettò quel che ne rimaneva in un sacchetto che teneva sempre nella borsa, per ogni evenienza.
«È il libro dei rituali della Setta del luogo. Io ne sono il custode e... in fondo, da qualche parte, c’è scritto qualcosa su quella piramide...».
«Ne sei sicuro?!» esclamarono all’unisono padre e figlia.
L’espressione che si dipinse in viso al giovane quand’ebbe finito la consultazione rispose alla loro domanda.
«Non c’è niente, accidenti! Ero certo di averlo letto!» sbottò Marcus, chiudendo con un gesto secco il volume, evidentemente frustrato.
«Dai, non prendertela così. Forse è in un altro libro... forse l’hai letto là, in quella Setta...» tentò di risollevarlo Erika.
Lui sollevò il viso.
«Forse Zaira sa qualcosa...» rifletté ad alta voce.
«Zaira...?» ripeterono gli altri due, perplessi, ma l’altro non li stette a sentire e proseguì: «Domani notte vi porterò con me alla sede della Setta dei Corvi di questo posto! Magari riusciremo a scoprire qualcosa...».
«Okay...» si limitò a rispondere la giovane Reagh.
«Be’, adesso mi sa che è meglio andare a dormire: oggi è stata una giornata... impegnativa».
Così dicendo, il ragazzo si alzò e andò a preparare un giaciglio di fortuna in un angolo un po’ in disparte.
«Ehm...» Erika arrossì, abbassando gli occhi.
«Mmmh?».
Ottenne immediatamente l’attenzione dei due uomini.
«Non c’è un posto dove... possa cambiarmi?» chiese la fanciulla.
«Oh, quello...!» Marcus arrossì di botto, comprendendo il perché dell’improvviso disagio della sua ospite.
«Mi spiace, ma non ci sono altre stanze... comunque, puoi fare. Noi ci giriamo...» disse, voltandosi e dandole le spalle.
Suo padre si voltò su un fianco, osservando con finto interesse le increspature nella roccia della parete dinanzi a lui.
La ragazza si cambiò quanto più in fretta poté. Avrebbe voluto farsi prima un bagno, ma non pensava che ci fossero docce nei paraggi, così si accontentò di togliersi un po’ del sangue incrostato e del sudore che aveva appiccicati ovunque con la maglietta, che comunque era da lavare, o da buttare, quindi indossò una canotta arancione e un paio di shorts di jeans che le arrivavano solo fino a metà coscia.
Meglio che rimanere con quei vestiti che puzzano di sudore e sangue... commentò, appallottolando i suddetti e ficcandoli in un altro sacchetto della propria borsa.
Andò a prendere posto sul suo giaciglio e si tolse gli occhiali, che ripose nella loro custodia all’interno della tracolla.
«Ehm... potete voltarvi» aggiunse, prima di sdraiarsi.
«Ah...» disse semplicemente il padrone di casa, girandosi in contemporanea con Alan, che si mise a stento seduto e strisciò via dal materasso.
Quando Marcus lo fissò con perplessità e fece per riportarcelo, lui spiegò con un rapido e poco educato: «Stacci tu, io non ho bisogno di dormire».
Prima di essere ripreso, andò ad accovacciarsi vicino al letto improvvisato della figlia e le accarezzò un fianco dolcemente.
«Buonanotte papà» sussurrò lei, già sulla soglia del sonno.
«‘Notte tesoro» rispose lui, appoggiandosi contro la parete, ancora stanco.
Marcus osservò il quadretto familiare mentre si stendeva sotto la coperta: erano una vera famiglia, uniti profondamente da un legame forte, da un amore potente.
A maggior ragione visto che erano stati separati praticamente tutta la vita.
Una fitta di dolore gli prese il cuore al pensiero del calore di un padre o una madre che ti stringevano e ti auguravano la buonanotte.
Alejandro era stato un buon padre, ma aveva sempre peccato di gentilezze nei suoi confronti. Per questo non aveva mai conosciuto il tepore di un abbraccio o l’affetto trasmesso da una carezza.
Scosse debolmente il capo, affondando la testa nel materasso.
Devo essere riconoscente ad Alejandro. Devo a lui quello che ora sono. Non devo odiarlo perché non mi ha mai abbracciato... né accarezzato o augurato la buonanotte...
E cercando di convincersi della veridicità assoluta di quei pensieri Marcus chiuse gli occhi, ignorando le tiepide lacrime che iniziavano a bagnargli le guance.





Angolino autrice
T________T sono in ritardoooo çOç *si butta dalla finestra*
Okay, evito soluzioni tanto drastiche... *riappare dal davanzale* ;___; sono una scema. Mi sono dimenticata di aggiornare per così taaaanto tempo T^T e mi sa che questo capitolo è venuto un po' una schifezza o un caos o un-non-so-nemmeno-io-che ;__; ma spero che piaccia almeno un pochino comunque.
Ringrazio quanti hanno aggiunto la fanfic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^'''
F.D.

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Capitolo 11
*** La Setta dei Corvi ***


11_La Setta dei Corvi Stettero tutto il giorno nascosti nella caverna di Marcus. Le ore trascorrevano con lentezza inesorabile e Alan era sempre più agitato: non era tipo da starsene con le mani in mano per tutta una giornata, ma il padrone di casa era stato chiaro. Se fossero usciti, con ogni probabilità i loro inseguitori li avrebbero trovati di nuovo, e a quel punto chissà dove li avrebbero portati.
Erika aveva passato il giorno leggendo i libri di Marcus che quest’ultimo aveva reputato adatti a lei. Al contrario del redivivo, non si era annoiata affatto: la lettura la impegnava sempre piacevolmente per ore.
Nel tardo pomeriggio, suo padre aveva iniziato ad agitarsi fuor di maniera e poco c’era mancato che lui e il ragazzo-corvo arrivassero addirittura alle mani.
Maschilità alle stelle... aveva commentato Erika tranquillamente, avvertendo una tensione carica di virilità attorno a sé, quasi palpabile tant’era addensata nell’aria.
Solo intorno alle otto e mezza - quando il sole era ormai definitivamente sparito oltre l’orizzonte - si erano decisi ad uscire allo scoperto.
Le violacee striature crepuscolari erano bellissime e contribuivano in modo quasi determinante a dare al cimitero un’atmosfera cupa e... be’, molto da cimitero. Le scure sagome delle statue si stagliavano contro la volta celeste in tutta la loro macabra meraviglia.
Erika iniziava ad essere stufa di tutte quelle tombe, ma aveva la netta impressione che avrebbe dovuto farci l’abitudine: sembrava che, dovunque si spostassero, avrebbero sempre dovuto “alloggiare” in qualche cimitero. La cosa non la entusiasmava per niente, però iniziava a non temere più di aggirarsi per i sepolcreti di notte.
Suo padre e Marcus le camminavano affianco e sembravano pronti a far fuoco e fiamme un’altra volta, al minimo cenno di provocazione, anche implicita.
Tra tutti e due mi piacerebbe sapere chi è il più infantile... rifletté la ragazza, avvertendo la tensione che si era venuta a ricreare tra i due.
A quanto sembrava, non andavano molto d’accordo, per non dire affatto: Alan pareva avercela con il ragazzo perché gli aveva fregato la piramide da sotto il naso lasciandolo a morire, mentre Marcus pareva avercela col redivivo solo per smania di restituirgli l’astio.
Con quella medesima ostilità che permeava l’aria, serpeggiando pronta ad esplodere, il terzetto percorse tutto il tragitto fino all’uscita del cimitero.
Quando fu il momento di salire in auto, al vedere i due uomini scambiarsi altre occhiate fulminanti, Erika non riuscì più a trattenersi e sbottò inviperita: «Smettetela di fare i bambini!!! Non abbiamo tempo per queste cazzate, chiaro?!».
Rimasero ambedue di sasso: non sembrava proprio un tipo così... autoritario.
Ignorando i loro sguardi scettici, la ragazza li superò con un’unica, rapida falcata e si sedette al lato del guidatore, intimando a suo padre con il solo sguardo di prendere posto sui sedili posteriori.
Lui non osò contraddirla: vedeva una sorta di fiamma rabbiosa arderle negli occhi e sapeva che era una pessima idea provare a disobbedire.
Penso che abbia preso pure questo da sua madre... commentò tra sé, richiudendosi alle spalle lo sportello.
«Allora, dove si trova la sede della tua Setta?» chiese la giovane Reagh, rivolta a Marcus.
«Non è molto lontana da qui» disse lui, senza rispondere più precisamente alla domanda postagli.
Mise in moto e partì.
Durante tutto il viaggio, un silenzio teso come una corda di violino s’impadronì dell’abitacolo, dissuadendo sia Marcus che Alan dal tentare di far partire una discussione su un qualsiasi argomento: pareva che Erika, se fossero giunti ad un nuovo diverbio, fosse pronta a divorarseli vivi.
Il tragitto durò poco più di mezz’ora.
Quando il ragazzo-corvo parcheggiò davanti alle macerie di una vecchia villa sperduta in mezzo al niente, il crepuscolo aveva già lasciato il posto alla notte vera e propria e le stelle iniziavano ad accendere il cielo notturno con la loro minuscola luce diamantina.
Erika scese dall’auto e si sbatté lo sportello alle spalle, osservando assorta la struttura che aveva innanzi: anche al buio riusciva chiaramente a distinguere la miriade di crepe che s’intrecciavano sulla parete. Le finestre erano grandi e rotte, anche se la maggior parte era stata sfondata di netto. La porta era a due ante, come dimostravano i battenti spaccati a metà e abbandonati contro gli stipiti.
La ragazza sbatté più volte le palpebre, senza perdere di vista la loro meta: si sentiva... strana, quella notte. Non capiva perché, ma avvertiva il proprio inconscio come se fosse... nero.
«È qui che sta la Setta?» domandò Alan a Marcus.
«Sì» rispose quest’ultimo in tono di sfida.
La piccola alchimista si fece avanti per prima, in silenzio.
«Com’è accogliente...» commentò in tono sarcastico e lugubre, calpestando le ante stroncate della porta.
«Deve essere così, altrimenti potrebbe venire in mente a chiunque di entrare a curiosare...» tentò di giustificarsi il moro, un po’ perplesso da quel suo strano commento.
Erika calciò via con nonchalance un pezzo di legno caduto da chissà dove, quindi si volse ai due uomini dietro di lei.
«Be’, che ci fate lì impalati?! Andiamo!» li rimproverò, irritata, penetrando per prima l’oscurità della casa.
«A-aspetta! È pericoloso!» esclamò Marcus, correndole appresso, seguito immediatamente da Alan.
Dentro di sé, la ragazza si sentiva decisamente a disagio, come se ci fosse qualcosa in lei che non fosse come avrebbe dovuto essere.
Era come se ci fosse una sorta di... “parte oscura” nel suo subconscio che pungolava l’altra in continuazione, dandole fastidio, irritandola.
Non aveva niente contro Marcus - men che meno contro suo padre - ma non riusciva ad essere come al solito: quella cosa strana e buia dentro di lei la faceva sentire diversa e non a suo agio con se stessa.
Era una sensazione senza dubbio bizzarra, oltre che spiacevole.
Il moro l’affiancò in un batter d’occhio e la superò, guidandola attraverso l’ampio atrio che stava letteralmente cadendo a pezzi e che puzzava di legno muffito, diretto dall’altra parte dell’entrata, dov’era una porta chiusa.
«Ecco, ci siamo...» disse semplicemente il ragazzo-corvo, fermandosi dinanzi a quell’uscio.
Sembrava l’unica cosa intatta in tutta la casa.
«E adesso? Aspettiamo la manna dal cielo?» domandò Erika, incrociando le braccia sul petto in un certo atteggiamento irritato.
Marcus, per tutta risposta, bussò. I suoi due ospiti notarono che lo fece in modo preciso, quasi calcolato: due colpetti leggeri e veloci e uno più forte e lento.
Seguì un silenzio d’attesa in cui nessuno dei tre si mosse né fiatò.
Infine, dopo svariati minuti d’attesa, l’uscio si aprì cigolando e il giovane moro vi scivolò all’interno.
Lo sentirono confabulare a bassa voce con qualcuno, quindi riemerse.
«Venite. Potete entrare» disse, aprendo un poco di più la porta.
Dietro di lui c’era una ragazza dagli occhi circondati da una quantità spropositata di trucco e molto pallida, con lunghe ciglia nere e le labbra scarlatte, simili al sangue. I capelli, nerissimi, erano corti e raccolti sulla sommità della testa da due code sbarazzine.
Al vedere i due ospiti inattesi, indietreggiò un po’.
«Non preoccuparti Roxy: non vogliono farti del male» la rassicurò Marcus, anche se dall’espressione scura dipinta sul viso di Erika sembrava proprio il contrario.
Roxy, cercando di riporre fiducia nelle parole del ragazzo, si fece coraggio e disse: «Non penso che Zaira sarà contenta di questa... “visita”».
«Be’, per me puoi pensare quel che ca...!»
«Erika, per favore...» la interruppe suo padre, spingendola giù per la scalinata.
Iniziava a dargli sui nervi quello stranissimo atteggiamento da parte della figlia, totalmente incongruente con il suo comportamento consueto.
Nell’inoltrarsi, notarono che lungo le pareti erano appese fiaccole che gettavano una vivida luce tremolante tutt’attorno, rischiarando loro il passaggio.
Menomale: almeno si vede dove si cammina! sbottò tra sé la piccola alchimista, seguendo i profili di Roxy e Marcus.
Dietro di lei, Alan mandava occhiate sospettose in ogni dove: la sua vista era decisamente più utile con un po’ di luce, ma ancora non era perfetta.
Accidenti ai decimi di vista che ho perso! Mi sento spaesato e dà un fastidio tremendo vedere ombre confuse al posto di cose nitide!!
Continuarono a scendere per un lasso di tempo che Alan quantificò in minuti, finché la scala non terminò in un lungo e stretto corridoio entro il quale dovettero procedere uno alla volta, in fila, per la scarsità di spazio.
Erika si sentiva schiacciare dalle pareti attorno a lei e aveva la sensazione di star soffocando: non riusciva a sopportare i luoghi piccoli e stretti. Aveva avuto una brutta esperienza con un armadio da piccola.
Quando ormai era prossima a svenire o mandare le sue guide a quel paese e fare marcia indietro a velocità supersonica, il corridoio sboccò in un’ampia sala rotonda fortemente illuminata da un grosso lampadario che pendeva dal soffitto a volta che sosteneva una decina, forse più, di grossi ceri accesi. Le pareti - lungo le quali erano disposte decine e decine di scaffalature - erano incuneate sotto delle balconate anonime che attorniavano tutto il circolo centrale.
L’architettura era semplice, e forse proprio per questo ancora più bella.
Roxy e Marcus li guidarono fino al margine del grande e particolare cerchio che era tracciato sul pavimento e che ad Erika ricordò in modo forse troppo forte un vero e proprio cerchio per rituali alchemici.
Probabilmente è proprio qui che hanno luogo i loro riti.
«Aspettate qui, vi prego: vado a riferire a Zaira del vostro ar...»
«Non c’è bisogno, Roxy!».
Una forte voce femminile, carica di autorità e vita, riecheggiò contro le pareti e arrivò fino a loro vibrando.
Erika alzò gli occhi in contemporanea a suo padre, giusto in tempo per vedere una ragazza - anzi, una quasi donna - affacciarsi con decisione dalla balconata destra.
Aveva i capelli corti e neri, spettinati, un po’ da maschio, così come il giubbotto di pelle che la faceva somigliare ad una motociclista. Ai suoi lobi Erika riuscì a distinguere un paio di quelli che dovevano essere cerchietti d’argento, così come il piercing a lato del sopracciglio destro.
L’espressione era piena di vitalità ed anche carica di giovanile aggressività. Sembrava essere in grado di affrontare le più grandi imprese del mondo senza scomporsi minimamente, ma anzi, con una grinta senza pari.
Il resto della figura era coperta dal balcone.
«Ehilà, Marcus! È da un po’ che non ti si vede in giro»
«Sono stato impegnato in altre faccende» replicò lui come se niente fosse.
«Già, già... immagino. E i tuoi ospiti, chi sono?» continuò Zaira.
«Erika e suo padre, Alan».
La giovane alchimista scorse fugacemente un lampo negli occhi della donna, che scavalcò con un abile salto il balcone e, fendendo il vuoto sottostante, atterrò infine sul pavimento senza neppure un graffio.
«Piacere, io sono Zaira e sono il capo di questa Setta dei Corvi» si presentò, avvicinandosi e tendendo una mano verso padre e figlia.
Quest’ultima avvertì un rimestio davvero sgradevole di quella cosa oscura che le si era venuta a formare dentro e che adesso, chissà perché, visualizzava mentalmente come una sostanza nera e vischiosa, simile alla pece, che le inondava l’anima.
Comunque, qualsiasi cosa essa fosse, si stava agitando come se fosse vicina ad un qualcosa che la metteva in allarme. La ragazza si spaventò solo a pensarla come una cosa dotata di coscienza propria; tuttavia aveva la netta impressione che fosse proprio così: una seconda entità interna a lei, forse addirittura una parte a sé stante del suo inconscio.
Fatto stava, però, che pareva si stesse innervosendo - se così si poteva definire la strana sensazione di pericolo e il desiderio di violenza che si stavano dando battaglia in lei - sempre più ogni passo che Zaira faceva verso di loro.
«Zaira... siamo venuti per chiederti una cosa... un favore» intervenne Marcus.
 A quelle parole la donna si volse a lui, arrestando la sua avanzata, permettendo così ad Erika di allontanarsi un poco prima che il desiderio che le cresceva dentro la spingesse ad avventarsi contro di lei e scuoiarla viva ad unghiate.
La “marea nera” calmò i suoi bollenti spiriti.
«Sì? Be’, allora penso che sia una cosa importante»
«Lo è, in effetti» s’intromise Alan.
«In questo caso, Roxy?»
«A-ah, sì?» disse la ragazza, avanzando goffamente di mezzo passo.
Zaira le sorrise.
«Va’ dagli altri»
«S-sì, come vuoi» esclamò in ultimo la ragazzina, quindi se ne andò velocemente.
Appena furono soli, Zaira prese a camminare attorno a loro, lentamente, le braccia incrociate sul petto e l’espressione assorta di chi attende pazientemente.
«Allora, che cosa volete sapere?» chiese, senza tanti preamboli.
Un istante di silenzio, durante il quale Erika si guardò intorno, ispezionando con cura le librerie, mentre il moro proseguiva: «Vorremmo sapere qualcosa sulla Piramide di Jupiter».
Mentre Marcus pronunciava quelle parole, la piccola alchimista scorse un pacato scintillio rosso tra i libri che c’erano in uno scaffale all’altro capo della sala.
Prendila, Erika! È quella!
Senza stare a chiedersi cosa fosse la voce sibilante che aveva appena udito nella sua testa, ma realizzando quasi subito a cosa si stesse riferendo, il primo pensiero che formulò - e che non riuscì a completare - fu: se quella è qui allora...!
Si sentì gelare letteralmente il sangue nelle vene e si volse di scatto verso Marcus per avvertirlo della sua scoperta, ma fu interrotta da Zaira, la quale, in quel medesimo istante, rise sguaiatamente, rivolgendo il viso al soffitto.
Sembrava aver improvvisamente perso il senno.
«Zair...?» esordì il ragazzo-corvo, perplesso ed intimorito.
«Marcus... avresti dovuto scegliere meglio le compagnie da frequentare» lo rimproverò la donna con voce lenta e tono contenuto, risultando per questo ancor più minacciosa.
Estrasse una pistola e la puntò contro di loro.





Angolino autrice
Ecco finalmente l'aggiornamento >///< perdonate il ritardo, ma inizio ad essere sovraccarica di cose da fare anche - soprattutto - a causa della scuola çOç
Anyway, ecco il capitolo ù-ù sperando che piaccia ^^'''
Ringrazio tutti coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 12
*** Piume nere e vuoto tetro ***


12_Piume nere e vuoto tetro «Cosa stai facendo?!» esclamò Marcus, spiazzato visibilmente dal veder comparire l’arma in mano alla donna.
Adesso negli occhi di quest’ultima si era accesa una viva scintilla di pazzia.
Erika, però, pareva l’unica ad aver capito almeno remotamente la situazione.
Avanti, reagisci!
«Stai dalla loro parte, non è così?!» sbottò la ragazza a gran voce, attirando su di sé la sconcertata attenzione dei due uomini.
Zaira sorrise scoprendo i denti, puntando con decisione la pistola contro di lei.
«Come hai fatto ad indovinare?»
«Chiamalo “intuito”»
«Oh, allora il Contatto è davvero così in gamba come dicono... peccato che da qui non uscirai viva!»
«Zaira, di che cosa sta parlando?! Tu non...!»
«La Piramide ce l’ha lei! La tiene su uno scaffale, dall’altro capo della stanza!».
Erika interruppe Marcus, il quale sgranò gli occhi, allibito, mentre Alan si voltava verso la mora, in viso un’espressione carica di rabbia.
«Che cosa?!».
Il sorriso di Zaira si spense un po’, tramutandosi in un’espressione minacciosa.
«Ragazzina... parli troppo» disse, quindi premette il grilletto.
Erika chiuse gli occhi, pronta ad un dolore atroce, insopportabile... che non arrivò. Eppure, l’esplosione dell’arma da fuoco l’aveva sentita eccome.
Si azzardò a riaprire gli occhi e non poté trattenersi dal far sbocciare sul suo viso l’orrore per quel che era accaduto.
«Eri... ka?».
Il sussurro strozzato precedette un gemito di dolore con cui il suo scudo si accasciò a terra.
«MARCUS!» gridò lei, correndo in avanti, cingendo il petto del moro, accostandolo al proprio.
In mezzo allo sterno c’era un foro di proiettile che sanguinava copiosamente, insozzando la maglietta. Marcus strizzava gli occhi, che pian piano si socchiusero. Dalla sua schiena spuntavano due grandi ali nere, che adesso stavano afflosciate sulle ginocchia della ragazza, appena frementi.
«Eri... ka, ti sei... fatta male?» domandò lui, ma lei scosse la testa.
«Non ti sforzare, non parlare, per piacere».
Sentiva le lacrime pungerle ai lati degli occhi: non poteva finire così, non così presto e non in quella maniera! Per lei non doveva sacrificare la sua vita!
«Il piccolo corvo si è sacrificato per proteggere il Contatto. Che tenero... ma è un sacrificio sprecato, visto che presto anche lei morirà!» lo derise Zaira.
«MALEDETTA!!» ringhiò Alan, avventandosi contro di lei con tutte le sue nuove capacità da redivivo.
Zaira indietreggiò di un passo per la sorpresa di quell’attacco, ma fu solo un istante: quello successivo già puntava la pistola contro l’uomo.
Uno, due, tre colpi riecheggiarono e Alan si arrestò, tremando e cadendo in ginocchio, tuttavia...
«Non credermi ancora vivo, puttana. Puoi fermarmi, ma non ammazzarmi!» replicò, pulendosi col dorso della mano le labbra e sputando del sangue di lato, per poi rialzarsi e sorridere in modo vagamente superiore e strafottente, avanzando inesorabilmente.
Zaira continuava a sparare a raffica.
Alan continuava a cadere e rialzarsi, riprendendo a camminare verso di lei, come in un film horror. Poi, dopo un indefinito lasso di tempo, lui le fu addosso, e con un colpo decisamente cruento sul braccio glielo spezzò di netto, quasi fosse un fuscello.
La pistola le cadde di mano e un’imprecazione mista ad un gemito di dolore le sfuggì dalle labbra, mentre Alan l’afferrava per i capelli e la sbatteva a terra, inchiodandocela con un piede.
Erika era inginocchiata più in là e carezzava dolcemente i capelli di Marcus, sussurrandogli che sarebbe andato tutto bene.
Il sangue continuava a scendere copioso e lui respirava a fatica.
«Erika... lasciami. Vai a prende... re la piramide...» esalò, esausto, quindi chiuse gli occhi.
Il cuore batteva lento e se non avessero fermato in qualche modo l’emorragia, probabilmente sarebbe morto sul serio.
Che fare? Come fare?! Non so niente di pronto soccorso, accidenti!!
Resisterà. Tu devi prendere quella piramide. Glielo devi, in fondo.
Era ancora quella voce sconosciuta, che in quel momento le sembrava più la voce della sua coscienza - oppure della ragione?
«Aaargh!».
Alzò gli occhi in tempo per vedere suo padre cadere in ginocchio a terra tenendosi un braccio e Zaira rialzarsi e correre verso la piramide, il braccio destro inerte lungo il fianco.
«Sciocchi!! Non l’avrete mai! MAI!!!» esclamò.
Fu allora che la “marea nera” si risvegliò.
Come un mare in tempesta, ricolmò tutto, rivestì l’interno del suo corpo e della sua mente, assoggettandola al suo potere, che si fuse irreversibilmente con la sua coscienza e il suo essere. Divenne parte integrante di lei, come un organo supplementare, una peculiarità che possedeva solo lei.
Depose delicatamente ma con rapidità Marcus a terra, ancora agonizzante, quindi si alzò e si mosse veloce verso la donna. Poi si fermò e il suo sguardo si spense, lasciando posto a vuote pupille bianche che si riempirono di pece. Attorno a lei prese a turbinare debolmente un vento mistico, che divenne sempre più forte e impetuoso.
Alan rimase sbigottito nell’osservare i piccoli fulmini che scaturivano attorno a lei, senza mai infrangersi sul suo corpo, ma su una sorta di barriera invisibile che la circondava.
«Zaira!!!» esclamò, perentoria.
A quel richiamo, tutto degenerò: i suoi capelli presero a dimenarsi come serpenti attorno a lei, ancora immobile come una statua, i piccoli fulmini iniziarono a produrre un rumore sfrigolante, talmente forte da rimbombare nel locale e...
Il redivivo trattenne il fiato, mentre la figlia levitava e sotto i suoi piedi si apriva una specie di buco nero da cui si innalzavano pennacchi di fulmini viola assai inquietanti.
Gli occhi vuoti di Erika si dilatarono impercettibilmente e dal “buco nero” emersero lunghe propaggini che presero la forma di mani e schizzarono verso Zaira, immobilizzandola a pochi passi dallo scaffale.
Attorno alla preda apparvero piccole fiammelle azzurre, che cominciarono a levitarle intorno ondeggiando, in una sorta di circolo protettivo.
I muscoli di Zaira s’irrigidirono e tentarono d’opporre resistenza, ma alla fine fu schiacciata al suolo in modo violento.
Tutto rimase immobile per pochi istanti, poi un’altra mano prese forma dalla chiazza di materiale vischioso e semi-liquido su cui “poggiava” la piccola alchimista. L’arto strisciò letteralmente fino allo scaffale, quindi lo scalò fino a soffermarsi sulla mensola centrale.
Quando tornò indietro, reggeva un oggetto che Alan riconobbe immediatamente.
«La piramide!!» esclamò.
La mano nera ritornò dalla ragazza e, quando posò l’oggetto tra le mani aperte della fanciulla, tutto cessò: la “macchia nera” svanì, il vento che le turbinava attorno pure, e i suoi occhi tornarono normali.
In piedi, con la piramide in mano, Erika sbatté le palpebre, confusa e anche un po’ spaventata.
Suo padre la raggiunse rapidamente.
«Come stai? Tutto okay?»
«Sì... non sono ferita» disse, stravolta.
Era scioccata da quello che aveva appena fatto: possibile che, assieme all’abilitazione - se così poteva essere chiamata - di Circe ad usare l’Alchimia, la maga avesse anche “risvegliato” quel potere?
Sperava che l’essere diventata all’improvviso un’alchimista non comportasse altre scoperte di quella portata, perché temeva di non riuscire a sopravvivere una seconda volta ad uno shock simile.
Marcus, più in là, si era rimesso a fatica in piedi. All’insaputa del piccolo nucleo familiare, aveva assistito alla scena, e non credeva ai suoi occhi. Non credeva Erika capace di manifestare un simile potere.
«Piccola stronza!» urlò Zaira, rialzandosi barcollante e sudata.
Alan quasi le ringhiò mentre le si catapultava contro, scaraventandola contro la libreria alle sue spalle, che tremò paurosamente, facendo cadere qualche volume.
Erika le si avvicinò, stringendo a sé la piramide.
«Come si chiama l’organizzazione per cui lavori?»
«Mi credi così idiota da rivelartelo?»
«No, immagino di no... - sorrise - ... ma se papà ti spezzasse l’altro braccio... o magari le gambe?».
Erika aveva sempre sperato che le si presentasse l’occasione propizia per una di quelle semplici minacce dette col sorriso sulle labbra: erano quelle che, a suo parere, sortivano gli effetti migliori.
Alan si dimostrò più che disposto a collaborare.
«Non riuscirete a strapparmi niente!»
«Ah, tu dici...? Papà...».
Suo padre si preparò ad abbattere un colpo sulla sua gamba, quando...
«No, fermo!» lo supplicò Zaira: aveva ostentato coraggio, ma ci teneva almeno a reggersi sulle sue gambe.
«E allora? Avanti, parla! Per chi lavori?» la esortò Erika in tono duro.
«L’organizzazione si chiama “Organizzazione XXX”... ed è in cerca di un potere... per rovesciare i governi... e acquisire sempre più fama, gloria... e denaro. Ma vi prenderanno! Potete starne certi! Prima che abbiate sistemato le cose, vi prenderanno!»
«Dobbiamo andarcene! Sta arrivando gente!».
La voce di Marcus interruppe i vaneggiamenti da pazzoide della donna.
Alan ed Erika si scambiarono un’occhiata d’intesa, quindi l’uomo lasciò andare Zaira, che si accasciò a terra, e la ragazza si piegò su di lei.
«Puoi dire ai tuoi superiori che venderemo cara sia la pelle... che la piramide» le sibilò, poi si alzò e raggiunse suo padre e Marcus - che sembrava aver acquistato un certo equilibrio, anche se un po’ traballante - e si avviò con loro verso l’uscita.
La mora si alzò debolmente da terra e digrignò i denti, quindi prese da una tasca della giacca il cellulare, digitò malamente un numero con la sinistra e si portò all’orecchio l’apparecchio.
«Zaira, che cosa vuoi?»
«Felix... cattive notizie: quella puttanella e suo padre... l’hanno presa».

«Marcus non azzardarti a guidare!».
L’avvertimento di Erika, che si stava infilando alla velocità della luce nell’abitacolo dalla parte del passeggero, lo fece sobbalzare.
«Perché, scusa?!»
«Sei ferito e quasi non ti reggi in piedi! Mi spieghi come fai a guidare?!» lo rimbrottò lei.
«Da’ qua. Erika, forse è il caso che tutti e due stiate sui sedili posteriori: così puoi tamponargli un po’ la ferita» disse Alan, strappando di mano le chiavi al ragazzo, che andò a sedersi dietro con fare contrariato.
«Sì, buona idea».
L’alchimista scese e prese posto dietro mentre suo padre metteva in moto e partiva sgommando.
«Marcus, fa’ vedere, avanti» disse, avvicinandosi.
Lui rimase con le braccia conserte sul petto, immobile. Sembrava contrario al farsi controllare la ferita, o forse era semplicemente stizzito perché non poteva neppure guidare la sua auto.
Irritata dal suo atteggiamento indisposto, Erika gli pestò un piede.
«Ahio!»
«Smettila di fare il ragazzino e fa’ vedere!» lo riprese, avvicinandosi a lui e strappandogli le braccia dal petto.
Lui rimase a contemplare il suo viso mentre, con espressione seria e scrupolosa, esaminava la ferita.
Non... me ne ero accorto prima... ma ha davvero un forte spirito d’iniziativa... e degli occhi bellissimi... pensò, arrossendo un po’, involontariamente.
Erika frugò nella sua immancabile tracolla, quindi ne estrasse un fazzoletto, con il quale tamponò alla meno peggio la ferita, dalla quale fuoriusciva ancora sangue.
«Dove andiamo?» domandò Alan.
«Al cimitero» rispose Erika, poi aggiunse: «Dobbiamo medicargli decentemente la ferita, ho paura che si infetti».
«Okay» disse semplicemente il redivivo.
«Perché... l’hai fatto?» sussurrò poi la ragazza, rivolta al moro, che orientò altrove il suo sguardo.
Già, perché l’aveva fatto? Avrebbe potuto attaccare direttamente Zaira, disarmarla, costringerla a parlare senza doversi curare di nessun ferito... e invece no. Si era preoccupato di salvare Erika. Aveva messo a repentaglio la propria vita per la sua senza pensarci un solo istante e adesso che si sentiva consumare le energie, goccia dopo goccia di sangue che se ne andava, non si pentiva del suo gesto avventato.
Lui ci teneva a lei, pur conoscendola da nemmeno due giorni. Ci teneva a preservare la sua incolumità fisica, anche a costo di farsi male. Era una sensazione strana, ma pressante. La domanda iniziale, però, non si risolveva: perché?
«Non... lo so» rispose dopo un po’, senza riuscire a trovare nient’altro da aggiungere.
Lei gli prese una mano e gliela poggiò sul petto.
«Tieni il fazzoletto, altrimenti cade. Adesso cerca di riposarti un po’» disse, quindi si scostò, rivolgendo gli occhi alla strada davanti a sé.
In grembo teneva ancora la piramide, che pareva essere fatta di granati e che riluceva debolmente di una luce mistica sotto il candore lunare che penetrava dal finestrino.
Il ragazzo rilassò i muscoli e attuò di nuovo il processo di trasformazione, ritornando normale, privo d’ali, quindi appoggiò il capo sul bordo del sedile e lo girò di lato, in modo da poter osservare Erika indisturbato: i capelli erano ancora un po’ scompigliati, il viso pallido e un po’ tirato, gli occhi seminascosti a lui dalla montatura dei suoi occhiali.
Eppure non riusciva a non scorgere nella sua figura un che di magnifico, bellissimo, pur sapendo che era distrutta e scioccata da quel che era appena accaduto.
La ferita gli pulsava dolorosamente e la fitta al centro del petto bruciava, ma non si pentiva d’essersi esposto per lei. Non si lamentava per quel dolore causato dalla sua stessa, stupida voglia di fare l’eroe.
No, era... felice, in un modo strano e particolare - oltre che nuovissimo per lui.
Infine, senza toglierle neppure un grammo della sua attenzione, le palpebre gli si fecero di colpo pesanti e la stanchezza causatagli dall’ingente perdita di sangue prese il sopravvento, facendolo sprofondare in un quieto sonno senza sogni.





Angolino autrice
Finalmente trovo il tempo per aggiornare anche questa +___+ *maledice la scuola*
Ringrazio Sachi Mitsuki per la recensione allo scorso capitolo e tutti coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 13
*** Decisioni drastiche ***


13_Decisioni drastiche Quando scesero dalla macchina, finalmente giunti davanti al cimitero, Erika notò che Marcus si era addormentato.
Nel vedere il suo viso disteso e la sua espressione serena, alla ragazza sfuggì un sorriso.
«Avanti, Marc...!»
«Papà, sta dormendo» disse lei con un fil di voce, raddolcendo lo sguardo: il ragazzo teneva il capo rivolto verso di lei, le palpebre chiuse dolcemente e le labbra appena dischiuse, tra le quali fischiava sommessamente il suo debole respiro.
Com’è dolce e indifeso... sembra un bambino... commentò tra sé Erika, mentre suo padre faceva il giro della vettura e lo raccoglieva.
«Lo porto addormentato, okay?» disse, un po’ spazientito.
«Sì, è meglio che riposi» replicò lei, seguendo il redivivo all’interno del cimitero silenzioso e avvolto da un leggero velo di bruma notturna.
Procedettero a passi svelti, decisi a raggiungere quanto prima il mausoleo dal quale si accedeva alla caverna dove Marcus viveva.
Arrivati alla struttura, ne varcarono l’ingresso spediti, fino a raggiungere il fondo, dove era il piccolo cancello chiuso a chiave.
«Come si fa ora? È chiuso!» obiettò Alan, irritandosi.
«Avrà le chiavi in tasca...» sussurrò Erika, iniziando a frugare nelle tasche del ragazzo in cerca delle chiavi. Infine, dopo qualche minuto di ricerca, riuscì a trovarle.
Aprì il cancello e lo superò per prima.
Suo padre scese alla meno peggio, strusciando una spalla contro la parete così da sapere che gli era accanto, in caso cadesse e dovesse aggrapparsi a qualcosa - anche se, in tal caso, avrebbe dovuto lasciar cadere Marcus, e ciò non avrebbe certamente fatto piacere a sua figlia.
Arrivati in fondo, corsero attraverso il corridoio fino ad arrivare nella caverna, dove Erika si prodigò alcuni minuti nel cercare una candela per sostituire l’unica che Marcus aveva lasciato accesa e che adesso stava lentamente languendo sul suo piedistallo.
Suo padre andò a deporre il corpo del giovane sul materasso e vi si inginocchiò accanto, in attesa che la figlia illuminasse il locale. Finita l’operazione, la ragazza andò in cerca della cassettina con le bende che aveva usato lui stesso la sera avanti. Non fu facile orientarsi nel caos che c’era, ma riuscì, incredibilmente, a trovare ciò che cercava.
Così, con un mezzo sorrisetto di trionfo sulle labbra, si sedette sul bordo del materasso e spostò la mano del ragazzo, pesantemente appoggiata sul petto, sopra il fazzoletto.
Come prima cosa - la più difficile - dovette togliergli la maglietta, e in ciò l’aiutò non poco suo padre, che sostenne il busto del ferito mentre lei gli sfilava l’indumento, forato e sanguinolento, gettandolo poi a terra. Prese il disinfettante ed un batuffolo di cotone ed iniziò a ripulire la corona di sangue che si era dipinta sul suo petto, attorno al foro.
Sul viso di Marcus si dipinse un’espressione che sembrava più una smorfia, un misto di sopportazione, irritazione e dolore, eppure non si svegliò.
Dopo che ebbe terso buona parte del sangue, estrasse le garze e lo bendò, mettendo particolare cura nel fermare un secondo pezzo di garza che aveva applicato sulla ferita, per evitare che il sangue trasparisse e macchiasse tutto subito.
A quel punto, lo coprirono e lo lasciarono riposare.
«E adesso... che si fa?» chiese Alan, lanciando un’occhiata alla figlia.
Questa portò di sbieco la sua attenzione su Marcus, per un solo istante, prima di replicare: «È lui quello che ha riportato la Piramide di Jupiter ad Alejandro, la prima volta. Senza di lui o altre informazioni, siamo ad un punto morto».
Alan dovette dolorosamente constatare che era vero: senza il ragazzino, erano fermi. Non potevano fare niente, non conoscendo come stavano le cose.
Sentirono un sibilo dietro di loro e si volsero in tempo per vedere Marcus puntellarsi su un gomito e rialzarsi per metà.
«Ahio, che male...!» aggiunse, mettendosi malamente seduto.
«Ehi, fermo! Sdraiati, sei ancora debole!» lo ammonì Erika.
Ma lui la ignorò e si alzò, tastandosi la bendatura.
«Sei stata tu?» domandò, accennando vagamente alla fasciatura.
«Sì... almeno in questo ho un poco d’esperienza...» replicò lei, imbarazzata.
Il moro sorrise.
«Grazie»
«Figurati»
«Marcus, puoi cortesemente spiegarci cosa sta accadendo?» intervenne bruscamente Alan, irritato dal loro scambio di inutili convenevoli in un momento del genere.
Il ragazzo rimase in piedi, saldo, e replicò: «Non ne ho idea. Non so come la piramide sia finita in mano a quella... quella...»
«Abbiamo capito. Ma adesso... che facciamo?» chiese Erika.
Cadde uno strano silenzio, quasi solenne, fatto di attesa spasmodica, come se stesse per essere pronunciato il verdetto di una pena capitale.
Infine, Marcus si espresse: «Andremo da Alejandro. Lui sa certamente quel che sta accadendo».
«Perfetto! Partiamo subito!» esclamò Alan, alzandosi subitaneamente in piedi, come se i suoi muscoli fossero molle, ma il moro scosse la testa, deciso.
Sembra che si senta meglio. Evidentemente dormire un po’ gli ha fatto bene... commentò la piccola alchimista, osservando assorta l’espressione severa e scura che si era dipinta in viso al giovane.
«Cosa? Perché no? Quei tizi...» esordì il redivivo.
«Andrò io da solo, e...»
«NO!».
Stavolta fu Erika ad intervenire, ferma e risoluta, schizzando in piedi, arrabbiata.
«Non posso lasciarti andare così allo sbaraglio! Quei tizi cercano anche te! Come pensi che mi sentirei se ti dovessero prendere, eh?! E oltretutto sei ferito! Non sei ancora in grado di andare da nessuna parte da solo!».
In tutto quel discorso, a suo padre fu lampante solo una cosa, semplicissima e banale, tanto da risultare quasi un particolare stupido: aveva parlato al singolare.
Non aveva parlato anche per lui, ma solo a nome proprio, e questo significava che...
Ci tiene davvero a lui... si ritrovò a constatare semplicemente, ed una morsa nera gli si chiuse attorno al cuore, letale e venefica.
«Non mi avete fatto finire» intervenne Marcus, pacato.
«Che altro c’è da aggiungere?!» sbottò Erika, irritata.
«Non sarò solo laggiù! Ci divideremo semplicemente per il viaggio: io vi precederò e voi verrete in macchina. Ci ritroveremo al St. Katherine Cemetery di Yoris, la capitale, e insieme andremo a chiedere informazioni ad Alejandro, okay?» spiegò, in tono diplomatico.
Era un accordo che, tutto sommato, Erika ed Alan si sentivano di poter accettare: non prevedeva che Marcus andasse da solo incontro a chissà quali pericoli, ma solo una temporanea separazione.
«M-ma sei sicuro? E come arriverai fino a Yoris? Sì, cioè... se hai detto che noi verremo in macchina...» chiese Erika, perplessa.
«Io posso volare, ricordi?» esclamò Marcus, ammiccandole con fare malizioso, facendole imporporare le guance.
«E se ti trovano?» s’intromise Alan.
«Sono quasi più pratico a volare che a camminare, puoi starne più che certo. Non mi prenderanno con tanta facilità» asserì il moro, sicuro di sé e delle sue capacità.
Erika lo fissò dritto negli occhi: vi leggeva una profonda determinazione, un qualcosa di orribilmente forte.
Lui voleva andare, ad ogni costo. Anche se ci avesse rimesso la sua stessa vita, era intenzionato a seguire la sua idea. Probabilmente sarebbe partito persino se loro si fossero opposti.
«D’accordo» sbuffò, anche se contrariata, suscitando ilarità nel suo interlocutore.
«Allora... come ci muoviamo?»
«Partirò domani all’alba. Voi vi muoverete a mattina inoltrata. Vi ci vorrà non meno di un giorno per arrivare a destinazione» esclamò Marcus.
«Allora andiamo a dormire: è la cosa migliore» soggiunse poi, avvicinandosi di nuovo al materasso.
«Sì, Erika... è bene che tu dorma» si aggiunse Alan, posando le mani sulle spalle della ragazza per guidarla verso il suo angolo-letto.
Lei si lasciò trasportare e adagiare sul materasso, quindi si distese e, tolti e riposti gli occhiali, si volse verso Marcus.
«Buonanotte» esclamò, rivolta ad un destinatario indefinito, forse ambedue gli uomini nel locale.
Un disarmonico e annoiato coro di “notte” gli giunse in risposta, così chiuse gli occhi e si lasciò avvolgere dalla stanchezza.
«Erika! Erika, svegliati!»
Dove... sono?
Mi trovavo in una specie di tempio senza soffitto dal quale riuscivo a vedere la volta celeste, un manto nero puntellato di fulgidi brillanti argentei. Attorno a me non c’era altro che distruzione e rovina, detriti di quel che un tempo era il tetto ammonticchiati ovunque lungo le pareti ed un grande altare di pietra proprio davanti a me, ad una decina o più di metri.
«Erika, finalmente ci ritroviamo».
Quella voce... l’avevo già sentita.
«Erika...».
Con il mio nome, ripetuto di nuovo e con un’inflessione soffusa e dolce, un bagliore accecante mi apparve innanzi, proprio sopra l’altare. Dovetti coprirmi gli occhi per non rimanerne completamente abbagliata.
Da quello splendore abbacinante emerse una donna incantevole, che pure avevo già visto... in un altro sogno.
Mi sorrise e, con un semplice passo, superò la distanza che c’era tra noi e mi fu dinanzi.
«Circe» la chiamai d’istinto.
«Erika, adesso tu hai dei poteri».
La mia prima ed unica preoccupazione non fu di chiederle perché o come - contrariamente a ciò che c’era da aspettarsi - bensì: «Quali sono? Come potrò utilizzarli, se non so quando si manifestano né in che modo?».
La maga, semplicemente, rise.
«Tu sei un’alchimista, Erika, ma non solo. Sei una maga... e la catena che unisce i quattro Fulcri del Potere. Per questo, io ho sciolto il sigillo che bloccava i tuoi poteri, perché tu possa essere d’aiuto quando giungerà il momento, che in verità non è lontano».
«Quando? Quale momento? E cosa sono i Fulcri del Potere?»
Ma Circe iniziava già ad essere nuovamente avvolta da un alone mistico e candido. Il suo corpo stava divenendo evanescente a poco a poco, sempre più opaco, sbiadito...
Stava scomparendo?!
«Erika, ricorda che gli alchimisti comandavano gli elementi. Ricorda... che i quattro elementi più importanti sono la base su cui è stata costruito questo mondo...»
«Aria, Acqua, Terra e Fuoco...» sussurrai, senza saper nemmeno bene perché.
«Esatto... e adesso riposa, perché ti attendono molti pericoli» concluse la maga, mentre il suo corpo si faceva sempre più trasparente e si allontanava.
«No, aspetta! Circe! Qual è il mio compito?! Come posso portarlo a termine?! Circe!!!» esclamai, mentre correvo avanti, quasi saltando nel vano tentativo di raggiungerla.
Infine, disperata, mi gettai contro di lei, ormai sospesa nell’aria a quasi due metri d’altezza.
«Ricorda, Erika... tu sei...»
«... la catena che unisce i quattro Fulcri del Potere...».





Angolino autrice
Sono mesi che non aggiorno e chiedo perdono ç__ç sono stata in fase di stallo con tutte le longfic a causa della scuola ;__; ma ora è finita, per cui posso tornare a lavorare a pieno regime! *W*
Ringrazio Sachi Mitsuki per la recensione allo scorso capitolo e chi ha messo la fic tra le preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 14
*** Trame nere all'orizzonte ***


14_Trame nere all'orizzonte «... la catena che unisce i tre Fulcri del Potere...».
Alan si volse verso Erika: era ancora beatamente assopita, avvolta nella coperta che le aveva appoggiato addosso quando ormai aveva varcato da un po’ di tempo la soglia del mondo dei sogni.
Dormiva ancora, eppure, l’aveva appena udita... parlare?
Starà sognando... mormorò tra sé, senza dar troppo peso alla cosa, quindi si affrettò a varcare l’ingresso della caverna e percorrere l’andito. Salì con cautela la scala, sempre per il solito problema dei decimi di vista mancanti al buio, finché non scorse la luce dell’alba che filtrava attraverso il cancelletto, lasciato accostato.
L’aprì del tutto ed uscì nel mausoleo, che alla luce del sole acquisiva un che di mistico e vagamente intrigante, come se tutto improvvisamente si fosse tramutato nei resti di un qualche antico centro abitato di una misteriosa civiltà scomparsa sul quale il sole nascente proiettava tutta la sua maestosa bellezza dal limite estremo dell’orizzonte.
Era una sensazione davvero curiosa, ma in un certo senso anche corroborante per lo spirito.
Marcus era in piedi accanto alla porta e parte dell’ombra del suo profilo veniva proiettata sul pavimento interno del sepolcro.
«A che cosa stai pensando?» chiese Alan, affacciandosi all’improvviso dalla soglia.
Il ragazzo sobbalzò e si pose una mano sul cuore: non se l’aspettava di incontrarlo, anche se sapeva che non sarebbe sfuggito alla sua attenzione, andandosene a passo felpato e senza dir niente a nessuno.
In fondo, lui era morto e non aveva bisogno di dormire, per cui poteva benissimo tenerlo d’occhio ventiquattr’ore su ventiquattro.
«La cosa sta prendendo risvolti...»
«... pericolosi? Già...» completò per lui il redivivo, quindi uscì alla luce e annuì, appoggiandosi contro lo stipite opposto, fissando il ragazzino.
«Sarà prudente portare Erika laggiù? Yoris è una città pericolosa... se non sai a cosa puoi andare incontro»
Alan sorrise, incrociando le braccia sul petto.
«Sai... anche io mi facevo la stessa domanda, tre giorni fa, quando mi sono ritrovato finalmente con lei. “Sarà prudente portarla con me, nonostante tutto quello che potrebbe succedere?”. Ho continuato a chiederle scusa per averla strappata alla sua vita, e sai cosa mi ha risposto...?».
Sul suo viso apparve un sorrisino sghembo.
«“Smettila di scusarti! Ormai sono qui, per cui ti aiuterò, qualsiasi cosa tu debba fare e in qualsiasi casino tu sia, capito? Non ti permetterò di uscire di nuovo dalla mia vita per sempre!”. Breve e incisiva, per cui non penso che si lascerà persuadere a rimanere, o peggio ancora a fuggire. Non l’ha fatto dopo essere stata minacciata con un mitra, non lo farà neanche adesso».
Gli occhi di Marcus si spostarono dal viso del suo interlocutore al terreno, ispezionandolo con finta attenzione.
«Dev’essere veramente testarda per continuare su questa strada pur sapendo di essere in pericolo... non si rende conto di essere il “centro” delle ricerche di quell’organizzazione?» chiese Marcus.
«Io penso invece che se ne renda conto, ma che non ci badi troppo, occupata com’è a cercare di rendersi utile. A volte cercare un’utilità per se stessi può distrarti da altri particolari»
«È meglio che vada» mormorò il moro all’improvviso, staccandosi dalla parete.
Attuò la trasformazione in poche frazioni di secondo, ed eccolo lì, ancora in piedi, come prima, ma con un bel paio d’ali nere che gli spuntavano dalle scapole.
«A presto, Alan» salutò il ragazzo.
«Marcus, dimmi una cosa» lo fermò il redivivo, il tono e l’espressione d’un tratto duri.
Il ragazzo si volse per metà, perplesso: che cosa voleva sapere?
«Tu... provi qualcosa per lei?».
Quella domanda lo lasciò totalmente, irreversibilmente spiazzato: se ne era immaginato tante che poteva volergli porre in quel momento, ma non certo quella. Il quesito che più gli riusciva ostico, semplicemente perché non riusciva a darvi risposta nemmeno a sé stesso.
«Non lo so» disse semplicemente, invece di un più esaustivo “è probabile”.
«Marcus!» lo richiamò Alan, ma il ragazzo non gli diede ascolto e si alzò in volo.
«A presto!» salutò, senza voltarsi, quindi si allontanò con un poderoso colpo d’ali, lasciando il redivivo indietro, irritato e senza alcuna risposta.

«Felix...?»
«Che vuoi, Sigfred?».
Sigfred deglutì rumorosamente, osservando la grande porta d’ebano che avevano innanzi, senza riuscire a dissimulare una certa, profonda soggezione.
«Perché devo essere proprio io a far rapporto al capo?!» sbottò, irritato.
«Perché sei stato tu a permettere alla mocciosa di scappare, ecco perché!»
«Ma se sei tu che ti sei fatto mettere KO senza averla nemmeno sfiorata!!!»
«Però tu avresti potuto bloccarla!»
«Che ne sapevo io che poteva fare magie?!»
«Felix... Sigfred...».
Ambedue rabbrividirono visibilmente e si zittirono: il richiamo del loro capo proveniente dall’interno della stanza era sceso lungo la loro spina dorsale lentamente, simile ad un cubetto di ghiaccio, instillando nella loro mente una paura non da poco.
«S-sì... capo?» osò domandare Felix, irrigidendosi sul posto.
La porta si mosse a rilento, cigolando con fare sinistro, aprendosi su una stanza debolmente illuminata da una fonte di luce ignota: semplicemente, le tenebre erano poco fitte, come se a diradarne l’intensità ci fosse una sorta di “alone” luminescente.
Ipotizzarono, a ragion veduta, che fosse una magia.
All’interno, su un grande scranno dorato, sedeva il loro capo, i cui occhi, simili a pozzi d’ambra lucente, scrutavano i due scagnozzi con fare inquisitorio.
«Che notizie portate?» domandò in tono solenne, facendo loro cenno di avvicinarsi un poco.
Quelli obbedirono, esitanti, varcando la soglia con il medesimo timore che avrebbero avuto se fosse stato l’ingresso per l’Inferno stesso - e non mancava poi tanto perché lo diventasse.
Si avvicinarono al seggio e rimasero in piedi, immobili e silenti.
«Allora...?» li incalzò lo stregone, studiandoli con inumana calma.
La quiete che precede la tempesta.
Sigfred deglutì, affidandosi alla Provvidenza, quindi si pronunciò: «Capo, il redivivo e il suo Contatto sono riusciti a fuggire... e a giungere da Zaira...».
S’interruppe notando le nocche del suo ascoltatore sbiancare per la ferrea presa che aveva iniziato ad esercitare sui braccioli dello scranno.
«Continua» lo esortò lo stregone, in tono troppo pacato per essere naturale, e ciò spaventò ulteriormente Sigfred, che però dovette continuare, suo malgrado.
«... sono riusciti a prendere la piramide... con l’aiuto di un ragazzo della Setta e sono scappati»
«RAZZA DI IDIOTI!!!» tuonò il mago, sbattendo con forza un pugno su un bracciolo, facendo sobbalzare ambedue gli sgherri.
«SIETE DEGLI INCOMPETENTI!!!»
«Ci spiace, capo...».
L’uomo sospirò e si massaggiò le tempie, cercando di riacquisire la calma, o almeno una parvenza d’essa.
Felix si fece timidamente avanti.
«Ci dia una seconda possibilità! Non falliremo» chiese, deciso.
Sigfred passò rapidamente gli occhi dal compagno, improvvisamente risoluto e pieno di volontà, al loro capo, che pareva assorto in chissà quali pensieri, domandandosi se li avrebbe graziati o meno: aveva sentito correre voci orribili circa i trattamenti che venivano utilizzati su chi non riusciva a soddisfarlo e non era certo ben disposto a provarli in prima persona.
Dopo quelli che sembrarono essere minuti interminabili, finalmente il capo annunciò: «D’accordo, vi concedo una seconda opportunità. Avvicinatevi...».
Sigfred e Felix rilassarono visibilmente i muscoli, quindi ubbidirono, facendosi così riferire la loro prossima destinazione.





Angolino autrice
Ecco il quattordicesimo capitolo, finalmente *^*
Mi dispiace solo che sia un po' corto -.-' be', cercherò di rimediare col prossimo XD
Ringrazio tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.

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Capitolo 15
*** A tu per tu ***


15_A tu per tu Quando Erika si risvegliò, era come nuova: i muscoli erano carichi d’energia, pronti ad affrontare qualsiasi problema e a sorreggerla quando se ne fosse presentato il bisogno.
Nonostante quello strano “sogno rivelatore”, che in verità aveva occupato solo una parte piuttosto esigua del suo sonno, aveva riposato benissimo.
«’Giorno» la salutò cordialmente Alan, seduto accanto al suo cuscino, stirando le labbra in un sorriso pieno di calore e affetto.
La ragazza si mise seduta e prese la borsa, infilandovi dentro la mano alla cieca ricerca della custodia contenente i suoi occhiali.
«Buongiorno» replicò una volta che li ebbe trovati ed inforcati, spostando poi la propria attenzione attorno a sé «Dov’è Marcus?» chiese l’attimo dopo, constatando in pochissimi secondi che non c’era nessun altro là dentro con loro.
Lo sguardo di Alan si velò debolmente di tristezza, un cambiamento che provocò in Erika un momento di smarrimento e confusione: perché quello sguardo?
«È partito all’alba» si limitò a dirle suo padre.
Erika si affrettò a sbirciare l’orologio che teneva al polso: erano le nove del mattino!
«Perché non mi hai svegliata?! Volevo salutarlo!» lo aggredì, furiosa.
«Avresti solo tentato di fargli cambiare idea...» disse suo padre, alzandosi, lasciandola spiazzata del tutto.
«Coraggio, andiamo» proseguì subito, avviandosi verso l’ingresso al corridoio, ma lei lo richiamò: «Papà...».
Il suo sguardo era annebbiato da una patina di lieve melanconia, che però attirò l’attenzione del redivivo, che si fermò.
«Che cos’hai contro Marcus?» chiese la ragazza dopo alcuni istanti di silenzio.
«Niente» si affrettò a rispondere Alan, facendo sì che la sua risposta apparisse ancor meno credibile di quanto già non fosse in sé e per sé.
«E allora perché ti scoccia tanto che... che io mi preoccupi per lui?!» sbottò l’alchimista, lasciando di stucco l’uomo, che serrò i pugni, irrigidendo le spalle.
«Quella che provi tu nei suoi confronti è più che preoccupazione. Ti angosci per lui, come se fosse la cosa più importante che hai al mondo... e non è forse così?! Non è forse... che tu lo ami
«E se anche così fosse? Non dovresti essere felice per me?!».
A quel punto, Erika non era più riuscita a trattenere le lacrime, che adesso le irroravano copiosamente le guance.
Alan si sentì un verme per aver risposto così a sua figlia, il fiore che non aveva visto germogliare a causa del suo sciocco egoismo e per quella maledetta piramide che adesso giaceva abbandonata nella tracolla della piccola alchimista.
Si sentì un emerito idiota per quella gelosia che provava per le attenzioni che lei dimostrava nei confronti di Marcus e non per lui.
«Io... mi dispiace, Erika. Sono un egoista e un idiota» sussurrò, avvicinandosi a lei e inginocchiandosi, cingendola in un forte abbraccio carico d’affetto.
La ragazza si abbandonò tra le sue braccia, dimentica delle lacrime: in quel momento, l’unica cosa che contava era che fosse con suo padre.
«Andiamo» disse dopo un poco, sciogliendosi dall’abbraccio e alzandosi, imitata dal redivivo pochi attimi dopo.
Ripercorsero per l’ennesima volta il corridoio e le scale, quindi uscirono dal mausoleo e si diressero verso l’ingresso del camposanto, attorniati dal silenzio dei morti.
Nella strada che costeggiava il cimitero passavano sparute auto a velocità sostenuta, alle quali si unì ben presto quella su cui viaggiavano Erika e suo padre.
Il viaggio - come aveva preannunciato Marcus - li impegnò per più di un giorno, rispettivamente per ben due lunghi giorni e ciò semplicemente perché, durante la notte, Alan si rifiutava - a ragion veduta - di guidare.
Erika dovette nutrirlo due volte, nonostante il continuo ostinarsi dell’uomo nell’estrema opposizione di resistenza al bisogno.
Alle prime ore dell’alba del terzo giorno di viaggio, finalmente iniziarono a scorgere, in lontananza, il profilo della città.

«Papà, siamo arrivati! Quella è Yoris!!!» esclamò Erika, eccitata: finalmente avrebbe potuto ritrovare Marcus.
«Menomale, mi stavo stufando di stare in macchina!» commentò Alan con una sottesa nota di sollievo nella voce, mentre lo sguardo della figlia indagava, assorto, i profili dei palazzi offuscati dalla bruma mattutina.
Ripensare a Marcus le aveva fatto sorgere un odioso tarlo nella mente, che non si preoccupò minimamente di nascondere a suo padre: «Papà... non ti sembra tutto troppo... facile?».
«In che senso?»
«Cioè, il viaggio... avrebbero potuto attaccarci in qualsiasi momento, dato che quello stregone percepisce la tua presenza, eppure non ci hanno fatto niente. Ci siamo pure fermati e per due volte ti sei nutrito, per cui eri debole e sopraffarti sarebbe stato facilissimo. Però... niente».
Alan rinsaldò la presa sul volante.
«Ora che mi ci fai pensare... è strano» asserì, la postura irrigidita per l’improvviso nervosismo dovuto a quella nuova consapevolezza.
«A meno che...» continuò Erika, completamente persa nelle sue elucubrazioni.
«A meno che?» ripeté il redivivo, in fatidica attesa di responso.
«A meno che non fosse tutto programmato, ma ciò vorrebbe dire che...!».
RATATATATATATATATATATANNNNN.
Una pioggia di proiettili investì il cofano della macchina e Alan fece per sterzare, ma la figlia gridò: «Accelera, è un’imboscata!!».
L’uomo eseguì e, invece di frenare, premette l’acceleratore, superando un’auto nera posteggiata lungo il bordo della strada, dalla quale erano pervenuti gli spari.
«Ci hanno aspettato al varco! Come facevano a sapere che saremmo venuti qui, dannazione?!» sbottò Alan, inviperito, schizzando a velocità supersonica lungo le strade della periferia. Era pericoloso, era vero, ma lo sarebbe stato molto di più se fosse stato pieno pomeriggio. Essendo l’alba, molti abitanti della città non erano ancora usciti dai loro appartamenti per recarsi a lavoro o a scuola o in qualsiasi altra meta, e ciò era un bene.
«Non lo so, ma dobbiamo seminarli!! Non possiamo condurli da Alejandro!» disse l’alchimista, stringendo a sé la tracolla che teneva in grembo, nella quale s’intravedeva la sagoma della piramide.
La ragazza si sporse un poco dal sedile per guardare indietro attraverso lo spazio tra i due sedili anteriori: ce li avevano alle calcagna.
Alan svoltò bruscamente in un’altra grande strada, mancando di poco un lampione sul marciapiede.
Gli spari riecheggiavano contro le mura degli edifici circostanti, rimbombando nelle orecchie di Erika con forza inaudita, togliendole il respiro. Acquattata sul sedile, le mani premute sulla testa come a proteggersi, teneva un occhio chiuso e con l’altro guardava la strada davanti a sé.
«Papà, per favore, cerca di guidare dritto!!!» esclamò, spaventata.
«Che cosa credi che stia cercando di fare?!».
Un ennesimo sparo e un proiettile perforò il vetro posteriore dell’auto, fendendo lo spazio tra i due sedili, mandando in frantumi il parabrezza. Fortunatamente, la maggior parte della pioggia di vetri si riversò all’esterno dell’abitacolo, anche se qualche frammento riuscì a ferirla.
La giovane strinse a sé con maggior forza la piccola piramide di granati che aveva nella tracolla sulle sue gambe.
«Papà... - chiamò la ragazza, le lacrime agli occhi - ... fa male morire...?».
Era una domanda dannatamente stupida, lo sapeva, eppure non poteva fare a meno di porla, men che meno a suo padre: chi, meglio di lui, poteva risponderle?
Questo fece per risponderle, quando un secondo colpo lo centrò in pieno al petto, schizzando fuori dallo sterno assieme a del sangue scuro, sfrecciando fuori dal parabrezza rotto.
«PAPÀ!» urlò Erika, presa dal panico, ma Alan non diede assolutamente segno di aver incassato il colpo. Fu come se il proiettile non l’avesse minimamente sfiorato, fatta eccezione per le tracce tangibili del suo passaggio attraverso il suo torace.
L’uomo sterzò e girò in una stretta stradina laterale, troppo per il veicolo, al quale furono bruscamente asportati gli specchietti laterali.
Era un vicolo cieco, ma se ne accorsero troppo tardi.
Un’esplosione rimbombò nell’aria e una vampata di fuoco si affacciò dal vicolo, costringendo i loro inseguitori a fermarsi.
Scesero dall’auto e si scambiarono poche, semplici battute.
«Dici che sono morti?».
«Che cazzo di domande fai? Certo che sono morti! Nessuno riuscirebbe a sopravvivere ad una simile esplosione!»
«Allora, che facciamo?»
«Andiamo a fare rapporto al capo».
Rientrarono senza neppure avvicinarsi al vicolo e ripartirono sgommando.

Erika cercò di districarsi dalle lamiere contorte del mezzo, senza riuscirci.
Della piramide che aveva gelosamente custodito, nessuna traccia.
Le lacrime le pungevano gli occhi e il fumo le impediva di respirare. Gli occhiali erano volati chissà dove a seguito dell’impatto e tutto il mondo circostante le appariva come una sfocata chiazza di colori.
Tossì, lacrimando.
«Papà! Papà!» chiamò, piangendo e imprecando tra sé.





Angolino autrice
E questo è l'ultimo capitolo, anche se non sembra. Un po' mi mancherà questa storia, ad essere sincera. Ringrazio infinitamente quanti hanno seguito la storia, in particolare coloro che l'hanno aggiunta alle preferite/ricordate/seguite.
Bye bye <3
F.D.

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