That Love Is All There Is - Old Tales [FONDATORI]

di Terre_del_Nord
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I.001 - TERRE DEL NORD - AED DI GLOWER ***
Capitolo 2: *** I.002 - TERRE DEL NORD - CUILéN ***
Capitolo 3: *** I.003 - TERRE DEL NORD - DòMNHALL ***
Capitolo 4: *** I.004 - TERRE DEL NORD - STORIA DI SHEIRA E CORMACC ***
Capitolo 5: *** I.005 - TERRE DEL NORD - LA RADURA ***
Capitolo 6: *** I.006 - TERRE DEL NORD - IL SIGNORE DEI SERPENTI ***
Capitolo 7: *** I.007 - TERRE DEL NORD - DI CENTAURI, FRATI E CACCIATORI ***
Capitolo 9: *** I.008 - TERRE DEL NORD - IL NERO ***



Capitolo 1
*** I.001 - TERRE DEL NORD - AED DI GLOWER ***


NOTE INTRODUTTIVE

GENERE

Avventura, Drammatico, Romantico, Guerra.
RATING
Arancione per le scene più drammatiche.
PERSONAGGI
I quattro Fondatori di Hogwarts, gli "antenati" degli Sherton e la Confraternita del Nord (i miei personaggi originali).
DESCRIZIONE
Spin off di That love is all there is, narra le vicissitudini dei quattro Fondatori e la nascita di Hogwarts, parla della Magia delle Terre del Nord e dei legami di Salazar Slytherin con la Confraternita e gli Sherton.
NOTE
1. Nel 2013 ho cambiato il mio nickname EFP da Meissa_s a Terre_del_Nord.
2. Ringrazio tutti coloro che leggeranno, commenteranno e/o metteranno tra i preferiti questa fic e naturalmente coloro che l'hanno già fatto...
3. Potete trovare info relative alle storie della serie That Love sulla mia pagina autore in EFP e su FB dove esistono una pagina e un gruppo dedicati alle mie storie.
DISCLAIMER
1. I personaggi e la trama di questa storia mi appartengono, a eccezione dei personaggi e delle vicende "canon" di Salazar Slytherin, Rowena Ravenclaw, Godric Gryffindor e Helga Hufflepuff, che sono di proprietà di J.K. Rowling.
2. Storia scritta per divertimento, non a fini di lucro.


That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.001 - Aed di Glower

ary yuna


Regno di Alba, anno del Signore 962

I pochi sopravissuti emersero dalle nebbie sul far del mattino, simili a pallide ombre provenienti dal regno delle anime: stremati, avevano camminato per trenta giorni e trenta notti, lasciandosi la costa alle spalle, la spiaggia di Cullen disseminata di morti e di feriti, abbandonati alle maree. Erano contadini, servi, non soldati, erano stati chiamati dal loro signore a difendere la loro terra e si erano ritrovati tra orrori che avrebbero desiderato dimenticare, senza poterci mai riuscire. La battaglia era stata feroce: amici, figli, fratelli, tutti erano caduti. Persino re Indulf aveva perduto la vita. Ora il nemico proveniente dal mare era stato sconfitto, l’invasione scongiurata. Tutti temevano, però, che fosse solo una questione di tempo: la popolazione era sfinita, denutrita, afflitta dalle malattie, decimata. Stava perdendo la speranza. E con essa, la Fede. Tra le retrovie, alcuni dicevano che persino il devoto Áed mac Taidg, signore di Glower-o'er-em, avesse tradito il Crocefisso per affidarsi alle pratiche antiche e per questo, ora, fosse punito con la più feroce delle penitenze: aveva perso in battaglia Máel, il suo unico figlio maschio, e questo aveva fatto sì che la vittoria, per lui, diventasse la più amara delle sconfitte. Áed aveva avuto solo un pensiero, in quegli ultimi trenta giorni, ricondurre a casa ciò che restava dei suoi uomini e adesso, in sella al suo frisone nero, muto, a capo chino, lo sguardo perso nel vuoto, era arrivato al termine del suo viaggio. La colpa era sua, solo sua, lo sapeva bene: non era necessario confessarsi col cappellano su, al maniero, sapeva che quella era la punizione di Dio, per aver perduto la Fede, anni prima, e aver agito come il peggiore dei pagani. Mentre l’alba rischiarava i contorni delle colline e si specchiava nelle acque scure appena increspate di Loch a'Mhuilidh, mostrandogli di nuovo la malinconica bellezza del suo mondo, non riusciva a tollerare quel dolore, la rovina di tutto ciò che era e possedeva, preda d’immagini che non avrebbe dimenticato più: aveva sotterrato suo figlio, aveva visto sparire per sempre nella terra gelida i capelli color del grano del suo Máel e in quel tragico frangente aveva compreso come la sua avidità fosse la causa di tutto. Ora gli restavano anni vuoti, da dedicare al dolore, alla solitudine e al rimorso. E alla vendetta. Un’insana, inutile, disperata vendetta.

    «È tutta colpa tua, dannata Strega!»

Colpì, feroce, i fianchi del suo cavallo, costringendolo a riprendere il galoppo, illudendosi che fosse possibile correre lontano dai ricordi e dal dolore. Era colpa sua, sì, e di quella maledetta adoratrice del demonio.

*

Erano passati oltre sedici anni dalla prima volta che l’aveva vista.
Si trovava a Fonn Abhuinn, appena oltre il confine delle sue terre, per vendere i velli appena tosati alla fiera delle lane, quando aveva visto quella donna, con il moccioso appeso al collo: l’aveva notata subito, bella, con i capelli corvini sciolti sulle spalle, una tunica color verde scuro, diversa da quelle grigie e sporche che portavano tutti i servi. Appena i suoi occhi si erano posati su di lei, per la prima volta nella sua vita, Áed mac Taidg, signore di Glower-o'er-em aveva dimenticato il pudore che si richiede a un uomo timorato di Dio, aveva provato un desiderio ardente per una donna che non fosse sua moglie, aveva bramato stringere a sé quelle forme morbide e piene, avviluppare, con le sue, quelle labbra vermiglie. Aveva iniziato a seguirla tra i banchi del mercato, folle, smanioso di contrattare il prezzo di quella "carne", consapevole in cuor suo che sarebbe stato capace persino di prenderla contro la sua volontà, nel buio di qualche vicolo malfamato, se si fosse sottratta ai suoi bisogni. Quando, però, si era avvicinato a lei, furtivo, non erano serviti gesti o parole, era stato sufficiente lo sguardo penetrante della donna a confonderlo. Non ne aveva mai incontrata nessuna, fino a quel momento, ma già dall'infanzia era stato avvertito che esistevano donne capaci di piegare l'altrui volontà con un unico sguardo, e quella che aveva davanti doveva possedere quel potere. La donna aveva sorriso, gentile: era molto più giovane e persino più bella di quanto avesse notato da lontano, si era avvicinata senza timore e gli aveva chiesto una moneta d’oro, una singola moneta d’oro, per comprare cibo per suo figlio, in cambio gli avrebbe svelato il suo destino, la via per ottenere successo, amore, fortuna, tutto ciò che un uomo potesse desiderare. Nonostante gli ammonimenti, Áed non aveva mai creduto a quelle pratiche antiche, certo che se qualcuno avesse avuto capacità simili, le avrebbe sfruttate per ottenere ricchezza e potere per se stesso, non avrebbe continuato a vivere nella miseria, mendicando favori e denaro dal prossimo. Da quando era diventato il signore delle terre ereditate da suo padre, perciò, aveva denunciato spesso indovini e mendicanti, rei di approfittarsi dell’ingenuità del popolo e offendere la verità del Cristo, eppure quel giorno…
Non si riconosceva più, l’unica cosa che desiderava era poter continuare a fissare quel volto. La donna aveva sorriso, di nuovo, enigmatica, sembrava avesse letto nei suoi pensieri e conoscesse i suoi dubbi, così, prontamente, si era voltata per allontanarsi: aveva capito che l’uomo che aveva di fronte non era uno stolto qualsiasi, pronto a credere a qualsiasi fandonia, e percepiva quanto la lussuria dilaniasse la sua mente e la sua carne. Era stato allora, mentre si allontanava, che Áed aveva incrociato lo sguardo del bambino, aggrappato alle spalle della madre: aveva due grandi occhi, grigi come il mercurio, che facevano capolino tra i folti capelli scuri e degli strani segni neri sulle nocche della dita, simili a sottili ricami di seta. Non aveva le guance sporche, rigate dalle lacrime della fame, come tutti i mendicanti, non provenivano, dunque, dalle colline circostanti: nei suoi possedimenti, come in quelli confinanti, gli ultimi anni di guerra avevano ridotto alla fame buona parte della popolazione. Áed l'aveva raggiunta, aveva messo mano alla sacca che portava alla cintola e aveva contato tante monete d’argento da fare due monete d’oro, poi le aveva offerte alla donna deciso a prendersi ciò che voleva da lei e tornare subito dopo alle sue commissioni: lei fece no con la testa, c’era fierezza nel suo sguardo, la fierezza di chi non accetta elemosina e non scende a compromessi; Áed l'aveva fissata a lungo, poi, compreso che non c'era modo di soddisfare i propri desideri, aveva ripreso metà delle monete offerte ma aveva lasciato che la giovane gli prendesse le mani, per leggergli il suo destino.

    «Sei un uomo ricco e potente, mio signore, ma non hai ancora trovato la tua pace e la tua strada, non sai come lasciare un segno su questa terra… Vorresti qualcosa di più di un gregge che pascola florido tra le colline. La tua linea della vita dice che puoi ottenere ciò che vuoi, per te e la tua stirpe, se avrai a cuore la tua terra e la tua gente. È scritto nel tuo destino, Áed di Glower: tu sarai un cavaliere. Presto verrà un nuovo re che ti darà un compito e tu lo porterai a compimento. Entrerai nella sua casa e il tuo nome sarà ricordato nei secoli. Sempre che tu lo voglia...»

Era vero, Áed aveva sempre sognato di essere qualcosa di più, non desiderava passare la sua vita senza lasciare un segno, avrebbe voluto conoscere il mondo, legare il suo nome alla leggenda, contribuire a far nascere un regno importante nella sua terra. Invece, fin dalla nascita gli altri avevano scelto ogni cosa al suo posto, la sua vita era fatta solo di quelle inutili pecore e quegli odiati contadini, era stato destinato a sua moglie ancor prima di venire al mondo. E tutto questo per cosa? Solo per ottenere una famiglia fatta di troppe figlie femmine da sistemare.

    «Non c’è futuro, senza figli maschi…»
    «La linea della vita lo dice chiaramente, mio signore, la stirpe dei mac Taidg non si esaurirà con te e tu sarai amato e ricordato dal tuo popolo… vieni al limitare del bosco di Am Monadh, la notte di Litha… ti darò un filtro per tua moglie. Dopo nove lune, avrai il tuo erede… ma ricordati... perché il tuo destino si compia, occorre che tu voglia il bene della tua terra...»

L’aveva vista sparire con il figlio al collo, tra la gente che trattava merci al mercato. Era ritornato a casa, aveva ripreso la sua vita, ma all’avvicinarsi del Solstizio d’Estate, la donna aveva popolato sempre più spesso i suoi sogni, invitandolo a ricordare il loro appuntamento. La notte di Litha, perciò, aveva preso il cavallo e, da solo, aveva percorso il lungo sentiero scosceso fino a una radura circondata da querce: la Strega era uscita dalla boscaglia, accompagnata da un imponente cane nero, appena la luna si era alzata tra gli alberi e aveva iniziato a proiettare la sua luce dal centro del cerchio di fronde; Áed aveva tremato di paura, credeva che quel cane fosse l’incarnazione del demonio, ma la donna si era avvicinata solo il tempo di dargli un sacchetto di erbe selvatiche e un filtro da mescolare il mattino seguente nell’acqua della moglie, poi, insieme al cane, era sparita. Áed aveva fatto come gli era stato ordinato e nove mesi più tardi, il giorno dell’equinozio di primavera, la sua famiglia era stata benedetta dalla nascita di un figlio maschio: Máel.

*

Non era stata quella, però, l’ultima volta che Áed aveva incontrato la Strega.
Un lugubre, freddo, mattino di novembre di quasi dieci anni più tardi, il signore di Glower era nella piazza del suo villaggio, per assistere all’esecuzione di un gruppo di delinquenti comuni condannati a morte: quel giorno toccava a cinque ladri, un parricida e un adoratore del demonio, che gli era stato raccomandato da Gregorius, il suo cappellano. Ora che la sua vita era completa, ora che aveva ritrovato la pace e la serenità attraverso suo figlio, Áed riteneva giusto assistere a tutte quelle esecuzioni, così come alle funzioni religiose: riteneva fosse suo compito rendere merito a Dio dell'infinita generosità mostrata nei suoi confronti, aiutandolo a mantenere in piedi un regno fatto di giustizia, anche in quella valle di lacrime che era la vita terrena. Si era seduto al suo posto, stretto nel suo mantello di calda lana, aveva visto, come innumerevoli altre volte, il boia accompagnare sul patibolo, uno dopo l’altro, i condannati, passare i cappi intorno alle loro teste e far scattare la botola ai loro piedi, aveva sentito uno dopo l’altro quei colli spezzarsi e quelle vite spirare, e non aveva battuto ciglio di fronte alla disperazione dei parenti, alle acclamazioni del popolo, ai pianti dei condannati, pur sapendo di aver sentenziato la loro morte senza nemmeno controllare che le accuse mosse corrispondessero al vero. Aveva piluccato dal vassoio la sua frutta, impassibile, per tutto il tempo, davanti agli occhi della sua gente, incavati dalla miseria e dalla fame. Quando era stato portato sul patibolo l’ultimo condannato, però, le cose non erano andate secondo le previsioni: un grido alto e incomprensibile aveva attraversato la folla, facendola dividere, sbandare di paura, aprirsi come una ferita nella terra, e mentre la botola scattava e il collo dell’adoratore del demonio non si spezzava come quello di tutti gli altri, perché l’uomo scompariva di colpo nel nulla, Áed rischiò di strozzarsi con il boccone che stava mangiando, vedendo emergere dalla folla la chioma corvina della Strega, i capelli appiccicati al volto dalla pioggia che aveva iniziato a sferzare tutti loro con violenza. Áed diede l'ordine alle guardie di fermarla, ma accanto alla donna, visibilmente incinta, comparve dal nulla il cane nero che, digrignando i denti, tenne lontani tutti coloro che cercavano di ostacolarla, mentre si avvicinava al palco su cui il signore di Glower-o 'er-em assisteva alle esecuzioni.

    «Áed mac Taidg, perché ripaghi la tua terra e la tua gente, della fortuna donata, con l’ingiustizia? Il tuo destino si compirà solo se tu lo vorrai, questo ti dissi... Cambia i tuoi passi, signore di Glower, sei ancora in tempo... o ti avverto, la maledizione degli Antichi perseguiterà te e la tua stirpe, fino alla fine dei tempi…»

Era sparita subito, con il suo cane, in una nuvola di zolfo, dissero i presenti, proprio come era apparsa, lasciando tutti spaventati e confusi.
Da allora, per quasi due anni, Áed era vissuto nel terrore e nell'inerzia, non comprendendo in quale direzione dovesse muovere i propri passi per non scatenare contro se stesso quella misteriosa minaccia, poi, pur guardingo, la vita e gli anni avevano via via cancellato dai suoi pensieri il ricordo della Strega e della maledizione, fino al giorno in cui aveva visto Máel spirare tra le sue braccia, durante la battaglia. Non aveva pensato alla Strega nemmeno quando, evidentemente, il destino promesso aveva iniziato a concretizzarsi: appena un anno prima, il nuovo re, Indulf, aveva fatto visita alle sue terre, per chiedergli di contribuire alla guerra contro gli invasori vichinghi in cambio del cavalierato e di un titolo nel nuovo Regno. Preda dell’ambizione e dei sogni di gloria, Áed aveva ridotto alla fame la sua gente per offrire i raccolti all’esercito di Alba, poi aveva messo nelle mani del re la propria vita e quelle di suo figlio e della sua gente, imponendo ai suoi contadini di lasciare la terra per andare in battaglia. I mac Taidg erano partiti con scarsi mezzi, ma avevano avuto fortuna, avevano accumulato ricchezze, fama e onore: Máel si era distinto per forza e coraggio e aveva ottenuto a tal punto il favore del re, che gli era stata promessa la mano di una sua nipote, la sua protetta. Dalla vita del signore di Glower-o 'er-em, improvvisamente, erano sparite greggi e campi incolti, per aprirsi un inaspettato futuro, fatto di ricchezza, avventure e opportunità: il sogno della nobiltà e del prestigio era finalmente a portata di mano. Tutto era invece finito contro la gelida lama di una spada. Tutto era diventato buio e freddo, la morte aveva preso suo figlio e con lui aveva portato via anche tutto il resto.

*

    «Mio signore… siamo arrivati al bivio per Fonn Abhuinn...»

Kenneth mac Maìl, il fido scudiero del signore di Glower si era avvicinato cautamente, sulle vesti ancora la polvere e gli schizzi di sangue rappreso, sul volto le lacrime che non avevano ancora smesso di sgorgare.

    «Che gli uomini proseguano verso il castello... vai con loro, avvisa mia moglie, poi torna qui con uomini freschi, cani e il cappellano... prima di tornare a casa, abbiamo ancora un dovere da compiere…»

Kenneth guardò il suo signore e annuì, pensava che volesse lavarsi al fiume prima di presentarsi a sua moglie e parlarle del loro figlio, ma non capiva a cosa gli servissero uomini e cani... lo guardò di sottecchi, lo sguardo vuoto di Áed, oltre a una profonda tristezza, gli trasmise una strana inquietudine. Mentre l’armata sfilava lenta e senza più un ordine preciso verso il maniero, Áed osservava il suo mondo, respirava a fondo, come una bestia che fiuta l’aria in cerca della preda: davanti a sè, la valle ai piedi di Fonn Abhuinn appariva circondata da dolci colline che si disponevano simili a una corona, chiusa verso ovest dal massiccio di Am Monadh, una terra impervia, cui nessuno si avvicinava, perché popolata, si diceva, da spiriti antichi e malvagi. Era sicuro che la Strega vivesse lì. Ne era più che certo. Com’era certo che non avrebbe trovato pace finché non gliel’avesse fatta pagare, finché non avesse visto la terra bere il suo sangue immondo. Solo così, liberando il mondo da una creatura malvagia e pericolosa, avrebbe dimostrato al Signore che non avrebbe più ceduto al peccato, alla superstizione, che avrebbe messo la sua spada al servizio di Dio... e Dio, allora, forse, l’avrebbe perdonato.

    «Andremo nei boschi di Am Monadh, Kenneth, voglio trovare la donna che mi ha letto la mano…»
    «Mio Signore… io non credo che…»
    «Voglio catturarla, Kenneth, voglio catturarli tutti…. Li giustizierò, taglierò loro personalmente la testa nella pubblica piazza, darò al mio popolo la giusta vendetta, liberando la terra da quei figli del demonio e… solo allora il Signore riprenderà a proteggere la nostra devota terra…»

Kenneth guardò preoccupato e spaventato il suo padrone, non aveva alcuna intenzione di entrare dei territori di Am Monadh, si diceva che chiunque ci provasse, ne uscisse impazzito. Un brivido di terrore gli percorse la schiena e si aggrappò con tutte le sue forze al pensiero della sua famiglia, che l’attendeva a casa, e del Crocefisso che portava al collo.


*continua*



NdA:
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, aggiunto alle liste e/o commentato.
Un grazie speciale a Ary Yuna, artista ufficiale di That Love, per avermi concesso di utilizzare l'immagine che vedete a inizio capitolo. Potete trovare i suoi lavori anche nella pagina artista FB. Un bacione.

Valeria



Scheda
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Capitolo 2
*** I.002 - TERRE DEL NORD - CUILéN ***



That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.002 - Cuilén



Le urla di dolore di sua madre infransero di nuovo il silenzio della notte e Cuilén si fece ancora più piccolo nella sua pelle d'orso, sotto gli occhi divertiti del fratello, seduto impassibile davanti al fuoco. Il bambino non capiva: come poteva Dòmhnall rimanere così buono e tranquillo, a intagliare quel suo stupido pezzo di legno, mentre quell'uomo, il loro padre, faceva del male alla mamma? Sarebbe intervenuto lui stesso, se non fosse stato appena un bambino. E, soprattutto, se non fosse stato terrorizzato a morte da quell'uomo. Sì, Cuilén era a dir poco terrorizzato da suo padre, perché era grande e grosso, con quegli enormi occhi scuri che sembravano scrutarlo dentro, fino all'anima, e quella terribile cicatrice in faccia, che si vedeva nonostante la folta barba da orso. E non era gentile, mai, con nessuno di loro. Cuilén ne aveva così tanta paura che a volte... a volte arrivava a pregare che suo padre non tornasse più. Era molto più felice quando Cormacc Mac Artgal non c'era, quando portava suo fratello Dòmnhall a caccia, restando via per settimane. Era felice perché, quando suo padre era lontano, Cuilén smetteva di avere paura e perché, rimasti soli, la mamma gli permetteva di dormirle accanto, attorno al fuoco, e, d'inverno, persino nella tenda di pelli con lei, davanti a Habarcat, la fiamma verde. Appena suo padre tornava, invece... Se solo si avvicinava a sua madre, lo afferrava per la collottola e lo scacciava: non voleva che le stesse attaccato alle sottane e, soprattutto, non voleva che gironzolasse attorno al loro giaciglio e alla loro tenda, anche perché, non importava se fosse estate o inverno, giorno o notte, quando suo padre era nella radura con loro, stava quasi sempre chiuso nella tenda con sua moglie e, per quelle che a Cuilén sembravano ore interminabili, tutto sembrava riempirsi dei loro misteriosi gemiti e al bambino non restava che nascondersi nella sua pelle di orso o allontanarsi nel bosco, avventurandosi lungo il sentiero che portava al fiume. Una notte, l'inverno precedente, nascosto nel suo giaciglio, aveva preso coraggio e si era girato verso la tenda, aveva aperto gli occhi e li aveva spiati: proiettate sulle pareti della tenda dal freddo fuoco verde che restava sempre acceso là dentro, vide le ombre dei suoi genitori che si baciavano; quando, però, suo padre si era avventato su di lei e l'aveva costretta a terra, come una belva, aveva subito richiuso gli occhi e si era nascosto nella sua pelle d'orso, spaventato a morte.
Quello che stava accadendo nella tenda in quel momento, se possibile, era anche peggio. Sì, molto peggio: suo padre le stava facendo del male, molto più del solito, non aveva mai sentito la mamma lamentarsi così... E durava da troppo, sì… da troppo ormai. Cuilén non riuscì a trattenere una lacrima, che gli andò a rigare la faccia, già sporca di terra mista alle lacrime precedenti, terrorizzato al pensiero che suo padre potesse arrivare ad ucciderla: l'aveva visto lucidare e affilare con cura il pugnale che teneva legato alla cintola, l'aveva visto mentre lo passava e ripassava sul fuoco, poco prima di entrare nella tenda. E lei non poteva nemmeno difendersi, non sapeva che cosa le fosse successo, ma erano ormai due giorni che non usciva più da là dentro.

    «Smetterai mai di frignare? Che cosa dovrei dire io, allora? Ho già una piaga come te di cui occuparmi e ora ne arriverà anche un'altra... »
    «Che cosa... vuoi dire... Dòmhnall?»

Cuilén lo guardò sconcertato, mentre suo fratello, divertito e esasperato, faceva di no con la testa: che cosa c'entrava lui col fatto che la mamma...

    «Tu non hai idea di che cosa stia succedendo là dentro, vero?»

Il bambino negò con la testa, afflitto, ma al tempo speranzoso, perché ancora una volta, anche in un momento spaventoso come quello, sembrava che suo fratello avesse la situazione sotto controllo, una spiegazione valida per tutto.

    «Ti ricordi la primavera scorsa, quando ti ho detto di stare zitto e osservare una cerva? L'abbiamo spiata mentre dava alla luce il suo cucciolo, ricordi?»

Cuilén annuì, ritornando indietro con la memoria a pochi mesi prima, ricordando la quiete del bosco, l'odore fresco dell'erba umida di rugiada, il manto fulvo della cerva percorso da uno strano brivido e, infine, il cucciolo, che giaceva a terra umido e tremante e subito si metteva in piedi sulle sue zampette sottili. Era rimasto affascinato e perplesso, quel giorno, perché non capiva come qualcuno fosse riuscito a mettere un cucciolo lì dentro... Si era anche chiesto se la cerva avesse provato dolore e se... Le sue domande, come al solito, avevano suscitato le risate incontenibili di suo fratello. Dòmhnall, concentrato, continuava a intagliare con il coltello il pezzo di legno, un'espressione ironica sul viso: probabilmente stava ridendo, tra sé, ricordando a sua volta quelle domande. Cuilén si chiedeva come suo fratello potesse parlare di cervi, sogghignare e giocare col suo stupido coltello, mentre la mamma aveva bisogno del loro aiuto, perché se lui era troppo piccolo e spaventato, Dòmhnall al contrario era ormai quasi un uomo e avrebbe potuto soccorrerla.

    «La mamma in questo momento sta facendo la stessa cosa di quella cerva, Cuilén, sta mettendo al mondo nostro fratello o nostra sorella... Hai visto quanto era cresciuta la sua pancia nelle ultime settimane? Non ti sei mai chiesto il perché? Quindi ora smettila di piangere, non ce n'è motivo. E promettimi che nei prossimi giorni non la infastidirai come fai sempre. Lei non avrà nemmeno il tempo di riposarsi, perché dovrà prendersi cura del bambino, non potrà pensare a te... Tieni, questo è tuo, ma solo se mi prometti che non le darai noia... »

Il giovane si rigirò il pezzo di legno in mano un'ultima volta, per studiare il lavoro, soddisfatto degli ultimi dettagli, una fila di sottili Rune incise sull'impugnatura, a formare il loro nome, poi lo tese al fratello e Cuilén, nel palmo aperto, riconobbe un richiamo per uccelli: Dòmhnall, da anni, ne aveva uno simile, fatto dal loro padre, e il bambino moriva dalla voglia di prenderlo e imparare a usarlo, ma suo fratello non glielo avrebbe dato mai, nemmeno ora che non lo usava più.

    «Quando sarai cresciuto, non ne avrai più bisogno nemmeno tu, perché conoscerai come me altri metodi per farti ascoltare dalla natura ma, per ora, questo potrebbe servirti… E vedi di non perderlo, perché non te ne farò un altro e, di certo, non ti darò mai il mio... »

ll bambino annuì e sorrise, rigirandosi tra le mani il dono del fratello: notò subito che era persino più bello e elaborato di quello che aveva sempre sognato, e fu preso da un tale entusiasmo che avrebbe voluto fosse già mattino, solo per andare a provarlo. Un nuovo grido, più sofferente e prolungato, lo riportò invece al presente, all'idea che sua madre stesse correndo un pericolo e alle mille domande che lo turbavano: perché lei urlava e suo padre era entrato con un pugnale? La cerva di certo non ne aveva avuto bisogno...

    «... La mamma... »
     «Te lo ripeto, non ti devi preoccupare per lei: sanno tutti e due cosa devono fare... altrimenti tu ed io non saremmo qui, adesso, non trovi? Domani mattina potrai vederli, sia lei, sia il bambino... è una promessa... »

Dòmhnall sorrise rassicurante, i grandi occhi color del mercurio fissi e sinceri, come sempre: il giovane, da un po' era spesso taciturno e scontroso, ma quando gli faceva una promessa, Cuilén poteva essere sicuro che l'avrebbe mantenuta a costo della sua vita. Lo guardò, ammirato, era più grande di circa undici anni, presto sarebbe stato pronto per lasciare la famiglia e per vivere la sua vita: come aveva paura e sentimenti contrastanti verso suo padre, trovava in suo fratello l'esempio da seguire, voleva diventare come lui, un giorno. Alla fine dell'estate, però, Dòmhnall l'avrebbe lasciato solo, perché sarebbe partito per un lungo viaggio, lontano dai territori di Am Monadh, diretto nelle Terre del Nord, la Terra della Confraternita, la loro gente, di cui sentiva parlare, nei racconti e nelle favole, fin da quando era ancora nella culla. Lì avrebbe preso parte ai riti, al termine dei quali gli sarebbero state imposte le Rune della maturità, le Rune con cui la Confraternita segnava i giovani di sedici, diciassette anni se riuscivano a superare delle prove. Un giorno, ancora molto lontano, sarebbe toccato anche a Cuilén: al suo collo era già stata impressa la Runa che indicava la sua appartenenza a uno dei clan della Confraternita, e le dita delle sue mani e dei suoi piedi erano decorate di sottili ricami, simili a seta nera: erano le “Parole del Nord”, tracciate da suo padre con un inchiostro fatto di erbe magiche, a cui aveva mischiato il proprio sangue. Non ricordava quando gliele aveva fatte, né se aveva provato dolore, sapeva solo di averle sempre avute. Tutti, nella sua famiglia, avevano quei ricami, quel fitto susseguirsi di Rune, che raccontavano una storia e una tradizione che nascevano nella notte dei tempi: la tradizione degli Antichi. I suoi pensieri si interruppero di colpo, tutto intorno, l'intera radura fu pervasa da un silenzio irreale, i lamenti della madre si erano fermati e al loro posto, improvviso, era scoppiato un pianto, un suono nuovo, simile al miagolio di un gatto. Subito dopo, Cuilén sentì la voce debole e commossa della mamma e la risata forte e liberatoria di suo padre. Dòmhnall emise un sospiro: si era mostrato forte e distaccato per tutto il giorno, per non spaventare con la sua ansia il fratello minore, ma aveva temuto anche lui per la madre. Si alzò, spazzando via i trucioli di legno che aveva addosso e con essi le ultime preoccupazioni, spense il fuoco di erbe magiche che aveva tenuto acceso ininterrottamente da quando il padre era entrato nella tenda e finalmente stese la sua pelle d'orso vicino a quella del bambino, davanti al falò.

    «Hai sentito, moccioso? È nato... Ora vieni qui, stenditi accanto a me, e cerca di dormire, almeno domani mattina possiamo partire presto e provare il tuo richiamo... »

Cuilén lo guardò, in parte deluso: aveva sperato di poter vedere il bambino subito, ma sapeva che, quando suo fratello gli dava un ordine, doveva eseguirlo, come se l'avesse ricevuto da suo padre. Si alzò, superò i pochi passi che li separavano e si stese accanto al corpo forte e caldo di suo fratello, che gli scansò i capelli dagli occhi e con un movimento leggero della mano gli pulì la faccia: a Cuilén piaceva quel gesto, simile a una carezza, grazie al quale si ritrovava subito pulito senza dover usare l'acqua. Odiava l'acqua, non sapeva perché, ma ne aveva talmente paura che non riusciva a seguire gli altri di là del fiume, per questo sua madre o suo fratello dovevano prenderlo in braccio, per farglielo attraversare, e per questo suo padre si arrabbiava moltissimo. Una volta era persino riuscito a strapparlo dalle braccia della madre per poi gettarlo in acqua, impedendo alla donna di aiutarlo e urlando a suo figlio che, se voleva ancora sedersi attorno al fuoco con loro, doveva imparare, e presto, a superare le sue paure. Il bambino, però, non ci riusciva, per questo, quando Cormacc era a casa, Cuilén era costretto spesso a restare da solo, lontano dalla sua famiglia, al limitare della radura: suo padre ormai sapeva quanto fosse spaventato e per questo insisteva nel costringerlo a seguirlo al fiume, dove inevitabilmente il bambino si metteva a piangere e lui lo puniva, nonostante l'intercessione della madre. Un giorno, però, Cuilén sarebbe stato capace, come Dòmhnall, di vincere le proprie paure e fare le magie: non vedeva l'ora, perché quando fosse arrivato quel giorno, sarebbe stato finalmente simile a quel fratello che ammirava tanto e... sarebbe finalmente fuggito lontano da suo padre.

    E la mamma? Come potrei lasciarla sola con quell'uomo?

Si voltò, così da avere davanti agli occhi la tenda dei suoi genitori, sospirò, sollevato che non fosse successo nulla di male, come aveva temuto, e al tempo stesso sentì un sentimento strano, nuovo, per quel bambino che, al contrario di lui, aveva il diritto di stare nella tenda con sua madre.

    «Dòmhnall... »
     «...Dormi... »
     «... Credi che smetterà mai di farle del male?»
     «Male? Non le fa del male, Cuilén, sei tu che sei piccolo, troppo... e non puoi capire... Pensa a dormire... »
     «Per favore... spiegami... tu non hai mai paura per lei? Non hai paura che lui possa farle troppo male?»
     «Ascolta, Cuilén... Devi smettere di avere paura di nostro padre, tutto quello che fa, lo fa perché la ama... perché ci ama e vuole proteggerci... tutti... Devi imparare ad ascoltarlo, invece di temerlo... E per quanto riguarda la mamma... beh... te lo assicuro... Non devi avere paura per lei, ma di lei, non dimenticarlo mai… Ora dormi... domani parleremo per tutto il tempo che vorrai... »
     «Me lo prometti?»
     «Certo, te lo prometto... »

Cuilén, pur senza capire, si sentì rassicurato, si sistemò meglio la pelle d'orso addosso e scivolò rapidamente nel sonno, sereno. Dòmhnall invece rimase a lungo a fissare le stelle, che facevano capolino tra le fronde. Non riusciva a dormire, una sensazione strana lo turbava, guardava suo fratello accanto a sé e, ancora una volta, si chiese fino a quando sarebbe stato in grado di mantenere le sue promesse, come aveva fatto finora. Non poteva immaginare che avrebbe trovato molto presto quella risposta...



*continua*



NdA:
Ciao a tutti/e, per prima cosa vi ringrazio per le letture e le recensioni e grazie per la fiducia a chi ha aggiunto ai preferiti/ seguiti, ecc ecc. Per le atmosfere mi sono fatta "suggestionare" un po' da "Il Signore degli Anelli" e da "I Pilastri della Terra", ma questo spin-off resta connesso, nonostante ci sia quasi un millennio di distanza tra le due storie, a "That Love" e al mondo di Harry Potter, quindi i personaggi principali sono più che altro Maghi e Streghe e i rapporti con il mondo babbano sussistono solo perché il Trattato di Segretezza Magica sarà stipulato non prima del 1689. I riferimenti alla religione cristiana presenti e futuri in questa ff non rispecchiano/rispecchieranno i miei pensieri sull'argomento e non hanno intenti polemici, ho solo cercato e cercherò di descrivere l'atmosfera di questa epoca che, come sappiamo, è stata divisa tra un forte teocentrismo e un'altrettanto forte tendenza alla superstizione. Questo prologo darà modo a chi legge di ambientarsi, conoscere con calma i personaggi e come si relazionano tra loro: non tutti i personaggi che vedremo in questi primi appuntamenti ci seguiranno nel resto della storia, al contrario se ne aggiungeranno degli altri solo in seguito. Anche se i nomi non vi sono familiari, la famiglia di Maghi che vive nella radura sono gli antenati degli Sherton (leggete il nome della Strega e capirete come nasce questo cognome così poco "gaelico").
Tutti questi nomi, come i nomi di luogo e di persona dell'altro chap, non sono di mia invenzione ma li ho scovati andando a leggermi siti che trattano dell'antica Scozia (in particolare, la battaglia di Cullen nel 962 è realmente avvenuta e re Indulf di Alba è morto nel tentativo di respingere gli invasori Vichinghi in quell'occasione). Piccolo promemoria:
Cormacc Mac Artgal: il padre, l'abbiamo visto nel capitolo precedente nelle vesti umane di condannato al patibolo in quanto adoratore del demonio (Cormacc in antico gaelico significa "figlio di dissacratore") e nelle vesti del cane nero che protegge la Strega;
Sheira nic a' Thon: la Strega, vedremo la sua presentazione ufficiale nei prossimi chap;
Dòmhnall: è il bambino che stava in braccio alla Strega nello scorso capitolo, ora ha circa 16/17 anni, essendo di qualche mese più grande di Mael, il figlio morto di Aed;
Cuilén: nell'altro capitolo la Strega era incinta di suo marito e aspettava questo figlio, ha sui 5/6 anni.
A presto.
Valeria



Scheda
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Capitolo 3
*** I.003 - TERRE DEL NORD - DòMNHALL ***



That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.003 - Dòmhnall



La foresta era immersa nell'oscurità e in un silenzio quasi perfetto, il vento portava lieve, a tratti, solo il respiro del fiume e i versi sommessi di qualche animale notturno, dal folto del bosco. In quella quiete, poteva sentire, nitido, il battito del suo cuore, forte e stranamente irregolare: quella notte sembrava che pulsasse così violento e furioso da impedirgli di dormire, quasi volesse fuggirgli via dal petto. Passava spesso la notte così, in attesa, a occhi chiusi e in silenzio, ad ascoltare il suo corpo, la brezza, la natura, provando a fondersi con lo spirito di quei luoghi, come gli aveva insegnato sua madre fin da bambino; in quel momento, però, una tensione ignota gli impediva quasi di respirare, la sua mente non si apriva all’armonia che viveva attorno a sé, ma si tormentava correndo dietro a pensieri contorti e dolorosi. Dòmhnall si rigirò nel suo giaciglio, piano, per non svegliare suo fratello: da un po' il moccioso aveva smesso di servirsi di lui come fosse un pagliericcio, così aveva potuto mettersi supino e ora stava considerando l'idea di sollevarsi a sedere o addirittura alzarsi. La luce della luna illuminò il musetto di Cuilén che spuntava appena dalla pelle d'orso, preso da un sonno profondo e da chissà quale sogno finalmente sereno, non si era accorto dei movimenti del fratello maggiore, per fortuna, altrimenti Dòmhnall avrebbe dovuto passare il resto della notte a rispondere alle sue sconclusionate domande. Sorrise tra sé: quel bambino era spesso una peste insopportabile ma lui gli voleva bene, ogni volta che si allontanava per qualche giorno con suo padre per la caccia o le prove, non sentiva nostalgia solo per la voce di sua madre, o per quella che era ancora la sua casa, gli mancava anche suo fratello, la sua ingenuità spesso ridicola, quel suo modo ancora un po' buffo e goffo di muoversi e parlare. Sospirò. Quell’inquietudine invece di disperdersi sembrava stringerlo più forte, perché non sopportava l'idea che non avrebbe mai visto suo fratello diventare un uomo, presto non avrebbe saputo più nulla di lui, di tutti loro. Presto se ne sarebbe andato da quella radura e la sua vita avrebbe preso una strada diversa da quella di tutti loro. Non c'era niente da fare… Doveva muoversi, voleva togliersi di dosso quella odiosa ansia. Poteva arrivare al fiume, immergersi nell'acqua fresca, bere. Se fosse stato abbastanza rapido, sarebbe ritornato prima che qualcuno si accorgesse della sua assenza. Gettò un'occhiata verso la tenda dei suoi genitori, attraverso le ombre proiettate dalla Fiamma verde, vide la figura di suo padre, seduto vicino all'imboccatura, ciondolare un po', forse si era assopito mentre montava la guardia a sua madre e al neonato: il piccolo non si era ancora sentito, non aveva pianto per la fame, sembrava dormire sereno e tranquillo.

    Chissà se è un altro maschio o, finalmente, una bambina?

Dòmhnall si strinse nelle spalle, del destino di quel bambino non avrebbe mai saputo niente, quindi non doveva curarsi di lui, era già triste pensare di dover abbandonare Cuilén, era inutile affezionarsi al neonato, significava solo soffrire di più. Si alzò senza far rumore, accostò per bene la pelle d'orso addosso al fratello, notò che stringeva tra le dita il richiamo che gli aveva regalato un paio di ore prima, quasi fosse il più prezioso dei tesori. Si voltò, deciso a non pensare, si sgranchì appena le gambe e le braccia: il suo corpo, pallido ai raggi della luna, appariva macchiato qua e là di scuro dalle ombre delle fronde sovrastanti. Era ancora poco più di un ragazzino, asciutto e sottile, ma già alto quanto suo padre, e sulla sua pelle la peluria biondiccia dell'infanzia aveva ormai lasciato quasi del tutto il posto a quella più scura e prepotente di un giovane uomo. Rabbrividì quando vide le rune, sottili ricami d’inchiostro nero, rilucenti sulle sue dita, pensando al fatto che presto a esse se ne sarebbero aggiunte ancora e ancora. I suoi occhi chiari indugiarono sul suo corpo ancora per un po', con un misto di tristezza e imbarazzo: a volte, anche se quei pensieri lo facevano vergognare a morte, si rendeva conto di invidiare suo fratello, così piccolo e ancora bisognoso di protezione, sapeva di aver paura, di non voler diventare un uomo, di non voler crescere, perché per quelli come lui, crescere significava doversene andare, lasciare il mondo che conosceva, la sua famiglia, per andare lontano, ad affrontare l'ignoto. Suo padre gli aveva raccontato con orgoglio delle avventure che avevano segnato la sua vita, del lungo viaggio fino alle Terre del Nord, delle prove, dei riti, delle cerimonie, degli insegnamenti del suo maestro, dell'incontro con sua madre, della sua vita raminga insieme con lei, fino a scoprire quella radura, e creare lì, con lei, la sua vera famiglia. Dòmhnall ne era rimasto affascinato e colpito da bambino, ma ora che la vita stava per chiamarlo ad affrontare in prima persona quei cambiamenti, sentiva il cuore e la mente vacillare, perché non sopportava l'idea che quella che conosceva non sarebbe più stata, come diceva suo padre, la sua “vera” famiglia. Se solo fosse stato possibile, non avrebbe mai abbandonato il suo mondo, quell'angolo di foresta che conosceva come se stesso, i suoi nascondigli, i punti migliori per pescare, e... E quel sentiero che aveva scoperto pochi anni prima, che portava allo scoperto, fuori dal bosco: ci si era perduto una volta per sbaglio, inseguendo un cervo, poi era stato attratto da un suono strano, che non aveva mai udito prima...

    Ina...

Ci si era inoltrato di soppiatto più e più volte, da allora, nascondendosi tra i cespugli che celavano una radura ai margini di Am Moradh, in cui alcune ragazze di un villaggio vicino lavavano e si facevano il bagno. Dòmhnall accelerò il passo, camminò rapido fino al fiume, cercando di non pensare a quelle immagini: scoprire quelle donne tanto diverse da sua madre l'aveva turbato e l'esistenza di Ina, lo sapeva, aveva accelerato la data della sua partenza. Era strano e ridicolo che la sua vita cambiasse ogni volta che gli capitava di vedere delle donne che si facevano il bagno: era poco più piccolo di Cuilén quando aveva visto sua madre al fiume e, se lo ricordava ancora, era scoppiato a ridere come uno stupido, facendosi scoprire, osservando quel suo corpo tanto diverso dal suo, le sue forme più piene delle sue, guardandolo incuriosito, sorpreso di quanto fosse diverso una volta nudo, senza quella tunica informe con cui la vedeva sempre, tanto simile alla sua. Sua madre non aveva detto nulla, al momento, ma per tutto il resto del giorno l’aveva fissato a lungo, spesso di soppiatto, cercando di cogliere nei suoi occhi un cenno, una domanda, per iniziare con lui un discorso importante, ma Dòmhnall, dopo quelle risate iniziali, era ammutolito, non capiva nemmeno lui perché, ma si sentiva troppo imbarazzato per chiedere. Quando fu l'ora di spegnere il fuoco, sua madre aveva all'improvviso iniziato a parlargli di come la natura avesse voluto gli uomini e le donne simili eppure diversi, "complementari" aveva detto, proprio come tutti gli altri animali della foresta; l’aveva ascoltata per ore, affascinato, scoprendo una realtà che aveva percepito già, a volte, ma che non aveva compreso mai: da quel momento aveva iniziato a guardare il mondo attorno a sé in maniera diversa, consapevole e curioso di quelle differenze. Senza accorgersene, la sua infanzia era finita così, per un fatto innocuo e fortuito: da quel momento la sua vita era cambiata, non aveva più potuto mettere piede nella tenda, non aveva più potuto dormire accanto a lei, scaldandosi col suo calore, era lentamente passato dal mondo di sua madre a quello di suo padre, aveva smesso di raccogliere erbe e bacche nella foresta con lei e aveva iniziato a seguire lui, passando via via sempre più tempo lontano dalla radura, a caccia. Aveva persino imparato a uccidere. Solo il giorno che aveva trovato e visto le donne del villaggio, però, aveva compreso appieno il discorso di sua madre.
E quel giorno non aveva riso, no. Aveva scoperto cose nuove, non nel mondo che lo circondava ma in se stesso, un turbamento diverso; era rimasto confuso, quelle spiegazioni erano di colpo diventate reali, le aveva sentite sulla sua stessa pelle, era rimasto spaesato, per non dire spaventato, per giorni. Da allora aveva cercato sempre più spesso la solitudine e il silenzio, da quel momento la curiosità che finora aveva riversato sul mondo era finita e aveva iniziato a cercare di capire e scoprire se stesso, le proprie reazioni, il mistero che aveva nella mente e nel suo corpo. Al tempo stesso, non poteva fare a meno di andare al fiume sempre più spesso, all'inizio ogni volta che i suoi non si curavano di lui, poi appena si presentava anche la più piccola folle occasione di allontanarsi, infine era arrivato a disubbidire e scappare senza dare spiegazioni: c’era, infatti, una ragazza bionda, più piccola e timida delle altre, Ina, che non si spogliava mai, che concentrava tutta la sua attenzione, alimentando giorno per giorno, sempre di più, la sua ossessione.
Dòmhnall passava giorni e notti intere a immaginare come fossero la sua pelle e il suo corpo sotto la tunica, come fosse il suo profumo, come sarebbe stato baciarla e toccarla e... S’inventava i piani più stupidi e pericolosi immaginando di poterla portare via dalle altre, poter restare solo con lei, convincerla a rimanere per sempre con lui, a vivere insieme nella foresta, ma ogni volta che nella realtà la ammirava, seduta in riva al fiume, a ridere timida con le altre, i suoi passi diventavano pesanti come pietra e lui si rendeva conto che non sarebbe mai riuscito ad avvicinarla. Quando aveva scoperto il suo segreto, suo padre non era stato tenero con lui, anche se Dòmhnall gli aveva giurato e spergiurato di non aver mai mosso un passo fuori dai cespugli, di aver solo sognato di avvicinarsi a lei, di non essersi mai nemmeno mostrato. Suo padre non aveva sentito ragioni, l’aveva rinchiuso per tre giorni e tre notti in una grotta, senza cibo né acqua, in un luogo impervio della foresta da cui nessuno potesse sentire le sue urla e le sue suppliche. Dòmhnall non aveva capito quello che era accaduto, credeva che suo padre si fosse arrabbiato perché aveva ignorato suo fratello per farsi gli affari propri, ma quando infine, al tramonto del terzo giorno, l'uomo, con cipiglio severo, era tornato da lui, portandogli da mangiare, ed era rimasto con lui tutta la notte a parlargli, aveva scoperto una verità che non sospettava. Suo padre gli aveva spiegato che esistevano due mondi, e che la foresta di Am Moradh esisteva per segnare il loro confine, assicurandosi che fossero e restassero separati per sempre. Questi due mondi erano caratterizzati dalla presenza o dall'assenza di quella forza che Dòmhnall sentiva crescere in sé giorno per giorno, una forza che il ragazzo aveva sempre immaginato innata, eterna e immutabile, presente in ogni creatura, invece, con orrore, suo padre gli stava dicendo che non era così, che esistevano uomini e donne senza quella forza, invidiosi di quella forza, capaci con il proprio sangue e la propria carne impura di indebolire, fino a spegnerla per sempre, la loro diversa essenza. Dòmhnall aveva scoperto quella notte che quelle cose che lui sapeva fare, quelle che aveva appreso dai suoi genitori e che stava insegnando a suo fratello, non erano alla portata di tutti, che la forza che stava crescendo in lui era un potere straordinario concesso a pochi, ma anche una responsabilità gravosa, che solo pochi erano in grado di assumersi.

    Quella notte ho appreso che noi siamo Maghi e tutti gli altri no...

Aveva imparato quella parola quella notte, non l'aveva udita mai prima. Aveva imparato il suo nome quella notte, scoprendo con esso la propria forza e la propria maledizione. Aveva scoperto che la sua vita non era segnata, preordinata alla nascita, come quella di tutti gli altri, ma stava tutta nelle sue mani, poteva plasmarla a suo piacimento, affrontando di volta in volta le innumerevoli scelte che il destino gli avrebbe messo davanti. Quella notte, lo comprese subito, forte di quella nuova consapevolezza di sé, aveva smesso di essere solo un ragazzino ed era diventato un giovane uomo.

    Un Mago.

Erano passati mesi da quella notte di primavera, i suoi sogni continuavano a popolarsi di quei corpi, di quelle risate cristalline, di quei capelli rossi e biondi che si muovevano al vento, i suoi pensieri abbracciavano ancora, spesso, il dolce sorriso di Ina, ma aveva compreso che per lui tutto questo non contava abbastanza. Troppo alto era il prezzo di un desiderio, in fondo, incredibilmente futile. Entrò nell'acqua del fiume, scorreva placida e gelida, rabbrividì fino alle ossa, e lasciò che quel tremore spegnesse l'ansia e il desiderio che aveva sentito crescersi addosso. S’immerse fino a sentire le sue palpebre pesanti d'acqua, le sue orecchie chiudersi a qualsiasi rumore, fino a coprire completamente la testa; represse il respiro, fino a forzare i suoi polmoni, si trattenne ancora sempre di più, fino a sentirsi bruciare dentro, poi riemerse, i capelli corvini che si appiccicavano sulla pelle intirizzita delle spalle. Si lasciò cullare dall'acqua, diventando un tutt’uno con l’abbraccio fluido e ritmico del fiume.

*

Il vecchio sarebbe giunto a prenderlo entro il nuovo plenilunio, in un momento imprecisato, forse persino quella stessa notte: allora Ina, quelle donne, sua madre e suo padre, Cuilén e tutto il resto sarebbero spariti, simili a fantasmi del passato sul fare del giorno, non avrebbero lasciato che tenui tracce su di lui, come quell'acqua che eternamente scorre, non è mai la stessa, in mezzo a un mondo che vorrebbe essere immutabile come roccia antica.

    Nemmeno la più dura delle rocce resta immutabile e inviolata dal tempo.

Uscì dall'acqua grondante, si sedette sull'erba umida di rugiada, la brezza che gli gelava le gocce addosso, ancora un po' affannato, la mente vuota, pronto ad ascoltare la voce della sua foresta. Avrebbe scoperto nuove foreste, avrebbe ascoltato altri alberi, avrebbe conosciuto altri sentieri, ne avrebbe persino aperti di nuovi, sotto un cielo immutabile, quello sì, che si sarebbe acceso su di lui ogni notte. Di colpo capì quello che poteva e doveva fare. Il cielo era l’unica cosa immutabile che conosceva, ed era lo stesso in ogni terra in cui suo padre l’aveva condotto. Avrebbe insegnato a suo fratello, quella stessa notte, appena fosse ritornato alla radura, come restare sempre insieme: gli avrebbe insegnato a riconoscere il Carro dell'Orsa, gli avrebbe detto di osservarla, tutte le sere, e intanto stringere in mano il richiamo per gli uccelli che aveva costruito per lui; in questo modo, pur in terre diverse, per il resto della loro vita sarebbero sempre stati insieme, uniti da quello stesso cielo.

    E forse un giorno... chissà…

Rapido si asciugò dal viso le gocce che scendevano dai suoi capelli, aveva sentito sulle labbra qualcosa di salato, non voleva ammettere nemmeno con se stesso che per molto tempo avrebbe perso la sua battaglia con quelle lacrime. Fu allora che lo sentì. Era strano: qualcosa frusciava, irrispettoso, muovendosi incerto nel fogliame. Non era il suono naturale degli animali: quelli, nell'eterna scacchiera dei predatori e delle prede, cercavano sempre di non fare alcun rumore. Questo era un rumore innaturale. Rumore di passi, passi pesanti, passi erranti, passi diversi, uomini misti ad animali... Qualcuno delle “genti diverse” aveva violato Am Moradh, spingendosi fin lì, un luogo finora difeso dalle loro stupide superstizioni e dal fitto della boscaglia. Di colpo Dòmhnall ricordò che, alcuni anni prima, suo padre era stato catturato e tenuto prigioniero: era piccolo e all'epoca non aveva capito, aveva pensato che suo padre non fosse tornato a casa per oltre un mese perché aveva combattuto con un orso o una belva feroce, per via della cicatrice sul volto. Invece, quando gli aveva spiegato la differenza con gli “altri”, suo padre gli aveva parlato anche di quello che le “genti diverse” di solito facevano a quelli che chiamavano “strani”, “adoratori del demonio”, “dissacratori”, “figli di satana”, quelli come loro. Ricordò anche, con angoscia, che una Strega, per quanto forte e potente come sua madre, dopo il parto restava debole e priva di poteri per giorni, perché impegnata a passare al nuovo nato il suo “dono”, attraverso il sangue prima, e poi con il latte. Comprese di dover fare in fretta, doveva raggiungere gli altri, annunciare la presenza di estranei, aiutare suo padre a mettere in salvo sua madre e i suoi fratelli. Combattere al suo fianco.
Dòmhnall maledisse se stesso e la propria debolezza, sapeva che c'era un motivo serio se suo padre e sua madre non volevano che si allontanasse, soprattutto di notte, maledisse la propria stupidità: correva tra le foglie, leggero, senza far rumore, proprio come aveva appreso dai cervi, saltava tronchi d'albero e tagliava, a balzi, sui ciottoli scivolosi, l'ansa del fiume, per raggiungere la radura il più velocemente possibile e per celare al fiuto dei cani, li aveva sentiti, l'odore dei suoi passi. Non capiva quanti fossero, non capiva che cosa cercassero, non capiva che cosa li avesse spinti in un bosco che tutti consideravano spaventoso di giorno, figurarsi in piena notte: l'unica risposta che riusciva a darsi, era che stavano cercando proprio loro. Quando giunse alla radura, trovò tutto come aveva lasciato, suo fratello nella pelle d'orso, la tenda illuminata dalla Fiamma verde, l'ombra assopita di suo padre: si avvicinò, rapido e furtivo, fino all'ingresso della tenda, parlando piano, mettendo una mano sul braccio dell'uomo, e svegliandolo di soprassalto.

    «Ci sono degli estranei che si avvicinano alla radura, padre... dobbiamo allontanarci, portare la mamma e i bambini al sicuro!»

All'inizio, colto alla sprovvista, Cormacc parve non comprenderlo, poi dallo sguardo spaventato del figlio, l'uomo si rese conto di quello che stava accadendo, rifletté, poi decise di affidargli Cuilén e ordinargli di risalire il fiume fino alla sorgente, di aspettarli lì, mentre lui si sarebbe occupato della moglie e del neonato, seguendoli e coprendo intanto la fuga dei figli più grandi.

    «Padre... coprirò io la vostra fuga, posso rallentarli, mentre voi e la mamma… e i bambini... »
     «No, devi mettere in salvo tuo fratello, Dòmhnall, è questo il tuo compito... Qualsiasi cosa succeda, e te lo ripeto, qualsiasi cosa succeda, giurami che farai di tutto perché Cuilén raggiunga la sorgente!»

Non accettò altre obiezioni, Cormacc prese la sua pelle d'orso, ci avvolse dentro la Fiamma verde, dopo averle imposto un incantesimo che la chiudesse su se stessa, e diede una pacca sulla spalla del maggiore dei suoi figli, gettandolo fuori dalla tenda. Dòmhnall si voltò un'ultima volta per guardarvi dentro, prima di avviarsi al fiume: suo padre svegliava con difficoltà la madre, l'aiutava ad avvolgere il bambino in una pelle e li prendeva entrambi tra le sue forti braccia. Quando raggiunse Cuilén, il bambino dormiva ancora e Dòmhnall comprese che sarebbe stato più facile fuggire con lui se non si fosse svegliato, così avvicinò le labbra all'orecchio del fratello e recitò una nenia antica, poi se lo caricò sulle spalle e iniziò a correre risalendo rapido e spaventato il corso del fiume.

*

Per raggiungere la sorgente mancavano ancora alcune ore di cammino, ma Dòmhnall non ce la faceva più, era stanco, sfinito dalla corsa e dalla paura, attorno a lui il bosco era sempre e indistintamente immerso nel silenzio. Il ragazzo era nato e vissuto nei boschi, conosceva in particolare quella foresta come se stesso, eppure aveva paura, proprio come la prima volta che si era inoltrato tra quegli alberi e quei sentieri. Aveva paura perché dietro di se sembrava tutto immerso nel silenzio della morte. Non capiva... Dopo aver corso per un po' come un forsennato, si era fermato, tendendo l'orecchio, in ascolto, ma dalla radura non era salito alcun suono, non sapeva perciò se quegli uomini fossero davvero diretti nella sua radura, se avessero un’altra meta, se si fossero scontrati con suo padre o se avessero deciso di seguire lui. Quell'incertezza gli devastava la mente e popolava la foresta di voci, di sospiri, di fantasmi. Più di ogni altra cosa, però, lo angustiava non sapere niente del resto della sua famiglia. Suo padre gli aveva dato un compito, ma lui non ce la faceva a restare lì o a proseguire, senza sapere, gli passò per la mente un'idea folle, ma al momento gli sembrava fattibile: avrebbe nascosto Cuilén, in maniera che nessuno lo potesse trovare, poi sarebbe ritornato indietro, per vedere cosa fosse successo.

    Per aiutare la mia famiglia.

Si accostò a un albero, controllò con attenzione tutto attorno a sé, sentì che non c'erano nelle vicinanze animali pericolosi; depose suo fratello a terra, ai piedi dell'imponente pino, cauto, gli gettò addosso di nuovo l'incantesimo con cui l'aveva addormentato, poi camminò in cerchio attorno a lui, recitando altre litanie e concentrandosi su se stesso e la forza degli alberi, perché tutto intorno a suo fratello si elevasse una barriera che lo proteggesse da qualsiasi cosa. Sapeva come si faceva, l'aveva visto spesso fare a sua madre quando era più piccolo e se l'era fatto insegnare da lei, già da qualche anno, per avere sempre il controllo su Cuilén, quando la madre lo affidava a lui. Prese con sé la Fiamma e la pelle che la conteneva, non poteva rischiare che suo fratello si bruciasse, si guardò di nuovo intorno, mise a fuoco quell'immagine e la memorizzò, gettò attorno a sé degli incantesimi a distanza di cinquanta passi l'uno dall'altro per riconoscere il percorso, quando fosse tornato indietro. Poi si voltò. E i suoi passi si fecero via via sempre più rapidi e tumultuosi.


*continua*



NdA:
Ringrazio tutti per le letture e le recensioni e grazie per la fiducia a chi ha aggiunto ai preferiti/ seguiti, ecc ecc. 
A presto.
Valeria



Scheda
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Capitolo 4
*** I.004 - TERRE DEL NORD - STORIA DI SHEIRA E CORMACC ***



That Love is All There is

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Old Tales

Terre del Nord - I.004 - Sheira e Cormacc



(dal primo volume di "Storia della magia")
..."Terre del Nord" è il nome dato dalla comunità magica alle propaggini nord-occidentali delle Highlands scozzesi, territori disabitati e selvaggi, duri e ostili, in cui una parte delle “Antiche genti”, gli “uomini di Daur” (1), si rifiugiò quando un imponente esercito babbano proveniente dal continente (2) penetrò nella Britannia e sottomise, pezzo dopo pezzo, quasi tutta l'isola alle proprie leggi e alla propria spada. Per secoli gli uomini di Daur avevano vissuto presso le popolazioni prive di magia di quelle isole, pur senza unire il proprio sangue al loro, gelosi com'erano della propria “saggezza” e delle proprie abililità, prosperando in pace all’interno dei loro villaggi, ricoprendo l'importante ruolo di guaritori, ottenendo venerazione e rispetto grazie alla conoscenza degli intimi segreti della natura, delle proprietà di piante e minerali, e alla capacità di interpretare i segni. Il resto del popolo iniziò a chiamarli "Saggi" e ad affidarsi alla loro guida. All’arrivo del grande esercito, com’era già avvenuto ai loro "fratelli" diffusi su tutto il continente, i Daur assistettero alla progressiva scomparsa della loro civiltà semplice, legata al culto della natura, videro gli antichi sacelli, scavati nella terra e nella roccia, distrutti e sostituiti da templi ricoperti di ori e di marmi, dedicati a numerose divinità in cui potevano ancora riconoscere, sotto i nomi diversi, i propri dei; in seguito però, anch'essi scomparvero, sostituiti dall'unico, insondabile, temibile, dio della Croce. Per anni, gli uomini Daur guidarono la ribellione dei popoli autoctoni contro l’invasore, come sempre avevano fatto contro i numerosi aggressori che avevano cercato di impossessarsi dell’isola nel corso dei secoli, ma di fronte a un conquistatore tanto forte, organizzato e inattaccabile, le popolazioni dell'isola, una dopo l’altra, erano cadute ed erano state sottomesse. La maggior parte dei Daur fu uccisa in battaglia o nelle successive rivolte; dei superstiti, molti, per sopravvivere, tradirono le proprie tradizioni, perdendo con esse la propria purezza e celando il proprio potere; altri si ritirarono nelle foreste, in eremitaggio, isolati, soli, incapaci di trasmettere nella pienezza la memoria degli Antenati. Un piccolo gruppo di superstiti, proveniente da tutta l'isola, si riunì nei pressi del cerchio di pietre di Mên-an-Tol (3) dove, a Lughnasad, era celebrata la festa del raccolto, proprio davanti alla pietra forata: i sacerdoti di Lugh sostenevano che era stato il dio a forare la pietra gettandoci contro la sua lancia e questa, oltrepassata la roccia, si era conficcata a terra, sprofondando per metri e metri e generando un pozzo. Era in fondo a quella voragine che gli Antichi avevano trovato secoli prima Habarcat, una delle tre fiamme verdi, dono che il “dio della luce” aveva fatto alla sua gente prediletta, le fiamme che alimentavano nell’eternità il potere dei Daur. Essendo stato sempre il giaciglio della sacra reliquia, la bocca del pozzo era stata abbellita con formelle di pietra, incise con le Rune, simbolo della Triade divina. Quel lontano giorno d’estate del ventesimo anno di guerra, i due terzi dei Daur decisero di estrarre Habarcat dalla terra, di portarla via, di nasconderla e proteggerla dagli invasori nelle lontane terre settentrionali dell'isola, le Terre del Nord. Il Daur designato a portare la Fiamma, il venerabile delle Innse Gall, raggiunse le Terre del Nord in groppa al suo Drago, un nero delle Ebridi, seguito da coloro che, capaci di trasformarsi in animali di cielo, mutarono le proprie sembianze e spiccarono il volo; gli altri si misero in marcia, per terra e per mare: aveva inizio la diaspora dei Daur. Non tutti riuscirono a raggiungere le Terre, alcuni perirono, altri si fermarono prima; quanti si erano trovati in disaccordo con la decisione di ritirarsi a Nord e fondare la Confraternita, dopo iniziali proteste senza risultato e vani tentativi di riprendere la Fiamma, si dispersero a loro volta nell’isola, alcuni fondando villaggi magici in cui vissero lontani dai Babbani, altri continuando a vivere tra loro e integrandosi con essi...
(fine inciso)

Appena aveva visto i suoi figli allontanarsi nella foresta con Habarcat, Cormacc MacArtgal aveva spento con la Magia il fuoco del loro bivacco, così che non restassero residui di fumo a tradirli e, fermo, aspettò di sentire i suoni manifestarsi e ripetersi, per decidere in quale direzione muoversi. Suo figlio Dòmhnall aveva ragione: c'erano estranei nella foresta, provenienti dal fiume, ne aveva percepito la pesantezza dei passi e la puzza inconfondibile, una puzza che gli ricordava con orrore le settimane che aveva passato nelle segrete del castello di Glower-o 'er-em, in attesa dell'impiccagione. L’angoscia gli strinse il cuore, si affrettò a cancellare le ultime tracce della loro presenza nella radura, mentre Sheira, indebolita dal parto, lo osservava, nascosta tra gli arbusti, tenendo la piccola Diorbhal tra le braccia: doveva sbrigarsi, erano in pericolo, doveva mettere più distanza possibile tra ciò che aveva di più caro al mondo e le “bestie” che aveva imparato a conoscere solo durante la prigionia. Era stato per la sua Sheira, il suo Dòmhnall e il bambino che stava per nascere, Cuilén, se all'epoca non aveva provato a fuggire dalla sudicia cella in cui l'avevano rinchiuso, servendosi dei suoi poteri; aveva atteso, per settimane, l'occasione giusta per tentare una fuga il più possibile “normale”, una fuga che non confermasse, agli occhi di chi lo accusava, la sua natura di Mago. Alla fine, però, era stato tutto inutile, per salvarsi dal cappio e per evitare che Sheira fosse aggredita dal popolo, era stato costretto a smaterializzarsi quando già il boia gli aveva messo la corda attorno al collo, confermando così, davanti a tutti, la presenza di veri Maghi nella foresta di Am Monadh. Quando erano giunti in quella terra, poco più di sedici anni prima prima, giovani e innamorati, pieni delle fantasiose teorie di cui erano intrisi gli antichi scritti, credevano ancora che fosse possibile convivere in pace con i Babbani, che, addirittura, la Magia potesse alleviare la sofferenza dei popoli, guidarli verso un destino migliore, com’era avvenuto per secoli. Era stato per questo che Sheira si era esposta e aveva offerto al signore di Glower un infuso per ottenere un figlio maschio, nella speranza che, soddisfatto il suo desiderio più grande, quell'uomo diventasse più mite e generoso con la sua stessa gente; ma era stata una sciocchezza, proprio com’era stato sciocco da parte di Cormacc, per conoscere le usanze dei Babbani, curiosare intorno ai villaggi con le sembianze di un cane, fermandosi persino a dormire nei fienili, quando si allontanava troppo: eppure sapeva che, durante il sonno, venendo meno il controllo della mente sul suo corpo, non poteva mantenere le sembianze animali ma tornava a essere un uomo. In una fredda alba di fine settembre di sei anni prima, alla fine, era accaduto l'inevitabile: un contadino l'aveva sorpreso nel sonno e, accusandolo di essere un ladro, l'aveva portato davanti alle autorità del villaggio; la natura ingenua e pacifica aveva impedito a Cormacc di ricorrere alla Magia per fuggire, si era lasciato portare al castello di Glower, confidando che, se si fosse mostrato innocuo e remissivo, tutto si sarebbe risolto solo con qualche giorno in cella e, al massimo, qualche frustata. Cormacc sospirò e guardò per l'ultima volta la radura in cui aveva vissuto con la sua donna e i suoi figli.

    No, a quei tempi non avevo ancora idea di che cosa siano i Babbani…

A giudicarlo non era stato il signore di Glower-o'er-em, impegnato nei suoi commerci, ma il cappellano del castello, un vecchio irlandese, Cormacc aveva riconosciuto subito la cadenza particolare della sua voce, molto simile a quella di sua madre: il Mago non se ne era sorpreso, sapeva che i monaci irlandesi si spingevano da secoli fin lungo i margini delle Terre del Nord, per evangelizzare le rozze genti che incontravano, persino in quelle lande sperdute e semidisabitate, dove c'erano solo pietra e miseria. Dove gli uomini della Croce temevano, a ragione, che si nascondesse ancora l'antica Magia. Quello che aveva di fronte, però, non era un religioso qualsiasi, invasato solo dal fuoco della sua Fede: quell'uomo sapeva qualcosa, conosceva le antiche leggende, il significato delle Rune, Cormacc l'aveva capito dalle domande che gli aveva posto e dall'insistenza con cui l'aveva osservato, attratto dai segni che portava sul collo e sulle dita delle mani. Si erano fissati, a lungo, ma il Mago aveva finto di non capire, aveva risposto alle domande come avrebbe fatto un povero stolto, aveva parlato di segni tradizionali del suo clan. Il cappellano aveva cercato di spaventarlo, accusandolo di essere un figlio del demonio, la causa, con quei segni blasfemi, dell’Oscurità che circondava la foresta di Am Monadh, di meritare per questo la morte, ma Cormacc aveva continuato a tacere e negare per ore e per giorni; alla fine, l'irlandese aveva lasciato cadere l'accusa di furto, per gravarlo di una ben peggiore, quella di blasfemia e Stregoneria, condannandolo a morte per impiccagione. Nemmeno allora, nemmeno di fronte a un rischio tanto grande, però, Cormacc MacArtgal era venuto meno agli insegnamenti della sua gente, non aveva tradito le proprie convinzioni, non aveva messo a rischio la Confraternita rispondendo alle domande, né si era servito della Magia per uccidere e salvarsi. Le guardie avevano ricevuto l'ordine di piegarlo con la fame, la sete, la prigionia in un'angusta cella con altri miserabili che potevano dileggiarlo, colpirlo, umiliarlo, feccia che continuava a essere considerata umanità, pur essendo un ammasso immondo e violento di ladri e assassini, solo perché alla nascita erano stati consacrati tutti dall'Acqua Benedetta e dalla Croce. Cormacc, invece, la cui unica colpa era essere nato con il suo Dono e essere stato forgiato col Fuoco e con la Lama, era considerato un demonio, un mostro, contro cui tutti potevano scagliarsi.

    E questo hanno fatto, guardie e prigionieri, per settimane e settimane.

Pur passati sei anni da allora, nonostante le amorevoli e sapienti cure di Sheira e la folta barba che si era fatto crescere dopo la fuga, ogni volta che si specchiava nell'acqua del fiume, Cormacc rivedeva con sgomento il proprio viso deturpato dai segni di quell’orribile esperienza. Eppure non riusciva a odiare, provava solo terrore e angoscia. Da allora l'uomo aveva vissuto sempre nella paura, per se stesso, per Sheira, per i ragazzi. La loro dimora, una capanna ai margini del bosco, non era più stato un nido sicuro per lui, aveva iniziato ad andare a caccia con Dòmhnall solo per trovare anfratti più inaccessibili e protetti, aveva cercato di convincere Sheira, più volte, invano, a spostare il loro nascondiglio, e di fronte al suo diniego, aveva pregato gli dei che le voci sinistre sui poteri oscuri della montagna fossero un deterrente sufficiente contro qualsiasi folle impresa dei Babbani. Quella continua tensione aveva trasformato un giovane semplice, entusiasta e appassionato, in un uomo cupo, nervoso, a volte persino rabbioso e violento: lo capiva da sé, spesso era fin troppo duro con i suoi figli, soprattutto con Cuilén, ma era per loro che agiva così, doveva evitare che i suoi ragazzi diventassero troppo superficiali, troppo avventati, pieni di false illusioni, com'era stato lui. Quando aveva scoperto che Dòmnhall era interessato a una giovane Babbana, era rimasto talmente sconvolto che aveva reagito nella maniera peggiore, non gli aveva parlato con razionalità, come suo padre e il suo maestro avevano fatto con lui, delle differenze esistenti tra gli uomini e i Maghi, gli aveva raccontato invece le più bieche superstizioni, pur sapendo che si trattava solo di menzogne, aveva instillato in suo figlio l’idea che i Babbani potessero rubargli la Magia. Se ne vergognava, certo, e aveva fatto in modo che Sheira non lo scoprisse, ma non poteva permettere che suo figlio finisse rinchiuso e fosse massacrato com’era accaduto a lui. La sua vita, stranamente, era diventata più serena solo negli ultimi tempi, da quando le incursioni di un popolo guerriero proveniente da Viken avevano spinto re Indulf di Alba a richiamare sulle coste il suo popolo e dare inizio a una nuova guerra: il signore di Glower e il suo cappellano avevano problemi ben più urgenti da affrontare. E in quella ritrovata serenità, Sheira era rimasta nuovamente incinta e quella notte, finalmente, era nata la loro prima bambina, cui aveva imposto il nome di sua madre.

    Diorbhal...

Il Mago prese di nuovo in braccio le sue donne e s’immerse, a sua volta, nell'oscurità del bosco, a rapidi passi: il sangue e le forze perse durante il parto avevano reso Sheira troppo debole per provvedere da sola a se stessa e alla bambina, Cormacc sapeva che sarebbe stato impossibile portarla alla sorgente quella stessa notte, dovevano perciò accamparsi in un luogo riparato, abbastanza vicino al fiume, in cui fosse facile difendersi e da cui fosse semplice, pur senza smaterializzarsi, scappare. La strinse a sé, guardò Sheira con tenerezza e preoccupazione, era sfinita, come non l’aveva vista mai, eppure il suo sguardo continuava a essere sempre lo stesso, fiero e indomito, come il primo giorno: tutta la sua vita, lo sapeva, era stata plasmata e stravolta da lei, dalla sua luce, dal suo potere, dal loro folle amore. Aveva deciso, stavolta non avrebbe avuto esitazioni, sarebbe ricorso persino alla violenza, avrebbe rotto persino il giuramento fatto ai Centauri quando erano giunti in quell’angolo delle Terre del Nord e, se necessario, avrebbe ucciso, per lei, per la sua donna. Cormacc stampò un bacio sulla fronte di Sheira e continuò a camminare, tenendola stretta a sé, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi sussurro della notte, la mente piena solo dei tanti ricordi della loro intensa, avventurosa esistenza.

*

Cormacc McArtgal era nato trentasette inverni prima, a Banrìgh nan Eilean (4), la più meridionale delle Innse Gall (5), le isole a ovest delle Terre del Nord. Era il secondo di sette figli, in una famiglia che aveva sempre praticato la Medimagia, seguendo i precetti degli Antichi: suo padre, Artgal, era originario di un villaggio di Beinn Nibheis, ed era bruno e grosso, un po' burbero, proprio come un orso; sua madre, Diorbhal, era una donna austera, dai capelli rossi e selvaggi, nativa dell’Eire, la grande isola verdeggiante che si trovava a sud: era stata lei a insegnargli a rispettare la terra e il vento, a riconoscere i segreti e le proprietà delle piante, che crescevano rigogliose grazie al clima mite della loro isola, dove l'estate si protraeva quasi fino alla festa di Modron. Era vissuto felice lì, con i suoi fratelli e i suoi genitori, finché, tre lune dopo aver compiuto quindici anni, come voleva la Legge di Habarcat, un vecchio mandato dalla Confraternita degli Antichi, Eoghan McFionn, era sbarcato sull'isola in una notte di plenilunio e, prima ancora dell'alba, l'aveva sottratto all’affetto dei suoi cari, portandolo via con sé. La barca che li attendeva in una piccola rada era leggera e rapida, di legno scuro, completamente intarsiata di Rune: a metà del secondo giorno di viaggio, Eoghan aveva bruciato dell'incenso su un piattino d'argento, aveva ferito il palmo di Cormacc con una lama lunga e sottile e aveva intriso le ceneri con il suo sangue, poi aveva passato la lama nel miscuglio e aveva ordinato al ragazzo di incidere le Rune del proprio nome sul legno dell'imbarcazione e di gettare le ceneri nell’acqua, tributo per ingraziarsi il favore del mare. Avevano veleggiato tra i fiordi immersi nelle nebbie per altri tre giorni e altre tre notti, infine erano scesi a terra e avevano iniziato a percorrere le lande aspre che conducevano al massiccio di Beinn Nibheis, avevano guadato fiumi e attraversato paludi, camminando fino a ferirsi i piedi sulla nuda roccia, per giorni che diventarono settimane, per settimane che diventarono mesi, immersi in una natura solitaria e selvaggia, in panorami sconfinati che prima si coprirono di foglie morte, poi di soffice e gelida neve.
All'inizio del viaggio, Cormacc era rimasto a lungo silenzioso e triste, consapevole che quello sarebbe stato un viaggio senza ritorno, che ciò che si era lasciato alle spalle era già perduto per sempre, ma un po' per volta la malinconia aveva lasciato il posto alla meraviglia e all'emozione, per tutto quello che di nuovo trovava davanti a sé, per la Magia che esplodeva in tutto ciò che lo circondava, per i canti pieni di mistero e di storie antiche con cui il vecchio Eoghan salutava il sorgere delle stelle, notte dopo notte. Erano partiti dalla sua Banrìgh nan Eilean all'inizio della primavera, mancavano solo due giorni alla festa di Yule quando giunsero, infine, sulle rive del mare settentrionale, a Loch an Inbhir, il cuore delle Terre del Nord. Durante quella lunga notte di riti e di festa, insieme ad altri ragazzi della sua età, Cormacc aveva superato la sua prova più importante, aveva affrontato i suoi demoni e aveva scoperto la sua attitudine per la “voce della Terra”, aveva dimostrato a tutti di essere pronto a entrare nel mondo degli adulti per ricoprire il suo ruolo nella comunità, gli erano state perciò impresse le Rune più importanti, quelle che marchiavano il suo intero petto. All'alba, stremato, aveva appreso di essere stato assegnato come apprendista, per quattro anni, a Eoghan, sarebbe stato ospite nella sua casa, avrebbe perfezionato sotto la sua guida quelle conoscenze già apprese da sua madre: chiamare gli animali senza usare la voce o altri strumenti, piegare al proprio volere l’Acqua, il Fuoco, la Terra, il Vento, imparare a trasformarsi in un animale marino, in un animale terrestre e in un animale del cielo, creare pozioni e decotti con le erbe che crescevano nelle foreste per curare e uccidere, fare incantesimi di varia natura, potenziare la propria Magia con i segreti delle Rune e sfruttare i doni del ventre della terra per creare Talismani, due arti queste ultime che, insieme all’Erbologia e alle Pozioni, sarebbero state utili al giovane per diventare ciò che più desiderava: un Guaritore.
La sua vita era trascorsa tranquilla per anni, nella capanna del vecchio in riva al mare, diviso tra lo studio e la meditazione, le feste e i balli con gli amici, qualche relazione senza importanza con alcune ragazze del villaggio, finché, la settimana prima di Beltane di quasi quattro anni più tardi, aveva conosciuto Sheira nic a'Thon: suo padre, Thon McCuilén, era uno dei venerabili della comunità, perché da giovane, grazie al dono della Veggenza, aveva salvato la sua gente dal gigante Harkmut, ma soprattutto perché, negli ultimi tre secoli, i Custodi della sacra Fiamma di Habarcat erano appartenuti tutti alla sua nobile famiglia. La ragazza si era presentata con suo padre da Eoghan per scegliere il dono che avrebbe fatto alle divinità la notte di Samhain, quando, al compimento dei sedici anni, avrebbe preso le sue Rune e consacrato la sua vita a Habarcat: Cormacc l’aveva guardata con curiosità, abituato a essere l’unico giovane dai capelli bruni, in un mondo dominato da persone bionde e fulve, aveva notato subito con simpatia quella ragazzina minuta dai capelli corvini, con la pelle del viso tempestata di lentiggini sottili, e gli occhi color del mercurio. E l'aveva ammirata ancora di più quando, tra i tanti preziosi Athame disponibili, aveva scelto personalmente, senza esitazioni, un semplice e minaccioso pugnale intarsiato di Rune, potenziato con gli influssi delle Tormaline nere, decidendo che sarebbe stata quella l’arma con cui le avrebbero inciso le Rune sulla pelle del ventre. Quando Sheira aveva alzato i suoi occhi su di lui, però, l'ammirazione del giovane era sparita per lasciare il posto a un devastante turbamento: Cormacc, pur grande e grosso, si era sentito sciogliere, fluido come il metallo che stava forgiando, e la sua mente aveva perso di colpo ogni pensiero che avesse logica. Aveva provato un’emozione strana, incomprensibile, molto più complessa del desiderio profondo di stringerla a sé, baciarla, possederla e annullarsi in lei, tutte sensazioni fisiche potenti, che aveva sempre provato con le sue amanti. No, non aveva mai visto una ragazza come quella, Sheira emanava sicurezza, calma, luce. Sheira era, lei stessa, luce. Nessuno degli altri presenti, forse neppure Sheira, si accorse del turbamento del giovane Mago: dentro di sé, Cormacc era infastidito da quella sensazione adatta a uno sciocco adolescente, non a un giovane uomo come lui, eppure gli era ugualmente sfuggito un sorriso entusiasta quando aveva udito l'imperioso Thon McCuilén chiedere a Eoghan di insegnare anche a sua figlia le proprietà delle pietre, così che la ragazza completasse prima di Samhain il suo percorso di studi.
Durante la primavera e l'estate seguenti, perciò, Sheira si era presentata alla capanna sulla spiaggia tutte le mattine, molto presto, via via sempre più presto, restando con i due uomini e la sua Elfa domestica, Brida, per quasi tutto il giorno, mangiando con loro, raccontando con la sua voce cristallina e il suo candido entusiasmo di sé, dei suoi fratelli, dei luoghi che aveva visitato, delle leggende che il suo vecchio precettore le aveva insegnato, delle Magie con cui si allenava a guidare la Sacra Reliquia. Cormacc si era perso per ore ad ascoltarla, tanto che spesso era stato costretto a finire di studiare dopo che lei se n’era andata, ma non aveva mai avuto il coraggio di interromperla per chiedere di più, benché avesse tante domande da farle, proprio per non infrangere la Magia che sembrava materializzarsi tutto intorno a loro al suono della voce della Strega.
Da parte sua, anche la ragazza era incuriosita da Cormacc, un giovane diverso dagli altri, privo di quella smielata devozione che le riservavano tutti, senza però mai ascoltarla davvero, al contrario, lui, pur taciturno, era sempre attento e incuriosito da lei e dalle sue storie. Lo aveva trovato misterioso e interessante fin dal primo giorno, con quegli occhi scuri e profondi, che brillavano sotto i lunghi capelli, corvini come i suoi, così alto e imponente, così selvaggiamente affascinante. L'aveva colpita anche quella specie di timidezza che manifestava solo con lei, mentre con le altre, l’aveva visto durante i balli attorno al fuoco, era molto più spigliato, persino spregiudicato: all'inizio aveva temuto di essergli antipatica, ma i suoi crucci erano spariti, quando si era accorta della sincerità del sorriso gentile e dello sguardo vivace con cui Cormacc la salutava sempre al suo arrivo.
Senza un vero perché, aveva iniziato a cercarlo, seguirlo, anche fuori della capanna del vecchio: una notte, durante la "luna delle erbe" (l’Esbat, o luna piena, di luglio), si era allontanata dal cerchio attorno al fuoco e nella penombra della radura l'aveva visto baciare una ragazza stringendola a sé con una passionalità che le aveva infiammato il sangue, di gelosia, di turbamento, di desiderio. Non le era mai accaduto nulla di simile, e Sheira ne era rimasta profondamente turbata: ormai, giorno per giorno, quando pensava a lui, sentiva qualcosa di sconosciuto crescerle dentro, e tutte le sue certezze, tutte le convinzioni che le avevano inculcato, di colpo, avevano perso d’importanza e autorevolezza. Un giorno aveva persino insistito con la piccola Brida per raggiungere la capanna prima dell'alba, perché aveva scoperto che Cormacc, prima del suo arrivo, tutte le mattine si attardava a nuotare: voleva ammirare il Mago, il suo corpo nudo, senza che lui nemmeno se ne accorgesse, aveva un bisogno ormai fisico di lui, era sconvolta dai suoi pensieri, dalle emozioni che provava, temeva di diventare folle, di compiere qualche gesto sconsiderato e vergognoso. Quando se l’era trovata di fronte, Cormacc era rimasto a sua volta pietrificato dalla sorpresa, dall'emozione, dall’imbarazzo, tanto che, invece di salutarla come ormai faceva tutte le mattine, era sparito senza rivolgerle nemmeno una parola, incapace per tutto il giorno di uscire dal suo ostinato mutismo, almeno finché la Strega non era ritornata a casa sua, al tramonto, ancora più turbata.
L'interesse dei due giovani per lo studio aveva finito col calare molto, Eoghan se n'era accorto, ma non se n'era preoccupato, pur vecchio, ricordava bene quanto fosse difficile quel periodo della vita, e soprattutto, riteneva quel genere di esperienza molto importante per crescere e maturare, perché entrambi stavano scoprendo un'importante lezione di vita: non tutti i desideri sono destinati a realizzarsi, ed era importante che lo scoprissero quanto prima. Sheira restava spesso in silenzio a guardare Cormacc che lavorava a breve distanza da lei, compiacendosi quando notava il volto del giovane illuminarsi in un sorriso, al suono della sua risata o della sua voce cristallina, o quando percepiva con la coda dell’occhio lo sguardo del Mago indugiare assorto sulla curva del suo collo o sull’incedere a volte sfacciatamente malizioso della sua figura. Cormacc si dava dello stupido per ore, ricordava a se stesso chi fosse quella ragazzina, eppure appena entrava nella capanna, cercava di nuovo tutte le scuse possibili per riuscire almeno a sfiorarla, lasciava i suoi oggetti in disordine, per potersi alzare e avvicinare a lei, accarezzarle furtivo le mani sulla sabbia, un paio di volte aveva persino intrecciato le dita alle sue sotto il tavolo, durante i pasti. Il Mago aveva compreso che, ingenua e presa com’era, se solo avesse tentato, avrebbe potuto facilmente ottenere molto più di un bacio, da lei, ma a frenarlo non era solo il timore delle gravi conseguenze se si fosse abbandonato a qualche mossa avventata, né la consapevolezza che l’educazione, il diverso stato sociale, il destino di Sheira fossero un evidente ostacolo. Ciò che gli impediva davvero di approfittare della situazione era quel sentimento sconosciuto che provava per lei… Iniziò a sfuggirla, a non farsi trovare, si ripeteva che era giusto così, che doveva toglierle e togliersi certe idee dalla testa, per il suo bene, così l’entusiasmo che i due giovani avevano iniziato a manifestare l’uno per l’altra, si era trasformato in breve in inquietudine e tristezza. Cormacc sapeva che la Strega non era destinata a lui e già ne soffriva, ma il pensiero che fosse nata solo per Habarcat, per sacrificare tutta la sua vita a potenziare la Magia e il potere della Sacra Reliquia, senza poter mai godere delle gioie concesse a tutti gli altri, lo aveva riempito giorno per giorno di odiose domande, aveva esacerbato la sua inquietudine, la sua frustrazione, persino la sua rabbia: aveva ormai compreso di volerle davvero bene, anzi, ormai era certo di cosa fosse quel sentimento strano, quello che non aveva provato mai, sapeva che il suo nome non poteva che essere “Amore”, sì, ne era addirittura innamorato, perché più di ogni altra cosa, desiderava saperla felice, non riusciva a tollerare di vedere la tristezza negli occhi di Sheira. Non sapeva cosa fare per aiutarla, però: l'unica soluzione che gli veniva in mente era la fuga, ma non era certo che Sheira volesse o potesse fuggire, né che alla fine lo volesse con sé, in fondo lei apparteneva a un mondo diverso, ricco e colto, era cresciuta come una principessa, lui era invece un Mago piuttosto abile e intelligente, certo, ma era e sarebbe stato sempre umile e povero. Inoltre Sheira era ancora troppo giovane per smaterializzarsi, la Traccia di Magia che la segnava avrebbe rivelato a chiunque dove si nascondesse, e soprattutto… lei non sarebbe mai stata una Strega qualsiasi: la vita di un custode era legata alla Fiamma di Habarcat, se Sheira si fosse allontanata troppo, avrebbe potuto perdere i propri poteri e, con essi, la vita. Fuggire, perciò, significava anche dover sottrarre Habarcat alla comunità e questo, lo sapeva, era un altro tabù che, se infranto, avrebbe condotto entrambi alla morte.
Nelle sue lunghe notti insonni, Sheira era arrivata alle stesse conclusioni: ora che aveva scoperto il desiderio e i suoi nuovi sentimenti, non voleva più dedicare la sua vita alla Fiamma, sacrificando a essa tutto il resto, voleva andarsene, fuggire, pregava gli dei di aiutarla e sostenerla, di mostrarle una strada, sapeva che dovevano esistere dei contro-Rituali che separassero il suo nome da Habarcat. Più di ogni cosa, però, desiderava trovare un modo per convincere Cormacc a fuggire con lei. Per un po’ di tempo si era illusa di interessarlo, nonostante fosse più piccola e inesperta delle ragazze che frequentava di solito, ma visto il suo comportamento di nuovo sfuggente e più freddo, temeva di non aver capito nulla di Cormacc, e si sentiva persa, perché senza il suo sostegno era sicura che non sarebbe mai riuscita a ribellarsi al suo destino. Aveva riflettuto a lungo, alla ricerca di una soluzione, e alla fine, concentrandosi sul Mago e su quello che sapeva di lui, credette di sapere quale fosse l’unica strada da percorrere per convincerlo. Una sera, all'inizio dell'autunno, al primo novilunio dopo Modron, mentre tutta la comunità era riunita attorno al fuoco intenta a eseguire alcuni Riti, Sheira aveva preso coraggio e aveva fatto in modo di avvicinarsi a lui, rivolgendogli la parola apertamente, come ancora non aveva mai fatto: gli aveva afferrato la mano e, facendogli cenno di restare in silenzio, l'aveva invitato a seguirla. Nel breve tragitto che li separava dalla spiaggia, immersi nell'oscurità della boscaglia, le figure protette dai mantelli, Sheira aveva confidato al giovane il suo desiderio di libertà e la sua intenzione di fuggire, gli aveva parlato della profonda disperazione che la coglieva al pensiero di un destino che le era stato imposto, di una vita che non aveva scelto; Cormacc era rimasto sconvolto dall’inesorabilità e dalla fermezza di quelle parole, sorpreso di non essersi accorto che Sheira aveva maturato in silenzio le sue stesse convinzioni, al punto da elaborare persino un piano. La Strega gli disse di aver bisogno del suo aiuto, che per sottrarsi alla sorte, era necessario forgiare un semplice anello di metallo, una piccola fedina di ferro, bagnata col sangue della Strega, al cui interno Sheira stessa avrebbe tracciato le Rune necessarie a liberare il suo nome dalla Magia della Fiamma, per poi gettarlo nel pozzo dei sacrifici, come pegno a Habarcat.
Cormacc non aveva mai immaginato che Sheira, quasi cinque anni più giovane di lui, fosse già tanto potente e istruita nella Magia Antica da conoscere un contro-Rituale e delle formule tanto potenti, ma più di tutto l’aveva colpito scoprire che la ragazza si fidava a tal punto di lui, della sua amicizia, delle sue abilità, da confidargli un segreto così importante e chiedergli qualcosa di tanto pericoloso. Aveva sentito il cuore riempirsi di ardore e di orgoglio, le aveva promesso subito il suo aiuto e il suo silenzio, contento di contribuire almeno in parte alla sua felicità, senza riflettere su cosa sarebbe stato meglio per entrambi, né sulle conseguenze delle loro azioni. Nelle due settimane seguenti, di giorno i due giovani avevano continuato a comportarsi come sempre, scambiandosi sguardi dimessi e dimostrando scarso interesse per le lezioni di Eoghan, di notte, invece, mentre Sheira perfezionava gli incantesimi che aveva appreso dalle pergamene di suo padre, di nascosto, Cormacc lavorava senza sosta all’anello, bagnando il metallo alla luce della luna col sangue che Sheira si era estratta in segreto e gli consegnava tramite Brida. Senza che il vecchio, reso innocuo con dei filtri soporiferi, si accorgesse di nulla, Cormacc creò in tutto tre copie, tre piccole verghette di ferro, semplici, identiche, se non per dei piccolissimi dettagli che solo il suo occhio allenato riuscivano a cogliere.
Quando entrambi furono pronti, la notte della luna rossa, l'Esbat di ottobre, Cormacc aveva partecipato distratto ai riti notturni al cerchio di pietre, la mente presa da tutt’altri pensieri: Sheira sarebbe fuggita quella notte, lui aveva preso coraggio, aveva deciso di parlarle sinceramente, si sarebbe offerto di accompagnarla, voleva aiutarla fino in fondo. E se la Strega l’avesse accettato con sé, appena ne avesse avuto l’occasione, un giorno le avrebbe confidato i suoi veri sentimenti, senza peraltro pretendere da lei nulla. Per questo, per questa folle speranza, aveva estratto dalle sue poche cose anche una piccola pietra verde che sua madre gli aveva donato, da offrire alla donna che voleva al proprio fianco: aveva preparato una piccola incastonatura in uno dei tre anelli di ferro, uno di quelli che non sarebbero stati gettati nel pozzo, aveva provato a inserire la pietra, applicandole un incantesimo che l’avrebbe incastrata in maniera permanente una volta riconosciuto il sangue di Sheira, quindi aveva messo i tre anelli nella taschina di pelle di pecora che portava al collo ed era uscito dalla capanna, diretto al promontorio del cerchio di pietre, in attesa dell’appuntamento alla fine dell’Esbat. Quando i più si ritirarono alle proprie capanne, al levarsi di Orione, si spostò dal cerchio di pietre all’estrema propaggine della radura, sopra il mare: la Strega era già lì, vestita col suo lungo mantello rosso, come voleva la tradizione, nel silenzio rotto solo dal respiro del mare sotto di loro, circondati dal fitto della boscaglia, le cinque pietre che formavano il cerchio illuminate dalla luna nella sua completa pienezza. Come si era avvicinato a lei, sotto un tappeto di stelle pulsanti, se l’era ritrovata avvinghiata addosso, le labbra bramose sulle sue, il corpo stretto tra la rugosità delle rocce e il trepidante calore di Sheira, le dita e le labbra di lei, calde e curiose, che si avventuravano alla scoperta del suo corpo teso, insistenti nel tracciare i bordi delle Rune delle sue mani, delle sue braccia, seguendo il fluire del sangue nelle vene del collo, lì dove, pulsando impazzita, la Runa intensificava all'inverosimile i desideri sempre più espliciti di Cormacc... Non doveva farlo, non doveva cedere, il Mago se l’era ripetuto continuamente, sempre con più difficoltà, sempre con minore convinzione, finché, con estrema sofferenza era riuscito ad allontanarla un poco da sé e ottenere una sincera spiegazione, restando turbato quando Sheira, in lacrime, gli aveva confessato che era intenzionata a concedersi a lui, nella speranza di convincerlo a seguirla. Il Mago l’aveva stretta a sé per consolarla, baciandola con tenerezza, poi aveva iniziato a confidarle, per la prima volta, i mille discorsi che si era fatto da solo nella propria mente, le disse quello che sentiva per lei dal primo giorno, le descrisse i suoi sentimenti, il suo amore, il suo bisogno di non perderla, il suo desiderio, se solo lei glielo avesse concesso, di fuggire via insieme, di aiutarla a essere felice, senza chiederle niente in cambio, senza pretender nulla che non volesse anche lei. Sheira aveva ascoltato ogni singola parola, all'inizio confusa, poi sempre più commossa nello scoprire che Cormacc condivideva i suoi desideri; aveva preso le mani del Mago nelle proprie, aveva iniziato a baciarlo di nuovo, con tenerezza, stringendosi a lui, mentre le parole, quelle parole che entrambi avevano avuto per mesi difficoltà a pronunciare, sgorgavano come un fiume in piena, raccontando di sogni, di luce, di amore, di progetti, di futuro, di vita. Di vita insieme.
Erano rimasti a lungo stretti l’uno all’altro, in silenzio, finché Cormacc aveva compreso dalla posizione delle stelle che la notte era arrivata al suo culmine ed era il momento di agire: aveva estratto gli anelli dalla taschina di pelle e li aveva offerti a Sheira, ma quando la Strega aveva visto l'anello con la piccola pietra, i suoi occhi si erano riempiti di nuovo di lacrime di felicità, era cresciuta nella ricchezza, ma non aveva mai visto in tutta la sua vita un anello più bello e prezioso. Si alzò sulle punte, si allungò fino al suo orecchio e gli disse che l’avrebbe seguito ovunque li avesse portati il destino, che da quel momento sarebbero stati una vita sola, un’anima sola, anche se non avrebbero mai trovato un anziano disposto a unirli davanti alla sacra Fiamma. Cormacc sorrise, cosciente che per la loro felicità quello era un dettaglio superfluo: dalla capanna del vecchio aveva preso il pugnale che Sheira avrebbe dovuto usare a Samhain per consacrarsi come custode, la guardò con insistenza, chiedendole una tacita, consapevole, conferma, quindi glielo porse e si avviarono al centro del cerchio di pietre, là dove era stato scavato il nuovo pozzo in fondo al quale era custodita la fiamma di Habarcat da quando era stata portata nelle Terre del Nord. Osservò la Strega recitare le formule che aveva appreso e la Fiamma emergere rapida e leggera dal ventre della terra: sicuri delle reciproche intenzioni, Sheira non esitò oltre, indossò la verghetta con la pietra, mentre Cormacc prendeva una delle altre due “copie”, ammirarono le piccole fedine adattarsi alla forma e alle dimensioni delle loro dita intrecciate, sentirono il metallo serrarsi, penetrare nella loro pelle, fino a far sgorgare due piccole stille di sangue. Quando queste si fusero e scivolarono a bagnare la pietra, lo smeraldo si fissò al metallo, unito a esso da quell’unico sangue. Alla luce della luna, avevano quindi inciso i propri palmi, facendo scivolare altro sangue sull’anello e da lì sulla Fiamma, avevano pronunciato le formule che avrebbero legato nel potere delle Rune e di Habarcat ciascuno di loro alla sola persona amata, compenetrando i loro destini definitivamente: il rito del primo sangue, il rito che sarebbe stato consacrato definitivamente dal sangue della loro prima unione. Sheira, emozionata e confusa, finalmente e inaspettatamente unita all’uomo che amava, prese infine il pugnale per liberarsi del suo pesante destino, lo immerse nella luce verde della Fiamma, soffermandosi fino a vederne la punta ormai incandescente, poi incise il centro esatto dell'ultimo anello, quello destinato a essere gettato nel pozzo, cercando di creare magicamente la prima microscopica Runa che racchiudeva parte del suo nome.
Non ci riuscirono: improvvisamente la radura si era ravvivata della luce di numerosi fuochi, si guardarono intorno, dalla boscaglia emersero, inferociti, alcuni sacerdoti e gli anziani del villaggio, guidati dal padre di Sheira che teneva per le orecchie la piccola Brida, in lacrime, i bastoni levati sopra le loro testa, pronti a scagliare contro di loro le più potenti maledizioni. Cormacc non ci pensò due volte, chiese a Sheira di tendere la mano con il “loro” anello verso la fiamma e Habarcat, a sorpresa, risplendette nell'oscurità del suo più intenso colore verde, si raccolse su se stessa e si lasciò cogliere ed estrarre dal suo nido, Sheira l’avvolse nella pelle d’orso con cui il Mago si era finora coperto, la stessa su cui, da allora, avrebbero dormito notte dopo notte. Il giovane, per la prima volta nella sua vita, era riuscito a completare la sua trasformazione in animale, un possente cane nero, ringhiò contro gli astanti, poi con il muso invitò la Strega a montargli in groppa e con un improvviso balzo, le dita di Sheira strette nella sua folta pelliccia, si erano dileguati nella foresta. Cormacc corse nel bosco a lungo, avendo cura che i rovi e i rami non ferissero la Strega, risalì il fiume che attraversava la valle retrostante Loch an Inbhir, salì sulla montagna che gravava su quelle terre e scese dalla parte opposta, fino a ritrovare di nuovo il mare, più a nord, fino a raggiungere una scogliera d’irti scogli, che celavano una piccola grotta.
Quando vi entrarono e si fermarono, la luna si specchiava meravigliosa sullo specchio d’acqua davanti a loro, sulle pietre perlacee delle pareti, creando giochi particolari di luce verde argento con la Fiamma di Habarcat: i due giovani iniziarono a baciarsi appassionatamente, nudi, sul mantello rosso della strega, sulla sabbia, davanti alla fredda fiamma che bruciava, poco lontano da loro. Il contatto dapprima timido e impacciato, incredulo, era divampato di colpo in passione pura, violenta, assoluta: Cormacc aveva travolto con forza e impazienza quel corpo fragile, aveva affondato affamato i suoi denti nella carne di lei, fino a sentire il sapore ferroso del suo sangue, a stento era riuscito a fermarsi il tempo di capire se lei era davvero pronta e sicura di voler andare fino in fondo, poi le aveva mozzato il respiro strappandole un gemito soffocato, sprofondando nelle sue membra, senza nessun altro pensiero che non fossero la fame e il desiderio che provava per lei e il piacere che voleva donarle. Solo molto più tardi, molti baci e amplessi più tardi, quando aveva ormai annullato in lei tutta la sua forza, la sua linfa, i suoi pensieri, la sua esistenza stessa, riconobbe il potere di quella grotta, sentì che possedeva una sua Magia, che non dipendeva da loro o da Habarcat, ma che si univa a loro, a Habarcat, alla Luna di sangue, al sangue che macchiava il loro giaciglio. Anche Sheira sentiva quella Magia, e pur senza il coraggio si dirlo apertamente, era certa che in quella grotta, in quella notte dominata dal plenilunio, avessero appena concepito un figlio.
Fuggirono come due ladri, all’alba, preda dall'ebbrezza, della libertà e del loro amore, senza curarsi di niente, che non fosse vivere finalmente insieme, felici, l'uno per l'altro: sapevano che su di loro gravava la maledizione della Confraternita, ma nessuno di quei Maghi, mai, sarebbe stato in grado di trovarli, perché Habarcat proteggeva il suo custode, come Sheira proteggeva la Fiamma con i suoi rituali e la sua Magia. Consapevoli che la protezione di Habarcat sulle genti delle Terre era fortemente legato alla distanza, decisero, però, di non uscire dai territori, ma si spostarono fino ai lembi meridionali delle Terre, sul massiccio di Am Monadh che con la sua oscura foresta costituiva il punto più a sud cui potevano giungere, senza privare la loro gente dell’influenza della Fiamma. Una volta rassicurata la comunità dei Centauri che non avrebbero praticato la Magia contro gli umani o contro le altre creature della foresta, né che avrebbero cacciato oltre quanto era necessario al loro sostentamento, non ebbero difficoltà in quella terra ospitale, dove vissero per oltre sedici anni, sempre nella stessa radura, crescendo i soli due figli nati dal loro amore, Dòmhnall e Cuilén, cui, infine si era aggiunta la piccola Diorbhal. Anche la condanna della Confraternita, alla fine, erano venuta meno, sia perché Habarcat era stata mantenuta all’interno delle Terre, sia perché Sheira aveva annunciato la nascita dei loro figli alla sua gente e l’intenzione di crescerli secondo la tradizione del Nord; in particolare, i veggenti avevano letto nelle stelle della loro unione, la nascita di un figlio maschio, nel giorno di Oimelc, con tutte le caratteristiche di un saggio custode, tale da portare a lungo pace e prosperità nelle Terre, e di almeno un altro Mago che sarebbe diventato celebre in tutto il Mondo Magico per le sue abilità e il suo potere. Pur compiaciuto, lui proveniente da una famiglia tanto modesta, all’idea di avere addirittura due figli con un futuro tanto importante e radioso, Cormacc condivideva l’ansia della sua Sheira, che non aveva appreso con troppo favore questi auspici: avrebbe desiderato, infatti, per i suoi figli più che la fama e il potere, quello che aveva ottenuto lei nella sua vita. L’amore della persona amata e, soprattutto, la libertà.

*

    «Lasciami qui, io non posso farcela questa volta, prendi la bambina e raggiungi i ragazzi... »
    «Te l'ho detto quella notte, Sheira, non ti abbandonerò mai, né in questa vita, né nella prossima, né in quelle che vivremo in seguito, ancora e ancora... resteremo per sempre insieme… »

Il Mago le stampò un bacio sulla fronte e continuò a camminare, tenendola stretta a sé, con l'orecchio teso a scoprire qualsiasi sussurro della notte. Il suono che aveva percepito, però, non si ripropose, la foresta non era più percorsa da rumori di passi: di colpo, la boscaglia si riempì invece di sibili e fuochi, improvvise le frecce incendiarie iniziarono a cadere, tutto attorno a lui, sempre più vicine, Cormacc ebbe appena il tempo di deporre sua moglie e sua figlia a terra, in quello che gli parve un anfratto sicuro, con uno sguardo pieno d'amore impose a Sheira di farsi forza, di impedire alla bambina di piangere, di aspettarlo... Sarebbe ritornato subito, l'avrebbe condotta sul sentiero che saliva alla sorgente, non c’era nulla da temere, li avrebbe ricacciati indietro, spaventandoli a morte. Il Mago si voltò, con orrore vide che in direzione della radura, in cui aveva vissuto per anni con la sua donna, salivano fumo e fiamme, sentì il crepitio del fuoco avvicinarsi, poi il pianto spaventato della sua bambina rompere il silenzio cupo della notte. Non sentì la voce della sua Sheira... Il suo corpo, all'improvviso, fu di nuovo quello di un cane, si lanciò, a testa bassa per difendere la sua sposa, riuscì a raggiungere alle spalle, di sorpresa, uno degli intrusi, lo rovesciò a terra, gli fu alla gola, la squarciò. Esaltato dal sangue, spaventato dalle fiamme e dai rumori improvvisi, attaccò e attaccò ancora, vide molti fuggire davanti a lui, altri pregare e tremare, azzannò, colpì, uccise, ancora e di nuovo, ancora e di nuovo: dove si muoveva, dove avanzava, lasciava a terra corpi straziati, urla, sangue. Continuò così, ancora e ancora. Finché ovunque fu di nuovo silenzio, finché non si aggiunse più altro fuoco. Finché il suolo non fu pregno di sangue. Finché, a tradimento, fu colpito in pieno petto da un dardo.
Cormacc crollò a terra: il dolore non gli faceva capire più nulla, il sangue scorreva a fiumi e fluiva via dal suo corpo insieme alla sua forza, ai suoi ricordi, ai suoi pensieri. Perse il controllo su quel corpo di cane e tornò a essere un uomo, sentiva il gelo impossessarsi di lui, sentiva la vita scivolargli via, perdersi nella terra, mentre la luce delle stelle che filtravano tra gli alberi diventava sempre più incerta. Un solo pensiero gli attraversava la mente, mentre l'ultimo alito di vita l'abbandonava, il pensiero della sua Sheira, della sua donna, di tutte le promesse che le aveva fatto.

    E di quella, l’unica, che non sono riuscito a mantenere: tornare da te...



*continua*



NdA:
Ringrazio tutti per le letture e le recensioni e grazie per la fiducia a chi ha aggiunto ai preferiti/ seguiti, ecc ecc. So che anche questo capitolo sembra fuori dal mondo, ma a una lettura attenta forse si potrebbe intuire quello che ho in mente. Spero inoltre di aver risolto un po' di misteri sulla Confraternita che aleggiavano in "That love" ormai da due anni. La grotta che avete visto è la stessa del matrimonio di Mirzam, questo perché Herrengton sorge poco lontano dai resti del villaggio principale descritto in questo capitolo: ho voluto che la notte d’amore di Sheira e Cormacc si svolgesse in quella grotta perché è con loro che nasce la dinastia degli Sherton. Quante alle note sparse nel capitolo:
1) Daur: quercia; la parola "druido" sembrerebbe provenire dalla parola "Duar" e starebbe a significare "saggezza della quercia"
2) L’esercito è evidentemente quello degli antichi romani
4) Banrìgh nan Eilean: la regina delle Ebridi, è l’isola di Islay, la più meridionale delle Ebridi interne
5) Innse Gall: nome gaelico delle isole Ebridi
3) Mên-an-Tol è un sito megalitico che si trova in Cornovaglia.
A presto.
Valeria



Scheda
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Capitolo 5
*** I.005 - TERRE DEL NORD - LA RADURA ***



That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.005 - La Radura



La notte era ormai giunta al culmine, le stelle e i pianeti attraversavano lenti e inesorabili il cielo, dispiegando con le loro danze arcane le trame oscure del destino. L'acqua gelida le lambiva appena gli zoccoli, mentre Banrigh avanzava cauta lungo la riva sinistra del fiume, lo faceva tutti i giorni e tutte le notti, da anni, competeva a lei controllare quella porzione della foresta, eppure, quella notte, l'oscurità carica di segni la rendeva inquieta e la sua mente si distraeva di continuo, portandola a pensieri lontani. Volse lo sguardo di nuovo al massiccio che sovrastava il fiume, aveva ordinato a Magorian, il maggiore dei suoi figli, di portare i fratelli lassù, dove la foresta avrebbe potuto celarli a occhi estranei, al sicuro, rapidamente, e il giovane si era fatto seguire promettendo ai più piccoli di insegnar loro il significato della luce rossa di Marte. La luce rossa di Marte... erano anni che su An Monadh la stella non appariva così fulgida e splendente, come negli ultimi tempi, di un intenso rosso rubino, pregno di funesti significati: Banrigh lo sapeva, il rosso dell'astro infiammava il cielo quando il rosso del sangue era prossimo a essere versato sulla terra. Stava per accadere qualcosa di oscuro, lo sentiva da giorni, lo capiva da numerosi segni, qualcosa di oscuro forse era già penetrato e si muoveva nella foresta, senza accettare di sottomettersi alla natura: quasi tutti gli animali della montagna erano inquieti e spaventati, molti rifuggivano l'acqua e si nascondevano nel folto della vegetazione, persino il fiume sembrava scorrere più lentamente da quando gli uccelli arrivavano da est, portando la notizia di una terribile battaglia, nella quale avevano trovato la morte centinaia di uomini. E ora, bagnata da tanto sangue impuro, la terra era percorsa da orde di spiriti inquieti, che reclamavano a loro volta morte e vendetta.
Banrigh tremò: conosceva il cuore degli uomini, la loro follia, la loro violenza, non dovevano entrare e turbare, con la loro ferocia e la loro arroganza, la pace della foresta, non dovevano sfregiarne la purezza con la loro disperazione. A volte capitava che qualche incauto si spingesse nei boschi di An Monadh per cacciare il lupo o il cinghiale, ma difficilmente faceva ritorno a casa, di solito si perdeva e moriva nei dirupi, o sbranato dalle fiere, e anche quando riusciva a salvarsi, la paura provata nei suoi vagabondaggi tra quei sentieri oscuri, s’incideva tanto profondamente nella sua anima, da fargli perdere per sempre il senno. Per questo, nel corso degli anni, tra gli uomini si era diffusa la superstizione che ci fosse uno spirito maligno sulla montagna e il timore di essere ghermiti e uccisi da un demone li teneva opportunamente alla larga. Di colpo il vento, che spirava da sud, scompigliò le chiome del Centauro e parlò più chiaramente a Banrigh, che l'ascoltò trepidante: il lamento degli alberi e il canto atterrito degli uccelli notturni raccontavano di fiamme cadute dal cielo e di creature del bosco morte arse nell'incendio. Quella notte, il timore provato dagli uomini verso i segreti di An Monadh sembrava non essere più sufficiente a fermare gli invasori, la loro brutalità li stava spingendo fin lì e i loro scopi non avevano nulla a che fare con il lupo, né con il cervo. Il Centauro temette che si stesse compiendo il destino, che fosse giunta la notte, la notte più lunga, quella in cui la foresta di An Monadh sarebbe stata violata e sfregiata dall'odio e dal sangue. Annusò l'aria, sentì il vento pregno dell'aroma pungente del legno e della carne bruciata, con un alto grido richiamò a sé Magorian e gli ordinò di correre lontano, di portare i fratelli con sé, di avvisare gli anziani che le profezie si stavano compiendo. Mentre suo figlio si allontanava da lei, Banrigh corse veloce lungo la riva, annusò più e più volte l'aria per orientarsi, ma a mano a mano che si avvicinava all'incendio, iniziò a sentire che la notte e la voce degli alberi erano permeate anche di Magia, una Magia diversa da quella che praticavano il Mago e la Strega della radura, una Magia ancora più antica, più potente, che serbava in sé dolcezza e dolore. Come tutti i Centauri, Banrigh conosceva la Divinazione ma non la maggior parte delle altre Arti Magiche, non comprendeva con chiarezza il messaggio portato dal vento, eppure quello che scorreva nel sussurro delle fronde la colpiva direttamente al cuore, riempiendola di angoscia e di tormento.
Continuò a correre rapida lungo la riva del fiume, avvicinandosi sempre più alla radura dei Maghi, tendendo l'orecchio e riascoltando più volte il messaggio, fin quando comprese: la Strega stava morendo e chiedeva aiuto per salvare i suoi figli. Un tremito percorse la schiena della Custode del fiume, si fermò all'istante, turbata, poi riprese ad avanzare lentamente, a capo chino, senza sapere cosa fare: le leggi del suo popolo le imponevano di non immischiarsi nelle faccende degli umani, ma non poteva dimenticare chi aveva salvato il suo bambino. Banrigh sollevò lo sguardo un'ultima volta verso il cielo, nelle sue iridi color dell'ambra si rispecchiò funesto il rosseggiare dell'astro, attese ancora un attimo, poi, con il cuore stretto dall'apprensione, il Centauro riprese a galoppare rapida, nel folto della foresta.

***
   
Non era come le altre volte, Sheira aveva sentito fin dall'inizio del travaglio che il suo corpo non reagiva come avrebbe dovuto. Non era ancora così vecchia da non poter dare alla luce un altro figlio senza correre rischi, il prossimo sarebbe stato solo il suo trentatreesimo inverno, eppure si sentiva mortalmente stanca, sfinita, prosciugata, incapace di reagire. Non aveva voluto dire nulla a Cormacc, perché il suo uomo sembrava aver recuperato grazie all'idea di quel bambino una serenità che Sheira non gli vedeva da tanto, troppo tempo, ma a se stessa non aveva potuto mentire: in quei mesi, da quando si era resa conto di essere di nuovo incinta, i segni che aveva letto nei suoni della notte, nel fluire del fiume, erano stati tutt'altro che rassicuranti e la Strega si era convinta che la civetta e il lupo cantassero un lamento funebre alla sua creatura, già prima che venisse al mondo, confermando ancora una volta la sentenza della sua gente, motivo di orgoglio e, al tempo stesso, condanna.

    “La vostra unione sarà benedetta da due figli, destinati a un futuro di gloria e grandezza”.

Due figli. Avevano sempre parlato di due soli figli. Per questo, in tutti quegli anni, pur amando il suo uomo con passione e devozione, aveva spesso assunto, di nascosto da lui, le erbe che l'aiutassero a non restare incinta perché, dopo aver perduto due dei suoi bambini alla nascita, non voleva più soffrire di un dolore tanto orrendo, non voleva più sentire il suo cuore indurirsi come pietra e frantumarsi in mille pezzi, mentre affidava la sua stessa carne, ancora calda del suo ventre, al riposo della terra. Ora che teneva la sua Diorbhal sul petto, però, ora che sentiva la forza, la Magia, il calore della sua bambina, Sheira intuiva la verità: i veggenti si sbagliavano, c'erano i nomi di tre figli incisi nel suo destino. Per la Strega, però, non si sarebbe levato di nuovo il sole, Sheira sentiva che non avrebbe visto l'alba. Il lupo da mesi piangeva per la custode di Habarcat, non per la sua bambina. Ora lo sapeva. Era normale per una Strega del Nord restare priva di forze per alcuni giorni, il tempo di trasmettere, con il sangue e il latte, il potere ai propri figli, ma non c'era nulla di normale nel freddo che raggelava le sue membra, in quel torpore sempre più pesante, nel suo sangue che continuava a fluire via da lei, inarrestabile, nonostante gli infusi e la Magia che Cormacc le aveva praticato per arrestarlo.
Il Mago la strinse a sé, trepidante, Sheira sentiva che aveva paura quasi quanto lei: Cormacc non era un veggente e non riconosceva i segni nell'acqua e nel fuoco, ma la sua esperienza e la sua abilità come Guaritore dovevano averlo messo in allerta, lo percepiva dal passo veloce, dal respiro affannato, dall'urgenza con cui la serrava a sé, mentre cercava di raggiungere non la Sorgente, ma la grotta lungo il fiume. Cormacc aveva paura di perderla, temeva per la sua infinita debolezza, temeva per quel corpo che tanto amava e desiderava, sempre tanto forte e malizioso e ora invece… Ora così fragile da non sorreggere nemmeno il peso insignificante della loro bambina.
L'aveva implorato di lasciarla lì, tra gli alberi, di andare avanti da solo, fino alla Sorgente, di portare in salvo Diorbhal, con la Magia sarebbe riuscito a farla sopravvivere anche senza la mamma, di fuggire con i ragazzi, a nord, sempre più a nord, ma non era servito a niente: Cormacc era uguale a lei, innamorato come lo era lei, non l'avrebbe lasciata per nulla al mondo, nemmeno per i loro figli, voleva mantenere fino alla fine la promessa che le aveva fatto, quella che la Strega serbava gelosamente nel suo cuore, con la stessa emozione di quando non era ancora una donna, ma solo una ragazzina. Avrebbe desiderato vivere ancora a lungo accanto al suo compagno, seguire la crescita dei suoi ragazzi, accarezzare il volto di Cuilén e Domnhall un'ultima volta, sapeva bene che gli dei la richiamavano a sé troppo presto, troppo in fretta, lasciando in sospeso troppe cose, ma Sheira non riusciva a maledirli né a ribellarsi, non aveva rimpianti, anzi si sentiva grata e fortunata, perché aveva ricevuto e donato tutto l'amore che può unire un uomo e una donna ed entrambi ai propri figli, e l'unico desiderio che le restava da realizzare, ora, era vedere la sua famiglia, tutta la sua famiglia, in salvo. Per questo, perché il suo tempo era finito e nessuno poteva farci niente, pregava gli dei che la prendessero subito con sé, lì, tra le braccia del suo uomo, così che di fronte all'ineluttabilità della morte Cormacc si arrendesse e la lasciasse andare, pensando infine a se stesso e a tutto ciò che avevano creato insieme, con il loro amore.
Gli dei non erano intenzionati a prestarle ascolto, però, anzi il destino giunse a travolgerli più rapido e feroce della morte stessa: la foresta si riempì improvvisamente di sibili strani, di frecce infuocate che cadevano dal cielo tra gli alberi, erano stati raggiunti dagli uomini di Glower, i cani forse avevano seguito l'odore del suo sangue caduto tra le foglie, e ora li braccavano, sicuri e decisi, nel groviglio della foresta. Pur senza parlare, avevano compreso: se non avessero rotto il patto fatto con i Centauri e non avessero reagito, sarebbe finita, sarebbe finita per tutti loro. Mosso dalla disperazione, Cormacc era intenzionato a fare di tutto per difendere ciò che nella vita aveva di più sacro e prezioso, non si sarebbe dato per vinto, fino alla fine: Sheira lo vide fermarsi, turbato, guardarsi attorno, poi la depose a terra, nell'incavo formato dalle radici di una sacra quercia, in un punto in cui il terreno avvallava, creando una barriera contro le frecce, nascosto tra il fogliame. Il Mago avvolse con cura la bambina e gliela serrò tra le braccia, perché non le scivolasse a terra, poi le coprì con il suo mantello, perché conservassero a lungo il suo calore, ma quando provò a tracciare un cerchio magico tutto intorno al loro nascondiglio, così che le sue donne, in sua assenza, fossero protette da qualsiasi minaccia proveniente dal bosco, non ci riuscì completamente, perché la paura e la disperazione offuscavano il suo potere. La Strega comprese e lo guardò con sgomento, mentre le mani del Mago tremavano: non c’era nulla nella foresta di An Monadh capace di opporsi alla Magia di Cormacc o alla sua, la natura, volontariamente, si prostrava sempre al potere di un Daur, ma occorreva essere saldi nel dominio del proprio cuore e della propria mente, senza farsi turbare dalle emozioni... Cormacc tentò ancora ma, di nuovo, non completò il cerchio, allora mise sulle labbra di Sheira un impasto d'erbe, le portava sempre nella sacca di pelle che teneva al collo, la Strega riconobbe l'odore dell'avena, dell'ortica, dell'astragalo e della passiflora, ne aveva masticato molto in quei giorni, traendone però solo brevi momenti di lucidità e forza: questa volta doveva resistere, a qualsiasi costo, doveva resistere.

    “Mastica lentamente, a lungo: ti darà un poco di sostegno. Ti prego... devi resistere, almeno finché non sarò tornato da te, devi resistere per la nostra bambina... farò presto, li spaventerò e li metterò in fuga, ma tu devi restare lucida, Sheira, o Diorbhal piangerà e quegli uomini non troveranno solo te... troveranno e faranno del male anche a lei... ”

L'aveva salutata con una carezza sui capelli, con un sorriso, il suo bel sorriso, con un bacio sulle labbra, talmente appassionato da aver in sé il fuoco del primo e la disperazione dell'ultimo: lo sapevano entrambi che quello era un addio, quando lo vide immergersi nella boscaglia, nella direzione da cui salivano fumo e rosseggiare di fiamme, Sheira scoppiò in lacrime, perché sapeva che non l'avrebbe visto mai più, che Cormacc non sarebbe più tornato né da lei, né dalla loro bambina. Restò immobile, preda della disperazione più profonda, finché sentì muoversi, lieve, sua figlia tra le braccia e un vagito infranse il silenzio della foresta: no, non poteva cedere, non poteva lasciarsi andare così, se voleva dare a Diorbhal una possibilità di salvarsi, doveva impedire che la trovassero e sfruttare le poche forze e il poco tempo che le erbe le avrebbero concesso. Sheira masticò l'impasto e attese di sentire un poco di forza tornarle nelle membra, stringendosi il mantello addosso, così da non disperdere il calore, poi fece appena leva sui gomiti tirandosi su quasi a sedere, con estrema difficoltà, scoprì la testolina della piccola, su cui spuntava già un folto ciuffo di capelli corvini, si aprì la veste e la accostò tremante al seno, la guardò poppare, avida, latte e vita, ogni stilla le toglieva altra forza ma la trasmetteva alla sua bambina, e Sheira sorrise, incitandola a prenderle tutto ciò che poteva, la sua vita, il suo sangue, la sua Magia, la sua speranza. Ammirò quel nasino minuscolo e quegli occhi ancora serrati, le labbra rosse e umide, le manine chiuse a pugno che sembravano nuotare lente nell'aria e poi aggrapparsi sicure e forti a lei; sospirò a fondo, con le lacrime che le inondavano inesorabili il viso e le appannavano ancora di più la vista, poi raccolse con le dita il sangue che usciva ancora copioso dal suo ventre e tracciò la runa di Cormacc sul collo della piccolina. Una volta soddisfatta la fame di Diorbhal, Sheira si sentì di nuovo mortalmente intorpidita, allora, temendo di essere prossima alla fine, rapida, cercò di soffiarle le preghiere antiche sulle orecchie, sulle labbra, sul viso, sul cuore, affidandola alla protezione degli Antichi e sperando che la propria voce e il proprio ricordo si fissassero per sempre nella memoria della sua bambina, poi riprese a cullarla piano, finché non la vide addormentarsi di nuovo tra le sue braccia. Lentamente, si tolse il caldo mantello di Cormacc e l'avvolse per bene, la depose tra le foglie, accanto a sé, poi, prostrata a terra, ormai quasi del tutto priva di forze e vita, grattò il terriccio con le unghie, tutto intorno al giaciglio della piccola, con difficoltà, fino a ferirsi le mani, continuando a bagnare del suo sangue la terra, e componendo, sfinita, ostinata, le rune del nord, del sud, dell'est e dell'ovest intorno a lei, tra le foglie, aiutandosi con quello che trovava, pezzetti di legno, sassi, interrompendosi più volte, sbagliando più volte, rifacendo i segni più volte, finché la piccola non fu racchiusa nel cerchio magico più potente, quello che non poteva essere spezzato da niente e da nessuno, nemmeno dalla Magia di un Daur.
Gliene aveva parlato per la prima volta sua madre, prima di morire, quando aveva appena nove anni, le aveva spiegato che come custode di Habarcat, era destinata ad apprendere Magie sopraffine dai maestri, con cui guidare e rafforzare la Sacra Fiamma per il bene dei Daur, ma esisteva un'altra Magia, più forte di tutte le altre, capace di sconfiggere qualsiasi altro potere, una Magia che non s’insegnava e non si apprendeva, una Magia innata che scaturiva forte, pura, indomita direttamente dal cuore: era l’amore, l'amore che lega una madre al proprio bambino. Sheira recitò il nome della sua Diorbhal con tutto l’amore che sentiva nell’anima, con le poche forze che le restavano tracciò quel nome col suo sangue nella terra sacra, e l'affidò alla natura e agli spiriti dei suoi antenati, perché la proteggessero e trovassero il modo di salvarla. Infine, stremata, si aggrappò al tronco della quercia che la sovrastava e tremando di freddo e di febbre, s’inginocchiò ai suoi piedi, baciò la corteccia e vi appoggiò la testa, pensò con forza ai suoi tre figli e supplicò lo spirito dell'albero di mandare un messaggio, attraverso le fronde, in ogni angolo della foresta, fino a Banrigh, il Centauro Custode del fiume. Quando erano giunti nella foresta di An Monadh, sedici anni prima, era stata lei il primo Centauro che avevano incontrato, subito dopo aver attraversato il fiume: la femmina si era avvicinata a loro, austera e distaccata, non amava avere a che fare con i Maghi, ma il suo compito la costringeva a svelarsi, doveva conoscere le loro intenzioni, assicurarsi che portassero nel cuore e nella mente sentimenti di pace, e concedere loro il passaggio solo se intenzionati a rispettare la natura. Sheira e Cormacc le avevano promesso che non avrebbero usato la Magia contro le altre creature, che non avrebbero cacciato oltre le loro necessità, che non avrebbero alterato gli equilibri della foresta, e per sedici anni avevano mantenuto quei giuramenti. Da allora, avevano visto la Custode del fiume solo un'altra volta, quando Cormacc aveva trovato un giovane Centauro ferito dai dardi di un cacciatore babbano e l'aveva salvato dalla morte con la sua Magia: quando era arrivata alla radura, di notte, per cercarlo, scoprirono che era il più giovane dei suoi figli e Banrigh li aveva ringraziati e benedetti, pregando la Natura di ricompensarli con ogni bene. Ora era Sheira ad aver bisogno dei Centauri, non per sé ma per la sua bambina: se Cormacc fosse morto, qualcun altro doveva portare Diorbhal dai fratelli alla Sorgente, ed era sicura che Banrigh, una madre, non si sarebbe tirata indietro, benché il suo popolo non amasse immischiarsi nelle faccende umane. Sì, Sheira era sicura che Banrigh non si sarebbe tirata indietro. Doveva andarsene da lì, però, doveva lasciare sua figlia da sola nel giaciglio di lana e foglie, protetta da una Magia che solo l’amore di un'altra madre avrebbe potuto spezzare: come la volpe, che abbandona la tana per allontanare i cacciatori dai suoi cuccioli, anche Sheira doveva separarsi da Diorbhal, non poteva restare lì, il suo sangue avrebbe attirato i cani e alla presenza di quegli uomini mossi dall'odio, sapeva che Banrigh non si sarebbe mai avvicinata. La Strega baciò un'ultima volta la sua bambina, poi si levò lentamente in piedi, iniziò ad avanzare, tremando e ondeggiando, la mente ormai offuscata le impediva di mantenere una direzione precisa, solo l'abbaiare del cane e le urla degli uomini atterriti dal suo compagno le indicavano, in mezzo al groviglio di rami, alberi e foglie, dove si stesse consumando la battaglia. Avanzò, infreddolita, esangue, decisa a raggiungere il signore di Glower: sapeva che era lì per lei, se si fosse lasciata catturare e uccidere, avrebbe soddisfatto il suo odio e avrebbe dato a Cormacc una possibilità di salvarsi. Quando le foglie si richiusero dietro di lei e Sheira intravide più vivido il rosseggiare del fuoco, il silenzio atterrito della foresta alle sue spalle fu percorso di nuovo dal pianto della sua bambina: con le lacrime agli occhi, Sheira si fece forza, e appoggiandosi a un altro tronco, avanzò di un altro passo.
Fu l'ultimo. Esausta, sentì la sua Magia spegnersi lentamente, e scivolarle dalle membra come un velo leggero, portando via con sé il suo ultimo respiro: la Strega si accasciò a terra priva di vita, tra le foglie, come una bambola addormentata, il corpo baciato dalla rugiada, gli occhi di mercurio socchiusi sullo splendore del cielo tempestato di stelle.
   
***

    “Ho colpito il cane! Mio signore, ho colpito il cane!”

Kenneth mac Maìl, lo scudiero del signore di Glower-o 'er-em, abbassò l'arco, asciugandosi con un braccio la fronte madida di sudore e impiastrata di polvere e sangue: non poteva crederci, ce l'aveva fatta, quel demonio fatto di zanne e artigli, che aveva visto dilaniare e uccidere molti dei suoi compagni, era caduto sotto il suo dardo e ora giaceva da qualche parte a terra, di là della fitta selva di rovi che aveva davanti. Da dove si trovava non vedeva il corpo, e pregava il Signore che non lo mandassero in quella tetra oscurità a cercarlo, ma era certo che il mostro fosse morto, non poteva essere altrimenti, l'aveva colpito in pieno petto e la striscia di sangue che ora vedeva a terra era troppo abbondante per chiunque, di sicuro anche per un figlio del demonio come quello. Al solo pensiero, si rifece per l'ennesima volta il segno della Croce, mentre Áed  mac Taidg, il suo signore, gli si avvicinava, la faccia illuminata da un ghigno di follia che voleva essere un sorriso: di colpo tutta la fatica della guerra e di quella notte di caccia, la paura, la disperazione davanti alla morte dei suoi uomini e di suo figlio, sembravano spariti dal suo cuore, uno sguardo smanioso era dipinto sul suo volto, mentre sputava improperi e oscenità che culminarono, arroganti, in un urlo che pervase tutta la foresta.

    “Ora vengo a prendere anche a te, puttana maledetta!”

Áed raggiunse lo scudiero avanzando con ampie falcate, seguito dall'onnipresente Gregorius, il monaco irlandese che svolgeva le funzioni di cappellano di corte, un omino basso e tarchiato, con il volto da faina, la chierica lucida e i pochi capelli che gli erano rimasti in testa candidi e arruffati. Kenneth sapeva che era un uomo di Dio, ma ogni volta che il monaco gli posava gli occhi addosso, si sentiva pervaso da un senso di profonda inquietudine, qualcosa di persino più terribile del disagio che provava quando doveva confessarsi e raccontare quanto la sua carne fosse debole, fallace, imperfetta.
   
    “Trova il corpo e portalo qui, Gregorius vuole studiare quella dannata bestia!”

Lo scudiero guardò inorridito Áed, mentre il suo signore si allontanava di nuovo, diretto ai portatori di cani, chiamando un nome che si perse nel silenzio irreale della foresta, dopo avergli imposto quella che sembrava una condanna a morte, non il premio per una miracolosa impresa. Il soldato tremò per alcuni istanti poi, segnatosi con la Croce del Signore, si fece largo tra la vegetazione, pregando tutti i Santi che lo proteggessero: superò la selva di spine, si guardò attorno, capì la direzione da prendere quando notò dei brandelli di pelo e carne sanguinante attaccati a dei rametti, avanzò timoroso, finché gli sembrò che il cuore gli si fermasse del tutto nel petto. Tra le foglie, a terra, invece di un cane, c’era il corpo inanimato di un uomo, trafitto da una freccia in pieno petto. Kenneth non poteva credere a quello che vedeva, doveva per forza essere uno dei maledetti intrighi dei Maghi o il potere sinistro della foresta di An Monadh… eppure... No, dentro di sé sapeva che non era un errore, non era un caso, non era una Magia: quella che aveva di fronte piantata nel petto dell'uomo, era proprio una delle sue frecce. Tremò: se la freccia era davvero la sua allora ai suoi piedi, c'era la terribile dimostrazione dell’esistenza di Satana sulla terra, perché solo uno spirito tanto immondo poteva trasformare un uomo in un cane e servirsene per arrecare morte e sofferenza. Era talmente sconvolto da quella scoperta da voler urlare, ma era ancora più terrorizzato, tanto che non ci riuscì. Non sapeva cosa fare. Non aveva il coraggio di avvicinarsi e guardare meglio, di toccare e capire se era davvero morto, l’unica cosa che voleva era allontanarsi il più possibile da lì, magari chiamare i suoi compagni in quel punto, di certo non voleva restare da solo con quell'essere; d’altra parte, era anche vero che il suo signore gli aveva impartito un ordine e sapeva quanto potesse diventare violento di fronte a un rifiuto. Doveva portargli quel corpo il più velocemente possibile, non aveva altra scelta. Kenneth si fece coraggio, titubante si avvicinò e dopo averlo toccato con la spada, vedendo che non reagiva, si piegò, prendendo l’uomo per le gambe e trascinandolo attraverso le sterpaglie: il corpo era possente, pesante, ancora caldo, ma era veramente morto, non reagiva in alcun modo al suo tocco. Lo scudiero prese via via più fiducia e si mosse sempre meno lentamente, l'orecchio teso a cogliere qualsiasi fruscio sorgesse tra le foglie intorno a sé. All'improvviso, così piegato, qualcosa attirò la sua attenzione da dietro dei cespugli: si fermò, lasciò cadere a terra le gambe dell'uomo, estrasse di nuovo la spada dal fodero e scostò con la punta della lama alcuni rovi per vedere meglio. Pallida come la luna, a terra, dietro dei cespugli, vide una specie di bambola che sembrava riposare tra le foglie, avvolta in una tunica scura, il viso e i capelli in parte coperti da un mantello, la pelle delle gambe e delle braccia esposte in buona parte alla vista.
Possibile che fosse la Strega? Possibile che anche lei fosse morta? E se era così, che cosa l'aveva uccisa?
Rimase per alcuni secondi a guardarla, quel volto, già solo a guardarlo da lontano, gli trasmetteva un senso di pace, voleva avvicinarsi, toccarla, baciarla, solo con difficoltà l'uomo riuscì a ritornare in sé e a ricordare chi fosse e soprattutto cosa fosse quell'essere. No, non doveva avvicinarsi o sarebbe caduto sotto qualche maleficio di quella dannata Strega, magari il turbamento, l'attrazione che provava in quel momento era proprio frutto degli incanti del demonio per strappargli l’anima e farla bruciare all’inferno. Si ritrasse e, mettendo da parte, di nuovo, qualsiasi cautela, iniziò a urlare a squarciagola perché corressero tutti lì: aveva trovato anche la Strega.

***
 
Áed fremeva di eccitazione, tutto preso dai suoi pensieri, mentre ritornava verso Gregorius: aveva appena parlato con i portatori dei cani e distribuito i compiti, stando ai suoi calcoli, ora che il mostro che difendeva la Strega era morto, dovevano esserci almeno altri quattro Adoratori di Satana, attorno a loro, nascosti nelle tenebre della foresta. Eppure, benché fossero in evidente inferiorità numerica e strategica, non conoscendo il bosco, il signore di Glower si sentiva ottimista e pregustava la vittoria, perché poteva opporre alle arti demoniache dei Maghi, la croce e il rosario del suo cappellano. Sentiva che li avrebbe catturati presto, vivi o morti, tutti quanti. Pregava di riuscire a prendere lui stesso la Strega, la voleva uccidere con le sue mani, ma non voleva chiudere quella storia subito, più ci pensava e più si convinceva che la morte era troppo poco, voleva farla soffrire, nel più orribile dei modi. Oltre alla fattucchiera, poi, c'erano l'uomo che aveva provato a impiccare, senza riuscirci, e quel figlio maschio di circa diciotto anni, quello che aveva visto al collo della Strega al mercato di Fonn Abhuinn: avrebbe fatto pendere dalla forca entrambi gli uomini, sulla pubblica piazza, anzi, sarebbe stato lui stesso il boia, voleva far vedere a tutti che si era pentito dei suoi peccati, che era tornato a essere un uomo timorato di Dio. E, soprattutto, avrebbe costretto la Strega ad assistere, così che provasse, vedendo con i suoi occhi la morte del proprio figlio, lo stesso dolore devastante che Áed aveva sentito spezzargli il cuore, quando aveva raccolto il corpo esanime di Mael dalla nuda terra.

    Mael…

Suo figlio, il suo unico figlio… Non c'era solo il dolore per la morte e il desiderio di vendetta a dominare la mente del signore di Glower, c’era anche una strana, folle speranza: se era nato maschio e il rigore dell'inverno non l'aveva già strappato alla madre, doveva esserci almeno un altro bambino, di non più di cinque o sei anni, ricordava bene che la Strega era incinta l'ultima volta che l'aveva vista, quando, con quel maledetto cane, aveva salvato il suo uomo dal boia. E chissà, magari ne aveva altri ancora. Da quando il cappellano gli aveva assicurato che i bambini maschi, al contrario delle femmine, erano offerti al demonio non alla nascita ma al compimento dei dieci anni, l’idea di scontrarsi con la Strega l’aveva riempito d’inquietudine, odio, esaltazione ma anche di un desiderio che aveva vergogna ad ammettere persino con se stesso. Áed cercava di ricordare che si trattava pur sempre del figlio di una Strega, ma il suo pensiero tornava sempre lì: se la fattucchiera avesse avuto dei figli maschi di non più di dieci anni… se fossero stati ancora dei bambini normali… se, una volta battezzati e opportunamente riconsacrati, fossero davvero stati liberi dal Male… Bambini maschi, uguali a tutti gli altri, probabilmente più forti e robusti di tutti gli altri… Áed aveva paura a formulare razionalmente quel pensiero, ma dentro di sé la smania e l’eccitazione si fondevano e si libravano superando timore e superstizione: potevano essere cresciuti come dei figli? Dei figli perfetti? Se avesse trovato quel bambino, quei bambini, se fossero davvero stati dei maschi, avrebbe potuto prenderli e allevarli come propri? Se col battesimo il cappellano poteva davvero farne dei buoni Cristiani, per quale motivo non avrebbe dovuto prenderli con sé? Quella donna maledetta gli aveva promesso un figlio maschio e lui... Le aveva persino offerto, anni prima, ben venti monete d'argento per averlo e invece, ora, di nuovo, si ritrovava senza niente... Sì, quei figli gli spettavano di diritto e lui non intendeva né poteva aspettare oltre! Áed avrebbe ottenuto il maschio, anzi i maschi, che il destino gli doveva. Un uomo aveva il diritto di perpetuare il proprio nome... E se sua moglie non era stata capace di... allora lui aveva il diritto persino…
Ricordò di colpo la fierezza dello sguardo di mercurio dell’Adoratrice di Satana, l'altezzoso rifiuto che gli aveva opposto, la voluttà di quel corpo pieno, quella Strega gli turbava i sogni e il corpo ormai da anni, e di colpo l'ira, il dolore, la sete di vendetta si fusero al desiderio fisico di possederla e lo travolsero. Áed temette di diventare pazzo, respirò a fondo: perché prendere il figlio di un altro uomo, un bastardo, quando poteva averne uno proprio? Se avesse trovato dei maschi, glieli avrebbe strappati e li avrebbe cresciuti per farne dei buoni soldati, certo, ma si sarebbe tenuto anche lei, voleva tenersi anche lei, demonio o non demonio, la voleva, prigioniera, nelle segrete, come l’animale che era, la voleva per prenderla ogni volta che ne avrebbe avuto voglia, finché lei, così feconda, gli avrebbe dato il maschio, anzi tutti i maschi che il destino finora non gli aveva concesso. Solo alla fine, quando si fosse stancato, quando avesse ottenuto tutto ciò che desiderava, si sarebbe sbarazzato anche di lei. Sì, avrebbe fatto così... Quanto alle figlie della Strega... quelle non si potevano salvare nemmeno con il battesimo, pertanto non aveva senso tenere in vita altre bocche da sfamare, nemmeno per trarne, un giorno, soddisfazione... Non le avrebbe tenute nemmeno come serve, le avrebbe fatte bruciare tutte, subito, si sarebbe vendicato così della Strega, l'avrebbe costretta ad assistere all'orrore che avrebbe scatenato contro i suoi figli, proprio come a lui era toccato vedere la morte di Mael. Sapeva di essere dalla parte del giusto, lo dimostrava l'esser riusciti già ad ammazzare quel maledetto cane... Nemmeno per un istante Áed pensò che quella minima vittoria era stata ottenuta a costo di tante, troppe vite, che stava mandando a morire la sua gente, per quella che era solo un’ossessione, una follia, non riusciva a comprendere che qualsiasi vendetta, nemmeno la più turpe, gli avrebbe reso suo figlio.
All’improvviso le urla di Kenneth dal fitto della foresta, là tra quei rovi in cui gli aveva ordinato di entrare, lo ridestarono dal suo delirio personale: Áed mise mano alla spada, diede una rapida occhiata al cappellano perché lo seguisse e lo proteggesse con la Croce, ritornò sui suoi passi, il cuore in tumulto, l'ira affamata a governargli il corpo e la mente. Aveva sentito bene? Kenneth aveva proprio detto di aver trovato anche la Strega? O forse il suo scudiero era già impazzito?
Tutti sapevano che su An Monadh era stata gettata una potente maledizione, ma Áed non se ne curava, avanzava sicuro, ora che la vendetta stava per essere consumata, non aveva alcun timore, nulla sarebbe riuscito a fermarlo, nemmeno la più oscura delle creature uscite dall’inferno. Quando vide i rovi schiacciarsi al passaggio del suo scudiero e l’uomo, apparentemente incolume, avvicinarsi, i suoi occhi fissarono carichi di attesa l'oscurità alle sue spalle e il dolore cupo per Mael spazzò via, di nuovo, qualsiasi altro sentimento.

    “Dov'è?”

Non aspettò nemmeno che lo scudiero formulasse una risposta, lo superò e si fece largo tra il fogliame, mentre Kenneth farfugliava qualcosa su un cane, che non era un cane ma un uomo, lo implorava di non andare, di aspettare di essere raggiunti anche da altri, di non far conto solo sulla Croce di Gregorius, che lo seguiva a capo chino, muto, particolarmente pensieroso. Áed non gli prestò ascolto, non gli interessava più niente, solo stringere le sue dita attorno al collo della Strega. Rapido raggiunse il luogo in cui giaceva il corpo seminudo del condannato alla forca, lo riconobbe subito dal naso curvo in una piega strana, si compiacque quando vide la freccia mortale conficcata nel petto, proprio all'altezza del cuore, sentì quasi un piacere fisico pensando che la Strega avesse visto il dardo penetrare nella carne amata, lacerarla, danneggiarla, togliere per sempre la vita al suo uomo. Si avvicinò ancora di più, sempre con Gregorius al seguito, sollevò la spada che reggeva nella destra, l’aveva tenuta sempre sguainata da quando era entrato nei territori di An Monadh, ammirò il luccichio metallico della lama, poi di colpo la calò sul corpo dell'uomo, rapida per tre volte, per sfregio, dritta in pieno petto, allargando ancora di più la ferita provocata dalla freccia. Con un sorriso di soddisfazione sulle labbra, proseguì nell'oscurità della vegetazione, nella direzione che gli aveva indicato lo scudiero appena l’aveva raggiunto: la Strega era lì, oltre quelle foglie, che lo aspettava. Ordinò al cappellano di seguirlo e a Kenneth di trascinare l'uomo-cane fino al fiume.

***

Kenneth si chinò di nuovo sul corpo del Mago, lo prese per le gambe e si mosse a ritroso per alcuni passi, rassicurato dal fatto che presto sarebbe uscito dal folto della vegetazione e avrebbe raggiunto una radura scoperta, in riva al fiume, dove avrebbe atteso al sicuro i portatori dei cani. Aveva persino sentito alcuni fruscii dietro di sé, probabilmente stava già arrivando uno dei segugi. All'improvviso, però, mentre con fatica trascinava il corpo del Mago, si ritrovò a cadere a terra, all'indietro, perdendo la presa sul morto: forse era inciampato su un ramo, o su un sasso, o addirittura sui suoi stessi piedi, corse a guardarsi i calzari per capire cosa l'avesse fermato. Con orrore vide che due serpenti gli si stavano annodando stretti alle caviglie.
Cercò di sollevarsi a sedere, di estrarre la spada dal fodero per assestare un colpo preciso che uccidesse i rettili e lo liberasse, ma anche sul suo polso si stavano già annodando un paio di serpi dalla testa verde, apparsi dal nulla. Provò a urlare per chiedere aiuto, ma la voce non gli uscì dalla gola: sinuoso, un altro rettile gli si stava stringendo al collo, serrandolo via via sempre con più forza, togliendogli il fiato poco alla volta, annebbiandogli sempre più la vista e la mente. Kenneth era sicuro che a quell’ora, quasi prossima all’alba, i serpenti dormissero ancora, nascosti nelle loro tane o sotto le pietre, e rabbrividì ancora di più al pensiero che quelle bestie non si stessero comportando secondo natura, che una forza demoniaca avesse preso il controllo delle loro azioni. Non fu capace, però, di connettere a lungo i suoi pensieri, la serpe sul collo strinse ancora di più, trasformando il suo difficoltoso respiro in una specie di rantolo, mentre alle caviglie e ai polsi, affilati, i dentini delle serpi gli penetravano ripetutamente la carne, iniettandogli più e più volte, nel sangue, il loro fluido venefico. Lo scudiero voleva implorare pietà, urlando tutto il suo dolore e la sua paura, mentre le serpi colpivano e colpivano ancora, ma ormai, anche se la serpe non stringeva abbastanza il suo collo da farlo morire soffocato, non riusciva quasi più a respirare. L’uomo si sentì girare la testa, il freddo e il fuoco si alternavano nelle sue membra, l'oscurità prendeva a poco a poco il suo sguardo rendendolo semicieco, mentre si dibatteva per la febbre e il dolore, senza tregua, percorso dalla più atroce delle torture, in attesa che il veleno giungesse al cuore e il suo corpo cedesse all’oblio.
L'ultima cosa che vide, mentre il suo corpo era devastato dalle convulsioni, fu un'ombra: ne vide distintamente solo una gamba, ma la sua mente alterata riconobbe la gamba di un uomo. L’ombra si muoveva a pochi passi da lui, al limitare di ciò che restava del suo campo visivo, si chinò a raccogliere la sua spada, a pochi centimetri dalle sue mani, lo sentì, chiaramente, la sua voce era simile al sibilare del serpente, e si levava appena in un canto sconosciuto. Kenneth ne era convinto, le serpi facevano scempio della sua vita aizzate proprio da quello strano canto. L’ombra avanzò fino a inginocchiarsi sul corpo dell’uomo che era stato un cane, non si curò in alcun modo di Kenneth, non gli alleviò le sofferenze togliendogli la vita, si sollevò invece poco dopo, la spada stretta nel pugno, e penetrò tra la vegetazione, lasciando lo scudiero lì, a morire nelle più atroci sofferenze, come un animale.



*continua*



NdA:
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, aggiunto alle liste e/o commentato. Abbiamo ritrovato due personaggi che avevamo conosciuto nel primo capitolo, Aed e il suo scudiero, e conosciuto Banrigh (= in gaelico questa parola significa "signora", "regina"). Per il nome di uno dei suoi figli ho usato il nome del capo dei  Centauri al tempo di Harry Potter, Magorian. Per Sheira era quasi scontato un certo tipo di finale (fatto di violenza sessuale, sangue e dolore), data la situazione, ma appunto sarebbe stato il finale più scontato, ecco quindi che, se proprio si doveva parlare di morte,  ho voluto caratterizzare i suoi ultimi istanti non con l'odio ma con l'amore, ricollegandomi al filone della Rowling di madri che muoiono salvando i propri figli. Il momento "horror" arriva alla fine, e in questo modo ho anche fatto fuori tre personaggi in due capitoli. Un bacione.

Valeria



Scheda
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Capitolo 6
*** I.006 - TERRE DEL NORD - IL SIGNORE DEI SERPENTI ***



That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.006 - Il Signore dei Serpenti



Dòmhnall aveva trovato ridotta in cenere la radura in cui era nato e cresciuto. Era rimasto annichilito per lunghi, interminabili secondi, poi, come invasato, si era gettato a terra e aveva scavato a mani nude tra i resti fumanti degli alberi, là dove fino a un paio di ore prima si ergeva la tenda con la Fiamma Verde, per cercare traccia dei suoi familiari, terrorizzato all'idea di trovarsi, prima o poi, di fronte ai loro corpi privi di vita. Sconvolto, gli occhi pieni di lacrime e le mani ridotte a piaghe sanguinanti, aveva pregato gli dei che suo padre e sua madre fossero fuggiti in tempo, finché, lentamente, si rese conto che, nella devastazione del suo mondo, non c'era nulla che testimoniasse un loro scontro con i Babbani: non era stata compiuta alcuna Magia dopo la sua partenza, suo padre non si era dovuto difendere, gli aggressori sembravano aver raggiunto la radura quando la sua famiglia si era già allontanata da lì. Rassicurato, recuperò la calma e trovò infine, tra i rovi, le tracce che cercava, tracce che testimoniavano come suo padre non avesse percorso la strada che gli aveva consigliato per raggiungere la Sorgente, ma avesse scelto l'altra, quella più lunga e meno ripida, forse per confondere gli assalitori, forse per farli dividere e guadagnare tempo, forse nell'estremo tentativo di allontanare quelle bestie dai suoi figli più grandi. In realtà, nessuno dei Babbani aveva trovato o seguito le tracce dei ragazzi: tornando sui suoi passi, Dòmhnall non aveva scorto segni riconducibili al loro passaggio, il che significava che aveva preso la decisione giusta, aveva lasciato suo fratello Cuilén al sicuro, per tornare indietro e aiutare i suoi genitori e il neonato, in pericolo nella boscaglia. Osservò con cura i rametti spezzati, le impronte stranamente leggere nella terra umida, riconobbe i segni appena percettibili con cui suo padre, abitualmente, segnava la strada: non aveva compiuto alcun errore, come sempre, era impossibile capire che quelle lasciate erano tracce umane, non animali; c'erano, però, anche alcune gocce di sangue, di cui non riusciva a capire il significato e, forse, questo aveva indicato la pista ai segugi. Si mise in marcia a sua volta, tenendo la direzione senza difficoltà: gli uomini di Glower-o ‘er-em, infatti, avevano sovrapposto pesantemente le proprie impronte a quelle del Mago, non avevano certo avuto cura di muoversi con cautela e rispetto, addirittura il fuoco di alcune frecce divorava ancora gli arbusti, alimentandosi pericolosamente con le foglie secche del sottobosco; lungo il tragitto, il giovane vide molti animali uccisi dal fumo e dalle fiamme, la vegetazione ovunque calpestata con violenza, il suo bosco recava i segni di una volontà assassina di distruggere e devastare ogni cosa. Suo padre a un certo punto aveva deviato ancora, sicuramente per dirigersi alla grotta lungo il fiume: Dòmhnall immaginò che sua madre, debole per il parto, non potesse arrivare subito al luogo dell'appuntamento e la grotta costituisse il riparo più sicuro, soprattutto di notte; il giovane si animò di coraggio e speranza, conosceva bene il percorso, lui e suo padre passavano settimane intere in quel rifugio, quando andavano a caccia d'inverno, era una roccaforte di rocce facilmente difendibile dalle belve: appena i suoi l'avessero raggiunta, sarebbero stati in salvo.
Aveva deciso: anche se non capiva quanto vantaggio avessero, avrebbe cercato di rallentare la corsa dei Babbani, li avrebbe attaccati alle spalle, così da dar modo ai suoi familiari di arrivare alla grotta, avrebbe potuto spaventarli aggredendoli con qualche semplice Magia innocua, suo padre diceva sempre che erano uomini codardi, superstiziosi, che credevano ad assurdità sugli spiriti della Foresta. Era pericoloso, certo, avrebbe dovuto essere cauto, non sapeva quanti fossero, quanto fossero armati, e, soprattutto, come avrebbero realmente reagito, ma Dòmhnall sapeva essere cauto, quando era necessario: fin da ragazzino, suo padre gli aveva insegnato che non avrebbe mangiato, se non fosse stato in grado di procurarsi da solo il cibo, e nel corso degli anni era diventato abile a muoversi nella foresta, silenzioso come le sue prede, per catturare, anche senza Magia, gli animali con cui doveva sostentarsi. Dòmhnall non era armato e un vecchio patto con i Centauri lo costringeva a non fare del male con la Magia, ciò nonostante aveva già un paio d’idee su come agire e sapeva che, se avesse giocato bene le sue carte, non solo non l'avrebbero visto, ma i Babbani sarebbero rimasti così sconvolti, che non avrebbero mai più violato la foresta. Avanzò circospetto, tenendosi nel fitto della boscaglia, annusò l'aria, sentì l'odore acre di fumo farsi più pungente, vide a terra tracce di sangue ancora fresche, dimostrazione che lo scempio lì era avvenuto abbastanza di recente: suo padre aveva ragione a disprezzare quegli uomini, ovunque andassero portavano distruzione e morte, non capivano che la Natura era una madre dispensatrice di ogni dono, capace di soddisfare qualsiasi necessità, bastava solo obbedirle e assecondarla. No, i Babbani si ponevano come fossero padroni di tutto, come se il Creato dovesse piegarsi al loro volere, come se la Natura fosse una serva da violentare impunemente. Guardò con ribrezzo la carneficina, avanzò, con il cuore gonfio di dolore e di rabbia, si chiese se sarebbe riuscito a portare a termine quanto si era imposto, se sarebbe riuscito a spaventare quegli uomini orribili, con i suoi trucchi innocenti. Sì, ce l'avrebbe fatta, lo sapeva, ce l'avrebbe fatta per l'odio profondo che, per la prima volta, sentiva crescersi nel cuore e nel cervello. Quando vide uno di quei Babbani che avevano popolato per ore la sua immaginazione, la sua forza e il suo coraggio non vacillarono, anzi il suo odio e la sua determinazione, se possibile, si radicarono ancora di più: già da lontano, il fetore di quell'essere, rimasto solo nelle retrovie a far da sentinella, spaventato a morte da qualsiasi rumore provenisse dal fitto della boscaglia, permeava ogni cosa; era solo una bestia immonda, proprio come aveva detto suo padre.
Dòmhnall si sentiva stordito, paura ed esaltazione si fondevano, proprio come quando andava a caccia, e quell'uomo, in quel momento... poteva essere la sua preda. Le voci e le urla squassavano la foresta, i fuochi rendevano l'aria pesante, irrespirabile, il rumore dei passi pesanti, il sibilo delle frecce di fuoco, tutto contribuì ad acuire il turbinio di sensazioni che lo agitavano come una foglia nel vento. Il ragazzo respirò a fondo, recuperando lentamente il controllo di sé: non doveva avere paura e non doveva farsi distrarre dall'odio, l'unica cosa importante era che quegli uomini non arrivassero alla sua famiglia, non doveva ascoltare la voce che, nell'anima, gli urlava che non era sbagliato assalire e straziare, vendicarsi per lo scempio che vedeva intorno a sé, per il terrore che provava, per la fuga cui era costretta la sua famiglia. No, doveva pensare solo ai suoi genitori e ai suoi fratelli. Era convinto che fossero vivi, da qualche parte, nei paraggi, bisognosi del suo aiuto, li avrebbe aiutati, si sarebbe riunito a loro, li avrebbe abbracciati, avrebbe raggiunto la Sorgente e Cuilèn con loro... doveva solo agire, fuggire e salvarsi. Lasciò la sentinella dietro di sé, quello stolto non immaginava nemmeno cosa aveva appena rischiato, continuava a tremare al verso cupo della civetta. Dòmhnall accelerò il passo, si avvicinò di più al grosso degli uomini, notò, a poco a poco, che davanti a sé si levavano sempre meno frecce, che le voci concitate si mischiavano a urla e pianti: si nascose varie volte nella vegetazione più fitta, sentendo giungere di corsa, nella sua direzione, alcuni di quegli uomini. Li osservò incredulo: sconvolti, urlavano arrancando tra gli alberi, le carni delle gambe lacerate e straziate, alcuni si tenevano un braccio che penzolava nel vuoto, ne vide un altro tenersi la pancia e poi crollare a terra, in un tripudio di carne e sangue, il ventre squarciato; quelli che restavano in piedi, impazziti, s’inoltravano nella foresta senza più badare dove fosse il fiume, destinati a cadere in qualche profondo crepaccio o, dispersi nell'intrico degli alberi, morire per il freddo e la fame, pasto delle bestie selvatiche. Dòmhnall non riusciva a capire di cosa avessero paura quegli uomini, né chi li avesse aggrediti in quel modo cruento: i Centauri e le altre creature magiche non agivano così e dovevano essersi già nascoste sentendoli arrivare, gli animali feroci attaccavano singole prede, non gruppi di persone armate e, soprattutto, di fronte al fuoco fuggivano. Che cosa stava accadendo? Forse suo padre, in difficoltà, per difendersi, aveva rotto il patto con i Centauri e aveva affatturato e scatenato i lupi contro i Babbani? Era possibile, anche se, conoscendo il carattere mite di suo padre, poco credibile. Si chinò sul corpo dell'uomo sventrato, turandosi il naso, con un piccolo pezzo di legno gli scostò i lembi della tunica e furtivo osservò la ferita: lupi… Sì, lupi… aveva visto solo i lupi procurare delle lacerazioni simili.
   
    “Ho colpito il cane! Mio signore, ho colpito il cane!”

Una voce agitata si levò tra gli alberi, spaventandolo, in direzione di una piccola radura a pochi metri dalla sua posizione: Dòmhnall, sospettoso, tese l'orecchio, sapeva che non c'erano cani nella foresta di An Monadh, i lupi non lasciavano che i randagi dei villaggi entrassero nei territori e si accoppiassero con le femmine, indebolendo la razza. Eppure la voce aveva detto proprio “cane”, anzi “il cane”, come se lo conoscessero. Che fossero lì per cercare un cane malato, per evitare un'epidemia di rabbia? Il giovane s’immerse nel sottobosco muovendosi lentamente tra i cespugli verso la voce, voleva capire, anche se non poteva avvicinarsi più di tanto, arrivò fino al punto più riparato nei pressi della radura scoperta, rimase fermo, trattenendo quasi il respiro studiando la scena: al primo uomo se ne aggiunse un altro, dal passo imperioso e dal vociare potente, urlava improperi e maledizioni incomprensibili, ma quando fu più vicino, il bosco vibrò di parole che il ragazzo comprese chiaramente, senza possibilità di errore.

    “Ora vengo a prendere anche a te, puttana maledetta!”

Dòmhnall sentì il sangue ribollirgli nelle vene, mosso da paura e odio. Non stavano cercando cani. S’impose calma e coraggio, osservò con attenzione per decidere cosa fare, incuriosito da quegli uomini così diversi da lui: si mosse, si avvicinò ancora un po', quasi strisciando, scostò, un poco, le foglie dei cespugli, per studiare i dettagli, l'uomo che aveva colpito il cane portava un pesante arco a tracolla e una spada al fianco, aveva vesti umili, le calze logore e sporche, i calzari di pelle laceri, il corpo nascosto da una pesante maglia di metallo, al contrario dei disgraziati che correvano nel bosco, con addosso solo la tunica. L'arciere era un soldato e, da quanto riusciva a vedere del suo viso nascosto da lunghe chiome castane impiastrate di polvere e sudore, aveva circa l'età di suo padre. Il secondo era più vecchio, più alto, grasso e flaccido, con le vesti più ricche, anche se ugualmente sporche: al contrario dell'arciere, non indossava la cotta di metallo, la testa era scoperta e quello che restava di una chioma fulva e rada scendeva a ciocche spettinate sulle spalle, fondendosi con la barba biondiccia, inzaccherata di sudore e sporcizia. Aveva il volto segnato da rughe profonde, rabbioso, su cui rilucevano occhi chiari, spiritati, da pazzo assassino: doveva trattarsi del signore di Glower-o ‘er-em, l'uomo che aveva già provato a uccidere suo padre, anni prima, mosso da un odio di cui, oggi come allora, Dòmhnall non riusciva a capire la ragione. Gli sembrava di avere il cuore pressato in un guanto gelido, tremò dalla paura, dall'angoscia, temendo di non riuscire a portare a termine ciò che si era prefisso, senza far uso della Magia: quell'uomo di certo era più forte ed esperto di lui nella lotta, determinato a dargli la morte, almeno quanto Dòmhnall era determinato a salvare se stesso e i suoi cari. D'un tratto, i due Babbani si divisero, il signore di Glower-o ‘er-em si allontanò, portandosi dietro, se ne accorse solo all'ultimo, una terza figura, un vecchio dal capo canuto, un essere fragile, quasi piegato in due dagli anni e dalla fatica, ma il cui sguardo... Dòmhnall rabbrividì di nuovo, questa volta per la sensazione di pericolo che provò, vedendo il vecchio monaco, un uomo che non aveva nulla di minaccioso, anzi... Eppure... ricordò i discorsi di suo padre su Gregorius, il monaco che era riuscito a turbare persino sua madre, perché sembrava conoscere le Rune e la Confraternita di cui, Babbano, non avrebbe dovuto sapere niente. Decise di non perdere altro tempo, osservò l'arciere inoltrarsi nella boscaglia, alla sua sinistra, poteva aggirarlo e affrontarlo, poteva immobilizzarlo con la Magia, scoprire cosa volevano dalla sua famiglia, vedere le sue paure profonde e approfittarne. Si guardò attentamente intorno, in quel punto non si era ancora avventurato nessuno, non c'erano tracce della sua famiglia, eppure era abbastanza vicino al sentiero per la grotta, non capiva se avesse sbagliato strada, o se i suoi, per qualche motivo, avessero deviato ancora, nascondendosi nelle vicinanze. La situazione non era semplice, era necessario trovarli, il più in fretta possibile. Si mosse, rapido e silenzioso, finché non percepì, con la coda dell'occhio, alcune foglie agitarsi alle sue spalle: si acquattò a terra, osservò, con occhi fissi, e, nel grigiore che andava a sostituirsi lentamente al buio della notte, gli parve di scorgere una schiena nuda tra gli alberi e un suono strano, come un pianto, molto simile a quello di un gattino.
Che fosse la voce del bambino? Di suo fratello? La sua famiglia era davvero lì, vicino a lui, da qualche parte? Di chi era quella schiena bruna?
Tese l'orecchio ma il suono non si ripeté, lasciandolo nel dubbio e nell'ansia. Si mosse ancora, sempre lentamente, in quei minuti, che potevano essere pochi o l’eternità intera, aveva perso di vista l'arciere, ma aveva un'idea abbastanza precisa di dove potesse trovarsi; inoltre, i Babbani avevano ormai una rilevanza secondaria, rispetto alla possibilità di ritrovare la sua famiglia e scappare insieme con loro. Quando però la voce affannata del soldato ruppe di nuovo, improvvisa, quel silenzio carico d'attesa, Dòmhnall sentì un brivido gelido lungo la schiena, le gambe si piegarono, tutto si fece oscuro mentre le sue orecchie udivano le parole e il cervello comprendeva lentamente il loro significato.

    “Presto, correte, ho trovato anche la Strega!”

Dòmhnall si sorresse all'albero al suo fianco, il volto, lo sentiva, bruciava per lo scorrere violento del sangue nelle sue vene, deglutì, cercò di fare chiarezza nella mente, senza riuscirci, di raccogliere le idee e prendere una decisione: ascoltò con attenzione l'arciere, concitato, che parlava di un cane che non era un cane ma un uomo, e di una donna, la Strega, stesa a terra, tra gli alberi. Tutto in Dòmhnall si spense: pensieri, speranze, persino la coscienza di se stesso. Il giovane Mago tremò: alcuni ricordi riemersero confusi dal suo passato, le voci di sua madre e di suo padre, attorno al fuoco, riecheggiarono nella sua memoria, si rivide bambino, mentre gli narravano cosa un giorno sarebbe stato capace di fare con la Magia. Glielo aveva fatto vedere, suo padre... e Dòmhnall aveva riso, pieno di entusiasmo. Suo padre sapeva trasformarsi in cane. Lo ricordava chiaramente.

    Il cane… l'unico cane che può vivere nella foresta... Non è un cane, ma un uomo... L'unico cane... può essere... è... solo... Mio padre...
    Allora… L’uomo che mi ha dato la vita... è…
    L’uomo che mi ha insegnato ogni cosa… è...
    L’uomo invincibile, capace di spaventarmi con uno sguardo... è...
   
    “Ho colpito il cane! Mio signore, ho colpito il cane!”

Gli girava la testa, Dòmhnall sentiva di essere sul punto di vomitare. No, non era possibile, non era assolutamente possibile. Sentì il vociare degli altri uomini che tornavano indietro, il giovane continuò a muoversi confuso, assente, come una bestia ferita, tentando di raggiungere la posizione dell'arciere e vedere con i suoi occhi il cane che non era un cane, e la donna stesa sulla fredda terra, la mente gli pulsava: si rifiutava di accettare il significato di quelle parole. Cercava disperato una spiegazione diversa.

    Uccisi... Dòmhnall… te li ha uccisi… Entrambi...
    Non è possibile… Quell'uomo non può averli colpiti... Non entrambi… Non sono loro, non possono essere loro...
    Se non sono loro... dove sono i tuoi?Perché le tracce finiscono qui? Dov'è il bambino?

Dòmhnall, come impazzito, riprese a cercare tracce tra gli alberi, senza trovare più niente, senza vedere più niente, nemmeno a pochi centimetri dai suoi occhi, non vedeva più nemmeno le sue mani, i suoi piedi, le foglie, la terra: tutto era nero, oscuro. Tutto era morte. Aveva paura, Dòmhnall, aveva paura di sapere, paura di vedere. Paura di scoprire la verità. Paura di scoprire che la verità peggiore era ormai anche l'unica possibile.
Si stava abbandonando alla disperazione, al gelo che gli intorpidiva le membra, agiva senza riflettere, non gli importava di essere scoperto, decine d’immagini terrificanti gli balenavano nella mente e lo sconvolgevano tanto da non riuscire a respirare: ricordava quello che suo padre aveva raccontato della prigione, cosa aveva visto fare alle donne nelle segrete del castello, sapeva perché parlava di quegli uomini come di bestie immonde. Si sentiva soffocare... Viva o morta, doveva trovare e nascondere sua madre, non poteva lasciare che quegli esseri ripugnanti la... Cercava, disperato, di aggrapparsi all'idea che fosse tutto un errore, ma non ci credeva già più: desiderava profondamente lanciarsi nella mischia, scatenare tutta la rabbia che sentiva in corpo, vendicarsi su quei miserabili maledetti, ucciderli tutti. O morire... Sì, avrebbe persino desiderato la morte, pur di non vedere, se solo la voce amorevole di sua madre non gli avesse ripetuto, nella mente, un nome, sempre lo stesso, ossessivo, infinito, dolce e  al tempo stesso terribile.

    Cuilén…

L’odio che sentiva dentro lo spingeva a uccidere o morire, ma c'era suo fratello da salvare, quel fratello che suo padre gli aveva affidato, insieme alla Fiamma di Habarcat. Dòmhnall si accucciò alla base di un albero, pianse tutte le lacrime che sentiva dentro di sé, la testa gli sembrava esplodere, mentre non aveva più idea di dove fosse, perso tra le foglie e in se stesso: non capiva cosa stesse facendo, né cosa dovesse fare, cosa fosse giusto e cosa sbagliato, chi dovesse aiutare, chi abbandonare.

    Cosa devo fare?

Spettava a lui ormai proteggere quanto di più prezioso e sacro era nato e cresciuto in seno alla loro famiglia, suo padre gli aveva spiegato il valore di suo fratello, del bambino nato a Oimelc, del custode di Habarcat, la cui vita era tutt'uno con la Fiamma. Aveva commesso un errore, lasciandolo nella foresta: ora, tutto rischiava di finire. Come aveva fatto a non capirlo? Suo padre aveva intuito dall'inizio di non avere scampo, li aveva allontanati per mettere in salvo l'unico che dovesse salvarsi, Cuilèn, glielo aveva affidato perché era ancora troppo piccolo per cavarsela da solo... Suo padre non li aveva spediti alla Sorgente per poi ritrovarsi là, non aveva scelto una strada diversa per raggiungerli, sapeva dall’inizio che non si sarebbero più rivisti… L'aveva spedito alla Sorgente perché era lì che sarebbe apparso il Mago della Confraternita entro pochi giorni, al massimo poche settimane: Dòmhnall sarebbe dovuto ritornare in seno alla Confraternita con Habarcat e il Custode-bambino. Era questa l'unica cosa che suo padre gli aveva chiesto di fare...  L’ultima richiesta, il suo addio, il suo testamento… E Dòmhnall non l'aveva ascoltato: aveva rovinato tutto, aveva privato Cuilén della Fiamma, aveva portato Habarcat in mezzo a una battaglia, da cui, se non se ne fosse andato subito, non sarebbe mai uscito vivo.
Il Mago, però, non poteva permettere che... se i soldati avessero trovato sua madre... non poteva allontanarsi, non poteva lasciare che l'orrore si consumasse pienamente. Si risollevò, deciso a vendere cara la pelle e fare tutto quello che era ancora possibile. La vide, così, tra gli alberi, sulla terra pregna di aghi di pino: era lì, a pochissimi passi da lui, tra le foglie cadute a segnare gli ultimi giorni di quell'estate maledetta. La guardò, da lontano sembrava addormentata. Dòmhnall non capiva cosa stava vedendo, paura e speranza si fondevano, l'aveva trovata, era finita, poteva scappare con lei... non si chiese nemmeno dove fosse il bambino, perché non fosse al suo fianco, o se ci fosse ancora speranza per suo padre... Lieve, si avvicinò, pregando di sentire ancora il suo respiro, la toccò, la annusò, riconobbe l'odore che più amava al mondo, riconobbe il calore che tante volte l'aveva accolto con un abbraccio, ma non osava guardare il suo viso, i suoi occhi, aspettava muto che quelle mani, abbandonate, scomposte, sulla terra, si sollevassero ad accarezzargli il volto, come continuava a fare, anche ora che era quasi un uomo, pronto a vivere la sua vita. Gliene prese una e la portò alle labbra, la baciò, era ancora calda, si avvicinò alla sua testa e le sussurrò piano all’orecchio, chiamandola lieve, “madre”. Non si spaventò del silenzio, sapeva che era stanca, era sfinita dal travaglio, ora ci avrebbe pensato lui a sua madre, l'avrebbe salvata lui, avrebbe fatto ciò che suo padre, sacrificandosi, non era riuscito a portare a compimento... l’avrebbe difesa lui.
Scivolò, timido, con le mani sotto le sue costole, per sollevarla, caricarsela sulle spalle e finalmente allontanarsi da lì, nascondersi, fuggire, raggiungere Cuilèn. Quando tutto fosse finito, quando fosse stata di nuovo a casa, forse... Forse un giorno, l’avrebbe perdonato per non aver salvato il bambino… l’ultimo dono che le aveva fatto suo padre. Tutte le speranze morirono, però, appena Dòmhnall sentì qualcosa di umido e vischioso, ancora caldo, che gli impastava le dita. Rimase pietrificato: ancora caldo… caldo... sangue caldo… tanto sangue, caldo… Che cos'era quel sangue? Da dove veniva tutto quel sangue? Chi l'aveva ferita così?
Il respiro gli si mozzò nei polmoni. La guardò, infine, in volto, vide gli occhi, gli amati occhi, socchiusi, freddi, vuoti di morte, Dòmhnall si sentì morire. Era lì, a pochi passi da lei, com’era possibile? Quei maledetti gliela avevano uccisa, lì, mentre lui era a pochi passi da lei... Com’era possibile? Impazzito, la girò sul fianco e le controllò, nella semioscurità dei cespugli, la schiena, tastandola si accorse che non c'erano ferite, non ce n'erano neppure sul torace, nessuna freccia, nessuna spada aveva trapassato il suo amato corpo. Allora perché? Quel sangue, tutto quel dannato sangue veniva... Quando abbassò lo sguardo sul suo ventre, l'urlo di orrore gli morì in gola. Le gambe, il ventre, la tunica, erano una sola, orrenda, immensa macchia di sangue.
Dòmhnall sapeva come nascono i bambini, ma non conosceva i dettagli e le complicazioni di un parto, suo padre non gli avevano mai spiegato nulla a quel proposito, perché suo figlio non aveva attitudine come Guaritore. Il giovane, perciò, non comprese il vero motivo del sangue e di quella morte. Dòmhnall immaginò, con l’odio e la paura: immaginò le cose più turpi e orribili. Immaginò l'arciere che approfittava della debolezza di sua madre, che la catturava, la profanava e infine la uccideva. Non capì più niente, adagiò orripilato quel corpo a terra, credendolo intriso della bestemmia di quell'uomo miserabile, come se la vergogna della bestia avesse corroso quelle membra amorevoli che tante volte l'avevano baciato, da cui era nato. Sua madre non era più lì, non c'era più, non l'avrebbe guardato più, baciato più. Non avrebbe più sentito la sua voce, accolto le sue carezze. Non avrebbe più concesso il suo abbraccio all’uomo amato, e non sarebbe più stata accolta tra le sue braccia. Le era anzi stato imposto come ultimo, il tocco di una mano sacrilega.
Tremò... Dòmhnall non poteva accettarlo. Non contava più niente per lui. Non gl’importava più di niente, nemmeno delle promesse che aveva fatto, delle responsabilità che aveva assunto. Esisteva solo la vendetta, l'odio, il sangue. Nei suoi occhi e nella sua mente c'era solo il sangue. Bramava il sangue, bramava vendetta, bramava morte. Di quel maledetto Babbano, e di ogni altro Babbano avesse trovato sul suo cammino. Non avrebbe avuto pietà, mai e poi mai, fino all’ultimo dei suoi giorni.
Iniziò a vagare tra gli alberi, gli occhi vuoti e freddi, il corpo tremante, privo di controllo, le sue labbra fremevano, parlavano senza che se ne accorgesse, ripetevano, come un mantra infinito, il nome del lupo che dilania le membra, della serpe che inietta il suo veleno, del rapace che strappa via gli occhi. Infervorato, incatenava i nomi alle antiche formule, legava le formule al suo dolore, consacrava il dolore al desiderio di morte e di vendetta. Non contava nient'altro, non sentiva nient'altro, nemmeno quando, fermo tra i cespugli, vide il signore di Glower-o ‘er-em sollevare la spada tre volte e per tre volte conficcarla nel corpo di suo padre, il sangue nero come la pece che fuoriusciva e scorreva lento a macchiare le Rune del suo petto, mentre l'essere schifoso ghignava e dava ordini all'arciere e al monaco. Dòmhnall era freddo, determinato, deciso. Attese. Attese che l'arciere restasse solo, attese che riprendesse per le gambe suo padre, attese che ricominciasse a trascinarlo come un sacco verso il fiume. Poi chiuse gli occhi.
Concentrò tutto se stesso nelle parole di morte che riempivano il suo cuore, nel dolore e nella rabbia di cui erano cariche, catturò nel fiato il desiderio di vendetta e lo liberò nell'aria, col suo respiro, permeò la natura attorno a sè di quell'odio, di quella fredda frenesia di morte e perdizione, osservò alcuni rami degli alberi, a terra, concentrò la sua mente su di loro, chiese alla natura di trasformarli in serpi velenose, le micidiali serpi con la testa verde, quelle da cui suo padre lo metteva sempre in guardia, d'estate. Con occhi pieni di lacrime, Dòmhnall ricordò come sorrideva della preoccupazione di suo padre, non si era mai accorto che suo figlio era in grado di parlare con i serpenti... Osservò l'uomo cadere mentre i rettili gli si avvinghiavano alle gambe, alle braccia, lo soffocavano attorcigliandosi al suo collo, poi iniziarono a colpire, a strappare, a stringere, impercettibilmente sobillate dal piegarsi e dal distendersi delle sue labbra. Godeva di quella paura e di quel dolore, anche se sapeva che sarebbe sempre stato niente, rispetto a quanto aveva subito sua madre. Nella disperazione folle che lo devastava, veder quell'uomo contorcersi nella sofferenza gli dava appena un poco di sollievo: decise che doveva soffrire di più, ancora di più, doveva rimpiangere fino all’ultimo respiro quello che aveva fatto, voleva sentirlo implorare il suo dio di dargli la morte... Solo per dargli ancora più sofferenza, ancora e ancora: sarebbe stata quella la risposta al levarsi delle sue suppliche. Quando si accorse che quasi non reagiva più e i suoi sussulti si stavano trasformando in rantolo, che non poteva trarre, ancora per molto, soddisfazione dalla morte di quell'uomo, si avvicinò, si chinò a prendere la spada dell'arciere, ammirò da vicino il volto deformato dal dolore, la supplica muta nel suo sguardo ormai quasi cieco, gli squarci provocati dalle serpi, affamate e impazzite, che strappavano le sue carni.

    “Io ti maleico, Kenneth mac Maìl, maledico te e la tua stirpe immonda, tutta la lurida feccia che condivide il tuo sangue sporco e miserabile, lurido essere inferiore, voglio che tu muoia in atroci sofferenze, e che la mia maledizione perseguiti te e tutti i tuoi simili che osino ancora alzare gli occhi e la mano sulle discendenti di Sheira nic a' Thon… da oggi e fino alla fine dei tempi… per la gloria dei Daur…”

Afferrò la spada, gli fece desiderare e sperare il colpo di grazia, quindi soffiò ancora le sue litanie nell'aria, ordinando ai suoi amici dalla testa verde, di non colpire mortalmente, di non iniettare altro veleno, così che si prolungasse il più possibile quella lenta, orribile, inesorabile agonia. Si chinò sul corpo privo di vita di suo padre, osservò lo squarcio dei tre colpi di spada sul suo petto, tremò vedendo che il signore di Glower-o ‘er-em aveva cancellato quasi completamente la Runa che portava sul torace: secondo la legge degli Antichi, una profanazione simile avrebbe rallentato l'ingresso della sua anima nelle Terre della Purificazione. Avrebbe pagato… Quell’essere indegno avrebbe pagato anche per questo. Dòmhnall sollevò la spada, il chiarore del nuovo giorno filtrava tra le fronde, da est, e luccicò sul metallo: sarebbe stato il giorno più onorevole, per quell’antico ferro, strappato dal ventre delle Terre del Nord, per gli stupidi giochi di guerra di quei dannati Babbani. Quel giorno, la spada e la terra sarebbero state consacrate nel sangue e nella vendetta, per la morte dei figli di Daur.

***

Quando Áed vide la Strega riversa a terra, tra le foglie secche e gli aghi degli alberi, tentò di lanciarsi subito su di lei, anche se non aveva ancora deciso cosa farle, sapeva soltanto che aspettava quel momento da quando aveva seppellito suo figlio. E ora la puttana era lì, a terra, alla sua mercé. Gregorius, con difficoltà, riuscì a bloccarlo, non gli era bastato uno sguardo dei suoi, stavolta, quello con cui lo riprendeva ogni volta che gli confessava di aver costretto una giovane ancella a giacere con lui, era dovuto ricorrere alle minacce, gli aveva ricordato quanto doloroso fosse il fuoco dell’inferno e della dannazione eterna. Áed sbuffò, poco convinto, ma si ritrasse, lo guardò: stranamente agile, il vecchio monaco si era avvicinato alla Strega, rapido come un ratto, aveva iniziato a toccarla, voltarla, guardarle tra le vesti, insistere sulle mani e sul collo, un comportamento per lo meno bizzarro, visto che aveva appena ripetuto per l’ennesima volta al suo signore che donne come quella non andavano toccate, che erano pericolose, diaboliche...    
   
    “La Strega è già morta, mio signore... basta solo bruciarla…”
    “Come sarebbe a dire, morta? Morta come? Kenneth me la pagherà, gli avevo detto esplicitamente che volevo essere io a decidere della sua sorte!”
    “Questa donna é morta di parto, mio signore... non dovreste avvicinarvi, qui è pieno di sangue impuro, e... ”

Gregorius non riuscì a finire la frase, Áed si era già lanciato di nuovo su di lui e l'aveva allontanato, si era inginocchiato vicino alla donna, osservandola incredulo: l'aveva sollevata appena un po’ da terra, le aveva dato uno schiaffo, era sicuro che stesse recitando, che fosse tutto un patetico inganno, che avesse preso qualche infuso per fingersi morta e non affrontare la vendetta che, implacabile, stava per scatenarsi su di lei.

    “Che state facendo, mio signore? Non potete profanare un morto, nemmeno se si tratta di una strega! Anzi… soprattutto se si tratta di… la vostra anima…”
    “Taci!”

Áed lo spintonò via per l’ennesima volta, facendolo cadere a terra, era stanco di quella presenza invadente, non sapeva se quella donna fosse viva o veramente morta e nemmeno gli interessava: ora che la rivedeva dopo tanto tempo, così da vicino, con quei capelli corvini sulla pelle di porcellana e il corpo pieno… ora che sentiva il tepore ancora vivo del suo copro... il suo voluttuoso corpo... Era stanco di quel dannato vecchio che gli rammentava sempre il fuoco dell’inferno, lui voleva sfogare i suoi istinti, dopo tutti quei mesi di guerra e dolore ne aveva bisogno: e nulla gli avrebbe impedito, morta o non morta, di prendersi quella donna. Era lì, finalmente, a un passo da quel piacere che inseguiva ormai da quasi venti anni, nessun girone dell’inferno gli faceva paura, il destino glielo doveva, in un modo o nell'altro, alla fine, si sarebbe preso almeno parte di ciò che desiderava. Rapido sotto gli occhi inorriditi del monaco, estrasse il pugnale dalla cintola e, con un colpo secco, aprì completamente la veste della strega, osservò bramoso quel corpo niveo, pieno, materno, distolse rapido lo sguardo dall'oscurità sanguigna che percepiva in basso, per non perdere il coraggio, la lussuria che gli accecava completamente il cervello. Portò le mani ai lembi della propria tunica, se la sollevò sopra i lombi, iniziò a indugiare con decisione sul proprio pube, per accelerare il risveglio del proprio corpo. Gregorius, dietro di lui, iniziò a urlare come un ossesso, impedendogli di concentrarsi e ottenere un qualche risultato, alla fine, esasperato, si girò verso il vecchio per ordinargli di smetterla di infastidirlo, ma quando lo guardò, dal suo volto atterrito si rese conto che il monaco non lo stava implorando di smetterla, quanto di scappare. Áed non capì, fece appena in tempo a voltarsi dall'altra parte, vide appena il lampo del metallo che si abbatteva dall’alto di traverso su di lui, ma il cervello non riuscì a registrare altre l'informazione: Áed  mac Taidg, signore di Glower-o ‘er-em era già morto.
Il monaco, inorridito, vide la testa del suo signore rotolare a terra, accanto ai suoi piedi e finire tra i rovi, il sangue schizzare e macchiare tutto quello che c'era lì attorno, il corpo crollare a terra, a pochi centimetri da quello della Strega, come un sacco vuoto. Si guardò le vesti, lorde di sangue, appena per un secondo, guardò il demonio che era sbucato dagli alberi brandendo la spada, un ragazzino esile, semi nudo, con le dita delle mani, dei piedi e il collo decorati dalle Rune della Confraternita, occhi di acciaio che saettavano sotto la zazzera corvina, le guance sporche di terra e lacrime e sangue. Era senza alcun dubbio il figlio della Strega, un indemoniato. Un indemoniato che aveva appena visto suo padre e sua madre uccisi dalla sua gente, un fascio di dolore, di odio e di desiderio feroce di vendetta. Gregorius deglutì, nascose meglio il contenuto della sua mano nella tasca interna della tonaca e fece un impercettibile passo all’indietro, osservando quella creatura della notte che aveva appena ucciso con una freddezza inumana il padrone di quelle terre, poi, per quanto gli consentivano le membra minate dal tempo, iniziò a correre, gettandosi tra i rovi e i cespugli, invocando aiuto a squarciagola. La sua corsa procedeva confusa, il vecchio cadde e si rialzò più volte, sentiva appena un fruscio dietro di sé, che lo convinse ancora di più di essere inseguito dal diavolo, non da una persona: no, non poteva una persona fare... Gregorius incespicò, cadde, si rialzò, iniziò a recitare le preghiere al Signore nella sua mente, finché non si vide la strada sbarrata da una gigantesca creatura irta e pelosa, provò a deviare, ma dai cespugli, altri occhi gialli, da lupo, sembravano circondarlo.

    “Nel nome del Signore della Croce, io ti ordino... “.
   
Gregorius si sentì raggiungere dal ragazzo, si guardò intorno, atterrito, gli parve di vedere un varco, si buttò in quella direzione, cercò di riprendere la fuga, ma qualcosa lo fece cadere di nuovo a terra e lo trascinò all’indietro per alcuni metri, tra le foglie. Urlò, le unghie del vecchio affondarono negli aghi di pino, mentre Dòmhnall, brandendo la spada, gli balzava sopra, deciso a chiudere quella faccenda una volta per tutte, occuparsi finalmente dei corpi dei suoi genitori e ritornare indietro da Cuilèn. Il vecchio si voltò, avvicinò rapido il pugno alla mano e soffiò con forza, Dòmhnall respirò una specie di farina di pino e non vide più niente, incespicò e cadde a sua volta, sentì il vecchio muoversi tra le foglie e riprendere, stranamente agile, la fuga. Si rialzò e ricominciò la caccia, riprese a parlare al vento, aizzò i lupi contro il vecchio monaco: aveva visto tutto, molto bene, mentre quel maledetto maiale cercava di approfittarsi di sua madre, il vecchio, con la scusa di verificarne la morte, le aveva sottratto l'anello con la pietra verde, l’anello che suo padre aveva fatto per lei e che sua madre teneva sempre alla mano destra. Era di nuovo quasi addosso al vecchio, i lupi lo stavano costringendo verso una piccola radura lì a pochi passi, da cui non c’era possibilità di scampo: anche se era un vecchio, Dòmhnall non avrebbe avuto pietà, era stato il cappellano di Glower-o ‘er-em a far imprigionare e condannare alla forca suo padre… era il momento della resa dei conti. Dòmnhall brandì di nuovo la spada e si preparò ad assaltare il vecchio, intrappolato nella radura. Sentì un sibilo e poi un altro, all’altezza del suo orecchio, si voltò, un dardo centrò in pieno il suo braccio destro, passandolo da parte a parte, e gli fece cadere la spada. Il Mago scrutò tra gli alberi, sicuro di veder apparire uno degli ultimi uomini di Glower-o ‘er-em, ma un intenso scalpiccio riempì rapidamente tutto il bosco intorno a lui: i Centauri, almeno una dozzina di Centauri l’avevano accerchiato, i volti contratti in un’espressione bellicosa.



*continua*



NdA:
Innanzitutto mi scuso per la presenza di molti pezzi abbastanza pesanti, ma volevo giustificare la caratterizzazione che darò al personaggio. Credo ormai sia chiaro che cosa ho deciso di fare con questa ff... almeno per chi ha letto That Love, il discorso della maledizione dovrebbe aver dato un indizio decisivo sull'identità finale di Domhnall (insieme al discorso dei serpenti, della lingua dei serpenti, dell'odio per i Babbani... la questione del nome... per quello occorrerà aspettare qualche altro capitolo, invece). L'idea può lasciare interdetti ma non è estemporanea, come può apparire in questo momento, ne avevo già messo le basi in That Love quando Mirzam dice a Rodolphus :
    RL: “... io sono un Lestrange, ho anche delle responsabilità verso la mia famiglia. Per questo, non posso permettermi… interferenze… o Maghi del Nord imboscati nel Norfolk…”
    MS: “Non so se fa più ridere pensare a Bella come a una donnetta qualsiasi o ai Maghi del Nord imboscati nel Norfolk. Salazar!…”
    RL:“... Sai benissimo di cosa sto parlando!”
    MS: “No, Rodolphus, mi spiace, ma non ne ho idea: non ci sono Maghi del Nord nel Norfolk da quando Salazar Slytherin ha lasciato quelle paludi per raggiungere la Scozia…”

Bon, non mi resta che r
ingraziare tutti coloro che hanno letto, aggiunto alle liste e/o commentato. A presto.
Valeria



Scheda
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Capitolo 7
*** I.007 - TERRE DEL NORD - DI CENTAURI, FRATI E CACCIATORI ***



That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.007 - Di Centauri, Frati e Cacciatori



Un chiarore soffuso si levò da Oriente, emerse dietro la corona di colline e squarciò le tenebre, dipinse di un rosa irreale campi e villaggi e, come una benedizione, risvegliò la valle, liberando il cuore degli uomini dai demoni dell'oscurità. Per ultima, anche la tetra montagna di Am Monadh fu baciata dal sole nascente: i roghi, che avevano bruciato i suoi fianchi per gran parte della notte, erano stati spenti prima dell'alba da una pioggia improvvisa e ora, come lacrime versate per il sangue immolato, le ultime gocce scendevano dagli alberi a purificare le ferite della Madre Terra. Il vento, lieve, spazzò via il lungo silenzio atterrito, promettendo alle creature della foresta la pace di un nuovo giorno: la lunga notte d'odio e sangue era finalmente terminata, gli animali, rincuorati, iniziarono a lasciare i propri rifugi. La vita riprese il suo normale corso...
Banrigh fu scossa da un brivido e si fermò su una sporgenza di roccia a strapiombo sul fiume: il sudore, mischiato alle gocce di pioggia, scendeva tra i suoi capelli e andava a bagnarle la schiena; riprese fiato, reso corto dalla ripida salita, e, per la prima volta da quando l'aveva sottratta alla morte, abbassò lo sguardo sulla bambina che stringeva a sé: mentre correva, ne aveva sentito il calore e il pulsare ritmico del cuore, attraverso il mantello in cui la madre l'aveva avvolta, ma si era imposta di non guardarla. Era stata una decisione saggia: come vide quel ciuffo di capelli corvini e gli occhi chiari appena socchiusi, infatti, la memoria del Centauro tornò agli orrori della notte precedente e a lungo Banrigh non riuscì a soffocare il proprio turbamento. Si trovava a poca distanza dal campo di battaglia, quando aveva sentito sibilare il dardo che aveva trafitto Cormacc il Mago; poco dopo, aveva visto con i propri occhi Sheira nic a'Thon, la Sacerdotessa della Fiamma Verde, perdere le forze, accasciarsi a terra, tra gli alberi, e morire. Banrigh non aveva potuto fare nulla, incredula e inorridita era rimasta immobile, mentre ovunque, attorno a lei, infuriava il massacro, il fumo si levava in spire soffocanti e l'oscurità rossastra era squarciata dalle urla degli uomini e dal lamento della foresta. La Strega le aveva chiesto aiuto, consapevole di essere in punto di morte, eppure Banrigh si rifiutava di credere che la grande Magia dei Daur si rivelasse inutile proprio in quel frangente: fin da piccola, ascoltando le storie degli anziani, il Centauro aveva immaginato che i Maghi fossero invincibili, quasi immortali; da adulta, aveva avuto prova del loro leggendario potere quando Cormacc MacArtgal aveva salvato il suo Keiron. Per questo non riusciva a credere che Sheira potesse morire nel dare alla luce un figlio, o che il Mago, trafitto, non fosse forte e potente a sufficienza da rialzarsi, mettere in fuga gli uomini e portare in salvo il bambino... Solo quando aveva sentito le urla e i passi minacciosi avvicinarsi, Banrigh era uscita dall'apatia, aveva capito che doveva andarsene o sarebbe stata a sua volta in pericolo, si era chinata sulla bambina, l'aveva stretta tra le braccia e si era lanciata al galoppo, senza più voltarsi. Non aveva pensato a nulla, non aveva riflettuto su cosa fosse giusto e razionale fare, né alle conseguenze delle proprie azioni, si era solo imposta di fuggire, il più lontano possibile.
Ora che sorgeva un nuovo giorno, però, ora che la corsa l'aveva portata lontano dall'orrore, nel folto della foresta, Banrigh si rese conto delle difficoltà: per la piccola e per i suoi fratelli, ammesso fossero ancora vivi, il pericolo era tutt'altro che scampato, quella notte, infatti, il patto sancito tra i Centauri e i Daur, al loro arrivo nella radura, era stato violato; anche se usata solo per difendersi, la Magia aveva contribuito a portare morte e distruzione nella foresta, pertanto, persino i più tolleranti tra i suoi simili non si sarebbero più fidati dei Maghi, non avrebbero rischiato altri lutti, non avrebbero permesso ai ragazzi di restare. A nessuno di loro. Poco importava se, senza una madre a nutrirla e accudirla, il lungo viaggio verso le Terre della Confraternita sarebbe stato fatale a quella neonata, anzi... Banrigh conosceva i più intransigenti del suo branco, da tempo cercavano una scusa per allontanare i Daur dalla radura, sapeva addirittura che alcuni di loro, i più esagitati, non desideravano soltanto cacciarli via ma, in nome di un odio tra le due razze risalente alla notte dei tempi, avrebbero colto l'occasione più propizia per tentare di ucciderli. Banrigh, a sua volta, rischiava conseguenze già solo per aver appoggiato l'ingresso dei Daur nei territori di Am Monadh, anni prima... ora, addirittura, stava vagando per la foresta con quella bambina tra le braccia: la legge in tal proposito era chiara, qualsiasi intromissione nella vita degli Umani era inaccettabile, gli altri, al suo posto, avrebbero evitato la piccola fin dall'inizio, anche perché il Destino, privandola dei genitori nell'attimo stesso in cui era venuta al mondo, l'aveva chiaramente condannata a morte. Gli anziani non avrebbero ascoltato, tanto meno accettato, giustificazioni al suo comportamento, avrebbero potuto condannarla a morte insieme alla bambina, i suoi figli esiliati dalla foresta... Forse, se avesse accettato di rimediare al proprio errore senza opporsi, se avesse abbandonato la piccola in riva al fiume, così che la natura facesse il suo corso, nelle vesti di un lupo o di un orso affamato, il branco si sarebbe accontentato di cacciarla, senza fare del male anche ai suoi figli: ma questa era solo una speranza, non ne poteva avere la certezza.
Un brivido le attraversò la schiena, una selva di pensieri confusi le riempì la mente: il suo cuore si ribellò all'idea della bambina inerme, nelle fauci di un lupo, d'altra parte non voleva morire, né voleva vedere i propri figli trattati come traditori e reietti. Guardò il fiume, l'acqua trascinava rami secchi e detriti con estrema violenza, si chiese perché rischiare, forse era tutto inutile, forse i ragazzi erano già morti e non c'era più nessuno che potesse occuparsi di lei: se l'avesse lasciata cadere da quell'altezza, in quelle acque vorticose, la bambina avrebbe sofferto molto meno che straziata dai denti di un lupo, sarebbe finito tutto, subito, nessuno del branco avrebbe mai saputo la verità... lo doveva ai suoi figli, ne andava del loro futuro... lo doveva al suo piccolo Keiron...

    … Al mio Keiron salvato dai Maghi...

In un lampo Banrigh rivide Sheira accovacciata a terra, accanto al più piccolo dei suoi figli, gli teneva la mano, mentre Cormacc impiastrava le erbe sul suo corpicino debole e febbricitante... ripensò alla propria felicità, quando gli occhi d'ambra di suo figlio si erano aperti e le sue piccole dita avevano stretto con forza la sua mano. Invece di lasciarla cadere nel fiume, nel disperato tentativo di salvarsi, Banrigh si trovò a serrare ancora di più la presa sulla piccola Strega, come aveva stretto a sé Keiron, quel giorno lontano, e come avrebbe trattenuto i propri figli, se qualcuno avesse cercato di strapparglieli via.

    Non posso... e soprattutto... non voglio farlo...

Banrigh chinò il capo e lo mosse stizzita, per scacciare quei pensieri contrastanti, gli zoccoli irrequieti colpirono violenti la terra, sembrava voler pestare le emozioni che la turbavano, non riusciva a compiere una scelta razionale, tra la legge della sua gente e ciò che le imponeva il cuore: anche se, come tutti i Centauri, riusciva a leggere gli arcani corsi e ricorsi del tempo e riusciva a svelare i piani del Destino, si sentiva smarrita. Il turbamento che provava era inevitabile, prevedibile, lo sapeva, la sua gente si teneva alla larga dagli umani anche per questo, perché interagire con loro significava doversi addentrare nel terreno del caos, dell'irrazionalità, del dubbio. Il Centauro respirò a fondo, si voltò, si allontanò dal baratro per poi tornare indietro, ripeté quell'andirivieni alcune volte, vittima dell'incertezza, infine riprese a percorrere il sentiero, il passo via via più veloce: no, non era una questione di sentimenti, la sua, non si trattava neppure di una scelta, Banrigh violava la legge, razionalmente e giustamente, perché, quando i Maghi avevano salvato il suo Keiron, il Centauro aveva contratto un debito che andava saldato, a qualsiasi costo. Molte delle conseguenze che la spaventavano, inoltre, potevano essere evitate, se fosse stata rapida: raggiunta la Sorgente, senza farsi scoprire, la bambina e i suoi fratelli sarebbero usciti per sempre dalla sua vita e lei, rientrata nel branco, avrebbe giustificato la prolungata assenza confessandosi spaventata e turbata dalla lunga notte di violenza e orrore. Non sarebbe stata neanche una bugia. Convinta, Banrigh riprese a correre, senza farsi più distrarre da dubbi e ripensamenti. Per tutta la notte aveva evitato i sentieri frequentati dalla sua gente e gli altri percorsi più accessibili, in cui avrebbe potuto imbattersi in qualcuno degli uomini disperati, dispersi nel bosco; ora che si era fatto giorno, doveva muoversi con maggiore rapidità e discrezione, per questo, per raggiungere la Sorgente, decise di intraprendere la via delle rocce, più corta e più ostica, per ampi tratti perpendicolare al fiume, talmente scoscesa che persino gli animali più agili evitavano di avventurarvisi. L'aveva scoperta presidiando il fiume e la conosceva nei minimi dettagli, superare le sue mille insidie era un'impresa ardua per chi l'affrontava con le mani libere, figurarsi per lei che teneva anche un bambino tra le braccia: il Centauro rischiò varie volte di scivolare e fu costretta a esitare spesso, incerta sul bivio migliore da seguire, data la scarsa consistenza e resistenza del terreno intriso di pioggia, ma non si perse mai d'animo. S'impose di resistere alla fatica, al caldo, alla fame, pur di recuperare il tempo perduto, di correre forsennatamente negli ampi tratti pianeggianti immersi nella boscaglia. Affaticata, Banrigh riprese via via il controllo delle proprie emozioni, arrivando persino a elaborare un piano per aiutare i ragazzi a raggiungere le Terre: giunta nella radura, presso la Sorgente, avrebbe consegnato loro la bambina e indicato la strada che, circa diciotto anni prima, i genitori avevano percorso per sfuggire alla Confraternita, li avrebbe persino accompagnati per un tratto, se fosse stato necessario, avrebbe spiegato al ragazzo più grande i trucchi per convincere le “Madadha", le lupe, ad allattare la bambina durante il viaggio.
Riprese fiato presso una cascatella, si rifocillò con bacche e acqua fresca, e a un tratto la neonata vagì per la prima volta, all'inizio timidamente, poi scoppiando a piangere disperata: la Magia imposta dalla madre per calmarla doveva essersi esaurita e la bambina, dopo ore di viaggio e di digiuno, era affamata. Quei lamenti erano pericolosi, Banrigh lo sapeva, rischiavano di attirare le attenzioni non richieste dei predatori e di eventuali sentinelle ma, purtroppo, il Centauro non conosceva la Magia per calmarla né, in quella zona della foresta, sapeva di lupe con cuccioli cui chiedere di allattarla. Quanto a lei, aveva perduto l'ultimo dei suoi figli da poche settimane, ma pur potendo avere ancora del latte, non avrebbe dato a un estraneo, nemmeno per saldare un debito, ciò che era destinato al suo piccolo. La custode del fiume cercò una soluzione al problema poi, pur consapevole dell'inadeguatezza di ciò che stava per fare, cercò del miele, bagnò le labbra della piccola con acqua e nettare, la lasciò succhiare, la deterse e la riavvolse nel mantello. Sedati per un po' i lamenti, Banrigh riprese la sua corsa, finché la vegetazione variegata si serrò in un bosco compatto di soli faggi e il sentiero che lo attraversava iniziò a digradare lievemente, seguendo la linea più morbida di quello sperone della montagna: il Centauro si fermò ed emise un sospiro liberatorio, quello era il fitto bosco che terminava in una piccola radura circondata da un semicerchio di querce e, ai piedi della ripida parete di roccia che la chiudeva, sgorgavano le acque della Sorgente, protetta alla vista come una gemma custodita in uno scrigno. L'ultimo tratto di strada era coperto dalle fronde ombrose degli alberi, non avrebbe più sofferto il calore del sole, né avrebbe corso il rischio di scivolare e spezzarsi l'osso del collo. Gli zoccoli affondarono nel morbido tappeto di foglie che preannunciava l'autunno ormai prossimo: era trepidante, si guardò intorno, la natura lassù non aveva subito le offese della notte, ma tutto, dagli uccelli che giungevano dalla valle in volo, agli alberi che ondeggiavano al vento, alle farfalle che danzavano nell'aria, raccontavano da lontano l'orrore vissuto, il sangue che aveva imporporato il fiume, la morte violenta che aveva danzato nella foresta. Motivata e fiduciosa, Banrigh si lanciò al galoppo: quando il cielo si oscurò, attraversato da un'ombra nera, levata sopra gli alberi per pochi istanti e subito sparita, il bosco ammutolì in un silenzio gravido di sinistri presagi e il Centauro sentì un brivido gelido percorrere tutto il suo essere. Le era parso di udire delle voci umane al comparire dell'ombra, ma tentò di non farsi impressionare, doveva essersi trattato solo di suggestione, dovuta alla paura e alla stanchezza, l'ombra doveva essere solo una nube che preannunciava un temporale, motivo in più per affrettarsi a raggiungere il semicerchio di querce.
Voleva tornare a casa, Banrigh. Voleva riabbracciare i propri figli, lasciarsi quella notte d'orrore alle spalle. Riprese a correre, caparbia e convinta. Fiduciosa. Inconsapevole di ciò che il Destino aveva deciso per lei.

***

Non poteva crederci, il vecchio cappellano di Glower non riusciva a capacitarsi di essere scampato alla morte: barcollando, fradicio di pioggia, le vecchie gambe intorpidite dal freddo e dalla posizione scomoda tenuta a lungo in mezzo ai cespugli, Gregorius uscì dal nascondiglio, in cui aveva trovato riparo dalla ferocia dei lupi e dalla furia del demonio, e si fece il segno della Croce, cercando nella Fede la forza di camminare, scovandola in realtà nella paura che ancora lo attanagliava. Si guardò intorno, aspettandosi di essere di nuovo attaccato: quel bosco doveva essere l'anticamera dell'inferno, non c'era altra spiegazione per quello cui aveva assistito, serpenti che si svegliavano in piena notte e attaccavano, creature mostruose, generate dall'empio amplesso di uomini e cavalli, il demonio incarnato in un giovane capace di dominare la volontà delle bestie. Gregorius chinò il capo, supplice, ringraziando il Cielo, rabbrividendo ancora al pensiero degli sguardi di brace dei lupi affamati, dei denti delle serpi che erano scattati a straziare i corpi dei suoi fedeli: li aveva visti morire, tutti, tra le sofferenze più atroci, chi ucciso da un veleno tanto corrosivo da poter essere solo il seme immondo di Satana stesso, chi sbranato da creature sanguinarie... Quanto al signore di quei poderi, poi... il monaco chiuse gli occhi, sperando di non rivedere più la testa mozzata del signore di Glower che rotolava a terra, ai suoi piedi, e il nobile sangue che gli schizzava addosso, impiastrandogli il volto e la tonaca. Aveva avuto paura, il vecchio uomo di Dio. Ed era scappato, inseguito dalle belve. Accerchiato dai lupi, si era rifugiato, non sapeva neanche come, tra i cespugli. Lì, si era attaccato al Crocefisso di sua madre, pregando tra le lacrime fino a perdere la voce, fino a fondere le sue vecchie mani ossute nel metallo e nel legno del simbolo della vera Fede. Fino a perdere i sensi. Non sapeva per quanto fosse rimasto incosciente nel bosco, quando si era svegliato, però, era tutto finito. E lui era ancora vivo.
Fece di nuovo il segno della Croce e, senza smettere di camminare, cercò ed estrasse dalla tasca della tonaca il piccolo crocefisso di avorio cui si era aggrappato tutto il tempo, donato da sua madre, lady Eibhlin, nel loro castello di Morvedh (1), ormai una vita prima, quando era partito dai territori di Kernow diretto al monastero di (2) Dún Ceartáin, in Irlanda, per volere di suo padre. Non l'aveva più rivista. Mettendo la mano in tasca, però, le dita del monaco avevano toccato anche qualcos'altro e ora, bramose, s'immergevano di nuovo nel tessuto ruvido della tonaca, per assicurarsi che quella parte dei suoi ricordi non fossero soltanto frutto di un sogno: sua madre, la paura provata, la gratitudine verso Dio, tutto svanì dalla sua mente appena sentì l'oggetto rotondo e tiepido tra le dita. Un brivido di eccitazione corse a scaldargli le membra intorpidite, la mente contorta da pensieri che di spirituale avevano ben poco, proprio come la notte precedente, quando non era stato capace di trattenersi ed era andato a frugare tra le mani della Strega, il tempo di trovare ciò che cercava. Ora avanzava distratto nel bosco, senza curarsi di benedire con i sacramenti i corpi degli uomini massacrati nella notte, straziati da oscene ferite, esposti alle intemperie e al dileggio delle bestie selvatiche: sistemato il crocefisso sul petto, mentre il sole penetrava tra le fronde e riluceva iridescente sulle gocce che imperlavano le foglie, aveva estratto l'oggetto dalla tasca e ora teneva gli occhi fissi sulla sua levigata perfezione, la mente lontana dai doveri di un Uomo di Dio. Si fermò, alzò la mano, lasciò che il sole colpisse la purezza della pietra verde incastonata alla semplice verghetta di ferro: estasiato e, al tempo stesso, spaventato, rigirò l'anello tra le dita, fino a illuminare i segni incisi all'interno della fedina. Erano chiamate “Rune” ma erano l'alfabeto del demonio, come aveva appreso dal priore di Dún Ceartáin, fin dal suo arrivo in Irlanda.

    «Ancora loro... sempre loro... come sospettavo... le bestie della Confraternita...»

Il sole filtrava tra le fronde e Gregorius tremava, stretto nelle sue vesti lerce di fango e foglie marce: presto sarebbe tornato al castello, solo, affamato, ferito, avrebbe raccontato a Milady e al primo Consigliere quello che era accaduto, la disperazione avrebbe pervaso il maniero, dal ricco palazzo del signore di Glower e dalle sudice casupole della più miserabile plebaglia, ovunque si sarebbero levati i pianti e i lamenti del lutto... Il terrore per una successione difficile e per una nuova, probabile, guerra avrebbe spezzato anche l'animo dei più coraggiosi. Il monaco, però, era già lontano da tutto questo, non aveva interesse verso gli abitanti del castello in cui viveva e serviva come predicatore e confessore da vent'anni; i suoi occhi avevano già smesso di vedere la foresta straziata e i suoi orrori, correvano invece alla verde terra di Kernow che gli aveva dato i natali; le sue membra non erano più vecchie e stanche, erano quelle gracili di un ragazzino di quattordici anni... persino il nome che risuonava nelle sue orecchie, mentre qualcuno lo chiamava, non era Gregorius, ma Madron. Uguali a se stessi, restavano solo la paura, l'odio e la rabbia.

*

A Madron era stato imposto dal padre, signore di Morvedh, un nome che prometteva fortuna e felicità; in realtà, fin da bambino, il primogenito di Lord Gorlas era sempre stato cagionevole di salute, al punto che, ormai adolescente, tra i guerrieri e i consiglieri di suo padre, continuava a sembrare solo un moccioso; persino e soprattutto se messo a confronto con Bithek, l'unico altro figlio maschio, illegittimo, di suo padre, di appena un anno più grande. In continua lotta con i vicini bellicosi, persa ogni speranza, dopo anni di tentativi, di avere un altro figlio maschio dalla pia moglie, incerto sull'effettiva possibilità di ottenere una discendenza forte da quell'unico erede legittimo, Gorlas ruppe ogni indugio e, come regalo per il suo sedicesimo compleanno, disse al figlio che era inadatto a ereditare nome, titolo e averi, e che il convento di Dún Ceartáin, nell'ovest dell'Irlanda, lo avrebbe accolto tra i suoi confratelli. Bithek il bastardo, a sorpresa, si sentì nominare erede del titolo e di ogni sostanza del casato al posto del fratello minore. Madron non desiderava possedere le terre e sapeva che Bithek, così alto e forte, sarebbe stato un erede più adatto, inoltre amava studiare e vivere tranquillamente, non immaginava per se stesso un futuro da condottiero; nonostante tutto questo, però, non voleva neanche prendere i voti, né vivere la vita che suo padre aveva scelto per lui: non aveva alcuna vocazione, non voleva passare la vita a pregare al freddo e al gelo, in piena notte, né elemosinare un tetto e un pasto caldo facendo il mendicante di villaggio in villaggio. Soprattutto, non voleva essere allontanato da lì, dalle persone cui voleva bene, da sua madre in particolare, l'unica tra tanti a soffrire apertamente della decisione presa dal marito.
Per settimane Madron aveva riflettuto, aveva scelto le parole adatte, aveva cercato il coraggio necessario ad affrontare suo padre, finché gli aveva chiesto udienza e, pur tremando come una foglia e balbettando più del solito, alla presenza dei consiglieri, del cappellano e di suo fratello, gli aveva chiesto il permesso di restare in quella casa, senza pretendere nulla, offrendosi al contrario di tenergli in ordine i conti, di vivere come uno degli uomini che stipendiava, non essendo  all'altezza di potersi considerare suo figlio. Lord Gorlas l'aveva fissato a lungo, all'inizio, poi, a poco a poco, davanti a ogni parola stentata del sangue del suo sangue, aveva abbassato gli occhi per non doverlo guardare, gli angoli delle labbra piegati in un'espressione aspra e feroce. Prima che il giovane finisse, giudicata sufficiente l'umiliazione subita a causa sua, aveva chiesto a Piran, lo scemo di corte, che gironzolava per i cortili del maniero sempre insieme al suo maialetto pezzato, di passargli la corda legata all'animale e al notaio di prestargli piuma e pergamena, poi si era alzato, si era avvicinato alla bestia e con il bastone gli aveva toccato la schiena ruvida, nominandolo “secondo contabile e scrivano”. Tra le risate generali, schiumante di rabbia, il signore di Morvedh si era rivolto infine a Madron, rosso in volto per la vergogna, e gli aveva sputato addosso che il posto richiesto era appena stato occupato, poi avviandosi con passo spedito e nervoso verso il fondo della sala, aveva ordinato ad alta voce al cappellano di prendere accordi con il convento irlandese, così che Madron partisse non più tardi del giorno di Santo Stefano. Madron era rimasto sconvolto da quanto era accaduto, non solo per l'umiliazione subita e la partenza anticipata, ma perché, da quel momento, il padre impose al resto della famiglia di non rivolgergli più neanche la parola. La partenza fu fissata per il giorno di Santo Stefano, due mesi prima del suo diciassettesimo compleanno, aveva dieci mesi per imparare tutto ciò che gli era necessario alla vita monastica: di colpo, quel tempo passato pressoché sempre da solo con i suoi libri di preghiere, in silenzio, a parte quando recitava i salmi con il cappellano, gli parve infinito.
C'era solo Kera a illuminargli per alcuni minuti la giornata, una ragazzina poco più piccola di lui, giunta dalle colline dei dintorni l'anno precedente, poco appariscente, ma capace, con la sua risata schietta e il suo buon cuore, di illuminare la vita delle persone che la incontravano. Madron ringraziava tutte le sere il Signore per aver mandato Kera a rendere i suoi giorni meno tristi e disperati, anche se sapeva che doveva resistere e non pensare a lei, per non soffrire ancora di più quando se ne fosse andato. Le sue intenzioni erano buone ma anche inutili, sentiva il suo cuore riempirsi di felicità solo perché lei cantava facendo il bucato nel cortile, o perché entrava nella sua stanza, lasciando sul tavolo un vaso pieno di fiori appena raccolti, o gli sorrideva, mentre puliva via le tracce di inchiostro dalla scrivania su cui studiava. Non ebbe mai il coraggio di dirle neanche una parola, figurarsi tentare di baciarla o sfiorarle una mano, ma sapeva di essersi innamorato di lei, perché si ritrovava a immaginare la sua voce e il suo volto, in ogni istante, restando fisso sulla stessa pagina, per ore e ore, perso in pensieri tutti suoi. Quando Bithek e la sua orda di amici più grandi capirono che Kera stava portando un barlume di felicità nella sua vita di derelitto, iniziarono a dare il tormento a entrambi, prendendoli in giro senza pietà: di solito si appostavano presso la stanza di Madron e quando lei usciva la sbeffeggiavano, la sottoponevano a scherzi crudeli o le riversavano addosso parole oscene e irripetibili, tentando persino di metterle le mani addosso; quando invece incrociavano lui, a capo chino, al seguito del cappellano, all'inizio ridevano e dicevano battute sconce, poi iniziarono a mimare tra loro gli atti impuri che un uomo fa con una donna, sghignazzando che solo i veri uomini potevano farlo, mentre lui non avrebbe mai potuto, perché non era neanche un vero maschio. Madron taceva sempre, il volto in fiamme, sapeva di non poter fare nient'altro, aveva paura per sé e per Kera, della reazione che avrebbe potuto scatenare: era ancora scottato dai risultati dell'aver parlato apertamente con suo padre. Inoltre sapeva che con suo fratello, soprattutto quando era con quegli zotici dei suoi amici, ormai non si ragionava più, non era la stessa persona con cui giovava da bambino, e la nomina a erede sembrava aver tirato fuori tutte le sue peggiori inclinazioni. Madron sopportò, ignorò, sottovalutò per settimane e per mesi. Finché, sul finire dell'estate, il giorno dell'equinozio d'autunno, tutto precipitò.
I cieli del Kernow avevano perso i loro colori fluttuanti per ammantarsi di una coltre di grigia nebbia che saliva dal mare, rendendo di colpo la giornata breve e oscura. Madron era stato con il cappellano, quel pomeriggio, a ripetere a memoria i salmi che avrebbe dovuto cantare a Dún Ceartáin, di lì a pochi mesi, non si era lasciato distrarre nemmeno dalle urla di suo fratello e dei suoi compari che erano salite dalle scuderie per tutto il tempo: non era strano, esageravano sempre quando Lord Gorlas era fuori, a controllare e raccogliere le rendite degli amministratori più lontani. Stando agli stridii del maiale, sembrava che per quel giorno se la fossero presa con Piran e Madron tirò un sospiro di sollievo: sapeva di non doversene rallegrare, certo, ma se si erano già sfogati con quel poveretto, c'erano buone possibilità che, almeno per quel giorno, avrebbero lasciato in pace lui e la piccola Kera. Uscito da solo dalla cappella, vide Carrow, il figlio del fabbro, che vagava per i corridoi un po' instabile sulle gambe, come fosse ubriaco, Madron accelerò il passo, avendo cura di strisciare quasi contro la parete, dalla parte opposta, ben intenzionato a non rivolgergli la parola, né a guardarlo, per non dargli nessuna scusa per attaccar bottone. Quando gli passò accanto, però, senza mostrare alcun rispetto per quello che era pur sempre il figlio del suo signore, Carrow non si era limitato a sputargli addosso una delle solite cattiverie, ma gli aveva sbarrato la strada e l'aveva addirittura preso per la collottola poi, ridendo sguaiatamente, gli aveva messo una mano sulla bocca per farlo tacere e l'aveva trascinato per un braccio fino ai sotterranei da dove si accedeva alle scuderie. Madron provò a opporsi, ma quel giovane, temprato dal lavoro fisico quotidiano nella fucina del padre, aveva una forza dieci volte superiore alla sua. Un'intensa sensazione di indefinito pericolo colse il ragazzo quando si ricordò che quel giorno non c'era nemmeno Timotheus, il fabbro: Carrow aprì la porta della scuderia, il maiale di Piran corse fuori a tutta velocità, trascinandosi dietro un tanfo intenso di escrementi e carne bruciata, e incespicò su Madron che, già malfermo sulle gambe, rovinò a terra. Il carceriere scoppiò a ridere, lo prese per un braccio, lo trascinò dentro e rapido chiuse la porta dietro di sé. Infreddolito e spaventato, al buio, il ragazzo non aveva compreso subito la situazione, poi i suoi occhi si abituarono all'oscurità della stalla e con un tuffo al cuore si era reso conto che non erano soli: suo fratello e almeno altri due dei suoi peggiori compari, scarmigliati ed esaltati, a torso nudo, sudati e ubriachi, si affrettarono a uscire dai loro nascondigli e a rimettere un catenaccio alla porta, Madron cercò di sgusciare via dall'uscita laterale che dava sul cortile, ma Carrow gli fu addosso in un attimo, lo spinse con il viso contro il muro e gli ficcò da dietro un panno lercio e maleodorante in gola, perché non gridasse, poi, iniziò a legarlo con una delle corde che assicuravano i cavalli alla parete.

    «Lascialo libero di muoversi, è innocuo! E sarà più divertente... voglio vederlo ribellarsi...»

Bithek gli si avvicinò, lo fissò per alcuni istanti, poi la sua mano salì a togliergli anche il panno puzzolente dalla bocca.

    «Non serve neppure questo... non ha le palle per ribellarsi, e anche se lo facesse... chi gli presterebbe ascolto? Ahahahah»

Scoppiò a ridere, gli altri risero con lui, Madron, libero, tentò di nuovo di scappare, svelto cercò di raggiungere la porta laterale e mettersi in salvo, da qualsiasi genere di carognata suo fratello avesse ideato per lui quel pomeriggio, ma quando già era sulla porta la nuova risata di Bithek e la voce rotta di una ragazza gli pietrificarono la mano sull'anta di legno.

    «Cosa ti dicevo, puttanella? Guarda come se la dà a gambe quel coniglio del tuo innamorato! Non gli interessa quello che può capitarti... anzi... che ti è già capitato... ahahah...»

Madron si voltò, Bithek e gli altri stavano ridendo, tra loro c'era Kera, a terra, in lacrime, con le vesti lacere e insanguinate, il volto pesto e lividi ovunque riuscisse a posare gli occhi. La vide respirare male, molto male, gli occhi vuoti, assenti. Due di loro la presero e la ributtarono nella paglia, Bithek gli rise addosso, e gli diede le spalle. Anche Carrow non si curò più di lui. Madron non seppe mai cosa gli accadde in quel momento. Mai. Dove trovò la forza di non crollare a terra, di non piangere, di non urlare. Di non scappare. Attorno a lui erano solo risa e lacrime, la luce tremula di una candela sullo sfondo, il tanfo acre di sangue e carne bruciata, poi tutto divenne oscurità. Sentì il legno stretto nella sua mano tremante, il peso del forcone, tale da poterlo solo trascinare.

    Risate, lacrime, urla, risate, urla, risate... Risate, risate...

Sentiva il dolore del peso estremo, tale da spezzargli il braccio... Sentì il dolore della spinta del suo corpo contro un altro corpo... Vide il fiato che usciva dalle labbra incredule di suo fratello, prima irridenti, poi esangui... Vide il sangue, tanto sangue, che gli schizzava addosso... La luce di quei suoi occhi, accusatoria, mentre si spegneva... Alcune mani lo presero, lo colpirono, lo schiaffeggiarono, lo sbatterono contro la parete, alcuni corpi gli furono addosso, lo pestarono, i cavalli nitrirono, spaventati dalla violenza e dal sangue, dalle urla, uno scalciò contro il legno, la parete vibrò, la vibrazione si propagò e la candela cadde. La paglia si incendiò. Fu il caos: gli altri fuggirono, si calpestarono a vicenda, furono calpestati dai cavalli in fuga, nessuno si curò di lui, o di Bithek o di Kera. Madron vide uno dei cavalli impazziti alzarsi in piedi, imbizzarrito e ricadere giù, centrando con lo zoccolo la testa di suo fratello e scappare. Poi non vide più nulla, non sentì più nulla.
Si riprese quando un brivido gelido corse sulla sua pelle nuda, subito dopo arrivò il suono secco e il dolore feroce della scudisciata sulle natiche peste. Urlò e sputò sangue e fumo, con le poche forze che aveva si puntellò sui palmi per sollevarsi, ma non ci riuscì, rovinò sulle sue braccia, sotto gli improperi e le urla di chi aveva appena aperto le porte dei ruderi della scuderia. Non capiva nulla, prima di tutto come fosse ancora vivo. Non vedeva nulla, la sua testa era confusa, come quella volta, un paio di anni prima, quando Bithek gli aveva fatto bere idromele con l'inganno e la fantesca l'aveva trovato riverso a terra, nel porcile. Con gli occhi appannati riuscì a riconoscere un mucchietto di vestiti lerci che emergevano dalla paglia davanti a sé, con orrore riconobbe il grigio tenue della casacca di Kera: era lei quella cosa bruciacchiata e sanguinolenta che intravedeva, inerte, ai piedi di Piran, seduto, completamente nudo e ubriaco, contro la parete della stalla. Non capiva. Cercò di alzarsi, ci riuscì, si voltò, nudo come un verme, e si ritrovò davanti suo padre, preda della rabbia più feroce che gli avesse mai visto, dietro di lui il cappellano e diversi altri adulti che non riuscì neanche a riconoscere, che si facevano il segno della Croce davanti al corpo esanime di suo fratello. Lord Gorlas aveva la frusta in mano ed era pronto a colpirlo di nuovo, gli urlava contro il nome di suo fratello e lo strattonava, il ragazzo non capiva, non reagiva, l'uomo in lacrime gli diede uno schiaffo in faccia tale da girargli la testa dall'altra parte, poi il cappellano riuscì a fermarlo, e il lord se ne andò urlando che avrebbe decapitato tutti quanti per vendicare la morte del suo erede.
Quella sera, mentre le donne si occupavano del corpo di Bithek, Gorlas convocò i suoi consiglieri e il cappellano, Madron fu sottoposto a un interrogatorio serrato, furono coinvolti tutti gli altri giovani presenti, il quadro di quel pomeriggio di sbornia e depravazione fu delineato in ogni singolo dettaglio, ma sembrava che il signore di Morvedh non fosse soddisfatto di quella spiegazione, non riusciva a credere che Madron, noto a tutti per la sua codardia, avesse ucciso Bithek per una ragazzetta delle cucine. Ordinò al cappellano di esprimersi su quanto era accaduto la sera stessa: il vecchio, intorpidito dalla malattia e dall'abuso d’idromele, controllò Madron, gli fece delle domande, scuotendo pensoso la testa e recitando le sue litanie con spirito sempre più afflitto, poi il ragazzo fu invitato a uscire e condotto nelle sue stanze, dove restò solo con i propri pensieri fino a tarda notte. Quando il capo della guardia salì a riprenderlo, mancava poco all'alba: davanti al padre e ai consiglieri stremati, Madron sentì il vecchio cappellano sentenziare che Piran era il responsabile di ogni evento, pur noto a tutti per essere sempre stato un buon cristiano, pacifico e timorato di dio. Non doveva essere in sé quando aveva attirato con l'inganno Bithek e i suoi amici, dividendo con loro il vino che aveva annebbiato le loro coscienze. Il vino che la serva gli aveva chiesto di portare al giovane erede di Morvedh. Era lei, perciò, la “femmina”, la vera responsabile: nessuno ne conosceva le origini, si presentava in ritardo e malvolentieri alle funzioni religiose, e nessuna ragazzina, a meno che non fosse una poco di buono, avrebbe mai tentato di attirare su di sé le attenzioni di un giovane destinato a consacrarsi a Dio, al punto di sporcarne l'anima con un delitto. L'oscurità di cui era serva, aveva incitato i ragazzi coinvolti a esagerare nella lussuria e nella violenza, diceva il cappellano, finendo con l'esserne lei stessa vittima.
Lord Gorlas, uomo particolarmente religioso ma soprattutto superstizioso, sentendo parlare di oscurità, interruppe la riunione, non volle sentire altro, condannò Kera e Piran all'abisso, senza altri indugi, quanto a Madron, ingiunse che partisse immediatamente per Dún Ceartáin, e ordinò che fossero recitate preghiere per un anno, nella speranza che la vita del monastero e i salmi delle pie donne, purificassero quel maniero e l'anima del figlio macchiata dall'atroce delitto commesso. Il cappellano per scrupolo, chiese e ottenne di verificare l'eventuale presenza del segno del diavolo sul corpo della ragazza, che fu denudata davanti a tutti, fu così che Madron aveva visto per la prima volta  sul  petto acerbo e tumefatto di Kera strani ghirigoro di inchiostro nero: ne decoravano parte del corpo, il collo, il ventre, le dita dei piedi e delle mani, là dove la giovane portava sempre delle piccole bende. Il cappellano alitò facendosi il segno della Croce “la nenia infernale...”  e subito costrinse le guardie a portarla via, a legarla a un carro di buoi e a prepararsi a condurla al pozzo. Era l'ultima occasione per Madron di intervenire e salvarla, ma non lo fece: la sua mente ricordava le parole udite da sua zia, lady Ailla, sua figlia era stata rapita e disonorata, la notte di Beltane, in un bosco vicino al loro maniero, da una bestia immonda facente parte della “Confraternita”...
I tatuati erano pagani, dediti ancora all'antica religione, figli del demonio da tutti riconosciuti per i segni che portavano sul corpo, simili a quelli di Kera: facevano parte di una confraternita sacrilega, vivevano sulle colline ai margini delle foreste, non si vedevano mai, agivano nell'oscurità di cui erano servi e ogni tanto uscivano a rubare nei granai e nei campi, o per rapire le giovani timorate di Dio per i loro turpi sacrifici. A volte, per qualche motivo, alcuni di loro venivano allontanati e cercavano, come Kera di vivere tra le persone a modo, ma prima o poi dimostravano a chi era realmente consacrata la loro anima. Madron comprese che era colpa di quella Strega se il suo spirito era stato avvelenato, era stata lei, con le sue malie a far di tutto perché si ribellasse alla volontà paterna... Era stata lei a far impazzire suo fratello e i suoi amici. Convinto di tutto questo, non solo non difese la giovane, ma addirittura si offrì di accompagnare gli altri per vederla calare nel pozzo oscuro, il luogo che quei pagani un tempo veneravano, sotto un cerchio di pietre, che i suoi antenati avevano cercato di abbattere. Giunti sul posto, la ragazza aveva urlato, anche Piran aveva urlato, mentre gli altri li schernivano, li maledivano, li ingiuriavano, e il cappellano cantava le sue litanie, Madron chiese e ottenne di  gettare su di loro la pece, poi accese al braciere la fiaccola e infine, la gettò nello stretto pozzo. Solo allora sentì la vicinanza di tutti gli altri, solo allora non vide scherno o sospetto nei loro volti. La fiammata risalì fino alla superficie, accompagnata dalle urla dei due morenti. Madron aveva il volto inondato di lacrime, ma le sue labbra continuarono a incitare come tutti gli altri al grido di “morte, morte”... Quando guardò suo padre, per la prima volta nella sua vita vide un cenno di soddisfazione. Sua madre si tolse il crocifisso dal collo e glielo pose dalle mani, per tutta la notte e il giorno seguente pregarono insieme, finché all'alba, partì sul suo carro, diretto in Irlanda.

*

Madron prese i voti definitivi al compimento del sedicesimo anni in Irlanda, dove prese il nome di Gregorius, suo padre impegnò quasi tutte le risorse del proprio casato e impose nuove tasse ai suoi sudditi per erigere un santuario alla Vergine, su una delle scogliere che dall'altopiano di Morvedh si conficcavano a picco nel mare del Kernow. Il giorno della consacrazione dell'edificio, Gregorius ottenne di poter far visita alla sua famiglia, ma sua madre era già morta da alcune settimane. Ammirò la piccola chiesa, con il piccolo chiostro, sarebbe stata la sede di una comunità di monaci irlandesi... Celebrò la funzione e legò quel luogo al nome di sua madre, poi, prima di ripartire per la sua vita, camminò a lungo sull'altopiano, vagò, osservò ciò che restava dell'antica foresta, abbattuta per volontà di suo padre, per scacciare definitivamente gli spiriti degli antichi e non permettere più le immonde feste di Beltane. Arrivò fino alla pietra forata, le tre oscene pietre, intorno alle quali si celebravano da secoli riti pagani, attratti dalla chiara simbologia fallica, erano state abbattute, non si sarebbe più attraversata gattonando per propiziare la propria fecondità, né per sanare fanciulli, perché la grazia andava richiesta solo al Signore...  Pesanti non era stato possibile spostarle né distruggerle, ma Gregorius sapeva che, prima o poi, l'erba avrebbe coperto tutto quanto e il ricordo sarebbe sopito. Si chinò, raccolse uno stelo d'erba, lì vicino, nascosta tra erba e terra, c'era una delle tessera di pietra incisa con gli strani simboli che aveva visto sulla pelle di Kera, l'alfabeto del diavolo, se ne trovavano ancora tante nei dintorni... E tutti erano soliti gettarle nel pozzo oscuro che si apriva nei pressi delle tre pietre. Gregorius la prese, si incamminò di nuovo tra le pietre, osservò le rune incise sulla pietra forata,  raggiunse il pozzo, sollevò la mano e gettò la tessera all'interno.

***

Aprì gli occhi, Cuilén. Supino, aprì gli occhi al gorgheggiare degli uccelli e, come ogni mattina, davanti a sé, vide solo tanto verde. Infagottato nella sua coperta, spostò appena lo sguardo e vide il verde degli alberi anche alla sua sinistra e pure alla sua destra. Tanto verde, certo, ma di una tonalità stranamente cupa, non il solito verde brillante riscaldato dal sole che gli accarezzava lo sguardo ad ogni risveglio.

    Forse oggi ci sono le nubi oltre le chiome degli alberi...

Quando voltò del tutto la testa, però, vide poco sopra di sé un limpido raggio di sole che penetrava tra i rami, illuminandoli di una luce tenue. Il bambino non capì il motivo, ma notò subito che c'era qualcosa di strano. Gli alberi erano strani, erano... anzi “non erano” i suoi alberi: erano altrettanto alti, certo, e grandi, e... ma erano... diversi...

    Sto ancora sognando?

Il bambino si stiracchiò, percorso da un brivido di freddo, si chiese dove avesse calciato via la sua pelle di orso, durante la notte, e perché suo fratello non l'avesse rivestito, come faceva sempre, visto che gli era rimasto addosso solo il mantello; sperò che non fosse finita nel fuoco o suo padre, stavolta, si sarebbe arrabbiato sul serio. Sbadigliò e iniziò a strofinarsi con energia gli occhi, ancora impastati di sonno poi, a fatica, si sollevò a sedere, sicuro di essere finalmente sveglio, le mani appoggiate a terra, dietro di sé.

    «Ahi!»

Si sentì come... pungere... Guardò in basso e si accorse di non essere sopra la paglia che gli preparava Dòmhnall, per proteggerlo dall'erba madida di rugiada, ma sulla terra nuda, o meglio, sulla terra ricoperta da aghi di pino: nella sua radura c'erano molti alberi, sua madre gli aveva insegnato a riconoscerli, ma non c'erano mai stati pini, non capiva perciò da dove venissero tutti quegli aghi. Confuso, Cuilén alzò gli occhi, si guardò ancora intorno, stavolta non osservò le chiome ma i loro fusti. E di nuovo non capì perché fossero così diversi.

    Che cosa è successo alla mia radura?

Non aveva risposte, Cuilén, allora, con l'ingenuità dei suoi pochi anni, prese il mantello e se lo tirò fin sotto il mento, si stese di nuovo, sicuro che ci fosse una sola spiegazione possibile: stava ancora dormendo e sognando, pertanto non c'era da preoccuparsi, suo fratello dormiva al suo fianco e presto l'avrebbe svegliato, toccandogli delicatamente un braccio, o scompigliandogli i capelli.

    Ha promesso di portarmi a provare il richiamo, oggi... e se l'ha detto, Dòmnhall lo farà...

Si accoccolò sul fianco, chiuse di nuovo gli occhi, spostò appena una gamba contro il proprio ventre: sentì qualcosa di appuntito premere sulla sua pancia, ricordandogli improvvisamente quanto bisogno avesse di fare pipì. Si tirò su di soprassalto: anche l'altra volta credeva di sognare e invece... No, sogno o veglia che fosse, non voleva che finisse come l'ultima volta che suo padre l'aveva trovato a bagnare il letto. Non voleva essere punito. Non quel giorno. Mentre si alzava, confuso e come sempre preoccupato dalle reazioni paterne, Cuilén percepì il fruscio di qualcosa che cadeva a terra, in mezzo al soffice tappeto di aghi di pino; si chinò, gli occhi lo videro, la mano lo afferrò, le dita ne percorsero leggere la superficie liscia, su cui si rincorrevano intagli precisi. Il cuore iniziò a battere accelerato, quasi a volergli scoppiare via dal petto.

    Che cosa ci fa il richiamo per uccelli di Dòmhnall, a terra, se questo è solo un sogno?

Il bambino non capiva, si strofinò ancora una volta gli occhi e si guardò ancora intorno: era certo di essere sveglio, era chiaro, quello non era un sogno confuso ma la realtà, però non capiva perché tutto fosse così strano. Ricordò i lamenti provenienti dalla tenda della madre, le spiegazioni di Dòmnhall attorno al fuoco, il richiamo fatto da suo fratello solo per lui: la sera precedente era nato loro un fratellino... Un'idea spaventosa iniziò a farsi largo nella mente del bambino.

    No, non è possibile... ma se... invece...
         
    «Dòmnhall! Dòmnhall! Dove sei?»

Pronunciò il nome di suo fratello, una prima volta piano, poi lo urlò, una volta, due volte. Non capiva, Cuilén, mentre la terza volta il nome dell'amato fratello usciva dalle sue labbra solo come un sospiro, tra le lacrime che iniziavano a rincorrersi sulle sue guance infuocate. Si guardò attorno, girò su se stesso, aspettandosi di vedere apparire il fratello da dietro quei tronchi fitti, ma attorno a sé c'era solo un silenzio irreale: quando l'avevano sentito urlare, infatti, le creature della foresta erano ammutolite tutte insieme e ora restavano in silenzio ad ascoltare il suo pianto. Cuilén attese, incredulo, si pizzicò una gamba, per essere sicuro di non dormire, lo ripeté ancora e ancora e ancora, ma anche se i lividi sbocciavano fitti sulla sua pelle tenera, non cambiava nulla, lo circondava un silenzio strano e spaventoso e un mondo diverso da quello che aveva lasciato la sera precedente: attorno a sé, c'erano solo alberi sconosciuti, una penombra densa, qua e là rischiarata dalla luce che filtrava a stento, non c'erano più la tenda di sua madre, illuminata dalla luce della Fiamma Verde, o il sacco a pelo di Dòmnhall, steso accanto al suo giaciglio, né i resti del loro falò, o la voce spaventosa del fiume che l'aveva sempre terrorizzato, giorno dopo giorno.

    Non c'è più neanche l'erba umida di rugiada... Perché? Dove sono?

Suo padre e suo fratello gli avevano insegnato a fare silenzio nel bosco, per non far fuggire le prede e non essere individuato dai lupi, ma Cuilén aveva troppa paura di essersi perduto, all'improvviso le sue labbra iniziarono a piegarsi e a distendersi a ripetizione nel nome di sua madre e di suo fratello, l'aria usciva in grida disperate dal suo corpo, rubandogli tutto il fiato, fino a lasciarlo sfinito, a terra, preda dei singhiozzi. Violenta lo colse la paura di essere stato abbandonato nel cuore della notte da quel padre che non lo amava e non l'aveva mai amato, disperato immaginò che avesse deciso di lasciarlo in pasto ai lupi, perché ora aveva un bambino nuovo che avrebbe preso il suo posto, il posto del figlio che lo deludeva sempre: il terrore lo pietrificò, il calore del sole che stava ormai scivolandogli addosso, filtrando tra le fronde, nulla poteva contro il gelo che sentiva nel cuore. Con le lacrime agli occhi guardò con più insistenza, ma non c'era nulla da guardare, solo alberi e alberi... tutti uguali e tutti ignoti, cercò tra i suoi ricordi, ma non era mai stato portato dai suoi, durante la caccia o la raccolta, in un posto simile. Per sicurezza, si avvicinò al pino nero sotto il quale si era svegliato, accarezzò la sua corteccia, si chinò a raccogliere i suoi aghi, chiuse gli occhi e ascoltò il fruscio che facevano mentre cadevano, aveva visto sua madre fare spesso così, come se gli alberi fossero capaci di parlarle; rimase immobile, ascoltando il silenzio tetro di quella foresta, in cui nemmeno gli uccelli cantavano più: per quanto si concentrasse, però, nessun ricordo era ricollegabile a quelle sensazioni. Cuilén capì di essere perduto.

    Perché Dòmnhall glielo ha lasciato fare? Dòmhnall mi ha sempre protetto... e ha sempre rispettato le promesse fatte...

Un'intera foresta si apriva tutto attorno a lui, tutta uguale, non si vedevano neppure sentieri da seguire, né orme che indicassero una direzione. Sua madre gli aveva detto molte volte che se si fosse perduto nel bosco non doveva muoversi, doveva restare fermo in un posto preciso, trovare un punto riparato e aspettare di essere trovato. Non era mai accaduto ma sua madre glielo ripeteva sempre e Cuilén ascoltava, perché era un bambino ubbidiente. Quel giorno, però, mosse dei passi, nemmeno se ne accorse, all'inizio: le sue gambe cercavano di portarlo lontano da lì, dal pino ai cui piedi si era svegliato, dal mantello che, caduto a terra, indicava dove avesse passato la notte. Cuilén camminò, deciso a raggiungere un albero di fronte a lui, ma più camminava, più si trovava sempre nello stesso punto, come se una mano invisibile rendesse vani i suoi movimenti. Si voltò e di corsa provò un'altra direzione e ancora un'altra e ancora un'altra. Provò e riprovò, ma pur mettendoci tanta energia e caparbietà, alla fine si ritrovava sempre a pochi passi dall'imponente pino nero. Qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte, ora lo sapeva, era stato Dòmnhall a condurlo fin lì: lo riconosceva, usava quell'incantesimo quando lo portava con sé a raccogliere erbe o a cacciare, per proteggerlo da cadute, aggressioni di animali selvatici o altri incidenti, se si trovavano da soli in un luogo potenzialmente pericoloso.

    Perché Dòmnhall mi ha portato qui in piena notte? E perché non torna da me, ora, quando lo chiamo?

Affamato, sfinito, spaventato, Cuilén si lasciò cadere a terra, il viso nascosto tra le braccia, mentre calde le lacrime gli segnavano il viso e le sue labbra ripetevano quel nome, sempre più lentamente, sempre più silenziosamente.

    «Dòmnhall...»

Si addormentò così, con la schiena appoggiata al tronco del pino nero e il sole che gli scivolava addosso, scaldandogli prima i piedi e in seguito, su su, tutto il corpo, fino agli occhi. Quando sentì un rumore di legna secca calpestata e spezzata, a pochi passi da lui, rinvenne spaventato, le pupille che si annerivano velocemente, in allerta: guardò davanti a sé, ma non vide nulla, il sole filtrava con un'angolazione tale, ormai, da rendere il suo orizzonte stretto e oscuro. Sentì dei passi pesanti frusciare sul tappeto di aghi di pino, passi che non avevano nulla di umano. Si tirò in piedi, Cuilén, di soprassalto, portando gli occhi a un'altezza sufficiente a uscire dal raggio di sole e vedere qualcosa: di fronte a lui si ergeva una massa oscura, pesante e greve, ma non riusciva a metterla a fuoco; sentì subito il suo cuore accelerare i battiti, preso tra il terrore e la speranza, quando si rese conto che al suo fianco c'era anche un uomo. Trattenne un grido e provò a scivolare rapidamente dietro il tronco del pino, per nascondersi, senza capire che l'estraneo l'aveva già visto e, soprattutto, l'aveva udito gridare. Il suo gesto improvviso e concitato, inoltre, strappò alla massa informe un verso che gli fece rizzare i peli in mezzo alla schiena, anche perché, nello stesso istante, la vide avventarsi rapida e furiosa su di lui.

    «Buono Heliantòs... buono! E tu stai fermo, ragazzino... non aver paura...»

L'ombra umana riuscì a far arretrare la massa informe, sfiorandogli, pareva, una testa munita di becco e dandogli qualcosa da mangiare, poi tese la mano verso di lui; Cuilén, che al tentativo di aggressione si era buttato a terra, si raggomitolò su se stesso, nascondendo di nuovo il capo tra le braccia, ma lasciando gli occhi sopra l'incavo, così da vedere cosa stesse accadendo. Un bagliore argenteo impedì all'uomo, proteso verso di lui, di chinarsi abbastanza da toccarlo, vide la sua mano ritrarsi, come se fosse stata colpita da una sensazione dolorosa: lo scudo di Magia che suo fratello gli aveva eretto intorno stava facendo il suo dovere, e il cuore di Cuilén si aprì, al pensiero che Dòmnhall non l'avesse abbandonato, ma l'avesse, come al solito, protetto. L'uomo, dopo un istante di esitazione, non si diede per vinto, prese qualcosa dalla cintola, in controluce a Cuilén parve fosse solo un rametto di legno, la puntò verso il bambino e pronunciò delle parole strane, che non assomigliavano a nulla che avesse mai sentito uscire dalle labbra dei suoi genitori, quando evocavano il fuoco, o curavano le ferite alle sue ginocchia sbucciate. L'uomo tentò più volte, con parole diverse, invano, e Cuilén, via via sempre più rassicurato dall'incapacità di quell'uomo di raggiungerlo, prese coraggio e alzò la testa per guardarlo. Ancora una volta il sole gli impedì di metterlo a fuoco, vedeva soltanto che era molto alto, quasi quanto il suo papà. All'ennesimo tentativo, però, la mano dello sconosciuto arrivò su di lui, fino a sfiorargli i capelli, proprio quando ormai Cuilén era certo di essere al sicuro, cogliendolo di sorpresa; il bambino urlò, cercò di alzarsi e fuggire, ma l'uomo, rapido, gli fu addosso, lo prese per i polsi e lo bloccò, sollevandolo da terra. Cuilén si divincolò, come facevano i conigli che Dòmnhall prendeva al laccio, ma esattamente come loro, la sua resistenza si rivelò presto inutile e deleteria. Con il fiato reso grosso dalla paura e dall'agitazione, sfinito, il bambino dovette arrendersi; immobile, riuscì a mettere a fuoco i tratti del suo aggressore, attraverso lo sgaurdo pieno di lacrime: era un uomo ancora giovane, dai lunghi capelli corvini, il volto in buona parte coperto da una fitta barba cespugliosa, un cacciatore, probabilmente, visti i pugnali che portava alla cintola e le vesti macchiate di sangue.

    «... Stai calmo... Non voglio farti del male, voglio solo sapere il tuo nome...»

Cuilén girò il volto e non rispose. Voleva sua madre, la voleva in quel momento, disperatamente. Si morse l'interno della guancia per non scoppiare a piangere.

    «So che sei spaventato... Dimmi solo sì o no... Sei tu Cuilén, figlio di Cormacc MacArtgal e di Sheira, figlia di Thon? »

Il bambino si voltò a guardarlo, udendo i nomi dei suoi genitori, improvvisa avvampò in lui la speranza che quell'uomo sapesse dove fosse la sua famiglia; doveva essere così, nessun cacciatore che viveva in quei boschi poteva sapere tante cose, lui stesso aveva saputo il nome dei suoi nonni solo spiando suo padre che insegnava a suo fratello un po' di storia della Confraternita. Cuilén, però, era anche un bambino ubbidiente e sua madre gli aveva sempre detto di diffidare degli estranei, perciò, nonostante la speranza, non poteva fare a meno di chiedersi chi fosse quell'uomo e come facesse a conoscere il suo nome e quello di suo padre. Aveva paura, come mai ne aveva avuta prima, nemmeno quando Cormacc, suo padre, l'aveva gettato nel fiume. Incrociando gli occhi dello sconosciuto, però, qualcosa in quell'intenso colore grigio impose a Cuilén di fidarsi e non avere paura; quando poi i suoi occhi scivolarono sul collo sporco e sudato dell'uomo e notarono Rune simili a quelle che portavano i membri della sua famiglia, Cuilén non riuscì più a trattenersi, annuì, chiese della sua mamma e scoppiò in un pianto dirotto. L'uomo non lo riprese per quelle lacrime, come faceva sempre suo padre, anzi, gli passò la mano forte e ruvida sui capelli, toccandolo delicatamente, come se fosse qualcosa di estremamente prezioso. Cuilén alzò gli occhi su di lui, il volto dell'uomo si aprì in un sorriso di incoraggiamento.

    «Mio Signore... non dovete temere... Daghall il Nero è qui per voi, per portarvi a casa... sano e salvo...»
 


*continua*



NdA:
Ringrazio quanti hanno già letto, aggiunto a preferiti/seguiti/ecc, recensito questa ff. In questo capitolo e nel prossimo presenterò due nuovi personaggi, Gregorius e Daghall, che avranno un ruolo nel futuro dei ragazzi e del patriarca degli Sherton, Hifrig. Riguardo alle note:
1) Morvedh è l'antico nome cornico di Morvah, una cittadina della Cornovaglia celebre per un sito dell'età del bronzo Mên-an-Tol, che abbiamo già incontrato in That Love (il luogo in cui Fear e Alshain trovano antiche tessere con incise delle Rune e, più recentemente, la grotta in cui Lord Voldemort ha tenuto prigioniero Alshain). Anche tutti gli altri nomi sono tratti dalla tradizione cornica, Kernow per esempio è l'antico nome della Cornovaglia.
2) Dún Ceartáin è il nome gaelico di una località, Gleann an Ghad, nel nord ovest dell'Irlanda, anch'esso famosa per un cerchio di pietra.

A presto
.
Valeria



Scheda
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Capitolo 9
*** I.008 - TERRE DEL NORD - IL NERO ***



That Love is All There is

Terre_del_Nord

Old Tales

Terre del Nord - I.008 - Il Nero



Il Mago rimise a terra il bambino e s’inchinò ai suoi piedi. Cuilén lo guardò con tale meraviglia, non riuscendo a capire perché quello sconosciuto gli riservasse parole e gesti intrisi di deferenza e rispetto, che, pur libero dalla presa, non tentò di sfuggirgli. Non era neppure sicuro di riuscirci, a dire il vero, tanto meno avrebbe saputo dove andare, una volta scappato: prima della comparsa dell'uomo, Cuilén si era risvegliato solo, in un ignoto punto della foresta, incapace di allontanarsi dal pino sotto il quale si trovava. A quel pensiero, sul bambino ripiombarono la paura dell'oscurità che si celava tra gli alberi, le mille domande su dove fosse, su come e perché fosse finito lì, su dove si trovasse la sua famiglia, sul perché quello straniero, che aveva la stessa Runa di sua madre, si offrisse di aiutarlo. Più di ogni altra cosa, però, lo ghermì il terrore per l'ombra minacciosa che aveva tentato di piombargli addosso, pochi istanti prima. Cuilén rabbrividì, spaventato. Daghall si rialzò: immaginando cosa turbasse il bambino, gli mise una mano sulla spalla e cercò di assumere un'espressione rassicurante, benché sapesse di avere un aspetto spaventoso e temesse di dover dare delle difficili risposte. La prima cosa da fare era tranquillizzarlo, conquistarne la fiducia, trarre tutte le informazioni utili che possedeva, infine portarlo via con sé: se, come temeva, Habarcat era dispersa nella foresta, il figlio di Sheira nic a'Thon era quanto di più sacro restasse alla Confraternita, l'unico capace, un giorno, di ritrovare la Fiamma e riportarla alla sua gente. Cuilén fissò gli occhi grigi del Mago: non lo conosceva ma era certo che fosse sincero quando gli prometteva che l’avrebbe protetto e l’avrebbe riportato a casa. E questo era il suo unico desiderio.

    «Mi porterai via da qui, vero?»
    «Certo, mio signore, sul mio onore... sono qui per questo... »
    «Dalla mia mamma? E da mio fratello, da Dòmnhall?»

Daghall non rispose, abbassò gli occhi poi annuì al bambino che sembrava non sapere nulla. Non lo vide sorridere, pieno di speranza, non voleva guardarlo mentre gli mentiva, non amava farlo, ma non aveva neanche la forza o la volontà di dirgli tutto, perché conosceva il vuoto che l’avrebbe piegato, una volta scoperta la verità, e non voleva legare il proprio nome a quel dolore. Tanto meno aveva intenzione di gestire un moccioso nel pieno della disperazione. Cercò di cambiare discorso: aveva un compito e intendeva portarlo a termine al più presto, spettava ad altri occuparsi di tutto il resto. Si chinò e gli chiese di alzare le braccia, gli girò intorno, sfiorandolo con la bacchetta, controllando che le vesti non fossero stracciate o sporche di sangue, segno di ferite nascoste.

    «Vi sentite bene, mio signore? Vi fa male da qualche parte? Non mi sembrate ferito... ma... »
    «Ferito? Perché dovrei? Io non sono caduto... »

Daghall tacque, pensoso: non c’era corrispondenza tra quanto aveva visto nella foresta e i comportamenti del bambino, era troppo calmo per aver assistito al massacro. Era così traumatizzato da aver rimosso i ricordi? O era già lontano, quando tutto si era compiuto? Se, però, aveva avuto sentore del pericolo, perché Sheira non aveva difeso anche se stessa e il resto della famiglia? Chi aveva preso suo figlio e perché l'aveva lasciato solo tra gli alberi? Dove si trovava adesso? La speranza illuminò per pochi istanti il Mago, immaginò l'ignoto salvatore intento a nascondere Habarcat in un luogo sicuro, peccato fosse un pensiero infondato: la Fiamma era intoccabile per chi non fosse il suo Custode e Daghall aveva visto morire Sheira con tutta la sua famiglia, eccetto quel bambino. Habarcat però non era lì, Cuilén non l'aveva con sé, la Fiamma era stata nascosta prima, nei paraggi o forse più lontano. Non lo sapeva: il medaglione del Venerabile, l’unico manufatto in grado di percepirla, emanava deboli bagliori solo a tratti, sembrava aver smesso di funzionare.

    “O forse funziona, ma... è il potere della Fiamma Verde che è venuto meno per sempre... ”

Confuso da tutti quegli interrogativi, Daghall puntò la bacchetta su Cuilén e la mosse lentamente intorno alla sua testa: il piccolo sentì uno strano formicolio, una specie di “solletico ai pensieri”, simile a quando Dòmnhall gli stuzzicava i piedi o i fianchi per farlo ridere fino alle lacrime. All'improvviso rivide tutto il giorno precedente, la tenda di sua madre, illuminata dalla Fiamma Verde, suo fratello Dòmnhall che gli regalava il richiamo per gli uccelli e gli prometteva di fargli conoscere, l’indomani, “il nuovo fratellino”. Poi nulla, fino all'angosciante risveglio nel bosco.

    “La Fiamma era con lei, ieri. E Sheira ha partorito, per questo era debole! Oh dei, e se... ”

Il Mago scosse la testa, turbato, e ripose alla cintola la sua bacchetta.

    «Non siete ferito e i vostri ricordi sono intatti, mio signore... andiamo, a casa i Guaritori lo confermeranno... »

Daghall lo guardò, imponendosi di sorridergli rassicurante, Cuilén, però, notò che il suo sorriso era più sfuggente di quello che aveva suo fratello, quando gli faceva una promessa. Allungò la mano, toccò la faccia dell'uomo, la barba folta, la linea dritta del naso, poi scivolò sulla Runa del collo. La fissò e tornò a scrutarlo negli occhi: il Mago, incapace di reggere quello sguardo, abbassò la testa.

    «La tua Runa è solo simile a quella della mia mamma... ma non è la stessa... Tu chi sei?»

Daghall non si aspettava che un bambino vissuto per sei anni nel bosco, in isolamento, fosse in grado di distinguere così bene i dettagli delle Rune: sorpreso, non seppe cosa dirgli, si limitò ad annuire, senza aggiungere altro, senza spiegare altro, poi si alzò, a disagio, chiedendogli di seguirlo.

    «Si sta facendo tardi, mio signore... vostro nonno vorrebbe accogliervi prima del tramonto.»
    «Ho paura... »
    «Di che cosa? Non avete nulla da temere da me: io servo… vostro nonno, il mio Maestro... »
    «... ho paura... del... “mostro”!»

Cuilén volse lo sguardo verso il punto estremo della radura, la vide nascosta tra i cespugli e, con il dito, indicò la massa oscura che si era avventata su di lui, pochi minuti prima. L'uomo si guardò intorno senza capire, poi comprese che il dito era puntato su Heliantòs, l'Ippogrifo con cui aveva sorvolato quella parte delle Terre del Nord, fino alla radura, attratto dalla Magia Antica della Strega.

    «Non temete, mio signore. È Heliantòs, è nostro amico: sarà lui a portarci a casa... »
    «La mia casa è qui... nel bosco... »
    «Certo, mio signore, ma… salite con me sulla sua schiena e voleremo veloci fino a casa... »
    «Volare? Come gli uccelli?»
    «Come gli uccelli... sorvoleremo foreste e montagne, fino a destinazione... »
    «E la mia mamma? Anche la mia mamma è volata via su… quel... la “cosa”?»

Daghall, in difficoltà, non sapeva come rispondere, con un cenno, chiamò a sé la bestia, sperando di distrarre l'attenzione del bambino dalla madre, concentrandola sull'imponente e magnifico animale.

    «Heliantòs è un Ippogrifo, mio signore... ne avete mai visto uno?»

Il bambino negò con la testa, affascinato e terrorizzato da quell'essere che emerse maestoso e terribile, dal folto della foresta, e camminò fino a portarsi accanto al suo padrone: quando un raggio di sole lo colpì illuminandolo in pieno, però, Cuilén urlò, vedendo quel corpo per buona parte simile a quello di un cavallo, ma con le ali e la testa di un'aquila e il petto e le zampe anteriori di un leone.

    «Mandalo via! Ho paura! Mandalo via!»

La bestia s’inalberò, Daghall ebbe difficoltà a riportarlo alla calma, mentre il bambino strillava.

    «Buono Heliantòs! Non fate così, mio signore... gli Ippogrifi sono fieri e pericolosi, certo, ma sono anche validi alleati, quando se ne conquista il rispetto... buono così, Heliantòs... Sono creature meravigliose, ci aiutano a pattugliare le Terre come un tempo facevamo con i Draghi... Un giorno v’insegnerò a cavalcarne uno, da solo... io l'ho appreso quando ero più piccolo di voi... fidatevi, salite sulla sua schiena con me: godrete della carezza del vento sul vostro viso...»

Cuilén, atterrito, vide Daghall prendere qualcosa dalla bisaccia e lanciarlo all'indirizzo della bestia che saltò per divorarla, poi s’inchinò di fronte a lui e la bestia s'inchinò al suo padrone... Heliantòs annusò la mano del Mago, infine si lasciò accarezzare il capo, come facevano i lupi addomesticati di Dòmnhall.

    «Fidatevi, i miei allevavano Ippogrifi e Draghi... avete mai visto un Drago, mio signore?»

Cuilén negò con la testa, incredulo e terrorizzato ma anche sempre più affascinato.

    «Un giorno li cavalcherete... Voi… voi avete il Sangue degli Antichi nelle vene, sapete?»
    «Che cos’è il Sangue degli Antichi?»
    «Vostro nonno vi attende per raccontarvi tutto. Ora ripetete i miei gesti: inchinatevi... alzate la mano, appena... attendete... ecco... non urlate, ora: si sta avvicinando... bene... così... molto bene… »

Cuilén, titubante, fece ciò che gli era stato suggerito e, dopo alcuni minuti di trepidante timore, affondò le dita nel folto piumaggio dell'animale: colmo di stupore, si ritrovò a sorridere, entusiasta.

    «Non vi agitate, ora: vi isso sulla sella e resto a terra per condurlo alla radura, da lì spiccherà il volo. Lo controllo con la Magia, fidatevi di me... E di lui... »

Il bambino, emozionato, annuì, sembrava aver già dimenticato la paura, si lasciò issare tra le ali dell'Ippogrifo ed emise un grido eccitato, quando guardò il mondo, attorno a sé, dall'alto.

    «Ditemi, mio signore, riconoscete forse la strada fatta per arrivare qua? Ci siete già stato? Ricordate se vi siete fermato sotto un albero o vicino a qualcuna di queste pietre, in passato?»
    «No... non so come sono arrivato qui... e non mi sembra di riconoscere questo bosco... »

Cuilén tornò a guardarsi attorno, curioso, Daghall annuì, deluso: aveva sperato che il bambino ricordasse un dettaglio con cui risalire al nascondiglio della Fiamma. Si guardò intorno, puntò di nuovo la bacchetta ma, ovunque, c'era solo una silenziosa, sconfinata, verdeggiante foresta. Guardò il medaglione del Venerabile Thon McCuilén, tese il braccio, secondo i quattro punti cardinali, cercando un segno, invano. Allora il Mago s’inoltrò lentamente nel bosco, il passo sicuro: controllava il suo Ippogrifo e rispondeva con calma e pazienza alle mille domande di Cuilén su Heliantòs e sui Draghi, così che il bambino si tranquillizzasse e prendesse confidenza con lui. Stava in allerta, però, fissando di continuo il medaglione, non voleva farsi sfuggire alcun dettaglio. Ad ogni passo, il Mago si allontanava. Ad ogni passo, Habarcat taceva.

*

Cuilén non era mai stato tanto emozionato. Si stava librando in volo, sentiva il calore tiepido del sole sul corpo e l'aria fresca sul viso, i suoi occhi spaziavano sopra un'immensità di sfumature di verde, su dolci colline e alte montagne fatte di nuda roccia. Si stava allontanando sempre di più dalla foresta in cui era vissuto ma, piccolo e ingenuo com'era, nemmeno se ne rendeva del tutto conto, preso dalle meraviglie di quella straordinaria avventura: aveva visto un gruppo di caprioli correre in una radura e aveva gridato tanto forte da metterli in fuga; si erano alzati in alto e avevano visto da vicino un'aquila in volo. Non aveva paura, perché con lui c'era l'uomo che lo stava riportando a casa. Si era spaventato solo all'inizio, vedendo l'aspetto minaccioso di Heliantòs, ma una volta salito in groppa, Cuilén aveva provato solo un profondo senso di libertà. Era stato sicuro di svenire, quando aveva visto il baratro da cui Heliantòs si sarebbe gettato per spiccare il volo, invece, quando l'aria non era arrivata ai suoi polmoni e il respiro gli si era mozzato, si era sentito vivo e forte, come non mai: cadere in quell'abisso verdeggiante per poi recuperare quota e librarsi in alto non gli aveva provocato la paura paralizzante che lo coglieva di fronte al fiume, sembrava anzi che nell'aria avesse trovato il “suo elemento”, come diceva Dòmnhall. Cuilén non vedeva l'ora di essere a casa, abbracciare suo fratello, parlargli, salire su Heliantòs con lui: forse sarebbe stato proprio Dòmnhall ad aver timore dell'Ippogrifo e sarebbe toccato a lui insegnargli cosa fare. A quell'idea, il bambino scoppiò a ridere, elettrizzato, e l'uomo, alle sue spalle, si chinò al suo orecchio per chiedergli se andasse tutto bene: Cuilén gli rispose di non essere mai stato tanto felice. Il Mago sorrise, sapeva come si sentiva quel bambino, ormai era un uomo ma ricordava ancora la propria emozione, la prima volta che suo padre l’aveva portato in volo sopra il Kernow, su un giovane Heliantòs: gliel'aveva donato quel giorno. Il giorno del suo quinto compleanno.

*

Il sole aveva superato la metà del suo percorso e il picco, alto nel cielo, quando la corona di montagne davanti a loro si aprì all'improvviso, lasciando vedere, meravigliosa, una distesa blu cobalto alle sue spalle, appena increspata da timide striature dorate, illuminate dal sole.

    «Quello è l'oceano, mio signore... »

Cuilén era già a bocca aperta, meravigliato, quando Heliantòs scese a capofitto, strappandogli un urlo euforico. Dietro le montagne non c'era subito il mare ma, gioiello nascosto alla vista, si apriva un vasto altopiano, circondato da alture via via più basse e frastagliate, che si rincorrevano creando un ambiente variegato in cui predominavano il verde dei boschi e il giallo delle radure. Heliantòs sorvolò la pianura in tutta la sua lunghezza, ad ampie falcate, scendendo a poco a poco, tanto che Cuilén s'illuse che si preparasse ad atterrare, anche perché il mare si avvicinava velocemente e la terra si riduceva sotto i loro piedi, sempre di più. Di colpo, invece, l'Ippogrifo riprese velocità e puntò in picchiata dritto davanti a sé, finché la terra mancò del tutto sotto di loro e, improvvisa, luccicò tutto intorno solo la vastità cobalto. Cuilén serrò le dita sulle redini, mentre si voltava, terrorizzato, e vedeva l'altopiano sparire alle sue spalle: si era interrotto in una scogliera ripida che scendeva a picco, come una lama bianca conficcata verticalmente tra i flutti spumosi.

    «Non abbiate timore, mio signore... sono qui, con voi… »

L’Ippogrifo scese prendendo ancora velocità, Cuilén pregò che non volesse tuffarsi nell'oceano, ma sembrava avesse proprio quell'intenzione: vedendosi circondato da tutta quell'acqua, sempre più vicina, il bambino s’irrigidì, il sangue gli imporporò le guance e il respiro gli divenne corto. Non si mise a piangere, però, anzi, la paura uscì dalla sua gola in un unico urlo, prolungato e liberatorio. Non si era mai sentito così, un'energia misteriosa si era liberata dal suo petto. Il Mago gli strinse una spalla, per infondergli coraggio, mentre Cuilén tremava, erano ormai a pochi metri dall'acqua e Heliantòs non accennava a fermarsi. All'improvviso, finalmente, gli dei l'ascoltarono: arrivato a sfiorare le onde con le zampe, Heliantòs riprese a volare orizzontalmente e, invece di gettarsi nel mare, sollevò una pioggerellina salata con il tocco degli artigli. Il bambino riprese a respirare.

    «Non è emozionante volare con un Ippogrifo, mio signore?»

Il Mago rise e Cuilén gli disse di essere morto di paura: da sempre l'acqua lo terrorizzava e di solito scoppiava a piangere, facendo arrabbiare suo padre, stavolta invece aveva urlato e, dopo le urla, gli sembrava di stare meglio; Daghall annuì, estrasse la bacchetta e la puntò davanti a sé, staccò una bolla d'acqua dalla superficie dell'oceano, la fece volteggiare e la attrasse, portandola al bambino.

    «Voi avete paura dell'acqua, come io ne avevo del fuoco... Trattenetela, se volete “capirla”.»
    «Trattenerla? Non si può afferrare l'acqua, lei scivola sempre e ricade giù... »
    «Ne siete proprio sicuro, mio signore? Io la sto trattenendo per porgerla a voi, vedete?»

Heliantòs si era voltato compiendo un ampio semicerchio sull'acqua, ora volavano lievi sull'oceano, a pochi centimetri dalla superficie, puntando verso la costa, la bolla librata in aria, davanti a loro: Daghall iniziò a muovere la bacchetta, imponendo alla massa, con una serie d’incantesimi silenziosi, di assumere varie forme, poi, quando le zampe di Heliantòs toccarono terra, la fece esplodere in una miriade di farfalle umide e salate, sopra di loro. Una specie di globo luminoso si staccò da quella pioggia, volando via, simile a un dardo o un uccello, che sfrecciava alto verso il cielo. Cuilén stava per chiedere al Mago che cosa fosse, quando l'Ippogrifo si scrollò via l’acqua di dosso, inzuppandoli una seconda volta: Daghall e il bambino, fradici, scoppiarono a ridere.

    «Come hai fatto? Era bellissimo!»
    «Magia... Una Magia che imparerete anche voi... tra qualche anno… »
    «Perché usi quel legnetto? La mamma fa le Magie ma non usa i bastoncini, solo le mani... »
    «Il legno serve solo a indirizzare meglio la Magia che sta nelle nostre mani, mio signore... »

Il Mago gli sorrise ma non gli disse altro: ancora umido di acqua di mare, Daghall saltò giù da Heliantòs, poi impose all’Ippogrifo di chinarsi per far scendere anche il bambino. Catturato dall'esperienza del volo e dell'acqua, fino a quel momento Cuilén non si era guardato intorno, ora però, mentre i suoi piedi toccavano la sabbia, si ritrovò a osservare una caletta stretta, a ridosso della parete a strapiombo della scogliera: era così minuscola e piena di rocce e massi, che, dall'alto, non era visibile. Il bambino alzò gli occhi, fino alla cima, la parete appariva liscia e compatta, si chiese da che parte si uscisse da lì, senza un Ippogrifo con cui andarsene in volo.

    «Dove siamo? Non c’è nulla di simile vicino a casa mia... »
    «Prima di portarvi da vostro nonno, devo... incontrare una persona... mi scusate, vero?»
    «Non mi lasciare qui da solo, però... non lo farai, vero?»
    «No, non temete, mio signore, voi verrete con me: devo presentare voi, a quella persona… »

Il bambino lo guardò incuriosito, mentre l’uomo gli puntava la bacchetta addosso per asciugarlo e pulirgli il viso e le vesti, poi si spogliò degli abiti lerci, rimanendo con una strana tunica fatta di metallo, sopra quella di lana, e un vistoso medaglione al collo. Si tolse tutto e, ormai nudo, cancellò con la bacchetta polvere, sangue e sudore dal suo corpo; prese dalla sacca una tunica più leggera, grigia, indossò di nuovo la cotta e sopra infilò una corta toga verde, dagli intarsi elaborati. Il bambino era rimasto a bocca aperta a guardarlo, impressionato dalle Rune: mentre si cambiava, l'uomo gli aveva ricordato suo padre, per quella barba folta, il corpo muscoloso, i capelli resi ricci dall’acqua, i ghirigori d’inchiostro che decoravano tutta la sua pelle. Era la versione più giovane di suo padre o quella più vecchia di suo fratello, a scelta. Continuava a chiedersi chi fosse, magari era uno zio…

    «Andiamo, mio signore, ci aspettano... »

Daghall aveva finito di vestirsi, si era fissato alla cintola il fodero della lama e aveva sistemato sulla schiena un arco e una faretra piena di frecce, più elaborate di quelle che usava Dòmnhall per la caccia: li aveva estratti dalla bisaccia legata alla sella di Heliantòs, quando gli aveva dato un paio di furetti per pranzo. Cuilén non capiva come tutta quella roba potesse stare in una sacca tanto piccola.

    «Heliantòs non viene con noi?»
    «Ci raggiungerà dopo... per la strada che dobbiamo fare... non riuscirebbe a passare... »

Il bambino non chiese altro, l'uomo sembrava teso, poco disposto a parlare. A volte facevano così anche suo fratello e i suoi genitori e Cuilén sapeva che in quei momenti era meglio lasciarli in pace, tanto non riusciva a strappar loro mezza parola. Nonostante le pesanti armi indossate, l'uomo si diresse rapido verso le rocce, doveva esserci un sentiero, invisibile dalla spiaggetta: s’inerpicò tra i massi, rivelando che la parete era compatta solo in apparenza. Cuilén iniziò a seguirlo, con difficoltà, facendo attenzione a non cadere e osservando di tanto in tanto il mare, sempre più basso sotto di lui. All’improvviso, si aprì un varco tra le pietre. Il bambino guardò la spiaggia deserta ancora una volta: Heliantòs si librava tra terra e mare, a caccia di gabbiani.

***

La notte precedente...

    ... Lucretia...

Nella stanza immersa nel silenzio, un braciere rifletteva bagliori morenti e la luce rossastra dei tizzoni scivolava tremula sul corpo nudo di un uomo addormentato, le pelli d’orso calciate via, a terra. Era ancora buio, quando colpi concitati fecero vibrare la pesante porta di quercia, al piano di sotto. Il Mago mugugnò, infastidito, provò a nascondere il capo sotto il cuscino, lottando per trattenere i sogni, per non farli affievolire e diventare polvere. Dopo alcuni istanti di smarrimento, però, la ripida parete rocciosa che stava scalando si sciolse sotto le sue dita e divenne fumo, si sentì cadere nel vuoto e i suoi occhi si aprirono di colpo sulla vista di un baldacchino sfatto e di quattro pareti spoglie. Col cuore in gola, tornato alla realtà di soprassalto, l'uomo prese un respiro fondo, ricacciò indietro i nomi che teneva sulle labbra, si deterse il sudore con la Magia e scivolò fuori dal giaciglio e dai tendaggi che proteggevano il suo letto. Si avvicinò alla finestra e vide la notte da poco giunta al suo culmine. Si chinò ad afferrare il mantello abbandonato a terra, se lo gettò sulla schiena accaldata, drappeggiandoselo addosso, per coprirsi alla meglio. Infine, scese la scala di legno, ravviandosi le ciocche corvine con la mano impreziosita da Rune e anelli.
Non fu sorpreso nel trovarsi di fronte Thon McCuilén: pochi si avvicinavano alla sua porta di giorno; nessuno, a quell’ora della notte, a parte il “Venerabile della Confraternita”, il membro più anziano e importante del Consiglio dei Saggi. Il vecchio aveva un profondo legame con il Mago da quando, dieci anni prima, l'aveva preso sotto la sua protezione, appena tredicenne, giunto nelle Terre del Nord in sella a un Ippogrifo, Heliantòs, in fuga dalla guerra che stava sconvolgendo il Kernow (1). Da quel momento, Thon McCuilén aveva raccolto le confidenze del ragazzo, scoprendone la storia e celandone a tutti, per proteggerlo, l’identità, l’aveva preparato di persona al Cammino del Nord e l'aveva accolto nella sua famiglia come un figlio, dandogli persino la Runa della sua stirpe e il suo nome, un nome delle Terre del Nord: Daghall McThon. Quasi nessun altro, nel villaggio, si era avvicinato volentieri al giovane, il disinteresse anzi si era trasformato in ostilità nel corso dei primi anni, a mano a mano che l'intruso assumeva atteggiamenti ribelli; in seguito, quando, per volontà del Venerabile, aveva acquisito potere e autorità, avevano iniziato a circolare delle dicerie, secondo le quali il giovane era stato inviato dai Maghi del Sud per rubare Habarcat, approfittando che fosse dispersa sul massiccio di Am Monadh. Per questo, dopo anni, nonostante l'agiatezza e una vita ormai irreprensibile, molti uomini della Confraternita si ostinavano a isolare il giovane, a negargli la mano delle proprie figlie, come aveva fatto Cinàed il Pozionista, e il nome delle Terre chiamandolo per sfregio “Daghall il Nero”, lo straniero dalle chiome corvine. Daghall sembrava non curarsene più, ormai si presentava per primo, a tutti, come “Il Nero”; da giovane, invece, aveva sofferto del silenzio e del disprezzo degli altri e, in una notte di follia e alterazione, si era inciso una A, la prima lettera del suo vero nome, sopra la Runa del collo, con una vecchia lama arrugginita, per affermare l'appartenenza a se stesso e al suo vero mondo. Solo l'intervento disperato del vecchio l'aveva salvato da morte certa.
Senza scambiarsi una parola, Daghall si fece da parte e Thon entrò, seguito da un altro Mago, rimasto nell'oscurità fino a quel momento: Padraig, originario di Árd Macha (2), in Irlanda, era un altro dei saggi, un uomo arcigno, alto e rinsecchito, stretto nella sua toga, grigia come il suo incarnato smunto, il cappuccio tirato su a mascherare il volto butterato. Il Venerabile, esile come un fuscello e piegato dall'età e dai pensieri, si avvicinò lentamente al tavolo e si guardò intorno, il nobile e austero cipiglio intriso di disapprovazione, appena gli occhi velati dalla vecchiaia misero a fuoco le ceneri fumanti nel camino: lo addolorava rendersi conto che il suo pupillo, nonostante i tanti insegnamenti e i consigli, cedeva ancora alle emozioni e cercava rifugio dal dolore nello stordimento delle erbe. Il Nero se ne accorse e incrociò le braccia al petto, come faceva da ragazzino, in un gesto d'istintiva difesa: era un uomo, ormai, e nessuno poteva più interferire nella sua vita. Fissò per alcuni istanti il Maestro, poi rammentò a se stesso che quello non era più solo il suo “padrino” e lui stesso non era più solo un figlioccio. L’inaspettata, inattesa visita, nel cuore della notte, del Venerabile Thon McCuilén a Daghall McThon, detto il Nero, Capo della Guarnigione era tutt’altro che una questione privata, era la prova che un fatto d’inaudita gravità era avvenuto nelle Terre e che la sua gente aveva bisogno del suo intervento. Daghall invitò il Venerabile ad accomodarsi, lo guidò a una sedia, sostenendogli il braccio, sotto lo sguardo di Padraig, indeciso se avvicinarsi o restare sulla porta. Il Nero andò alla dispensa, versò dell'idromele e l’offrì agli ospiti: il vecchio rifiutò con un cenno del capo, l'irlandese bevve tutto in un solo sorso. Daghall notò che le mani del Saggio Padraig, un pomposo individuo, famoso per non mostrarsi mai in pubblico privo della sua arrogante sicurezza, in quel momento tremavano e iniziò a preoccuparsi. Con gli occhi fissi a terra, per secondi interminabili, nessuno dei tre fu in grado di iniziare un discorso, finché Thon McCuilén, pallido, alzò lo sguardo d'acciaio sul suo pupillo, in piedi di fronte a lui, e librò la voce cantilenante di Divinatore, spezzando il silenzio teso.

    «La Notte ha assunto il Volto della Morte, figlio mio... tu l'avevi visto per tempo ma noi, poveri sciocchi... non abbiamo agito! Ora la Morte danza nella foresta e la Verde Reliquia... »
    «Il Maestro vuole dire... »

Il Nero non aspettò le spiegazioni di Padraig, che aveva il compito di tradurre e spiegare alla comunità, con parole semplici, i vaticini del Venerabile: Daghall non ne aveva mai avuto bisogno, inoltre temeva e si aspettava quel momento da settimane. Corse alla finestra, scrutò il cielo, sentì il respiro mozzarglisi in gola quando vide Marte ergersi livido nel cielo nero, come un cuore grondante sangue. Il giovane era stato il primo a notare la luce sinistra e a capire che gli eventi stavano precipitando, dando l'allarme, più di un mese prima: da allora, notte dopo notte, Marte aveva gridato sempre più forte la propria collera, rimanendo inascoltato dalle genti delle Terre.

    «... la luce di Marte stanotte... »
    «Lo so... lo vedo... ve l'ho ripetuto io stesso per settimane, Padraig... ve ne rammentate?»

Daghall interruppe il saggio, furioso: conosceva il significato della strana luce rossa dell'astro, ne aveva visto le conseguenze con i propri occhi, da ragazzino, per questo aveva chiesto di parlare al Consiglio; nessuno, però, pur riconoscendo la stranezza del fenomeno, gli aveva prestato ascolto, confidando nel fatto che le profezie delle Pietre Veggenti (3) non prevedevano “sciagure” per la Confraternita nell'“era” che stavano vivendo. Il giovane non aveva replicato, non si aspettava di essere creduto da tutti loro, ma sperava di far breccia almeno nel Venerabile McCuilén... Il Nero scolò l'idromele e fissò i profondi occhi grigi colmi di risentimento su Padraig: dal suo arrivo nelle Terre, quell'uomo di mezza età, presuntuoso e ottuso, aveva colto ogni occasione per screditarlo, opera sua e del suo degno compare, Cinàed il Pozionista, era anzi la maggior parte delle malignità messe in giro sul suo conto. Aveva avuto dimostrazione della fondatezza dei suoi sospetti quando aveva spiegato i propri timori al Venerabile, invitandolo ad agire, ma l'irlandese aveva fatto di tutto per intromettersi e boicottarlo, isolandolo ancora di più con nuove maldicenze.

    «Se non godi di un briciolo di credibilità, non è colpa mia! Vivi nei boschi, come un eremita… a parte il tuo lavoro, non fai nulla per gli altri… cedi a certe... debolezze... l’altisonante nome che porti non basta più a celare le tue mancanze, Daghall, perciò prenditela con te stesso!»

Padraig si era avvicinato al camino, si era chinato a raccogliere la cenere e l'aveva annusata, fissandolo disgustato. Daghall era scoppiato a ridere, beffardo, per celare il proprio nervosismo.

    «Avete ragione… non bastano né il nome, né le azioni, quando c’è chi infarcisce le tue presunte mancanze con le proprie fantasiose falsità... dico bene, Saggio Padraig?»
    «Basta così!»

Thon McCuilén, tremante, si alzò, facendoli tacere, il Nero sibilò un ultimo insulto contro l'irlandese, ben misera soddisfazione, lo sapeva, ma l’unica che potesse prendersi: avrebbe voluto sbattere quel viscido individuo fuori dalla sua casa e dargli la lezione che meritava, a trattenerlo, però, c’erano il debito di riconoscenza che lo legava al vecchio e l’idea dell’espressione trionfante di Padraig appena fosse riuscito nello scopo di cacciarlo dalle Terre. A dire il vero, se non fosse stato per l’orgoglio e per la volontà di difendere l'uomo che l'aveva cresciuto e protetto, Daghall se ne sarebbe andato già da un pezzo, quei luoghi non erano la sua casa; per Thon McCuilén, però, non solo era rimasto, ma aveva persino accettato di guidare la Guarnigione, quando gliel’aveva chiesto. La sua vita era cambiata da allora, non aveva soffocato e vinto la sua rabbia, ma aveva trovato il modo di indirizzarla in maniera costruttiva. Anche le sue relazioni erano migliorate, Daghall aveva assegnato ruoli e turni ai suoi uomini “secondo giustizia e imparzialità”, ottenendo da loro se non amicizia almeno lealtà e rispetto; aveva riservato a se stesso le pattuglie notturne sui pericolosi confini settentrionali, da tutti rifiutati, desideroso com'era di solitudine e silenzio. Impartiti gli ordini agli altri, si allontanava in sella al suo fido Heliantòs, al tramonto, per ritornare solo l'indomani, quando il sole era già alto; vagava per i boschi, controllando le colonie dei Thestral, le rive del lago, i confini che separavano la Confraternita dai Centauri, l'immensità dell'oceano e le coste frastagliate. Quel compito gli consentiva di passare la maggior parte delle notti da solo, all'aperto, lontano dagli altri e Daghall ne approfittava per ritrovare la sua pace interiore, secondo gli insegnamenti del Maestro. Lo esponeva, però, anche a nuove chiacchiere e maldicenze cui cercava di non pensare. Saliva sulle alture, sopra i boschi, sopra le ripide scogliere, fermandosi sull'altopiano battuto dal vento settentrionale, dove attendeva il sorgere del nuovo giorno, ammirando gli astri, come faceva da bambino. Anche se, secondo i Saggi del Nord, “non aveva il Dono della Divinazione”, Daghall amava leggere le stelle, consapevole che erano gli altri a non voler riconoscere la sua abilità nell'interpretare i segni. A volte, raggiungeva la placida quiete della Sorgente (4) e lì, seduto sotto gli alberi, pensava, ammirando il lento sgorgare dell'acqua dalla polla: immerso nel silenzio e nella solitudine, ipnotizzato dal fluire dell'acqua, la memoria di Daghall scivolava a scalfire la sua anima, riportandolo indietro, allo stesso cielo ma a una terra diversa; a sua sorella Laetitia, dai boccoli dorati; a suo padre, di cui portava lo stesso nome, un nome di stella; ad Attius, il precettore dalle chiome leonine: era stato lui a insegnargli a cavalcare gli Ippogrifi, a governare la Magia con la bacchetta, a studiare Marte dalle scogliere di Zennor.

    Zennor… 

Il Nero si sentì mancare il respiro, strinse i pugni e si fece avanti, consapevole di essere sul punto di perdere il controllo, s'inginocchiò rispettoso davanti al suo Maestro e nascose il volto contro la seta verde della sua ricca toga, come se la volesse baciare, in segno di deferenza.

    «Maestro, cosa vi fa credere che il pericolo sia nella foresta e non qui? Potrebbe… »
    «Sheira… mia figlia… mi è apparsa in sogno… chiedeva aiuto… sprofondava nel sangue…»

Daghall percepì un brivido gelido lungo la schiena, non disse nulla, si limitò ad annuire.

    «Volete che vada solo, Maestro, o devo portare la Guarnigione? Quando volete che parta?»

Il vecchio lo fissò, alzò una mano tremante e la poggiò sul capo di quel suo “figlio”, l'unico che gli restasse; la vita gli aveva dato molto in gioventù, l'onore, la gloria, il potere, una famiglia numerosa, ma il destino della sua stirpe era da sempre segnato: un unico ramo poteva sopravvivere (5). Con la maturità, erano aumentati gli acciacchi e, uno dopo l'altro, erano diminuiti i figli. Insieme alle forze. Il dolore più grande, però, restava lei: la figlia più preziosa, la sacerdotessa di Habarcat, quella Sheira che l’aveva tradito, rubando la sacra Fiamma e infrangendo i voti, solo per amore (6). Per il grande Thon, che aveva sconfitto in gioventù persino il gigante Harkmut, guadagnandosi la stima del suo popolo, quello era stato un colpo tremendo: da quel giorno la sua mente non era più stata lucida, la sua autorevolezza e il suo potere erano stati messi in discussione. Quando il giovane profugo del Sud era giunto alla sua porta, però, qualcosa era cambiato, non aveva voluto ascoltare i timori e i consigli degli altri Saggi, aveva agito d'istinto, seguendo il cuore: aveva visto in quel piccolo orfano il riscatto dai suoi tanti dolori, un significato, un senso per le sue giornate inesorabilmente vuote. Non si sentiva più morto dentro, quando vagava per i boschi con lui, insegnandogli a riconoscere le orme e svelandogli i segreti del Nord. Ora quel ragazzino sconvolto dalla guerra era diventato un uomo forte e coraggioso, forgiato dal dolore e dalle avversità, giusto ma anche profondamente umano, tanto da cedere e sbagliare ancora, posto di fronte ai fantasmi del suo passato. Thon McCuilén annuì, turbato, fissando quegli occhi grigi: voleva intervenire e salvare Sheira, più di ogni cosa, anche se in apparenza avrebbe agito solo per ricondurre Habarcat in seno alla Confraternita, e l’avrebbe fatto anche senza il consenso del Consiglio, pronto a pagarne le conseguenze. Non era disposto, però, a compromettere altri con le sue azioni, per questo il Venerabile esitava all’idea di coinvolgere il suo figlioccio, benché non potesse fidarsi di nessun altro, come gli aveva opportunamente ricordato Padraig.

    «Agire porterebbe conseguenze spiacevoli a entrambi, Daghall... e tu… hai già pagato... »
    «Non c'è altro modo, Maestro: il Saggio Eoghan (7) ha fissato la partenza per vostro nipote alla prossima luna nuova, ma mancano ancora tre settimane e muovendosi con la barca, non sarà là prima di un mese... Marte dice che qualcosa sta per accadere, perciò… partirò alle prime luci... »
    «Devi partire adesso, Daghall! Le Pietre Veggenti... Diteglielo, Maestro! Quello che deve accadere, sta accadendo ora... Non tra un mese, o tra una settimana, o tra un giorno... adesso!»

Il vecchio chinò il capo, strinse i pugni e si colpì la fronte, devastato dalla lotta interiore, Padraig pallido gli porse la solita pozione calmante ma il vecchio rifiutò, ormai non più lucido. Daghall fissò entrambi, il sudore gelido iniziava a imperlargli la fronte: aveva un brutto presentimento.

    «Se indugerai, Daghall, il tempo della Magia finirà: Habarcat deve tornare nel suo giaciglio entro il tramonto. Altrimenti si spegnerà, come la Fiamma di Dùn Ceartáin... »

Il Nero annuì, conosceva le leggende di Lugh (8), sapeva che, oltre Habarcat, erano state donate agli Antichi altre due reliquie simili e che la Rossa Fiamma di Ériu aveva già esaurito tutto il suo potere. Non sapeva come ciò fosse accaduto ma non voleva correre il rischio di vederlo con i suoi occhi.

    «Vado a preparare Heliantòs. Maestro… nessuno… deve sapere... dico bene?»

Il vecchio annuì, il colore terreo del volto lasciò il posto al rossore della vergogna: aveva sempre usato la propria autorità per il bene degli altri, aveva sempre ricordato a se stesso di essere il Custode della Fiamma prima di essere un padre, un marito, un uomo… e ora che, per la prima volta, cercava di ottenere qualcosa per se stesso, gli sembrava di commettere un’empietà.

    «Riportameli, figlio mio… te ne prego… riportameli tutti… »
    «Farò tutto ciò che è in mio potere per riportarveli, ve lo giuro, Maestro… »

Il Nero, in imbarazzo di fronte a quella manifestazione di sentimenti, si voltò, evocò l'Elfo Kriantòs, che gli preparò la borraccia e i viveri per il viaggio, salì a indossare le vesti da caccia sopra la cotta di maglia, nascose l’arco e una daga nella sacca magica, perché non sapeva che cosa avrebbe trovato nella foresta, ma era in grado di affrontare di tutto, sapeva combattere con la Magia e alla maniera dei Babbani. Era stato Attius a insegnarglielo, gli aveva spiegato come nascondere la Magia, perché nella terra in cui era nato, confondersi con i Babbani significava sopravvivere, svelare la propria natura, al contrario, portava a morte certa. Mise i calzari pesanti, si avvolse nel mantello di lana, sollevò il cappuccio e annodò il bavero, per affrontare il rigore della notte. Quando tornò dai suoi ospiti, vide con fastidio che, viscido, Padraig sussurrava all'orecchio del vecchio: temendo un inganno, decise di usare la Magia per raggiungere le scuderie. Il Venerabile lo benedì, poi si trascinò alla finestra a osservare le stelle, Daghall, impaziente, si diresse alla porta. Lì Padraig lo raggiunse, lo afferrò per un polso e lo bloccò, sussurrandogli all’orecchio.

*

Daghall raggiunse la scuderia Materializzandosi davanti al recinto, in allerta. Trovò Heliantòs già sveglio, sembrava sentire sempre in anticipo l’arrivo del suo amico-padrone: l'uomo accarezzò la testa dell'animale e affondò le dita nel suo folto piumaggio, ricevendo in cambio un leggero colpetto del muso sulla spalla. Heliantòs non si limitava a percepirne la presenza, lo sapeva, sentiva la sua preoccupazione e sembrava volergli dire che poteva sempre contare sul suo aiuto. Gli dei solo sapevano quanto ne avrebbe avuto bisogno quella notte. Il Nero sistemò la sella e la bisaccia piena di furetti cacciati per placare la fame e la furia dell’Ippogrifo poi, dopo averlo tranquillizzato e nutrito, si levarono finalmente in volo. Il silenzio e la solitudine avrebbero acceso la mente di Daghall, il Mago sperava di riuscire a capire cosa fosse meglio fare prima di raggiungere Am Monadh e trovarsi di fronte la Strega, perché una volta sul posto sarebbe stato troppo impegnato a salvarsi la pelle per definire un piano. Volò veloce, incitando Heliantòs a dare tutto se stesso, come aveva fatto anni prima, quando gli aveva chiesto di attraversare tutta la Britannia: superarono montagne solitarie e foreste tenebrose, nascosti nell’oscurità carica di una notte che annunciava tempesta. Era appena in vista della meta, l’alto e scabro massiccio di Am Monadh faceva intravedere il suo profilo nella luce livida che anticipava l’aurora, quando Daghall capì che i guai sarebbero iniziati ben prima di trovare Sheira: una densa nuvola di fumo si levava alta sopra gli alberi, dall'altro lato del massiccio, illuminando l'ultima oscurità della notte di bagliori rossastri. Più si avvicinava, più Daghall riconosceva nelle voci della foresta il racconto di una notte di orrore, poi l'intenso e acre odore del fumo rischiò di ottenebrargli i sensi. Il Nero odiava il fuoco, tutti i suoi familiari lo odiavano, quasi a dare fondatezza all’antica leggenda secondo la quale il nome della sua “gens” derivava dalla tortura inflitta a tanti suoi antenati, morti bruciati sulle pire. Giunto nelle Terre del Nord, nell’apprendere il controllo dei quattro elementi naturali, il fuoco era stato quello che aveva dato più problemi a Daghall: alla fine, però, aveva superato le sue paure e le sue difficoltà, era diventato un Mago del Nord e sul suo petto ormai campeggiava imperiosa la Runa legata alla padronanza del fuoco.
Il Mago eseguì un incantesimo con cui protesse se stesso e Heliantòs dal calore e dal fumo, si avvicinò e superò la cima della montagna, scivolò sull'altro lato, scendendo in un ampio volteggiare sopra gli alberi fino a raggiungere il letto di un fiume. Smontò nei pressi di una radura protetta e lasciò l'Ippogrifo a cacciare lì, si tolse il mantello, estrasse l’arco e la faretra dalla sacca magica e se li sistemò sulle spalle. Fissò la daga alla cintola e sguainò la bacchetta poi, servendosi delle ultime indicazioni del Venerabile e di Padraig e guidato dal medaglione ricevuto dal vecchio, un manufatto creato a posta da Thon McCuilén per sentire la Magia di Sheira, s’inoltrò guardingo nella boscaglia, fino ai resti di un accampamento. Ovunque si voltasse, tutto raccontava lo scempio messo in atto da uomini senza rispetto per la vita: un brivido percorse la schiena di Daghall, quando comprese che l'orrore annunciato da Marte era figlio di un’orda di Babbani armati. La mente del Mago vacillò, rivide una scogliera a picco sul mare, le sue dita sanguinanti, premute su pietre taglienti; il respiro di Daghall si fece corto, sentiva il dolore, il proprio peso concentrato su quelle dita piagate... mentre tutto intorno, proveniente dal passato, era un sibilare di frecce che, rapide, passavano vicino al suo orecchio e cadevano, rimbalzando sulla pietra.

    Muoviti Laetitia! Muoviti...
    Mamma... mamma…

Si riscosse. Le sue labbra erano ancora contorte nel nome di sua sorella, mentre stava chino su un falò ormai spento, le mani immerse nella cenere, gli occhi chiusi. Non aveva bisogno della Magia per capire che quel fuoco era stato spento ormai da diverse ore, forse tutto si era compiuto quando ancora dormiva a casa sua, ancora prima che il Venerabile bussasse alla sua porta. Non sapeva cosa ne fosse di Sheira e degli altri, ma la loro salvezza, ormai ne era consapevole, non era mai dipesa dalla sua volontà e dalle sue azioni, almeno non quelle che poteva compiere quella notte.

    Dove sono? Dove hanno portato Habarcat?

Daghall estrasse il medaglione, vide il suo luccichio debole accendersi in direzione dei resti di una tenda, il Mago avanzò rapido tra cenere e detriti, scansò a mani nude ciò che restava di coperte e paglia bruciata, annusò la polvere, ma non trovò nulla che potesse riferirsi alla Fiamma, neppure la presenza di cadaveri di eventuali Babbani che avessero tentato, incauti, di toccarla.

    È stata qui… per tanto tempo, è stata qui, ma è stata spostata, da Sheira o dal bambino... 

Cercò tracce a terra per capire in quale direzione andare e notò un odore che lo lasciò interdetto: nonostante tutto fosse ricoperto di cenere e intriso di fumo, l'odore metallico, che sentiva attorno a sé, era chiaro segno della presenza di sangue, tanto sangue, qualcuno in quella tenda era stato ferito ma, non essendoci nessun corpo nei dintorni, doveva essere stato spostato e, soprattutto, doveva aver lasciato tracce, che ora doveva trovare e che poteva seguire. Incoraggiato da un primo segno, Daghall puntò la bacchetta a terra e cercò e quando infine le trovò, tanto sottili da essere quasi invisibili al buio, ringraziò gli dei perché senza la sua bacchetta, non ci sarebbe mai riuscito.
Un tuono squassò le tenebre e, pochi istanti dopo, violenta, la pioggia si abbatté sulla foresta: Daghall ne era lieto, perché avrebbe spento rapidamente gli ultimi focolai d’incendio, d'altra parte, sarebbe stato più difficile ritrovare le tracce da seguire, se l'acqua avesse sciolto il sangue. Iniziò a camminare lentamente, intento ad ascoltare ogni suono attorno a sé, vigile contro eventuali minacce nascoste e attento a non scivolare sul terreno che diventava fango, tutto proteso a cercare le ultime stille rubino sulle foglie, inzuppato come se fosse caduto nel fiume. All’improvviso, dal fogliame, vide emergere un piede: si acquattò, in allerta, scivolò tra i cespugli, scostò delicatamente le foglie per vedere chi avesse di fronte e subito sentì la cena e il vino della sera precedente forzargli lo stomaco, imperiose, tanto da costringerlo a rigettare. Si portò la mano al naso per non sentire più il fetore e non rigettare ancora: lo spettacolo, o meglio lo scempio, che aveva di fronte era così improvviso, orribile e devastante che si sentì smarrito come quando, a otto anni, aveva visto il primo morto ammazzato della sua vita; solo in seguito, corpi a pezzi e orrendamente mutilati erano diventati la norma, per lui, e per cinque lunghi anni non aveva visto altro. In quel momento, sconvolto dalla debolezza che l’aveva travolto, si rese conto di aver vissuto per dieci anni in una bolla ovattata, la vita comoda delle Terre l'aveva cambiato e rammollito. Smise di filosofeggiare e studiò il corpo: era un Babbano, un fante privo di armature difensive, non era morto per una ferita da battaglia, ma dissanguato per uno squarcio alla gola, forse il morso di un lupo; del suo equipaggiamento restava solo una faretra: Daghall si chinò e si rifornì di frecce. Il Mago procedette, la bacchetta nella destra e gli occhi fissi sul medaglione, il cui luccichio era sempre più flebile. Camminò a lungo, ovunque vide i segni del passaggio degli uomini armati, ovunque la pioggia spegneva gli ultimi roghi: la foresta soffriva per l'inferno di fuoco, da ogni parte emergevano cadaveri di soldati mutilati, per lo più attaccati al ventre e al collo. Nella foresta, per qualche motivo incomprensibile, i lupi avevano fatto strage di uomini. Daghall, però, pensò seriamente a un intervento della Magia solo quando vide un uomo orribilmente sfigurato e mutilato dai numerosi morsi di serpente, che si erano accaniti selvaggiamente su tutto il suo corpo (9).

    I serpenti veri, che io sappia, dormono, di notte… 

Pronunciò un incantesimo di Disillusione, per sicurezza, e riprese a camminare sotto la pioggia.

*

Quando l’aveva vista, tra le foglie cadute, per alcuni istanti il Mago si era illuso che la Strega fosse addormentata, tanta era la pace che irradiava dal suo volto. Non l’aveva mai vista prima, Daghall era solo un bambino di sette anni, che giocava sicuro e felice nel palazzo di suo padre, a Zennor, quando Sheira nic a'Thon era fuggita dal villaggio e dal suo destino, per inseguire la vita e l’amore, durante la festa di Samhain. In quei dieci anni, da quando era giunto nelle Terre, Daghall aveva immaginato in mille modi diversi il loro primo incontro: benché tutti parlassero male di lei, infatti, il Mago desiderava incontrarla, per dividere con la Sacerdotessa il proprio antico sapere.
   
    Invece il nostro primo e unico incontro è stato questo… 

Il Mago stava lì, sotto la pioggia, accosciato davanti al suo corpo, la osservava non sapeva neppure più da quanti minuti, attratto da quel bagliore luminoso che era ancora imprigionato nei suoi occhi. Non sapeva cosa fare: forse il vecchio avrebbe voluto darle una sepoltura degna del suo rango, al villaggio, ma sarebbe successo il finimondo, se l’avesse riportata indietro con sé.
   
    Alcuni, i soliti, arriverebbero persino a pensare e a dire che sono stato io a ridurti così... 

Daghall si sollevò, affondò le mani tra i capelli zuppi di pioggia e senza volerlo s’impiastrò la faccia di sangue. Tremò, ricordando il momento in cui aveva allungato la mano, per toccarla… Chiuse gli occhi, deglutì con difficoltà, cercando di soffocare e controllare l’odio che sentiva montargli dentro. Aveva capito subito che non avrebbe trovato sulla Strega ferite visibili, tutta la parte inferiore delle sue vesti era impregnata di sangue e Daghall aveva imparato fin troppo bene, da bambino, negli anni della guerra, il significato di “quel” sangue, aveva visto un'infinità di donne morire in quel modo, uccise dalla peggiore e più umiliante delle violenze. Sentì l'odio librarsi in lui, un odio antico, un odio che non aveva mai smesso di provare, si voltò contro il bastardo che l’aveva uccisa, il suo corpo decapitato (10) giaceva a pochi passi da lei. Daghall estrasse la bacchetta e con le lacrime agli occhi ruggì l’incantesimo con cui diede alle fiamme quel mostro: lo vide bruciare, lo vide scomporsi, ma la rabbia e il dolore, dentro di lui, non si placavano ancora.

    Non si placheranno mai… non mi placherò mai… 

Si voltò, non voleva vedere, respirò profondamente, cercò di contenere la rabbia e dare un senso al dolore. Fece un incantesimo alla terra, perché una porzione si asciugasse, estrasse il mantello dalla sacca magica e lo stese, si avvicinò alla Strega, la sollevò, asciugò il suo corpo e i suoi capelli con la Magia, trasfigurò le sue vesti lacere e sporche in una toga simile a quella che indossava sua madre, l’ultima volta che l’aveva vista, annodò i suoi capelli nella stessa foggia. Infine, sconvolto al pensiero di non essere riuscito a fare tutto questo per la donna che l’aveva messo al mondo, la avvolse nel mantello. Si guardò intorno, vide una robusta quercia adatta ai suoi scopi, appoggiò le mani sul tronco, pronunciò un’antica Magia delle sue terre, preoccupato che lì gli alberi non l’avrebbero ascoltato, se avesse parlato in lingua cornica. Con stupore, invece, vide le radici della quercia sollevarsi fino a creare un varco sufficiente a ospitare il corpo della donna.

    La lingua è diversa, ma siamo e restiamo Daur, figli delle querce…

    «Torna agli alberi che ti hanno creato, mia Signora; Madre Terra ti sia lieve e ti protegga… »

Con sorpresa, dopo aver deposto in quel luogo sicuro la Strega, le radici della quercia non tornarono ad affondare nel terreno. Nervoso, Daghall pensò a come trasportare in breve tempo terra sufficiente a sotterrarla, poi ricordò di aver già visto una quercia comportarsi così e, soprattutto, ne rammentò il motivo. Rapido, con la bacchetta in mano, iniziò a frugare tra i cespugli, invano, sempre più fradicio di pioggia, andò avanti in una porzione via via più ampia di terreno, trovando sempre più corpi di Babbani straziati, ma non quello che stava cercando. Daghall tornò sui suoi passi, fino all’uomo ucciso dai serpenti e lì, a poca distanza, trovò il corpo di Cormacc MacArtgal: dovette chinarsi a voltargli il capo, mettendo allo scoperto la Runa del collo, per riconoscerlo, perché il corpo del Mago era stato trafitto e colpito così tante volte che sul suo petto era ormai scomparsa ogni traccia della imperiosa Runa che doveva campeggiarvi.

    Per fortuna ti ho trovato… ora ti deporrò accanto a lei, altrimenti senza la tua Runa e senza la tua donna a indicarti la strada, avresti vagato nell’oblio oscuro per tutta l’eternità… 

Lo sollevò con difficoltà e lo portò alla quercia, non aveva un altro mantello con sé, con cui avvolgerne il corpo, riuscì, però, a trasfigurargli il poco che indossava e a creare un telo con le foglie di quercia, lo depose accanto alla sposa e, finalmente, le radici s’immersero nel terreno, celando e proteggendo i due sposi per sempre. Daghall sospirò, stanco ma soddisfatto e sollevato.

    Ciò significa che non è questo il posto per il resto della famiglia… i ragazzi sono vivi… 

Doveva essere accaduto di tutto, quella notte: l'uomo forse era rimasto indietro a coprire la fuga della sua famiglia, ma la Strega era stata catturata e aggredita e quando il Mago se ne era accorto, aveva decapitato il Babbano, senza avere però il tempo di salvarla, né di salvare se stesso. La sua furia e il suo dolore bastavano a spiegare i serpenti svegli nella notte e la ferocia dei lupi. In tutto questo, i due ragazzi ce l’avevano fatta e ora, in fuga, erano nascosti con Habarcat, nella foresta.

    Vi troverò... tornerò indietro e sorvolerò la foresta. Col medaglione, riuscirò a trovarvi! DEVO!

*

    «Qualsiasi cosa accada, non farti sottrarre la Fiamma e il moccioso! Hai capito?»
    «Mi credete un idiota, Padraig? Vado per questo! Porterò altri Ippogrifi per la famiglia... »
    «No... gli altri non verranno!»
    «Cosa diavolo state architettando? Avete sentito, l’ho appena giurato al vecchio!»
    «Il Consiglio non vuole che Sheira e Cormacc ritornino: hanno tradito, devono pagare. Per rispetto verso Thon, nessuno ha mai tradotto le parole in atti; ora, però, il Destino ha deciso che Sheira muoia: accettiamo la sua volontà e otterremo giustizia, senza neanche sporcarci le mani!»
    «E il ragazzo? Quello che dovremmo portare qui tra un mese? Quali colpe dovrebbe scontare quell'innocente, di grazia?»
    «Un solo ramo, ricordi? Un solo ramo! Il loro Destino è sempre stato quello… »
    «NO! Voi lo vorreste morto per opporvi a ciò che le Profezie dicono di lui… Due figli: uno sarà Custode della Fiamma, l’altro il più grande Mago di tutti i tempi… Non lo farò, non m’interessa la volontà del Consiglio, non agirò contro il vecchio! Sapete cosa penso, Padraig? Che sia la vostra brillante idea, la sciagura su cui ci mette in guardia Marte: non c’è nessun pericolo da cui salvarli, nella foresta, sono io che, andando a prendere solo il bambino e Habarcat potrei scatenare la furia di Sheira, del marito e di suo figlio contro tutti noi! Io non provocherò la vostra guerra!»
    «Vedo che inizi a capire per quale motivo tutti gli altri devono per forza morire… Senza la morte di sua madre, il figlio non può diventare il nuovo Custode, non prima dei 16 anni!»
    «Io non intendo essere la mano del “Vostro Destino”, Padraig…»

*

Daghall si sentiva svuotato: la ricerca non stava portando a niente, i ragazzi sembravano spariti, Habarcat non dava segni della propria presenza. La realtà che si era trovato di fronte raggiungendo la radura era ben diversa dalle idee che aveva all’inizio, aveva creduto sinceramente che il problema fosse solo la follia di Padraig, che sarebbe bastato parlare con la Strega del desiderio del Vecchio di conoscere il nipote, per disinnescare la tensione, aveva sperato in cuor suo, nonostante le parole del Saggio Padraig, di poter mantenere il giuramento fatto al vecchio, riportando indietro Sheira e la sua famiglia. Invece… Non riusciva a sopportare l’idea che la Strega fosse morta, non voleva dire al vecchio che non era riuscito a mantenere la promessa.

    Un’altra promessa mancata… 

Il Mago stava tornando indietro, rapido, verso la radura, deciso a controllare la foresta dall’alto in sella a Heliantòs, quando un grido gli fece accapponare la pelle, immobilizzandolo dove si trovava. Era ormai a metà del sentiero, in discesa, diretto verso il fiume: si gettò a terra, nascondendosi tra i cespugli, mentre il terreno vibrava e l’urlo che aveva travolto il bosco silenzioso si ripeteva, si moltiplicava, avvicinandosi, in una cacofonia caotica che sembrava sempre più terrificante.

    Centauri arrabbiati… e visto che cosa è avvenuto qui stanotte, non hanno tutti i torti… 

Il Mago pronunciò di nuovo l’incantesimo di Disillusione e avanzò in direzione delle urla, lo scalpiccio era passato a poca distanza da dove si trovava e pareva diretto verso il fiume: doveva trattarsi di almeno una dozzina di esemplari e il baccano che avevano prodotto era stato tale che Daghall non aveva capito nulla di cosa si stessero urlando. Protetto dall’incantesimo, rassicurato dalle vibrazioni e dai suoni che non ci fossero altri Centauri sulla scia dei primi, seguì le tracce lasciate, lanciandosi all’inseguimento, la mano sinistra intorno alla bacchetta e la destra pronta sul pomolo della daga. Improvvise le urla ripresero, sembrava che si fossero fermati, il Mago pronunciò un incantesimo silenzioso, per attutire il suono dei suoi passi nella boscaglia. Fu rapido, troppo: quando, di corsa, lasciò il sentiero tracciato per immergersi nella boscaglia più fitta e il bosco si aprì all’improvviso sullo strapiombo sotto di lui, riuscì a non precipitare di sotto solo per miracolo. Trattenne un urlo di terrore quando i piedi slittarono sul terreno viscido, trascinandolo a terra. Veloce, con la forza della disperazione, aveva intrecciato la bacchetta a un groviglio di rampicanti ma con la coda dell’occhio aveva visto le sottili radici sfilarsi dal terreno velocemente, una dopo l’altra. Allora, mentre ondeggiava pericolosamente nel vuoto con le gambe e buona parte del busto, sguainò la daga e con tutta la forza e il fiato che gli restavano scattò e fece ruotare il braccio, conficcando profondamente la lama nel terreno. Servendosi della Magia, cercò di aumentare il più possibile la resistenza e la compattezza del terreno, così che la daga non si sfilasse, e facendosi forza sulle braccia e sforzando il fiato fin quasi a sputare i polmoni, riuscì a tirarsi su, al sicuro. Restò bocconi a terra, per secondi interminabili, cercando di riprendere fiato, il cuore che pompava così veloce da fargli temere che stesse per scoppiargli.

    Maledetta pioggia!

Fradicio e infreddolito, inzaccherato di fango, esausto, Daghall si mosse tra gli alberi fino a portarsi a breve distanza dalle voci, si addossò di schiena contro una quercia, il fiato ancora corto, appoggiò la testa, non riusciva a vederli ma ora poteva ascoltare i loro discorsi. Cercò di regolarizzare il respiro e pregò tra sé che tutto questo non fosse solo una perdita di tempo.

    «Maledetti… sudicie, immonde bestie! L’avete fatto scappare! È tutta colpa vostra!»

Daghall scattò subito, attento, riconoscendo una voce umana tra le grida bellicose degli ibridi.

    «Silenzio! La tua razza ha causato gli orrori di questa notte… Avevate preso un impegno!»
    «Stupidi, stupidi mostri, lasciatemi! Devo ucciderli! Lasciatemi andare, immediatamente!»
    «Per averci tradito, noi ti condanniamo, figlio di Daur, a… »
    «Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh»

La freccia attraversò rapida l’aria e andò a conficcarsi nel quarto posteriore del Centauro più arretrato: il cerchio degli ibridi vibrò e si frammentò, sorpresi i Centauri si voltarono, si guardarono intorno senza capire, finché Daghall uscì dalla boscaglia, l’arco teso nelle mani, la seconda freccia già incoccata, pronta per un nuovo lancio, avanzando sicuro e minaccioso.

    «Lasciatelo andare! Adesso!»

Quattro Centauri si staccarono dal gruppo, andandogli contro, altri due soccorsero il compagno ferito: Daghall scoccò la seconda freccia che colpì uno dei quattro assalitori alla zampa anteriore destra, scoccò altri due dardi di avvertimento prima di lasciare l’arco ed estrarre la daga, tenendo intanto la bacchetta nella mano destra e lanciando incantesimi a terra per far arretrare gli ibridi.

    «Fermatevi! Adesso! Lasciate il ragazzo a me! Ora! Fermatevi vi ho detto!»

Non ottenne risultato: il suo sguardo spaziò nella luce livida del mattino e vide il figlio maggiore di Sheira vicinissimo al baratro, era ferito, aveva una freccia ancora piantata sul braccio destro e la lunga catena di una mazza chiodata dei Babbani gli teneva strette le mani dietro la schiena, il volto era pieno di lividi e graffi, sanguinava copiosamente da uno zigomo. Nonostante tutto questo, lottava come una tigre per liberarsi dalla presa del suo carceriere al punto che, approfittando della confusione creata da Daghall, con uno strattone, riuscì a liberarsi e a scappare tra gli alberi.

    «Prendetelo!»
    «Lasciatelo andare!»

I tre Centauri rimasti furono addosso a Daghall, s’impennarono e cercarono di caricarlo con gli zoccoli da tre diverse angolazioni, il Mago lanciò un incantesimo che mirava a sbilanciarli, uno dei tre cadde all’indietro, Daghall colpì ancora e l’ibrido si ritrovò con una zampa rotta, annaspava disperatamente, cercando, invano, di rimettersi in piedi. Il Mago sentì un sibilo, si acquattò all’ultimo istante, in tempo per non farsi centrare alla tempia: con la coda dell’occhio vide avvicinarsi da sinistra un’altra decina di Centauri, pronti, con archi e frecce, alcuni avevano anche delle spade strappate ai Babbani, li vide caricare e slanciarglisi addosso. Daghall puntò la bacchetta davanti a sé, i Centauri si disposero in un ampio cerchio per aumentare la superficie che avrebbe dovuto colpire, il Mago, però, a sorpresa, levò la mano a destra e il Centauro che gli era più vicino si ritrovò a scalciare a terra, avvinghiato da rampicanti che gli serrarono con forza le braccia e le zampe. Apertosi un varco con l’astuzia, Daghall corse in quella direzione, non solo per fuggire ma anche per vedere cosa ne fosse del figlio della Strega. Dietro di lui, sentì gli zoccoli scalpicciare all’inseguimento: Daghall iniziava a essere stanco della loro ostinazione, non aveva intenzione di battersi e non poteva perdere altro tempo con loro. Levò la bacchetta, a destra e a sinistra, e una ventina di rami si staccò dagli alberi e crollò a terra, creando una barriera di legna alle sue spalle, non prima di aver colpito e tramortito un buon numero di Centauri. Daghall continuò a correre, lasciando dietro di sé la boscaglia scossa dalle urla degli ibridi feriti. Era riuscito a rallentare il grosso degli inseguitori e aumentato il vantaggio, ma altri Centauri, che prima inseguivano solo il ragazzo, ora si erano messi sulla sua scia.

    Questo significa che, per lo meno, sto andando ancora nella direzione giusta…

Fece altre due volte lo scherzo dei rami, ma gli ibridi non erano più impreparati, ora si muovevano zigzagando e non erano più ammassati ma disposti ad ampio raggio dietro di lui, sempre più vicini, rassicurati anche dal fatto che i suoi attacchi mirassero a rallentarli ma non a ucciderli.

    Voi invece sareste pronti a gettarmi di sotto, se riusciste a mettermi le mani addosso…

Sentì altre urla, davanti a sé, cercò di fare più in fretta, il ragazzo era stato raggiunto: legato, privo di forze, ferito, forse il figlio di Sheira non riusciva a concentrarsi abbastanza da evocare la sua Magia e difendersi. Non poteva lasciare che lo prendessero e gli facessero del male, era ciò che restava della famiglia del Venerabile, l’unico che forse sapesse qualcosa su Habarcat e il bambino. Daghall prese la sua decisione, sospirò profondamente, abbassò gli occhi a terra, poi si fermò, si voltò e si limitò ad alzare la mano, mentre la sua bocca si contorceva in un ghigno strano e la sua lingua recitava un incantesimo oscuro: i Centauri che lo inseguivano crollarono a terra, le loro zampe sembravano non contenere più ossa in grado di sorreggere il loro peso. Uno di loro, annaspando, nonostante tutto riuscì a tendere l’arco e incoccare la freccia, tirò e per poco non prese in pieno il Mago, ferendolo di striscio al collo: Daghall li credeva ormai incapaci di reagire, invece sentì il sangue fluirgli caldo sul collo e la vista annebbiarsi, sollevò la mano e la portò poco sotto la Runa, incredulo la ritirò intrisa di sangue. Il Mago alzò di nuovo la mano e i Centauri stavolta persero anche il controllo delle proprie braccia. Poi si avvicinò all’ibrido che l’aveva ferito, quello iniziò ad agitarsi, minacciandolo, ma Daghall rimase impassibile, lo prese per i capelli con la sinistra e lo sollevò un poco, esponendo per bene il collo, quindi gli fece scivolare lentamente la lama da sinistra a destra sulla gola, in profondità, inzuppandosi da capo a piedi del sangue della bestia, fino a rimanere con la sua testa in mano, sotto gli occhi terrorizzati degli altri Centauri, increduli davanti a quella morte improvvisa e insensata.

    «Al tramonto avrebbe recuperato l’uso dei propri arti, come tutti voi… Siete stai voi, è stato lui, a costringermi... »

Si voltò, riprese a correre, voleva raggiungere il ragazzo e salvarlo: dietro di lui, la foresta si riempì dei pianti e delle maledizioni dei Centauri. Piangevano Magorian, primogenito di Banrigh.

*

    «… Non intendo essere la mano del “vostro Destino”, Padraig… Ho fatto un giuramento! Qualsiasi cosa vada contro la volontà del Venerabile… è un vile tradimento!»
    «Tradimento… se non erro, è usanza della tua gente, dico bene? Per questo sei orfano... perché da voi i fratelli tradiscono i fratelli, i figli i padri... Se stessi ordendo un complotto, pensi che potrei affidarmi a un uomo come te, che ha il tradimento nel sangue, Daghall? Non sono così sciocco: ti farei controllare dai miei uomini o ti farei tagliare la gola nel sonno. Invece, poiché ho a cuore la Confraternita e la buona riuscita della missione, intendo aiutarti… iniziando col ridarti questa… »

Padraig aveva scostato un lembo del mantello e dall'ampia tunica aveva estratto una bacchetta di ebano. Il Nero aveva sentito il proprio respiro sospendersi, il cuore accelerare, la testa turbinare, aveva fissato con desiderio la superficie lucida del bastoncino: dopo dieci anni rivedeva la bacchetta che gli aveva donato suo padre al compimento degli undici anni, unico ricordo della sua infanzia, oltre a Heliantòs, con cui era fuggito dal suo Kernow. Aveva sentito risuonare nelle orecchie la voce di Attius, mentre lo spingeva sull'Ippogrifo e gli stringeva la bacchetta tra le dita.

    “Mai, per nessun motivo, dovrai permettere a qualcuno di privarti della tua bacchetta!”
    “Farò ogni cosa in mio potere, per difendere la bacchetta di mio padre, Attius, lo giuro!”

Daghall credeva di averla persa in volo, di non aver saputo mantenere neppure quella, insieme a tante altre promesse fatte a suo padre. Aveva pianto tutte le sue lacrime, per quella bacchetta, perderla era stato rivivere lo strazio del suo popolo. Il senso di colpa gli aveva tolto il sonno e gli incubi l'avevano perseguitato. Tutto questo era durato anni. E Padraig… Padraig sapeva tutto... era responsabile di tutto...

    «Maledetto, sporco ladro! Come hai potuto… come… »
    «Ho viaggiato, straniero, so quanto valore hanno questi stupidi pezzi di legno per quelli come te. Io ti renderò la Bacchetta e tu farai quello che ti ho chiesto, così la voce di tuo padre smetterà di tormentarti, accusandoti di aver dimenticato chi sei e il suo nome… »
    «Voi siete un pazzo, Padraig… Io non sono in vendita!»
    «Molto bene... chiederò a qualcun altro di aiutarmi, allora… Se è questo ciò che vuoi... »

Padraig aveva preso la bacchetta con entrambe le mani, aveva premuto i pollici al centro, Daghall l’aveva vista incurvarsi sempre più, pericolosamente: non poteva pensare, figurarsi vedere l'unica eredità di suo padre ridotta in pezzi, sarebbe stato peggio di una pugnalata al cuore. Così, quando non aveva ancora deciso come comportarsi, aveva sentito la propria voce supplicare “Non fatelo!” e la sua mano era corsa a strappare il legno dalle mani del Saggio: il bastardo l’aveva deriso, vittorioso, certo di averlo piegato. Daghall aveva guardato l'ebano lucido tra le sue dita: la bacchetta, nelle sue mani di adulto, non sembrava più tanto grande e imperiosa. Non sembrava più nemmeno la stessa. Era lei, però. Era lei: gli fu sufficiente stringerla nel pugno, per sentire la forza che ricordava, quell'unione perfetta e unica che lega un Mago al legno che l'ha scelto.

    «Sapevo che avresti fatto la cosa giusta… tutti hanno un prezzo e tu non sei diverso dagli altri. Prenderai il bambino, gli farai portar via la Fiamma e sistemerai tutto, come va fatto! Portamelo alla spiaggia, ti aspetterò fino al tramonto. Non qui, hai capito? Alla spiaggia… E se stessi pensando di fare il furbo, straniero, se pensassi di svignartela… ricorda che mi occupo io del Venerabile e che a un uomo di quell’età, così debole e anziano, può facilmente capitare di tutto…»

Daghall aveva stretto forte la bacchetta, la rabbia stava montando in lui con violenza; presto gli sarebbe saltato alla gola, senza curarsi più delle conseguenze delle proprie azioni. Si conosceva.

    «Anche a te può capitare qualcosa di grave, Padraig, di molto grave. Lo sai, vero?»
    «Lo so. È per questo che ringrazio gli dei di dover provvedere solo a me stesso, al contrario di… altri… Conosco i tuoi segreti e le tue debolezze, figlio di Zennor… sai… Padraig di Árd Macha non taglia mai la gola a un uomo se… può tenerlo saldamente per le palle… Ahahahah… »

***

    «È ancora molto lontano?»
    «No, mio signore, siamo quasi arrivati… ora scenderemo questo scoglio a forma di cresta e saremo a destinazione… »

Avevano superato il varco nella roccia almeno un paio di ore prima e continuavano a camminare, in un saliscendi di scogli più o meno scivolosi e ampi tratti di spiaggia. A un certo punto, Daghall era persino entrato in una specie di grotta semi sommersa e ne era uscito con una macilenta barchetta, l’aveva aiutato a salire e aveva vogato per un tempo infinito. Cuilén era stato buono e tranquillo a osservarlo, ad ammirare i pesci che nuotavano vicino alla superficie, e soprattutto lo scenario che aveva di fronte, irte scogliere che si tuffavano in mare e ampie spiagge più o meno sabbiose e ricche d’insenature e grotte. Quando Daghall aveva portato a terra la barca, aveva puntato la bacchetta e quella era scomparsa, poi si erano incamminati, stavolta raggiungendo la boscaglia e percorrendo un ampio tratto nella frescura prima di ridiscendere lungo la scogliera.

    «Non potevamo volare fin qua, con Heliantòs?»
    «Ci sono le vedette e gli incantesimi, sulle alture. Non volevo che ci vedessero arrivare… »
    «Perché? E chi è che vuole conoscermi?»
    «Tutti vi vogliono conoscere, mio signore… qualcuno ha più fretta di altri… »

Cuilén lo guardò senza capire e continuò a camminare, sbuffando per il male a un piede.

    «Voglio la mia mamma… »
    «Lo so… tra poco arriveremo… Ascoltatemi, mio signore… mi raccomando ancora una volta… vi ho detto cosa vorrei che faceste quando saremo arrivati: è importante… »
    «Non devo parlare… devo far finta di avere sonno… tanto sonno… »
    «Esatto… non dite di Heliantòs, dei giochi con l’acqua e della piccola spiaggetta… »
    «Va bene… ma perché?»
    «Perché… quello è un posto segreto, mio signore… un segreto tra voi e me… se mi promettete di non dire nulla, io vi porterò ancora laggiù, ogni volta che lo vorrete… vi farò volare sul mare, in groppa a Heliantòs e v’insegnerò tutto ciò che vorrete… tutto… »
    «Allora… io non dico niente, così poi torniamo… domani! E portiamo anche Dòmnhall!»

Daghall abbassò gli occhi e bofonchiò piano.

    « Forse già domani, sì... »

Il bambino si lanciò contro le gambe del Mago, felice, poi tranquillo e speranzoso, gli diede la mano e scese ancora con lui tra gli scogli, fino a raggiungere un ultimo masso dietro al quale si apriva una profonda insenatura: lì la spiaggia era grande e sabbiosa, si estendeva a perdita d’occhio, per un ampio tratto pianeggiante, circondata dalla boscaglia. Cuilén pensò che lì sarebbe stato bellissimo costruire i castelli con Dòmnhall, quando aveva tempo, suo fratello riusciva a costruire con la poca sabbia del fiume delle forme bellissime, se avesse avuto in mano quella sabbia così fine…

    «Bentornato, Daghall… Ti aspettavo, impaziente... »

Il bambino si schermò gli occhi, il sole era quasi all’altezza della sua faccia, ormai, e non riusciva a vedere bene di chi fosse la voce che aveva chiamato il suo “salvatore”; nel punto estremo della spiaggia, a ridosso della scogliera e degli alberi, c’era una specie di catapecchia fatta di tronchi d'albero trascinati a riva dal mare e cortecce intrecciate. In piedi, accanto all’uscio, simile a un tronco pallido, c’era un uomo, avvolto in un mantello scuro, il cappuccio tirato su, a celare in buona parte la faccia. Seduta a terra, una donna sdentata, dai capelli gialli e scarmigliati e gli occhi vacui, tipici dell'età avanzata, stava rimestando qualcosa dal fetido odore dentro un calderone.

    «Molto bene, Daghall… ora avvicinatevi…  e digli di consegnarmi la Fiamma… »

 

*continua*



NdA:
1) Kernow: è l'antico nome cornico del Cornwall, o Cornovaglia se preferite. Tutti i nomi cercano di rispettare le provenienze geografiche, così ci sono nomi Irlandesi per i personaggi irlandesi, scozzesi per gli scozzesi e cornici per quelli della Cornovaglia. Più avanti vedrete dei nomi di origine "latina": ho immaginato che, anche nelle famiglie nobili magiche, non solo in quelle Babbane, nel pieno Medioevo, ci fosse ancora l'usanza di dare ai figli i nomi dei propri antenati.
2) Árd Macha: è il nome gaelico di Armagh, una cittadina dell'Irlanda del Nord, nota agli amanti di Merlin come città natale di Colin Morgan, interprete del giovane Mago...
3-4-5) Pietre Veggenti, Sorgente e "unico ramo" sono tre richiami alla storia madre, That Love:  le Pietre Veggenti sono citate spesso da Alshain Sherton come strumento di cui la sua famiglia si è servita e si serve per interpretare i segni e potenziare le abilità divinatorie in quei componenti della famiglia che son portati per la Divinazione, già ai tempi di Salazar, gli antenati degli Sherton possedevano questo strumento; la Sorgente è, come dice il nome, una fonte di acqua: la prima volta appare in un sogno di Alshain e sappiamo che le sue acque sono considerate "sacre" dalla Confraternita. Infine qui abbiamo il primo cenno della condanna "dell'unico ramo": la famiglia Sherton è sempre riuscita a salvarsi, nel corso della storia, generazione dopo generazione, dinanzi a ogni tipo di avversità, ma il prezzo da pagare è sempre stato una profonda "solitudine", non sono mai stati una famiglia numerosa e a ogni generazione, a portare avanti il nome e il sangue, è rimasto sempre e soltanto un unico figlio.
6-7-8) Sheira e Cormacc, Eoghan, Lugh: La storia di Sheira e Cormacc e altre info su personaggi e vicende si trova in questo capitolo.
9-10) L'uomo decapitato è Áed, signore di Glower, e l'uomo attaccato dai serpenti il suo scudiero Kenneth.
Ringrazio tutti per letture e commenti. A presto.

Valeria



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