†~Resurrection~† [Feeling of Darkness] di Fiamma Drakon (/viewuser.php?uid=64926)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Voci, sensazioni ***
Capitolo 2: *** Scomodi contrattempi ***
Capitolo 3: *** Come un redivivo sopravvive nel mondo dei vivi ***
Capitolo 4: *** Notizie non proprio rassicuranti ***
Capitolo 5: *** Informazioni da trovare (ad ogni costo) ***
Capitolo 6: *** Vergata di sangue ***
Capitolo 7: *** Trappola fuori ''casa'' ***
Capitolo 8: *** Nell'ombra della prigionia ***
Capitolo 9: *** A casa di Marcus ***
Capitolo 10: *** Storie e teorie ***
Capitolo 11: *** La Setta dei Corvi ***
Capitolo 12: *** Piume nere e vuoto tetro ***
Capitolo 13: *** Decisioni drastiche ***
Capitolo 14: *** Trame nere all'orizzonte ***
Capitolo 15: *** A tu per tu ***
Capitolo 1 *** Voci, sensazioni ***
1_Voci, sensazioni
†~Resurrection~† [Feeling of Darkness]
Gli spari
riecheggiavano contro le mura degli edifici circostanti, rimbombandole
attorno con forza inaudita, togliendole il respiro.
Acquattata sul sedile, le
mani premute sulla testa come a proteggersi, teneva un occhio chiuso e
con l’altro guardava la strada davanti a sé.
«Papà, per favore, cerca di guidare dritto!!!» esclamò, spaventata.
«Che cosa credi che stia cercando di fare?!».
Un ennesimo sparo e un
proiettile perforò il vetro posteriore dell’auto, fendendo
lo spazio tra i due sedili, mandando in frantumi il parabrezza.
Fortunatamente, la maggior parte della pioggia di vetri si
riversò all’esterno dell’abitacolo, anche se qualche
frammento riuscì a ferirla.
Strinse a sé con maggior forza la piccola piramide di granati che aveva nella tracolla sulle sue gambe.
«Papà... - chiamò la ragazza, le lacrime agli occhi - ... fa male morire...?».
Era una domanda
dannatamente stupida, lo sapeva, eppure non poteva fare a meno di
porla, men che meno a suo padre: chi, meglio di lui, poteva risponderle?
Questo fece per
risponderle, quando un secondo colpo lo centrò in pieno al
petto, schizzando fuori dallo sterno assieme a del sangue scuro,
sfrecciando fuori dal parabrezza rotto.
«PAPÀ!» urlò Erika, presa dal panico.
L’uomo sterzò
e girò in una stretta stradina laterale, troppo per il veicolo,
al quale furono bruscamente asportati gli specchietti laterali.
Era un vicolo cieco, ma se ne accorsero troppo tardi.
Un’esplosione
rimbombò nell’aria e una vampata di fuoco si
affacciò dal vicolo, costringendo gli inseguitori a fermarsi.
«Dici che sono morti?»
«Che cazzo di domande fai? Certo che sono morti! Nessuno riuscirebbe a sopravvivere ad una simile esplosione!»
«Allora, che facciamo?»
«Andiamo a fare rapporto al capo».
E ripartirono, sgommando.
Erika cercò di districarsi dalle lamiere contorte del mezzo, senza riuscirci.
Della piramide che aveva gelosamente custodito, nessuna traccia.
Le lacrime le pungevano gli
occhi e il fumo le impediva di respirare. Gli occhiali erano volati
chissà dove a seguito dell’impatto e tutto il mondo
circostante le appariva come una sfocata chiazza di colori.
Tossì, lacrimando.
«Papà! Papà!» chiamò, piangendo e imprecando tra sé.
Ma io, come diavolo ci sono finita in questo inferno...?!
«Erika!».
Il richiamo giunse dal corridoio, cogliendola di sorpresa.
«Erika!!».
La porta si aprì, riversando nella stanza una quantità di luce esagerata.
«Mamma, chiudi la
porta!» si lamentò la ragazza, nascondendo la testa dietro
un grosso leggìo dall’aria antica.
«Erika, stare a
leggere chissà quali libri satanici per tutto il giorno, al buio
per giunta, non giova affatto alla tua miopia!».
«Non è buio
qui, solo che con tutto questo sole non si vede la luce della candela!
E poi io non leggo libri satanici, ma di Alchimia!»
«Tesoro, dovresti uscire...».
Erika conosceva bene quel
tono di voce: era quello che sua madre usava per rimproverarle
dolcemente qualcosa, prima di passare a toni più bruschi, ma lei
non era intenzionata a cedere.
Non ancora, almeno.
«Mi hai tolto la paghetta, per cui non posso andare in libreria» obiettò.
Arianna mandò un
lungo sospiro carico d’esasperazione, mentre varcava la soglia
dello studio che la giovane Erika Reagh utilizzava come biblioteca e
laboratorio, come lasciavano intuire gli alambicchi e le ampolle che
aveva sparso un po’ ovunque tra piccoli tavoli e scrivanie.
Osservando la figlia, ne
colse l’espressione e gli occhi, così dissimili dai suoi e
tanto simili a quelli di Alan, il padre che non aveva mai conosciuto:
se ne era andato un mese prima che lei nascesse e da allora non aveva
più avuto sue notizie.
«L’ultima volta
che mi hai chiesto la paghetta l’hai spesa per comprarti un libro
sulle pratiche alchemiche!»
«Libro che, tra
l’altro, mi hai sequestrato e non ho mai potuto guardare! -
contestò Erika, offesa - Perciò non vedo
l’utilità di uscire».
«Adesso basta! Erika Reagh, ti ordino categoricamente di uscire da questo studio e da questa casa!».
La ragazza si alzò con un sonoro sbuffo: ecco arrivati i modi bruschi.
A quel punto non aveva altra scelta se non quella di ubbidire.
«Va bene, vado... ma tu non toccare niente!» avvisò, con espressione seria.
Come Arianna poté
ben constatare, Erika indossava il suo solito completo: shorts verde
militare e canotta azzurra; teneva i capelli, decisamente lunghi,
raccolti in un’alta coda di cavallo, cosicché non le
cadessero sugli occhi, grandi e marroni.
Si vestiva in modo forse
troppo mascolino, ma proprio per questo, pur nella differenza di sesso
e di età, le ricordava terribilmente Alan.
«Che c’è
da fissare?» domandò la ragazza, risvegliando la madre da
quella sorta di trance in cui era caduta.
«Niente, tesoro. Divertiti»
«Già, come se
potessi...» mormorò lei, afferrando la sua tracolla nera
preferita ed uscendo dalla stanza.
Le occorsero alcuni minuti
perché i suoi occhi si abituassero alla luce che entrava dalle
finestre del corridoio, così intensa rispetto a quella cui era
abituata a stare nel suo laboratorio.
Attraversò il corridoio, il soggiorno ed uscì da casa, incamminandosi verso la fermata dell’autobus.
Ma
perché la mamma non riesce a farsi una ragione della mia voglia
di solitudine?! So che non le piace che stia sempre da sola in casa, ma
non può obbligarmi ad uscire se io non voglio!
Uffa... se solo papà fosse qui...
Erika...? Sei tu?
La ragazza si fermò,
sbattendo più volte le palpebre, accigliata e confusa: aveva
davvero sentito una voce nella sua testa che... la chiamava?
Scosse il capo.
Non devo auto-suggestionarmi. Sono solo fantasie. Le mie fantasie. Niente di così eclatante.
Perciò riprese a camminare.
Arrivò alla fermata
pochi minuti più tardi, appena in tempo per prendere il bus
diretto in centro, con sua immensa “gioia”.
Mentre stava seduta in
fondo al mezzo, addossata al sedile, non riusciva a fare a meno di
ripensare a quanto appena successo: non era capace di farsene una
ragione, per il semplice fatto che, nell’istante in cui quella
presunta “allucinazione sonora” aveva pronunziato il suo
nome, il suo stomaco aveva sussultato e il cuore le aveva mancato un
battito.
Era come se il suo
organismo avesse riconosciuto quella voc... “allucinazione
sonora”, in un modo a lei completamente sconosciuto.
Starò impazzendo...? Non dovrebbero esserci voci nella mia testa. Tranne la mia, s’intende.
Riuscì a riaversi dai suoi pensieri appena in tempo per scendere alla sua fermata.
Eppure,
ripensandoci, ho come la sensazione di... aver già sentito
quella voce, da qualche parte, anche se non riesco a ricordare dove,
maledizione!
Nel frattanto che si
lambiccava su quel pensiero, camminava, senza prestare attenzione a
dove andava, lasciando all’abitudine la guida dei suoi passi.
Questa la condusse fino
davanti al negozio che, nelle ultime settimane, l’aveva
più interessata: non era un edificio molto ben tenuto,
esteriormente. In vetrina erano esposti una serie di articoli magici e
alchemici dall’aspetto intrigante, soprattutto per chi, come
Erika, aveva una malsana passione per i misteri magici e gli antichi
rituali alchemici.
Niente di satanico, ma neppure troppo nella norma.
Come la ragazza non
tardò a notare, il telaio della vetrina era stato recentemente
riverniciato d’una bella tonalità d’oro, come la
porta, anche se la riverniciatura non era riuscita a ridare
all’uscio un po’ dell’antico vigore: appariva
comunque vecchio e sul punto di rompersi.
Sopra ad essi spiccava a grosse lettere, dorate e dalle forme arabescate, il nome del negozio: “Magie e misteri”.
Erika fissò la porta
alcuni istanti, indecisa se entrare o meno: in fondo, non aveva soldi
con sé ed entrare per farsi tentare e basta non le avrebbe
affatto giovato alla salute.
Dovrò
fare a meno dei miei adorati gingilli per qualche tempo, almeno
finché la mamma non si deciderà a darmi di nuovo la
paghetta... uff...
Erika... vieni.
Sussultò, facendo scivolare gli occhiali fin sulla punta del naso.
Riassettandoli, continuò ad esaminare la porta, mentre la sua mente lavorava febbrilmente.
Infine, la soluzione del
mistero le capitò sotto mano più per caso che per altro:
aveva capito dove aveva già sentito quella voce.
È... strano, no, pazzesco! Non posso credere che quella voce sia la stessa di quei sogni!
Ora la ricordava bene,
forse anche troppo: negli ultimi tempi aveva avuto dei sogni piuttosto
singolari. Solo un personaggio, un uomo, li accomunava tutti, oltre al
tipo di ambiente, spettrale anche se diverso di volta in volta.
Più d’una
volta aveva addirittura paragonato quei sogni ad un telefilm a puntate:
in qualche strano e bizzarro modo, sembravano tutti collegati.
Comunque, una cosa era certa: era di quello sconosciuto la voce che udiva nella testa.
Cercando di far un
po’ di luce nella memoria, riuscì a ripescare una delle
ultime “puntate”, ambientata in una piccola casa, dove si
trovavano il misterioso personaggio e una donna di bell’aspetto,
ma dall’aria pericolosa.
«Per tornare... cosa devo fare?» aveva chiesto l’uomo.
«Devi
contattare qualcuno, ma non ti basterà mantenere il contatto: il
tuo corpo non sopravviverebbe dall’altra parte» aveva
replicato la donna in tono serio.
«E allora come faccio?».
Sembrava che lui si stesse arrabbiando.
«Dovrai nutrirti»
«Di cosa?».
A quel punto, lei gli aveva sorriso in modo candido e malevolo.
«Non vorresti saperlo...»
Era tutto ciò che si ricordava, l’ultimo pezzo prima che sua madre la svegliasse.
Non vi aveva badato molto,
accusando la stanchezza di quel suo sogno così bizzarro, ma
adesso non ne era più tanto sicura.
Che cosa dovrei fare? Inizio ad avere paura...
Non devi spaventarti, Erika. Vieni... vieni da me.
Okay, adesso ho paura sul serio.
Indietreggiò di
qualche passo, decisa a non entrare in modo categorico, poi una strana
sensazione s’impossessò di lei: era fatta di nostalgia
e... tristezza.
Non aveva mai provato una cosa del genere prima di allora.
Prima che potesse fare qualcosa, qualsiasi cosa, la sensazione crebbe, divenne più forte, più intensa, finché non ne fu completamente sopraffatta.
Che cosa mi sta accadendo?! Perché mi sento... affogare? Sto affogando nelle mie stesse emozioni...?
Erika... entra.
Era chiaro, ormai: chiunque
o qualunque cosa le stesse sortendo quell’effetto, voleva che lei
entrasse in “Magie e misteri”. Con ogni probabilità
la stava aspettando là dentro.
Che fare?
Da una parte era curiosa di scoprire che cosa voleva il misterioso figuro del suo sogno, ma dall’altra temeva di farlo.
Erika vieni!
Fu quell’ultimo
richiamo, più deciso e potente di tutti gli altri, che la
convinse a muovere i primi, timidi passi verso l’entrata del
negozio, le mani serrate attorno alla spallina della sua tracolla,
nella vana speranza che ciò le potesse dare coraggio.
Camminò a passi lenti verso l’uscio; con mani tremanti la spinse e varcò la soglia.
Dentro, come sempre, la
luce era debole, soffusa, ed i grossi, vecchi scaffali che decoravano
le pareti e l’interno del negozio, erano immersi in una
familiare, mistica penombra. Gli articoli parevano trarre immenso
beneficio da quella semioscurità, che li faceva apparire ancor
più preziosi e interessanti.
«Signorina
Penelope?» chiamò Erika con voce incerta, avanzando
all’interno, senza poter fare a meno di guardarsi intorno.
La signorina Penelope era
la proprietaria del negozio, nonché sua amica. Erano ormai tre
anni che lei frequentava quel negozio e aveva avuto modo di conoscere
la padrona come questa aveva avuto modo di fare altrettanto.
«Signorina
Penelope...?» chiamò ancora, a voce lievemente più
alta: forse era nel retrobottega e non l’aveva sentita.
Un improvviso tonfo sordo
proveniente proprio dall’altra parte della porta del retrobottega
la costrinse a fermarsi, i sensi all’erta. Non era stato un tonfo
“normale”, quello dei vasi che cadono e si frantumano, o di
un qualsiasi altro oggetto. In realtà, non credeva neppure che
ci fosse differenza tra il tonfo di un oggetto e di qualche altra cosa,
eppure in quella circostanza le era parso proprio diverso.
Anche perché aveva carpito nel rumore un che di vagamente umido e carnale. Non sapeva neppure come potesse aver afferrato un’informazione del genere, fatto stava che l’aveva recepita.
Sembrava il rumore di un corpo morto... che cadeva.
Scosse con forza la testa: come poteva anche aver solo pensato ad una cosa del genere?
La signorina Penelope non tiene cadaveri in negozio.
Nell’istante in cui formulò quel pensiero la porta fatidica si aprì.
«Oh, Erika!».
«S-salve» replicò la ragazza, nervosa, all’apparire della proprietaria.
Questa si appoggiò elegantemente allo stipite dell’uscio, incrociando le braccia sul petto.
Penelope era davvero una
bella donna: capelli biondi lunghi fino alla vita, occhi azzurri e look
da maga dell’antica Grecia. Il suo stile si addiceva molto al
genere di negozio che gestiva.
La donna le sorrise cordialmente.
«Sei venuta per qualcosa in particolare?».
Erika si guardò intorno un’ultima volta: niente di anomalo. Scosse la testa.
«Niente» esclamò, volgendosi per uscire.
Mosso un passo, udì distintamente un rantolo soffocato alle sue spalle, qualcosa di ovviamente non umano
e inquietante. Rabbrividì palesemente e, decisa ad uscire da
lì il più in fretta possibile, si affrettò verso
la porta, tuttavia...
«Erika».
Il richiamo la fece girare
un’altra volta: Penelope si era scostata dallo stipite. Adesso
era in piedi al centro della soglia e la fissava con sguardo dolce ma
indecifrabile.
«Sì...?»
«Vieni, ho qualcosa da mostrarti...».
Così dicendo la
donna rientrò nel retrobottega - completamente buio, da quel che
la ragazza poteva vedere - facendole cenno di avvicinarsi.
Le gambe di Erika tremavano
- non sapeva dire se per paura, emozione o ambedue le cose - mentre
lentamente ubbidiva, il cuore che le martellava in gola, il cervello in
febbrile lavoro.
Cosa vorrà farmi vedere...? E cosa è stato ad emettere quel rantolo di prima...?
Cosa nasconde... là dentro?
«Cosa c’è oltre quella... porta?» domandò, incapace di trattenere oltre la domanda.
Negli occhi di Penelope
balenò una scintilla che non le piacque affatto: sembrava
malvagia. Inoltre, pareva emanare pericolo come fosse un’aura che
permeava non solo la sua pelle, ma anche l’aria
tutt’intorno a lei.
Riusciva quasi a vederla.
«Vedrai... ti
piacerà di certo» esclamò, ma dal tono con cui lo
disse Erika non ne fu affatto convinta: sembrava eccitata dalla cosa,
ma al tempo stesso malsanamente contenta. Tuttavia, la ragazza
continuò ad avvicinarsi.
Quando giunse sulla soglia, un acre odore di carne non propriamente preservata la investì.
Non era un odore molto intenso, ma era pungente, tanto da darle un po’ di mal di testa.
Si fermò, senza azzardare un passo all’interno.
Non è... possibile...
Angolino autrice
Dopo una lunga riflessione
e numerosi tira e molla, alla fine ho deciso di postarla, anche
perché ormai l'avevo iniziata e, sinceramente, non mi andava di
lasciarla a prendere polvere nell'anonimato, dato che è un
lavoro estremamente sentito.
Per cui spero di ricevere qualche commento, per sapere se interessa o meno.
Well, al prossimo capitolo (forse).
F.D.
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Capitolo 2 *** Scomodi contrattempi ***
2_Scomodi contrattempi
Nelle semitenebre del retrobottega era steso un corpo umano, un cadavere.
Era riverso a terra, vicino
ad un pentolone nel quale era contenuta una strana sostanza verde
fosforescente, e sembrava già in decomposizione, anche se non
poi così tanto.
L’odore di cadavere era persistente, ma sottile, tanto che dopo qualche istante smise di farvi caso.
«Oddio... -
sussurrò la ragazza, orripilata, mettendosi le mani a coppa
sulla metà inferiore del viso - Signorina Penelope,
cosa...?».
«Guarda» la interruppe quest’ultima, un sorriso tenero ad incresparle le labbra.
La donna le circondò le spalle con un braccio e le indicò l’uomo steso a terra, che... si stava muovendo?!
Erika sbatté più volte le palpebre, incredula: non c’erano dubbi, si stava muovendo sul serio!
Le braccia tremavano un po’, nello sforzo di rimettersi in piedi. Sembrava che avesse preso una bella botta.
«C-che cosa... è?» domandò la ragazza, intimorita.
Penelope non rispose: era troppo occupata ad ammirare l’uomo mettersi carponi, una mano alla testa, che scosse con vigore.
«Fanculo, Circe! Che male...» ringhiò, sedendosi sul pavimento.
Erika sgranò gli
occhi: la voce che aveva sentito nella testa era la sua, non
c’erano dubbi e pure il suo aspetto le era familiare. Era
l’uomo che aveva visto nei suoi sogni!
La proprietaria del negozio rise.
«La mia antenata ha
fatto la sua parte, Alan...» esclamò, guadagnandosi
un’occhiataccia da parte del suo interlocutore.
Alan... dove ho già sentito questo nome?
La ragazza lo
esaminò, incuriosita: alla luce del calderone poté notare
che i capelli erano ispidi e un poco lunghi, castano scuro, della
stessa tonalità dei suoi, e gli occhi pure somigliavano un sacco
ai suoi. La pelle era pallida e smorta, ma c’era ancora indice di
un vecchio colorito scuro, abbronzato. Indosso portava una t-shirt
verde militare e un paio di pantaloni alla militare. Ovviamente, i capi
d’abbigliamento erano sforacchiati e macchiati di terra e quelli
che sembravano essere aloni di sangue.
Era un uomo giovane, sulla trentina e atletico.
«Erika, lui è...»
«Erika?».
Lo sconosciuto alzò
gli occhi verso di lei, incrociando il suo sguardo per lunghissimi,
interminabili minuti. Lei si sentì stranamente completa, grazie
a quella presenza, a quel contatto, ma non sapeva dire perché.
Quando lui si alzò, indietreggiò d’un passo.
«C-chi sei? E perché sei... sembri... morto?» chiese.
L’uomo parve rabbuiarsi.
«Arianna non ti ha mai parlato di me?».
Fu a quel punto che riuscì a ricordare dove aveva già sentito il suo nome, e il cuore le mancò un battito.
«Sei... sei... - balbettò, incredula - ... papà?».
A quel punto, lui sorrise e annuì.
«Vi somigliate davvero tanto» commentò Penelope.
«Già, non ci avrei mai sperato: pensavo avresti preso tutto da tua madre».
Iniziava ad essere
veramente confusa: quello era suo padre? Perché era tornato
così improvvisamente e in quello stato? Perché sembrava
morto? Perché aveva nominato “Circe”, poco prima?
Cominciava ad avere davvero
troppe domande e troppe poche risposte, ma non poteva negare che la
loro somiglianza non fosse solo una supposizione, perché
l’aveva notata anche lei.
Le ginocchia le tremarono e cedettero. Cadde a terra, gli occhi fissi al suolo.
«Erika! Tesoro, che cosa c’è?».
Lei scosse la testa,
più per scacciare le lacrime che minacciavano di travolgerla che
per rispondere a lui, tuttavia non riuscì a trattenersi a lungo.
Fu così che si sciolse in un pianto carico di sollievo, gettando
le braccia al collo di suo padre e stringendolo a sé forte.
«Papàààà...!» singhiozzò.
Alan parve sorpreso, ma poi le circondò le spalle a sua volta.
«Erika...».
Penelope si chinò vicino a lei, scostando l’altro per guardarla negli occhi.
«Tuo padre non è più...»
«Aspetta, lascia che
glielo dica io: non voglio essere accusato d’essermi sottratto
alle mie responsabilità».
Erika passò lo sguardo dall’uno all’altra, perplessa.
«C-che cosa... succede? Cosa dovete dirmi?» chiese, agitata.
«Be’, vedi...».
RATATATATATATATATATATANN!!!
La giovane Reagh schizzò in piedi, allarmata.
Penelope si volse verso la
porta, coprendo la ragazza, mentre Alan le afferrava il braccio con
forza, tanto da intorpidirle la mano.
«Cos’è stato?!» gridò, ma suo padre le tappò la bocca, ammonendola silenziosamente.
«Ehi, mezza-strega, cosa è successo...?» chiese a sua volta alla padrona del negozio, in un labile sussurro.
RATATATATATAN!
La donna digrignò i denti.
«Sono qui...» sibilò.
«Chi?» domandò Erika.
«Merda! -
imprecò suo padre, rinsaldando la presa sul braccio della
figlia, strappandole un soffocato gemito di dolore - Mi hanno
già trovato?»
«Hanno uno stregone, e potente. Non è difficile per certi soggetti percepire la tua presenza».
«Che si fa?».
Silenzio.
«Prendete la mia macchina e fuggite. Potrò tenerli impegnati, ma non troppo».
Detto ciò, Penelope lanciò ad Alan una chiave, che questo afferrò al volo.
«Andiamo, tesoro» esclamò quest’ultimo, avviandosi verso una porta posteriore.
Erano quasi arrivati
quando, dall’altra parte della stanza, fu violentemente abbattuta
la porta e tre figuri si fecero avanti.
Erika strillò, terrorizzata, al vedere i mitra che due dei tre impugnavano.
«Eccola! Prendete il Contatto!!!».
Uno degli uomini armati si
avvicinò a Penelope con l’intenzione di superarla, ma
questa schioccò le dita, facendo apparire un grosso tomo sopra
di lui. Con un sonoro slam il libro piovve sulla sua testa, mandandolo steso a terra, KO.
«E così tu sei
una strega» esclamò un uomo che Erika non riuscì a
vedere perché coperto dalla donna.
«Preferisco essere definita maga, se non ti spiace».
E schioccò le dita,
materializzando istantaneamente un centinaio di sottilissimi dardi, che
scagliò con potenza inaudita verso i suoi avversari.
«Troppo rudimentale per essere efficace» commentò aspramente l’uomo di prima.
La stanza fu subitaneamente
illuminata da una fiammata che incenerì le frecce di Penelope,
la quale tuttavia non si arrese.
«Sigfred, vai a prendere la piccola Reagh» ordinò poi.
L’uomo armato ancora in piedi si avvicinò a grandi passi, l’arma saldamente puntata contro mio padre.
«Pensi che quel
giocattolino mi faccia qualcosa, allo stato attuale, eh?»
esclamò Alan, sprezzante: l’importante non era la sua
incolumità, bensì quella di sua figlia.
Ormai era tardi perché lui si preoccupasse di certe cose.
Penelope fece per dirigere
il suo prossimo attacco contro Sigfred, ma lo stregone la precedette,
materializzando robuste corde, che si avvinghiarono attorno al suo
petto, immobilizzandola, quasi stritolandola.
«Signorina Penelope!» urlò Erika.
Non capiva più
niente, tutto era così assurdo e stava accadendo così in
fretta che il suo cervello non riusciva ad elaborarlo.
Tutto il mio tranquillo e noioso mondo sconvolto in pochi decimi di secondo... da non credere!
«Sta’ zitta, mocciosa...!» esclamò Sigfred, ormai arrivatole dinanzi, puntandole il mitra al petto.
La canna dell’arma le sfiorò la pelle, spaventandola: terribilmente vera e vicina.
«Ehi, razza di
imbecille! - osservò Alan, arrabbiato, afferrando con la mano
libera la canna del mitra, spostandola - Non ti azzardare a spararle,
chiaro?!».
«Fottiti!» gli ringhiò Sigfred, sparandogli una raffica di proiettili in petto.
Lui si afflosciò contro la parete, la mano ancora stretta attorno alla canna.
Erika urlò, mentre le lacrime minacciavano di uscire di nuovo: l’aveva appena ritrovato ed era... era...
«Te l’ho detto che queste stronzate non funzionano con me» commentò suo padre, rimettendosi in piedi e ridendo di gusto.
«Cazzo! Che cosa...?».
«Sigfred! Prendi la
mocciosa e andiamo! Il capo la vuole viva, razza di idiota! -
esclamò lo stregone, che adesso stava sopra Penelope,
osservandola dall’alto in basso con ostentata superiorità
- Per quel che riguarda te, piccola “maga”...».
L’avrebbe uccisa, Erika lo sapeva.
Sentiva quella certezza
strisciarle sulla pelle, insinuarsi in ogni suo singolo poro e
penetrarle dentro, viscida come un serpente.
«Coraggio, ragazzina andiamo!» esclamò Sigfred, afferrando Erika per un braccio e strattonandola.
Tuttavia, incontrò la resistenza del padre, ancora saldamente ancorato all’altro braccio.
«Oh, no» disse,
spingendolo con forza e velocità il mitra verso il sicario, il
quale non poté fare niente più che incassare il colpo e
cadere in ginocchio a terra, agonizzante.
Gli strappò quindi di mano l’arma e la puntò contro lo stregone.
«Avanti, liberala,
altrimenti ti riempio quella testa bacata di piombo»
minacciò, agitando il suo nuovo giocattolo.
Lo stregone, tuttavia, non fece niente di più che rimanere fermo dov’era.
«Non voglio ripetermi».
Iniziava a stufarsi di
tutti quei contrattempi: voleva solo un po’ di pace per poter
parlare con calma a sua figlia, spiegarle la situazione e, magari,
riuscire ad ottenere qualche informazione sulla sua vita, che lui non
aveva mai avuto il piacere di seguire.
Lo stregone, infine,
obbedì: liberò Penelope e la rimise in piedi,
scaraventandola contro Alan, che prontamente l’afferrò
prima che cadesse a terra, spingendola poi verso sua figlia.
«Signorina...!» esclamò Erika, preoccupata.
«È tutto a
posto, non mi ha fatto niente» assicurò la donna,
carezzando con mani tremanti le guance esangui della ragazza.
Erano spaventate ambedue,
ma sembrava che la più giovane avesse un maggiore controllo sui
propri nervi, forse perché non era stata sul punto di morire.
«E adesso, te e i tuoi scagnozzi potete levare le tende» esclamò Alan, serio.
Lo stregone, a quel punto, rise.
«Non essere troppo
presuntuoso, redivivo! Anche se ce ne andiamo, ricorda che io posso
rintracciare la tua aura dovunque. Non avrai comunque scampo!».
«Redivivo...»
sussurrò senza voce Erika, stringendosi a Penelope, gli occhi
sgranati e stravolti che andavano lentamente a posarsi su suo padre.
No, non può essere! Questo vuol dire che...!
«Per il momento mi
accontento che tu ti eclissi» continuò il castano,
rinsaldando la presa sul calcio del mitra, pronto a premere il
grilletto.
Nessun movimento da parte del misterioso aggressore.
Fu allora che Alan perse veramente la pazienza e sparò.
Il colpo perforò la
spalla dello stregone, che imprecò a mezza voce, mentre un
secondo colpo gli trapassava un fianco e un terzo la gamba destra.
«Vattene, adesso» avvertì l’uomo, pronto a sparare di nuovo.
La sua vittima lo fissò con occhi ardenti di ira.
«Verrà il giorno, redivivo, in cui la pagherai per questo, e cara».
Detto ciò, alzò le mani sopra la testa e le unì. In una nube viola, lui e i due tirapiedi sparirono.
Alan rilassò le spalle, gettò da un lato l’arma e si volse per tornare dalla figlia.
«Tesoro, come stai?».
Per tutta risposta, la ragazza picchiò debolmente i pugni sul suo petto e scoppiò in lacrime.
«Papà...
perché non mi hai detto che... che... - deglutì e si fece
forza, cercando disperatamente le parole che non riusciva a trovare -
... che eri morto?!».
Singhiozzò e cadde
in ginocchio, mentre il pianto aumentava, dando sfogo alla sua
tristezza e alla sua angoscia: l’aveva finalmente trovato, dopo
ben quindici anni di vita, solo per scoprire che era già morto.
«Mi dispiace... ma volevo dirtelo, credimi. Non volevo che venissi a saperlo da una persona del genere!».
«Alan, non c’è tempo per queste discussioni, adesso: dovete andarvene. Di certo arriverà qualcuno, dopo tutti quegli spari» li interruppe Penelope, preoccupata.
Si prese qualche attimo per rifletterci, dopodiché annuì.
«Hai ragione. Erika, andiamo».
L’aiutò a
rialzarsi e la trascinò via ancora in lacrime. Aprì la
porta che dava sul retro e, quando stava per portarla fuori, la ragazza
oppose resistenza, voltandosi verso la padrona del negozio.
«Signorina! - esclamò, attirandone l’attenzione - Protegga la mamma da quelle persone, la prego!».
Penelope si sorprese di una
così acuta intuizione: aveva già afferrato il tipo di
situazione in cui si era appena venuta a trovare.
Le sorrise in modo incoraggiante.
«Non preoccuparti, ci penso io! Tu impegnati ad aiutare tuo padre, mi raccomando!».
La porta si richiuse davanti alla ragazza, impedendole di rispondere.
Decisa, smise di lasciarsi trascinare e iniziò a camminare con le sue gambe.
Lo farò, non dubiti.
Angolino autrice
Dato che mi è
sembrato di vedere un certo interesse per questo lavoro, il verdetto
è di continuarlo, sperando che ciò non implichi da parte
dei lettori una mancanza di opinioni nei capitoli a venire.
Ringrazio vivamente e con tutto il cuore Sachi Mitsuki, Nana_vampiro e xXxNekoChanxXx
che si sono prodigate nello scrivere qualche riga per invogliarmi a
proseguire la fic. Mi auguro che questo capitolo vi piaccia! ^^
Inoltre, ringrazio coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 3 *** Come un redivivo sopravvive nel mondo dei vivi ***
3_Come un redivivo sopravvive nel mondo dei vivi
Raggiunsero la
macchina di Penelope in pochi minuti: era parcheggiata
all’imboccatura dello stretto vicolo che divideva
l’edificio del negozio da quello adiacente. Non fu neppure
difficile riconoscerla, dato che era l’unica lasciata in un posto
tanto particolare.
Alan fece il giro e si mise
al posto di guida, mentre Erika si sedeva al posto del passeggero,
allacciandosi la cintura di sicurezza.
«Dove andiamo?» chiese la ragazza, mentre suo padre accendeva il motore.
«Non lo so...»
«Non a casa, vero...?».
Silenzio.
«No, non a casa» rispose infine l’uomo, partendo.
Fu in quel momento che il cellulare che lei teneva in borsa squillò. Tiratolo fuori, controllò il numero.
«È la mamma. Che cosa le dico?» chiese, preoccupata: non poteva certo raccontarle la verità.
“Ehi, mamma non
preoccuparti, sono stata solo minacciata da un brutto ceffo e quasi
rapita, ma sai cosa? Papà mi ha salvato. Ah, quasi dimenticavo,
è un redivivo fresco di rito e probabilmente il mio quasi
aguzzino tornerà alla carica, per cui... non aspettarmi per cena
per i prossimi mesi!”. No, le avrebbe ordinato categoricamente di
rientrare e, se si fosse rifiutata, avrebbe chiamato le autorità.
Era già successo, per cui sapeva che ne era capace.
«Dille che passerai la notte da una tua amica» esclamò Alan, sbrigativo.
«Okay... - replicò lei, quindi avviò la conversazione - Pronto?»
«Tesoro, sai che ore sono? Devi rientrare!»
«Ehm, già... mamma?»
«Sì, cara?»
«Mi sono dimenticata
di dirti che stasera dormo da una mia amica. Avevo già
programmato tutto e già portato le mie cose ieri
l’altro... mi dispiace»
«Ah, da Katrina?».
«No... non da
Katrina» la contraddisse Erika: troppo facile. Aveva il numero di
telefono, l’avrebbe scoperta subito.
Frugò nella memoria
alla ricerca di una sua amica di cui sua madre non conoscesse il numero
telefonico, ma era un’impresa, dato che non era esattamente la
più popolare della scuola.
«Sono da... Angela» rispose infine. Non ricordava bene se avesse anche il suo numero, ma le sembrava di no.
«Ah, perfetto! Allora ci si vede domani per pranzo, amore... okay?».
La giovane Reagh
soffocò a stento un singulto: sua madre era ignara di tutto, per
cui non poteva sapere quanto, in quel momento, avrebbe desiderato
essere a casa con lei, a cenare come ogni sera.
Avrebbe voluto raccontarle tutto, sciogliersi in un ennesimo pianto, ma non poteva: si era ripromessa di aiutare suo padre.
Con uno sforzo immenso,
riuscì a risponderle senza lasciare che il suo bisogno
impellente di piangere le alterasse la voce: «Okay, a
domani».
Chiuse la telefonata e
mandò un mezzo sospiro e singhiozzo, buttandosi contro il
sedile, chiudendo gli occhi per non mostrarsi ancora più debole
e fragile di quel che aveva già fatto.
«So che vuoi tornare a casa, non importa che fai finta di niente» commentò suo padre in tono di rimprovero.
Lei non osò aprire gli occhi: si limitò ad abbassare il viso.
«No, non è vero»
«Sei stata
catapultata in una questione che sfugge alla tua comprensione. È
naturale che tu voglia tornare a casa. Inoltre, se sei qui la colpa
è mia: avevo bisogno di stabilire un Contatto per tornare
qui».
«Un Contatto?» domandò la ragazza.
«Sì, ma questo
non è il posto più adatto ad una lunga chiacchierata.
Sappi però che mi dispiace di averti trascinata in questo
casino».
A quel punto Erika perse la
pazienza e, riaperti all’improvviso gli occhi, si volse verso suo
padre e lo picchiò sul braccio a lei più vicino.
«Smettila di
scusarti! Ormai sono qui, per cui ti aiuterò, qualsiasi cosa tu
debba fare e in qualsiasi casino tu sia, capito? Non ti
permetterò di uscire di nuovo dalla mia vita per sempre!»
esclamò, in tono duro e indignato.
Alan non riuscì a
non sorridere: l’espressione imbronciata e al tempo stesso decisa
che le si era dipinta in faccia gli ricordava sua moglie.
Di
fuori somiglierà anche a me, ma dentro è uguale a te,
Arianna: coraggiosa, ferma nelle sue decisioni... e fragile.
Il motivo principale per cui mi sono innamorato di te.
«Hai trovato una
destinazione?» chiese la figlia, incrociando le braccia sul petto
e sbirciando al di fuori del finestrino: il crepuscolo stava
rapidamente lasciando il posto alla notte vera e propria, quella dove
sicari come quelli da cui erano appena fuggiti potevano benissimo
nascondersi e tendere loro un agguato.
Non aveva mai osato
aggirarsi per le strade dopo il crepuscolo e il solo pensiero di poter
essere nuovamente minacciata con un’arma da fuoco le bastò
per farle desiderare che suo padre avesse già una meta in mente
che fosse sicura.
«Sì, solo che... be’, potrebbe non piacerti granché» asserì l’uomo.
«Mi basta che sia sicura...» esclamò Erika.
«Non posso
garantirtelo in modo assoluto, ma penso che sarà difficile
localizzare la mia presenza laggiù...».
Confortante...
«Okay... quanto manca?».
Stavano attraversando la
strada che costeggiava il cimitero e a lei tutta quella cupa
spettralità dava fastidio. Oltretutto, iniziava a sentire i
primi, per adesso ancora deboli morsi della fame.
«Ci siamo» esclamò Alan, parcheggiando proprio davanti all’entrata del cimitero.
«C-cosa? Qui?» domandò lei, scettica.
«Sì, perché? In mezzo ad altri morti sarà più difficile trovare me, ovvero un morto».
Ragionamento che non faceva una grinza, purtroppo per lei.
Sospirando, scese dalla
macchina e si accostò al cancello. Cercò di aprirlo ma,
sorpresa delle sorprese, era chiuso.
«Come facciamo ad entrare? È chiuso».
Suo padre si
avvicinò all’inferriata e afferrò due sbarre di
ferro, tirandole. Con somma sorpresa della ragazza, riuscì a
piegarle come fossero di burro.
«Fatto» esclamò.
L’avambraccio destro rimase ancorato alla sbarra che la mano ancora stringeva.
Erika soffocò un grido grazie al cenno di suo padre, che riuscì a tranquillizzarla, anche se di pochissimo.
«Non preoccuparti,
succede. Sono un cadavere, ricordi?» disse lui, strappando
l’arto dal cancello e riattaccandoselo all’articolazione,
che annunciò la risaldatura con uno sgradevole scrocchio
d’ossa.
Già,
è un cadavere... di che mi devo preoccupare se inizia a
smembrarsi? Vorrei sapere dove ho la testa, certe volte...!
Varcò il passaggio
da lui creato, seguito a ruota dalla figlia, che si tenne doverosamente
attaccata a lui per tutto il tragitto fino alla chiesetta diroccata che
si ergeva al centro.
«Mi sembri...
spaventata» osservò suo padre, esitante, entrando
nell’edificio, aggirando un pezzo di soffitto crollato.
«Non ho grande
simpatia per i cimiteri...» commentò Erika, osservando
l’ambiente circostante: la chiesa era vecchia e le parti rimaste
integre parevano essere ancora in piedi per puro miracolo.
Probabilmente era stata costruita qualche secolo prima, perché
il collante usato per tenere insieme le mura non era dei migliori.
Il tetto era quasi del
tutto crollato: solo la parte che ricopriva il piccolo altare
dall’altra parte dell’entrata era rimasta al suo posto. Il
resto era accumulato e sparso per la sala, assieme ai detriti delle
pareti.
«Dovremo rimanere
qui...? Non ci sono ripari... né letti» commentò la
ragazza, osservando con un certo disgusto lo sporco incrostato
sull’altare.
«Dietro
l’altare c’è una piccola porta. Penso che conduca
alla casa del prete» la informò Alan, che si era premurato
di precederla nell’esplorazione del posto. Infatti, aveva
già aggirato l’ara e stava cercando di forzare la porta
appena menzionata.
Sua figlia scansò a
sua volta l’ostacolo e lo raggiunse, appena in tempo per vederlo
strappare dai cardini la porta, che gli rimase in mano.
«Cazzo. Devo riuscire a dosare le mie nuove energie da redivivo»
«Già...» convenne lei, dandogli qualche lieve pacca sulla spalla.
«Se non altro ti ho trovato un letto» fece notare Alan, come se ciò compensasse la porta scardinata.
Erika si affacciò
all’interno: una piccola stanza, due letti, un micro-tavolo e una
vecchia lampada ad olio, vuota e rotta, abbandonata sul pavimento. Una
suite di lusso, non c’era che dire.
Sospirò.
«Sempre meglio che niente...» commentò, entrando.
Suo padre la seguì e
fece per sedersi sul letto di fronte a quello di lei, quando il rumore
del suo stomaco si fece chiaramente sentire nel silenzio.
Erika non poté fare a meno di ridere, dandogli le spalle.
«Non credevo che i morti potessero avere fame...»
«Infatti...».
La voce strozzata con cui suo padre le rispose la costrinsero a girarsi.
«Papà!»
esclamò, avvicinandosi a lui: era piegato in due a terra e la
guardava con occhi vacui e sgranati, le pupille bianchissime.
«Erika... devo...»
«Cosa? Devi cosa?!»
«Il tuo sangue. Devo... bere il tuo sangue...».
La ragazza lo guardò
come se avesse appena detto qualcosa di inconcepibile. Dalla sua
espressione sofferente ma disgustata trapelava chiaramente il suo
totale disprezzo per quello che doveva fare.
«Come...?»
«Sto morendo... di nuovo?» chiese, ma la domanda non era rivolta né a lei né a se stesso.
La notizia la fece risvegliare da quella sorta di trance in cui era caduta.
Iniziò a frugare nella sua tracolla, cercando qualcosa di affilato, purtroppo senza riuscirci.
Si guardò intorno,
vagliando con lo sguardo l’intera stanza, in cerca di qualcosa
che potesse esserle utile. Infine, i suoi occhi caddero sulla lanterna
rotta a terra: schegge di vetro erano sparse attorno all’oggetto,
e parevano ancora affilate e certamente utili allo scopo.
Si precipitò, ne
raccolse una particolarmente grande e tornò vicino a suo padre,
il quale osservò il pezzo di vetro con un misto di orrore e
bramosia.
Quando la ragazza lo
poggiò sul dito, si sporse di scatto verso di lei, gridando:
«No!». Poi si ritrasse, tremante, gli occhi sbarrati,
dibattuto tra il disperato bisogno e il desiderio di proteggere sua
figlia.
Non voleva che si ferisse per lui, ma la sua parte prettamente morta desiderava vedere scorrere il suo sangue e assaporarlo.
Si rannicchiò contro
il fondo del letto, spingendosi contro di esso sempre di più,
quasi volesse fuggire e nascondersi.
Erika lo fissò, non riuscendo a non mostrarsi compassionevole: sembrava dilaniato e scosso.
«Papà, non è niente. È solo un taglietto...» esclamò in tono rassicurante.
Pulì per bene il
pezzo di vetro sulla maglietta, ricordandosi quanti batteri patogeni
avrebbero potuto essersi accumulati sulla sua superficie negli anni,
quindi lo pose sul dito e lo affondò nella carne, graffiando il
polpastrello, dal quale iniziò a sgorgare un piccolo fiotto di
linfa scarlatta.
All’inizio, la ferita
le faceva un po’ male, ma non era intenzionata a lasciar
trapelare il dolore nella sua espressione, che rimase seria e
concentrata, mentre porgeva il dito ad Alan. Senza farsi vedere, poi,
fece scivolare la scheggia di vetro all’interno della sua
tracolla.
Quella vista sembrò
alimentare il desiderio e l’orrore di suo padre, tuttavia il
primo riuscì, in qualche modo, a prevalere sul secondo: come una
bestia privata del cibo per lungo tempo, si chinò sul
polpastrello e dapprima lo leccò, poi iniziò a succhiarne
il sangue.
Non era doloroso, anzi, era
piuttosto piacevole: nonostante la foga iniziale con cui si era
avventato sul sangue, non era rude, ma piuttosto accorto.
La parte bestiale, a quanto
sembrava, non aveva avuto totalmente la meglio su quella razionale. Suo
padre non si era lasciato controllare completamente dal suo istinto
di... morto vivente?
Il suo sguardo era addolorato ma pieno di desiderio, un misto che le sciolse il cuore.
Spinta da un naturale
affetto, Erika si inginocchiò vicino a lui e appoggiò il
capo sulla sua spalla, chiudendo gli occhi, desiderando che suo padre
non fosse un redivivo, ma fosse solo vivo. Che potesse tornare a casa
con lui e vederlo finalmente insieme a sua madre: la famiglia che aveva
sempre sognato e che non aveva mai potuto avere.
Represse le lacrime: non
voleva angustiarlo inutilmente, anche perché, se si fosse messa
a piangere in quel momento, lui avrebbe potuto pensare che lo facesse
per il dolore.
Infine, le labbra di suo padre si ritrassero, tremanti.
«Basta... così».
Si allontanò, sottraendosi al contatto con Erika, lo sguardo basso.
La ragazza parve notare un rossore piuttosto vivido sulle sue guance prima ceree e uno strano scintillio negli occhi.
Non pareva molto in sé.
«Papà...?» lo chiamò.
«Mi... dispiace» biascicò, cercando di mettersi in piedi.
«Smettila di dire
“mi dispiace” per tutto! Te l’ho già
spiegato» replicò lei, indignata.
Lui traballò e fu solo grazie al pronto intervento della figlia che non cadde.
Sembrava ubriaco.
«Tutto okay?» chiese la ragazza.
Alan sbatté le palpebre, confuso.
«Sì...» mentì: in realtà, non stava realmente bene.
Tutto il sangue che aveva appena assunto gli aveva dato alla testa.
Incredibile! Non credevo che sarei arrivato ad essere sbronzo addirittura di sangue... ora le ho passate davvero tutte.
Si scostò dalla figlia e si lasciò cadere sul letto, massaggiandosi le tempie.
«Non mi sembri molto in forma» osservò Erika.
«Questo perché ha appena assunto una ingente quantità di sangue...».
La ragazza si bloccò, allibita: una voce incorporea aveva seriamente appena risposto alla sua osservazione?
Alan mandò un sospiro carico d’esasperazione.
«Circe, non è il momento per le tue frecciatine idiote...» esclamò in tono stanco.
Erika sbatté più volte le palpebre: Circe...?
Lei conosceva - solo di fama, ovviamente - solo una Circe...
«La maga greca?» chiese, improvvisamente illuminata.
«Mmh...?» fece suo padre, perplesso.
«Sì,
proprio lei. Tu devi essere il Contatto così lungamente cercato
da Alan... Erika, se non sbaglio».
E così mi ha cercato... per un sacco di tempo?
Erika gettò
un’occhiata di sbieco al padre che, accortosene, si
affrettò a distogliere lo sguardo, cercando di mascherare meglio
che poté un certo imbarazzo.
«Sono capace di sbrigarmela anche da solo, adesso» esclamò lui, per distrarsi dalle attenzioni della figlia.
«Non
ne dubito, uomo dalle mirabili facoltà mentali... ma se non
riuscivi nemmeno a ricordare il nome di tua figlia!!!»
«Non l’ho vista
nascere, okay? Come potevo sapere che mia moglie le avrebbe dato sul
serio il nome che mi aveva detto quand’eravamo fidanzati?!»
«Potevi comunque ricordartelo...».
Alan fece per interromperla, ma Circe proseguì: «Non
mi sono comunque messa in contatto con te per parlare di questo, ma per
spiegarti come funziona la tua particolare alimentazione in questo
momento».
Fece una breve pausa, quindi continuò: «Ogni volta che ti alimenti, sei fuori combattimento per non meno di un’ora...».
«Cosa?!»
esclamò lui, quasi urlando, esterrefatto e arrabbiato, tuttavia
pareva che quello che Circe stava dicendo avesse un senso,
perché si lasciò cadere steso sul letto, le palpebre
socchiuse.
«I
tuoi organi interni non sono più funzionali, per cui non stai
digerendo il sangue di tua figlia. I tuoi tessuti lo stanno assimilando».
Circe sottolineò con
particolare enfasi quell’ultima parola, come se avesse un qualche
potere persuasivo nei confronti dei suoi ascoltatori.
In effetti, riuscì a
schifare abbastanza Alan, che si puntellò fiaccamente sui
gomiti, guardando il soffitto, come se la voce di Circe venisse da
lì.
«Come sarebbe a dire “assimilando”?!» sbottò, arrabbiato.
«Stanno
assorbendo il sangue appena preso. In parole povere, in questo mondo il
tuo corpo deve essere impregnato di sangue per poter funzionare».
La spiegazione della maga fu stringata, ma decisamente chiara.
Questo spiega perché fosse sorpreso del suo improvviso attacco di “fame”... commentò tra sé e sé Erika.
«Che cosa?! Non mi hai affatto menzionato questa cosa, prima di spedirmi qui!!!»
«Contavo sulla pratica perché lo capissi sul serio»
«Vaffan...».
Alan si interruppe e, esausto, si abbandonò definitivamente sul letto.
«Papà...?» lo chiamò la ragazza.
«Non sta dormendo. Quello non può più farlo
- esclamò Circe, e alla giovane Reagh parve di sentire una
risatina aleggiare nell’aria e carezzarle dolcemente la pelle - Dolcezza,
mi sembri davvero una ragazza speciale, per cui voglio dirti una cosa,
prima che lui inizi a raccontarti tutto: le nozioni alchemiche e
magiche che sento tu hai appreso non sono inutili in questa situazione.
L’Alchimia e la magia esistono, Erika. Non sono solo
favole».
Il suo cuore mancò
un battito a quella rivelazione: tutto quello che aveva studiato non
era mera fantasia? Non era pura e semplice stregoneria?
Sono davvero un’idiota... non ho appena assistito ad un combattimento magico...?
«Però,
per voi umani, la pratica è ormai preclusa, salvo poche
eccezioni, che hanno dovuto fare enormi sacrifici per recuperare
l’antica capacità di praticare queste scienze. Per questo,
voglio farti un dono...».
Circe s’interruppe ed Erika non riuscì a fare a meno di trattenere il fiato quando la sentì sussurrare: «Entfernung».
Attorno a sé, la
fanciulla sentì alzarsi un improvviso turbinio d’aria,
fresca e frizzante, carica di qualcosa di astratto e mistico che lei
non riuscì a comprendere appieno. Quando cessò, si
sentiva diversa, pur constatando che non c’era niente di
differente nel suo corpo.
È una differenza interiore, anche se non riesco a capire in cosa.
«Ora ti lascio a tuo padre: immagino che avrete molte cose di cui discutere...».
La voce di Circe aveva un tono dolce, quasi materno. In esso, comunque, la ragazza percepì una nuova nota ilare.
«Grazie, Circe»
«Di niente, Erika».
Riuscì a percepire
quando il contatto con la maga terminò: fu come se il tepore
dell’aria attorno a lei fosse stato bruscamente risucchiato nel
nulla.
Una strana, singolare
sensazione, ma che certamente non le impedì di rivolgere tutte
le sue attenzioni a suo padre: dopo tanto tempo, avrebbero potuto
finalmente parlare.
Angolino autrice
Eccomi finalmente con il terzo - forse atteso - capitolo!
Qui ancora non si vede un piffero di trama, ma dal prossimo assicuro che sarà tutto chiaro.
Ringrazio infinitamente Sachi Mitsuki e xXxNekoChanxXx
per le preziose recensioni che mi lasciano ad ogni capitolo e che mi
riempiono di gioia e voglia di continuare a postare questa fic ^^ non
so come farei se non ci foste voi due...!
Grazie anche a quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Spero a presto! ^^''
F.D.
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Capitolo 4 *** Notizie non proprio rassicuranti ***
4_Notizie non proprio rassicuranti
Non perse tempo: corse al letto di suo padre e si sedette sul bordo, fissandolo in silenzio, in nervosa attesa.
Alan era ancora steso, con
un braccio sopra gli occhi, come a ripararsi da una forte luce e
sembrava che l’intenso rossore che fino a poco prima aveva
imporporato le sue guance stesse pian piano scemando.
Il silenzio si protrasse
per interi minuti, finché Erika non si decise finalmente a
romperlo: «Allora... cosa devi dirmi?».
«Non è tanto
un... “cosa devi dirmi”, quanto... piuttosto un “cosa
devi raccontarmi”...» la corresse debolmente lui.
«È lunga?»
«Dipende da quanto
sei disposta ad ascoltare: sembri stanca...» disse, spostando il
braccio da sopra gli occhi, puntando questi ultimi su di lei.
Questa scosse il capo, scacciando ogni possibile segno di stanchezza dall’espressione.
«Tranquillo, sono tutta orecchi» esclamò, sorridendogli.
Lui allungò lentamente un braccio verso di lei, passando delicatamente il dorso della mano sulla sua guancia.
La sua pelle era fredda, di
ghiaccio, ma il contatto era estremamente piacevole ed Erika non era
disposta a rinunciarvi tanto in fretta: allungò le sue mani
verso quella di lui e la trattenne contro il suo viso.
Alan le sorrise tristemente.
«È iniziato
tutto quando ho lasciato te e tua madre. Non pensare che me ne sia
andato perché non avevo intenzione di crescere un figlio - anzi
tutt’altro: ti attendevo con impazienza - bensì per
proteggervi»
«Da chi?» domandò di getto Erika.
«Un’organizzazione
di loschi figuri con cui ero accidentalmente entrato in contatto
nell’acquisto di un oggetto raro» continuò.
All’occhiata
perplessa che la figlia gli rivolse, lui si spiegò meglio:
«Ero solito commerciare oggetti rari, e questo lo era
particolarmente, oltre che antico»
«Che cos’era?»
«Un’antica piramide di granato, di epoca azteca, che si favoleggiava possedere poteri magici».
Il tono con cui suo padre
pronunciò le ultime due parole convinse Erika a chiedere:
«Non credevi affatto che ne possedesse, vero?».
Lui si strinse debolmente nelle spalle ed emise un sospiro a metà tra l’esasperato e lo sfinito.
«Prima di morire ero
piuttosto scettico circa questo genere di cose. Ora non posso certo
esserlo: se non fosse per pratiche esoteriche io non sarei qui a
raccontarti tutto questo».
La ragazza rise tristemente.
«Va’ avanti. Poi che è successo?» chiese.
«Quelli volevano la
piramide ad ogni costo, ma io non ero disposto a cedergliela. Non dopo
tutta la fatica che avevo fatto per averla» proseguì Alan.
Dal tono, pareva proprio che ci fosse dell’altro.
«Cos’hanno fatto poi?» lo incalzò prontamente la figlia, ansiosa di venire a conoscenza di tutto.
«All’inizio non avevo capito che genere di organizzazione fosse: sapevo solo che non era molto affabile e che sembrava
losca. Ma poi è saltata fuori la verità -
s’interruppe un istante - Gli acquirenti erano i boss di
un’organizzazione illegale alla ricerca del potere sovrannaturale
che risiedeva nella piramide. Mi hanno cercato per mezzo mondo, e alla
fine sono riusciti a prendere me e la piramide, circa tre anni fa. Mi
pestarono a sangue, cercando di convincermi ad aiutarli.
Sfortunatamente per loro, qualcuno o qualcosa di sovrumano è
arrivato in mio soccorso e ha sottratto loro l’oggetto. Ricordo
di averlo visto svanire in un turbinio di piume nere, una cosa strana
oltremodo. Allora i due che mi avevano preso, credendo che io sapessi
chi fosse il ladro, hanno cercato di estorcermi l’informazione -
s’interruppe ancora una volta - Quando hanno visto che non ero
intenzionato a collaborare, mi hanno sparato. E così, eccomi
qua, Alan Reagh, il redivivo...» concluse semplicemente e in tono
rapido.
Erika lo osservò per
qualche istante: la rassegnazione con cui accettava il suo essere morto
era qualcosa che la inquietava e la rendeva estremamente nervosa e
depressa.
Lo fissò intensamente negli occhi, senza sbattere le palpebre, in trance. Si riprese alcuni attimi dopo.
«E così devi ritrovare questa misteriosa piramide...?» domandò.
«Esatto...» confermò suo padre, annuendo debolmente.
«Ma te l’ha soffiata un essere misterioso quando eri ancora in vita...»
«Già»
«Quindi... - concluse Erika - ... non hai la più pallida idea di dove si trovi»
«Questo non è del tutto... esatto».
Alan emise un sospiro,
sintomo inequivocabile di stanchezza. Pareva star male, però il
rossore delle guance era meno evidente di prima, segno che stava
lentamente “assimilando” il suo sangue.
«Mentre ero morto, ho
incontrato Circe e le ho spiegato la situazione. Le ho raccontato anche
del misterioso ladro... lei ha acconsentito ad aiutarmi e mi ha dato un
possibile indizio circa la natura del ladro».
Erika percepì
un’esitazione nella parte finale del discorso, come se suo padre
l’avesse tenuta all’oscuro di una parte.
Cadde qualche istante di silenzio, che incrementò la tensione e la suspense del momento fino a livelli critici.
Erika fissava suo padre in
spasmodica attesa, letteralmente appesa alle sue labbra. Infine,
quest’ultimo decise di rompere il silenzio.
«Ha detto che potrebbe essere un guardiano appartenente ad una setta adoratrice dei corvi»
«Be’, perfetto!
Le sette non sono così facili da trovare, e chissà dove
potrebbe essere...» sbuffò la ragazza, contrariata.
«Ricorda che... la piramide l’ho acquistata in questa zona...»
«Però potrebbe
benissimo esserne venuto a conoscenza anche a chilometri da qui e noi
non abbiamo un punto di partenza!»
«Potremmo iniziare
cercando informazioni sulla piramide stessa: se aveva dei poteri,
finché era con me non ne ha mai manifestati. Probabilmente erano
sigillati in qualche modo...» azzardò Alan.
«Certamente per mezzo di un rituale di qualche tipo» confermò Erika, sicura.
L’improvviso borbottio del suo stomaco la indusse a distogliere lo sguardo, a disagio.
Suo padre alzò il capo per poterla guardare meglio.
«Non è niente» si affrettò a dire lei, alzandosi.
«Davvero? A me pareva fame...»
«Sto bene, posso resistere»
«Devi mangiare. Tu sei ancora viva».
Dicendo ciò, Alan si tirò su, sedendosi sul bordo del suo letto, ma se ne pentì subito.
Stupido mal di testa...! esclamò tra sé, ma non si sdraiò di nuovo.
«Posso farne a meno, per stasera. E poi non vedo modo di procurarmi del cibo, ti pare?».
Anche quello era vero: non
poteva andarsene in giro come se niente fosse, non con quei maledetti
killer in circolazione. Magari erano già in agguato in qualche
punto della città e stavano aspettando solo il momento
più opportuno per catturarla.
Non aveva altra soluzione
che darle retta, anche se ciò non riusciva a non preoccuparlo:
era pur sempre suo padre, anche se morto! Era naturale che si preoccupasse per lei!
«Coraggio papà, dormi adesso. Domani penseremo al da farsi...» esclamò Erika.
«L’hai sentita
Circe, no? Io non posso dormire» ribatté seccamente lui,
ostinandosi a rimanere seduto, resistendo eroicamente alle vertigini
che minacciavano di sovrastarlo.
«Già...
è vero» convenne la ragazza tristemente, quindi si
affrettò ad aggiungere un sentito: «Mi dispiace».
«E per cosa? Non
posso sentire il freddo né il caldo, non posso morire, non
patisco la sete e, fino a prima di tornare qui, non sentivo nemmeno la
fame. Sono morto e non me ne pento. L’unico mio rimpianto
è non averti vista crescere».
Erika lo fissò,
scioccata: non credeva che suo padre ci tenesse a lei fino a quel
punto, dato il fatto che era stato assente in tutta la sua vita fino a
qualche ora prima. Non di sua propria volontà, okay, però
lo era stato. Era abituata ad immaginarlo come un uomo privo di
sentimenti verso sua figlia e scansafatiche, non così.
Diamine, adesso gli voleva un bene dell’anima e le sembrava il miglior padre del mondo, anche se morto!
«Vai a dormire.
Terrò d’occhio la situazione, in caso quelli dovessero
tornare...» esclamò Alan, alzandosi.
Barcollò un
po’, ma non si risedette. Andò invece verso lo stipite
della sacrestia e vi si appoggiò, guardando fuori.
La giovane Reagh piegò da un lato la testa, perplessa, ma non fece domande.
«Allora...
buonanotte» si limitò a dire, togliendosi gli occhiali e
infilandoli nella custodia che portava sempre con sé.
Posò la tracolla vicino al lato del letto e si sdraiò
sulle coperte: non voleva certo infilarsi sotto quel lenzuolo
bucherellato, al di sotto del quale avrebbe potuto nascondersi di tutto.
Dopo qualche istante, suo padre le rispose con un dolce: «Buonanotte, tesoro...».
A quel punto, lasciò che la stanchezza avesse il sopravvento su di lei.
Angolino autrice
Spero che finalmente si riesca a capire qualcosa ^^''' anche se è ancora tutto un po' confuso u.u''
Cooomunque u-u i ringraziamenti *O*
Sachi Mitsuki
xXxNekoChanxXx
E coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite ^^
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 5 *** Informazioni da trovare (ad ogni costo) ***
5_Informazioni da trovare (ad ogni costo)
Il mattino seguente, Erika fu svegliata da un leggero rumore vicino a sé.
Si mosse, sentendo qualcosa che la copriva.
Socchiuse gli occhi, per
abituarli alla flebile luce che aleggiava all’interno della
stanza come polvere sospesa, per poi aprirli del tutto. Dapprima si
guardò addosso - riconoscendo la giacca che aveva sopra a
mo’ di coperta per quella di suo padre - poi alzò gli
occhi verso la fonte del rumore che l’aveva destata.
«AAAAAAAAAH!» strillò, schizzando seduta, chiudendo di scatto gli occhi.
«Erika, sono io. Non urlare, per favore!».
La voce pacata di suo padre
la calmò un poco, tanto da convincerla a riaprire gli occhi: lui
era ancora in piedi davanti a lei, a torso completamente nudo. Prima le
dava la schiena, ma adesso era voltato verso di lei, cosicché la
ragazza poté notare, anche se confusamente, la cicatrice che gli
segnava il petto, esattamente in corrispondenza del cuore.
A quella vista, una fitta
di nausea e dolore le strinse lo stomaco, che fortunatamente era
già vuoto: era lì che gli avevano sparato...? Anche senza
occhiali, riusciva a distinguere il circolo di quella cicatrice, che
scintillava ancora di rosso, anche se scuro. Ormai pareva una ferita
vecchia, anche se sapeva benissimo che non lo era poi così tanto.
Rimase ad osservarla,
lasciandosi cullare dalla sgradevole sensazione che le aleggiava
attorno e dentro, una sensazione fatta d’abbandono, dolore,
tristezza e nostalgia, sentimenti che le bruciavano immensamente.
«Ehi, tutto bene?» esclamò suo padre, avvicinandosi a lei.
Intercettò il suo
sguardo e si affrettò ad infilare la t-shirt, in modo da coprire
l’oggetto delle dolorose attenzioni della ragazza.
«Erika, tutto okay?» ritentò, scuotendola un po’ per le spalle.
Quest’ultima scosse
il capo e sbatté le palpebre con nuovo vigore, quindi lo
fissò con del sentimento negli occhi.
«C-che c’è?» chiese.
Lui si rialzò, a disagio per il contatto.
«Mi sembravi... strana»
«Niente,
tranquillo» lo rassicurò la figlia, accennando un sorriso
del quale, in realtà, neppure lei era molto convinta:
l’immagine, anche se confusa, del segno del proiettile che
l’aveva ammazzato l’aveva scombussolata alquanto.
Non voleva immaginare gli effetti che le avrebbe sortito se avesse avuto indosso gli occhiali.
A proposito di occhiali... mormorò tra sé, piegandosi a prendere la custodia dei suoi nella tracolla.
Li inforcò e si
guardò intorno, prima di posare nuovamente gli occhi su suo
padre, notando solo in quel momento una differenza a dir poco fondamentale, che non si peritò affatto ad esporre: «Papà, quei vestiti nuovi da dove vengono?».
Alan le rivolse un mezzo sorriso, mentre si sistemava il giubbottino nero smanicato sulla t-shirt.
«Stamattina presto Penelope è venuta a portarmi dei vestiti meno logori e da morto...» spiegò.
«Come sta?!» volle sapere subito Erika.
«Bene. Mi ha anche
detto che tua madre è sotto la protezione di vari incantesimi,
adesso, così puoi stare tranquilla...».
La ragazza tirò un sospiro di evidente sollievo: almeno non avrebbe dovuto preoccuparsi inutilmente per lei.
«Ah, quasi dimenticavo... ti ha portato questa» aggiunse Alan, porgendo alla figlia una busta di plastica bianca.
Erika
l’osservò per alcuni istanti, chiedendosi che diamine ci
fosse dentro, prima di decidersi a prenderla e aprirla:
all’interno c’era del cibo.
«Immaginava che
avessi fame e non fossi nelle condizioni più idonee per
comperarti qualcosa da mettere sotto i denti...» le
spiegò, sorridendole.
Lei distolse lo sguardo, a disagio, mentre deponeva la busta - che si curò di chiudere per bene - sul letto.
«G-grazie...» balbettò, rossa in viso.
«Tieni, ti ha portato
anche qualche vestito di ricambio...» aggiunse suo padre,
passandole una piccola sacca chiusa con un fiocco, che la ragazza prese
con qualche esitazione.
«Non preoccuparti - la rassicurò Alan - Ha detto che è passata a prenderne qualcuno dei tuoi, a casa».
Be’, non è proprio confortante l’idea di qualcuno che ti entra in camera mentre non ci sei...
commentò tra sé e sé, comunque accettò di
buon grado la sacca che le stava porgendo, riponendola con cura nella
sua tracolla, che non era esattamente piccola, anzi, talvolta la definiva addirittura “la borsa di Mary Poppins moderna”.
«Oh... grazie»
disse, anche se si accorse subito di aver detto una cavolata, dato che
Penelope non era lì con loro.
A quel punto scivolò fin sul bordo del materasso, stringendosi nelle spalle.
«Qual è il programma per oggi?» chiese, fissando ininterrottamente suo padre.
«Andiamo a cercare informazioni sulla presunta setta di corvi» dichiarò Alan, deciso.
A quell’affermazione, Erika si alzò, risoluta.
«Allora dovremo
andare alla Lirys Library: là ci sono libri per tutti i gusti.
Troveremo di certo qualcosa in proposito» affermò la
ragazza, cogliendo alla sprovvista il redivivo, che però
annuì comunque.
«Okay... andiamo» disse, quindi precedette la figlia fuori della stanza.
Alla luce del giorno il cimitero non appariva così spaventoso e poco ospitale come di sera o, peggio ancora, di notte.
Le lapidi c’erano
ancora, l’atmosfera cupa persisteva, ma non era acuita in modo
inquietante dall’oscurità notturna.
Erika non riuscì ad
evitarsi d’indirizzare qualche sguardo interrogativo al padre, il
quale sembrava addirittura più guardingo della sera precedente,
quand’erano arrivati.
Probabilmente
perché alla luce del sole è più facile che ci
individuino... anche se si è nutrito, c’è ancora
una forte traccia del pallore cadaverico originario sulla sua
carnagione... commentò tra sé, senza riuscire ad evitare di formulare quell’ultimo appunto.
Aveva notato la differenza
immediata non appena si era nutrito del suo sangue, il rossore che si
era diffuso sulle sue guance. Adesso, non c’era più
traccia di quel caldo e vivo porpora né sul suo viso, né
nel resto della pelle scoperta.
«Come fai ad essere
così sicura che in quella biblioteca ci sia quello che stiamo
cercando?» domandò all’improvviso Alan, rallentando
il passo per tenere il suo.
«Ci sono stata... un paio di volte» replicò Erika, arrossendo e distogliendo lo sguardo.
Be’, un paio di volte
era solo un misero eufemismo: aveva passato interi pomeriggi immersa
tra quegli scaffali polverosi in cerca di testi su Alchimia, rituali
antichi e similia. Aveva una certa esperienza in merito.
«Almeno uno di noi saprà orientarsi un po’...»
«Non eri tipo da biblioteca?» chiese Erika, curiosa.
Lui si strinse semplicemente nelle spalle, leggermente a disagio.
«Ero più un tipo pratico. Era tua madre quella appassionata di lettura» replicò Alan.
In effetti, non aveva tutti
i torti: sua madre, in camera da letto, aveva una libreria quasi piena
di libri, ai quali se ne aggiungevano uno o due di tanto in tanto.
Era una vera appassionata di libri ed era da lei che aveva ereditato il piacere del leggere.
Arrivati alla macchina, smisero di parlare e partirono.
La Lirys Library non era
particolarmente lontana dal cimitero, però si trovava in una
strada piuttosto trafficata, per cui impiegarono una mezz’oretta
ad arrivare.
Trovare un posto per la macchina non fu difficile.
Scesi, si avviarono su per la grande scalinata di marmo che conduceva alla porta, immensa e di legno, ovviamente aperta.
Appena varcata, Erika
sentì il profumo dei libri vibrarle nei polmoni: finalmente
qualcosa di familiare, in quello sconvolgimento assoluto.
L’interno era
immenso, come sempre, e poco illuminato, per non dire affatto, eppure
lei non aveva problemi a muoversi nella semioscurità: che senso
avrebbe avuto, altrimenti, stare giornate e giornate chiusa nella sua
stanza a lume di candela?
Per sviluppare la sua incredibile “vista al buio”, aveva dovuto esercitarsi per un bel po’.
«Qui dentro non si vede un... niente!» commentò Alan, arrabbiato.
Erika sorrise: aveva colto
l’esitazione di suo padre, segno che avrebbe volentieri
utilizzato un’altra espressione per manifestare la sua
irritazione.
«Vieni, per di qua» sussurrò la figlia, prendendogli una mano e conducendolo all’interno.
Si trattenne a stento dal lasciarla immediatamente: era fredda come ghiaccio.
Che scema... i morti non hanno circolazione. Per forza sono freddi... e pallidi.
Passarono davanti alla scrivania dove sedeva la bibliotecaria.
«Buongiorno» salutò Erika, sforzandosi di essere allegra come al solito.
Nessuna risposta da parte della donna, che, notò la ragazza, era intenta a leggere un giornale.
Non si preoccupò
molto: la bibliotecaria era mezza sorda, per cui con ogni
probabilità era talmente assorta nella lettura che non
l’aveva comunque sentita, indipedentemente dall’essere
sorda o meno.
Tirò avanti,
ringraziando silenziosamente la semioscurità che regnava ovunque
e che impediva a chiunque di vedere il pallore di suo padre: era certa
che, se i loro inseguitori avessero chiesto in giro, un tipo
così pallido se lo sarebbero ricordato in parecchi.
L’ultima cosa che voleva era lasciare indizi che potessero
mettere in pericolo sia lui che sé stessa.
«Erika...» sussurrò Alan.
«Sì?»
«Sei sicura che non ci siano interruttori della luce qui intorno?»
«Sei davvero così cieco?»
«Non vedo... nitidamente neppure con la luce».
Dal tono, pareva aver confessato una delle cose che più gli bruciava ammettere.
«Oh... sei miope?».
Che razza di domanda idiota... osservò tra sé subito dopo.
«No, ma in teoria
sono un cadavere semovente. Circe mi aveva avvertito che avrei perso
qualche cosa, in cambio della forza fisica»
«Hai perso dei decimi di vista?»
«A quanto sembra sì... ma pare un problema più serio di quel che è al buio....».
Maledizione! Ci mancava solo questa...!
La ragazza rinsaldò
la presa sulla sua mano, mentre procedeva spedita tra gli scaffali,
diretta a quelli in fondo, riservati all’esoterismo e a pratiche
antiche. Era più che certa che avrebbero trovato qualcosa circa
ciò che cercavano.
Quando scorse finalmente lo
scaffale che le interessava, istintivamente lasciò la mano di
suo padre e vi corse, lasciandolo indietro.
«Ah... Erika? Erika
dove vai?» la chiamò Alan, tastando in qua e là
nell’aria in cerca della figlia.
«Papà è qui!» esclamò la figlia, nella voce un filo d’eccitazione, voltandosi indietro.
«N-no, non di l...!».
Non finì neppure la
frase che suo padre cadde con un pesante tonfo a terra, trasportandosi
dietro la sedia in cui era inciampato.
«Ahio, che male...!» sibilò a denti stretti, massaggiandosi un braccio.
La ragazza ritornò indietro e lo aiutò a rialzarsi.
«Scusa, non avrei dovuto lasciarti» sussurrò, imbarazzata.
«Non importa... l’hai trovato?» chiese invece l’uomo, alzando il capo.
«Sì, da questa parte».
Lo scortò quindi fino allo scaffale in fondo.
«D-dov’è?»
«Ce l’hai davanti».
Alan protrasse un braccio
in avanti e sfiorò le costole dei volumi. Erika non poté
trattenersi dal paragonarlo ad un cieco che cerca qualche contatto col
mondo esterno dal quale è visivamente escluso.
«Come posso aiutarti? Non vedo niente»
«Non preoccuparti: posso fare da sola»
«No, voglio aiutarti! Se siamo in questa situazione è soprattutto per colpa mia!».
La giovane Reagh rimase a
fissare suo padre per alcuni istanti: nei suoi occhi dispersi nel buio
leggeva distintamente un fuoco che ardeva come mille incendi, una
decisione che, lo sapeva, non avrebbe mai potuto spazzar via.
Perciò ficcò
una mano nella tracolla e iniziò a cercare: cellulare, chiavi di
casa, la sacca dei vestiti... possibile che non avesse niente di utile,
in quel momento?
Scansò un libriccino
e una penna e, inaspettatamente, sfiorò qualcosa di solido,
lungo e cilindrico, che si affrettò ad estrarre.
Con suo immenso sollievo, scoprì trattarsi proprio di una torcia elettrica.
«Papà, tieni questa» disse, afferrandogli la mano più vicina, mettendoci la torcia, accendendola.
«Una torcia?» domandò Alan, perplesso, muovendola, indirizzando il fascio di luce in varie direzioni.
«Così puoi vedere»
«Perché hai aspettato solo ora a darmela, se l’hai sempre avuta dietro?».
Stava per dire che si era dimenticata di averla, quando la luce traballò, fornendole una scusa migliore.
«La batteria è quasi esaurita. Mi sembra più utile adesso che per camminare, ti pare?».
Riuscì a zittirlo.
«Bene, che aspettiamo? Iniziamo a cercare» disse dopo un po’ lui, scostandosi dalla figlia.
Angolino autrice
*hero* Riesco ad aggiornareee! ù___ù Finalmente <3
Be', comunque u.u non dilunghiamoci troppo in chiacchiere inutili e passiamo ai ringraziamenti.
Per le recensioni:
Sachi Mitsuki
xXxNekoChanxXx
E chi ha aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 6 *** Vergata di sangue ***
6_Vergata di sangue
«Trovato
niente?» esclamò Alan, estraendo un altro volume dal
titolo poco chiaro, se non addirittura incomprensibile.
«No, niente di utile» fu la risposta di Erika, dall’altro capo dello scaffale.
Accidenti, siamo qui da un sacco di tempo ormai! Non penso che questa cazzo di torcia duri ancora a lungo!
Si sentiva dannatamente
inutile in quel posto, dove senza una seppur minima fonte di luce non
riusciva a far niente di più che andare a sbattere contro le
sedie.
Era l’unico luogo
dove poteva trovare informazioni circa il bastardo che gli aveva
sottratto la piramide, ma non aspettava altro che di uscire da quella
biblioteca che puzzava di vecchio: il suo olfatto non riusciva
più a sopportare quell’odore.
Puntò il fascio di
luce della torcia verso gli scaffali più alti, stringendo gli
occhi per cercare di carpire qualche lettera dei titoli.
Erika, più in
là, si stava cimentando in audaci quanto pericolose acrobazie
per raggiungere l’ultimo ripiano, fuori della sua portata ad
altezza originale. In precario equilibrio sullo schienale di una sedia,
si stava inerpicando in punta di piedi per raggiungere il libro dalla
rilegatura nera che aveva attirato la sua attenzione per le sottili
striature che aveva scorto, con un po’ di fatica, sul suo dorso.
Riuscì a sfiorarne l’estremità inferiore e un brivido le percorse la schiena.
«AAAH!» urlò, prima di riuscire a contenersi.
Suo padre si precipitò - la torcia in mano - giusto in tempo per vederla perdere l’equilibrio e cadere.
Fortunatamente, riuscì a gettarsi sotto di lei appena in tempo per prenderla, prima che si schiantasse al suolo.
«Erika, che c’è? Cos’è successo?» chiese, in ansia.
La ragazza pareva stravolta e alzò due dita verso di lui.
L’acre odore
più familiare che potesse percepire gli s’insinuò
nel naso, scatenando l’immediata reazione.
«Dove...?»
Erika indicò in
alto, cosicché Alan, istintivamente, puntò la propria
torcia nella stessa direzione, incontrando immediatamente la cosa che
aveva spaventato la figlia.
«Lo prendo io» esclamò, rimettendola in piedi.
Si inerpicò quindi
sullo schienale della sedia che lei aveva lasciato sotto lo scaffale e
si sporse, riuscendo a prendere il libro con la rilegatura nera...
striata di sangue.
Scese e lo illuminò con la torcia: tutta la copertina era rigata da inquietanti rivoli scuri.
Ne sfiorò uno.
«Il sangue non è ancora secco. Non dev’essere qui da molto» commentò il redivivo, serio.
«Il titolo...
guarda» osservò Erika, indicandogli i caratteri
d’argento che spiccavano in vivo contrasto con la copertina.
Era scritto con una grafia chiaramente leggibile, anche se sporca di sangue, e recitava: “RAVEN’S SECTS”.
«L’abbiamo trovato!» esclamò Alan, sollevato.
«Ma... perché
è sporco di sangue?» chiese Erika, sollevando
l’interrogativo più ostico, quello che suo padre aveva
voluto ignorare.
«Non lo so» disse, scuotendo il capo, quindi aprì la prima pagina.
Vi trovarono una piuma, grande, nera... e piena di sangue.
«Che significa, secondo te?» domandò Alan, sollevandola.
«Guarda papà, qui c’è scritto qualcosa!».
Erika indicò una
piccola scritta a margine della prima pagina, davvero troppo piccola
perché lui potesse leggerla, anche se fosse stato sotto una luce
al neon.
«Che cosa dice?» domandò.
«È... sembra un nome» disse semplicemente la ragazza, un po’ perplessa.
«C’è scritto “Marcus”. Ma chi è Marcus?»
«Probabilmente l’ex proprietario di questo libro...» disse Alan.
«Avanti, prendilo e andiamo»
«No, aspetta! Forse la bibliotecaria può dirci qualcosa a riguardo» obiettò Erika, logica.
«Okay, proviamo a chiedere, ma se non ne sa niente?»
«Siamo praticamente al buio. Non ci vedrà nemmeno» spiegò la giovane Reagh.
«Va bene».
Ripercorsero la biblioteca fino all’entrata.
La bibliotecaria era seduta ancora nella stessa posizione di prima, ancora intenta a leggere il giornale.
«Signora, mi scusi» la chiamò Erika, avvicinandosi.
Silenzio.
«Signora! Può dirmi qualcosa di questo libro?» ritentò, a voce più alta.
Di nuovo, silenzio.
Alan le si accostò, preoccupato.
«Qui c’è qualcosa che non va...» osservò, scuro in volto.
La figlia, allora, si
sporse e scosse il braccio della donna. Questa, a sorpresa, cadde in
avanti, strappando uno strillo alla ragazza, che vide solo un istante
dopo l’elsa di un pugnale che le spuntava dalla schiena,
circondato da una grossa chiazza di sangue scuro.
«Oddio...!» esclamò, senza fiato, portandosi le mani a coprire la bocca.
«È morta. Di recente» disse Alan.
Un istante di silenzio.
«ERIKA, SPOSTATI!» gridò suo padre, spingendola via.
Un proiettile fendette l’aria nel punto dove prima era la ragazza.
«C-cosa?! Cos’era quello?»
«Ci hanno trovati! Presto, dentro!».
Un altro proiettile attraversò l’aria e le sfiorò la spalla.
Non è possibile che anche qui... come hanno fatto a trovarci così in fretta?!
«Corri, Erika! Corri!» le gridò suo padre.
Spostando lo sguardo su di
lui, la ragazza carpì un movimento verso l’alto, poi il
fascio della sua torcia che vagava sul soffitto da sopra gli scaffali,
segno che era saltato sopra, per cercare i loro inseguitori.
Che cosa poteva fare lei?
Non aveva un udito abbastanza sviluppato - al contrario di quello di
suo padre - da permetterle di percepire il rumore di un proiettile!
Continuò a correre a perdifiato, infilando in fretta il libro nella tracolla, per avere le mani libere.
Si guardava intorno
freneticamente, in cerca di un’ombra o un fugace spostamento che
le rivelassero la posizione, almeno approssimativa, dei suoi aggressori.
Sentì un sottilissimo click nell’aria, alla sua sinistra. Si chinò appena in tempo per evitare un altro proiettile.
Devo riuscire a fermarli, prima che mi ammazzino!
«Ah, eccoti qui mocciosa!».
Si fermò a poco
più di un metro dall’uomo che, dal profilo, aveva
riconosciuto essere Sigfred. Attorno a lui percepiva un forte odore di
gel per capelli.
E ora, che cosa faccio? Cosa faccio?!
Avanti, usala! Usa la tua amata Alchimia. Puoi farlo, Erika... adesso.
Un’altra voce?
Questa sembrava più
decisa e femminile... e le sembrava familiare, come se provenisse da
qualche remoto o buio angolo del suo corpo.
L’impulso successivo
quella voce fu di darle retta: si piegò, schivando appena in
tempo un pugno di Sigfred, quindi convogliò la sua
“energia interiore” nelle mani, che presero a formicolarle.
Le batté con forza sul pavimento.
Un’onda d’urto
di dimensioni notevoli, almeno dal suo punto di vista, si
sprigionò da quel contatto, mentre assieme ad una sfrigolante
sfera d’energia porpora si creava una piccola voragine nel
pavimento, al centro della quale si ergeva una colonnina dello stesso
materiale del suolo.
Alla luce rossa venutasi a
creare riuscì a distinguere il viso del suo nemico, i suoi
lineamenti da uomo adulto, gli occhi neri come i capelli, corti ed
ispidi. Si fissò i tratti nella mente: se l’avesse
incontrato di nuovo, l’avrebbe riconosciuto senz’altro.
Ad occhi sgranati osservò il frutto di quella trasmutazione, la sua prima trasmutazione, colpire sotto il mento Sigfred, spedendolo steso a diversi metri di distanza.
«Sigfred, che cazzo succede?!».
Un’altra voce
maschile, più vicina di quanto volesse, la raggiunse,
invogliandola a rialzarsi e correr via, prima che Sigfred o il suo
compagno - al momento ancora anonimo - riprendessero ad inseguirla.
C-che cos’ho appena fatto? Quella era Alchimia! Quella era una trasmutazione alchemica!
Era ancora sbalordita:
aveva davvero appena effettuato la trasformazione che aveva studiato
così lungamente dalla tenera età di nove anni?
Stentava a crederci.
Quella
voce... che sia quella la chiave di tutto? Che sia stata quella ad
avermi permesso di farlo...? Ho la vaga sensazione che mi stia
sbagliando, ma che altra possibilità c’è?
E mentre correva, saettando
tra scaffali diversi, cambiando strada più e più volte,
nella speranza di scorgere di nuovo suo padre, un pensiero - o, per
meglio dire, un ricordo - le affiorò nella mente, senza che
neppure l’avesse richiamato.
«L’Alchimia
e la magia esistono, Erika. Non sono solo favole. Però, per voi
umani, la pratica è ormai preclusa, salvo poche
eccezioni...».
Era quello che aveva detto Circe, quando li aveva contattati al cimitero, la sera prima.
Ricordava perfettamente
che, dopo quella breve spiegazione, aveva anche aggiunto un’altra
parola, qualcosa di incomprensibile per lei, che però le aveva
fatto provare una strana sensazione.
Che sia stata quella a rendermi capace di praticare l’Alchimia?!
Non poteva fare a meno di
pensarlo: le pareva una soluzione molto più logica e coerente -
per quanto tutta quella storia fosse irrazionale e surreale - di una
semplice voce nella sua testa, o nel suo inconscio o quel che era.
Comunque,
adesso non c’è tempo di perdersi in questo: devo trovare
papà e mettere KO quei bastardi prima che siano loro a farlo.
Alan si aggirava ancora
sugli scaffali, saltando dall’uno all’altro con
rapidità e forza a dir poco stupefacenti persino per lui, la
torcia ancora stretta in mano, il fascio che vagava di sotto, in cerca
dei due sicari, dei quali non c’era traccia.
Si fermò, si volse e
tornò indietro, percorrendo una strada diversa da quella che
aveva usato per arrivare dov’era.
Ad un certo punto, la torcia balenò e si spense, costringendolo a fermarsi.
No, cazzo! Perché s’è spenta proprio ora?!?!
Si guardò intorno, cercando di percepire qualcosa con gli occhi, ma tutto ciò che vedeva era solo il buio.
Con cautela, scese dallo scaffale e si volse a fronteggiare la stanza che lui non vedeva.
Un colpo alla nuca lo prese totalmente alla sprovvista e lo lasciò tramortito, a terra.
«Hai finito di
scappare, redivivo...» esclamò una voce a lui sconosciuta,
probabilmente appartenente al sicario che era stato messo subito KO da
Penelope.
Cercò di memorizzare
qualcosa di lui, ossia l’odore intenso e alquanto dolce del suo
dopobarba. Stomachevolmente dolce: non se lo sarebbe dimenticato per
niente al mondo.
Tentò di rialzarsi, ma un altro colpo lo centrò in mezzo ai polmoni, mozzandogli il fiato e stendendolo di nuovo.
Che poteva fare? Era praticamente cieco.
Se solo non mi fossi separato da Erika...
In quel momento, un forte rumore di passi di corsa attirò la sua attenzione.
I suoi occhi vagarono nel
nero dinanzi a lui, come se cercassero la fonte di quel rumore, anche
se era consapevole che non l’avrebbe mai vista.
Poi si fermarono, a poca distanza, a giudicare dall’intensità.
«Ehi, pezzente! Lascia stare mio padre!!!».
Era la voce di Erika.
Un moto di sollievo gli
allentò la tensione che si era accumulata sulle sue spalle,
permettendogli di rilassarle almeno un po’.
«Erika...! Sei tu? Stai bene?» sussurrò.
«Ehi, mocciosa! Non
mi sembri nella posizione di fare l’arrogante, ti pare? O forse
vuoi che tuo padre finisca con la testa crivellata di
proiettili?».
D’accordo, quel tipo
iniziava a dargli sui nervi. Appena ne avesse avuto la
possibilità, gli avrebbe spaccato la faccia: nessuno poteva
minacciare sua figlia e sperare di passarla liscia.
Effettivamente,
però, non aveva tutti i torti - per quanto gli bruciasse
ammetterlo: Erika era solo una ragazzina e quello era un uomo, armato
per giunta.
Non aveva molte speranze di uscire incolume da uno scontro con lui.
«Tu dici...?» le sentì dire.
Dal suo tono pareva molto sicura di sé.
«Ora te la faccio vedere io, picc...!».
Il misterioso uomo non ebbe
modo di finire la frase, perché una sfera di energia porpora si
sprigionò a pochi metri di distanza da Alan, il quale
poté così finalmente vedere in viso sua figlia. La sua
espressione era seria, concentrata, e terribilmente minacciosa. Non
l’aveva mai vista così.
Stava piegata al suolo, le mani protese in avanti, a sfiorare il pavimento. Era da quel contatto che proveniva la luce.
Cosa diavolo...?
Prima che potesse
rendersene addirittura conto, un blocco di pavimento schizzò
verso di lui, anche se il vero obiettivo era l’uomo che si ergeva
dietro di lui, che fu preso in pieno stomaco e scaraventato via dalla
forza dell’impatto.
La luce cessò e Alan ripiombò nella sua snervante cecità.
«Papà, tutto a posto?» chiese Erika, prendendolo per un braccio, aiutandolo a risollevarsi.
«S-sì... tutto a posto» rispose, incerto.
«Te, invece? Come stai?» aggiunse.
La sentì stringersi nelle spalle.
«Sono sudata e sporca del sangue di quei due, ma per il resto sono okay» replicò, in tono quasi allegro.
«Sono fuori combattimento per un po’?» domandò Alan.
«Non ne sono tanto sicura...» confessò Erika.
«Allora meglio andarcene prima che si riprendano» asserì suo padre.
E, mano nella mano, corsero a perdifiato verso l’uscita.
Angolino autrice
Eccomi finalmente ad
aggiornare di nuovo *-* capitolo lunghino, almeno per una volta <3
ma spero non noioso (per me che l'ho scritto no di certo, ma io sono di
parte ùwù).
Anyway, ringrazio Sachi Mitsuki e xXxNekoChanxXx per le recensioni allo scorso capitolo e coloro che hanno messo la fic tra le preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 7 *** Trappola fuori ''casa'' ***
7_Trappola fuori 'casa'
Appena furono fuori, notarono che aveva iniziato a piovere:
l’acqua scrosciava fitta, accompagnata dal ripetitivo e basso
rumore delle gocce che s’infrangevano al suolo. Sembrava quasi
una melanconica nenia che fungeva da sottofondo musicale alla scena di
quotidianità che scorreva davanti a loro.
Alan inspirò la fredda aria umida di pioggia come fosse un
balsamo lungamente atteso: finalmente era fuori da quella biblioteca,
libero di poter nuovamente prendere in mano la situazione e,
soprattutto, rendersi di nuovo utile.
Quanto gli era mancata la sensazione di avere un’utilità in quella faccenda...!
Si voltò verso sua figlia e solo a quel punto notò quanto
effettivamente fosse rimasta “segnata” da quello che era
successo all’interno dell’edificio: i capelli erano
schizzati di rade chiazze rosso scuro, così come il viso e i
pantaloni. La maglietta, invece, era tutta bagnata di sudore e le era
aderita al petto, mettendo in risalto il piccolo seno, così come
alcuni ciuffetti scappati alla coda di cavallo si erano incollati sulla
sua fronte.
«Non puoi andare in giro conciata così» affermò.
«Tranquillo. Andiamo al cimitero e mi cambio» disse lei,
sorridendogli in modo radioso e caldo: era felice di essere
sopravvissuta all’aggressione anche grazie al proprio personale
contributo.
Si sentiva utile e ciò la faceva sentire bene.
«Okay» replicò semplicemente suo padre.
Andarono a recuperare la macchina e se ne andarono, diretti al cimitero.
Durante il tragitto biblioteca-auto, l’uomo aveva avuto modo di
notare un certo persistente buonumore nella figlia del quale non
riusciva a spiegarsi la ragione: insomma, erano appena stati aggrediti
e lei aveva appena rischiato la vita!
Anche una volta avviato il motore della macchina e partiti, il sorriso
di Erika continuò a rimanere impresso sul suo viso.
«Ehm... perché sei così contenta?»
domandò dopo un po’ Alan, a disagio, dando un’altra
occhiata sfuggente all’espressione allegra della figlia, che si
guardava intorno come se vedesse tutto ciò per la primissima
volta.
Lei arrossì un po’.
«Niente di particolare»
«No...?»
«Be’, forse... - esitò - È per via di quelle
trasmutazioni» disse infine, come se si fosse finalmente tolta un
grosso peso dal cuore. Forse era semplicemente ansiosa di mettere al
corrente suo padre del motivo della sua gioia.
«Trasmutazioni?» ripeté l’uomo, inarcando con fare interrogativo un sopracciglio.
«Sono trasformazioni della materia. Quella cosa con cui ho messo KO il compare di Felix era stata trasmutata».
Non sapeva come altro definirla: non le veniva in mente niente di preciso.
«Intendi quella cosa che hai fatto con quella bolla d’energia rossa?»
«Sì... quella. È... be’, è stato
fantastico! L’ho sognato per tutta una vita!!»
esclamò Erika, addossandosi al sedile, rilassata, socchiudendo
gli occhi.
Era la prima volta che la vedeva così tranquilla, da quando si erano incontrati.
Non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un mezzo sorriso: era
bello vederla sognare ad occhi aperti, anche in mezzo ad un casino
madornale come quello in cui si trovavano. Era dell’opinione che
mantenere una certa dose di buonumore avrebbe impedito ad ambedue di
perdere il senno.
Eppure, c’era qualcosa che, in quello che lei aveva appena detto,
non gli tornava. Un suo dubbio, per l’esattezza, venuto fuori
mentre ragionava sulle parole della figlia.
«Mi chiedo però... perché tu ora possa fare quelle
trasformazioni. Cioè... hai detto anche tu che l’hai
sognato per tutta la vita e... be’, mi sembra strano che un sogno
del genere possa realizzarsi così,
all’improvviso...» esclamò, spostando per un istante
gli occhi dalla strada.
In quelli di Erika apparve un cipiglio vagamente serio.
«Me lo sono chiesta anch’io e credo di aver anche trovato
una risposta: penso che c’entri Circe» replicò,
soppesando ogni parola, come se volesse evitare di dire troppo.
«Circe?»
«Esatto. Ricordi ieri sera, quando ci ha parlato? Ricordo che
aveva detto qualcosa riguardo all’attuale incapacità per
noi umani di praticare riti alchemici e magici. Poi ha detto di volermi
fare un dono... e ha pronunciato una parola strana,
incomprensibile...» spiegò la ragazza.
Anche se durante la conversazione con Circe non era molto in sé,
ricordava quell’ultima parte del discorso con chiarezza.
«Stai cercando di dire che ti ha in qualche modo... capacitata di fare queste cose?»
«Circe era una grande maga dell’antica Grecia. Non mi sorprenderei se sapesse fare certe cose» ammise Erika.
«Okay, quindi ipotizziamo che Circe ti abbia dato dei
“poteri”. Di che cosa, probabilmente, saresti capace
adesso?»
«Intanto posso praticare l’Alchimia. Per altre cose, penso
che dovrò arrivarci per scoprirlo - rispose la ragazza -
Comunque, meglio non lambiccarsi su questo per ora: dobbiamo cercare il
misterioso ladro della piramide»
«Già, hai ragione».
E qui terminarono la conversazione, pochi minuti prima che Alan frenasse davanti al cancello del cimitero.
Scesero e si avviarono verso l’ingresso del camposanto.
Erika precedeva suo padre a grandi passi, ansiosa di togliersi al più presto quei vestiti sporchi. Poi...
«Ahn...!».
L’esclamazione strozzata di Alan attirò immediatamente la
sua attenzione, facendola voltare: altri due tizi, due gemelli che non
aveva mai visto prima di allora, alti e vestiti completamente di nero,
tenevano suo padre immobilizzato, in ginocchio a terra, il viso rivolto
al suolo.
Alla luce di un lampione poco distante riuscì a distinguere i
tratti somatici dei due misteriosi aggressori: carnagione abbronzata,
capelli e sopracciglia folte e nerissime, come le iridi. Le labbra
erano sottili e piatte, prive d’espressione.
La cosa che però attirò di più la sua attenzione,
era il fatto che le loro mani fossero circondate di luce, quelle di uno
rossa e guizzante come il fuoco, quelle dell’altro azzurra e
spumeggiante come l’acqua.
Chi diavolo erano quei tizi?
La ragazza si volse completamente verso di loro, decisa a fronteggiarli.
«Non provarci, ragazzina» sibilò uno dei due con una voce raccapricciante, quasi ultraterrena.
«Non vuoi che tuo padre soffra, vero?» minacciò l’altro, con voce simile a quella del primo.
Lei rimase immobile, digrignando i denti: avevano ragione. Per quanto
avesse potuto fare, loro erano due uomini adulti e muscolosi e lei solo
una smilza ragazzina. Non aveva chance.
«Chi siete? Cosa volete?»
«Chi siamo non deve importarti»
«Ma sai cosa vogliamo».
Si strinse a sé la tracolla: se volevano il libro, avrebbero
dovuto prima riuscire a strapparlo dalle sue fredde mani morte.
Vide un sorriso balenare sul viso dell’uomo con le mani circondate d’aura rossa.
«No, non si tratta di quello stupido libretto inutile. Noi vogliamo te».
Lo disse in modo estremamente inquietante e minaccioso.
Fissò suo padre con un misto di paura e apprensione.
«N-non farlo, Erika... ci uccider... anno comunque...» esalò.
L’uomo dall’energia azzurra gli diede un calcio nel fianco
abbastanza forte da strappargli un gemito di dolore e farlo ricrollare
con il viso verso il suolo.
«Sta’ zitto. È il Contatto che deve scegliere, non tu!» minacciò l’aguzzino.
«Allora, che cosa vuoi fare? Ci seguirai in silenzio... o
assisterai alla fine di tuo padre? A te la scelta» riprese
l’altro, fissandola con uno sguardo insanamente malvagio e
scaltro.
Suo padre alzò debolmente il viso verso di lei. Nei suoi occhi
si dibatteva il dolore, ma anche una supplica chiara e ben leggibile:
“Non pensare a me, Erika, scappa”.
Serrò i pugni lungo i fianchi, quindi corrugò lo sguardo in uno risoluto e serio.
«Va bene. Verrò con voi, ma non osate torcere un solo
capello a mio padre» rispose, quindi camminò verso di loro.
«Scelta giusta. Non preoccuparti: non gli faremo niente...» replicò l’uomo dall’energia rossa.
Dal suo tono di voce, però, trasparivano intenti esattamente contrari.
Angolino autrice
°____° stramega ritardo, chiedo umilmente scusa a tutti quanti - anche per l'assurda brevità del capitolo.
Don't hit me, please.
Anyway, ringrazio Sachi Mitsuki e xXxNekoChanxXx per le recensioni allo scorso capitolo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 8 *** Nell'ombra della prigionia ***
8_Nell'ombra della prigionia
Erika continuava a
stropicciarsi nervosamente un lembo della canottiera sporca e sudata,
mentre i suoi occhi si posavano su suo padre: l’uomo
dall’aura azzurra lo teneva saldamente immobilizzato per le
braccia in una posizione che doveva senz’altro essere
dolorosissima anche per un redivivo come lui, costretto a camminare a
capo chino e rapidamente, ignorando - o tentando di ignorare - il
dolore alle braccia.
Razza di infami! Avevano detto che non gli avrebbero fatto del male! sibilò tra sé, profondamente arrabbiata.
L’ira le fluiva e
rifluiva dentro, come magma incandescente, pronto ad eruttare da un
momento all’altro. Voleva dimostrare loro quanto quella
“ragazzina” potesse diventare pericolosa, quanto la rabbia
potesse trasformarla in una macchina capace di far loro rimpiangere di
essere nati; quanto quel sentimento che si agitava e si dibatteva
ferocemente dentro di lei come un leone in gabbia riuscisse a darle la
forza necessaria ad affrontarli.
Ribolliva silenziosamente
di furia repressa, pazientando fino al momento in cui avrebbe potuto
fargliela vedere. Dentro di sé, sentiva che quel momento non era
poi così lontano.
I due uomini misteriosi li scortarono fino alla loro vettura, parcheggiata non troppo distante dall’ingresso del cimitero.
Quello con l’aura rossa le aprì la portiera posteriore, invitandola col silenzio ad entrare.
Ma mentre chinava la testa
per sistemarsi nell’abitacolo, sentì un’esclamazione
sofferente da parte di suo padre, che la spinse a voltarsi di scatto:
l’uomo provvisto d’energia azzurra aveva lasciato cadere
Alan sul marciapiede. Lo vide assestargli un poderoso calcio nello
stomaco, mozzandogli di netto il fiato, per poi alzare lo sguardo sulla
macchina.
Solo allora Erika capì che sarebbe rimasta sola.
«Papà!
PAPÀ!!!» urlò, facendo per tornare indietro, ma
ambedue i gemelli si gettarono su di lei e la misero a tacere con un
colpo ben piazzato dietro la nuca.
Alan rialzò il capo
in tempo per vedere i suoi aggressori scaraventare il corpo di sua
figlia sui sedili posteriori e chiudere con un colpo secco la portiera
dietro di lei.
«Erika...» sussurrò, disperato.
Mentre si protendeva verso lo sportello, vide l’ombra dell’uomo dall’aura rossa avvicinarsi a lui.
«Non provarci
nemmeno, redivivo» sibilò, quindi abbatté un colpo
violento sul braccio che aveva proteso verso la macchina. L’arto
ricadde a terra, inerte.
Un grido di dolore tracimò dalle labbra di Alan, che si chinò e raccolse il braccio spezzato.
L’auto partì
sgommando nell’istante in cui rialzava il capo, deciso ad
ignorare il dolore per aiutare la sua bambina.
«Erika!
ERIKAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!!» chiamò, guardando impotente
l’auto che si allontanava velocemente, sparendo nella pioggia.
Batté un pugno sul
marciapiede sotto di lui e si chinò su di esso, piangendo:
l’aveva persa. Non aveva fatto niente per salvarla, proteggerla.
E ora la sua Erika non era più con lui, ma in balia di quelle bestie.
L’acqua picchiettava
sulla sua schiena e sulla sua testa, scivolando lungo i suoi capelli e
unendosi alle sua lacrime di dolore.
Non sapeva dove la stavano
portando. Non sapeva chi fossero. Aveva però un’idea di
quel che volessero fare ad Erika, e ciò non faceva altro che
aumentare esponenzialmente la sua voglia di trovarli e fargliela
pagare, sfogare tutta la sua nuova forza sui loro corpi, massacrarli
finché non avessero esalato il loro ultimo respiro.
Ma non avrebbe potuto farlo, non avrebbe potuto togliersi quello sfizio né salvare sua figlia.
Era davvero giunto al capolinea? Di già?
Una macchina frenò bruscamente davanti a lui, il quale alzò gli occhi su di essa: chi poteva essere...?
Una figura scese e gli si avvicinò.
«Come ti senti?» chiese una voce maschile a lui sconosciuta.
Si impegnò a
scrutare, attraverso la coltre di dolore e pioggia, il viso del suo
ignoto soccorritore, scoprendo i tratti del volto di un ragazzo: aveva
gli occhi neri, capelli corti dello stesso colore e appiattiti sul capo
dalla pioggia scrosciante; i delicati lineamenti del suo viso erano
contratti in un’espressione adulta e seria, minata di
preoccupazione.
Aveva un’aria vagamente familiare, anche se non riusciva a capire o ricordare dove l’avesse già incontrato.
Chi diavolo è questo ragazzo?
Prima che potesse formulare
una domanda - o una risposta - il moretto gli prese il braccio rotto,
strappandogli un gemito di dolore.
«È fratturato» asserì, poi riportò gli occhi su di lui.
«Andiamo. So dove hanno portato la ragazza» disse, lasciando Alan totalmente di sasso: lui... lo sapeva?!
Il redivivo si lasciò cingere e sollevare, quindi si lasciò trasportare fino all’interno della sua macchina.
Non appena
all’interno, il giovane mise in moto e partì a tutta
velocità. Mentre viaggiavano, Alan non riuscì a soffocare
la domanda: «Come ti chiami?».
Notò un bagliore
ilare brillare nello sguardo del suo interlocutore, prima che, con un
mezzo sorriso, rispondesse: «Marcus».
Al suo risveglio, la prima
cosa che Erika avvertì fu un sordo e pulsante dolore alla nuca.
Non capiva dov’era perché, benché avesse aperto gli
occhi, era tutto buio attorno a lei.
Mi avranno bendata... commentò tra sé, affatto entusiasta.
In quell’istante,
tutto quello che era accaduto le riapparì nitidamente davanti
agli occhi: i due aggressori avevano gettato suo padre sul marciapiede
e l’avevano privata dei sensi.
Maledetti...! Che cosa vorranno mai da me? si chiese, irritata.
Era a terra e le mani erano
legate dietro la schiena. Iniziò a muoversi, cercando di
liberarsi, ma avvertì quasi subito il dolore alla nuca farsi
più forte, costringendola a rimanere ferma.
Dannazione! Che cosa mi hanno fatto?!
«Ehi, Luke... la mocciosa si è svegliata!».
Era uno dei due, ed era incredibilmente vicino.
«Strano... con quella botta dietro la nuca sarebbe dovuta rimanere priva di coscienza ancora per un po’...»
«Allora, che faccio?»
«Che cosa vuoi fare,
Ted? Tienila d’occhio e assicurati che non si liberi! Il capo
è stato chiaro: dobbiamo consegnargliela viva».
Il capo... ripeté tra sé e sé Erika ... che sia la stessa persona che c’era nel retrobottega della signorina Penelope? Quello stregone...?
Ricordò le parole
che aveva pronunziato quando era arrivato nel negozio: aveva ordinato
ai suoi uomini di catturarla senza farle del male.
Sì, con ogni probabilità questi due sono altri scagnozzi di quello stregone... concluse infine Erika.
Però, non poteva lasciare che la catturasse senza opporre resistenza.
Devo
riuscire a liberarmi! Mio padre mi aspetta! Non posso abbandonarlo, non
voglio! Non devo essere un peso per lui! Devo aiutarlo a riprendere
quella piramide, ma come faccio?! Mi sento la testa... a pezzi... mi fa
male... che cosa mi hanno fatto?
«Ehi, ragazzina...! Smettila di muoverti tanto!» esclamò Ted.
Erika si piegò quando sentì un calcio arrivarle direttamente nello stomaco.
Digrignò i denti e serrò la mascella.
Se solo fossi libera... gliela farei vedere io...!
Non si arrese: continuò ad agitare le mani, cercando di farle sgusciare fuori dalla stoffa che avevano usato per legarla.
«Arrenditi, piccola mocciosa! Non ce la farai mai a liberarti!».
Stavolta il colpo le fu inferto al fianco, con un calcio tale da farla girare supina.
Le braccia le facevano male per la posizione assolutamente scomoda, oltretutto adesso schiacciate dal peso del resto del corpo.
Mugolò, cercando di
rimettersi su un fianco, ma il suo aguzzino le premette un piede sulla
pancia, schiacciandola sulle braccia.
«Ahah... e adesso che cosa fai, mocciosa, eh?» la schernì in tono tagliente.
A sorpresa, Erika
scoprì che poteva far toccare le mani tra loro, anche se con un
po’ di fatica. Il dolore e la paura di non poter vedere
più suo padre e di deluderlo iniziarono a far lavorare
febbrilmente il suo cervello.
Prima che l’uomo che
l’aveva picchiata potesse far qualcosa, o rendersi comunque conto
di quel che stava facendo, la ragazza fece toccare i palmi delle mani,
autoinfliggendosi un forte dolore alle articolazioni, quindi fece in
modo che le dita sfiorassero il terreno.
Riuscì a percepire
del calore vicino a lei e qualcosa sfrigolarle contro il braccio, segno
che lì doveva esserci la bolla d’energia rossa - come
l’aveva definita suo padre.
Non riuscì a vedere
se aveva colpito il bersaglio, né con cosa l’avesse
colpito, ma sperava proprio che la sua Alchimia funzionasse ugualmente
anche se non riusciva a visualizzare l’obiettivo.
A giudicare dal grugnito e dal piede sollevato dal suo stomaco, pareva di sì.
«Piccola
str...!» esordì, ma la sua imprecazione fu soffocata da un
boato assordante, il rumore di un muro che veniva abbattuto.
«Cosa cazzo succede?!» sentì gridare più lontano.
Erika udì dei passi di corsa allontanarsi da lei e rumori di lotta più lontano.
«ERIKA!».
La ragazza sussultò: era la voce di suo padre.
Era venuto a salvarla!
Si sentì immensamente sollevata e rincuorata, pensando che suo padre era attorno a lei, da qualche parte.
Cercò ancora di
divincolarsi, agitandosi, riuscendo solo a mettersi su un fianco. Era
comunque un qualche progresso: almeno le braccia non erano più
costrette a sopportare il peso del resto del corpo.
«Papà!
Papà!» chiamò: non sapeva se era in vista o no,
così sperava che almeno seguendo la sua voce l’avrebbe
trovata.
«Papà!!!»
«Tuo padre sta tenendo a bada quei due laggiù...».
Di chi era quella voce? Era maschile, giovane e profonda, ma non l’aveva mai sentita prima di allora.
Sentì delle mani
scivolarle dietro la schiena e armeggiare con la stoffa che le
imprigionava i polsi, quindi il suo misterioso salvatore passò
alla benda sugli occhi.
Quando la tolse, finalmente
il mondo riapparve attorno ad Erika, anche se orribilmente sfocato a
causa della mancanza dei suoi occhiali, finiti chissà dove.
Riusciva a distinguere
delle pareti grigio metallico, e dei cumuli di grosse scatole di legno
intorno a lei. In lontananza, alla sua destra, scorse una macchia
più scura, forse un’automobile. Maledisse tra sé e
sé i suoi rapitori: senza gli occhiali, non era buona a niente.
Era già tanto se riusciva a camminare senza inciampare in
qualcosa.
Comunque, la probabile auto era quella con cui, quasi sicuramente, suo padre e il suo soccorritore erano arrivati.
A proposito del soccorritore...
La giovane Reagh si
voltò, incrociando finalmente l’immagine del misterioso
ragazzo che l’aveva liberata. Grazie al cielo era abbastanza
vicino perché riuscisse a vederlo in modo abbastanza nitido:
aveva i capelli neri e spettinati, occhi dello stesso colore,
carnagione pallida ed era magrolino.
Be’, è già tanto che riesca a vedere questo... commentò tra sé.
«Chi sei?» chiese subito dopo, assumendo un cipiglio perplesso.
«Ah, scusami, io sono Marcus. Tu devi essere...?»
«Ha-hai detto “Marcus”?!» scattò immediatamente la ragazza.
Lui si ritrasse un po’, stupito di una reazione del genere.
«S-sì... perché?».
No, non è questo il momento di chiedergli del libro: papà è in pericolo...!
«Ho bisogno della mia
tracolla e degli occhiali! Vai ad aiutare papà, mentre cerco qui
intorno!» disse lei, abbassando gli occhi.
Era stupido da parte sua
anche il solo pensare di riuscire a trovare le sue cose in quel posto a
lei completamente sconosciuto, oltretutto senza vederci ad un palmo dal
naso.
Accidenti alla mia dannata miopia! sbottò in silenzio, contrariata.
«Ah, penso allora che siano tue queste cose...».
Marcus le porse una borsa nera e un paio di occhiali.
Inforcando questi ultimi,
la ragazza sbatté più volte le palpebre: finalmente
vedeva di nuovo! Ora riusciva a distinguere nitidamente Marcus e,
soprattutto, cosa aveva intorno!
Ad una seconda occhiata -
finalmente data con un minimo di consapevolezza - riuscì a
capire che erano in un capannone in lamiera di quelli utilizzati per
conservare le merci in attesa di essere imbarcate.
Senza perdere neppure un
istante, Erika si rialzò in piedi, ma barcollò subito e
fu solo grazie al pronto intervento del suo salvatore che non ricadde a
terra.
«Attenta: sei ferita
alla testa. È meglio se non cammini da sola» la
ammonì dolcemente il moro, fissandola intensamente negli occhi,
grandi pozzi di nera pece in cui la Reagh si perse.
I suoi occhi sono... così belli...!
«Ah, non pensare a
me! Vai ad aiutare mio padre, ti prego!» esclamò, rossa in
viso, scostandosi da lui e appoggiandosi a degli scatoloni situati alle
sue spalle.
In quel momento, con un
grido di dolore, uno dei due gemelli volò sopra di loro,
atterrando sopra un cumulo di scatole in lontananza, fracassandole.
«Be’, non
sembra abbia bisogno di aiuto...» commentò Marcus, stupito
da una tale dimostrazione di forza.
Alan fece il suo ingresso
in scena in quel preciso istante a passi pesanti, le mani contratte
come da uno spasmo convulso d’ira, lo sguardo acceso d’una
furia selvaggia.
«Brutto stronzo...
non credere di passarla liscia così, dopo avermi strappato la
mia bambina!!!» sibilò.
«Sembra che ti sia molto affezionato...» osservò il giovane al fianco di Erika.
«Eh-eh...
già...» disse semplicemente quest’ultima, senza fare
a meno di apparire un po’ imbarazzata, anche se dentro di
sé era felice di una reazione così esagerata da parte di
suo padre.
Era certa che, se ne avesse avuto la possibilità, lui sarebbe riuscito a riversare in onde concrete la sua stessa ira.
«Papà, perché non ce ne andiamo?» lo chiamò la ragazza.
«Eh? - fece lui, voltandosi - Erika!» esclamò, sgranando gli occhi nel vederla.
Le corse incontro e la strinse a sé in un abbraccio stritolatore.
«Sono così
contento di rivederti! Stai bene?» chiese, prendendole fra le
mani il viso per guardarla dritta negli occhi.
«È ferita alla
testa e non si regge in piedi molto bene... per il resto è
okay...» rispose Marcus al posto suo.
La ragazza sentì i
muscoli dell’uomo contrarsi in modo repentino a quella risposta e
seppe che i suoi rapitori stavano per finire male.
Alan fece per rialzarsi, ma lei lo trattenne.
«No, papà
andiamocene. Prima parlavano di consegnarmi al loro capo e non voglio
che ci trovi qui quando arriverà... non voglio che ti faccia del
male per me» disse lei, cercando di assumere un tono sincero.
In realtà, non
voleva vederlo diventare un aguzzino, ma se gliel’avesse detto
era certa che non avrebbe comunque rinunciato a vendicarsi dei due
gemelli.
Vide l’indecisione accendere il suo sguardo, poi lo sentì mormorare: «Tsk! Va bene, andiamo».
Prima che lei potesse dire o fare qualcosa, si ritrovò in grembo a suo padre.
«Allora, Marcus... già che ci hai aiutato con questi... hai anche un posto dove poter andare?»
«Penso che prima
dovreste tornare al cimitero e prendere quel che avete lasciato
là: non è saggio lasciare dei vostri oggetti in giro,
soprattutto quando avete a che fare con questo genere di gente.
Comunque, vi porterò in un posto più sicuro: ora che
sanno dove vi nascondevate, è pericoloso per voi rimanere
lì» rispose il ragazzo, avviandosi verso la porta.
«Come ce ne andiamo?
Voglio dire... l’auto è distrutta»
commentò Erika, perplessa, aggrappandosi stretta alla maglietta
di suo padre.
Il moretto volse il busto
verso di lei, inchiodandola con uno sguardo bellissimo e malizioso. Da
una tasca dei suoi stretti jeans neri estrasse una chiave.
«A quei due dev’essergli caduta sulla scrivania laggiù per sbaglio...» esclamò, in tono scaltro, quindi riprese a camminare.
Erika rimase ad osservarlo, folgorata, mentre suo padre la portava fuori.
Angolino autrice
Sono in orribile, schifoso ritardo
°____° non so davvero come scusarmi ç__ç sono
incasinata un sacco, per di più è periodo di compiti e il
pc è un lusso che mi permetto un giorno sì e tre no
ç____ç è una tristezza infinita... bei tempi,
l'estate <3
Anyway, ringrazio Sachi Mitsuki per la recensione allo scorso capitolo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 9 *** A casa di Marcus ***
9_A casa di Marcus
La macchina dei rapitori era
parcheggiata proprio di fronte alla porta. Con la chiave che erano
riusciti a sottrarre loro non fu affatto difficile aprire gli sportelli
e salire.
Erika fu adagiata con delicatezza infinita sui sedili posteriori, mentre i due uomini occupavano i sedili anteriori.
Marcus era davvero bravo a guidare persino un’automobile che non
aveva mai visto prima d’allora: la sua postura dritta e
l’assoluta padronanza di sé, per non parlare di quel
charme particolare tutto suo, facevano di lui un soggetto interessante
sotto molti punti di vista per Erika, che lo scrutava di sottecchi dal
retro del veicolo.
È anche davvero carino...!
si ritrovò a commentare mentalmente, sperando che suo padre, che
stava seduto a braccia incrociate e con un’espressione non
precisamente rilassata, non avesse pure poteri telepatici inclusi nel
pacchetto “capacità redivivi”.
«Marcus, perché hai voluto aiutarci? Non ti abbiamo mai
visto da nessuna parte...» indagò Alan, spostando lo
sguardo dalla strada al guidatore.
Questo replicò tranquillo: «Non è vero».
«Come sarebbe a dire “non è vero”?»
«Semplice - disse il moro, scrollando lievemente le spalle -
Perché io e te ci siamo già visti... un po’ di
tempo fa».
Erika passò lo sguardo dall’uno all’altro,
perplessa: sembrava che suo padre non stesse capendo granché di
quello che Marcus gli stava dicendo - per non dire niente - mentre
invece il giovane sembrava solo annoiato di dovere delle spiegazioni.
Un’accoppiata unica.
«Se ci siamo già visti, perché non mi ricordo di te, eh?» sbottò Alan, un po’ irritato.
«Semplice: perché io sono sparito davanti a te... mentre quei due scagnozzi ti stavano pestando».
Cadde un silenzio lugubre, estremamente sgradevole. Erika si prese
qualche minuto per riflettere su quella frase, mentre sul viso di suo
padre si dipingeva lentamente l’espressione di chi solo in quel
momento capisce tutto.
Ma nella mente della ragazza il ricordo di parole diverse ma col
medesimo significato riaffioravano con una facilità
impressionante, anche perché non erano così lontane nel
tempo: “... alla fine sono
riusciti a prendere me e la piramide, circa tre anni fa. Mi pestarono a
sangue, cercando di convincermi ad aiutarli. Sfortunatamente per loro,
qualcuno o qualcosa... è arrivato in mio soccorso... ricordo di
averlo visto svanire in un turbinio di piume nere...”.
Era... era...?
«Eri tu quello che mi ha preso la piramide, quella volta?!».
Alan diede voce all’interrogativo che ronzava nella testa della
figlia con un tono pieno di vivo sconcerto che, a quanto parve, non
intaccò per niente la tranquillità di Marcus, il quale -
contrariamente ad ogni possibile aspettativa - sorrise.
«Esatto» disse semplicemente, lasciando gli altri due completamente di stucco.
«C-CHE COSA?!?!» inveì il redivivo, improvvisamente conscio di chi avesse accanto.
«Perché tanta sorpresa?» domandò il ragazzo in tono innocente.
Erika si gettò con irruenza tra i due sedili.
«Significa che tu hai la piram... ahn...!».
Con un gemito, la ragazza ricadde pesantemente all’indietro, abbandonando il capo contro il poggiatesta con sollievo.
«Ehi, piano te! Sei ferita, non sballottarti tanto» l’ammonì Marcus senza girarsi.
«Ha ragione, Erika, non...»
«Non cambiamo discorso! - esclamò lei, stavolta senza tirarsi avanti - Marcus, hai te la piramide?» chiese.
L’attenzione di Alan si unì a quella della figlia e
ambedue si concentrarono sul ragazzo, il quale tacque per qualche
minuto, poi disse: «L’avevo io».
«Come l’avevi?! E ora dove...»
«Vi spiegherò tutto dopo, a casa mia, okay? Adesso vai a
prendere un cambio per tua figlia. Ti aspettiamo qui»
tagliò corto il moro, fermandosi davanti al cancello del
cimitero.
L’uomo rimase dov’era alcuni momenti, guardando la figlia,
che sbuffò: «Vai papà, tranquillo. Non mi mangia
mica!».
Senza rispondere, lanciò un’occhiata d’avvertimento
al giovane accanto a lui ed aprì con un gesto seccato lo
sportello, quindi scese e se lo chiuse alle spalle con una botta.
«Non sembra fidarsi molto di me...» rifletté Marcus ad alta voce.
«Ha appena scoperto che sei tu quello che gli ha sottratto la
piramide... mi sembra comprensibile» intervenne Erika, osservando
il profilo di suo padre che si inoltrava tra le lapidi.
«Potrebbe prenderla con un po’ di filosofia. Insomma, avevo
le mani legate!» commentò subito dopo il moro, un
po’ indignato, voltandosi finalmente verso la ragazza.
A sorpresa, si sporse verso di lei, estraendo un fazzoletto di stoffa dalla tasca.
«C-che fai?» domandò Erika, al colmo
dell’imbarazzo, mentre il giovane si faceva strada attraverso il
varco tra i due sedili e si posizionava accanto a lei.
Gli occhiali le scivolarono fin sulla punta del naso e lui,
gentilmente, li riportò al loro posto con un mezzo sorriso sulle
labbra.
«Tranquilla, non voglio farti del male».
Prima che lei potesse replicare, le pose il fazzoletto sulla nuca,
sfiorandole un punto preciso. A quel contatto, mandò un gemito
di dolore.
Marcus ritrasse il fazzoletto e glielo mostrò. Con orrore, Erika
vide che il proprio sangue aveva sporcato la stoffa immacolata. Fece
per portarsi la mano dietro la testa, ma lui glielo impedì.
«Meglio non toccarla tanto: potrebbe infettarsi. Girati, per
piacere, cosicché possa almeno farti una medicazione
provvisoria...» la invitò lui con una voce calda e
suadente che la fece obbedire all’istante.
Diede la schiena al giovane e piegò in avanti la testa, non
senza avvertire un po’ di dolore, quindi sentì le sue mani
trafficare con la coda.
Sentì i capelli staccarsi dal sangue che le si era evidentemente
raggrumato sulla nuca, quindi scansare il tutto sulla spalla destra, in
modo da avere la ferita libera e medicabile.
Vi passò delicatamente il panno ed Erika avvertì la
sgradevolissima sensazione di qualcosa di appiccicoso e ormai secco che
veniva smosso per essere pulito. Cercò di non visualizzare
mentalmente che cosa stesse facendo Marcus, ma di pensare invece a cosa
dovevano fare adesso. Purtroppo, era pressocché impossibile, per
lei, pianificare qualcosa: doveva aspettare che il giovane le fornisse
qualche delucidazione sulla piramide, prima di poter ideare qualcosa.
Spero che non ci si stia invischiando in qualcos’altro di pericoloso... pensò in un primo momento, poi rise tra sé e aggiunse: ma
chi cerco di prendere in giro! Tutto questo è pericoloso, per
cui non vedo come in futuro la situazione possa migliorare! Siamo
braccati come fuggiaschi, messi alle strette da una banda capeggiata da
uno stregone e dobbiamo recuperare un manufatto dagli incredibili
poteri sovrannaturali.
Se non è questa un’avventura pericolosa, allora vorrei proprio vedere cosa lo sia...!
Sentì le mani di Marcus passarle lungo i lati del collo,
unendosi sulla sua giugulare, spezzando il filo dei suoi pensieri.
Lo sentì annodare qualcosa e la stoffa del suo fazzoletto si
strinse sulla sua pelle, anche se non tanto da farla soffocare.
«Ecco, così si dovrebbe arginare almeno un po’ la
perdita di sangue...» osservò Marcus, il tono compiaciuto,
probabilmente per il suo buon lavoro di medico.
«Mmmh? Sta tornando tuo padre, meglio che non mi faccia trovare
qui accanto a te...» aggiunse subito dopo, infilandosi di nuovo
tra i sedili, rimettendosi al posto di guida, assumendo rapidamente una
posa e un’espressione d’annoiata attesa.
Ottimo attore...
constatò Erika nel notare che suo padre, arrivato proprio in
quel momento, non aveva neppure sospettato che stesse fingendo: si era
limitato a fare il giro dell’auto e salire dalla parte del
passeggero, allungando alla figlia la busta con i viveri e la giacca
con cui lui l’aveva coperta durante la notte passata. Parve non
accorgersi minimamente neanche della fasciatura attorno al suo collo.
Marcus riaccese il motore e partì.
«Sarà un viaggio un po’ lunghino: non abito esattamente in città. Erika... forse è meglio se riposi un po’» suggerì il ragazzo.
Avrebbe voluto contraddirlo, ma la stanchezza le opprimeva i muscoli e le palpebre erano pesanti.
Assentì debolmente col capo, quindi si addossò contro il
sedile e si lasciò avvolgere dal caldo e confortevole abbraccio
di Morfeo.
«Erika... siamo arrivati».
La tenera voce di suo padre la ridestò dal suo sonno.
Sbatté le palpebre, confusa, fissando gli occhi dell’uomo
chino su di lei, che le prese la mano e la condusse fuori della vettura.
Appena uscita dall’abitacolo un freddo pungente le vibrò attorno, facendola tremare e svegliandola completamente.
Si guardò intorno con rinnovata consapevolezza, sistemandosi gli
occhiali sul naso: le sfumature crepuscolari striavano il cielo, segno
che avevano viaggiato per tutto il pomeriggio. Adesso si trovavano in
uno spiazzo completamente vuoto, pavimentato da mattonelle vecchie e
screpolate posizionate a formare una figura circolare.
Dinanzi a lei c’era un grosso cancello scuro, spalancato, in
metallo massiccio e con punte che correvano sulla sommità. Ai
due lati s’innalzavano due pilastri sopra i quali si trovavano
due grossi corvi con le ali spiegate come a spiccare il volo.
Mettevano i brividi.
Marcus era davanti al cancello e la sua posizione a dir poco statuaria
le mozzò il fiato: gambe lievemente divaricate, il busto girato
per metà nella sua direzione e il viso rivolto a lei, lo sguardo
pieno di mite affetto e un ciuffo che, trasportato dal vento, gli
copriva la pupilla destra.
In una parola: bellissimo.
«Andiamo» li esortò, avviandosi.
«Di’ un po’, non è che anche te ti stai
nascondendo da qualcuno?» chiese Alan in tono sarcastico e di
rimprovero.
«Se fosse così non vi ci porterei» replicò il moro, senza voltarsi.
«A meno che tu non stia dalla loro parte».
A quel punto, Marcus si volse, lo sguardo di ghiaccio.
«Non avrei avuto motivo di salvarvi se stessi dalla loro. Comunque, siete liberi di andarvene»
«Papà, ti prego dagli un poco di fiducia» intervenne
Erika, prendendo il braccio del padre con dolcezza e fissandolo
supplichevole.
Lui si sottrasse alla presa della ragazza e girò con stizza il viso dall’altra parte.
«Tsk! Va bene» esclamò, precedendo la figlia.
Quest’ultima sorrise e si avviò in coda al terzetto,
procedendo a passo lento per evitare che la testa le pulsasse in modo
eccessivamente doloroso.
Le lapidi lì erano decisamente più grandi di quelle del
cimitero cittadino ed anche infinitamente più pregiate.
Una ritraeva addirittura un angelo disteso sulla base della scultura,
una mano sul petto, morente. Il viso era così preciso e delicato
da apparire quasi vero. Se da un momento all’altro l’avesse
sentito esalare l’ultimo respiro, non se ne sarebbe affatto
sorpresa.
Poco più in là notò una lapide statuaria che
ritraeva una donna con un indosso un lungo vestito che ondeggiava, come
i lunghissimi capelli, in una brezza inesistente.
Tutte le statue in quel luogo avevano qualcosa che le rendeva quasi
vive, figure a fermo immagine che avevano catturato in un flash
l’attimo fuggente della vita di un’anonima creatura.
Per quanto fossero lugubri, non poteva negarne l’incredibile bellezza.
Per quanto fossero meravigliose, non poteva contestarne le apparenze funeree.
«Eccoci, siamo arrivati».
La voce di Marcus attirò il suo sguardo su di lui: era fermo
davanti a quello che sembrava a tutti gli effetti un mausoleo,
abbastanza vecchio, ma anche bello.
Le mura erano ricoperte da rampicanti neri che vi tracciavano oscure
trame piene di mistero; sopra l’entrata c’era un grande
rosone del quale non si riusciva bene a distinguere la decorazione e la
porta...
Erika si perse nell’osservare le rose rampicanti in ferro battuto
che costituivano il cancello d’ingresso e le minuziose
cesellature dei fiori che componevano i petali, dando all’opera
qualcosa di inspiegabilmente vivo.
«Vivi in un mausoleo...?» domandò Alan, curvando le
spalle come schiacciato improvvisamente dal peso della sua delusione.
L’espressione che gli si dipinse in viso fece increspare le
labbra di Marcus: il suo modo d’esprimere perplessità era
esilarante.
«È... è... bellissimo!»
commentò invece Erika, avvicinandosi ulteriormente, negli occhi
una scintilla di profonda ammirazione che pareva accentuata dalle lenti
degli occhiali.
Era così presa dalla struttura che non vide neppure la buca in cui inciampò.
«Ah, Erika!» esclamò suo padre, protendendosi verso
di lei, ma non ci fu bisogno del suo intervento, perché il
ragazzo l’aveva già afferrata e rimessa in piedi,
tenendole una mano su un fianco e l’altra intrecciata con la sua.
«Devi stare attenta...» le disse dolcemente.
Nel vedere lo sguardo adorante e imbarazzato di sua figlia un
sentimento nero che non provava da quand’era ragazzo trafisse il
cuore di Alan come migliaia d’aghi venefici.
Strinse i pugni e contrasse i muscoli, cercando di contenersi, mentre i
due si scambiavano un ultima fugace occhiata prima di separarsi.
Lo odiava. Non riusciva a non farlo: si sentiva di troppo, inutile, e a lui non piaceva sentirsi inutile.
Marcus precedette la ragazza all’interno e quest’ultima fu
superata da suo padre, che le rivolse solo un’occhiata di sbieco,
che le fu però sufficiente a capire che qualcosa non andava: nei
suoi occhi c’era un gelo profondo.
Qualcosa lo turba... si disse, quindi lo seguì: appena ne avesse avuta l’occasione, gli avrebbe chiesto spiegazioni in merito.
Varcata la soglia, si ritrovarono in una stanza spoglia - senza contare
i feretri che occupavano gli anfratti delle pareti - in fondo alla
quale si trovava un altro piccolo cancello, anche se questo era tenuto
chiuso da un lucchetto.
Marcus armeggiò con quest’ultimo per qualche secondo,
riuscendo ad aprirlo, spalancando il cancello con un cigolio di
cardini, quindi si fece da parte per lasciar passare i suoi due ospiti,
i quali s’addentrarono senza tante cerimonie.
Si attardò a richiudere il cancello, non fosse mai che qualche
visitatore inatteso li cogliesse impreparati, quindi raggiunse padre e
figlia e si rimise in testa.
Scesero una lunga scalinata senza farsi scappare nemmeno un sospiro,
niente: vuoto silenzio che appesantiva l’aria come una cappa di
piombo. Il cunicolo era in penombra e solo verso la fine, quando le
scale terminavano in favore di un corridoio, iniziarono a vedersi
alcune fiaccole ad illuminare decentemente il passaggio.
Erika ringraziò silenziosamente quei mozziconi di legna da
ardere: anche se aveva una certa dimestichezza con la visione al buio,
aveva paura di metter male un piede e rompersi il collo rotolando
giù per le scale, o di inciampare di nuovo.
D’un tratto notò un alone di luce dorata stagliarsi in fondo al cunicolo. Dovevano essere quasi arrivati.
Il corridoio si aprì poco dopo in una sorta di grotta scavata
nella pietra e arredata rozzamente in modo da farla almeno lontanamente
somigliare ad un appartamento.
C’erano dei piedistalli addossati contro le pareti che reggevano
grossi ceri accesi e gocciolanti, che fornivano una tremolante
illuminazione all’ambiente. In un angolo, su un piccolo materasso
tutt’altro che in buono stato, era abbandonata una coperta
logora. C’erano diverse pile di libri accumulate in un angolo, e
volumi sparsi un po’ ovunque.
Dappertutto regnava una povertà che rasentava la miseria,
nonostante Marcus ci tenesse a vestirsi in modo carino, tutto sommato.
Forse un po’ tenebroso, con quei jeans scuri e la felpa nera, ma
l’aspetto era curato.
«Perdonate il disordine...» esclamò, raccogliendo un
po’ di libri e mettendoli uno sopra l’altro assieme agli
altri.
Fece loro cenno di accomodarsi sul pavimento appena liberato, dove gettò un paio di vecchi cuscini.
«Ora... dove avrò messo il disinfettante...?»
rifletté a voce alta, mettendosi le mani sui fianchi e studiando
il caos attorno a sé.
Erika non riuscì a trattenere un sorriso: era buffo così.
Il ragazzo si chinò a frugare in quel macello.
«Ah, eccolo!» disse dopo un po’ riemergendo con una
bottiglietta violacea e un pacchetto di batuffoli di cotone, forse
l’unica cosa pulita e ben tenuta in tutto quel minuscolo
appartamento.
«Tu vivi qui sul serio?» chiese Alan, nella voce una ben
percepibile nota di perplessità e anche un po’ di ironia.
«Sì. Non è proprio una casa a cinque stelle,
però è confortevole... e soprattutto isolata. Nessuno si
è mai accorto di me» disse Marcus, quindi porse
disinfettante e batuffoli all’uomo.
«Immagino che voglia medicarla tu» spiegò
semplicemente il moro quando il suo interlocutore gli rivolse
un’espressione accigliata.
Non sembra avere cattive
intenzioni... né mettermi da parte, ma mi dà comunque
fastidio il modo in cui si sono guardati, lui ed Erika... commentò tra sé Alan, accettando ciò che lui gli porgeva.
Si voltò verso la figlia, che scostò la coda e
lasciò libero il collo, ancora avvolto dal fazzoletto di Marcus,
che si affrettò a togliere.
«Quello chi te lo ha dato?» domandò il padre.
«Me lo ha prestato Marcus per fermare un po’ la perdita di
sangue...» rispose Erika, e non era una bugia: c’era solo
una piccola omissione.
Alan non era mai stato portato per fare l’infermiere, come ben
gli tenne presente quel ricordo di quando aveva dovuto medicare Arianna
dopo che si era ferita ad un ginocchio cadendo sulla ghiaia mentre
giocavano nel giardino di casa sua. Ricordava ancora bene lo schiaffo
che aveva ricevuto dalla giovane moglie dopo il lavoro, assieme ad un
“sei davvero un pessimo infermiere!” che ancora gli
riecheggiava nella testa, come se l’avesse udito solo pochi
minuti prima.
Sperava solo che sua figlia avesse una grande sopportazione del dolore.
Le ripulì di nuovo la ferita, che nel frattempo si era
nuovamente ricoperta di sangue, quindi gliela disinfettò alla
meglio. Erika non emise un fiato, anche se il disinfettante le bruciava
a contatto con la lesione.
Alla fine, gliela bendò con delle garze che Marcus gli porse.
«Come va?» chiese il ragazzo.
«Mi fa meno male di prima...» confessò lei.
«Non sono un granché come infermiere... spero di non
averti fatto troppo male» confessò Alan, a disagio.
«Non preoccuparti, ora sto meglio» lo tranquillizzò Erika, accarezzandogli un braccio e sorridendo.
A quel punto, la sua attenzione si rivolse totalmente al padrone di
casa: «Marcus, perché adesso non ci racconti un po’
che fine ha fatto quella piramide?».
Il ragazzo tacque alcuni istanti, quindi esordì: «Okay, per...».
Fu tuttavia interrotto da un rumore strozzato che fece presagire alla ragazza altro dolore.
Angolino autrice
Chiedo umilmente perdono per l'orribile ritardo çOç ma
è un capitolo così lungo che mi c'è voluto un
sacco per controllarlo scriverlo e controllarlo per bene. Spero almeno
di farmi perdonare per il capitolo precedente, che era cortissimo ^^''
Anyway, ringrazio Sachi Mitsuki per la recensione allo scorso capitolo e quanti hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^''
F.D.
|
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Capitolo 10 *** Storie e teorie ***
10_Storie e teorie
Marcus sbatté
perplesso le palpebre, mentre l’attenzione di Erika si spostava
su suo padre, seduto accanto a lei. L’espressione costernata e
avvilita che portava stampata in faccia la diceva lunga su quel che
stava provando in quel momento, ma non poteva soffocare il suo bisogno
di sangue nel senso di colpa.
Il suo stomaco emise un nuovo e più forte ringhio.
«Papà...» iniziò la ragazza, ma lui scosse la testa.
«No, posso aspettare!» replicò, deciso.
L’espressione che adesso gli si era dipinta in viso somigliava al broncio di un bambino cocciuto.
«C-che succede?» chiese il padrone di casa, passando confuso lo sguardo dal padre alla figlia.
Quest’ultima diede una pacca sul braccio dell’uomo e lo guardò, severa.
«Non fare il bambino! Non puoi resistere e sai che è così! Hai bisogno di nutrirti di me!»
«Hai perso troppo sangue! Non voglio che ti...!».
Venne interrotto dalla mano
di sua figlia che saettava a prendere qualcosa nella tracolla. Quando
la estrasse, riconobbe la scheggia di vetro con cui si era ferita
nell’altro cimitero.
«F-ferma! Che stai
facendo?!» inveì Marcus, correndo verso di lei, ma prima
che i due uomini potessero fermarla, la ragazza si premette il filo del
vetro sul palmo della mano, aprendovi una nuova ferita, quindi
allungò il braccio fino a che il suo sangue non fu davanti alla
bocca del padre.
Alan iniziò a
perdere il controllo quasi subito: l’odore del sangue e della
vita pulsante che esso portava insito in sé gli era diventato
irresistibile, benché lui odiasse questo suo lato di
resuscitato. Poteva lottare, cercare di fermarsi, ma il suo organismo
chiedeva quel liquido scarlatto. Ne aveva un disperato bisogno.
Con gli occhi sbarrati e
un’espressione strana dipinta in viso, come se fosse in tralice,
il redivivo si avvicinò la mano della figlia alle labbra e prese
a succhiare il sangue che ne sgorgava in sottili fiotti sotto lo
sguardo scettico di Marcus, pietrificato dalla scena.
Per qualche minuto
l’unico rumore che permeò l’aria fu il risucchio
della linfa che abbandonava le vene, poi Alan si ritrasse di scatto,
allontanando Erika con forza tale da scaraventarla a terra, quindi si
rannicchiò in un angolo, strisciando via da lei, ponendo tra
loro quanta più distanza possibile.
«Erika! Tutto bene?» chiese Marcus, accorrendo in suo aiuto.
«Sì, non preoccuparti...».
La Reagh si rialzò e
fissò il padre: nei suoi occhi c’erano di nuovo disgusto e
orrore, la stessa miscela d’emozioni che aveva avuto modo di
contemplare pure nell’altro cimitero.
«M-mi dispiace... Erika...» sussurrò.
Sembrava un pazzo, un
assassino che capiva di esserlo solo dopo aver ammazzato qualcuno, ma
che si pentiva di tutto il dolore causato. La sua espressione colpevole
e costernata l’aveva lasciata con un grande vuoto dentro: non
aveva mai visto uno sguardo così incisivo. Comunicava in modo
diretto tutto ciò che quelle pupille racchiudevano.
Era a dir poco stupefacente.
In quel momento Erika
provò una pena immensa per lui e il disperato bisogno di
consolarlo, e così fece: si alzò e andò da lui,
che si era allontanato di qualche metro, andando a rintanarsi contro la
parete, cercando di sparirvi dentro, quindi gli si inginocchiò
davanti e gli tese con cautela una mano.
«Papà...
è tutto a posto. Non fa niente, davvero. Ora sei così,
hai bisogno di sangue per sopravvivere... non è un problema,
credimi. Te lo darei tutto, se servisse a farti rimanere ancora con
me» disse, avvicinandosi progressivamente.
Vide i suoi muscoli
rilassarsi all’istante, mentre lacrime rosso sbiadito prendevano
a scorrergli sulle guance. Erika gli accarezzò la pelle e terse
via una lacrima, sorridendogli con fare rassicurante, poi si
avvicinò ancora di più, lentamente, quindi lo
circondò con le braccia e lo strinse a sé, cercando di
regalargli un po’ del calore del suo corpo, tentando di
consolarlo.
«Devi smetterla di farti problemi per quello che sei, capito? Hai bisogno di sangue, e allora? Hai bisogno del mio
sangue, che problema c’è? Ti ho detto che ti avrei aiutato
e così ho intenzione di fare! Per cui... basta con le scuse se
mi prendi un po’ di sangue, chiaro?» esclamò in tono
di dolce rimprovero.
Suo padre tacque e a quel
punto sentì il peso del suo corpo abbandonarsi contro il
proprio. Si ricordò allora di quello che era accaduto la sera
prima e di quanto aveva detto Circe a proposito del “dopo
pranzo”.
«Marcus, puoi aiutarmi a sdraiarlo?» chiese la ragazza, alzandosi e tirandosi dietro il corpo di suo padre.
Assieme, i due ragazzi riuscirono a trasportarlo fin sul materasso.
«M-mi potresti
spiegare cos’ha?» domandò il moro, sedendosi a gambe
incrociate accanto al materasso, dinanzi ad Erika, che accarezzava un
braccio al genitore con fare meccanico ma protettivo e pieno
d’affetto.
«Facciamo
così: io ti racconto di mio padre e dopo tu mi spieghi questa
storia della piramide, okay?» propose la giovane Reagh.
«Okay, ma anche lui dovrebb...» esordì Marcus, guardando l’uomo.
«Tranquillo, non sta
dormendo. È solo stanco, ma può benissimo stare ad
ascoltare» lo interruppe Erika con una tonalità di voce
lievemente più alta del normale a causa di un principio
d’esaltazione per l’imminente storia da parte del padrone
di casa.
«Allora okay» convenne quest’ultimo, annuendo.
Così Erika
iniziò a spiegare di suo padre, partendo dal momento in cui si
erano ritrovati nel retrobottega del negozio di Penelope fino a quando,
quella mattina, avevano fatto ricerche nella biblioteca. La spiegazione
non impegnò più di un’oretta e, una volta terminato
il racconto, la ragazza frugò nella tracolla e ne estrasse il
libro inzaccherato di sangue che aveva preso nella biblioteca,
porgendolo al ragazzo, il quale sgranò bruscamente gli occhi.
«... questo
l’abbiamo trovato in biblioteca. Nella prima pagina, in basso,
c’è scritto il tuo nome, per cui volevo chiederti se...
era tuo...»
«Sì, certo che è mio!» esclamò il moro, aprendolo e sfogliandolo.
«Davvero?» chiese Erika, gli occhi che brillavano d’eccitazione: finalmente una pista.
«Sì, ma non
capisco come abbia fatto a finire in una biblioteca pubblica!!»
aggiunse il suo interlocutore, mandando in frantumi le speranze della
fanciulla.
«C-come? Non ce
l’hai messo... te?» chiese con un filo di voce Alan,
sbattendo forte le palpebre, come a voler focalizzare a tutti i costi
il profilo del ragazzo seduto accanto a lui.
«No, cavolo! Almeno, non questo libro. Io l’avevo lasciato ad un amico...» disse.
«Allora forse il sangue che vedi sulla copertina è suo...» esclamò Alan, in tono alquanto tetro.
Il silenzio si
insinuò tra loro, mentre la peggiore delle ipotesi prendeva
rapidamente forma nella mente di ciascuno di loro.
«Perché
è così importante?» domandò Erika dopo un
po’, spezzando quel momento di silente lutto.
Per tutta risposta, Marcus alzò il libro e le mostrò la copertina con un moto di lieve stizza.
«Il titolo parla da solo...»
«“Sette di Corvi” - tradusse lei, perplessa - E allora...?».
Lui emise un sonoro sbuffo, quindi curvò le spalle e abbassò il viso, appoggiandosi il libro su una coscia.
«Immagino che affinché capiate debba raccontare tutto dal principio...»
«Forse sarebbe meglio...» ironizzò debolmente Alan.
Teneva le palpebre
socchiuse, come se stesse per addormentarsi e la sua pelle aveva
acquisito nuovamente quel colorito roseo e vivo che Erika gli aveva
visto pure la sera precedente.
«Immagino che tutto sia iniziato quando sono nato...»
«Addirittura?» chiese la ragazza, stupita.
Marcus assentì con un lento gesto del capo.
«Non ho mai
conosciuto i miei genitori: fui lasciato davanti al cimitero più
importante della capitale quand’ero ancora molto piccolo. Che ci
crediate o no, conservo ancora ricordi di quel momento, anche se
sbiaditi dal tempo. Comunque, venni raccolto da Alejandro»
«Chi è Alejandro?» domandò di getto Erika.
«È il capo
della Congrega del Corvo. È un’associazione di diverse
Sette dei Corvi che operano in tutta la regione» spiegò
Marcus.
«E sei stato... cresciuto da... lui?» domandò Alan.
«Sì, imparando tutto quanto sulle Sette dei Corvi e sui rituali di tali compagini».
«Sono come degli stregoni?» chiese Erika, esaltata al solo pensiero.
«Mettila così
se vuoi. Comunque possiedono qualche potere, almeno i componenti
più illustri. Alejandro mi ha trasmesso una qualche
capacità»
«D-davvero?»
«Sì, posso
trasformarmi in un corvo... be’, non proprio, insomma... mi
spuntano le ali - tagliò corto il ragazzo, annuendo con fare
imbarazzato - ... e sono capace di comprendere il linguaggio di quei
volatili»
«Stupeeeendo!» commentò la Reagh.
«Stregonerie...» sibilò suo padre con una lieve inflessione disgustata.
«Be’, il fatto
è che, due o tre anni fa, Alejandro mi incaricò di
recuperare un oggetto sacro della nostra Congrega, la Piramide di
Jupiter» continuò Marcus, ignorando l’appunto
dell’uomo, che fece per mettersi seduto, ma ricadde pesantemente
all’indietro.
«Papà,
sta’ buono!» lo rimbrottò Erika come se fosse un
bambino, scoccandogli un’occhiata fugace.
«Mi dissero
dov’era e che era di fondamentale importanza che venisse
riportata alla Congrega. Così sono partito e... be’,
l’ho trovata. Si trovava poco distante da tuo padre, vicino ad
uno degli uomini che osservavano mentre i suoi compagni lo pestavano
per estorcergli informazioni»
«CHE COSA?!?!» sbottò Erika, sbalordita.
Marcus ignorò anche
lei, evidentemente a disagio per la sua reazione, e proseguì:
«La presi e me ne andai, anche se avrei voluto prestargli
soccorso. Il resto immagino che voi lo sappiate già».
«Hanno continuato a
picchiarmi per... farmi dire chi fossi... e dove avessi portato la
piramide. Poi mi hanno felicemente sparato» terminò Alan
debolmente, in tono amaro.
«Mi spiace» disse Marcus, sconsolato.
«Va’ avanti -
tagliò corto Erika, interrompendo quell’inizio quasi certo
di tutt’altro tipo di discussione - Cos’è successo
poi, quando hai riportato la piramide da Alejandro?»
«Ha detto che l’avrebbe riportata al suo posto e non ne ho più saputo niente».
«Sei sicuro... che sia ancora... là?» domandò il redivivo, cogliendo di sorpresa il ragazzo.
«C-che vuol dire?»
«Papà, potresti spiegarti?» si aggiunse sua figlia.
Quest’ultima
osservò il padre per qualche istante, poi trasse a sé la
busta con i viveri che aveva messo da parte e ne cavò fuori una
mela, che morse con noncuranza: aveva davvero fame, visto che era dalla
sera prima che non metteva niente sotto i denti.
Era stata una giornata
così movimentata che le era passato completamente dalla testa di
mangiare, benché il suo stomaco continuasse a produrre sommessi
borbottii e percepisse un tenue dolore diffuso in tutto il corpo.
Marcus e Alan fecero finta di niente.
«Quando ero
nell’Aldilà, Circe mi ha detto che c’era uno...
“squilibrio del potere”. Sì, disse proprio
così... e disse anche... che era collegato alla piramide...
è per questo che ho insistito tanto... per tornare»
raccontò brevemente l’uomo.
«Marcus?» chiese la ragazza, voltandosi verso di lui, trovandolo chino a sfogliare le pagine del libro.
«Ehm... Marcus? In quel libro... cosa c’è scritto di preciso?».
La domanda di Erika venne
accolta da un semplice e rigoroso silenzio interrotto solo dal
frusciare delle pagine girate con violenza dal giovane dai capelli
corvini.
Finita la mela, la ragazza gettò quel che ne rimaneva in un sacchetto che teneva sempre nella borsa, per ogni evenienza.
«È il libro
dei rituali della Setta del luogo. Io ne sono il custode e... in fondo,
da qualche parte, c’è scritto qualcosa su quella
piramide...».
«Ne sei sicuro?!» esclamarono all’unisono padre e figlia.
L’espressione che si dipinse in viso al giovane quand’ebbe finito la consultazione rispose alla loro domanda.
«Non c’è
niente, accidenti! Ero certo di averlo letto!» sbottò
Marcus, chiudendo con un gesto secco il volume, evidentemente frustrato.
«Dai, non prendertela
così. Forse è in un altro libro... forse l’hai
letto là, in quella Setta...» tentò di risollevarlo
Erika.
Lui sollevò il viso.
«Forse Zaira sa qualcosa...» rifletté ad alta voce.
«Zaira...?»
ripeterono gli altri due, perplessi, ma l’altro non li stette a
sentire e proseguì: «Domani notte vi porterò con me
alla sede della Setta dei Corvi di questo posto! Magari riusciremo a
scoprire qualcosa...».
«Okay...» si limitò a rispondere la giovane Reagh.
«Be’, adesso mi sa che è meglio andare a dormire: oggi è stata una giornata... impegnativa».
Così dicendo, il
ragazzo si alzò e andò a preparare un giaciglio di
fortuna in un angolo un po’ in disparte.
«Ehm...» Erika arrossì, abbassando gli occhi.
«Mmmh?».
Ottenne immediatamente l’attenzione dei due uomini.
«Non c’è un posto dove... possa cambiarmi?» chiese la fanciulla.
«Oh,
quello...!» Marcus arrossì di botto, comprendendo il
perché dell’improvviso disagio della sua ospite.
«Mi spiace, ma non ci
sono altre stanze... comunque, puoi fare. Noi ci giriamo...»
disse, voltandosi e dandole le spalle.
Suo padre si voltò su un fianco, osservando con finto interesse le increspature nella roccia della parete dinanzi a lui.
La ragazza si cambiò
quanto più in fretta poté. Avrebbe voluto farsi prima un
bagno, ma non pensava che ci fossero docce nei paraggi, così si
accontentò di togliersi un po’ del sangue incrostato e del
sudore che aveva appiccicati ovunque con la maglietta, che comunque era
da lavare, o da buttare, quindi indossò una canotta arancione e
un paio di shorts di jeans che le arrivavano solo fino a metà
coscia.
Meglio che rimanere con quei vestiti che puzzano di sudore e sangue... commentò, appallottolando i suddetti e ficcandoli in un altro sacchetto della propria borsa.
Andò a prendere
posto sul suo giaciglio e si tolse gli occhiali, che ripose nella loro
custodia all’interno della tracolla.
«Ehm... potete voltarvi» aggiunse, prima di sdraiarsi.
«Ah...» disse
semplicemente il padrone di casa, girandosi in contemporanea con Alan,
che si mise a stento seduto e strisciò via dal materasso.
Quando Marcus lo
fissò con perplessità e fece per riportarcelo, lui
spiegò con un rapido e poco educato: «Stacci tu, io non ho
bisogno di dormire».
Prima di essere ripreso,
andò ad accovacciarsi vicino al letto improvvisato della figlia
e le accarezzò un fianco dolcemente.
«Buonanotte papà» sussurrò lei, già sulla soglia del sonno.
«‘Notte tesoro» rispose lui, appoggiandosi contro la parete, ancora stanco.
Marcus osservò il
quadretto familiare mentre si stendeva sotto la coperta: erano una vera
famiglia, uniti profondamente da un legame forte, da un amore potente.
A maggior ragione visto che erano stati separati praticamente tutta la vita.
Una fitta di dolore gli
prese il cuore al pensiero del calore di un padre o una madre che ti
stringevano e ti auguravano la buonanotte.
Alejandro era stato un buon
padre, ma aveva sempre peccato di gentilezze nei suoi confronti. Per
questo non aveva mai conosciuto il tepore di un abbraccio o
l’affetto trasmesso da una carezza.
Scosse debolmente il capo, affondando la testa nel materasso.
Devo
essere riconoscente ad Alejandro. Devo a lui quello che ora sono. Non
devo odiarlo perché non mi ha mai abbracciato... né
accarezzato o augurato la buonanotte...
E cercando di convincersi
della veridicità assoluta di quei pensieri Marcus chiuse gli
occhi, ignorando le tiepide lacrime che iniziavano a bagnargli le
guance.
Angolino autrice
T________T sono in ritardoooo çOç *si butta dalla finestra*
Okay, evito soluzioni tanto
drastiche... *riappare dal davanzale* ;___; sono una scema. Mi sono
dimenticata di aggiornare per così taaaanto tempo T^T e mi sa
che questo capitolo è venuto un po' una schifezza o un caos o
un-non-so-nemmeno-io-che ;__; ma spero che piaccia almeno un pochino
comunque.
Ringrazio quanti hanno aggiunto la fanfic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^'''
F.D.
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Capitolo 11 *** La Setta dei Corvi ***
11_La Setta dei Corvi
Stettero tutto il
giorno nascosti nella caverna di Marcus. Le ore trascorrevano con
lentezza inesorabile e Alan era sempre più agitato: non era tipo
da starsene con le mani in mano per tutta una giornata, ma il padrone
di casa era stato chiaro. Se fossero usciti, con ogni
probabilità i loro inseguitori li avrebbero trovati di nuovo, e
a quel punto chissà dove li avrebbero portati.
Erika aveva passato il
giorno leggendo i libri di Marcus che quest’ultimo aveva reputato
adatti a lei. Al contrario del redivivo, non si era annoiata affatto:
la lettura la impegnava sempre piacevolmente per ore.
Nel tardo pomeriggio, suo
padre aveva iniziato ad agitarsi fuor di maniera e poco c’era
mancato che lui e il ragazzo-corvo arrivassero addirittura alle mani.
Maschilità alle stelle...
aveva commentato Erika tranquillamente, avvertendo una tensione carica
di virilità attorno a sé, quasi palpabile tant’era
addensata nell’aria.
Solo intorno alle otto e
mezza - quando il sole era ormai definitivamente sparito oltre
l’orizzonte - si erano decisi ad uscire allo scoperto.
Le violacee striature
crepuscolari erano bellissime e contribuivano in modo quasi
determinante a dare al cimitero un’atmosfera cupa e... be’,
molto da cimitero. Le scure sagome delle statue si stagliavano contro
la volta celeste in tutta la loro macabra meraviglia.
Erika iniziava ad essere
stufa di tutte quelle tombe, ma aveva la netta impressione che avrebbe
dovuto farci l’abitudine: sembrava che, dovunque si spostassero,
avrebbero sempre dovuto “alloggiare” in qualche cimitero.
La cosa non la entusiasmava per niente, però iniziava a non
temere più di aggirarsi per i sepolcreti di notte.
Suo padre e Marcus le
camminavano affianco e sembravano pronti a far fuoco e fiamme
un’altra volta, al minimo cenno di provocazione, anche implicita.
Tra tutti e due mi piacerebbe sapere chi è il più infantile... rifletté la ragazza, avvertendo la tensione che si era venuta a ricreare tra i due.
A quanto sembrava, non andavano molto d’accordo, per non dire affatto:
Alan pareva avercela con il ragazzo perché gli aveva fregato la
piramide da sotto il naso lasciandolo a morire, mentre Marcus pareva
avercela col redivivo solo per smania di restituirgli l’astio.
Con quella medesima
ostilità che permeava l’aria, serpeggiando pronta ad
esplodere, il terzetto percorse tutto il tragitto fino all’uscita
del cimitero.
Quando fu il momento di
salire in auto, al vedere i due uomini scambiarsi altre occhiate
fulminanti, Erika non riuscì più a trattenersi e
sbottò inviperita: «Smettetela di fare i bambini!!! Non
abbiamo tempo per queste cazzate, chiaro?!».
Rimasero ambedue di sasso: non sembrava proprio un tipo così... autoritario.
Ignorando i loro sguardi
scettici, la ragazza li superò con un’unica, rapida
falcata e si sedette al lato del guidatore, intimando a suo padre con
il solo sguardo di prendere posto sui sedili posteriori.
Lui non osò
contraddirla: vedeva una sorta di fiamma rabbiosa arderle negli occhi e
sapeva che era una pessima idea provare a disobbedire.
Penso che abbia preso pure questo da sua madre... commentò tra sé, richiudendosi alle spalle lo sportello.
«Allora, dove si trova la sede della tua Setta?» chiese la giovane Reagh, rivolta a Marcus.
«Non è molto lontana da qui» disse lui, senza rispondere più precisamente alla domanda postagli.
Mise in moto e partì.
Durante tutto il viaggio,
un silenzio teso come una corda di violino s’impadronì
dell’abitacolo, dissuadendo sia Marcus che Alan dal tentare di
far partire una discussione su un qualsiasi argomento: pareva che
Erika, se fossero giunti ad un nuovo diverbio, fosse pronta a
divorarseli vivi.
Il tragitto durò poco più di mezz’ora.
Quando il ragazzo-corvo
parcheggiò davanti alle macerie di una vecchia villa sperduta in
mezzo al niente, il crepuscolo aveva già lasciato il posto alla
notte vera e propria e le stelle iniziavano ad accendere il cielo
notturno con la loro minuscola luce diamantina.
Erika scese dall’auto
e si sbatté lo sportello alle spalle, osservando assorta la
struttura che aveva innanzi: anche al buio riusciva chiaramente a
distinguere la miriade di crepe che s’intrecciavano sulla parete.
Le finestre erano grandi e rotte, anche se la maggior parte era stata
sfondata di netto. La porta era a due ante, come dimostravano i
battenti spaccati a metà e abbandonati contro gli stipiti.
La ragazza sbatté più volte le palpebre, senza perdere di vista la loro meta: si sentiva... strana, quella notte. Non capiva perché, ma avvertiva il proprio inconscio come se fosse... nero.
«È qui che sta la Setta?» domandò Alan a Marcus.
«Sì» rispose quest’ultimo in tono di sfida.
La piccola alchimista si fece avanti per prima, in silenzio.
«Com’è
accogliente...» commentò in tono sarcastico e lugubre,
calpestando le ante stroncate della porta.
«Deve essere
così, altrimenti potrebbe venire in mente a chiunque di entrare
a curiosare...» tentò di giustificarsi il moro, un
po’ perplesso da quel suo strano commento.
Erika calciò via con
nonchalance un pezzo di legno caduto da chissà dove, quindi si
volse ai due uomini dietro di lei.
«Be’, che ci
fate lì impalati?! Andiamo!» li rimproverò,
irritata, penetrando per prima l’oscurità della casa.
«A-aspetta! È pericoloso!» esclamò Marcus, correndole appresso, seguito immediatamente da Alan.
Dentro di sé, la
ragazza si sentiva decisamente a disagio, come se ci fosse qualcosa in
lei che non fosse come avrebbe dovuto essere.
Era come se ci fosse una
sorta di... “parte oscura” nel suo subconscio che pungolava
l’altra in continuazione, dandole fastidio, irritandola.
Non aveva niente contro
Marcus - men che meno contro suo padre - ma non riusciva ad essere come
al solito: quella cosa strana e buia dentro di lei la faceva sentire
diversa e non a suo agio con se stessa.
Era una sensazione senza dubbio bizzarra, oltre che spiacevole.
Il moro
l’affiancò in un batter d’occhio e la superò,
guidandola attraverso l’ampio atrio che stava letteralmente
cadendo a pezzi e che puzzava di legno muffito, diretto
dall’altra parte dell’entrata, dov’era una porta
chiusa.
«Ecco, ci siamo...» disse semplicemente il ragazzo-corvo, fermandosi dinanzi a quell’uscio.
Sembrava l’unica cosa intatta in tutta la casa.
«E adesso? Aspettiamo
la manna dal cielo?» domandò Erika, incrociando le braccia
sul petto in un certo atteggiamento irritato.
Marcus, per tutta risposta,
bussò. I suoi due ospiti notarono che lo fece in modo preciso,
quasi calcolato: due colpetti leggeri e veloci e uno più forte e
lento.
Seguì un silenzio d’attesa in cui nessuno dei tre si mosse né fiatò.
Infine, dopo svariati
minuti d’attesa, l’uscio si aprì cigolando e il
giovane moro vi scivolò all’interno.
Lo sentirono confabulare a bassa voce con qualcuno, quindi riemerse.
«Venite. Potete entrare» disse, aprendo un poco di più la porta.
Dietro di lui c’era
una ragazza dagli occhi circondati da una quantità spropositata
di trucco e molto pallida, con lunghe ciglia nere e le labbra
scarlatte, simili al sangue. I capelli, nerissimi, erano corti e
raccolti sulla sommità della testa da due code sbarazzine.
Al vedere i due ospiti inattesi, indietreggiò un po’.
«Non preoccuparti
Roxy: non vogliono farti del male» la rassicurò Marcus,
anche se dall’espressione scura dipinta sul viso di Erika
sembrava proprio il contrario.
Roxy, cercando di riporre
fiducia nelle parole del ragazzo, si fece coraggio e disse: «Non
penso che Zaira sarà contenta di questa...
“visita”».
«Be’, per me puoi pensare quel che ca...!»
«Erika, per favore...» la interruppe suo padre, spingendola giù per la scalinata.
Iniziava a dargli sui nervi
quello stranissimo atteggiamento da parte della figlia, totalmente
incongruente con il suo comportamento consueto.
Nell’inoltrarsi,
notarono che lungo le pareti erano appese fiaccole che gettavano una
vivida luce tremolante tutt’attorno, rischiarando loro il
passaggio.
Menomale: almeno si vede dove si cammina! sbottò tra sé la piccola alchimista, seguendo i profili di Roxy e Marcus.
Dietro di lei, Alan mandava
occhiate sospettose in ogni dove: la sua vista era decisamente
più utile con un po’ di luce, ma ancora non era perfetta.
Accidenti
ai decimi di vista che ho perso! Mi sento spaesato e dà un
fastidio tremendo vedere ombre confuse al posto di cose nitide!!
Continuarono a scendere per
un lasso di tempo che Alan quantificò in minuti, finché
la scala non terminò in un lungo e stretto corridoio entro il
quale dovettero procedere uno alla volta, in fila, per la
scarsità di spazio.
Erika si sentiva
schiacciare dalle pareti attorno a lei e aveva la sensazione di star
soffocando: non riusciva a sopportare i luoghi piccoli e stretti. Aveva
avuto una brutta esperienza con un armadio da piccola.
Quando ormai era prossima a
svenire o mandare le sue guide a quel paese e fare marcia indietro a
velocità supersonica, il corridoio sboccò in
un’ampia sala rotonda fortemente illuminata da un grosso
lampadario che pendeva dal soffitto a volta che sosteneva una decina,
forse più, di grossi ceri accesi. Le pareti - lungo le quali
erano disposte decine e decine di scaffalature - erano incuneate sotto
delle balconate anonime che attorniavano tutto il circolo centrale.
L’architettura era semplice, e forse proprio per questo ancora più bella.
Roxy e Marcus li guidarono
fino al margine del grande e particolare cerchio che era tracciato sul
pavimento e che ad Erika ricordò in modo forse troppo forte un
vero e proprio cerchio per rituali alchemici.
Probabilmente è proprio qui che hanno luogo i loro riti.
«Aspettate qui, vi prego: vado a riferire a Zaira del vostro ar...»
«Non c’è bisogno, Roxy!».
Una forte voce femminile,
carica di autorità e vita, riecheggiò contro le pareti e
arrivò fino a loro vibrando.
Erika alzò gli occhi
in contemporanea a suo padre, giusto in tempo per vedere una ragazza -
anzi, una quasi donna - affacciarsi con decisione dalla balconata
destra.
Aveva i capelli corti e
neri, spettinati, un po’ da maschio, così come il
giubbotto di pelle che la faceva somigliare ad una motociclista. Ai
suoi lobi Erika riuscì a distinguere un paio di quelli che
dovevano essere cerchietti d’argento, così come il
piercing a lato del sopracciglio destro.
L’espressione era
piena di vitalità ed anche carica di giovanile
aggressività. Sembrava essere in grado di affrontare le
più grandi imprese del mondo senza scomporsi minimamente, ma
anzi, con una grinta senza pari.
Il resto della figura era coperta dal balcone.
«Ehilà, Marcus! È da un po’ che non ti si vede in giro»
«Sono stato impegnato in altre faccende» replicò lui come se niente fosse.
«Già, già... immagino. E i tuoi ospiti, chi sono?» continuò Zaira.
«Erika e suo padre, Alan».
La giovane alchimista
scorse fugacemente un lampo negli occhi della donna, che
scavalcò con un abile salto il balcone e, fendendo il vuoto
sottostante, atterrò infine sul pavimento senza neppure un
graffio.
«Piacere, io sono
Zaira e sono il capo di questa Setta dei Corvi» si
presentò, avvicinandosi e tendendo una mano verso padre e figlia.
Quest’ultima
avvertì un rimestio davvero sgradevole di quella cosa oscura che
le si era venuta a formare dentro e che adesso, chissà
perché, visualizzava mentalmente come una sostanza nera e
vischiosa, simile alla pece, che le inondava l’anima.
Comunque, qualsiasi cosa
essa fosse, si stava agitando come se fosse vicina ad un qualcosa che
la metteva in allarme. La ragazza si spaventò solo a pensarla
come una cosa dotata di coscienza propria; tuttavia aveva la netta
impressione che fosse proprio così: una seconda entità
interna a lei, forse addirittura una parte a sé stante del suo
inconscio.
Fatto stava, però,
che pareva si stesse innervosendo - se così si poteva definire
la strana sensazione di pericolo e il desiderio di violenza che si
stavano dando battaglia in lei - sempre più ogni passo che Zaira
faceva verso di loro.
«Zaira... siamo venuti per chiederti una cosa... un favore» intervenne Marcus.
A quelle parole la
donna si volse a lui, arrestando la sua avanzata, permettendo
così ad Erika di allontanarsi un poco prima che il desiderio che
le cresceva dentro la spingesse ad avventarsi contro di lei e scuoiarla
viva ad unghiate.
La “marea nera” calmò i suoi bollenti spiriti.
«Sì? Be’, allora penso che sia una cosa importante»
«Lo è, in effetti» s’intromise Alan.
«In questo caso, Roxy?»
«A-ah, sì?» disse la ragazza, avanzando goffamente di mezzo passo.
Zaira le sorrise.
«Va’ dagli altri»
«S-sì, come vuoi» esclamò in ultimo la ragazzina, quindi se ne andò velocemente.
Appena furono soli, Zaira
prese a camminare attorno a loro, lentamente, le braccia incrociate sul
petto e l’espressione assorta di chi attende pazientemente.
«Allora, che cosa volete sapere?» chiese, senza tanti preamboli.
Un istante di silenzio,
durante il quale Erika si guardò intorno, ispezionando con cura
le librerie, mentre il moro proseguiva: «Vorremmo sapere qualcosa
sulla Piramide di Jupiter».
Mentre Marcus pronunciava
quelle parole, la piccola alchimista scorse un pacato scintillio rosso
tra i libri che c’erano in uno scaffale all’altro capo
della sala.
Prendila, Erika! È quella!
Senza stare a chiedersi
cosa fosse la voce sibilante che aveva appena udito nella sua testa, ma
realizzando quasi subito a cosa si stesse riferendo, il primo pensiero
che formulò - e che non riuscì a completare - fu: se quella è qui allora...!
Si sentì gelare
letteralmente il sangue nelle vene e si volse di scatto verso Marcus
per avvertirlo della sua scoperta, ma fu interrotta da Zaira, la quale,
in quel medesimo istante, rise sguaiatamente, rivolgendo il viso al
soffitto.
Sembrava aver improvvisamente perso il senno.
«Zair...?» esordì il ragazzo-corvo, perplesso ed intimorito.
«Marcus... avresti
dovuto scegliere meglio le compagnie da frequentare» lo
rimproverò la donna con voce lenta e tono contenuto, risultando
per questo ancor più minacciosa.
Estrasse una pistola e la puntò contro di loro.
Angolino autrice
Ecco finalmente l'aggiornamento
>///< perdonate il ritardo, ma inizio ad essere sovraccarica di
cose da fare anche - soprattutto - a causa della scuola
çOç
Anyway, ecco il capitolo ù-ù sperando che piaccia ^^'''
Ringrazio tutti coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 12 *** Piume nere e vuoto tetro ***
12_Piume nere e vuoto tetro
«Cosa stai
facendo?!» esclamò Marcus, spiazzato visibilmente dal
veder comparire l’arma in mano alla donna.
Adesso negli occhi di quest’ultima si era accesa una viva scintilla di pazzia.
Erika, però, pareva l’unica ad aver capito almeno remotamente la situazione.
Avanti, reagisci!
«Stai dalla loro
parte, non è così?!» sbottò la ragazza a
gran voce, attirando su di sé la sconcertata attenzione dei due
uomini.
Zaira sorrise scoprendo i denti, puntando con decisione la pistola contro di lei.
«Come hai fatto ad indovinare?»
«Chiamalo “intuito”»
«Oh, allora il Contatto è davvero così in gamba come dicono... peccato che da qui non uscirai viva!»
«Zaira, di che cosa sta parlando?! Tu non...!»
«La Piramide ce l’ha lei! La tiene su uno scaffale, dall’altro capo della stanza!».
Erika interruppe Marcus, il
quale sgranò gli occhi, allibito, mentre Alan si voltava verso
la mora, in viso un’espressione carica di rabbia.
«Che cosa?!».
Il sorriso di Zaira si spense un po’, tramutandosi in un’espressione minacciosa.
«Ragazzina... parli troppo» disse, quindi premette il grilletto.
Erika chiuse gli occhi,
pronta ad un dolore atroce, insopportabile... che non arrivò.
Eppure, l’esplosione dell’arma da fuoco l’aveva
sentita eccome.
Si azzardò a
riaprire gli occhi e non poté trattenersi dal far sbocciare sul
suo viso l’orrore per quel che era accaduto.
«Eri... ka?».
Il sussurro strozzato precedette un gemito di dolore con cui il suo scudo si accasciò a terra.
«MARCUS!» gridò lei, correndo in avanti, cingendo il petto del moro, accostandolo al proprio.
In mezzo allo sterno
c’era un foro di proiettile che sanguinava copiosamente,
insozzando la maglietta. Marcus strizzava gli occhi, che pian piano si
socchiusero. Dalla sua schiena spuntavano due grandi ali nere, che
adesso stavano afflosciate sulle ginocchia della ragazza, appena
frementi.
«Eri... ka, ti sei... fatta male?» domandò lui, ma lei scosse la testa.
«Non ti sforzare, non parlare, per piacere».
Sentiva le lacrime pungerle ai lati degli occhi: non poteva finire così, non così presto e non in quella maniera! Per lei non doveva sacrificare la sua vita!
«Il piccolo corvo si
è sacrificato per proteggere il Contatto. Che tenero... ma
è un sacrificio sprecato, visto che presto anche lei
morirà!» lo derise Zaira.
«MALEDETTA!!» ringhiò Alan, avventandosi contro di lei con tutte le sue nuove capacità da redivivo.
Zaira indietreggiò
di un passo per la sorpresa di quell’attacco, ma fu solo un
istante: quello successivo già puntava la pistola contro
l’uomo.
Uno, due, tre colpi riecheggiarono e Alan si arrestò, tremando e cadendo in ginocchio, tuttavia...
«Non credermi ancora
vivo, puttana. Puoi fermarmi, ma non ammazzarmi!» replicò,
pulendosi col dorso della mano le labbra e sputando del sangue di lato,
per poi rialzarsi e sorridere in modo vagamente superiore e
strafottente, avanzando inesorabilmente.
Zaira continuava a sparare a raffica.
Alan continuava a cadere e
rialzarsi, riprendendo a camminare verso di lei, come in un film
horror. Poi, dopo un indefinito lasso di tempo, lui le fu addosso, e
con un colpo decisamente cruento sul braccio glielo spezzò di
netto, quasi fosse un fuscello.
La pistola le cadde di mano
e un’imprecazione mista ad un gemito di dolore le sfuggì
dalle labbra, mentre Alan l’afferrava per i capelli e la sbatteva
a terra, inchiodandocela con un piede.
Erika era inginocchiata
più in là e carezzava dolcemente i capelli di Marcus,
sussurrandogli che sarebbe andato tutto bene.
Il sangue continuava a scendere copioso e lui respirava a fatica.
«Erika... lasciami. Vai a prende... re la piramide...» esalò, esausto, quindi chiuse gli occhi.
Il cuore batteva lento e se non avessero fermato in qualche modo l’emorragia, probabilmente sarebbe morto sul serio.
Che fare? Come fare?! Non so niente di pronto soccorso, accidenti!!
Resisterà. Tu devi prendere quella piramide. Glielo devi, in fondo.
Era ancora quella voce
sconosciuta, che in quel momento le sembrava più la voce della
sua coscienza - oppure della ragione?
«Aaargh!».
Alzò gli occhi in
tempo per vedere suo padre cadere in ginocchio a terra tenendosi un
braccio e Zaira rialzarsi e correre verso la piramide, il braccio
destro inerte lungo il fianco.
«Sciocchi!! Non l’avrete mai! MAI!!!» esclamò.
Fu allora che la “marea nera” si risvegliò.
Come un mare in tempesta,
ricolmò tutto, rivestì l’interno del suo corpo e
della sua mente, assoggettandola al suo potere, che si fuse
irreversibilmente con la sua coscienza e il suo essere. Divenne parte
integrante di lei, come un organo supplementare, una peculiarità
che possedeva solo lei.
Depose delicatamente ma con
rapidità Marcus a terra, ancora agonizzante, quindi si
alzò e si mosse veloce verso la donna. Poi si fermò e il
suo sguardo si spense, lasciando posto a vuote pupille bianche che si
riempirono di pece. Attorno a lei prese a turbinare debolmente un vento
mistico, che divenne sempre più forte e impetuoso.
Alan rimase sbigottito
nell’osservare i piccoli fulmini che scaturivano attorno a lei,
senza mai infrangersi sul suo corpo, ma su una sorta di barriera
invisibile che la circondava.
«Zaira!!!» esclamò, perentoria.
A quel richiamo, tutto
degenerò: i suoi capelli presero a dimenarsi come serpenti
attorno a lei, ancora immobile come una statua, i piccoli fulmini
iniziarono a produrre un rumore sfrigolante, talmente forte da
rimbombare nel locale e...
Il redivivo trattenne il
fiato, mentre la figlia levitava e sotto i suoi piedi si apriva una
specie di buco nero da cui si innalzavano pennacchi di fulmini viola
assai inquietanti.
Gli occhi vuoti di Erika si
dilatarono impercettibilmente e dal “buco nero” emersero
lunghe propaggini che presero la forma di mani e schizzarono verso
Zaira, immobilizzandola a pochi passi dallo scaffale.
Attorno alla preda
apparvero piccole fiammelle azzurre, che cominciarono a levitarle
intorno ondeggiando, in una sorta di circolo protettivo.
I muscoli di Zaira
s’irrigidirono e tentarono d’opporre resistenza, ma alla
fine fu schiacciata al suolo in modo violento.
Tutto rimase immobile per
pochi istanti, poi un’altra mano prese forma dalla chiazza di
materiale vischioso e semi-liquido su cui “poggiava” la
piccola alchimista. L’arto strisciò letteralmente fino
allo scaffale, quindi lo scalò fino a soffermarsi sulla mensola
centrale.
Quando tornò indietro, reggeva un oggetto che Alan riconobbe immediatamente.
«La piramide!!» esclamò.
La mano nera ritornò
dalla ragazza e, quando posò l’oggetto tra le mani aperte
della fanciulla, tutto cessò: la “macchia nera”
svanì, il vento che le turbinava attorno pure, e i suoi occhi
tornarono normali.
In piedi, con la piramide in mano, Erika sbatté le palpebre, confusa e anche un po’ spaventata.
Suo padre la raggiunse rapidamente.
«Come stai? Tutto okay?»
«Sì... non sono ferita» disse, stravolta.
Era scioccata da quello che
aveva appena fatto: possibile che, assieme all’abilitazione - se
così poteva essere chiamata - di Circe ad usare
l’Alchimia, la maga avesse anche “risvegliato” quel
potere?
Sperava che l’essere
diventata all’improvviso un’alchimista non comportasse
altre scoperte di quella portata, perché temeva di non riuscire
a sopravvivere una seconda volta ad uno shock simile.
Marcus, più in
là, si era rimesso a fatica in piedi. All’insaputa del
piccolo nucleo familiare, aveva assistito alla scena, e non credeva ai
suoi occhi. Non credeva Erika capace di manifestare un simile potere.
«Piccola stronza!» urlò Zaira, rialzandosi barcollante e sudata.
Alan quasi le
ringhiò mentre le si catapultava contro, scaraventandola contro
la libreria alle sue spalle, che tremò paurosamente, facendo
cadere qualche volume.
Erika le si avvicinò, stringendo a sé la piramide.
«Come si chiama l’organizzazione per cui lavori?»
«Mi credi così idiota da rivelartelo?»
«No, immagino di no... - sorrise - ... ma se papà ti spezzasse l’altro braccio... o magari le gambe?».
Erika aveva sempre sperato
che le si presentasse l’occasione propizia per una di quelle
semplici minacce dette col sorriso sulle labbra: erano quelle che, a
suo parere, sortivano gli effetti migliori.
Alan si dimostrò più che disposto a collaborare.
«Non riuscirete a strapparmi niente!»
«Ah, tu dici...? Papà...».
Suo padre si preparò ad abbattere un colpo sulla sua gamba, quando...
«No, fermo!» lo supplicò Zaira: aveva ostentato coraggio, ma ci teneva almeno a reggersi sulle sue gambe.
«E allora? Avanti, parla! Per chi lavori?» la esortò Erika in tono duro.
«L’organizzazione
si chiama “Organizzazione XXX”... ed è in cerca di
un potere... per rovesciare i governi... e acquisire sempre più
fama, gloria... e denaro. Ma vi prenderanno! Potete starne certi! Prima
che abbiate sistemato le cose, vi prenderanno!»
«Dobbiamo andarcene! Sta arrivando gente!».
La voce di Marcus interruppe i vaneggiamenti da pazzoide della donna.
Alan ed Erika si
scambiarono un’occhiata d’intesa, quindi l’uomo
lasciò andare Zaira, che si accasciò a terra, e la
ragazza si piegò su di lei.
«Puoi dire ai tuoi
superiori che venderemo cara sia la pelle... che la piramide» le
sibilò, poi si alzò e raggiunse suo padre e Marcus - che
sembrava aver acquistato un certo equilibrio, anche se un po’
traballante - e si avviò con loro verso l’uscita.
La mora si alzò
debolmente da terra e digrignò i denti, quindi prese da una
tasca della giacca il cellulare, digitò malamente un numero con
la sinistra e si portò all’orecchio l’apparecchio.
«Zaira, che cosa vuoi?»
«Felix... cattive notizie: quella puttanella e suo padre... l’hanno presa».
«Marcus non azzardarti a guidare!».
L’avvertimento di
Erika, che si stava infilando alla velocità della luce
nell’abitacolo dalla parte del passeggero, lo fece sobbalzare.
«Perché, scusa?!»
«Sei ferito e quasi non ti reggi in piedi! Mi spieghi come fai a guidare?!» lo rimbrottò lei.
«Da’ qua.
Erika, forse è il caso che tutti e due stiate sui sedili
posteriori: così puoi tamponargli un po’ la ferita»
disse Alan, strappando di mano le chiavi al ragazzo, che andò a
sedersi dietro con fare contrariato.
«Sì, buona idea».
L’alchimista scese e prese posto dietro mentre suo padre metteva in moto e partiva sgommando.
«Marcus, fa’ vedere, avanti» disse, avvicinandosi.
Lui rimase con le braccia
conserte sul petto, immobile. Sembrava contrario al farsi controllare
la ferita, o forse era semplicemente stizzito perché non poteva
neppure guidare la sua auto.
Irritata dal suo atteggiamento indisposto, Erika gli pestò un piede.
«Ahio!»
«Smettila di fare il
ragazzino e fa’ vedere!» lo riprese, avvicinandosi a lui e
strappandogli le braccia dal petto.
Lui rimase a contemplare il suo viso mentre, con espressione seria e scrupolosa, esaminava la ferita.
Non... me ne ero accorto prima... ma ha davvero un forte spirito d’iniziativa... e degli occhi bellissimi... pensò, arrossendo un po’, involontariamente.
Erika frugò nella
sua immancabile tracolla, quindi ne estrasse un fazzoletto, con il
quale tamponò alla meno peggio la ferita, dalla quale
fuoriusciva ancora sangue.
«Dove andiamo?» domandò Alan.
«Al cimitero»
rispose Erika, poi aggiunse: «Dobbiamo medicargli decentemente la
ferita, ho paura che si infetti».
«Okay» disse semplicemente il redivivo.
«Perché...
l’hai fatto?» sussurrò poi la ragazza, rivolta al
moro, che orientò altrove il suo sguardo.
Già, perché
l’aveva fatto? Avrebbe potuto attaccare direttamente Zaira,
disarmarla, costringerla a parlare senza doversi curare di nessun
ferito... e invece no. Si era preoccupato di salvare Erika. Aveva messo
a repentaglio la propria vita per la sua senza pensarci un solo istante
e adesso che si sentiva consumare le energie, goccia dopo goccia di
sangue che se ne andava, non si pentiva del suo gesto avventato.
Lui ci teneva a lei, pur
conoscendola da nemmeno due giorni. Ci teneva a preservare la sua
incolumità fisica, anche a costo di farsi male. Era una
sensazione strana, ma pressante. La domanda iniziale, però, non
si risolveva: perché?
«Non... lo so» rispose dopo un po’, senza riuscire a trovare nient’altro da aggiungere.
Lei gli prese una mano e gliela poggiò sul petto.
«Tieni il fazzoletto,
altrimenti cade. Adesso cerca di riposarti un po’» disse,
quindi si scostò, rivolgendo gli occhi alla strada davanti a
sé.
In grembo teneva ancora la
piramide, che pareva essere fatta di granati e che riluceva debolmente
di una luce mistica sotto il candore lunare che penetrava dal
finestrino.
Il ragazzo rilassò i
muscoli e attuò di nuovo il processo di trasformazione,
ritornando normale, privo d’ali, quindi appoggiò il capo
sul bordo del sedile e lo girò di lato, in modo da poter
osservare Erika indisturbato: i capelli erano ancora un po’
scompigliati, il viso pallido e un po’ tirato, gli occhi
seminascosti a lui dalla montatura dei suoi occhiali.
Eppure non riusciva a non
scorgere nella sua figura un che di magnifico, bellissimo, pur sapendo
che era distrutta e scioccata da quel che era appena accaduto.
La ferita gli pulsava
dolorosamente e la fitta al centro del petto bruciava, ma non si
pentiva d’essersi esposto per lei. Non si lamentava per quel
dolore causato dalla sua stessa, stupida voglia di fare l’eroe.
No, era... felice, in un modo strano e particolare - oltre che nuovissimo per lui.
Infine, senza toglierle
neppure un grammo della sua attenzione, le palpebre gli si fecero di
colpo pesanti e la stanchezza causatagli dall’ingente perdita di
sangue prese il sopravvento, facendolo sprofondare in un quieto sonno
senza sogni.
Angolino autrice
Finalmente trovo il tempo per aggiornare anche questa +___+ *maledice la scuola*
Ringrazio Sachi Mitsuki per la recensione allo scorso capitolo e tutti coloro che hanno aggiunto la fic alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 13 *** Decisioni drastiche ***
13_Decisioni drastiche
Quando scesero dalla macchina, finalmente giunti davanti al cimitero, Erika notò che Marcus si era addormentato.
Nel vedere il suo viso disteso e la sua espressione serena, alla ragazza sfuggì un sorriso.
«Avanti, Marc...!»
«Papà, sta
dormendo» disse lei con un fil di voce, raddolcendo lo sguardo:
il ragazzo teneva il capo rivolto verso di lei, le palpebre chiuse
dolcemente e le labbra appena dischiuse, tra le quali fischiava
sommessamente il suo debole respiro.
Com’è dolce e indifeso... sembra un bambino... commentò tra sé Erika, mentre suo padre faceva il giro della vettura e lo raccoglieva.
«Lo porto addormentato, okay?» disse, un po’ spazientito.
«Sì, è
meglio che riposi» replicò lei, seguendo il redivivo
all’interno del cimitero silenzioso e avvolto da un leggero velo
di bruma notturna.
Procedettero a passi
svelti, decisi a raggiungere quanto prima il mausoleo dal quale si
accedeva alla caverna dove Marcus viveva.
Arrivati alla struttura, ne
varcarono l’ingresso spediti, fino a raggiungere il fondo, dove
era il piccolo cancello chiuso a chiave.
«Come si fa ora? È chiuso!» obiettò Alan, irritandosi.
«Avrà le
chiavi in tasca...» sussurrò Erika, iniziando a frugare
nelle tasche del ragazzo in cerca delle chiavi. Infine, dopo qualche
minuto di ricerca, riuscì a trovarle.
Aprì il cancello e lo superò per prima.
Suo padre scese alla meno
peggio, strusciando una spalla contro la parete così da sapere
che gli era accanto, in caso cadesse e dovesse aggrapparsi a qualcosa -
anche se, in tal caso, avrebbe dovuto lasciar cadere Marcus, e
ciò non avrebbe certamente fatto piacere a sua figlia.
Arrivati in fondo, corsero
attraverso il corridoio fino ad arrivare nella caverna, dove Erika si
prodigò alcuni minuti nel cercare una candela per sostituire
l’unica che Marcus aveva lasciato accesa e che adesso stava
lentamente languendo sul suo piedistallo.
Suo padre andò a
deporre il corpo del giovane sul materasso e vi si inginocchiò
accanto, in attesa che la figlia illuminasse il locale. Finita
l’operazione, la ragazza andò in cerca della cassettina
con le bende che aveva usato lui stesso la sera avanti. Non fu facile
orientarsi nel caos che c’era, ma riuscì, incredibilmente,
a trovare ciò che cercava.
Così, con un mezzo
sorrisetto di trionfo sulle labbra, si sedette sul bordo del materasso
e spostò la mano del ragazzo, pesantemente appoggiata sul petto,
sopra il fazzoletto.
Come prima cosa - la
più difficile - dovette togliergli la maglietta, e in ciò
l’aiutò non poco suo padre, che sostenne il busto del
ferito mentre lei gli sfilava l’indumento, forato e
sanguinolento, gettandolo poi a terra. Prese il disinfettante ed un
batuffolo di cotone ed iniziò a ripulire la corona di sangue che
si era dipinta sul suo petto, attorno al foro.
Sul viso di Marcus si
dipinse un’espressione che sembrava più una smorfia, un
misto di sopportazione, irritazione e dolore, eppure non si
svegliò.
Dopo che ebbe terso buona
parte del sangue, estrasse le garze e lo bendò, mettendo
particolare cura nel fermare un secondo pezzo di garza che aveva
applicato sulla ferita, per evitare che il sangue trasparisse e
macchiasse tutto subito.
A quel punto, lo coprirono e lo lasciarono riposare.
«E adesso... che si fa?» chiese Alan, lanciando un’occhiata alla figlia.
Questa portò di
sbieco la sua attenzione su Marcus, per un solo istante, prima di
replicare: «È lui quello che ha riportato la Piramide di
Jupiter ad Alejandro, la prima volta. Senza di lui o altre
informazioni, siamo ad un punto morto».
Alan dovette dolorosamente
constatare che era vero: senza il ragazzino, erano fermi. Non potevano
fare niente, non conoscendo come stavano le cose.
Sentirono un sibilo dietro di loro e si volsero in tempo per vedere Marcus puntellarsi su un gomito e rialzarsi per metà.
«Ahio, che male...!» aggiunse, mettendosi malamente seduto.
«Ehi, fermo! Sdraiati, sei ancora debole!» lo ammonì Erika.
Ma lui la ignorò e si alzò, tastandosi la bendatura.
«Sei stata tu?» domandò, accennando vagamente alla fasciatura.
«Sì... almeno in questo ho un poco d’esperienza...» replicò lei, imbarazzata.
Il moro sorrise.
«Grazie»
«Figurati»
«Marcus, puoi
cortesemente spiegarci cosa sta accadendo?» intervenne
bruscamente Alan, irritato dal loro scambio di inutili convenevoli in
un momento del genere.
Il ragazzo rimase in piedi,
saldo, e replicò: «Non ne ho idea. Non so come la piramide
sia finita in mano a quella... quella...»
«Abbiamo capito. Ma adesso... che facciamo?» chiese Erika.
Cadde uno strano silenzio,
quasi solenne, fatto di attesa spasmodica, come se stesse per essere
pronunciato il verdetto di una pena capitale.
Infine, Marcus si espresse: «Andremo da Alejandro. Lui sa certamente quel che sta accadendo».
«Perfetto! Partiamo
subito!» esclamò Alan, alzandosi subitaneamente in piedi,
come se i suoi muscoli fossero molle, ma il moro scosse la testa,
deciso.
Sembra che si senta meglio. Evidentemente dormire un po’ gli ha fatto bene...
commentò la piccola alchimista, osservando assorta
l’espressione severa e scura che si era dipinta in viso al
giovane.
«Cosa? Perché no? Quei tizi...» esordì il redivivo.
«Andrò io da solo, e...»
«NO!».
Stavolta fu Erika ad intervenire, ferma e risoluta, schizzando in piedi, arrabbiata.
«Non posso lasciarti andare così allo sbaraglio! Quei tizi cercano anche te!
Come pensi che mi sentirei se ti dovessero prendere, eh?! E oltretutto
sei ferito! Non sei ancora in grado di andare da nessuna parte da solo!».
In tutto quel discorso, a
suo padre fu lampante solo una cosa, semplicissima e banale, tanto da
risultare quasi un particolare stupido: aveva parlato al singolare.
Non aveva parlato anche per lui, ma solo a nome proprio, e questo significava che...
Ci tiene davvero a lui... si ritrovò a constatare semplicemente, ed una morsa nera gli si chiuse attorno al cuore, letale e venefica.
«Non mi avete fatto finire» intervenne Marcus, pacato.
«Che altro c’è da aggiungere?!» sbottò Erika, irritata.
«Non sarò solo
laggiù! Ci divideremo semplicemente per il viaggio: io vi
precederò e voi verrete in macchina. Ci ritroveremo al St.
Katherine Cemetery di Yoris, la capitale, e insieme andremo a chiedere
informazioni ad Alejandro, okay?» spiegò, in tono
diplomatico.
Era un accordo che, tutto
sommato, Erika ed Alan si sentivano di poter accettare: non prevedeva
che Marcus andasse da solo incontro a chissà quali pericoli, ma
solo una temporanea separazione.
«M-ma sei sicuro? E
come arriverai fino a Yoris? Sì, cioè... se hai detto che
noi verremo in macchina...» chiese Erika, perplessa.
«Io posso volare, ricordi?» esclamò Marcus, ammiccandole con fare malizioso, facendole imporporare le guance.
«E se ti trovano?» s’intromise Alan.
«Sono quasi
più pratico a volare che a camminare, puoi starne più che
certo. Non mi prenderanno con tanta facilità»
asserì il moro, sicuro di sé e delle sue capacità.
Erika lo fissò dritto negli occhi: vi leggeva una profonda determinazione, un qualcosa di orribilmente forte.
Lui voleva
andare, ad ogni costo. Anche se ci avesse rimesso la sua stessa vita,
era intenzionato a seguire la sua idea. Probabilmente sarebbe partito
persino se loro si fossero opposti.
«D’accordo» sbuffò, anche se contrariata, suscitando ilarità nel suo interlocutore.
«Allora... come ci muoviamo?»
«Partirò
domani all’alba. Voi vi muoverete a mattina inoltrata. Vi ci
vorrà non meno di un giorno per arrivare a destinazione»
esclamò Marcus.
«Allora andiamo a dormire: è la cosa migliore» soggiunse poi, avvicinandosi di nuovo al materasso.
«Sì, Erika...
è bene che tu dorma» si aggiunse Alan, posando le mani
sulle spalle della ragazza per guidarla verso il suo angolo-letto.
Lei si lasciò
trasportare e adagiare sul materasso, quindi si distese e, tolti e
riposti gli occhiali, si volse verso Marcus.
«Buonanotte» esclamò, rivolta ad un destinatario indefinito, forse ambedue gli uomini nel locale.
Un disarmonico e annoiato
coro di “notte” gli giunse in risposta, così chiuse
gli occhi e si lasciò avvolgere dalla stanchezza.
«Erika! Erika, svegliati!»
Dove... sono?
Mi
trovavo in una specie di tempio senza soffitto dal quale riuscivo a
vedere la volta celeste, un manto nero puntellato di fulgidi brillanti
argentei. Attorno a me non c’era altro che distruzione e rovina,
detriti di quel che un tempo era il tetto ammonticchiati ovunque lungo
le pareti ed un grande altare di pietra proprio davanti a me, ad una
decina o più di metri.
«Erika, finalmente ci ritroviamo».
Quella voce... l’avevo già sentita.
«Erika...».
Con
il mio nome, ripetuto di nuovo e con un’inflessione soffusa e
dolce, un bagliore accecante mi apparve innanzi, proprio sopra
l’altare. Dovetti coprirmi gli occhi per non rimanerne
completamente abbagliata.
Da quello splendore abbacinante emerse una donna incantevole, che pure avevo già visto... in un altro sogno.
Mi sorrise e, con un semplice passo, superò la distanza che c’era tra noi e mi fu dinanzi.
«Circe» la chiamai d’istinto.
«Erika, adesso tu hai dei poteri».
La
mia prima ed unica preoccupazione non fu di chiederle perché o
come - contrariamente a ciò che c’era da aspettarsi -
bensì: «Quali sono? Come potrò utilizzarli, se non
so quando si manifestano né in che modo?».
La maga, semplicemente, rise.
«Tu
sei un’alchimista, Erika, ma non solo. Sei una maga... e la
catena che unisce i quattro Fulcri del Potere. Per questo, io ho
sciolto il sigillo che bloccava i tuoi poteri, perché tu possa
essere d’aiuto quando giungerà il momento, che in
verità non è lontano».
«Quando? Quale momento? E cosa sono i Fulcri del Potere?»
Ma
Circe iniziava già ad essere nuovamente avvolta da un alone
mistico e candido. Il suo corpo stava divenendo evanescente a poco a
poco, sempre più opaco, sbiadito...
Stava scomparendo?!
«Erika,
ricorda che gli alchimisti comandavano gli elementi. Ricorda... che i
quattro elementi più importanti sono la base su cui è
stata costruito questo mondo...»
«Aria, Acqua, Terra e Fuoco...» sussurrai, senza saper nemmeno bene perché.
«Esatto...
e adesso riposa, perché ti attendono molti pericoli»
concluse la maga, mentre il suo corpo si faceva sempre più
trasparente e si allontanava.
«No,
aspetta! Circe! Qual è il mio compito?! Come posso portarlo a
termine?! Circe!!!» esclamai, mentre correvo avanti, quasi
saltando nel vano tentativo di raggiungerla.
Infine, disperata, mi gettai contro di lei, ormai sospesa nell’aria a quasi due metri d’altezza.
«Ricorda, Erika... tu sei...»
«... la catena che unisce i quattro Fulcri del Potere...».
Angolino autrice
Sono mesi che non aggiorno e chiedo
perdono ç__ç sono stata in fase di stallo con tutte le
longfic a causa della scuola ;__; ma ora è finita, per cui posso
tornare a lavorare a pieno regime! *W*
Ringrazio Sachi Mitsuki per la recensione allo scorso capitolo e chi ha messo la fic tra le preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 14 *** Trame nere all'orizzonte ***
14_Trame nere all'orizzonte
«... la catena che unisce i tre Fulcri del Potere...».
Alan si volse verso Erika:
era ancora beatamente assopita, avvolta nella coperta che le aveva
appoggiato addosso quando ormai aveva varcato da un po’ di tempo
la soglia del mondo dei sogni.
Dormiva ancora, eppure, l’aveva appena udita... parlare?
Starà sognando...
mormorò tra sé, senza dar troppo peso alla cosa, quindi
si affrettò a varcare l’ingresso della caverna e
percorrere l’andito. Salì con cautela la scala, sempre per
il solito problema dei decimi di vista mancanti al buio, finché
non scorse la luce dell’alba che filtrava attraverso il
cancelletto, lasciato accostato.
L’aprì del
tutto ed uscì nel mausoleo, che alla luce del sole acquisiva un
che di mistico e vagamente intrigante, come se tutto improvvisamente si
fosse tramutato nei resti di un qualche antico centro abitato di una
misteriosa civiltà scomparsa sul quale il sole nascente
proiettava tutta la sua maestosa bellezza dal limite estremo
dell’orizzonte.
Era una sensazione davvero curiosa, ma in un certo senso anche corroborante per lo spirito.
Marcus era in piedi accanto
alla porta e parte dell’ombra del suo profilo veniva proiettata
sul pavimento interno del sepolcro.
«A che cosa stai pensando?» chiese Alan, affacciandosi all’improvviso dalla soglia.
Il ragazzo sobbalzò
e si pose una mano sul cuore: non se l’aspettava di incontrarlo,
anche se sapeva che non sarebbe sfuggito alla sua attenzione,
andandosene a passo felpato e senza dir niente a nessuno.
In fondo, lui era morto e
non aveva bisogno di dormire, per cui poteva benissimo tenerlo
d’occhio ventiquattr’ore su ventiquattro.
«La cosa sta prendendo risvolti...»
«... pericolosi?
Già...» completò per lui il redivivo, quindi
uscì alla luce e annuì, appoggiandosi contro lo stipite
opposto, fissando il ragazzino.
«Sarà prudente
portare Erika laggiù? Yoris è una città
pericolosa... se non sai a cosa puoi andare incontro»
Alan sorrise, incrociando le braccia sul petto.
«Sai... anche io mi
facevo la stessa domanda, tre giorni fa, quando mi sono ritrovato
finalmente con lei. “Sarà prudente portarla con me,
nonostante tutto quello che potrebbe succedere?”. Ho continuato a
chiederle scusa per averla strappata alla sua vita, e sai cosa mi ha
risposto...?».
Sul suo viso apparve un sorrisino sghembo.
«“Smettila di
scusarti! Ormai sono qui, per cui ti aiuterò, qualsiasi cosa tu
debba fare e in qualsiasi casino tu sia, capito? Non ti
permetterò di uscire di nuovo dalla mia vita per sempre!”.
Breve e incisiva, per cui non penso che si lascerà persuadere a
rimanere, o peggio ancora a fuggire. Non l’ha fatto dopo essere
stata minacciata con un mitra, non lo farà neanche adesso».
Gli occhi di Marcus si spostarono dal viso del suo interlocutore al terreno, ispezionandolo con finta attenzione.
«Dev’essere
veramente testarda per continuare su questa strada pur sapendo di
essere in pericolo... non si rende conto di essere il
“centro” delle ricerche di
quell’organizzazione?» chiese Marcus.
«Io penso invece che
se ne renda conto, ma che non ci badi troppo, occupata
com’è a cercare di rendersi utile. A volte cercare
un’utilità per se stessi può distrarti da altri
particolari»
«È meglio che vada» mormorò il moro all’improvviso, staccandosi dalla parete.
Attuò la
trasformazione in poche frazioni di secondo, ed eccolo lì,
ancora in piedi, come prima, ma con un bel paio d’ali nere che
gli spuntavano dalle scapole.
«A presto, Alan» salutò il ragazzo.
«Marcus, dimmi una cosa» lo fermò il redivivo, il tono e l’espressione d’un tratto duri.
Il ragazzo si volse per metà, perplesso: che cosa voleva sapere?
«Tu... provi qualcosa per lei?».
Quella domanda lo
lasciò totalmente, irreversibilmente spiazzato: se ne era
immaginato tante che poteva volergli porre in quel momento, ma non
certo quella. Il quesito che
più gli riusciva ostico, semplicemente perché non
riusciva a darvi risposta nemmeno a sé stesso.
«Non lo so» disse semplicemente, invece di un più esaustivo “è probabile”.
«Marcus!» lo richiamò Alan, ma il ragazzo non gli diede ascolto e si alzò in volo.
«A presto!»
salutò, senza voltarsi, quindi si allontanò con un
poderoso colpo d’ali, lasciando il redivivo indietro, irritato e
senza alcuna risposta.
«Felix...?»
«Che vuoi, Sigfred?».
Sigfred deglutì
rumorosamente, osservando la grande porta d’ebano che avevano
innanzi, senza riuscire a dissimulare una certa, profonda soggezione.
«Perché devo essere proprio io a far rapporto al capo?!» sbottò, irritato.
«Perché sei stato tu a permettere alla mocciosa di scappare, ecco perché!»
«Ma se sei tu che ti sei fatto mettere KO senza averla nemmeno sfiorata!!!»
«Però tu avresti potuto bloccarla!»
«Che ne sapevo io che poteva fare magie?!»
«Felix... Sigfred...».
Ambedue rabbrividirono
visibilmente e si zittirono: il richiamo del loro capo proveniente
dall’interno della stanza era sceso lungo la loro spina dorsale
lentamente, simile ad un cubetto di ghiaccio, instillando nella loro
mente una paura non da poco.
«S-sì... capo?» osò domandare Felix, irrigidendosi sul posto.
La porta si mosse a
rilento, cigolando con fare sinistro, aprendosi su una stanza
debolmente illuminata da una fonte di luce ignota: semplicemente, le
tenebre erano poco fitte, come se a diradarne l’intensità
ci fosse una sorta di “alone” luminescente.
Ipotizzarono, a ragion veduta, che fosse una magia.
All’interno, su un
grande scranno dorato, sedeva il loro capo, i cui occhi, simili a pozzi
d’ambra lucente, scrutavano i due scagnozzi con fare inquisitorio.
«Che notizie portate?» domandò in tono solenne, facendo loro cenno di avvicinarsi un poco.
Quelli obbedirono,
esitanti, varcando la soglia con il medesimo timore che avrebbero avuto
se fosse stato l’ingresso per l’Inferno stesso - e non
mancava poi tanto perché lo diventasse.
Si avvicinarono al seggio e rimasero in piedi, immobili e silenti.
«Allora...?» li incalzò lo stregone, studiandoli con inumana calma.
La quiete che precede la tempesta.
Sigfred deglutì,
affidandosi alla Provvidenza, quindi si pronunciò: «Capo,
il redivivo e il suo Contatto sono riusciti a fuggire... e a giungere
da Zaira...».
S’interruppe notando
le nocche del suo ascoltatore sbiancare per la ferrea presa che aveva
iniziato ad esercitare sui braccioli dello scranno.
«Continua» lo
esortò lo stregone, in tono troppo pacato per essere naturale, e
ciò spaventò ulteriormente Sigfred, che però
dovette continuare, suo malgrado.
«... sono riusciti a prendere la piramide... con l’aiuto di un ragazzo della Setta e sono scappati»
«RAZZA DI
IDIOTI!!!» tuonò il mago, sbattendo con forza un pugno su
un bracciolo, facendo sobbalzare ambedue gli sgherri.
«SIETE DEGLI INCOMPETENTI!!!»
«Ci spiace, capo...».
L’uomo sospirò
e si massaggiò le tempie, cercando di riacquisire la calma, o
almeno una parvenza d’essa.
Felix si fece timidamente avanti.
«Ci dia una seconda possibilità! Non falliremo» chiese, deciso.
Sigfred passò
rapidamente gli occhi dal compagno, improvvisamente risoluto e pieno di
volontà, al loro capo, che pareva assorto in chissà quali
pensieri, domandandosi se li avrebbe graziati o meno: aveva sentito
correre voci orribili circa i trattamenti che venivano utilizzati su
chi non riusciva a soddisfarlo e non era certo ben disposto a provarli
in prima persona.
Dopo quelli che sembrarono
essere minuti interminabili, finalmente il capo annunciò:
«D’accordo, vi concedo una seconda opportunità.
Avvicinatevi...».
Sigfred e Felix rilassarono
visibilmente i muscoli, quindi ubbidirono, facendosi così
riferire la loro prossima destinazione.
Angolino autrice
Ecco il quattordicesimo capitolo, finalmente *^*
Mi dispiace solo che sia un po' corto -.-' be', cercherò di rimediare col prossimo XD
Ringrazio tutti coloro che hanno aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite.
Al prossimo chappy! ^^
F.D.
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Capitolo 15 *** A tu per tu ***
15_A tu per tu
Quando Erika si
risvegliò, era come nuova: i muscoli erano carichi
d’energia, pronti ad affrontare qualsiasi problema e a
sorreggerla quando se ne fosse presentato il bisogno.
Nonostante quello strano “sogno rivelatore”, che in
verità aveva occupato solo una parte piuttosto esigua del suo
sonno, aveva riposato benissimo.
«’Giorno» la salutò cordialmente Alan, seduto
accanto al suo cuscino, stirando le labbra in un sorriso pieno di
calore e affetto.
La ragazza si mise seduta e prese la borsa, infilandovi dentro la mano
alla cieca ricerca della custodia contenente i suoi occhiali.
«Buongiorno» replicò una volta che li ebbe trovati
ed inforcati, spostando poi la propria attenzione attorno a sé
«Dov’è Marcus?» chiese l’attimo dopo,
constatando in pochissimi secondi che non c’era nessun altro
là dentro con loro.
Lo sguardo di Alan si velò debolmente di tristezza, un
cambiamento che provocò in Erika un momento di smarrimento e
confusione: perché quello sguardo?
«È partito all’alba» si limitò a dirle suo padre.
Erika si affrettò a sbirciare l’orologio che teneva al polso: erano le nove del mattino!
«Perché non mi hai svegliata?! Volevo salutarlo!» lo aggredì, furiosa.
«Avresti solo tentato di fargli cambiare idea...» disse suo padre, alzandosi, lasciandola spiazzata del tutto.
«Coraggio, andiamo» proseguì subito, avviandosi
verso l’ingresso al corridoio, ma lei lo richiamò:
«Papà...».
Il suo sguardo era annebbiato da una patina di lieve melanconia, che
però attirò l’attenzione del redivivo, che si
fermò.
«Che cos’hai contro Marcus?» chiese la ragazza dopo alcuni istanti di silenzio.
«Niente» si affrettò a rispondere Alan, facendo
sì che la sua risposta apparisse ancor meno credibile di quanto
già non fosse in sé e per sé.
«E allora perché ti scoccia tanto che... che io mi
preoccupi per lui?!» sbottò l’alchimista, lasciando
di stucco l’uomo, che serrò i pugni, irrigidendo le spalle.
«Quella che provi tu nei suoi confronti è più che
preoccupazione. Ti angosci per lui, come se fosse la cosa più
importante che hai al mondo... e non è forse così?! Non
è forse... che tu lo ami?»
«E se anche così fosse? Non dovresti essere felice per me?!».
A quel punto, Erika non era più riuscita a trattenere le lacrime, che adesso le irroravano copiosamente le guance.
Alan si sentì un verme per aver risposto così a sua
figlia, il fiore che non aveva visto germogliare a causa del suo
sciocco egoismo e per quella maledetta piramide che adesso giaceva
abbandonata nella tracolla della piccola alchimista.
Si sentì un emerito idiota per quella gelosia che provava per le
attenzioni che lei dimostrava nei confronti di Marcus e non per lui.
«Io... mi dispiace, Erika. Sono un egoista e un idiota»
sussurrò, avvicinandosi a lei e inginocchiandosi, cingendola in
un forte abbraccio carico d’affetto.
La ragazza si abbandonò tra le sue braccia, dimentica delle
lacrime: in quel momento, l’unica cosa che contava era che fosse
con suo padre.
«Andiamo» disse dopo un poco, sciogliendosi
dall’abbraccio e alzandosi, imitata dal redivivo pochi attimi
dopo.
Ripercorsero per l’ennesima volta il corridoio e le scale, quindi
uscirono dal mausoleo e si diressero verso l’ingresso del
camposanto, attorniati dal silenzio dei morti.
Nella strada che costeggiava il cimitero passavano sparute auto a
velocità sostenuta, alle quali si unì ben presto quella
su cui viaggiavano Erika e suo padre.
Il viaggio - come aveva preannunciato Marcus - li impegnò per
più di un giorno, rispettivamente per ben due lunghi giorni e
ciò semplicemente perché, durante la notte, Alan si
rifiutava - a ragion veduta - di guidare.
Erika dovette nutrirlo due volte, nonostante il continuo ostinarsi
dell’uomo nell’estrema opposizione di resistenza al bisogno.
Alle prime ore dell’alba del terzo giorno di viaggio, finalmente
iniziarono a scorgere, in lontananza, il profilo della città.
«Papà, siamo arrivati! Quella è Yoris!!!»
esclamò Erika, eccitata: finalmente avrebbe potuto ritrovare
Marcus.
«Menomale, mi stavo stufando di stare in macchina!»
commentò Alan con una sottesa nota di sollievo nella voce,
mentre lo sguardo della figlia indagava, assorto, i profili dei palazzi
offuscati dalla bruma mattutina.
Ripensare a Marcus le aveva fatto sorgere un odioso tarlo nella mente,
che non si preoccupò minimamente di nascondere a suo padre:
«Papà... non ti sembra tutto troppo... facile?».
«In che senso?»
«Cioè, il viaggio... avrebbero potuto attaccarci in
qualsiasi momento, dato che quello stregone percepisce la tua presenza,
eppure non ci hanno fatto niente. Ci siamo pure fermati e per due volte
ti sei nutrito, per cui eri debole e sopraffarti sarebbe stato
facilissimo. Però... niente».
Alan rinsaldò la presa sul volante.
«Ora che mi ci fai pensare... è strano»
asserì, la postura irrigidita per l’improvviso nervosismo
dovuto a quella nuova consapevolezza.
«A meno che...» continuò Erika, completamente persa nelle sue elucubrazioni.
«A meno che?» ripeté il redivivo, in fatidica attesa di responso.
«A meno che non fosse tutto programmato, ma ciò vorrebbe dire che...!».
RATATATATATATATATATATANNNNN.
Una pioggia di proiettili investì il cofano della macchina e
Alan fece per sterzare, ma la figlia gridò: «Accelera,
è un’imboscata!!».
L’uomo eseguì e, invece di frenare, premette
l’acceleratore, superando un’auto nera posteggiata lungo il
bordo della strada, dalla quale erano pervenuti gli spari.
«Ci hanno aspettato al varco! Come facevano a sapere che saremmo
venuti qui, dannazione?!» sbottò Alan, inviperito,
schizzando a velocità supersonica lungo le strade della
periferia. Era pericoloso, era vero, ma lo sarebbe stato molto di
più se fosse stato pieno pomeriggio. Essendo l’alba, molti
abitanti della città non erano ancora usciti dai loro
appartamenti per recarsi a lavoro o a scuola o in qualsiasi altra meta,
e ciò era un bene.
«Non lo so, ma dobbiamo seminarli!! Non possiamo condurli da
Alejandro!» disse l’alchimista, stringendo a sé la
tracolla che teneva in grembo, nella quale s’intravedeva la
sagoma della piramide.
La ragazza si sporse un poco dal sedile per guardare indietro
attraverso lo spazio tra i due sedili anteriori: ce li avevano alle
calcagna.
Alan svoltò bruscamente in un’altra grande strada, mancando di poco un lampione sul marciapiede.
Gli spari riecheggiavano contro le mura degli edifici circostanti,
rimbombando nelle orecchie di Erika con forza inaudita, togliendole il
respiro. Acquattata sul sedile, le mani premute sulla testa come a
proteggersi, teneva un occhio chiuso e con l’altro guardava la
strada davanti a sé.
«Papà, per favore, cerca di guidare dritto!!!» esclamò, spaventata.
«Che cosa credi che stia cercando di fare?!».
Un ennesimo sparo e un proiettile perforò il vetro posteriore
dell’auto, fendendo lo spazio tra i due sedili, mandando in
frantumi il parabrezza. Fortunatamente, la maggior parte della pioggia
di vetri si riversò all’esterno dell’abitacolo,
anche se qualche frammento riuscì a ferirla.
La giovane strinse a sé con maggior forza la piccola piramide di granati che aveva nella tracolla sulle sue gambe.
«Papà... - chiamò la ragazza, le lacrime agli occhi - ... fa male morire...?».
Era una domanda dannatamente stupida, lo sapeva, eppure non poteva fare
a meno di porla, men che meno a suo padre: chi, meglio di lui, poteva
risponderle?
Questo fece per risponderle, quando un secondo colpo lo centrò
in pieno al petto, schizzando fuori dallo sterno assieme a del sangue
scuro, sfrecciando fuori dal parabrezza rotto.
«PAPÀ!» urlò Erika, presa dal panico, ma Alan
non diede assolutamente segno di aver incassato il colpo. Fu come se il
proiettile non l’avesse minimamente sfiorato, fatta eccezione per
le tracce tangibili del suo passaggio attraverso il suo torace.
L’uomo sterzò e girò in una stretta stradina
laterale, troppo per il veicolo, al quale furono bruscamente asportati
gli specchietti laterali.
Era un vicolo cieco, ma se ne accorsero troppo tardi.
Un’esplosione rimbombò nell’aria e una vampata di
fuoco si affacciò dal vicolo, costringendo i loro inseguitori a
fermarsi.
Scesero dall’auto e si scambiarono poche, semplici battute.
«Dici che sono morti?».
«Che cazzo di domande fai? Certo che sono morti! Nessuno riuscirebbe a sopravvivere ad una simile esplosione!»
«Allora, che facciamo?»
«Andiamo a fare rapporto al capo».
Rientrarono senza neppure avvicinarsi al vicolo e ripartirono sgommando.
Erika cercò di districarsi dalle lamiere contorte del mezzo, senza riuscirci.
Della piramide che aveva gelosamente custodito, nessuna traccia.
Le lacrime le pungevano gli occhi e
il fumo le impediva di respirare. Gli occhiali erano volati
chissà dove a seguito dell’impatto e tutto il mondo
circostante le appariva come una sfocata chiazza di colori.
Tossì, lacrimando.
«Papà! Papà!» chiamò, piangendo e imprecando tra sé.
Angolino autrice
E questo è l'ultimo capitolo, anche se non sembra. Un po' mi
mancherà questa storia, ad essere sincera. Ringrazio
infinitamente quanti hanno seguito la storia, in particolare coloro che
l'hanno aggiunta alle preferite/ricordate/seguite.
Bye bye <3
F.D.
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