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Finalmente mi decido
a pubblicare questa creaturina su EFP! L'ho scritta l'anno scorso e finita ad inizio anno - manca solo l'epilogo che ancora non ho
buttato giù, ma prima o poi verrà fuori! Spero sia di vostro gradimento, sono
molto affezionata a questa storia. :) Non vi chiedo
clemenza ma voglio sincerità, è un lavoro che ho portato avanti in due anni e
ci ho messo l'anima, per qualsiasi cosa, discrepanza, orrore, schifezza... beh,
fatemelo sapere.
Durante la
pubblicazione de La Vita Nova (titolo che ho
gentilmente preso in concessione dal Sommo Poeta Dante!) continuerò a scriverne
un'altra (senza pubblicarla, per ora), sempre sul nostro Fantasmone preferito (oltre finire le altre mille
mila fanfiction che ho attualmente in corso su questo
sito), un po' più contorta di questa e che mi sta facendo dannare et
deliziare... Spero di finirla prima della fine del mondo! XD
Prima di augurarvi
buona lettura vorrei ringraziare chi conosce già questa cosa, chi mi ha
supportato per mesi e chi sta ancora aspettando l'epilogo... Voi
sapete! :P
Ci si legge la
settimana prossima, con il primo vero capitolo!
Saluti,
Marta.
La Vita Nova.
Prologo.
La caccia alle
streghe era finita da tempo, ma le superstizioni sono
sempre state dure a morire.
Nella tradizione
popolare le donne con occhi verdi e capelli rossi erano considerate spesso e
volentieri delle streghe. Donne capaci di ammaliare, di incantare con un solo
sguardo, di creare strani intrugli magici che potevano guarire così come
uccidere.
E con quello
sguardo ammaliatore, l’espressione di chi la sapeva lunga e quel colore del
diavolo che le infiammava il volto, neanche lei era esonerata da quelle stupide
credenze. Non passava giorno in cui non ricevesse occhiate scettiche e
superstiziose, di persone che temevano anche solo incrociare il suo vivido
sguardo per paura che si vendicasse con qualche fattura od
incantesimo; le madri non volevano che i propri figli si avvicinassero a lei,
mentre si esibiva nei suoi piccoli spettacoli di strada per racimolare qualche
soldo e campare come poteva. Chi avrebbe mai voluto avere a che fare con una
figlia del diavolo, se non altri suoi pari? Però, com’erano curiosi quegli
individui che andavano da lei per comprare i suoi medicinali di erbe balsamiche
ed esotiche e a farsi leggere il futuro, sempre scettici quando si trattava di
una lettura buia ed oscura, e contenti quando invece
gli si prospettava davanti prosperità e felicità. Gli si poteva raccontare di
tutto e loro vi avrebbero creduto.
Proprio come ancora
credevano alle streghe ed ai fantasmi.
Ma
lei non si curava di quello che la gente comune pensava sul suo conto. Non
l’aveva mai fatto, ne era sua intenzione iniziare a farsi problemi proprio ora,
finché nessuno la obbligava a difendersi. Era nata e cresciuta tra gli zingari,
senza una casa fissa, senza l’affetto dei genitori, arrestati e condannati a
morte per un’infondata accusa di omicidio, ma tra le cure della sua unica
parente che conosceva, la nonna, e in compagnia dei suoi “fratelli”, o così si
chiamavano tra di loro gli altri nomadi. Non aveva una città natale, né un
compleanno da festeggiare; non aveva uncognome o un riconoscimento familiare, ma solo un soprannome
datole dalla sua comunità e che era tutto un programma; non aveva un futuro, ma
poteva solo sognarlo; né aveva la speranza di riscattarsi da una vita che ormai
le andava stretta ma che doveva tenersi per poter sopravvivere.
«Maman, perché
quella signora ha i capelli di quel colore?»
La giovane zingara
alzò lo sguardo smeraldino sul bel bimbo che la guardava curiosa, indicandola
con un dito e strattonando la mamma per una manica dell’abito, cercando di
ottenere la sua attenzione. Gli sorrise dolcemente,
senza malizia alcuna. Non era sua intenzione spaventare i bambini che
manifestavano tutta quella curiosità nei suoi confronti, ma era ovvio che
quella sua espressione veniva sempre mal interpretata
dalle madri.
«Vieni, piccolo mio, allontanati. Non guardare mai negli occhi le
donne come lei, ricordalo.»
«Perché, Maman?»
«Perché quella è
una strega!»
Una strega...
Quella parolina magica che sentiva quando ancora era
piccola, quanto timore metteva addosso a chi la pronunciava! Sempre un sottile
sussurro che volava via nell’aria insieme al vento, provocando brividi di
timore ed apprensione. Che sciocchezze.
La zingara scosse
la testa, riportando la sua attenzione sulla borsa sghemba che aveva poggiato
per terra con la speranza che qualche anima pia la riempisse di monete. Contò
solo qualche franco, che fece in fretta a nascondere in tasca, e ritirò i suoi
pochi averi dall’angolino di strada in cui stava sempre: un mazzo di tarocchi,
qualche fazzoletto colorato per giochi di illusionismo
e il suo tamburello per le danze. Faceva quella vita da sempre, ma in cuor suo
sperava di poter compiere il salto, anche nel vuoto, pur di ritirarsi dal mondo
della strada. Cosa non avrebbe dato pur di ottenere un lavoro normale come una
comune cittadina francese! Peccato, davvero peccato che ogni volta che avesse
provato a cercarne uno, anche solo come semplice domestica, l'avessero sempre rifiutata di netto, togliendo fuori la scusa
che non avevano bisogno di altro aiuto. Oh sì, erano spaventati da lei;
temevano che potesse compiere furti, che potesse
sparire con qualche bambino, che potesse sedurre con il suo sguardo il padrone
di casa, che potesse addirittura fare qualche incantesimo! Le donne come lei portavano sfortuna e brutti avvenimenti, dicevano.
Sciocchezze ed ancora sciocchezze.
Così doveva
continuare con i suoi spettacoletti agli angoli delle strade, con la vana
speranza di attirare l'attenzione dei passanti e di guadagnare un po'.
Anche volendo, la
giovane non passava inosservata, non solo per il suo particolare colore di
capelli e il luccichio sinistro dei suoi occhi, ma anche per la vivacità degli
abiti che indossava: viola, verdi, rossi, gialli... tutte tonalità allegre e
cangianti, di vestiti trovati tra l’immondizia o abbandonati senza cura dalle
domestiche delle dame di Parigi. L’ultimo “acquisto” che aveva fatto era un
corpetto smeraldino, come i suoi occhi, che nascondeva in parte una camicia
color panna, sboccata e larga, e una gonna che le ricadeva sulle gambe sgonfia,
di un blu scuro, con decorazioni e rifiniture gialle. Dove l’aveva trovato? Steso da settimane nella lavanderia a cielo aperto di una casa in
periferia. Quale spreco lasciarlo lì tra le intemperie, a rovinarsi al
freddo e al vento!
I suoi passi
cadenzati e lenti risuonavano sulle strade ciottolate e polverose della città, che
pian piano si stava ritirando nelle proprie abitazioni per cenare, chi con
sontuosi pasti, tra chiacchiere e risate, chi con un solo pezzo di pane andato
a male, nel silenzio e nella desolazione, come lei. Non abitava più nella
comunità dei suoi fratelli da un paio
d’anni, ormai. Non perché disdegnasse la loro compagnia, anzi: qualche tempo
prima passava spesso a trovarli per scambiare qualche chiacchiera e qualche
novità, ma non si tratteneva mai troppo. Si era resa conto che, per quanto la
rispettassero e provassero per lei un particolare affetto, avevano in ogni caso
scetticismo nei suoi confronti. Ebbene sì, anche quella che doveva essere la
sua famiglia aveva paura di lei. Buffo, no? Per non parlare delle complicazioni
di altra natura che erano sorte col tempo e che al solo ricordo le facevano
venire il voltastomaco. Era meglio perderle certe persone, piuttosto che
trovarle.
La sua momentanea
casa si trovava in periferia, in un mulino diroccato ed
abbandonato da tempo. Non era il massimo del confort, ma per lei rappresentava
già l’esempio migliore di abitazione. Aveva un cuscino di paglia coperto da
alcune lenzuola logore su cui dormire, un mobile sghembo di legno mangiato dai
tarli come tavolo e una latrina rudimentale per le sue esigenze. Meglio di così
come poteva andare?
A pochi passi
dall’allungare la mano sulla porta d’ingresso, la giovane si bloccò
immediatamente, capendo che qualcosa non andava. La soglia, infatti, era
socchiusa e lei non la lasciava mai aperta. Inoltre sentiva distintamente che
il suo gatto, un bel micio nero come la notte che le faceva sempre compagnia,
stava facendo le fusa, come se fosse coccolato.
C’era qualcuno lì
dentro, qualcuno che probabilmente non doveva esserci.
E lei non voleva
ospiti indesiderati.
Tirò fuori un coltello
da uno degli stivali e lo impugnò con decisione in mano. Chiunque fosse stato
nella sua abitazione non avrebbe fatto in tempo a vederla in viso, perché lo
avrebbe colpito prima ancora di poter fare qualcosa.
Era in quelle
occasioni che la vera strega che c’era in lei si mostrava in tutto il suo
splendore.
Quanto tempo era
passato dall’ultima volta in cui aveva avuto un tetto sicuro sopra la testa?
Giorni?
Settimane?
Mesi?
Neanche
lo ricordava. Perché non voleva
ricordare. Niente di tutto ciò che era stata la sua vita
valeva la pena di essere ricordato. Né quando la propria madre, inorridita
dalla sua creatura, l’aveva abbandonato in mano agli zingari; né il giorno del
suo primo omicidio, la sua folle ed agognata vendetta
sul suo aguzzino che lo picchiava e lo derideva davanti a decine di persone; né
quella ragazza mossa da pietà che lo aveva aiutato a scappare e gli aveva
trovato rifugio sotto quel teatro maledetto. Lo stesso teatro che aveva dato
inizio e fine a tutto. Era cresciuto nascosto alla società, nascosto alla vita,
come un reietto, emarginato solo per uno scherzo beffardo della natura. E lui,
come a farsi beffe di questo, era diventato un uomo, un uomo
geniale a dirla tutta. E lui ne era consapevole, certo: aveva costruito il suo
piccolo regno dal nulla, gli aveva dato vita, e aveva
dato vita anche al teatro stesso. Perché lui componeva, componeva musica che
dir sublime era poco, canzoni superbe ed ammaliatrici
che incantavano chiunque le ascoltasse.
Ma
lui non esisteva, lui per la società era un fantasma.
Poi era arrivata
lei, piccola e graziosa nel suo completino da ballerina, ma con una voce che
prometteva già tante speranze. E lui era diventato un angelo, il suoangelo. L’aveva confortata, ingannata forse, ma era grazie a
lui che la sua piccola musa era diventata ciò per cui ora era amata: una
cantante bravissima e sopraffina. Ma lei era anche troppo ingenua per capire quale sentimento lo spingesse ad insegnarle tutto
il suo sapere, a renderla la regina delle sue opere, a starle costantemente
dietro per proteggerla. E lui era totalmente accecato dalla passione e
dall’amore che provava per lei per rendersi conto che non gli era mai appartenuta, non come desiderava. Aveva ucciso, aveva
spaventato, gettato ulteriore fango sul suo nome, rischiato
di rovinarle l’esistenza solo perché non accettava che lei amasse un giovane
amico d’infanzia, bello e popolare, e non lui, un emarginato sfigurato che
viveva all’oscuro da tutti.
Quanto tempo era
passato da quel giorno? Non lo ricordava, ma sentiva che era troppo poco,
insufficiente per sbiadire il dolore che ancora provava forte e vivido, ogni
istante, come se fosse accaduto solo pochi attimi prima.
Aveva lasciato
l’Opera, la sua unica vera casa, per l’ignoto. Non poteva più restare lì; per
quanto sicuri fossero quei sotterranei con tutte le trappole che vi aveva disseminato, era stato tradito dall’unica persona al
mondo che aveva la sua piena fiducia e il suo piccolo mondo era stato profanato
e gettato al vento, con odio, con risentimento. Non avrebbe potuto continuare a
vivere lì, non con il dolore dei ricordi, sempre vivi ogni qualvolta spostasse
lo sguardo in ogni angolo, non con il timore di essere stanato in qualunque
momento ed essere condannato a morte.
Ma
perché rimaneva ancora così attaccato alla vita? Aveva per caso qualche ragione per cui valesse la pena continuare a nascondersi per
tenersi stretta l’unica cosa che odiava con tutto se stesso?
I fantasmi
continuano a vagare per il mondo dei vivi finché non risolvono le loro
questioni in sospeso...
Forse anche lui ne
aveva una? Non lo sapeva, non voleva saperlo.
Chiuso tra quelle
quattro mura sghembe, piene di spifferi, il tanto temuto Fantasma dell’Opera
sospirò, abbassando lo sguardo sul gattino nero che gli si era accovacciato
sulle gambe, per niente intimorito, anzi. Faceva anche le fusa ad ogni sua carezza!
«Non ti faccio
paura?», gli chiese, sarcastico, mentre il micio, dopo averlo guardato con i
suoi occhioni gialli, si rotolava sulla schiena, reclamando altre coccole.
Osservò l’ambiente
intorno a sé e si rese conto che quel posto era abitato. Una povera anima come
lui, forse, povera ed isolata dalla società perché
diversa. Non voleva disturbare chiunque fosse il padrone di quel vecchio
mulino, ma era l’unico posto che aveva trovato dopo giorni e giorni
di vagabondaggio per quelle campagne. Era stanco di girovagare nella speranza
di trovare riposo e alloggio, stanco di dover rubare il cibo perché non poteva
permettersi di spendere tutti i suoi soldi in un’accogliente locanda, temendo di
destare curiosità e di essere riconosciuto. A confronto, preferiva mille volte
la vita sotto il teatro, che quella. Lì, almeno, aveva un’identità, aveva una casa, aveva uno scopo, aveva le sue cose, la sua
musica.
Ora l’unica cosa
che poteva fare era trascinare se stesso affinché non
morisse prima del tempo.
La zingara sentì quelle quattro parole sussurrate nel vuoto, con una
nota di incredibile malinconia che per un attimo la
fecero desistere dall'attaccare l’estraneo, chiunque esso fosse. Il solo suono
di quella voce, profonda e calda, calma ma che stava intimamente gridando,
l’aveva bloccata con la mano a metà strada.
Non ti faccio paura?
Chi era quell’uomo che era entrato nella sua casa? E perché quella domanda
le sembrava tanto disperata?
Prese un bel respiro e, dimenticando la tristezza di quella voce e
tutte le ragioni che potessero esserci dietro, aprì di
scatto la porta, che sbatté contro la già precaria parete in legno, facendo
tremare tutto. L’uomo in questione era seduto sul suo letto, ma non sembrava
tanto sorpreso di trovarsela davanti, né spaventato per il pugnale che si
ritrovò puntato contro. Evidentemente l’aveva sentita arrivare; il tintinnio
dei tanti bracciali che teneva ai polsi, nel silenzio, risuonavano
come campane.
L'estraneo non mosse alcun muscolo, nonostante si sentì premere un
coltello sotto la gola, e si limitò a fissarla con occhi vacui, mentre una mano
guantata di nero continuava ad accarezzare il suo
gatto.
«Chi sei?», gli chiese senza troppe cerimonie, assottigliando gli
occhi. Il sole era già calato da un pezzo e non c’erano candele accese per
vedere bene chi si trovasse davanti. Riusciva solo a scorgere la sua imponente
sagoma accovacciata contro il muro e il bagliore sinistro dei suoi occhi
nell’ombra. «Parla, o ti taglio la gola.»
«Se volete non esitate a farlo, mademoiselle.
Ora come ora mi fareste solo un favore.»
La ragazza esitò, perplessa. Chi diavolo era
quello? Se prima l’adrenalina di dover affrontare un estraneo nella sua casa le
aveva provocato batticuore, ora era solo estremamente
incuriosita da quell’uomo. Sicuramente sapeva cosa dire e come dirlo per avere tutta l’attenzione su di sé. O per lo meno,
con lei c’era riuscito alla perfezione. E il suo tono deciso nel chiederle di
ucciderlo non aveva fatto altro che farla fremere di
più. Perché un uomo avrebbe dovuto volere una cosa simile da un’estranea? Lei,
per quanto avesse vissuto la sua giovane vita in
miseria e non certo in felicità, non aveva mai desiderato la morte, anzi. Era
convinta che prima o poi la vita le avrebbe dato ciò
che le spettava di diritto: un posto normale nella società.
«Chi sei?», ripeté, con più calma.
Le sembrò che l’uomo sorridesse amaramente, prima di risponderle.
«Veramente, mademoiselle, non lo so.»
La zingara alzò un sopracciglio. «No?»
«No. In realtà non l’ho mai saputo.», continuò
l’uomo, abbassando la voce in un suono roco e debole. «Però le poche persone
che hanno avuto a che fare con me mi hanno sempre chiamato Erik, se vi interessa saperlo.»
La giovane rimase immobile, mentre le parole di quell’estraneo le
risuonavano in mente. Anche lui senza un nome, anche lui senza famiglia... Aveva
provato scetticismo poco prima, ora era solo mossa da
un’immensa compassione. Gli era bastato sentire il dolore nella sua voce per
capire che fosse sinceramente distrutto.
«Erik.», ripeté, riponendo la sua arma nello stivale, sotto l’occhio
vigile dell’altro. «Perché sei qui?»
«Perché non ho dove andare. Non era mia intenzione profanare la vostra
casa.» L’uomo si alzò, mentre il gatto, contrariato,
emetteva un miagolio soffocato e balzava giù dalle sue gambe, andando a
strofinarsi contro quelle della sua padrona. Questa
non si fece intimorire dalla stazza dell’uomo, molto più alto e robusto di lei.
Un uomo che non voleva più vivere non poteva essere pericoloso.
«Puoi restare, non mi darai fastidio.», gli disse, andando verso un
ceppo di legname già arso in precedenza, che accese con un fiammifero,
riscaldando ed illuminando il mulino. Quando si voltò
a guardarlo alla luce delle fiamme danzanti, la giovane vide un uomo stanco e
spossato dalla vita, il volto nascosto per metà da una mezza maschera bianca
che gli copriva la parte destra - dove aveva già visto una cosa del genere? - e
ricoperto dalla barba di qualche giorno; i capelli erano sporchi e spettinati,
neri come il mantello in cui era avvolto; era molto alto e ben piazzato, ma ciò
che le mise veramente timore furono i suoi occhi. I suoi occhi erano sconvolgenti.
Vi poteva leggere di tutto: in quelle iridi chiare c’erano
tristezza, disperazione, pianti di ore che gli avevano solcato profondamente le
occhiaie. Doveva aver sofferto molto per essere in quelle condizioni. Pensò che
con un po’ più di cura quell’uomo sarebbe potuto essere veramente affascinante.
E quei suoi modi galanti nel rivolgersi a lei, una zingara, le fecero supporre
che un tempo fosse stato veramente un uomo di classe.
«Non ho molto da mangiare, spero che un po’ di pane e qualche frutto
possa bastarti.», disse la ragazza, riscuotendosi dai suoi pensieri. «Domani
andrò a cercare qualcosa in più.»
L’uomo chinò il capo, desolato. «Non dovete
disturbarvi così. Me ne andrò all’alba, non voglio crearvi problemi di alcun
tipo.»
«A meno che non sia un ricercato dai soldati,
non mi creerai alcun problema.» La giovane non si accorse dell’ombra che passò
negli occhi del suo ospite e gli indicò l’esterno con un cenno del capo. «Vai a darti una rinfrescata, amico. L’acqua che alimentava
questo mulino è fredda, ma almeno pulisce e rinvigorisce.»
Erik annuì, ringraziandola con lo sguardo e uscì al fresco della
serata, richiudendosi la porta alle spalle e poggiandosi sopra. Sospirò
pesantemente, maledicendo sé stesso e la sua vita. Se
quella povera e gentile ragazza avesse saputo chi veramente fosse non avrebbe
esitato a cacciarlo di malo modo, né a correre per
denunciarlo alla gendarmeria. Dal giorno dell’incendio era ufficialmente
ricercato come assassino e non poteva permettersi di rovinare un’ulteriore vita innocente solo perché doveva rifugiarsi da
qualche parte. Se ne sarebbe andato la mattina dopo,
prima che albeggiasse. Le avrebbe lasciato parte del suo denaro che lui non
poteva spendere per ringraziarla dell’ospitalità e si sarebbe dileguato nel
niente, come sempre.
Come un fantasma.
La zingara aveva appena finito di preparare un impacco di erbe mediche
per il suo ospite, per dargli sostanza e rinvigorirlo un poco, quando questo
apparve sulla soglia dopo la rinfrescata sul fiumiciattolo che scorreva lì. Si
era fatto prestare il suo coltello per rasarsi e ora il suo viso appariva più
luminoso e decisamente più sensuale. Sapeva
riconoscere la vera bellezza e quell’uomo ne era la prova vivente, con i suoi
lineamenti decisi e regolari, le labbra carnose ed ipnotizzanti,
e quegli occhi... Mai aveva visto occhi come quelli. Solitamente era lei che
lasciava interdetto chi la osservava, con il suo sguardo smeraldino e
involontariamente sensuale, ma quella volta si rese
conto che gli occhi di quell’uomo erano immensamente carichi di emozioni, di
qualunque tipo esse fossero; niente a che vedere con i suoi, particolari solo
per il loro colore inusuale.
L’unica cosa che la lasciava perplessa era quella mezza maschera che
nascondeva metà del suo volto. E ne aveva visto di individui
strani durante la sua vita, ma mai uno come lui. Non l’aveva tolta, nemmeno
dopo essersi rinfrescato, come se avesse avuto paura a farlo. Non osò chiedere
niente in proposito; sapeva come prendere determinati argomenti e poteva solo
immaginare che dietro quella maschera l’uomo di nome Erik stesse nascondendo
qualcosa. Qualcosa di doloroso, data l’ombra di tristezza che aveva in viso.
«Ti ho preparato una bevanda che ti farà sentire meglio e ti riempirà
lo stomaco come dopo un pasto normale.», gli disse, porgendogli una ciotola dal
contenuto scuro e non troppo invitante. «Non ha un buon sapore, ma ti farà
bene.»
Erik prese posto accanto a lei, prendendo ciò
che la giovane gli stava offrendo. «Grazie,
mademoiselle. Siete gentile.»
La ragazza, inconsapevolmente, arrossì
sotto quello sguardo inconsciamente attraente. Nessuno l’aveva mai guardata così
profondamente.
E lui se ne accorse, perché scostò velocemente l’attenzione da lei,
concentrandosi sulla sua “medicina”. Quella ragazza lo metteva stranamente a
disagio. Non solo per i suoi occhi grandi, dalla forma affilata e dal verde
smeraldo delle sue iridi, e neanche per il colore provocante dei suoi capelli,
ritirati in una disordinata treccia che lasciava sfuggire numerose ciocche
mosse sul viso scarno. Ciò che lo lasciava impacciato erano i suoi modi umili, nonostante avesse capito
che non aveva mai ricevuto educazione. Gli dava del tu come ad un vecchio amico, certo, e se avesse saputo con quale
rispetto e timore gli altri si rivolgevano a lui, qualche tempo prima,
sicuramente avrebbe cambiato tono. Ma, nonostante
tutto, l’aveva accolto come un fratello, lui, uno sconosciuto rigettato dalla
società. Non gli aveva fatto domande, né sul perché della sua condizione né
sulla maschera che portava in viso. E aveva la sgradevole sensazione che quella
donna sapesse leggergli la mente, scrutargli gli angoli più reconditi del suo
animo nero, ogni volta che lo guardava.
I suoi pensieri furono interrotti dalla testolina del gatto che
nuovamente gli si accoccolò tra le gambe, reclamando le carezze di poco prima.
«Gli piaci. Di solito gli ospiti li graffia
fino a farli scappare.», disse la giovane, mentre addentava un pezzo di pane.
«Potrei esserne gelosa, sappilo.»
Lui sorrise. «Come si chiama?» Quel gattino gli stava simpatico,
dopotutto. Quegli occhioni gialli che sembravano sorridere alle sue cure gli
mettevano addosso un’immensa tenerezza.
«Dante.», rispose lei, guardando il micio, nero come la notte che
stava calando velocemente. «Come il poeta.»
«Conoscete Dante Alighieri?» Erik si pentì subito di quella domanda
sciocca appena lo sguardo tagliente di lei lo trafisse come una lama.
«Mi sembri stupito, Erik. Forse una donna come me non può conoscere un
po’ di letteratura?»
«Non intendevo questo.», si affrettò a rispondere l’uomo, dispiaciuto.
«Non volevo offendervi.»
Lei si alzò, dirigendosi lentamente verso un mobiletto basso accanto
al letto di paglia. Ne aprì un’anta e tirò fuori un libro consumato e
impolverato, che accarezzò con cura e reverenza, come se fosse uno degli
oggetti più preziosi del mondo. «I miei genitori lo comprarono in un mercatino
dell’usato, quando ancora non ero nata.», disse, mostrando una vecchia edizione
de La Vita Nova,
dell’Alighieri. «E’ la loro unica cosa che mi è rimasta.»
Un pungolo di dispiacere colpì il cuore dell’uomo. Lui i suoi genitori
neanche li ricordava: un padre mai conosciuto, una madre che non osava nemmeno
farsi baciare da lui, inorridita dal suo aspetto mostruoso. «Come morirono?»
Gli occhi della ragazza s’indurirono. «Condannati a morte per l’accusa
di un omicidio che non avevano mai commesso.» La
giovane ripose il libro con cura dove l’aveva preso e
si poggiò con i palmi delle mani sul mobile, reprimendo la rabbia. «No. Non lo uccisero loro, quell’uomo. Non avrebbero mai
potuto fare una cosa del genere, non ne avrebbero avuto il motivo. Non erano
ben visti, specialmente mamma, perché... Beh, le
assomigliavo molto. Ma non sarebbe stata una ragione
valida.»
Il suo ospite inclinò il capo, cercando di guardarla meglio, anche se
gli dava le spalle. Non voleva portarle alla mente ricordi spiacevoli, ma la
curiosità a volte non riusciva proprio a frenarla.
Lei si accorse di quello sguardo che tacitamente le chiedeva di
continuare e prese un respiro più profondo degli altri prima di riprendere a
parlare. «La gendarmeria doveva trovare dei colpevoli, che lo fossero veramente
o meno. Non potevano certo andare in giro a raccontare
che il bambino che aveva commesso l’omicidio gli era scappato da sotto il naso.»
La gola di Erik si seccò all’istante, mentre ascoltava inerme quelle
parole. «Un... bambino?»
Lei annuì, stringendo i pugni. «Sì, un
ragazzino che era stato preso sotto le cure della mia famiglia. Io ero troppo
piccola per ricordarmelo, ma me l'hanno sempre
descritto come un mostro sfigurato, magro e brutto. Lo deridevano di fronte a
tutti per il suo aspetto, e per questo capisco il suo gesto. Anche
io avrei fatto la stessa cosa.»
Erik dovette far ricorso a tutto l'autocontrollo di cui disponeva pur
di non farsi scappare due lacrime che gli pungevano gli occhi.
«Lo capisco, ma non posso perdonarlo. Anche se non voleva, mi ha
rovinato la vita e ha stroncato quella dei miei.»,
continuò lei, con voce tremante. «Sai, ho fatto una
promessa. Se un giorno dovessi scoprire chi è stato, se questo bambino fosse
cresciuto e diventato adulto e io lo dovessi trovare...
Non esiterò a compiere il mio primo omicidio. Non m’importa se poi farò la
stessa loro fine, ma il sapore della vendetta dovrò provarlo, prima o poi, no?» Ed era vero: non aveva mai ucciso nessuno,
a differenza di altri suoi compagni che invece collezionavano furti e morti
come se niente fosse. Ma era sicura che prima o poi
avrebbe trovato il responsabile della rovina della sua vita, della morte dei
genitori. Era cresciuta senza sapere cosa volesse dire il calore di un
abbraccio materno, o la normale gelosia di un padre; era cresciuta senza
l'affetto di chi l'aveva messa al mondo, di chi l'amava
veramente per quello che era. Non avrebbe permesso di farla passare liscia a
quello che un tempo era solo un bambino e che aveva lavato via, con un solo
gesto, le vite dei suoi genitori. Sapeva aspettare,
lei. La pazienza e il saper mantenere rancore per anni era
uno dei suoi migliori pregi, e chi la conosceva questo lo sapeva bene.
Erik, nel frattempo, non riuscì a risponderle, troppo occupato a
convincersi che si trattava solo di una coincidenza, di una curiosissima coincidenza.
Un bambino di appena nove anni... Il volto
sfigurato, deriso... Il suo aguzzino... Un cappio stretto intorno al collo... Poi
la fuga, le urla, il dolore…
«Va tutto bene?», gli chiese la giovane, sedendosi nuovamente accanto
a lui. «Non volevo parlare di cose spiacevoli, non con una persona che mi
sembra averne passate di peggio.»
L’uomo nascose a stento un gemito di disappunto e finì di bere la sua
bevanda. «Sì, va tutto bene, mademoiselle. Grazie per
la vostra ospitalità.»
Lei sorrise, per la prima volta in tutta la serata. Per quanto fosse
triste e depresso, quell’uomo era buffo. Nessuno le aveva mai dato del voi
in segno così rispettoso, né l’avevano mai chiamata mademoiselle!
«Com’è?»
Erik posò la ciotola ormai vuota, corrugando la fronte e non riuscendo
a contenere una smorfia. «Un po’ aspra. Ma bevibile.»
«Faceva schifo, lo so.», rise lei, illuminandosi. «Ma
vedrai che domani ti sentirai meglio. Ora mangia un po’,
altrimenti mi collassi davanti agli occhi.»
Il suo ospite fece come gli aveva detto e lei lo osservò di sottecchi,
mentre mangiava con fame un’intera pagnotta e qualche mela matura. Le
dispiaceva non potergli offrire altro, ma era tutto quello che possedeva. Una
zingara come lei, del resto, non aveva niente se non il minimo indispensabile.
D’altra parte, Erik non riusciva a capacitarsi di quello che aveva
appena sentito. C’era solo un’altra prova che avrebbe potuto sfatare le sue
paure oppure fargli capire che le sue supposizioni erano purtroppo vere. Non si
era mai pentito del suo gesto, anzi. Per lui quello fu un atto dovuto, per
fuggire da quella condizione ridicola che Dio gli aveva affibbiato. Ma la
consapevolezza di avere davanti una vittima innocente
di quello che aveva fatto lo faceva stare male, più di quanto già non stesse.
«Come vi chiamate?», le domandò, lanciandole una fugace occhiata e
sperando che non pronunciasse mai quel nome che gli arrivò alla mente come uno
sbiadito ricordo.
La giovane sospirò, giocando distrattamente con il ciuffo finale della
sua treccia. «Non ho un nome, in realtà. E’ più un
appellativo.» Vedendo l’occhiata curiosa che il suo
ospite le riservò, decise di rispondergli con un sorriso provocatorio.
«Mi chiamano Phénix. La
Fenice. Indovina perché?», gli
chiese, sorridendo e indicandosi i capelli.
Non poteva sapere, però, che gli occhi di Erik si fecero grandi non
per la curiosità di quel nomignolo, ma perché si vide il mondo crollargli
addosso, come se già non dovesse portarsi dietro un peso più gravoso di lui.
Era lei, dunque, la bambina dai bellissimi occhi smeraldo e dai capelli rossi
che quegli zingari amavano chiamare così. Ricordava perfettamente i genitori di
quella piccola, così innamorati di lei, così desiderosi di vederla crescere nel
migliore dei modi, sebbene non avessero niente da darle; sempre così gentili
con lui, senza mai osare un commento di disprezzo nei suoi confronti. Ricordava
di come il resto degli zingari soleva guardarli con scetticismo e di come loro,
invece, continuavano la loro vita senza problemi. E ricordava
quel nome particolare solo per il bizzarro colore dei suoi capelli e la
diffidenza che alcuni di loro provavano nei confronti della madre e nei suoi,
sebbene fosse ancora solo una bambina di poco meno di due anni.
E lui, lui inconsapevolmente li aveva condannati quei genitori,
stroncando qualsiasi programma quella famiglia avesse, solo perché erroneamente
loro si trovavano lì in quel momento, solo perché lui era uno scherzo della
natura che voleva vendicarsi delle beffe che subiva ogni giorno. In realtà non
aveva mai saputo delle conseguenze di quel suo gesto, una volta isolatosi dal
mondo. E venirlo a sapere così, proprio da lei era l'ennesimo brutto scherzo
che la vita gli stava giocando.
Era lui il bambino che aveva ucciso, quel giorno.
E lei la bambina che aveva reso orfana.
Lei era la sua questione
in sospeso.
Continua...
Elby, carissima! E' un piacere rileggerti!
*_* Tranquilla, son sparita anche io, ti capisco
quando dici che ci sono cose che prosciugano tempo e forze, quindi non devi
scusarti! Ti concederò una seconda possibilità, accordato. ù_ù
XD
Ma passiamo alla recensione! *_* Son
così contenta che ti piaccia la donzella dai capelli rossi - anche
io ho un debole per i capelli di questo colore, o per questo colore a
prescindere, ecco! - e ho sempre amato le congetture che tempo fa si facevano sulle donne così (lo so, è una cosa orribile,
i roghi e tutto quanto, ma è affascinante!)... Non potevo pensare di creare un
altro personaggio alla Christine, altrimenti saremmo punto e a capo! :D E a proposito: non-Erik/Christine
forpresident!
Per quanto riguarda il " ...lo impugnò
con decisione in mano" hai ragionissima, mi è scappato! Son quei particolari
che effettivamente appesantiscono una frase, grazie per avermelo fatto notare. :)
Questo capitolo come ti è sembrato? L'avevi già letto? *smemorata mode on* Ho deciso di rendere subito di dominio
pubblico il mistero della storia (che ovviamente non sarà l'unico, altrimenti
che due palline!), perché ho pensato che sarebbe stato interessante che il
lettore sapesse, mentre i diretti interessati no. Sadica, lo so, ma mi diverto
torturare i personaggi delle mie storie così, capiscimi... Dovrò divertirmi un
po' anche io, no? :P
Ti ringrazio per i complimenti e per gli auguri, ricambio gli auguri per il tuo quasi-lavoro-dei-sogni!
*-* Ah, l'epilogo è finalmente nato, dopo mesi di travaglio... Era anche ora! Così posso dedicarmi alle altre mille mila
cose che ho in pentola, sperando che non brucino.
Non aveva chiuso occhio quella notte. Non solo perché aveva dovuto
dormire per terra, dato che aveva insistito tanto
affinché la ragazza dormisse sul suo letto, se così avrebbe potuto chiamarlo,
ma perché la scoperta che aveva appena fatto non gli dava pace. Non aveva mai
pensato che quel suo folle gesto, quel giorno, non solo avrebbe rovinato la sua
esistenza, ma anche quella di altre persone. Se solo la giovane Giry non
l’avesse portato via, se solo quella notte la gendarmeria l’avesse trovato,
quella ragazza ora avrebbe ancora avuto la sua famiglia, forse; non avrebbe
ucciso altre persone; non avrebbe spaventato a morte tutti coloro
che abitavano al PalaisGarnier; non
avrebbe rischiato di rovinare la vita della sua amata Christine, né quella del
Visconte.
Non sarebbe diventato ciò per cui tutti lo ricordavano e temevano: il
Fantasma dell’Opera.
Guardò la ragazza che dormiva dall’altra parte della stanza,
raggomitolata in posizione fetale, con il piccolo Dante accoccolato al suo
fianco. Sembrava che il ricordo dei suoi genitori non l’avesse toccata, almeno
non durante il sonno. Aveva un’espressione rilassata e distesa, e non riuscì a
non pensare che fosse cresciuta bene. Chissà, però, quanto dolore anche lei
aveva provato col tempo e quanto ancora ne provava a causa sua. Sempre e solo a
causa sua. Non c'era persona che avesse avuto a che fare con lui e che non
avesse sofferto per averlo conosciuto. Possibile che riuscisse solo a portare
dolore a chi gli stava intorno? Possibile che non potesse vivere una normale
vita senza che facesse del male, anche involontariamente?
Sì, sono proprio un mostro.
Un mostro... era così che lo chiamavano,
all'Opera. Un mostro, il Figlio del Diavolo. Colui che
aveva infestato il Teatro, che continuava a seminare il terrore tra le
ballerine e i manager, a minacciare chiunque se non avesse fatto quello che lui
comandava.
Aveva ingannato, sedotto, ucciso.
Era un mostro, dentro e fuori. Sentiva ancora vivide le urla di
terrore che avevano riempito la platea dell'Opera, quando la sua ingenua
Christine gli aveva tolto la maschera davanti a tutti. La maschera che
nascondeva la sua deformità, ciò che l'aveva condannato a vivere una vita
segregato sotto terra, lontano dal mondo, lontano da tutti. Il regalo peggiore
che Dio potesse fare ad un'anima dannata era spettato
a lui.
Oh, ricordava lo sguardo di compassione che aveva acquisito la giovane
cantante la prima volta che gli aveva visto il volto sfigurato. Compassione... L'ultima cosa che le avrebbe voluto vedere in viso. Non
voleva compassione, non voleva la pietà di nessuno!
Voleva solo essere accettato per quello che era, amato se non fosse significato
chiedere troppo per uno come lui.
Si girò sulla schiena, guardando il soffitto in
legno nella penombra. Non sarebbe rimasto lì, non ce la faceva. Sarebbe
scappato dal ricordo di Christine, di quella ragazza, da Parigi. Se ce l’avesse fatta avrebbe lasciato anche la Francia, per crearsi una
nuova identità, magari in Italia, magari a Venezia. Leggere di quella città
galleggiante sull'acqua l'aveva sempre affascinato. Forse lì avrebbe potuto
vivere una vita normale, rinascere finalmente, e riscattarsi di tutto il dolore
che aveva provato fino all'ora.
Quando si alzò dalla sua posizione per prendere l'uscita e andarsene
definitivamente, però, non aveva fatto i conti con il buio e con il fatto che
non ricordasse che davanti alla sua strada c'era in mezzo il tavolo. Ci andò a
sbattere contro, facendo cadere qualcosa per terra. Maledicendo la sua
stoltezza, si voltò verso la ragazza per vedere se l'avesse svegliata. Ed ebbe
un tuffo al cuore quando si accorse che i suoi occhioni vispi lo stavano
osservando.
«Dove vai?», gli domandò, con la voce impastata dal sonno.
«Via, lontano da qui.», disse, mentre raccoglieva ciò che aveva
mandato all'aria. «E' meglio così.»
Phénix si stropicciò gli occhi, assonnata, e
si mise a sedere, guardandolo curiosa. «Non è ancora l'alba, Erik.», disse,
reprimendo uno sbadiglio. «E poi ti ho detto che non
mi crei alcun disturbo. Mettiti a dormire, dai. Domani ne parliamo
meglio.»
Erik chinò il capo, chiudendo gli occhi per tranquillizzarsi un poco.
Quella donna gli scombussolava tutto il sangue freddo di cui era sempre andato
fiero. L'Erik di un tempo le avrebbe detto senza
troppi giri di parole di non impicciarsi negli affari suoi, sibilandole che lui
avrebbe fatto quello che più gli andava a genio. Ma la ragazza lo spiazzava con
la sua gentilezza e nel contempo la sua decisione, per
non parlare della consapevolezza di averle rovinato tutto, senza effettivamente
volerlo. Se solo avesse saputo…
Si voltò di scatto, quasi scottato quando sentì una mano della giovane
che prendeva la sua, trascinandolo verso il letto. «Tu
ora dormi qui. E non voglio sentire repliche.», gli
disse fermamente. «Il tuo gira e rigira per terra non mi ha fatto praticamente chiudere occhio. Dormirò io sul pavimento, ci
sono abituata.»
Senza avere la forza mentale di andarle contro, obbedì come un bambino
alle raccomandazioni della propria madre, e si distese su letto di paglia.
Riuscì a prendere sonno solo dopo parecchio tempo, e i sogni che fece non furono per niente tranquilli, come del resto quelli
delle ultime nottate.
Quando si svegliò il giorno dopo il sole era
già alto nel cielo da parecchie ore. Si accorse, senza stupirsi più di tanto,
che Phénix non c'era. Probabilmente era scesa in città per racimolare qualche
soldo e comprare qualcos'altro da mangiare anche per lui. Si guardò intorno e
non poté non sorridere quando vide Dante accovacciato sull'uscio della porta,
come se fosse di guardia e non gli permettesse di uscire. E
infatti, eccolo lì che gli miagolava contro quando lo vide avvicinarsi
per andarsene. Sembrava quasi che la giovane gli avesse raccomandato di
trattenerlo dentro con tutte le sue forze.
Ma Erik si era ripromesso di lasciare quel posto all'alba ed era già in
ritardo con la sua tabella di marcia. Ne avrebbe approfittato in quel momento
che lei non c'era e non avrebbe dovuto sopportare quello sguardo che gli
gravava addosso come un macigno sulla schiena. Le lasciò, nascosti dentro il
mobile dove custodiva gelosamente La Vita Nova, quasi metà dei suoi soldi che, ad essere sinceri, neanche sapeva quanto fossero. I
ventimila franchi che i manager del teatro gli avevano dato per anni, ogni
mese, li aveva messi meticolosamente da una parte, non
curandosi troppo di quanto avesse risparmiato e di quanto avesse speso. Ma erano tanti, su questo non c'erano dubbi.
Purtroppo per lui quando uscì dal mulino se
la ritrovò di fronte, più che furibonda.
La ragazza, appena si accorse di lui, sussultò per lo spavento. Ma non lo guardò con gentilezza come la serata precedente,
anzi. Sembrava lo volesse uccidere con lo sguardo da un momento all'altro. «Tu. Via da casa mia. Ora.», gli
sibilò incollerita, assottigliando gli occhi e facendolo fremere.
Che avesse capito? «Lo stavo già facendo,
mademoiselle.»
«E non chiamarmi mademoiselle!», sbottò lei, irata. «Mi
sembrava di essere stata chiara ieri. Non ho mai avuto
problemi con la giustizia, non ne voglio avere ora!» Erik
sospirò, capendo le sue parole. «Non sei stato sincero
con me. E non ho intenzione di aiutare il famigerato Fantasma dell'Opera
offrendogli riparo in casa mia.»
Quelle parole lo colpirono come mille lame al petto. Cosa poteva aspettarsi? Che non lo avrebbe saputo? Che una
volta scoperto avrebbe continuato ad essere gentile
con lui? Sciocco. Era odiato da tutti, anche da chi non l'aveva mai visto ma lo conosceva solo per sentito dire. Era ovvio che
la ragazza stesse reagendo così, non poteva biasimarla di certo.
Senza guardarla negli occhi, l'uomo le sussurrò un “Grazie” e se ne
andò, tra i miagolii di disappunto del piccolo Dante e lo sguardo spaventato di
Phénix. Aveva dato ristoro ad un assassino spietato,
ricercato ovunque in tutta Parigi. Non poteva permettersi di passare come sua
complice, mai. Ecco dove aveva già visto quella maschera: era l'immaginazione
dei racconti che giravano su di lui ad averle dato un senso di deja-vu.
Lo guardò sparire tra la campagna, lasciandosi sfuggire un sospiro. Al diavolo la compassione che aveva provato per
lui la serata scorsa, al diavolo il sincero dolore che gli aveva letto negli
occhi come un libro aperto. Non sarebbe andata a denunciarlo,
quello no. Ma non voleva nemmeno avere altro a che
fare con lui. Fortuna che aveva sentito i pettegolezzi di due uomini che
parlottavano tra di loro, ricordandosi il giorno dell'incendio e la descrizione
del Fantasma. Ormai in città non si parlava d’altro dell’incendio di qualche
settimana prima.
L'aveva rischiata grossa, accidenti a lei ed
alla sua disponibilità.
Rientrò nella sua abitazione diroccata, posando il cibo che aveva
comprato al mercato per lui. Poi guardò il gattino, che le si
strofinò sulla caviglie. «Vuol dire che oggi
mangeremo come due ricconi borghesi, Dante. Contento?»
Il gatto miagolò in risposta e lei gli
sorrise, ora più tranquilla.
Quel pomeriggio, Phénix decise di andare a fare visita alla sua unica
parente in vita, l'adorata nonna. Aveva bisogno di confidarsi su quanto
accaduto, di aprirsi come faceva sempre con lei, sapendo che l'avrebbe capita e
le avrebbe detto cosa fare e non fare.
La nonna era una signora ormai ottantenne, ma con la mente e lo
spirito di una giovane, che abitava in una vecchia mansarda sopra un locale
frequentato da gente di poco buono, in uno dei quartieri desolanti di Parigi.
Quella donna aveva una memoria di ferro, capace di ricordare fatti avvenuti
anche decine e decine di anni prima, quando lei era
ancora nel fior fiore della gioventù; ed era colta, molto colta, per essere una
povera zingara veggente. La giovane adorava sentirsi raccontare tante storie
antiche e ormai dimenticate: storie di donne speciali come lei, storie di magia
ed illusione, sulle vere streghe esistite in passato,
su quello che avevano dovuto sopportare, su leggende e miti, avvenimenti
misteriosi ed affascinanti, o solo aneddoti sui suoi defunti genitori. Quando
era piccola ricordava perfettamente quanti spaventi
quella donna le facesse prendere con alcuni di quegli arcani racconti, e quanti
incubi dovesse sopportare la notte, quando ci rimuginava sopra. A ripensarci le
veniva solo una voglia matta di ridere e di prendersi in giro per l'ingenuità
propria di una bambina. Ora sapeva che tutte quelle che credeva
favole avevano un fondo di verità e non erano solo storielle campate in aria
per far lavorare la mente di una piccola ragazzina ingenua.
Trovò la nonna seduta attorno ad un tavolo circolare, intenta a
leggere dei tarocchi nel silenzio totale. I capelli lunghi e grigi erano
ritirati in un chignon intrecciato perfettamente e
Phénix, per quanto si sforzasse, non ricordava di averla mai vista con un'acconciatura
diversa. Le dita delle mani, ricche di anelli in oro e pietre preziose presi
chissà dove, si muovevano lentamente sulle carte, mentre lei, con gli occhi
chiusi che spuntavano da sotto i ciuffetti di sopracciglia ingrigiti, sembrava
pensare e concentrarsi, per captare meglio quello che le stavano tacitamente
dicendo.
«Sapevo che saresti venuta, piccola mia.»
La giovane sussultò appena sentì la voce roca della nonna, ma sorrise
accorgendosi che l'aveva riconosciuta, come sempre, senza il bisogno di doverla
guardare.
«Disturbo?», le chiese, muovendo qualche passo.
«Neanche ti rispondo, Phénix.», rispose
burbera l'altra, aprendo finalmente i suoi occhi neri e scrutandola fino in
fondo. «C'è qualcosa che ti turba, ragazza mia. Me ne
vuoi parlare?»
Phénix annuì e le raccontò dell'incontro della sera prima, di quanto
fosse triste quell'uomo, dell'ospitalità che gli aveva
offerto e della scoperta sulla sua vera identità.
La nonna rimase ad ascoltarla ad occhi
chiusi, per assimilare meglio quelle parole, senza interromperla. Fu solo
quando il racconto della nipote concluse che si decise
a riaprire gli occhi e a puntarli sulle carte sotto il suo naso. Ne prese una dal mazzo e la fece vedere alla giovane. «La Torre,
mia cara. Sai cosa significa, vero? Cambiamenti, conflitti... Possibili catastrofi.» La giovane ebbe un fremito, mentre
ascoltava in silenzio le lente e sussurrate parole della donna. «Stai attenta, Phénix. Vedo nebbia davanti al tuo cammino.
Non buttare all'aria tutto. Sono sicura che saprai cosa fare al momento giusto.»
Come sempre le frasi sconclusionate dell'ava avrebbero avuto senso
unicamente in futuro; per ora le sembravano solo campate in aria, prive di un
reale significato. Ma, tuttavia, ciò che le disse non
la scoraggiò. Il solo fatto di essere andata da lei in qualche modo l'aveva
aiutata a rincuorarsi ed era convinta che la sua saggezza le
avrebbe indicato la via giusta da seguire, come accadeva da anni a
quella parte.
«Starò attenta, nonna. Lo sono sempre stata, lo sai.»
La donna si lasciò sfuggire un sorriso e
tutte le rughe che le solcavano il vecchio volto si fecero ancora più profonde.
«Sì, piccola mia, lo so. Ora va'.
Il Cambiamento sta per avvenire e tu devi essere forte e pronta per affrontarlo
al meglio.»
Come tutte le sere, Phénix si era esibita sulle sponde della Senna con
una danza antica e sensuale, lanciando occhiate birichine
a tutti i passanti che non potevano fare a meno di osservarla mentre muoveva
provocatoriamente i fianchi, o agitava il suo tamburello per darsi il ritmo. Altri
invece gettavano occhiate scettiche e disgustate verso la sua direzione, ed acceleravano il passo pur di sorpassarla velocemente.
Purtroppo aveva dovuto abbandonare rapidamente il suo pezzo di strada
quando vide un gruppo di soldati puntare dritti verso
di lei, intimandole di andarsene.
«Ora non si può neanche intrattenere Parigi con una danza?», aveva
chiesto infastidita ad un ufficiale, troppo preso in
realtà a bearsi della sua vista, che a prestarle la dovuta attenzione.
«Mi dispiace doverti rovinare la festa, zingara, ma le regole sono regole.», le rispose, con un beffardo ghigno sulle labbra.
«Magari potresti intrattenere me, che ne dici?»
Phénix neanche gli rispose e dovette trattenersi pur di non sputargli
ai piedi e manifestare tutto il suo disgusto. Detestava quando la consideravano
una donna che avrebbe anche venduto il suo corpo pur di guadagnare più soldi.
Era vero, non aveva uno stipendio, non un lavoro, non una vera casa... Ma non si sarebbe mai abbassata a tanto. Si rispettava
troppo per darsi così al migliore offerente.
Nel tragitto verso il mulino, quella sera, si sentì costantemente
osservata e seguita. Parecchie volte si voltò indietro, fermandosi, per
osservare meglio che non ci fosse qualcuno appostato in qualche angolo
nascosto; ma ogni volta non videva nessuno. Diede la colpa al ricordo di quell'uomo, del fantasma,
che la rendeva suscettibile più di quanto già non fosse. In cuor suo temeva che
quell'uomo volesse vendicarsi su di lei perché lo aveva cacciato, anche se
dall'altra parte non riusciva ad immaginarsi una scena
del genere, non dopo aver visto quello sguardo malinconico e vuoto nel suo
stesso viso. Le sembrava impossibile che un uomo potente e temuto come lui
potesse essersi ridotto ad un povero disgraziato che
non sapeva dove andare.
La stradina di campagna era desolata, come sempre. Il sole era già
scomparso sull'orizzonte, e il cielo era uno sfoggio incredibile di sfumature
rosse ed arancioni. Poteva ben vedere il mulino che si
stagliava davanti a se come una sagoma scura, in penombra. Probabilmente, se
non fosse stata particolarmente vigile in quel momento, si sarebbe anche
lasciata andare a dei commenti sul paesaggio pittoresco che aveva di fronte.
Sentì dei passi lenti e quasi impercettibili dietro di lei, di
qualcuno che nonostante stesse cercando di nascondersi alla sua vista non
poteva fare a meno di spezzare i ramoscelli e le foglie secche sul terreno.
Phénix ebbe un brivido di paura; in quei pochi anni in cui abitava da sola non le era mai capitato di dover far fronte a qualcuno
che voleva approfittarsi di lei o che voleva rubarle i suoi pochi averi.
Abitare in una comunità era totalmente diverso, e decisamente
più sicuro. E lei, quando li aveva lasciati, era ben consapevole di quello che
poteva rischiare. Non avrebbe più avuto la sicurezza del gruppo, ma sarebbe
stata sola con sé stessa.
Affrettò il passo, veramente spaventata
quando sentì quello del suo inseguitore farsi più forte e veloce, per evitare
che scappasse. E si mise a correre più veloce che poté
nel vedere che c'era anche un altro uomo, uscito dalla vegetazione, che la
stava puntando. Nella foga della corsa perse l'equilibrio su una piccola buca
del terreno e rovinò a terra, sbucciandosi i palmi delle mani e sporcandosi i
vestiti di terra. Riuscì a tirare un calcio in pieno viso al suo assalitore,
che rimase dolorante e stupito per qualche attimo; l'altro, invece, le era piombato addosso, facendola cadere nuovamente e
bloccandola con il proprio corpo.
«Cos'è? Non scalci più, bambina?», le sibilò
l'uomo, quello che aveva tutta l'aria di essere un disgraziato peggio di lei,
sporco e barbuto.
«Lasciami stare, animale!», gridò, cercando di liberarsi senza però
combinare niente. Se solo fosse riuscita ad afferrare il suo coltello...
I due la presero di peso, trascinandola con fatica verso il mulino. Il
piccolo Dante, vedendo due estranei con la sua padrona, graffiò l'aria con gli
artigli, miagolando impaurito.
«Bene, bene, bene, Phénix.», disse l'uomo che l'aveva atterrata.
«Vediamo cosa hai qui.»
L'altro, con ancora una mano sul naso sanguinante, colpito dal calcio
della giovane, mandò all'aria tutto il contenuto del mobiletto in legno, erbe riposte con cura nei loro cofanetti,
unguenti, e altri piccoli oggetti, compreso il suo adorato libro. «E questo cos'è?», chiese perplesso, sfogliandolo
distrattamente.
«Niente che uno stupido come te possa capire.», rispose Phénix, che si
beccò uno schiaffo in piena regola per aver osato troppo.
«Hai la lingua lunga, bella zingarella. Che
ne dici se te la taglio?»
Phénix cercò di divincolarsi, facendo esasperare l'uomo che la teneva
stretta.
«Vuoi stare ferma o no?», le gridò, facendole sbattere il capo contro
la parete.
Stordita, la ragazza non si rese conto che la testa le stava
sanguinando; e men che meno si rese conto che l'altro
assalitore aveva trovato qualcosa che neanche lei sapeva di avere.
«Ehi, guarda un po' cosa teneva nascosto questa strega?», disse
stupito e allegro, sventolando banconote di alto valore. «Però, ti tratti bene,
piccola, per fare questa vita.»
Phénix sbatté le palpebre, confusa. «Quelli...
Quelli non sono miei.»
«Ah, no?», le ripeté uno dei due, sarcastico.
«Beh, comunque ora sono in mano mia!»
«Non... Sono miei…»
Non riuscì nemmeno a formulare un pensiero logico, che l'ennesimo
colpo in testa le fece perdere i sensi.
Continua...
Grazie mille a leschatnoirper il commento e per averla aggiunta
tra le seguite! Spero che continui a piacerti! :)
Erik non si era allontanato molto, da quando aveva lasciato il mulino
di quella zingara. Non perché volesse tornare indietro per spiarla o per farle
pagare la poca gentilezza che aveva mostrato una volta scoperta la sua identità.
Non voleva spaventarla, tanto meno farle del male. Aveva notato dei movimenti
tra i bassi arbusti ed i cespugli della campagna, come
se ci fosse qualcuno appostato, in attesa di qualcosa. Si era avvicinato
maggiormente alla fonte di quei movimenti, senza un suono, senza un fiato.
Proprio come un fantasma.
E li aveva visti, quei due uomini sporchi, dallo sguardo vispo e per
niente amichevole; osservavano il mulino con interesse, parlottando tra di loro
a voce bassissima, che essi stessi a stento riuscivano a sentire. Ma aveva capito, anche senza il bisogno di ascoltare i loro
discorsi, che quel piccolo rudere con chi ci stava dentro era nei loro prossimi
interessi. Phénix abitava sola, indifesa, senza
nessuno accanto: un ottimo obiettivo, il loro. Avrebbero approfittato di lei? O
si sarebbero limitati a rubare i soldi che le aveva
lasciato, senza alzare un dito?
Non poteva permettere che quella ragazza, così gentile ed ospitale con lui, potesse essere oggetto del divertimento
e dei giochi di persone come quelle. Non dopo aver scoperto chi fosse, non dopo
aver deciso che, per quanto piccolo fosse il suo contributo, l'avrebbe aiutata
a sistemarsi.
Era rimasto nascosto dietro un folto cespuglio per tutto il giorno,
immobile come una bellissima statua, aspettando che Phénix rientrasse a casa e
che quei due balordi si facessero vivi. Uno si era allontanato quando lei aveva
lasciato il mulino, prima di pranzo; l'altro era rimasto nei dintorni, senza
uscire troppo allo scoperto. Quando l'aveva vista sulla via del ritorno e si
era reso conto che quei due la stavano veramente
puntando, dovette ricorrere a tutto il sangue freddo di cui disponeva pur di
non saltargli addosso e di ammazzarli nel giro di due secondi. Ma aveva fatto male i calcoli, forse: non aveva pensato che
la giovane potesse ribellarsi con tanto fervore. Avrebbe dovuto capire che avesse
un carattere infuocato, proprio come i suoi capelli.
Un calcio, una piccola fuga, l'altro uomo che le era piombato addosso
per bloccarla, trascinata dentro senza che potesse ribellarsi.
Erik prese un bel respiro, prima di uscire dal suo nascondiglio e di
avvicinarsi a passi felpati e silenziosi verso il mulino. Aveva tolto fuori il
suo lasso, fedele compagno in qualsiasi situazione del genere, e aveva
aspettato il momento migliore, guardando da una fessura nel legno. Fu quando
vide la ragazza perdere i sensi, che la calma che aveva ostentato fino ad un secondo prima scemò in un istante.
Il Fantasma dell'Opera era tornato, splendente e terribile come non
mai.
Con un calcio atterrò la porta, facendo imprecare i due per lo
spavento. Fu un duro colpo per loro trovarsi un uomo imponente come lui,
spaventoso avvolto nel nero del suo mantello, con quella maschera inquietante
che gli conferiva un aspetto ancor più terrificante e quegli occhi ridotti ad una fessura, carichi di una rabbia che ribolliva come la
lava di un vulcano.
Il primo brigante che gli fu addosso fu quello che aveva scoperto il
denaro, ma non poteva nemmeno immaginare con chi avesse a che fare. Erik gli
lanciò la corda del lasso alle gambe e, una volta che questa fece un paio di
giri su di esse, la tirò con forza, facendolo cadere prima ancora che potesse
raggiungerlo.
L'uomo, nella foga, riuscì a tirare fuori un coltello e provò subito ad usarlo contro il suo aggressore. Il primo colpo andò a
vuoto, dato che Erik si accorse all'ultimo momento del
pericolo e gli bloccò il polso, spezzandoglielo con un movimento secco della
mano.
Non si curò delle grida di dolore
dell'individuo riverso a terra, bensì si voltò contro l'altro che aveva osato
picchiare Phénix. Le lanciò un'occhiata e la vide a terra, come addormentata.
«Chi diavolo sei, mostro!», esclamò tremante
il balordo, alzandosi per fronteggiarlo. «Vuoi
divertirti anche tu? Bastava chiederlo!»
Senza una parola di più, Erik ritirò il lasso dalle gambe dell'altro
malcapitato, e sorrise al compagno dell'aggressore con un ghigno per niente rassicurante.
«Ehi, amico. Che intenzioni hai? Ce ne andiamo, ok? Ce ne stiamo
andando, vero Nicolas?», continuò quello, ora veramente
spaventato dall'uomo in nero che si avvicinava a piccoli e lenti passi
verso di lui, inesorabile come la morte. «Su,
deficiente, alzati che leviamo le tende! Ti lasciamo solo con la tua
sgualdrinella, tranquillo!»
Quello fu troppo per lui.
Keep your hands
at the level of your eyes!
Con un movimento fluido e talmente veloce che neanche se ne accorse,
l'uomo si ritrovò il collo stretto da un cappio micidiale, sdraiato a terra nel
vano tentativo di fermare la furia omicida che ora lo stava sovrastando e
guardando con l'espressione di un folle. Invano tentò di liberarsi da quella
violenta morsa, da quella corda che sempre più gli si stringeva attorno al
collo, soffocandolo lentamente. Poi, più nulla.
Erik rimase immobile a guardare la sua vittima – un'altra – che lo
guardava con occhi ciechi, ma totalmente spalancati per il terrore della morte.
Purtroppo per lui si accorse troppo tardi dell'altro uomo che, preso il coltello con la mano sana, gli si avventò contro e
lo ferì profondamente sul braccio. Erik si morsicò la lingua con forza, pur di
non gridare dal dolore, e, accecato dalla rabbia e dall'affronto, lo atterrò
con un pugno, che gli fece sbattere violentemente la testa contro un'asse
piegata del pavimento in legno. Pochi secondi dopo lo
vide sanguinare copiosamente, immobile riverso a
terra.
Con il respiro affannato, Erik si lasciò cadere per terra, cercando di
riprendersi un poco. La ferita al braccio stava perdendo molto sangue – ed era
stato fortunato che quel coltello non avesse colpito il fianco, che era il vero
obiettivo dell'uomo – ma non gli importava. Ciò che gli faceva più male, ora,
era vedere cosa avesse appena fatto. Aveva nuovamente ucciso, con una ferocia e
un'impassibilità tale che lui stesso rabbrividì al solo pensiero.
Solo per difenderla, solo per difenderla...
Chiuse gli occhi e sospirò profondamente, prima di riaprirli, alzarsi
e portare via di peso i cadaveri di quei due stolti, per nasconderli da qualche
parte nella campagna. Quando tornò nel mulino, si avvicinò a Phénix e si
accorse che anche lei era ferita, in fronte. La prese in braccio e la adagiò
sul letto di paglia, con delicatezza. Dante la
raggiunse subito, accoccolandosi accanto a lei per starle vicino.
In tutta la sua vita, non aveva mai dovuto curare le ferite di qualcun
altro, e cercando tra le erbe medicinali e gli unguenti che la ragazza aveva si trovò spiazzato, rendendosi conto che non aveva la
più pallida idea su cosa potesse usare per disinfettarle la ferita. Aveva letto
numerosi libri di medicina, quando era un ragazzo, ma niente sull'uso di erbe
come quelle. Fortuna che trovò un vasetto in vetro contenente una pomata di
aloe e, con cura, gliene spalmò una noce sulla ferita in fronte e sulle mani
sbucciate.
Quella fu l'occasione per osservarla bene senza metterla a disagio,
come la notte precedente. La fronte era alta, coperta solo da qualche ciuffo
ribelle, rosso come il fuoco, che scappava alla treccia; quegli occhi verde
smeraldo, che ora erano chiusi, avevano una graffiante
forma affilata, contornati da lunghe ciglia ramate; le labbra erano socchiuse,
carnose e sanguigne, e poco sopra spuntava un nasino impertinente, delizioso.
Di fisico non era altissima, anzi: era almeno una ventina di centimetri più
bassa di lui; ed era magra, tremendamente magra che
temeva potesse spezzarsi da un momento all'altro, per lo stile di vita che
aveva fatto fino a quel momento.
Erik si stupì non poco nel scoprirsi così intento a studiarla. Non
poteva biasimarsi, certo: era bella, su quello non poteva azzardarsi a dire il
contrario. Ma il solo fatto di formulare un pensiero
del genere lo mise in forte disagio.
Christine...
Perché? Perché non poteva semplicemente dimenticarla? Perché si
sentiva in colpa per aver formulato un pensiero che considerava oggettivo?
Lei non era sua, non era mai stata sua. Eppure lui aveva sperato, fino
all'ultimo: era convinto che con quell'opera sensuale e provocante la sua dolce
musa gli si sarebbe finalmente abbandonata, rinnegando
quel damerino del Visconte e scegliendo lui, che l’amava fino alla follia.
E invece no, niente di quello che aveva sperato ed
immaginato era andato così, neanche in minima parte. Sarebbe mai riuscito a
dimenticare tutto quel dolore? Sarebbe mai riuscito a dimenticare quella voce
soave, quegli occhi castani e grandi, innocenti come quelli di una bambina?
Christine I love you...
Distolse lo sguardo bagnato dalle lacrime dalla giovane zingara e
strinse forte i pugni, per cercare di darsi una calmata. Si era ripromesso che
sarebbe diventato una statua di ghiaccio, insensibile ai sentimenti, insensibile al dolore... Eppure non ci riusciva, neanche con
tutta la sua buona forza di volontà.
Per fortuna che i mugolii di dolore di Phénix, che lentamente si stava
risvegliando, lo richiamarono al presente. Si asciugò
velocemente gli occhi e concentrò tutta la sua attenzione sulla ragazza.
Phénix corrugò la fronte per il dolore, quando iniziò a rendersi conto
che la testa le pulsava malamente. Alzò debolmente un braccio, per portarsi una
mano alla fronte, ma si bloccò subito quando sentì l'odore dell'aloe profumarle
le narici. Fu solo allora che si accorse di una presenza, seduta al suo fianco
sul letto di paglia. Se ne avesse avuto le forze
sarebbe saltata dallo spavento, nel ritrovarselo a fianco, così vicino; e lui
capì il suo stato d'animo solo guardandola negli occhi.
«Tu... Cosa ci fai…», provò a dire, a fatica.
«Non sforzatevi, siete debole.» Erik la spinse delicatamente contro il
letto, quando questa fece per mettersi a sedere.
«Dove sono... Quei due…» Un brivido le percorse la
schiena vedendo l'occhiata eloquente che l'uomo le riservò. E capì tutto quando
vide, per terra, una macchia scura di sangue che bagnava il legno del
pavimento. «Oddio…», mugolò, nascondendosi il viso tra le mani. «Li hai
uccisi…»
«Sì, solo per difesa.», tagliò corto lui, deciso nel non volerci
pensare più.
«Tu non sai chi sono... Chi erano…», disse
debolmente, tremando.
«Due che non meritavano di continuare a vivere,
mademoiselle Phénix.»
La zingara si passò le mani sul viso, guardando con aria persa il
soffitto. «Mi hanno... Ecco, loro mi hanno…»
Erik le coprì la bocca con una mano guantata di pelle nera,
intimandole il silenzio. «Basta domande, siete stanca.
Comunque no, sono arrivato prima.»
La giovane si lasciò sfuggire un sospiro di
sollievo. «Grazie.»
Lui non rispose, intento a coccolare il gattino. «Quando vi sarete ripresa me ne andrò, state tranquilla.», la rassicurò, senza
guardarla. «Piuttosto, dovreste tornare dai vostri
compagni, se volete evitare altre situazioni di questo genere. Io non ci sarò
sempre.»
Phénix, a quelle parole, si crucciò, girandosi su un fianco e
rannicchiandosi su sé stessa. «Non
posso. Mi avevano avvertito che se li avessi lasciati, poi, non sarei potuta
tornare indietro. E' una legge.»
«E allora è una legge stupida.», ribatté Erik, alzando lo sguardo su
di lei.
«E quei due…», continuò imperterrita lei. «Quei
due erano i cugini di uno degli uomini più influenti del nostro gruppo. Non
immagini quanto potente sia. Non posso tornare da loro, ora.»
«Allora converrete con me che qui non siete al sicuro. Quanti sanno che
abitate qui?»
Lo sguardo della ragazza gli fece capire la risposta. Il pericolo
c'era, e anche parecchio, a quanto pareva. I soldati, poi, avrebbero anche
potuto accusarla di omicidio…
Come i suoi genitori, sempre a causa
sua…
No, non poteva permetterlo. Non doveva accadere di nuovo. L'avrebbe
presa sotto la sua protezione, e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea.
Prese un bel respiro profondo, guardandola intensamente e facendole
capire che non avrebbe ascoltato alcuna obiezione. «Credo
che sarebbe meglio se voi veniste con me, una volta ripresa. Vi porterò al
sicuro.»
Phénix credette di aver sentito male. Andare con lui? Era ammattito? «Non ci penso nemmeno. Ti ringrazio per l'offerta, ma so
badare a me stessa.» La ragazza si pentì subito di
aver detto quelle parole, quando gli lesse un'espressione sarcastica,
ma risentita, in viso.
«Mi fa piacere sentirvelo dire, mademoiselle. Devo dedurre che
l'incidente di prima me lo son sognato?»
Phénix si morse un labbro, conscia di essere
in torto marcio. Come si sarebbe potuta difendere in quelle condizioni? Se non
fosse stato per lui, quella sera... Non voleva nemmeno
pensarci. Ma lei non avrebbe seguito un assassino, non
lo avrebbe fatto! Sarebbe scappata, avrebbe cercato di difendersi da possibili
accuse, ma non avrebbe dato la sua vita nelle mani di
un folle, anche se questo stesso folle l'aveva salvata. «Non
verrò con te, punto e basta. Non puoi obbligarmi.»,
disse a denti stretti, mettendosi a sedere sul letto e vedendo tutto intorno a
se girare vorticosamente. Venne spinta nuovamente
contro il letto, questa volta con più decisione, e gli rifilò un'occhiataccia
gelida in cambio.
«Statemi bene a sentire, Phénix: non amo ripetermi su questioni
che considero già chiuse e vi sarei grato se la smetteste di fare la bambina
capricciosa. Non vi si addice.», le mormorò seriamente
Erik, facendola arrossire per l'affronto.
Gli avrebbe voluto gridare dietro di non permettersi mai più di
rivolgersi a lei con quel tono, di non osare nemmeno pensare di dettare regole
e obbligarla a fare ciò che più gli piaceva... Ma non ne ebbe la forza fisica, dato che il dolore alla fronte tornò a pulsarle forte. E
poi, come avrebbe potuto ribattere a quelle parole pronunciate così duramente?
A quello sguardo duro e severo che sembrava schiacciarla con forza?
«Ora, ascoltatemi.», riprese il Fantasma, con un tono più calmo e
apparentemente comprensivo. «So che avete paura di me,
non posso biasimarvi. Ma credetemi sulla parola di
uomo d'onore che sono, che non ho intenzione di portarvi guai. Voglio solo
aiutarvi.»
Phénix non si lasciò abbindolare da tutte quelle belle parole. Voleva
studiarlo ancora un po'. «Non mi serve il tuo aiuto. E
non mi servono nemmeno i soldi che mi hai lasciato.»
L'uomo tentò a stento di reprimere la rabbia che stava affiorando in
lui, contro quella ragazzina priva di gratitudine per l'aiuto che le aveva dato
e che le stava offrendo. Possibile che dovesse rispondergli in modo così
maleducato? Possibile che non capisse che fosse sincero?
Si alzò di scatto da dove era seduto, stringendo i pugni. Era questo,
dunque, l'effetto che faceva? Timore e diffidenza in chiunque incontrasse? Perché nessuno si accorgeva del suo dolore?
Della sua voglia di ricominciare nuovamente? Perché nessuno vedeva l'uomo
dietro il mostro?
Fear can turn
to love - you'll learn to see, to find the man behind the monster...
«E' troppo chiedervi di darmi fiducia?», le domandò, stanco. «Una
volta, una volta sola: almeno voi, potete darmi fiducia?»
Sentì lo sguardo della giovane contro la schiena, ma non osò voltarsi
per guardarla in viso. Temeva quello che avrebbe potuto
vedere: paura, sgomento... Peggio ancora: pietà.
«Ti sei mai domandato perché nessuno si fidi di te?», gli chiese
Phénix, mettendosi nuovamente a sedere, questa volta con lentezza, per non
muoversi troppo bruscamente e avere altri cali visivi. «E'
vero, non ti conosco e posso dire che ieri sei stato una brava persona che ho
aiutato con piacere. Secondo te perché ora che so chi tu sia provo solo diffidenza?»
Erik sospirò, conscio che le parole della zingara erano tristemente
vere. Tutti, anche chi non lo conosceva direttamente o non aveva avuto a che
fare con lui, lo temevano; poteva fargliene una colpa?
Certo che no. Non poteva sperare che neanche lei potesse aver paura di lui, e
lei non voleva avere problemi con la giustizia; del resto, molti avrebbero
trovato quasi ovvio che il Figlio del Diavolo si fosse rivolto ad una strega.
Phénix strinse gli occhi, studiandolo bene. Sentiva di potersi fidare
di quell'uomo: era sincero, in quel momento, glielo poteva leggere
perfettamente in quegli occhi ora verdi, ora grigi; lo
sguardo di chi aveva sofferto tanto, di chi aveva visto troppo dalla vita, di
chi invece non avrebbe voluto vedere. Ma aveva paura, una folle paura che accettando il suo aiuto qualcosa potesse andare storta.
«Sentiamo, dove vorresti portarmi al sicuro?», gli chiese,
temporeggiando.
Erik riuscì a nascondere un sospiro, capendo che la giovane stava
lentamente cedendo. «Da una persona che deve farsi perdonare il suo
comportamento scorretto nei miei confronti.»
La giovane inclinò il capo, curiosa. «Perché?»
«Ha tradito la mia fiducia nel momento in cui avevo maggior bisogno di
lei. E' sufficiente?» Mosse qualche passo verso di
lei. «Allora?»
Phénix si strinse nelle spalle. «Un'ultima cosa vorrei
sapere da te: perché vuoi aiutarmi così tanto? Neanche ci conosciamo.»
Erik si lasciò sfuggire un amaro sorriso. Cosa avrebbe potuto dirle? Che voleva rimediare a ciò che
aveva fatto in passato? Bel modo sarebbe stato per guadagnarsi la sua fiducia! «Perché se non posso trovare pace io, non vedo perché non
possiate voi. Siete stata gentile con me ieri, l'unica
persona che non mi abbia cacciato come un animale. E
io ho i mezzi per aiutarvi. E' una buona ragione?»
Phénix si arrese, sospirando. «D'accordo, ti
seguirò. Però a due condizioni.» Erik incrociò le
braccia, curioso di sapere. «Mi darai del tu
come faccio io con te. Mi sembra ridicolo che utilizzi tutta questa galanteria
per una poveraccia come me.», iniziò ad elencare
contando con le dita. «E ti farai curare quel braccio, sanguina in modo
spaventoso.», concluse, alzandosi con lenta debolezza
per recuperare i medicinali alle erbe.
Erik gioì intimamente per quella piccola vittoria ed
acconsentì a farsi medicare la ferita. Non si preoccupò
delle mani sapienti della giovane che gli massaggiavano il braccio, né del
fatto che fosse con mezza camicia aperta per facilitarle l'operazione,
lasciando scoperto un petto scolpito e quasi del tutto privo di peluria. Era
troppo occupato a pensare ad un modo per aiutarla a
dovere, per curarsene.
Lei, invece, se ne preoccupò, eccome: il fisico di quell'uomo era
pressoché perfetto, tranne per il fatto che fosse un
po' sciupato per il poco cibo che aveva mangiato in quegli ultimi tempi.
«Erik…», sussurrò Phénix, facendogli alzare lo sguardo su di lei.
«Grazie per tutto.»
Rimase particolarmente colpito dalla serietà e dal riconoscimento con
cui lo guardò: nessuno l'aveva mai ringraziato. Si lasciò andare ad un timido sorriso, il primo che le regalò, e lei sperò
che non fosse nemmeno l'ultimo, perché mai aveva visto il volto di un uomo
diventare così dolce ed innocente come quello di un bambino, per un semplice
gesto come quello.
«Ecco, così dovrebbe cicatrizzarsi velocemente e non dovrebbe darti troppo fastidio.», gli comunicò, coprendogli
il braccio con un ultimo giro di rozza benda.
«Grazie, Phénix.» Erik si ricoprì con la camicia logora e la giacca,
lasciando il mantello piegato ai piedi del letto. «Ora, se non ti dispiace, ti
preparerei qualcosa da mangiare.»
Phénix stava per ribattere, ma l'occhiata autoritaria dell'uomo la
fece desistere. Accidenti, metteva i brividi quando la guardava così!
Dante le si accoccolò sulle gambe,
reclamando cibo con un miagolio affamato. «Shh, ora si mangia.», gli sussurrò,
accarezzandogli la testolina pelosa. Alzò lo sguardo sull'uomo che era intento
a mettere insieme un po' di frutta con qualche pomodoro tagliato a spicchi, con
pane e acqua, e non poté fare a meno di sorridere. «Posso farti una domanda?»,
gli chiese.
Lui la guardò un attimo, poi riprese ciò che
si era offerto di fare. «Dipende dalla domanda.»
Phénix ci pensò su un po', prima di parlare. «Se ti senti tanto in
colpa per quello che è successo all'Opera, perché non finanzi i lavori di
restauro con i soldi che hai, anzi che aiutare una zingara come me?»
Erik alzò un sopracciglio. «E cosa ti fa pensare che io mi senta in
colpa?»
La giovane lo guardò bonaria. «E' palese, te lo leggo negli occhi.»
Lui non rispose subito, preferendo lasciar passare qualche secondo di
silenzio. «Il fatto che sono un ricercato ti suggerisce qualcosa?»
«Potresti incaricare qualcuno.», gli rispose prontamente lei,
facendolo sospirare.
«Non credere che non ci abbia già pensato.»
«Quindi?»
Erik si mise le mani sui fianchi, guardandola quasi esasperato. «Tu
fai troppe domande.»
«Posso pensarci io, se la cosa non ti preoccupa.», continuò lei,
impertinente.
«Mi ascolti quando parlo?»
Phénix gli lanciò un'occhiata birichina,
sorridendo maliziosa.
Ed Erik pensò che avrebbe fatto bene a controllare la sua pazienza,
altrimenti avrebbe fatto qualcosa di sconsiderato contro quella
giovane: quel sorriso e quell'espressione di chi la sapeva lunga erano in grado
di spiazzarlo ed irritarlo nel giro di pochi istanti, e lui questo non poteva
accettarlo. Così come non poteva accettare che una perfetta sconosciuta gli
leggesse in faccia tutto il suo dolore.
Le ficcò in mano la sua cena e prese il piccolo Dante in braccio,
occupandosi di lui pur di non doverla guardare.
Cenarono in silenzio, ognuno intento a ragionare su quello che era
successo e stava succedendo. Entrambi erano coscienti
che le loro vite stavano prendendo una svolta proprio quella notte. Tutto
sarebbe cambiato, niente come prima.
Phénix ripensò alle parole profetiche della nonna.
Il Cambiamento sta per avvenire e tu devi essere forte e pronta per
affrontarlo al meglio.
Sì, lei era pronta per affrontarlo, ne era sicura.
Quella stessa notte Erik disse alla giovane zingara di prendere i suoi
effetti, gatto compreso, e di prepararsi all'eminente trasloco.
«Hai carta e penna?», le chiese.
Lei lo guardò stralunata, scuotendo la testa. «No, non ho cose di
questo genere.»
Erik sospirò. «Allora dovrò andare a
procurarmele. Aspettami qui.»
Sparì velocemente nella notte, lasciandola sola. Non poté nascondere
un certo timore, ora che lui se n'era andato, seppur per poco
tempo. O così le aveva fatto intendere. Si strinse contro la parete in legno del mulino, abbracciando e cercando compagnia nel
piccolo Dante.
Quell'uomo era strano e imprevedibile, ma la sicurezza che provava in
sua compagnia era indescrivibile; così come era
indescrivibile il timore di ricevere nuove visite ora che era ancora più
indifesa di prima.
Erik tornò parecchio tempo dopo, con una lettera sigillata da un
teschio di cera lacca rossa, che metteva i brividi.
«Darai questa lettera alla persona dalla quale sto per portarti; c'è
scritto tutto quello che deve sapere.»
Phénix annuì, prendendo la lettera e guardando il sigillo. «Ma... Questo era necessario?»
L'angolo sinistro del labbro dell'uomo si piegò in un sorriso di
scherno, incredibilmente seducente. «Diciamo che in certe occasioni si è
rivelato un ottimo modo per persuadere.»
Fu così che sotto la luce della luna, la condusse al luogo che lui
considerava più sicuro per lei. Compagni della notte,
scivolarono silenziosamente lungo i viali e le stradine deserte di Parigi.
Erik si muoveva sicuro, invisibile così avvolto nel suo mantello
scuro: Phénix pensò più volte che sembrasse veramente un fantasma. Ogni tanto
si voltava per assicurarsi che lo stesse seguendo, o
per controllare di non essere sotto lo sguardo curioso di qualche indesiderato.
Sembrava pienamente a suo agio nel muoversi furtivo, tra le ombre, come se lui
stesso ne facesse parte. Ma per un uomo che era
cresciuto e aveva vissuto nelle tenebre, quelle strade buie non avevano niente
da invidiare ai cunicoli dell'Opera.
La portò in Cité d'Antin, proprio nei pressi del Teatro, dove i
palazzi erano ben curati ed eleganti, promettendo sontuosità al loro interno,
come ben facevano capire soltanto guardandoli da fuori. Phénix si sentì
elettrizzata all'idea di entrare in uno di quei palazzi: non vi aveva mai messo
piede.
«La porta è quella.», Erik le indicò con lo sguardo un portone di
legno massiccio, a cui si accedeva tramite un paio di
gradini. «Dalle subito la lettera, capirà.»
Phénix lo guardò con apprensione. «E tu?»
«Io?», Erik sorrise tristemente. «Continuerò a nascondermi come ho
sempre fatto.»
Sparì poco dopo, lasciandolo nuovamente sola, nel freddo della notte,
quella volta per davvero. Chissà se l'avrebbe più rivisto?
Si strinse nelle spalle, accarezzando distrattamente Dante,
accovacciato tra le sue braccia e riscaldato dal suo scialle viola, che le
copriva anche il capo. Tirò fuori dalla sacca la lettera che Erik aveva scritto
per assicurarle alloggio e la guardò curiosa. Chissà cosa c'era scritto?
Si avvicinò alla porta, ma prima di bussare, rimase in silenzio,
immobile con una mano bloccata a metà strada. E se l'avessero cacciata? I suoi
capelli ed i suoi occhi non erano certo un valido
biglietto da visita, non lo erano mai stati. Cosa avrebbe
fatto in quell'eventualità?
Scacciò quei pensieri con decisione; odiava essere insicura, era una
delle sue peggiori paure. Batté con forza il pugno contro la porta in legno, sperando che qualcuno là dentro le aprisse. Il
cuore le martellava in petto come impazzito all'idea di quello che stava per
succedere: una porta verso il cambiamento. Ma purtroppo quell'edificio stava
dormendo così come i suoi abitanti, dato che neanche
dopo tanti colpi si era fatta vedere anima viva.
Aveva già perso le speranze, quando una tenue luce tremula illuminò la
finestra accanto alla porta.
E lei sperò vivamente che la persona dietro quelle mura l'accogliesse senza cacciarla; avrebbe fatto di tutto,
allora, pur di aiutare Erik a vivere una nuova vita e a vederlo sorridere
ancora.
Continua...
Grazie mille, leschatnoir!
Questo capitolo è un po' più lungo, spero sia stato di tuo gradimento! ;)
Quella notte, così come tante altre dal giorno dell'incendio, si
svegliò nel bel mezzo di un incubo. Nonostante fossero passate settimane da
quel giorno infausto, ancora non riusciva ad addormentarsi senza pensare a
quegli occhi acquamarina che la guardavano delusi ed
esausti, dello stesso uomo a cui anni prima aveva salvato la vita e che si era
visto voltare le spalle nel momento del bisogno da lei, l'unica persona in
grado di comprenderlo e di aiutarlo sempre e comunque. Avrebbe potuto ucciderla
per quel gesto, avrebbe potuto schiacciarla e
fargliela pagare cara; ma sapeva benissimo che la sua più grande punizione, il
suo più grande peso da portare avanti era il suo sguardo carico di tristezza e
di rassegnato dolore. Ancora lo vedeva davanti a sé, con la schiena ricurva,
un'espressione persa, occhiaie solcate dai lunghi e silenziosi pianti.
L'aveva tradito, ma non senza rammarico. Era
in pericolo lui, la sua vita, il suo mondo. Ma era in
pericolo anche quella che per lei era la sua seconda figlia e, anche se sapeva
perfettamente che lui non avrebbe mai potuto farle fisicamente del male, non
avrebbe permesso che le rovinasse l'esistenza per un suo capriccio dettato
dalla passione e dalla rabbia. Si era resa conto troppo tardi di aver compiuto
una sciocchezza mostrando la strada al Visconte per raggiungere il suo regno,
portandogli direttamente la vista dell'uomo che voleva rubargli la donna amata
e che avrebbe dovuto e voluto uccidere quella notte stessa, accecato dalla
gelosia. E lei sapeva anche che aveva messo in pericolo la vita del giovane
stesso, lasciandolo in balia dei trabocchetti seminati ovunque in quei cunicoli
bui ed umidi, in balia delle sue mani assassine. Non
si sarebbe mai perdonata ciò che aveva fatto.
Claire Louise Giry si rigirò nuovamente sul letto, guardando il
soffitto e cercando di ascoltare meglio. Le era parso di sentire qualcuno che
bussava veementemente contro il portone d'ingresso, ma pensò che fosse solo una
sua suggestione. Ma quando sentì nuovamente quei colpi
secchi e sordi, decise di alzarsi e di accendere una candela, per andare a
controllare chi, a quell'ora della notte, osasse disturbare la quiete della sua
casa.
Scese le scale in legno, cercando di fare il
meno rumore possibile, e scostò la tenda alla finestra, guardando fuori. Vide
una giovane ragazza avvolta in uno scialle, che stringeva qualcosa al petto
nascosta alla sua vista: indossava una gonna rovinata, lunga fino a terra, e
quindi probabilmente molto sporca per aver pulito tutte le strade di Parigi che
aveva attraversato, e notò numerosi braccialetti tintinnanti ai suoi polsi
magri.
“Una zingara.”, pensò, decidendo che l'avrebbe cacciata senza una
parola di più.
Ma non fece in tempo a muovere un passo che la ragazza si accorse di lei
e piombò davanti alla finestra, appiccicando al vetro una lettera.
E la donna credette di svenire appena i suoi occhi si posarono sul
teschio rosso che sigillava labusta.
Quello era il suo simbolo.
Quella lettera era di Erik.
Quando Phénix vide il volto di quella donna dietro la finestra credette di aver ricevuto la mano dal cielo. Non ci
aveva pensato più di tanto a mostrarle la busta e non capì per quale motivo la
signora sbiancò, nel vederla. Probabilmente, pensò, aveva a che fare con le
capacità persuasive di cui le aveva parlato Erik.
La donna che le aprì era quanto meno
affascinante: il volto maturo ma che conservava ancora la sua bellezza
giovanile, uno sguardo severo e ora stupito per quello che aveva appena visto,
le labbra sottili semiaperte, come per voler parlare da un momento all'altro,
una lunghissima treccia che ricadeva stancamente su una spalla; indossava una
camicia da notte scura e reggeva una candela nella mano destra.
«Madame…», Phénix chinò il capo, imbarazzata.
Era la prima volta in vita sua che non sapeva cosa dire e come dirlo. Non aveva mai avuto a che fare con persone importanti
e quella donna aveva tutta l'aria di essere parecchio benestante, il tanto
giusto per metterla a disagio. Inoltre le costava ammetterlo, ma il fatto di
essere davanti a lei, nel mezzo della notte, dopo averla sicuramente svegliata
per chiederle aiuto e alloggio, la imbarazzava terribilmente.
Senza sapere se aggiungere altro, si limitò a porgerle la busta,
aspettando il verdetto finale.
La donna sembrò impallidire ancora una volta nel leggere la grafia di
Erik, e la zingara si chiese se l'uomo non l'avesse minacciata, pur di trovarle
una casa sicura. Guardò distrattamente la lettera, mentre la rimetteva
all'interno della busta. Poi, le si rivolse con un
timido sorriso. «Prego, accomodati, mia cara.»
Phénix si sentì esplodere di gioia nel constatare
che aveva accettato ad accoglierla. E il sorriso della donna non fece altro che
tranquillizzarla ancora di più.
Mosse qualche passo all'interno dell'abitazione e quello che vide fu
per lei incredibile, sebbene ignorasse il fatto che
quella casa, in confronto ad altre, non era niente di particolare: il salotto
era accogliente, con alcuni divani in pelle scamosciata che si chiudevano
intorno ad un caminetto spento; il pavimento era in cotto, coperto di tanto in
tanto da splendidi e grandi tappeti persiani dalle decorazioni più disparate;
alla sua destra c'era una scala in legno che portava ai piani superiori, mentre
di fronte a lei un corridoio buio portava alle camere dei servizi.
«Madame, mi dispiace di averti... di avervi
svegliata e di crearvi disturbo... Non era mia intenzione. Ma a quanto pare
Erik sa essere molto convincente.» Abbassò lo sguardo,
temendo che i suoi occhi smeraldini ed affilati come
quelli di un felino potessero turbare la donna.
Questa si accorse subito di quanto fosse in imbarazzo e cercò di
metterla a suo agio prendendole la sacca e sistemandola in un angolo. Phénix non
si fece ripetere due volte l'offerta di accomodarsi e prese
posto in una delle comode poltrone presenti, stringendosi al petto il
piccolo gattino nero, che altrimenti avrebbe iniziato a curiosare qua e là.
«Prima di tutto sentiti libera di darmi del
tu, se ti vien meglio.», le disse, sedendosi di fronte a lei. «E non
preoccuparti, non sarà un problema ospitarti per qualche tempo: la mansarda non
sarà il massimo della comodità, ma è abbastanza spaziosa.»
Phénix si sentì sciogliere quando si rese conto che il tono di quella
donna era cordiale e caldo, a discapito dell'aria distaccata che aveva notato
all'inizio. «Grazie, Madame…?»
«Giry. Mi chiamo Claire Louise Giry. E tu Phénix se non sbaglio.» La zingara annuì, abbassando nuovamente lo sguardo. «Posso sapere il perché di questo nome? E' curioso.»
Phénix si scoprì il capo dallo scialle, mostrandole i suoi capelli. «Deriva da questi. E' un soprannome che mi diede la mia
comunità quando si accorse del colore dei miei capelli. Spero non sia un
problema.»
Madame Giry alzò un sopracciglio, perplessa. «Stai pure tranquilla, mia cara. Non sono così sciocca e
superstiziosa da credere a certe sciocchezze.»
E due. Era la seconda persona che, nel giro di un paio di giorni, non
aveva provato scetticismo nei confronti della particolare pigmentazione dei
suoi capelli. Avrebbe dovuto preoccuparsi?
«Erik mi ha scritto cosa è successo questa notte... Stai meglio?»
Phénix si portò una mano alla fronte. «Questa fa parecchio male, ma
per il resto sto bene.»
Il volto della Giry si distese in un sorriso. «Vado a prepararti un
bagno caldo, così ti rinfranchi un po'.»
E infatti Phénix non trovò niente di più
rilassante dell'acqua bollente che le rinvigorì le membra. Mai aveva fatto un
bagno così rilassante... Era quello, dunque, uno dei
tanti piaceri di vivere una vita normale, in una casa vera?
Madame Giry le fece trovare una camicia da
notte e qualche abito per il giorno dopo: erano profumati di lavanda, erano
puliti. Le sembrava di vivere come una principessa!
Si vestì quasi con devozione, per paura di rovinare il tessuto di seta
della vestaglia, e scese al piano di sotto,
raggiungendo la donna. Le aveva preparato una tazza di thè
caldo con qualche biscotto e l'avvertì che la sua
camera era pronta. L'accompagnò alla sua stanza, reggendo
un vassoio, e Phénix si ritrovò in mansarda, per la quale si accedeva tramite
una scala a chiocciola; la camera, nonostante fosse più bassa del resto della
casa, dava un senso di calore e familiarità, con le pareti in legno ricoperte
da carta da parati color panna, un letto posizionato contro la parete sinistra,
un comodino al suo fianco e una cassapanca ai suoi piedi; l'unica finestra
presente era circolare e non troppo piccola, e da quella Phénix poteva intravedere
l'imponente sagoma dell'Opera.
«Riposati e non metterti problemi di orario. Se domani mattina non mi
troverai in casa puoi rivolgerti alla donna di
servizio, io e mia figlia torneremo per l'ora di pranzo.»
«Avete una figlia?», le chiese Phénix, facendola sorridere.
«Sì, Meg. Credo sia più piccola di te, ma
andrete d'accordo.»
La zingara annuì, ringraziandola più volte, finché non rimase sola, a
guardarsi intorno come una bambina curiosa. Si sedette sul morbido materasso
coperto da un piumone che aveva tutta l'aria di essere caldissimo e scoppiò a
ridere, la prima volta dopo un tempo indefinibile, quando Dante le saltò
addosso, sbucando da sotto il letto.
«Ma dov'eri finito, eh?», gli chiese, ridendo
contenta. Si fece cadere tra i cuscini, chiudendo gli occhi e rendendosi conto
che quella era la prima volta in vita sua in cui si sentiva veramente felice,
veramente realizzata. Forse la conquista del suo posto nella società stava pian
piano giungendo.
Si addormentò, con un solo pensiero nella mente.
Grazie Erik.
La mattina seguente Phénix si svegliò che era praticamente
mezzodì. Non ricordava di aver mai dormito così tanto
e soprattutto così tranquillamente. Le sembrava di essere in un bellissimo
sogno da cui non si sarebbe mai voluta svegliare.
Abbassò lo sguardo e accarezzò la testolina di Dante, placidamente
addormentato sui suoi stivali, che, non appena aprì gli occhi gialli e ancora
assonnati, le agitò una zampetta, come a volerla salutare per il buongiorno.
Phénix si alzò, avvicinandosi alla finestra e guardando il cielo
azzurro di quella mattinata. Lo sguardo le cadde sul tetto dell'Opera e non
poté fare a meno di chiedersi dove fosse l'uomo che l'aveva salvata. Era al
sicuro? Sarebbe tornato?
Con quelle domande in testa, la giovane zingara andò a rinfrescarsi il
viso e, indossati gli abiti lasciati la sera precedente da Madame
Giry (un vestitino di lana pesante per coprirla dal freddo di un delizioso
color celeste che metteva in risalto il colore dei suoi capelli), scese ai
piani inferiori, sperando di trovare qualcuno.
Sentì parecchio trambusto provenire dalla cucina e, incuriosita, si
avvicinò. Quello che vide per poco non la fece strozzare dalle risate: c'era
una donnona bassa e parecchio robusta, vestita con un
abito grigio e un grembiule bianco e con tanto di copri
capo a panettone, intenta ad armeggiare con quello che sembrava arrosto di
pollo; peccato che fosse completamente annerito e bruciacchiato, così come i
suoi abiti chiari.
«Serve una mano?», domandò Phénix, facendosi avanti.
Ci mancò poco che la donna mandasse all'aria il vassoio che reggeva
mestamente in mano. «Madre de Dios!
Nessuno ve ha insegnato che si bussa, señorita?», esclamò indispettita la donna, con un fortissimo accento
spagnolo.
Phénix arrossì per la brutta figura. «Mi scusi, non...
Non volevo spaventarla.»
La donna la guardò bonaria, soffermandosi forse un po' troppo sui suoi
capelli e sui suoi occhi. «La Señora
mi aveva detto che eravate stanca. Ma non pensavo così tanto!
Ve stavo dando per morta, señorita.»
La zingara sorrise, passandosi una mano sul collo. «Dopo una dormita
come la mia posso star sveglia per giorni interi,
ora.»
«Comunque, me chiamo Rosalinda Blanco e lavoro sotto laSeñora Giry da
quindici anni.», le disse, porgendole una mano dopo essersela pulita alla
bell'e meglio sul grembiule.
«Io sono Phénix.», la giovane ricambio titubante
la stretta di mano. «Non conosco il mio vero nome.»
«No es un problema, Phénix, giusto?»
Annuì, ora più tranquilla e rilassata dai modi amichevoli della
domestica. Aveva un viso simpatico, tondo e rosso, e Phénix capì subito,
guardandola nei suoi occhi scuri, piccoli ed
incassati, che era una brava persona.
«Allora, volete darme una mano? Spazzate qui
intorno, ho fatto un disastro! ¡Maldecidohorno!»
Un po' burbera, ma una brava persona, concluse
Phénix, sorridendo.
Come promesso, Madame Giry e la figlia
tornarono per l'ora di pranzo. La donna non fu molto contenta di trovarsi il
pollo carbonizzato, ma si limitò ad un'occhiata mista
tra il seccato e il divertito alla povera Rosalinda. «E
tu? Non mi risulta che ti abbia ospitata per pulirmi
la casa.»
Questa si mise a ridere, poggiando su una parete la scopa. «Oh, Madame, non mi sembra il caso che rimanga con le mani in
mano... Non ho esperienza, ma ci terrei ad aiutare, se possibile.»
Claire Giry la guardò bonaria, scuotendo la testa. «Avevo pensato bene
ad inquadrarti come una ragazza testarda, mia cara.»,
le disse, inclinando il capo. «Comunque, ti presento mia figlia, Meg. Meg, lei è... Sophie, la ragazza di cui ti ho
parlato oggi.» La zingara la guardò perplessa per quel nome che non era il suo,
ma non obiettò.
Si fece avanti una graziosa giovinetta dai
lunghi capelli biondi e un visino delizioso, che le sorrise gentile e s'inchinò
elegantemente. Indossava un abito particolare, agli occhi, di Phénix, sul rosa
sbiadito e tutto a fronzoli: sembrava uscita da uno spettacolo.
«Meg fa parte del corpo di ballo che dirigo a teatro, anche se difatti
il teatro ora è chiuso.», le spiegò Madame Giry,
accarezzando distrattamente i capelli della figlia. «Continuo a dare lezioni di
danza in una casa ristrutturata qua vicino, magari un giorno puoi venire anche
tu.»
«Mi farebbe piacere, Madame. Amo ballare.», acconsentì la giovane, guadagnandosi un'occhiata interessata
dalla donna. Se solo Erik le avesse detto che Madame
Giry era la direttrice del corpo di ballo dell'Opera! Oh, ballare era la sua
vita!
«Bene, Rosalinda, il pranzo si può recuperare?», domandò la donna alla
domestica.
Questa abbassò le spalle, tristemente. «Me
dispiace, Señora, ma quel forno ha fatto più
in fretta del solito, oggi!»
Madame Giry agitò una mano con fare
noncurante. «Non fa niente, mangeremo qualcos'altro.
Ora, Sophie, se non ti dispiace vorrei parlarti.»,
disse, guardandola con serietà.
Capendo già l'argomento della discussione, Phénix la seguì docilmente
fino allo studio, al piano superiore. Madame Giry la
fece accomodare su un'accogliente poltroncina, mentre lei si limitò a rimanere
in piedi, vicino alla finestra. Phénix, per l'ennesima volta, si ritrovò a
contemplare quella nuova stanza, tra libri, mobili di legno
finemente lavorati, e ritratti di famiglia.
«Allora, mia cara. Dormito bene?»
La ragazza annuì, sorridendole gioviale. «Non so quanto possa valere,
ma vi ringrazio ancora, Madame.»
«Non è me che devi ringraziare, lo sai bene.»Madame Giry estrasse la lettera di Erik da un cassetto
e prese il secondo foglio di cui era composta. Sembrava veramente lunga, chissà
cosa tutto conteneva? «Erik mi ha dato direttive ben
precise su cosa fare o no con te. Prima fra tutte non vuole “assolutamente
che lasci la casa da sola e in piena notte. Se dovesse capitareche esca durante il giorno, falle indossare
un copricapo che le nasconda i capelli. Sarà meno riconoscibile. Quando la
presenterai a qualcuno dì che si chiamerà Sophie Rembrant, o quello che
preferisce. Il suo nome può essere pericoloso.” E poi continua: “Inoltre esigo che venga
trattata come una persona di famiglia e che le trovi un lavoro sicuro, in modo
tale che non ti pesi sulle spalle. Ho grandi progetti per lei, ma dovrai
fare esattamente quello che dico.”»
Phénix trattenne il fiato sentendo quelle parole decise e dure, come
se fosse lui stesso a pronunciarle con il suo tono autoritario e che non
ammetteva repliche. «Progetti?», chiese perplessa più
a sé stessa che alla donna.
«Non so cosa stia programmando, ma dev'essere
qualcosa di importante, altrimenti non sarebbe stato
così esigente.»
L'idea che quell'uomo le stesse gestendo il suo futuro la infastidiva
e l'elettrizzava nel contempo. Che aveva in mente?
«Devo preoccuparmi?»
Madame Giry sospirò. «Non
credo. O meglio, spero che ciò che è successo
all'Opera l'abbia aiutato a darsi una calmata con le sue decisioni.»
Quelle parole non ebbero l'effetto di tranquillizzarla, anzi: le
spedirono un brivido con i fiocchi per tutto il corpo.
«Comunque, mi ha scritto che si farà vivo appena lo riterrà opportuno. “Sempre che non mi ammazzino prima. In quel caso
non preoccupatevi di aprirmi una porta, attraverserò i muri. Anche se lo faccio da tutta una vita.” Ah, ho sempre
odiato il suo sarcasmo.»
Phénix non riuscì a nascondere un sorriso, per quanto macabra fosse quella frase. Erik era proprio strano. Sì, era
l'aggettivo giusto. Strano. Era devastato dalla tristezza, era
suscettibile a livelli inimmaginabili, sapeva essere gentile e l'attimo dopo la
rabbia in persona, era autoritario e detestava che venissero
messe in discussione le sue decisioni... Ma era più che sicura che in quei due
giorni le avesse mostrato solo una piccola parte di sé.
Il bello (o il brutto?) di lui doveva ancora arrivare.
Quel pomeriggio Phénix ebbe molto tempo per chiacchierare con la
piccola Meg. Era una ragazza semplice ed umile,
parecchio schietta, come parlavano i suoi occhi vispi e chiari, ed
intelligente. Era così sveglia che molto probabilmente aveva capito che dietro
il suo arrivo c'era il fantomatico Fantasma. Evidentemente quella mattina aveva
cercato in tutti i modi di strappare qualche parola di troppo alla madre, ma
lei, irremovibile, non aveva fatto trapelare niente.
Phénix, d'altro canto, non fece nulla per farle
comprendere il vero stato di cose, preferendo proteggere Erik. Si sentì a
disagio, però, nel rendersi conto che la cultura della biondina era decisamente più alta della sua: lei non sapeva leggere, non
sapeva scrivere, non aveva avuto educazione, né aveva frequentato scuole di
alcun tipo. Si sentiva veramente fuori luogo.
Ma, nonostante tutto, Meg non la mise in difficoltà, e principalmente
le parlò della sua passione per la danza e si interessò
di quella della giovane zingara, curiosa di sapere e di vederla all'opera.
«Anzi, la prossima volta verrai con me alle
prove!», le stava dicendo entusiasta. «Così ti
presento a tutti, compresa la mia migliore amica, Christine. Anche lei è stata
una ballerina, ma grazie al Fantasma è diventata una
cantante superlativa... Oh, dovresti sentirla, Sophie!»
La zingara sbatté velocemente le palpebre. «Grazie al Fantasma?»
Meg annuì, pronta a raccontarle l'intera storia. E lei non vedeva
sinceramente l'ora di ascoltarla.
«Christine è rimasta orfana del padre quando era ancora una bambina e
lui le raccontava sempre di un angelo che l'avrebbe protetta quando lui non ci
sarebbe stato più. Quando Christine arrivò all'Opera il Fantasma
si accorse subito di lei e volle prenderla sotto la sua custodia e la sua
guida, dicendo che lui era il suo Angelo, l'Angelo della Musica. E' lui
che le ha insegnato a cantare così divinamente. Ed è lui che ha fatto di tutto,
compreso spaventare i manager e noi tutti con missive, affinché Christine fosse
la prima donna del Teatro. Poi lui le si è mostrato e
ovviamente non era un Angelo, ma un uomo. Un uomo pronto a tutto pur di farla
trionfare e pur di averla con se. L'amava
così tanto da compiere follie una dopo l'altra; uccise, la rapì, fece mettere
in scena l'ultima opera del teatro, scritta proprio da lui... Non nego che la
passione di quell'uomo per Christine mi abbia sempre lasciata sgomenta. E se
lui è ancora vivo, sono sicura che stia ancora pensando a lei... L'ha lasciata
andare solo per amore, e io la trovo la cosa più
romantica che un uomo possa fare.»
Phénix ascoltava senza parole, pensando a quale devozione e disperato
amore Erik si fosse lasciato andare. Aveva immaginato che la sua determinazione
nel voler fare qualcosa di specifico era talmente forte che era pronto a tutto
pur di portare a termine i suoi ideali. Ma mai avrebbe creduto che uno come lui, per il poco che lo conosceva, potesse anche
arrendersi davanti ad un no. Difficilmente riusciva ad
immaginarlo.
«Sai, Maman lo conosce da quando erano piccoli... Lei lo…»
«Basta così, Meg.» La voce autoritaria di Madame
Giry fece sussultare entrambe, in particolare la giovane ballerina, che divenne
rossa come i capelli di Phénix.
«Pardon, Maman.», mormorò la biondina, abbassando il capo.
Phénix osservò la scena perplessa e curiosa: perché la donna aveva
bloccato così bruscamente la figlia? C'era qualcosa che non avrebbe dovuto
sentire? Qualcosa che non doveva sapere?
«Meg, vai a prepararti. Siamo ospiti a cena da mia sorella.», continuò Madame Giry, mentre la figlia annuiva e spariva a cambiarsi.
«Sophie, vuoi venire anche tu?»
La zingara scosse la testa, sorridendo. «Oh,
non credo sia il caso. Rimarrò a fare compagnia a Rosalinda, non è un problema.»
Con un cenno del capo, Claire Louise acconsentì, congedandosi dalla
giovane e andando verso la sua camera per prepararsi anch'essa. L'aveva
rischiata grossa quella volta. Accidenti alla lingua lunga di sua figlia! Se le
avesse raccontato di come aveva conosciuto Erik, Phénix non ci avrebbe messo
molto a fare due più due e capire tutto il collegamento tra lui e la morte dei
suoi genitori. Non doveva succedere, nel modo più assoluto.
“Mi raccomando, Claire, te lo ripeto ancora una volta: quella
ragazza non deve mai venire a conoscenza del mio
passato e di come mi hai fatto fuggire dal suo gruppo. Se dovesse fare qualche domanda
in proposito inventati qualcosa, so che in queste cose
sei molto brava.
Te lo chiedo per favore, in segno della nostra vecchia amicizia.
Il sistema fognario di Parigi era stato inaugurato dopo lunghi anni di
lavori incessanti dopo la prima metà dell'Ottocento. Prima di quel periodo,
infatti, la città non aveva ancora un sistema adeguato che la rendesse pulita e
igienica, e le persone, soprattutto nei quartieri bassi, erano costrette a
vivere nell'immondizia e a respirare un'aria impregnata di sporco e odori
sgradevoli. Fortuna volle che Georges Eugène Haussmann, più comunemente
conosciuto come il Barone Haussmann, con il suo arrivo
provvidenziale nell'amministrazione come Prefetto del dipartimento della Senna,
oltre i tantissimi e bellissimi boulevard, fece aumentare la rete fognaria di 600 km, aggiungendo anche
altri cunicoli per il deposito dei primi cavi elettrici per l'illuminazione
della città.
E proprio in uno di questi cunicoli, all'asciutto e al riparo da
possibili problemi, stava uno degli accampamenti di zingari
più importante della zona.
«Cosa vuol dire che sono due giorni che
manca?», sbottò l'uomo, un individuo abbastanza robusto di stazza e dall'aria
decisamente poco amichevole.
«Vuol dire che non è tornata al mulino, Lucas.», rispose l'altro, un
ometto magrolino e alto. «Deve essere scappata di
notte, perché è sparita nel nulla e nessuno se n’è accorto.»
Tale Lucas si passò una mano tra i lunghi capelli neri, irritato fino
all'inverosimile. «E dimmi, razza di imbecille, do da
mangiare a te e agli altri per farvi scappare sotto il naso chi vi ho ordinato
di tenere sotto controllo?»
David si mise una mano sul petto, sinceramente dispiaciuto, e temendo
l'ira del suo superiore. «No, Lucas, ma…»
«Niente “ma”!», gridò, sbattendo un pugno sul tavolo che aveva affianco. Per poco non lo ruppe, dato
il forte colpo che gli diede e la già precaria stabilità del legno mangiato dai
tarli. «Non voglio sentire stupide scusanti! Se non
siete capaci di stare dietro ad una ragazzina sola allora siete proprio la
vergogna della nostra famiglia!»
«Lucas, lei non era sola.», s'intromise un altro zingaro, che catturò
subito l'attenzione dell'uomo.
«Ah, no? E con chi era la bella Phénix?»
«Nicolas, quando è tornato l'altra mattina dall'appostamento, ha
parlato di un uomo vestito di nero e con una maschera in viso. Non sappiamo
altro.»
Lucas assottigliò gli occhi, mentre assimilava quella notizia
inaspettata. «Un uomo vestito di nero e una maschera
in viso? Interessante.», ghignò. «A
proposito di Nicolas e Victor, che fine hanno fatto quei due? Sono spariti
anche loro con la bella zingarella?»
I presenti si lanciarono occhiate terrorizzate, non sapendo bene come
prendere la discussione per ridurre, quanto possibile, la reazione dell’uomo.
«Ecco, Lucas…», si fece avanti un terzo zingaro,
di nome Faust. «Li abbiamo... Li abbiamo trovati nei pressi del mulino.»
L'uomo fece passare qualche secondo prima di capire bene le parole
dell'altro. «Come?»
«Li abbiamo trovati... Morti... Sì, vedi...
Qualcuno li ha uccisi…»
Lucas non continuò nemmeno ad ascoltare il resto del discorso. Solo
una parola continuava a girargli in testa: morti. Morti... Nicolas e
Victor morti... I suoi cugini... Coloro che considerava
come fratelli... Morti? No, non poteva essere, non doveva essere così!
Si alzò dalla sua sedia con impeto, facendola crollare dietro di sé
dalla foga, e prese per il bavero Faust, che tremò nel vedergli
quell'espressione diabolica e folle in viso. «Come sarebbe a dire morti?! Quando diamine pensavate di dirmelo?!»
«Lu-Lucas, calmati, noi non…»
«Calmati? Calmati?!», gridò,
completamente fuori di senno, mollando la presa al collo di Faust e tirandogli una
pugnalata al ventre che gli mozzò il fiato. «Io sono calmissimo, non vedi?»
Con gli occhi sgranati dalla paura e dal dolore, Faust abbassò lo
sguardo sul ventre, dove un rivolo di sangue stava iniziando a sporcargli la
già sudicia camicia. Gli altri a stento repressero un gemito soffocato per lo
stupore e il terrore della rabbia del loro capo, ma nessuno osò fiatare. Quando
Lucas arrivava a tanto era proprio fuori di sé. Ed era
pericoloso, tremendamente pericoloso contraddirlo in
qualsiasi modo.
Col respiro affannato per l'impeto del gesto e per la rabbia, Lucas
lasciò cadere l'uomo per terra, ancora vivo ma spaventatissimo e dolorante.
Victor e Nicolas erano morti... Perché? Li aveva
incaricati di sorvegliare la ragazza e di spaventarla un po', non era niente di
così pericoloso! Che accidenti era successo?
«Bene, miei cari amici.», esordì, camminando lentamente per tutta la
lunghezza della stanza, uno dei tanti buchi ricavati sotto terra da un vecchio
passaggio delle fogne. Il loro regno indiscusso. «Abbiamo
un problema. I miei poveri cugini sono stati uccisi e Phénix è scomparsa,
magari con l'uomo misterioso avvolto di nero.» Tutti
lo seguivano silenziosamente, mentre parlava a voce alta e con tono
autoritario, quasi dimentico dello scatto d'ira di poco prima.
Era questo l’aspetto che maggiormente spaventava chiunque avesse a che fare con
lui: era pazzo, letteralmente. «E sono quasi sicuro che non sia stata lei ad ucciderli. Non ne ha le forze. Quindi, deduco che
l'assassino sia qualcun altro.»Guardò
uno ad uno tutti i presenti, serio come non mai. «Esigo
che troviate questo pezzente e me lo portiate vivo. Gli farò vedere cosa significa mettersi contro di me. E
voglio che ritroviate Phénix. Non fatele del male, al massimo spaventatela un
po'. Saprò io come gestirla ed ammaestrarla. Non mi
scapperà più, non questa volta.»
Il ghignò sinistro che gli increspò le labbra
bastò a far capire che faceva sul serio e che non ci sarebbe andato leggero,
non quella volta.
Erano passati tre giorni dal giorno in cui
aveva lasciato la sua “casa” per prendere la via dell'ignoto, guidata dall'uomo
più temuto e più ricercato di tutta Parigi. Eppure, nonostante la rocambolesca
fuga, Phénix era felice di quella scelta. Casa Giry era veramente accogliente e
si sentiva giorno dopo giorno una di famiglia. Vedeva
poco Madame Giry e Meg, sempre fuori con il corpo di
ballo, ma la compagnia di Rosalinda, o Rosette, come aveva iniziato a
chiamarla, era quella che più la divertiva e la rendeva allegra: quella donna,
per quanto burbera fosse e non facesse troppi giri di parole per dirle le cose,
era comicissima con i suoi modi di fare spesso impacciati, ma di chi si
ostinava a fare le cose per bene; e adorava sentirle raccontare della Spagna e
della vita che faceva lì. Le raccontò che era stata sposata, ma che la suocera,
odiandola dal profondo del cuore, aveva fatto di tutto
pur di farla allontanare; Phénix per poco rischiò di rimanerci secca dalle
risate quando le raccontò di tutte le piccole vendette personali contro quella
donna racchia e maledetta, come continuava a chiamarla lei.
In quei tre giorni, però, non aveva ricevuto nessuna notizia da Erik.
Era sicura che stesse bene e che probabilmente stesse
architettando qualcosa, ma l'idea che non si fosse ancora fatto sentire la preoccupava
un poco. Non immaginava dove avrebbe potuto trovare
rifugio, se non nella sua vecchia casa sotto l'Opéra; ma anche quella
possibilità era totalmente da scartare, dato che sicuramente quei sotterranei
erano perennemente sotto controllo dalla milizia e non credeva, dopo il
racconto di Meg, che volesse tornarvi, con tutti i ricordi che quel posto
aveva.
Chissà quanto doveva aver sofferto, per aver lasciato andare la donna
amata tra le braccia di un altro... Non sapeva se lei,
al posto suo, sarebbe riuscita a fare lo stesso. O forse ragionava così perché
non aveva mai provato cosa volesse dire amare con tutta sé
stessa qualcuno, a tal punto di sacrificarsi per il suo bene. L'unica relazione
che ebbe, e che non la vedeva per niente consenziente, era con l'uomo più
potente del gruppo di zingari dove era nata e cresciuta, Lucas. Odiava il suo
ghigno, odiava i suoi occhi avidi su di lei, odiava il fatto
che volesse programmarle la vita a suo modo e piacimento, neanche fosse
la sua bambolina di pezza. Oh, se l'era presa parecchio quando gli aveva
comunicato la sua volontà di lasciare il gruppo, e anche quella di lasciare
lui. Non l'aveva mai visto così arrabbiato e frustrato come un cane bastonato.
Sapeva che così facendo si stava creando un nemico, e anche pericoloso, ma la
sua libertà valeva molto di più per farsi intimorire da qualche minaccia.
All'inizio non le aveva lasciato neanche il tempo per respirare, tanto le
teneva il fiato sul collo. Poi, vedendo che lei non accennava a voler tornare
indietro, aveva iniziato a far cadere la cosa. Peccato che Phénix si era accorta che spesso e volentieri c'erano i suoi
scagnozzi nei paraggi, che la tenevano sempre e costantemente sotto controllo.
Era più che sicura che Lucas stesse temporeggiando per riprendersela una volta per tutte.
Ma ora, con la sola compagnia del piccolo Dante, nella sua stanza,
Phénix non volle pensare a cosa avrebbe fatto o non fatto Lucas, se l’avesse
dimenticata oppure no. Guardò ammirata l'imponente sagoma del teatro, mentre
questo assumeva svariati colori rossastri per via del tramonto. Da quando non
doveva più pensare a guadagnarsi il pane per le strade di Parigi, riusciva
anche a gustarsi le più piccole cose che la vita le
offriva: non si era mai resa conto di quanto bello fosse guardare le stelle,
senza pensieri di sorta; oppure di quanto bello fosse aiutare Rosalinda a
preparare il pranzo e la cena, per quanto avesse ancora molto da imparare…
«Oh madre de Dios! Te avevo detto di pulire solo tre
manciate de noci! Quelle saranno almeno el doppio!»
Phénix le aveva sorriso innocentemente, mettendosi in bocca un paio di
nocciole. «Ma così il dolce esce più buono…»
La donnona, allora, l'aveva guardata bonaria
e si era arresa, sbuffando. «Sei peggio de un coccio.
E non guardarme con quegli occhi, che va a finire che
mesiento anche in colpa!»
Phénix si mise a ridacchiare da sola a quel pensiero. Quante gliene stava facendo passare a quella povera donna! Per non parlare
dei trucchi di magia che aveva imparato da quando era ancora una bambina e le
faceva sparire da sotto il naso le sue cose per
fargliele riapparire nei posti più improbabili... Pensandoci bene a volte si
comportava veramente da streghetta.
Intenta a godersi il paesaggio esterno, fu solo un movimento nella
strada sotto di lei che la distolse dai suoi pensieri, facendole abbassare lo
sguardo. Assottigliò gli occhi verdi per cercare di capire meglio chi o cosa
fosse quell'ombra nera che ora si muoveva furtiva e veloce, strisciando contro
le pareti dell'edificio frontale, ora si fermava, nascosta, per evitare di
essere notata. Non ne era sicura, ma quello che vide fluttuare sinuoso
nell'aria le sembrò un mantello.
La sua curiosità aumentò quando vide la stessa ombra attraversare
velocemente il vicolo, per sparire subito dopo da qualche parte nello stesso
palazzo della famiglia Giry.
Phénix rimase per un attimo interdetta, non
ricordandosi di altre entrate all'abitazione al di fuori del portone
principale. Rimase in silenzio, in attesa ed in
ascolto, ma lì, al quarto piano in un sottotetto, non poteva certo sperare di
sentire qualcosa.
Si tolse le scarpe, silenziosamente, e,
scalza, scese lentamente i gradini delle scale, cercando di non far cigolare le
assi di legno. Non era mai stato un problema per lei origliare senza essere
notata: quante volte l'aveva fatto per ascoltare i discorsi di Lucas e dei suoi
uomini!
Arrivò al piano terra senza incontrare anima viva; neanche in cucina
c'era l'ombra di Rosalinda, neanche una luce accesa. Probabilmente da un
momento all'altro sarebbe tornata dalle ultime spese prima dell'imbrunire.
Rimase immobile in mezzo al salotto, cercando nel buio un qualche
punto in cui poteva esserci una porta per uno scantinato, o qualche camera non troppo in vista che le era sfuggita. Mise le mani in
avanti, per evitare di urtare mobili o altri oggetti in una casa che ancora non
conosceva così bene, per camminarci al buio senza fare danni, e avanzò qualche
passo. Fu solo quando sentì delle voci lontane all'altezza del sottoscala, che
capì che laporta
nascosta doveva essere proprio lì. Si avvicinò con cautela, tastando la
superficie liscia della tappezzeria della parete per trovare qualche discrepanza nel muro; chiuse anche gli occhi, per sentire
meglio ogni possibile differenza, finché non la trovò. Sorrise vittoriosa e riuscì
ad aprirla leggermente con una leggera spinta verso
l'interno; rimase in ascolto, non volendo avanzare oltre per paura di essere
scoperta. Non sarebbe stato certo molto carino da parte sua essere trovata
mentre origliava fatti che evidentemente non le interessavano.
«Sei sicuro che non ti abbia visto nessuno?», sentì la voce di Madame Giry, preoccupata e anche indispettita. «Non dovresti
andartene in giro quando il sole è ancora in cielo.»
La risata sarcastica di un uomo le solleticò le orecchie, e capì
subito di chi si trattasse. «Non sono così
sprovveduto, Claire. Credi che trascorrere tutta una vita nelle ombre non ti
faccia diventare come loro? E poi, sono o non sono un Fantasma?»
Phénix avrebbe giurato che la donna, in quel momento, stesse roteando
gli occhi al cielo, esasperata, e si lasciò sfuggire un
sorrisino divertito.
«Non saresti dovuto venire, Erik. E' pericoloso. Ho incontrato dei
soldati oggi che…»
«La ragazza come sta? Si trova bene?»
«Erik, non cambiare argomento, detesto quando
fai così!»
«Tu ora rispondimi, poi parleremo d'altro.»
La donna sospirò pesantemente. «Sì, sta bene,
anche se ogni tanto mi capita di vederla strana. Forse perché non è abituata a
vivere circondata da quattro mura sicure e non si trova a suo agio.»
«Imparerà. Non rimarrà ancora per molto qui. Presto verranno a scoprire
che ospiti una zingara, probabilmente accusata di duplice omicidio... Devo
trovarle una sistemazione più sicura.»
«Hai già un'idea?»
Phénix non sentì risposta: probabilmente Erik aveva risposto con un
cenno del capo o con uno dei suoi sorrisini eloquenti. Purtroppo per lei, però,
non riuscì a sentire il continuo del discorso, dato che
il rumore della porta d'ingresso che si apriva lentamente la fece sobbalzare di
colpo, facendole sbattere la porticina dal quale stava origliando la
discussione. Imprecando a denti stretti, risalì le scale velocemente in punta
di piedi, sperando di non essere vista né sentita. Ma
era più che sicura che i due, là sotto, l'avessero scoperta alla grande.
«Señora Giry! Soy tornata!
Ho trovato delle arance fresche y buenas!»
Phénix si chiuse in camera proprio quando Rosalinda stava dando il
bando dei suoi acquisti, e si poggiò alla porta con una mano sul cuore.
Accidenti, se l'era vista brutta!
Come se non bastasse, per tutta la durata della cena sentì lo sguardo
pungente di Madame Giry addosso che, era evidente,
aveva capito tutto al volo. Fortuna sua che riusciva bene o male a nascondere
quello che le passava per la mente e si comportò molto spontaneamente con
tutti, come se niente fosse successo. Era una ragazza maledettamente curiosa e
sapeva benissimo che questa sua caratteristica prima o poi
le avrebbe portato solo guai.
Quella notte si ritirò in camera molto presto, decisa a non dover
restare nella stessa stanza con la donna per non dover rischiare di fare altre
figuracce.
“Guardiamo il lato positivo della cosa.”, si disse, mentre indossava
la veste da camera. “Erik è ancora vivo e sembra in forze. E vuole ancora
aiutarmi, anche se il tono che ha usato sul mio futuro non mi è piaciuto tanto…”
Guardò al piccolo Dante che le sbadigliò assonnato, avvicinandosi alle
sue gambe. «Tu pensi che sia una buona idea essere in mano sua?», gli chiese,
non aspettandosi certo una risposta da un gatto.
«Se lo ritieni giusto o meno fammi sapere.»
Phénix riuscì a non lanciare un urlo di spavento e di stupore grazie
al solo fatto che in quegli anni aveva imparato a nascondere bene le sue
emozioni, altrimenti avrebbe fatto un gran macello. Si voltò e vide la sagoma
scura di un uomo, nascosto contro la parete in ombra della stanza.
«Erik…», soffiò, mettendosi una mano sul cuore per cercare di
placarlo.
«Ti ho spaventata?», le domandò, muovendo
qualche passo e mostrandosi alla tenue luce dell'unica candela presente. Per
quanto l'illuminazione fosse scarsa, la giovane riuscì comunque a notare un
certo cambiamento nell'aspetto di Erik: i capelli erano ora lucenti e tirati
ordinatamente indietro, niente a che vedere con quelli arruffati e sporchi di qualche giorni prima; ugualmente il mantello nero che gli
avvolgeva le spalle era pulito e profumato, così come gli abiti eleganti che
s'intravvedevano e il foulard che gli copriva il collo. Sembrava un signorone
dell'alta aristocrazia parigina.
Phénix sospirò, leggermente infastidita dall'improvvisa comparsa.
«Cosa te lo fa pensare?» Guardò l'uomo sorridere lievemente compiaciuto e si
ritrovò a sospirare quando lui schioccò la lingua, mentre la osservava curioso.
«Era interessante la discussione, vero?»
Phénix abbassò lo sguardo, colpita ed
affondata. «Che intenzioni hai con me? Non sono
disposta a fare tutto quello che vuoi, sia chiaro.»
«Non si risponde ad una domanda con un'altra
domanda, Mademoiselle. Non è educato.», le disse canzonatorio, avvicinandosi ancora un poco.
«Comunque se vuoi buttarti tra le braccia dei soldati o dei tuoi amici fai pure; però fammelo sapere prima, non ho tempo da
perdere.»
«Se aiutarmi lo consideri una perdita di
tempo allora vai pure e lasciami in pace. Nessuno ti ha chiesto niente.» La giovane si pentì subito del tono stizzito che aveva usato non appena lo vide stringere la mascella e i pugni, in
un moto di stizza: non voleva essere né troppo dura né poco riconoscente, ma
non voleva nemmeno che le programmasse il futuro a suo piacimento, senza che
lei potesse opporsi.
«Nessuno ti ha insegnato che dovresti mostrare almeno un poco di
riconoscimento verso chi ti dà aiuto?», le chiese arrabbiato,
riuscendo a stento a trattenersi dal stringerle il collo tra una mano per
l'offesa.
«Chi avrebbe dovuto insegnarmelo è morto prima che potesse farlo.»
Erik si morse il labbro, mentre tutta la rabbia sfumava via come in un
soffio.
«Non fraintendermi, apprezzo molto quello che stai facendo per me,
Erik. Ma io voglio essere libera, libera da vincoli,
libera dalle pianificazioni altrui. Secondo te perché ho lasciato la mia
comunità? Perché volevo essere libera. E l'idea di aver trovato un altro uomo
che vuole decidere per me non mi piace.» L'espressione
di Phénix si addolcì un po', distendendosi in un sorriso. «Perché
non mi dici che cosa stavi pensando? La prenderei diversamente.»
Erik sospirò pesantemente, incrociando le braccia. «Sei una persona
dannatamente difficile da domare anche per me, lo sai?»
«Infatti nessuno mi ha mai domata.»
Per un attimo lo sguardo di malizia e furbizia che vide in quegli
occhi smeraldini e sottili lo lasciarono senza parole,
e capì perfettamente cosa volesse dire con quelle parole. Era orgogliosa e
tenace, proprio come lui. «Strega…», sussurrò, piegando il labbro in un
sorriso.
«Sì, me lo dicono in molti.» Phénix gli agitò le mani sotto il naso,
sorridendo birichina. «Attento a non provocare la mia
ira o posso farti qualche sortilegio!»
Le mani guantate di lui le bloccarono i
polsi con gentilezza, ma decise nel contempo. «E tu
attenta a non provocare me... So essere letale anche io.»
Le fece abbassare le braccia lungo i fianchi e indugiò un poco sulle piccole
mani della ragazza, che poteva sentire ben poco sotto la pelle dei guanti.
Sono calde, vero?
Gliele lasciò subito dopo, come scottato. Perché ora gli erano venute
in mente quelle di Christine, gelide e tremanti quella
fatidica notte dell'incidente?
«Erik?», lo richiamò la giovane zingara, mentre lui si voltava
infastidito.
«Voglio farti lavorare nel mio nuovo teatro. E' questo che voglio.»
Le parole di Erik le rimbombarono in testa per qualche secondo di
troppo. «Il tuo nuovo cosa?!»
«Curioso: è la stessa reazione che ha avuto anche Claire.», le
confessò in un sorriso che aveva un qualcosa di divertito. «Ho
intenzione di riaprire il mio nuovo teatro. Mi ci vorrà tempo e denaro, ma
fortunatamente ho entrambi, quindi non sarà un problema.»
«E come pensi di fare?», gli chiese, rendendosi conto di quello che le
stava dicendo. Lui era un ricercato, come poteva solo pensare di aprirsi un
teatro in piena libertà, pur avendone il potere monetario?
«Mi aiuterà Claire... e tu. Del resto ti eri già offerta per darmi
aiuto, ricordi?», la osservò un poco, per guardare le
sue reazioni, poi continuò. «Ho intenzione di
finanziare i lavori di ristrutturazione dell'Opéra. Per quanto conservi brutti
ricordi in quel posto, non posso fare a meno di starvi lontano... Firmin e André saranno ben felici
che qualcuno li solleverà dalla bancarotta. E vista la situazione non credo
faranno troppe domande.»
«Anche se avevo detto il contrario, pensandoci bene non penso che sia
una buona idea. Credi che a nessuno verrà da chiedersi chi sia questo buon uomo
che spende il suo patrimonio all'Opéra senza neanche farsi vedere? Perché così
dovrai fare, se non vuoi essere arrestato.»
«Erik Duval è un compositore ed un
uomo molto impegnato. Viaggia molto, ama la solitudine…»
Il Fantasma le sorrise, calmo. «Tranquilla, Phénix,
apprezzo la tua apprensione, ma non farei nulla che mi metterebbe in pericolo.
Non ora che ho trovato una ragione per andare avanti.»
«Che sarebbe?» Phénix si sentì avvampare quando capì l'occhiata
eloquente che le riservò. «Perché tutto questo?», gli chiese con un filo di
voce. «Non bastava che mi lasciassi un po' dei tuoi soldi?»
«No.», le rispose semplicemente lui. «Un giorno capirai,
ma non sarà oggi.» L'uomo si avvicinò alla finestra della camera, spostando
leggermente la tendina e guardando la strada deserta. Ora sapeva cosa fare, lo
aveva chiaro e limpido in mente. Proprio come gli aveva letto nel pensiero lei,
qualche giorno prima, avrebbe riportato ai vecchi splendori il Teatro
dell'Opera di Parigi, avrebbe rimediato al disastro che lui stesso aveva
combinato e avrebbe riversato nuovamente il suo genio nella musica e in tutte
le sue forme. E per fare questo aveva bisogno di lei, la sua nuova musa. Quella
ragazza, inconsapevolmente, gli aveva dato una nuova spinta,
l'ultima che avrebbe avuto dalla vita. Non sapeva se così facendo l'avrebbe mai
perdonato, ma voleva tentare: avrebbe scritto una nuova opera e lei vi avrebbe
ballato. L'avrebbe impregnata di dolore, di stanchezza, di pietà, così tanta da
far piangere i suoi spettatori dall'inizio alla fine dello spettacolo. Avrebbe
fatto capire a tutti cosa significhi vivere da
emarginato, vivere passivamente guardando il mondo in un angolino, senza
nessuno al proprio fianco se non la musica, unica compagna di vita.
E avrebbe fatto capire anche a Phénix che quello che aveva fatto era
stato dettato solo ed unicamente dalla disperazione.
Forse avrebbe capito, forse l'avrebbe perdonato.
Sì, avrebbe scritto l'opera della sua vita. E non sarebbe stato un fittizio trionfo prima ed un disastro dopo, come il Don
Juan Triumphant, no.
Sarebbe stato unicamente un trionfo. Il suo trionfo, prima
della fine di tutto.
Ne era sicuro.
Continua...
Tornata dal mio
splendido soggiorno a Parigi! *.* Voglio tornarci!
;__;
Prima di lasciarvi
vorrei ringraziare le poche anime pie che hanno aggiunto
La Vita Nova tra preferiti e seguite,
grazie mille! Alla settimana prossima! ;)
Certo, è stata la prima a venire a conoscenza delle mie intenzioni.
E?
E come sempre non si è sbilanciata più di tanto. Sa bene che il suo
parere per me è molto importante, ma sa anche che se decido una cosa così deve
essere, e neanche lei può farmi cambiare idea.
Poi sarei io quella difficile da domare...
Phénix, rannicchiata su uno dei divani davanti al caminetto acceso,
stava ripensando alla discussione della notte prima, perplessa ed incuriosita.
Ancora non era riuscita a capire cosa stesse passando nella mente contorta di
quell'uomo così misterioso che l'aveva praticamente tolta dalla strada senza
che lei gli avesse chiesto niente. Le stava nascondendo qualcosa, era palese. E
Madame Giry molto probabilmente sapeva molto su di lui che a lei invece non era
dato conoscere; altrimenti non si sarebbe spiegata la sua reazione nel bloccare
tanto repentinamente il racconto di Meg sul fantomatico Fantasma dell'Opera. Ma
cosa le stavano nascondendo? Odiava dover essere messa all'oscuro di ciò che la
circondava. Lei aveva riposto la fiducia in loro, perché non potevano
ricambiarla con la stessa moneta?
Gonfiò le guance indispettita, completamente dimentica di Rosalinda
che le stava parlando.
«Me stai sentiendo o sto hablando
da sola come siempre?»
Phénix abbassò lo sguardo, stringendosi nelle spalle, colta in fallo.
«Scusami Rosette, è che ho tanti pensieri per la testa…»
«Beh, chica, almeno abbi el buon senso de dirme: “Stai
zitta!” se non vuoi darme ascolto.», sbottò la donna,
incrociando le braccia al petto come una bimba indispettita.
Sconsolata per la brutta figura, anche se Rosette come sempre la
ingigantiva più del dovuto, Phénix si alzò dal suo divano e si sedette accanto
alla domestica imbronciata, che stava facendo di tutto pur di non prestarle
attenzione. «Sei offesa?»
«Ah! Non credere de essere così importante da offenderme
se non me ascolti, ragazzina.», borbottò l'altra, un po' rossa in viso. Era fin
troppo evidente che la burbera Rosette avesse trovato in lei una buona
confidente, con cui poteva parlare apertamente e sfogarsi su qualunque cosa. Ed
era altrettanto evidente, per quanto lei provasse a nasconderlo, che si
preoccupasse per la giovane, ed il fatto che questa fosse persa nei suoi
pensieri senza spiegarle il motivo di tanta apprensione un po' la infastidiva
un po' la rendeva triste.
«Oh, ho capito che cosa hai, Rosette!», esclamò Phénix, dopo un'attenta
occhiata di studio. «Sei gelosa dei miei pensieri!»
Per poco la donna non si strozzò con la sua stessa saliva e divenne
più rossa delle fiamme che danzavano nel caminetto acceso. «Ma... Siéntela! Quando mai soy gelosa
dei tuoi pensieri, pazza!» La ragazza le lanciò un'occhiata eloquente e Rosette
maledì quegli occhi verdi che sembravano volerle leggerle l'animo. «Sei proprio
una strega, tu.»
Phénix si mise a ridere divertita, nonostante quell'appellativo
solitamente usato in modo dispregiativo.
«E allora, se può sapere che tieni da essere così?»
«Niente di così importante... Sto solo pensando a cosa ne sarà di me
tra qualche anno.» Anche se non erano quelli i pensieri che più l'affliggevano,
la sua non era propriamente una bugia. Aveva sempre vissuto alla giornata,
vedendo il futuro come qualcosa di nebbioso, che solo sua nonna era in grado di
decifrare, bene o male. Ma in quei giorni non poteva far altro se non
riflettere su cosa sarebbe successo. Avrebbe seguito i consigli di Erik?
Avrebbe lavorato per lui in un teatro? Non sarebbe più stata una zingara che
chiedeva l'elemosina per qualche misero spettacolo di strada? E Lucas e gli
altri? Come sarebbero stati i loro rapporti?
«Pensare al futuro è la cosa più inutile y stancante. Credime, non farte problemi de
alcun tipo, o ne arriveranno altri.»
Phénix sorrise alla donna e le si accoccolò su una spalla, facendola
sussultare impacciata. «Sai, Rosette, sei una brava persona, anche se fai di
tutto pur di non mostrarlo. Grazie.»
La domestica sospirò profondamente, conscia che non sarebbe mai
riuscita a nascondere niente delle sue emozioni a quella stramba ragazzina. «Y
tu sei troppo sveglia per i miei gusti, chica.»
Dante, che stava allegramente giocando con i fili del tappeto, miagolò
affamato, catturando la loro attenzione. Subito Phénix lo prese tra le braccia,
accarezzandogli la testolina pelosa.
«Quel gatto non me piace.»
«Perché?»
«Es negro!»
Phénix scoppiò a ridere per quelle stupide credenze sulla sfortuna che
avrebbero dovuto portare i gatti neri, continuando ad accarezzare il suo gatto.
«Mia cara Rosette, se fossero i gatti a scegliere o meno la nostra fortuna
sarebbe tutto diverso.»
In quel momento giunse Meg dal piano superiore, affaticata per la
fretta nello scendere velocemente le scale, in cui aveva anche rischiato di
rompersi l'osso del collo se fosse caduta. «Sophie, corri, siamo in ritardo!
Tremendo ritardo!», esclamò, prendendola per un polso e trascinandola via.
«Scusateci, Rosalinda, ma se non arriviamo in orario Maman si arrabbierà!»
Phénix non fece in tempo neanche a vedere una mano della donna che si
muoveva noncurante, che era già nella stanza della ballerina, con quest'ultima
che stava mandando all'aria mezzo armadio per cercarle un abito da farle
indossare.
«Scusa, Meg, ma... In ritardo per cosa?»
«Per le prove, no?», rispose la biondina, con un'espressione di
meravigliata ovvietà. «Maman mi ha raccomandato di portarti con me, questo
pomeriggio. E detesta i ritardi. Su, tieni questo!»
La zingara si vide davanti un abito in lana sul verde, proprio come il
colore dei suoi occhi, a maniche lunghe ma sboccate con pizzi finemente
lavorati, la gonna lunga fino ai piedi e molto leggera, nonostante la
pesantezza del tessuto, e un decolté che rimaneva scoperto il tanto giusto per
far lavorare l'immaginazione. Si vestì velocemente, dato che l'agitazione di
Meg le fece temere questa fantomatica ira di Madame Giry per i ritardi, e
docilmente si fece guidare al palazzo dove il corpo di ballo continuava le sue
lezioni dopo l'incendio.
Questo non era molto lontano dall'Opera ed era un delizioso edificio
abbastanza recente, all'angolo di un incrocio, e si sviluppava per cinque piani
che, come da norma in quegli anni, tendevano a diminuire di altezza man mano
che si saliva. Quello che interessava loro si trovava al secondo ed era formato
sostanzialmente da un unico salone rivestito di un pregiatissimo parquet,
tirato a lucido, delle volte alte e finemente dipinte, grandi finestre che
illuminavano perfettamente l'ambiente, rischiarato ancor di più da pareti chiare.
Inoltre c'era un grande specchio che ricopriva un intero lato della stanza e
permetteva alle ballerine di guardarsi all'opera mentre danzavano.
Madame Giry, intenta a dare le prime direttive di quella lezione, si
accorse subito delle due nuove arrivate e le guardò severamente. «Siete in
ritardo.»
Meg si tolse velocemente il soprabito, esortando anche Phénix a fare
lo stesso, e lo posò su una poltrona libera. «Scusa, Maman.»
Claire Louise guardò prima la figlia, poi Phénix, troppo intenta ad
osservare incuriosita tutte le ballerine che provavano il loro pezzo per
accorgersi di lei. «Meg, unisciti alle altre, su.»
Phénix si strinse nelle spalle, tremendamente a disagio. Non le erano
sfuggiti certi sguardi incuriositi e perplessi che molte di quelle ragazzine le
avevano lanciato appena aveva messo piede in quella sala. E lei odiava essere
al centro delle discussioni e dei pensieri degli altri, soprattutto se sapeva
che l'argomento principale era sempre lo stesso.
«Phénix, va tutto bene?», le domandò premurosa Madame Giry, facendola
risvegliare da quel momento di trance.
«No, per niente.», sussurrò lei, guardando intensamente una ragazzina
dai lucenti capelli neri ritirati in un chignon, che non aveva fatto altro se
non fissarla con astio e mormorare qualche cosa alla sua vicina. Non la
conosceva ma già non le stava simpatica. E lei aveva un sesto senso per quelle
cose, non si sbagliava mai. Bastava una sola occhiata e capiva alla perfezione
con che genere di persona avrebbe avuto a che fare. Sapeva già che quella
ragazzina le avrebbe dato parecchie grane.
La donna si accorse subito che molte delle sue allieve erano più
interessate alla zingarella che a quello che in realtà avrebbero dovuto fare, e
non ci impiegò molto a dare una strigliata con i fiocchi a tutte. «Insomma,
state danzando o siete venute qui per pettegolare?» E le ballerine, come da
copione, tornarono ritte e composte a fare il loro lavoro, rosse per il
rimprovero. «Scusale, una cosa che devi sapere di questo ambiente è che i
pettegolezzi sono all'ordine del giorno. Quindi non impensierirti troppo su
quello che possono dire.»
Phénix scosse la testa. «Non è di quello che possono dire che mi
preoccupo. Non mi è mai importato il parere degli altri.»
Claire le sorrise per distendere un po' la situazione. «Per ora rimani
a guardare come lavoriamo, poi vorrei vederti ballare.»
La giovane zingara si sedette in un angolo, incantata nonostante tutto
dalla sintonia che quelle ragazze avevano nel muoversi, nel seguire il ritmo
che Madame Giry impartiva loro o quello della musica che dolcemente fluiva da
un pianoforte suonato con bravura da un vecchio ometto e un violino suonato da
un ragazzo. Provò a cercare con lo sguardo una ragazza che somigliasse alla
descrizione di Meg, la famosa Christine Daaé che aveva fatto innamorare Erik.
Ce n'erano alcune con i capelli boccolosi e castani,
molto graziose effettivamente, ma non seppe dire se tra loro ci fosse anche
lei. Era proprio curiosa di conoscere questa giovane che gli aveva rapito il
cuore da farlo diventare folle nelle sue azioni. Evidentemente l'amore era un
sentimento così forte che poteva facilmente sfociare nella pazzia.
«No, no e no. Così non andiamo bene.», fece con un cipiglio Madame
Giry, avvicinandosi ad una biondina riccioluta. «Questa schiena deve stare
dritta, non curva. E tu, Julienne, prima del salto conta tre passi, quante
volte dovrò dirtelo?»
La lezione proseguì così per ben due orette buone, tra rimproveri e
musica vari, e Phénix si divertì parecchio nel vedere con quanta cura e grazia
le ballerine fluttuassero sul parquet. Certo era che lei così non sarebbe mai
riuscita a ballare! Troppi movimenti costretti, troppe regole da seguire... No,
la musica e il ritmo dovevano entrare in sintonia con lei stessa, doveva
lasciarsi abbandonare a loro, farli fluire con la naturalità di un ruscello sul
pendio. Cos'erano tutti quei passi, quei movimenti che a volte le parevano così
rigidi? Sembravano tante marionette!
«Sophie, mia cara.», esordì Claire, sorridendole gioviale, mentre
tutte le ragazze si facevano da parte per lasciare la sala libera per lei. Era
ovvio che nessuna si sarebbe persa la performance di quella strana giovane. «Ti
va di mostrarci un po' cosa sai fare?»
La zingarella annuì e si alzò dal suo posto, togliendosi le scarpe per
rimanere a piedi nudi e non rovinare il pavimento con i tacchi. Si avvicinò ai
due musicisti presenti e gli mormorò qualcosa, incuriosendo un po' tutti. Che
intenzioni aveva?
L'uomo anziano divenne paonazzo in un istante, mentre il giovane
violinista si limitò a sorriderle divertito.
E fu solo lui ad iniziare a suonare una melodia sensuale e lenta come
quella di un tango. Phénix non aveva cavaliere per ballarlo in coppia, ma non
ci mise molto a trovarlo, quando uno dei giovani ballerini presenti, incantato
dalle sue movenze, si fece avanti porgendole una mano per iniziare la danza. [immaginatevi
una musica stile El tango de Roxanne,
di MoulinRouge. NdA]
I loro corpi si unirono in un passo, aderendo con sensualità. Una mano
di lui teneva stretta quella di lei, mentre l'altra scivolava con lentezza
lungo la curva sinuosa dei suoi fianchi, per poi fermarsi dietro la schiena.
Mossero i primi passi all'unisono, seguendo il ritmo sensuale del violino come
se entrambi fossero diventati un unico corpo, fino ad un lieve distacco per una
giravolta, che si concluse con un abbraccio schiena contro petto. I loro visi
erano distesi in un'espressione di pura estasi, finché non si ritrovarono
nuovamente faccia a faccia. Phénix gli girò intorno, senza staccare lo sguardo
verde da lui, muovendosi lenta e felina come un gatto. Poi arrivò nuovamente
lui, che l'attirò a sé quasi con disperata violenza, sollevandole una gamba e
accarezzandola languido. Le fece fare un leggero caschè, accompagnandola con un
movimento lento e circolare, per riportarla in posizione eretta di fronte a
lui. Ballarono nuovamente seguendo i passi base, ora lenti, ora veloci.
I presenti erano muti e strabiliati da quel ballo tanto sensuale
quanto perfetto. Quei due sembravano nati per ballare insieme, con un'intesa da
far invidia.
Tra giravolte, prese in aria e movimenti fluidi, la danza finì in un
ultimo caschè, tra il silenzio generale. Solo Meg, entusiasta, osò battere le
mani, seguita a ruota poi dalle altre ballerine, meno convinte perché gelose.
Il ballerino, che le si presentò come Étienne, le fece un galante
baciamano, ringraziandola e complimentandosi con lei.
«Splendida, veramente splendida.», le disse Madame Giry, posandole una
mano sulla spalla.
Phénix le sorrise, intimamente soddisfatta per la bella figura. Ma non
le sfuggì qualche sussurro delle altre ballerine, che non stavano facendo altro
che additarla e mormorare parole come “volgare”, “sembra proprio una strega”,
“e quei capelli rossi... portano male!”. Lasciò perdere i pettegolezzi di
quelle ragazzine e si unì alle sue due salvatrici, non dopo aver recuperato le
scarpe.
Queste erano in compagnia di una giovane ragazza veramente graziosa,
dai lunghi capelli castani e boccolosi, ritirati
all'indietro per non ostacolarle la danza.
«Sophie, sei stata incantevole!», esclamò Meg, appendendosi al suo
braccio e facendola sorridere compiaciuta. «Ti presento Christine, ti ho
parlato di lei, ricordi? Christine, lei è Sophie Rembrant.»
Le due si salutarono con un sorriso, ma la cantante fu la prima ad
abbassare lo sguardo, come in imbarazzo. Phénix non seppe spiegarsi se il suo
fosse disagio per i colore vispo dei suoi capelli e dei suoi occhi o per il
fatto che fosse rimasta imbarazzata da quello che aveva appena visto. In ogni
caso, fu comunque contenta di fare la sua conoscenza. Aveva capito subito, solo
guardandola in quegli occhi grandi ed innocenti, del perché Erik se ne fosse
innamorato pazzamente: bella, semplice, umile ed educata. Quella che poteva
considerarsi una vera brava ragazza.
«Meg mi ha detto che canti.», le disse, facendola sussultare. Era
curiosa di vedere quale reazione avrebbe avuto al pensiero del suo Angelo
della Musica.
«Sì ho... Ho cantato, ma non so se tornerò a farlo.», rispose
timidamente l'altra.
«Perché no?»
Christine abbassò nuovamente lo sguardo. «Perché ho perduto il mio
maestro.»
Phénix rimase in silenzio, osservandola bene. Sì, lei lo amava, lo
vedeva benissimo. Ma purtroppo non nel modo in cui Erik aveva sperato. «Oh...
Mi dispiace.»
Il viso della ballerina si distese forzatamente, stringendosi nelle
spalle. «Evidentemente non era destino che io proseguissi con il canto.»
«Il destino non esiste. Ognuno è artefice della propria vita, nessun
altro. Se vuoi continuare puoi sceglierlo solo tu.» Phénix le sorrise
dolcemente, come una madre alla figlia. Le piaceva quella ragazza, anche se
forse era un po' troppo acerba per l'età che aveva. Dopo quello che Meg le
aveva raccontato su ciò che aveva passato, credeva che avrebbe trovato una
persona molto più forte d'animo e matura. Doveva ancora crescere, era palese.
«Christine, tu e il Visconte rimarrete a cena da noi oggi?», le
domandò Meg, intromettendosi un attimo nel discorso.
«Volentieri, ma Raoul ha già preso un impegno e mi ha chiesto di
accompagnarlo.», disse la giovane, dispiaciuta.
Claire Louise Giry le accarezzò i capelli, con fare materno. «Oh, non
preoccuparti, bambina mia. Sarà per la prossima volta.»
«E' stato un piacere conoscerti, Christine.», le disse Phénix,
prendendole una mano ed osservandone il palmo con attenzione. «Hai una lunga
vita davanti a te, non sprecarla.»
Christine arrossì lievemente sotto quello sguardo che sembrava
leggerle anche i più reconditi angoli dell'animo. Era incredibile come quella
ragazza, sebbene la conoscesse da pochi minuti, sembrava capirla alla perfezione.
«Anche per me è stato un piacere, Sophie. Spero di rincontrarti.»
«Sicuramente.»
Madame Giry, seguita dalla figlia e dalla sua ospite, così, lasciarono
la sala per rientrare alla loro dimora, senza accorgersi di un paio di occhi
che avevano seguito l'intera lezione, nascosto dietro il grande specchio.
Continua...
Carissima Keyra, certo che era rivolto anche a te! (; Tranquilla se
non hai recensito, l'importante per me è sapere che c'è qualche coraggiosa/o
che prosegue nella lettura! :D Hai detto benissimo, le cose si
complicheranno... non so se in maniera deliziosa, ma si complicheranno! XD Son
felice che sia Phénix e Rosalinda ti piacciano, anzi: son felicissima! *-*
Inserire nuovi personaggi comporta sempre un po' di timori, e sapere che siano
coerenti e interessanti è sempre un piacere! Ne approfitto per farti e farvi
sapere che non saranno le sole newentries... Comparirà anche qualcun altro (Etienne in questo
capitolo ne è l'esempio), se poi serviranno a complicare ulteriormente le cose
o a semplificarle... Questo non è dato saperlo. ù_ù XD
Per la domanda su
Christine questo capitolo è stato un po' una risposta non voluta :'D Su chi
canterà nella nuova opera di Erik... Lo scoprirai solo vivendo. (; Anche se
l'idea di far tornare la Carlotta sarebbe divertente! XD Spero che l'esibizione
della zingarella sia stata di tuo gradimento... Ho pensato che una donna come
lei, che desta scandalo solo a guardarla, volesse mettere subito le cose in
chiaro con quella musica e quella danza: lei non è e non sarà come le altre
ballerine. :)
Concludo
ringraziandoti per gli splendidi complimenti!
Ecco cosa sentiva
da quando aveva lasciato il palazzo, anche al solo pensiero di quella danza.
Neanche durante il Don Juan Triumphant si era sentito così eccitato. E sì che
quella canzone era erotismo allo stato puro e rappresentava esattamente quelli
che erano i suoi sentimenti per l'amata Christine, ma guardare Phénix danzare
con così tanta sensualità l'aveva semplicemente sconvolto.
Sì, sconvolto era la parola esatta.
Se non l'avesse
conosciuta e non avesse saputo che quei due non si erano mai incontrati prima
d'allora, avrebbe detto senza dubbi che erano amanti e che la loro passionalità
e la loro complicità era trapelata in maniera fin
troppo evidente durante quel tango. Il tempo sembrava essersi arrestato mentre
tratteneva il fiato nel seguire i movimenti della giovane zingara, mentre si
perdeva a guardare i suoi occhi smeraldini che fissavano con malizia e
sensualità quelli del suo compagno, o i lineamenti dolci del suo corpo che
pareva nato solo per quel ballo.
Era malefica proprio come una strega, sì. Altrimenti non si
sarebbe spiegato del perché non fosse riuscito a toglierle gli occhi di dosso,
nascosto dietro quello specchio, o del perché non riusciva a pensare ad altro
se non immaginarsi al posto del ballerino.
Non era riuscito
nemmeno a pensare alla sua Christine quando questa aveva scambiato due parole
con la rossa. Così come non era riuscito a collegare il cervello alle orecchie
per sentire cosa si stessero dicendo.
O stava ammattendo
lui, il che era probabile, o quella zingarella gli aveva fatto un sortilegio,
non c'era altra spiegazione.
Prese un respiro
profondo, cercando di darsi una calmata, e portò tutta la sua attenzione – o
presunta tale, dato lo stato d'animo che aveva – alla donna che aveva di fronte
e che aveva perfettamente capito che in quel momento stava facendo di tutto
fuorché ascoltarla.
«Erik, posso sapere
che ti prende?», chiese esasperata Louise Giry, incrociando le braccia e
lanciandogli un'occhiata affilata.
«Niente, non è
niente.», borbottò lui, alzandosi dalla sedia su cui stava e iniziando a
camminare avanti e indietro per tutta la lunghezza della cantina. Si passò
stancamente una mano tra i capelli per riordinare le idee, poi puntò i suoi
splendidi occhi acquamarina sulla direttrice del balletto. «Cosa
stavamo dicendo?»
«I manager dell'Opéra.»
«Sì, sì, bene.» Sì
schiarì la gola, portandosi un pugno davanti alle labbra per educazione. «Andrai da loro dopodomani e gli spiegherai un po' la
situazione. Non penso che faranno storie, è quello che in realtà stanno
aspettando da settimane.»
«Sei consapevole
che quei due, quando verranno a conoscenza del fatto
che sei ancora vivo, mi possono crollare per infarto davanti agli occhi?»
«A
questo proposito gli porterai un anticipo sui tempi, così potranno ragionare a
mente lucida. Sempre che ne abbiano mai avuta una.»
«Erik…», lo
rimproverò bonariamente lei.
«Che
c'è? Non posso manifestare la mia simpatia per quei due imbecilli?»
Louise sospirò, scuotendo
mestamente la testa, mentre lui le si fermava a pochi
passi di distanza. «E se dovessero rifiutare?»
«Accetteranno.»
«Non puoi esserne
sicuro.»
«Invece lo sono.»,
sbottò irritato, assumendo quello sguardo tanto freddo quanto terribile. «Deve
andare così.»
«Se Firmin e André
non dovessero accettare…», proseguì imperterrita la donna, facendogli contrarre
la mascella contrariato. «…Hai per caso pensato ad un piano per togliermi dai pasticci nel caso andassero a
denunciarmi?»
«Non lo faranno.»
«Erik, per l'amor
del cielo!», esclamò Claire, alzandosi con veemenza e fronteggiandolo. «È mai possibile che quello che dici e progetti non possa
avere i suoi pro e i suoi contro? O ti sei dimenticato di come sia andata a
finire l'ultima volta?» Si pentì immediatamente delle
sue parole non appena vide lo sguardo dell'uomo diventare un mare in tempesta.
«Perdonami, non volevo dirlo.»
«Ma
l'hai detto, Claire Louise, l'hai detto!» Erik sbatté un pugno guantato di nero
sulla parete di pietra della stanza, respirando velocemente per la rabbia.
Quanto era dolorosa e crudele la verità…
«Quello
che intendo dire è che devi pensare anche alla possibilità che non vada
esattamente tutto secondo i tuoi piani. Ne hai avuto
le prove, Erik, e per quanto questo possa essere doloroso dovresti imparare dai
tuoi sbagli.» La donna gli si avvicinò senza paura, posandogli una mano sul
braccio teso verso il muro. «Non pensare che ti dica
certe cose per cattiveria. Lo sai bene che voglio il meglio per te e mi
piangerebbe il cuore se ti trovassi nuovamente in quello stato pietoso.»
Erik chiuse gli
occhi, cercando di pensare a tutto tranne che a quei giorni funesti dopo
l'incendio. Mai aveva sofferto così tanto, mai aveva
versato tutte quelle lacrime. E non era colpa né di Christine, né di quel
damerino, né di nessun altro. Era solo ed esclusivamente colpa sua. Era stato
lui l'artefice di tutto, lui l'aveva indotta ad una
scelta più grande di lei, lui l'aveva fatta scappare. E tutto quello perché?
Perché era fortemente convinto che tutto sarebbe
andato alla perfezione, liscio come l'olio. Non aveva considerato un atto
stupido come quello di Christine di togliergli la maschera davanti a tutti, né
il fatto che Claire stessa avrebbe mostrato la via al Visconte per raggiungere
la sua casa. E mai aveva lontanamente preso in considerazione una risposta
negativa da parte della giovane cantante.
I risultati, alla
fine, si erano visti perfettamente.
«Nel
malaugurato caso dovessero rifiutarsi... Io sarò lì a fargli cambiare idea. E
non voglio sentire discussioni.»
La donna sospirò
indispettita, conscia che non sarebbe riuscita a farlo ragionare. Quando si
metteva qualcosa in testa, quell'uomo era più duro di un diamante. «Solo una cosa, Erik. Stai attento.»
Lui ricambiò la sua
preoccupazione con un solo sguardo serioso e fece per andarsene, avvicinandosi
alla porticina di servizio che dava sul giardinetto retrostante, proprio sotto
la cucina.
«Non vuoi
parlarle?»
Erik fremette
all'idea di trovarsi Phénix di fronte mentre era ancora pervaso da quello
strano senso di calore in tutto il corpo. No, non avrebbe retto, ne era sicuro.
Per quanto fosse un uomo dai sani principi era
e restava pur sempre un uomo. «Verrò a parlarle quando
avrò qualcosa da dirle, e non è oggi. Buona notte, Louise.»
«Buona notte, amico
mio.»
Phénix sapeva che
quella notte Erik era andato a trovare Madame Giry.
L'aveva visto entrare furtivamentedalla porta di servizio della cantina
sul cortile, proprio lo stesso lato su cui si affacciava la finestra di camera
sua. E così com'era arrivato, furtivo e nascosto come un'ombra, ugualmente se
n'era andato.
Le dispiacque il fatto che non avesse voluto incontrarla; gli
avrebbe voluto raccontare di quello che era successo quel pomeriggio, del
ballerino gentile, delle occhiate sbieche che le altre ragazze le avevano
lanciato, dei complimenti di Madame Giry, che non sembrava proprio una donna
tanto disposta ad elargirne in grande quantità... E invece non si era fatto
vedere. Magari aveva qualche affare da portare a compimento, ma provare a
capirlo, delle volte, risultava difficile anche per
lei.
Fu quando si
accorse che in realtà non si era allontanato dal palazzo, immobile come una
statua appeso a mezz'aria su una grata nel muro, mentre evidentemente aspettava
il passaggio di qualcuno, che decise di seguirlo. Phénix scavalcò il suo
gattino che dormiva placidamente accucciato in un cuscino, ed
uscì dalla sua camera, scendendo i gradini a piedi scalzi per non fare rumore.
Sperò vivamente di non incontrare nessuno durante la sua piccola scappatella.
Si diresse verso la cucina, dove uscì sul retro del palazzo, e camminò verso il
cancello che chiudeva il cortile interno dalla strada. Erik, nel frattempo, era
già sparito.
Si guardò intorno
nel tentativo di scorgerlo mentre sgusciava via, ma riuscì solo ad intravedere il suo mantello che spariva dietro un angolo,
tra la foschia della notte. Sempre a piedi scalzi, per non far risuonare la
suola sul ciottolato, prese a correre nella direzione in cui si era infilato.
Non sapeva esattamente perché lo stesse facendo, né aveva pensato alle
possibili conseguenze se lui o qualcun altro di sua conoscenza l'avessero scoperta. Continuò a seguirlo fino ad un vicolo stretto e buio, deserto, che puntava
direttamente alla grande mole dell'Opéra. Peccato che non
vide l'uomo da nessuna parte. Dov'era andato?
Quasi non riuscì a
finire di formulare il pensiero che si ritrovò spalle
al muro, con una grande mano che premeva violentemente contro la sua gola, nel
chiaro intento di strozzarla o di spezzarle l'esile collo con un colpo secco.
Fortuna volle che
Erik si accorse in tempo di chi avesse tra le mani,
altrimenti non riusciva a pensare a cosa sarebbe potuto succedere. «Cosa stavi facendo?», scandì bene la domanda, mollando la
presa dalla sua gola.
Phénix tossì un po'
e cercò di riprendersi dallo spavento. «Facevo due passi, è vietato?»
«E guarda caso
questi passi ti hanno portata a seguirmi.»
«Volevo scambiare
due parole con te... È così grave?», sbuffò la zingara, facendogli
letteralmente perdere un battito. Che si fosse accorta di lui quel pomeriggio?
«Cosa
hai di così importante da dirmi?»
Phénix assottigliò
gli occhi, avvicinandosi di un passo all'uomo che la sovrastava per altezza e
robustezza. «Si può sapere che ti prende? Da quando
sei diventato così freddo e antipatico? Ora non posso neanche avere la voglia
di farmi due chiacchiere?»
Erik si sentì
spogliato da quello sguardo offeso che pesava come un macigno sulla schiena.
Non voleva essere sgarbato, ma l'idea che qualcuno, per di più una donna,
avesse voglia di parlare con lui, lui!, lo metteva solo ed esclusivamente
a disagio. Non era mai stato bravo a comportarsi normalmente con le altre
persone, dato che gli unici rapporti normali,
se così poteva definirli, che aveva avuto con il mondo erano quelli con Claire.
E ora c'era quella ragazzina impertinente che lo stava mettendo in soggezione
con una facilità disarmante. Quasi si vergognava di sé
stesso per non riuscire a prendere in mano la situazione.
«Non credo di
essere la persona più adatta con cui scambiare due parole.», borbottò, sviando
lo sguardo verso la traversa illuminata che aveva appena lasciato.
«Ah
no? Beh, scusami allora se ti consideravo un amico!»
Erik non ebbe il
tempo di ragionare bene su quello che aveva appena sentito, perché nel giro di
due secondi si ritrovò a sigillare la bocca della ragazza con una mano e a
trascinarla velocemente contro una porta, appiattendosi contro di lei.
«Zitta.», le sibilò in un orecchio, mentre i passi cadenzati di un gruppo di
soldati diventavano sempre più udibili.
Phénix cercò di
voltare il viso per guardare quel gruppo di uomini che proprio in quel momento
stavano passando davanti al vicolo. Uno di loro stava proprio dicendo agli
altri di aver sentito qualcosa provenire dalla loro direzione e che sarebbe
andato a controllare. Non ci impiegò molto a togliere la mano di Erik dalle sue
labbra, per lasciarle libere di cercare quelle dell'uomo che la stava
stringendo per proteggere entrambi.
Erik credette di
perdere i sensi quando sentì quella bocca infuocata premere contro la sua con
una voluttà e una passione che mai avrebbe creduto potesse esistere. Incapace
di muovere un solo muscolo, si lasciò baciare ed
accarezzare come una bambola nelle mani di una bambina intraprendente. La
stessa bambina che, contro le sue labbra, gli mormorò decisa di assecondarla.
Fu così che le sue mani scivolarono ormai senza rendersene conto lungo i fianchi di lei, libere poi di salire e scendere sulla sua
schiena, mentre si lasciava trasportare da un bacio che di casto aveva
veramente poco. Sarà stato il ricordo di quel ballo, o semplicemente l'idea di
avere una donna tra le braccia, ma si sentì sconvolgere da un desiderio così
intenso quanto doloroso che mai aveva provato.
Phénix portò una
mano sulla maschera di lui, per levarla via nel caso
il soldato fosse passato avanti, e si staccò un attimo da quelle labbra carnose
per riprendere fiato.
«Ehi,
voi due! Non l'avete una casa?», esclamò il soldato,
fermandosi a pochi metri da loro, dopo essersi accorto che si trattava solo di
una coppia di amanti.
Erik nascose il
volto nell'incavo del collo della zingara, e lei guardò l'altro con
un'espressione maliziosa e birichina. «Ci piace l'avventura, monsieur.»
Il soldato scoppiò
a ridere, scuotendo la testa e tornando indietro dai suoi colleghi. «Ah, sono
solo due che amoreggiano!»
Phénix tirò un sospiro di sollievo quando il gruppo si allontanò
definitivamente e si voltò a guardare Erik, ancora con la fronte poggiata sulla
sua spalla. «Scusami, ma dovevamo passare inosservati.»
Gran bel modo di
passare inosservati, pensò l'uomo, mentre prendeva un respiro
profondo, alzando poi lo sguardo sulla giovane. «Certo... Hai...
fatto bene.» Non gli sembrava tanto presa da quello che era appena successo,
anzi. Del resto, aveva agito solo per proteggere entrambi. Per cosa, altrimenti?
Era solo lui che non riusciva più a ragionare lucidamente e non poteva certo
sperare di farlo, non se sentiva ancora sulle sue labbra il sapore
di lei, non se non riusciva ad allontanarsi dal suo corpo, ancora
incollato alla porta dietro la sua schiena.
«Va tutto bene?»,
gli chiese, piegando incuriosita il capo.
«Sì, sì.», fece
lapidario lui, sviando lo sguardo per evitare che gli leggesse in faccia
l'imbarazzo che stava provando. «Tornatene a casa, è pericoloso qui fuori.»
«Ma finché ci sarai tu con me sarò al sicuro.», ribatté la zingara. «E poi
ti sei già dimenticato del fatto che avevo voglia di
scambiare due chiacchiere?»
«Sei noiosa e
petulante.» Si mise a camminare, senza guardarla. «Muoviti, non ti aspetto.»
Phénix sorrise
sotto i baffi e allungò il passo per non perdere la sua guida. Non sapeva
spiegarsi bene il motivo – o meglio, poteva solo immaginarlo – ma le sembrava
che fosse diventato tutto d'un colpo un bambino dopo
la marachella. Era a disagio, tremendamente a disagio:
il fatto che guardasse ovunque tranne lei ne era la conferma. Forse quel bacio
era tanto inaspettato quanto... nuovo? Stando al racconto di Meg, Erik
aveva amato solo Christine e non le sembrava certo uno di quegli uomini che
cercavano la compagnia di altre donne per consolarsi delle pene amorose.
Probabilmente non aveva mai baciato una donna in vita sua che non fosse la sua
musa, sempre che avesse mai baciato anche lei.
L'unica cosa che
trovò problematico, e anche parecchio a dirla tutta,
era il fatto che baciare quelle labbra le era piaciuto. Oh, se l'era piaciuto! Tremanti all'inizio, timide poi, e totalmente passionali alla fine.
Poteva ancora sentirle fremere contro le sue, alla ricerca disperata di un loro
contatto più intimo.
Entrambi
completamente persi nei loro pensieri, arrivarono in
silenzio all'Opéra, passando da Rue duScribe. Erik, dopo essersi assicurato che non ci fossero
occhi indiscreti a guardare, la prese per un polso e la trascinò verso una
grata-finestra, che aprì con una chiave che teneva in tasca. Si ritrovarono,
così, in una sorta di cappella votiva, un tempo illuminata dalle candele per la Madonna, ora totalmente al
buio. Sempre tenendola per un polso, per paura che lo perdesse di vista in
tutta quell'oscurità, la guidò per numerosi corridoi, alcuni in vista, altri
totalmente nascosti, tanto che Phénix si chiese come facesse a muoversi così a
suo agio al buio e a ricordarsi esattamente i punti in cui doveva armeggiare
con qualche leva invisibile. La ammonì spesso di stare attenta a dove metteva i
piedi, per evitare di cadere nelle numerose trappole seminate ovunque in quei
sotterranei, e di mantenere sempre una mano sopra il livello degli occhi; e lei
vide bene di appendersi al suo mantello per cercare di seguire una traiettoria quanto meno sicura. Non voleva certo sparire nel nulla in
qualche botola!
Arrivarono
finalmente in una zona più illuminata, grazie ad alcune sporadiche torce ancora
accese, e proseguirono fino ad un “porticciolo”, dove
c'era attraccata una gondola di piccole dimensioni, finemente intagliata nel
legno e con i sedili riccamente coperti da cuscini bordeaux.
Phénix non poteva
credere ai suoi occhi: non pensava certo che ci fosse un lago sotterraneo in
quel posto.
«Sali.», fece Erik,
porgendole una mano per aiutarla.
Phénix dovette
mordersi la lingua per non sbottare contro i monosillabi che aveva preso
l'abitudine di pronunciare. Non che fosse un uomo loquace, quello l'aveva
capito da sola, ma non pensava certo che un semplice bacio potesse scioccarlo a tal punto da fargli perdere l'uso della parola.
Fu quando si perse
a contemplare quel posto magico fatto di canali che si snodavano a perdita
d'occhio, di archi e sculture scolpite nella roccia nuda, che non pensò ad
altro. Erik remava lentamente, in piedi dietro di lei, e non poté fare a meno
di frenare un sorriso, nonostante tutto. Era orgoglioso di quello che era
riuscito a costruire e vedere lo stupore negli occhi della ragazza, soprattutto
quando davanti a loro si aprì la vista della sua casa, poteva solo essere il
culmine del suo compiacimento.
Phénix non aveva
mai visto un posto simile. Se da piccola le avessero letto storie per bambini,
avrebbe sicuramente detto che quello era un luogo proveniente direttamente
dalle favole. Il lago terminava contro una lingua di terra ampia abbastanza da
contenere tavoli, mobili, specchi coperti da drappi rossi e sedie; c'era una
nicchia rialzata, poi, dove un organo tirato a lucido faceva bella mostra di sé,
come se tutta quella grotta convergesse in lui come il nucleo principale. Ed
era proprio così, dato che la musica era l'essenza che
aveva fatto crescere quel genio che era Erik. Sulla destra, infine, dopo aver
salito qualche gradino, si arrivava ad un'altra
nicchia, che conteneva un bellissimo letto a forma di cigno, coperto da
lenzuola di raso cremisi. Tutto l'ambiente pareva ancor più surreale dalla
nebbiolina di vapore che saliva dall'acqua tiepida del lago e dalle decine e
decine di candele che l'illuminavano tremolanti.
«Questo posto è... incredibile.»,
mormorò la ragazza, mentre Erik scendeva dalla barca e poggiava il lungo
bastone contro una parete.
L'aiutò
a raggiungerlo a riva, poi si allontanò verso una sedia, dove si tolse con
grazia il mantello e lo piegò con cura quasi maniacale. Lanciò un'occhiata alla
zingarella, completamente persa a guardarsi intorno per prestargli attenzione.
«Hai fatto tutto
questo... da solo?»
«Sì.
Questo posto, in origine faceva parte di un complesso di catacombe... Io gli ho
solo dato una sistemata.»
«Solo?
Erik, ti rendi conto che è splendido qui giù?»,
esclamò lei, curiosando ovunque. Spartiti, appunti, disegni... Poteva trovare di tutto tra quei tavoli disordinati, che
raccontavano di una vita in piena attività, instancabile.
«Sì,
soprattutto se passi i tuoi giorni in totale solitudine. Lo trovi ancora
splendido?», replicò amaramente Erik, prendendo
distrattamente uno spartito tra le mani.
Phénix lo guardò, ora completamente attenta. «Perché?
Spiegami, perché hai vissuto la tua vita qui? Solo?»
La gola dell'uomo
divenne secca di colpo, mentre si rendeva conto che doveva stare molto attento
a quello che le avrebbe raccontato.
«È per via di
quella maschera che indossi?», continuò imperterrita lei, inconsapevole di aver
centrato la questione.
Erik riuscì a
rimanere serio ed impassibile solo per il suo incredibile
autocontrollo. «La maschera non c'entra.»
«E
allora perché nascondi il tuo viso? Perché così risulti
più spaventoso e temibile per rendere onore al soprannome che ti hanno dato? O
per un gusto puramente estetico?»
L'uomo strinse i
pugni in un moto di stizza. «Parli senza sapere.»
«E allora spiegami
come stanno le cose!», esclamò, allargando le braccia esasperata. «Perché hai vissuto sempre qui? Volevi nasconderti da
qualcosa? Da qualcuno? Spiegamelo!»
«Non sono fatti che
ti riguardano.», sibilò, lanciandole un'occhiata che era tutto
un programma. Non voleva sentire altro, nient'altro che avesse a che fare con
lui. Ma forse ancora non aveva imparato che se c'era
una cosa che Phénix sapeva fare bene era insistere, sempre e comunque, finché
non otteneva ciò che cercava. Da quel punto di vista era maledettamente uguale
a lui.
«Oh,
bene, ora non mi riguarda la tua vita. Ti ho raccontato di me, del mio passato...
Perché ora non posso conoscere quello dell'uomo che mi ha salvata?»
«Perché niente di
quello che è stato il mio passato vale la pena di ricordare.»,
mormorò con un filo di voce. «A volte mi domando se non sia il caso di
dimenticare anche il presente.»
Phénix si sentì
stringere il cuore sentendo quelle parole pronunciate con così
tanto dolore e vedendo quegli occhi acquamarina diventare lucidi per la
commozione. «Non volevo riportarti alla mente brutti
ricordi, Erik. Voglio solo farti capire che puoi sempre parlare con me. Pensavo
ti avrebbe fatto bene sfogarti un po'.»
Senza quasi
rendersene conto, Erik allungò una mano al viso di lei,
per accarezzarla riconoscente. «Apprezzo molto quello
che mi offri, Phénix. Ma il ricordo, per me, è un
brutto male.»
La sua mano venne raggiunta da una della ragazza, che gliela strinse con
forza. «Non voglio obbligarti a parlare, ma sappi che quando vuoi io sarò pronta ad ascoltarti. Voglio poter fare qualcosa per
aiutarti, Erik. D'accordo?»
Lui annuì
debolmente, il cuore che gli scoppiava immensamente di gioia per aver trovato
una persona così pura e gentile con uno come lui. Si
sentiva quasi un verme nel ripensare a quello che inconsapevolmente le aveva
fatto. Chissà come avrebbe reagito se avesse scoperto chi fosse veramente?
Avrebbe continuato ad essere così buona con lui, o
l'avrebbe trattato alla stregua di un mostro, come il resto delle persone?
«Posso farti una
domanda?», gli chiese, facendolo sospirare.
«Dipende dalla
domanda.»
Phénix abbassò lo
sguardo, osservandosi distrattamente le punte dei piedi. «Sai, non ne ho mai avuto la possibilità e mi piacerebbe... Ecco, mi piacerebbe
essere come Meg, che sa così tante cose, che sa... Leggere, e scrivere. Tu potresti
insegnarmi, vero Erik?»
Lui corrugò la
fronte, perplesso per la richiesta. «Io?»
«Vedi altre persone
qui?», esclamò lei, gonfiando le guance per l’imbarazzo.
Dopo averci pensato
un po', la sua espressione divenne più rilassata, quasi divertita. «Bene, ma sappi che sono un insegnante molto intransigente.
Iniziamo subito?»
Lei si lasciò
andare ad un bel sorriso. «D'accordo, Maestro.»
Continua...
Come sempre
ringrazio Francesca per il commento, gentilissima! *-* Ti spiego, ora, la
"rigidezza"delle ballerine: è una descrizione dal punto di vista di
Phénix, una zingara che non ha mai avuto la possibilità di vedere delle
ballerine d'opera all'opera (scusa il gioco di parole xD),
una donna che ha sempre creduto che dovesse essere la musica a dettare i
movimenti, e non viceversa. Forse non l'ho spiegato bene, ma è
il fatto che le ragazze mettessero avanti prima la tecnica e poca
passione, secondo lei, a dettare questa "rigidezza e forzatura". Perme le ballerine
d'opera sono angeli, altro che forzate! :D Spero di
essere stata chiara. :)
Ah! Son contenta ti
stia drogando con quella canzone, è splendida! *o*
A presto! :)
Grazie mille anche a aliena, Keyra93 e leschatnoir
per le seguite, e tra le preferite sempre Keyra93, masked_lady
e sydneybristow. Grazie!
<3
Raoul de Chagny
posò la tazza di caffè che stava sorseggiando, concentrandosi sul giornale che
aveva in mano. La stampa, dal giorno in cui aveva messo in vendita l'Opéra, non
aveva fatto altro che scrivere articoli ridicoli su possibili acquirenti e
ipotesi su cosa fosse successo veramente quella notte
infausta. Si stava sinceramente stancando di tutti quei pettegolezzi sulla sua
vita e su quella della sua futura moglie, Christine, e per quanto il suo fosse
un nome importante, non era bastato a far tacere tutte quelle chiacchiere.
“Il
Visconte de Chagny avvistato con i due manager del Teatro dell'Opera Populaire,
in compagnia della bella Christine Daaé. Sta nascendo un nuovo accordo?”
Sbuffò rassegnato,
voltando pagina. Ora non poteva neanche avere un incontro di piacere con quelli
che erano stati i direttori del suo teatro, inammissibile.
Fu il titolo che
lesse poche pagine dopo ad incuriosirlo. “Trovati i cadaveri di due uomini ancora da identificare nelle
campagne della periferia. Ignoto l'assassino.”
L'articolo, non
troppo lungo, proseguiva così:
“Son
stati trovati nascosti nella selva alle porte di Parigi.
Uno presentava evidenti segni di strangolamento, l'altro una profonda ferita
sulla testa, il cranio rotto. L'omicidio, avvenuto con probabilità pochi giorni
fa, si è consumato in un vecchio mulino, date le tracce di sangue che vi son
state ritrovate. L'ispettore a capo di questo caso, Monsieur
Perret, presuppone che è molto probabile che in quel luogo abitasse qualcuno,
uno zingaro forse, date le evidenti tracce di vita sparse ovunque.
Numerose domande
sorgono spontanee, senza però una risposta: chi erano quei due uomini? Perché
son stati uccisi e poi nascosti? Chi li ha uccisi? E
chi viveva in quel mulino diroccato? Conosceva i due?
Le tracce che son
state ritrovate nei dintorni raccontano di una
colluttazione a poche decine di metri dal mulino; oltre le impronte dei due
cadaveri, son state trovate anche quelle di una donna, dato la misura molto
piccola della suola e la presenza di tacchi, e anche quelle molto più grandi di
una quarta persona, un uomo probabilmente di grossa stazza. Forse sono
dell'assassino? ...”
«Avete letto anche
voi?»
Raoul alzò gli
occhi dal quotidiano, guardando l'uomo che era comparso in salotto. «Sì, ma
come sempre la stampa non è soddisfatta se non ci scrive sopra un romanzo.»
L'uomo, di nome Jacques, sorrise. «Cugino, siete un po' troppo
ossessionato dai giornalisti, mi pare di capire.»
«Se seguissero ogni
vostra mossa nelle vane speranze di trovare una qualsiasi novità, come vi
sentireste?», sbottò Raoul, irritato.
«Lusingato,
direi.», fece Jacques Faucon, dopo una piccola pausa di riflessione. «Vorrebbe
dire che sono una persona in vista.»
Raoul non fece niente
per nascondere una smorfia di disappunto a quella dimostrazione palese di
egocentrismo. Faucon era un suo lontano cugino, un medico che non vedeva da
anni e che, a dirla tutta, avrebbe preferito continuare a non vedere. Ma era comparso nuovamente per questioni prettamente
finanziarie (non sia mai che fosse passato per un saluto), e lui avrebbe dovuto
sopportarlo per qualche settimana - o almeno, sperava si trattasse solo di
poche settimane.
«In ogni caso, quel
duplice omicidio è curioso, non trovate?», proseguì Faucon, sedendosi su una
poltrona libera.
«Se
ne sentono tutti i giorni di avvenimenti funesti come questi, soprattutto se si
parla della periferia. Non vedo dove sia la novità.»
«Oh, beh, nelle
campagne in cui abito io certe cose neanche si sentono.»,
disse l'altro, accavallando le gambe e passandosi distrattamente due dita sui
baffi. «Certo, è poi ovvio che voi avete avuto a che fare
più di me con gli assassini. Sarete così abituato, immagino, che la notizia non
vi sconvolge.»
Raoul abbassò spazientito
il giornale, sgualcendolo per la poca grazia che usò. «Gradirei
che non si menzioni di quegli avvenimenti, cugino. E' acqua passata e
non voglio più pensare a quell'uomo, se di uomo si possa parlare.» Si alzò innervosito, recuperando il suo cappello. «Con
permesso, scendo in città.»
Lo abbandonò nel
salotto a rigirarsi i baffi curati tra le dita, mentre lui si dirigeva a grandi
passi alla carrozza che lo avrebbe portato dalla sua Christine. Accidenti a
quel disgraziato, erano giorni che non pensava a quel mostro del Fantasma
dell'Opera e a tutto quello che aveva fatto e stava per fare,
e quell'arrogante gliel'aveva riportato alla mente come niente. Ogni volta,
ogni maledettissima volta che il suo pensiero arrivava
agli avvenimenti di qualche settimana prima, diventava un unico fascio di
nervi, cosa alquanto strana data la sua indole pacifica e tranquilla. Per non
parlare di quando notava lo sguardo perso di Christine, evidentemente ancora
troppo scioccata da quello che le era successo per
riprendersi ed andare avanti come se niente fosse accaduto.
Ma
era tutto passato, finalmente. Ora potevano vivere una vita felice, insieme.
Lei avrebbe potuto continuare a ballare e a cantare, proprio come aveva deciso,
infischiandosene dell'opinione comune che disprezzava la loro unione. Non
importava se lei non era socialmente alla sua “altezza”; amava Christine per
farle del male, amava il suo sorriso, amava i suoi occhi grandi ed ingenui come quelli di una bambina, amava la sua voce...
Forse l'unica cosa giusta e buona che il Fantasma aveva fatto in tutti quegli
anni era stato insegnarle l'arte del canto. Senza la sua guida, in effetti, non
sarebbe arrivata a quei livelli.
E forse non sarebbe
successo niente di tutto questo...
La carrozza si
fermò davanti all'ingresso di casa Giry, dove sapeva di poter trovare la sua
fidanzata. Bussò due volte, aspettando che qualcuno
aprisse la porta; ed infatti ecco la solita Rosalinda, più rossa del solito in
viso per un'evidente corsa, che lo faceva accomodare in salotto.
«Le segnore sono in cucina, seguiteme,
prego.»
Le trovò tutte
sedute intorno al tavolo in legno con una tazza di
qualche tisana profumata, calda e fumante, in mano. Non aveva mai sentito
quell'odore, prima di allora.
«Buongiorno,
signore.», fece gentile, togliendosi il cappello e sorridendo alle donne.
«Raoul!», lo salutò
Christine, allungandogli una mano per farlo avvicinare.
«Salve, Monsieur. Come state?», chiese Madame
Giry, inchinandosi leggermente in segno di saluto, cosa che fece anche la
figlia.
«Direi bene, grazie mille. A parte un leggero mal di testa. Monsieur Faucon non è il massimo della compagnia,
capitemi.», disse, facendo sorridere le presenti. Si accorse solo in un secondo
momento della quarta presenza femminile, in quella stanza, solo quando alzò lo
sguardo verso i fornelli.
Phénix si voltò in
quel momento, con una padella di acqua bollente in mano e che mise velocemente
sul tavolo, per non ustionarsi.
«Raoul, ti presento
Sophie Rembrant, futura ballerina del nostro corpo di ballo, immagino.», fece
gioiosa Christine, sorridendo alla ragazza.
Il Visconte rimase
un po' sorpreso nel vedere occhi di quel colore così intenso e capelli rosso
fuoco: sembrava finta, tanto era particolare.
«Piacere di fare la vostra conoscenza, mademoiselle Rembrant.», le disse,
chinandosi.
Goffamente, anche
lei ricambiò il gesto, non ancora ben abituata a tutti quei convenevoli
ridicoli, a suo parere. «Piacere mio, signore.
Christine mi ha parlato molto di voi.»
«Spero ne abbia
parlato bene, allora.», scherzò lui. «Anche lei di
voi. Mi ha detto che siete un'ottima ballerina.»In effetti Christine gli aveva parlato di questa nuova
ragazza spuntata dal nulla e che ora abitava in casa Giry. Ma
non aveva ben capito da quale rapporto di parentela fosse legata con la donna.
Sempre che ne avesse mai avuto uno, dato che non si
somigliavano minimamente.
«Sì, ne stavamo
proprio parlando ora.», disse Meg, entusiasta. «Dovreste vederla ballare, Monsieur!»
Phénix riuscì a non
arrossire non senza qualche difficoltà, sviando la discussione con altro.
«Gradite un po' di the al ginseng, signore?»
Raoul lanciò
un'occhiata curiosa alla tazza della fidanzata. «Com'è?»
«Oh, è buono.»,
annuì lei, porgendoglielo per farglielo assaggiare.
«Il ginseng è
un'erba che aiuta lo spirito ed il corpo a rinvigorirsi.
E' un ottimo toccasana.», spiegò Phénix.
«Sì, un toccasana
che me puzza la casa, chica!»,
sbraitò Rosalinda, dal salotto dove stava spolverando, e facendo ridere tutti.
«Accetterò di buon
grado, grazie.», fece Raoul, prendendo posto accanto a
Christine. «Allora, vi vedremo all'opera, un giorno?»
Phénix, dopo
avergli versato il the, si poggiò al mobile della cucina, giocando
distrattamente con la sua consueta treccia sfatta, e fece spallucce. «Non saprei, signore. Ho molte cose da imparare, ancora.»
«Non è questo il
problema, mia cara.», si mise in mezzo Madame Giry,
lanciandole un'occhiata. «Il talento lo hai, devi solo affinare la tecnica e
sarai perfetta.»
«Qualche teatro,
anche fuori Parigi, vi ha chiamate?», s'informò Raoul,
dato che la compagnia ormai era ferma dal giorno dell'incidente.
«No, ancora
niente.», fece Claire, in un sospiro.
«Non c'è stata
neanche un'offerta per la ristrutturazione?»
Madame
Giry sorseggiò un po' della sua tisana. «Per ora niente, no.»
«Immaginavo... Ho
parlato con Monsieur Firmin e Monsieur André proprio
l'altro giorno ed erano più depressi che mai.», disse Raoul, sinceramente
dispiaciuto. «Pensavo che mettendolo in vendita avremo
risolto tutto. Forse dovrei abbassare il costo di partenza dell'asta.»
«Prima
o poi arriverà qualcuno. Sono fiduciosa.»
Phénix guardò la
donna, conscia che quel qualcuno era un uomo di loro
conoscenza. E di conoscenza anche di Raoul. Chissà come avrebbe reagito il
Visconte scoprendo una cosa del genere?
Chiacchierarono
amabilmente per un'altra mezzora buona, finché i fidanzati d'oro dovettero
lasciare la loro compagnia. Prima di andarsene, però, Raoul le invitò a cena
quella sera, deciso a non sentire scusanti.
«Vi
verrà a prendere la carrozza alle otto. Oh, mi dispiace, ma Faucon non sarà
presente.», le avvertì divertito. «Buona giornata,
signore!», esclamò, inchinandosi gentile, mentre Christine, decisamente
più umile, salutò le tre con un gesto della una mano.
Phénix capì subito
il motivo. Sapeva che era stata da Erik, era evidente. Con un sospiro profondo
annuì, incassando la testa sulle spalle e preparandosi ad
una bella ramanzina su quanto fosse pericoloso uscire di notte, nella sua
situazione.
Quella notte era
passata troppo, decisamente troppo velocemente. Se
n'era reso conto quando Phénix, con aria assonnata, gli aveva chiesto di
accompagnarla fuori dalla sua dimora, per tornare a casa prima del sorgere del
sole. Avevano trascorso l'intera nottata davanti ad un libro, per lui molto
caro, Notre-Dame de Paris, di Victor Hugo. Le aveva insegnato le cose
basilari per iniziare a leggere e lei aveva dato subito segni di apprendimento
solo dopo poco tempo. Quella ragazza riusciva a stupirlo in ogni situazione,
quando meno se lo aspettava. Non poteva certo dire che stare con lei
significasse monotonia assicurata. Era schietta e piacevole, aveva voglia di
imparare come una bambina che si interessa per la
prima volta alla vita, e soprattutto lo trattava come un uomo. Era gentile e
disponibile, si preoccupava per lui...
Ah, se solo avesse saputo...
Cacciò con forza
quei pensieri, concentrandosi sullo spartito che aveva di fronte, la penna
inchiostrata a mezz'aria, pronta a scrivere un altro dei suoi futuri
capolavori. Domani sarebbe stato il grande giorno: Claire avrebbe fatto
convocare quei due imbecilli dei manager dell'Opera proprio lì, al teatro mezzo
distrutto, in modo tale che lui potesse intervenire qualora ce ne fosse stato
il bisogno. Preferiva non farsi vedere, ma sapeva anche che quei due avrebbero
potuto portargli noie, ed era il caso di mettere subito le cose in chiaro.
Ormai non vedeva
l'ora di tornare a lavorare per il suo teatro, finalmente suo a tutti
gli effetti. Sarebbero venuti da tutta la Francia pur di assistere ad
un solo spettacolo, tanto era sicuro che l'avrebbe reso popolare e splendido.
Inoltre sperava vivamente che la
Giudicelli, dopo quello che era
successo, avesse deciso di cambiare aria per le sue performance da rospo; non
che non potesse farla fuori ugualmente, ma preferiva non dover ricominciare a
spaventarla come era solito fare, anche se lo trovava molto più divertente e
stimolante che licenziarla in tronco. Al suo posto avrebbe cantato lei, la sua
piccola Christine, colei che ancora considerava il suo Angelo, nonostante i
precedenti. Quella preziosa ragazza aveva ancora così tanto
da imparare che non voleva veder sprecato il suo talento per colpa sua. No, le
avrebbe offerto nuovamente i suoi servigi di Maestro e avrebbe avuto, così, il
modo di farsi perdonare.
Non sapeva se
avrebbe retto alla tentazione di portarla via con sé, ma voleva almeno
provarci. Se ci fosse riuscito, allora, avrebbe voluto dire che era totalmente
guarito da quell'amore soffocante che ancora provava per lei.
“Sai,
ho conosciuto Christine, questa mattina.”
Aveva grugnito
qualcosa d'incomprensibile, ma la zingara aveva proseguito.
“Meg mi aveva
raccontato di lei... e di te.”
“Quella ragazzina
parla troppo, per i miei gusti.”
“L'ami
ancora?”
Steccò totalmente
una melodia che stava suonando all'organo, del tutto stupito da quella domanda
improvvisa e dal fatto che il suo cuore non smetteva di battere così
velocemente da fargli girare la testa.
“Allora? La ami ancora,
non è così?”
Guardò
distrattamente i tasti ingialliti del suo strumento prediletto, chiudendo poi
gli occhi per cercare un po' di calma. “No.”
Phénix gli si
avvicinò, prendendogli il mento tra due dita e costringendolo a guardarla negli
occhi. “Erik, puoi mentire a qualcun altro, ma non a
me. So quando una persona mi dice la verità o meno. E tu non me la stai dicendo.”
Si sentì pungere
gli occhi dalle lacrime salate che stavano premendo per uscire, ma resistette
ancora un po'.
Detestava mostrarsi
debole davanti al prossimo.
Detestava quelle
pozze smeraldine, detestava quello sguardo di chi la
sapeva lunga.
E ancora di più detestava il fatto che lei avesse ragione.
Stava mentendo.
Spudoratamente.
Stava mentendo a sé stesso, e sapeva bene che tentare di reprimere quel
sentimento così forte, forse, sarebbe stato più pericoloso che ammetterlo.
“Sì, l'amo, l'amo ancora con tutto me stesso.”
Non capì il motivo
per cui Phénix gli sorrise, ma le fu tacitamente grato
per averlo messo a nudo così semplicemente.
“Non è
nascondendoti e nascondendo quello che provi che ti salverai, Erik.”, gli aveva infatti detto, con una dolcezza tale che non meritava.
Quella ragazza lo capiva fin troppo bene e forse non era abituato ad una situazione del genere; ma ora che l'aveva trovata non
riusciva neanche a farne a meno.
Phénix,
Phénix... Sì, era proprio una streghetta, non c'era
altro da dire. Sembrava conoscerlo meglio di sé
stesso, il che quasi lo spaventava. Ma non poteva neanche odiarla,
quello no. Si stava affezionando a lei, era palese; nel giro di poco tempo era
riuscita a rubargli il cuore.
Un'amica.
Ora aveva un'amica.
L'unica, dopo Claire.
Doveva
assolutamente aiutarla a costruirsi una nuova vita, per ringraziarla di quanto
stesse inconsciamente facendo per lui e per farsi
perdonare del passato. Si era messa totalmente nelle sue mani, fidandosi di lui
quando lo conosceva solo per sentito dire (il che avrebbe dovuto farla scappare
a gambe levate). E per ricambiarla le avrebbe dato un lavoro sicuro e
protezione. Nessuno si sarebbe più avvicinato a lei con cattive intenzioni. Non
finché ci sarebbe stato lui a proteggerla.
“Non
dovrei continuare ad amarla…” le aveva mormorato, abbassando lo sguardo.
Phénix prese posto accanto a lui, nel largo sgabello su cui sedeva.
“Se questo ti fa soffrire no, non dovresti. Ma non puoi
neanche frenarti.”
“Aiutami a
dimenticarla... Da solo non riesco. Mi
sento impotente.”
Una supplica.
Disperata, sussurrata in un tacito grido di dolore.
Phénix gli prese
una mano grande tra le sue, e gli si rivolse nuovamente con lo stesso sorriso
caldo e confortante di poco prima. “Farò tutto quello che è in mio potere,
Erik. Non per niente mi chiamano strega,magari per una volta tanto
una magia mi potrebbe riuscire.”
Continua...
Ebbene, signori e
signore, questo capitolo è schifosamente corto e con poco contenuto, me ne rendo conto... ma mi serviva per introdurre il caro rompis... ehm, gentilissimo cugino del Visconte. Spero non
vi abbia annoiato troppo!
Keyra83: ciao carissima! Di
nuovo grazie per il tuo puntuale commento, è un piacere leggerti! Ebbene sì,
ognuna di noi sente il disperato bisogno di vedere il Maestro all'opera in quanto tale... È un pozzo di conoscenza, diciamocelo! (Oltre che vogliamo vederlo accasato e con tanti bei pargoli
al seguito, ma questa è un'altra storia xD) Comunque
tranquilla, nessun cambiamento di rating... gli verrà un infarto prima, credo. ò_ò XD Hai ragione, Phénix è intraprendente e non sarà
certo Erik a farla cambiare, anzi! E come hai detto tu
il passato non può rimanere nascosto per sempre... quindi prima o poi arriverà
la tempesta - e io godo nel frattempo, da brava autrice sadica! M'inchino io
alla tua gentilezza, Francesca! Al prossimo capitolo! (:
sydneybristow: oh,
che piacere! *-* Una nuova fan! *saltella allegra per la stanza* Piacere di
fare la tua conoscenza! (Anche se sapere che sei andata
a Londra mi fa rodere parecchio XD Com'è? Bella, vero? *_*)Anyway! Conosco Sierra Boggess
ed è bellissima, oltre che una cantante bravissima, ma per lo meno io non immagino la mia Phénix come lei (anche se
effettivamente gli occhi affilati ce li ha eccome!). È che non voglio rovinare
l'immagine che ognuna di voi si è fatta della mia Creatura, altrimenti posterei
un banner che avevo fatto per farvi vedere come io
l'ho immaginata nel momento in cui l'ho plasmata. (:
Comunque! Son contenta che ti piaccia tanto questo delirio, è veramente appagante sapere che c'è qualcuno che legge e apprezza ciò
che scrivo! Per quanto riguarda Christine... Credo che
prima di uccidere lei vi verrà voglia di far fuori qualcun altro... Ma mi tappo
la bocca o rischio di spifferare tutto prima della fine! XD
Non entrava
all'Opera da quando era avvenuto l'incidente che l'aveva mezzo
distrutta e che aveva portato con sé un morto e numerosi feriti.
L'imponente stazza del Teatro non le era mai sembrata così minacciosa, così
come l'interno, desolante e triste. La soggezione che provò nel sentire i suoi
passi riecheggiare nel silenzio di intere settimane le
fece avere il brutto presentimento che quello che stava per fare non fosse
giusto, e soprattutto sicuro. Non era convinta di ciò che Erik avesse
intenzione di realizzare: non solo si stava esponendo pericolosamente, ma
temeva potesse compiere nuovamente qualche sciocchezza nei confronti di Christine,
di Raoul, dei manager...di tutti. Non
lo riteneva uno stupido, ma era ben consapevole che, per quando preparasse i
suoi piani con dettagli maniacali, non sempre questi
andavano per il verso giusto, e lui, quando ciò accadeva, aveva sempre dato di
matto. Aveva provato in tutte le salse a fargli capire quale pericolo stesse
correndo, mettendosi allo scoperto così. Niente, non
era servito a niente. Aveva solo sibilato una frase che non le era piaciuta
niente. “Il Fantasma è morto, presto lo saprà tutta Parigi.”
E, inoltre, ora
c'era anche Phénix, quella giovane che gli stava tanto a cuore solo perché si
sentiva responsabile della morte dei suoi genitori. Le piaceva quella ragazza
dallo sguardo schietto e malizioso, ma sperava vivamente che non lo portasse a
soffrire nuovamente. Erik, per quanto amasse ancora Christine, era e rimaneva
pur sempre un uomo che di certo non poteva non accorgersi di lei e reprimere i
suoi più pericolosi desideri.
Prese un bel
respiro e si diresse all'ex-ufficio dei due manager, dove si erano dati appuntamento. Quando bussò alla porta non ottenne
risposta e, nel frattempo che aspettava, decise di fare due passi per
riportarsi alla mente le immagini di quel teatro caduto in rovina, un tempo
splendente. I muri, una volta dorati e lucenti, ora erano scuri per la cenere ed il fuoco, così come le volte, le decorazioni e la
statuaria. Quando giunse alla platea lo spettacolo che le si
presentò davanti le strinse il cuore: i sedili rossi erano stati
completamente mangiati dalle fiamme e ora ne rimaneva solo il ricordo di un
misero scheletro di ferro; vide il palco, completamente distrutto, e lì, tra
pezzi di legno carbonizzati e la polvere, giaceva la carcassa del candeliere,
crollato sulla platea spaventosamente. Ancora ricordava il suono sinistro delle
fiamme che velocemente avvolgevano qualsiasi cosa, le urla spaventate e
disperate degli spettatori e di chi era dietro le quinte...
Ricordava lui, la sua espressione delusa ed arrabbiata per essersi reso conto
di avere le spalle al muro. Aveva giocato la sua ultima carta, in un gesto di
disperata follia, che l'aveva solo rovinato, ancora di più.
Fu quando sentì
risuonare i passi affrettati di due persone che decise di tornare al luogo
dell'incontro. Vide Firmin e André camminare velocemente, tra borbottii e
piagnucolii nel ripensare alla fortuna che avevano perso in quell'incendio,
mentre si guardavano intorno con circospezione, temendo che da un momento
all'altro sbucasse fuori il Fantasma. Sarà stato per uno strano senso di deja-vuo per altro, ma era da quando avevano rimesso piede all'Opera che
sentivano gli occhi di qualcuno addosso.
Fecero un bel balzo
dalla paura quando Madame Giry apparve loro
silenziosa, avvolta nel suo consueto abito nero.
«Ma-Madame! Siete voi...!»,
balbettò André, il più suscettibile tra i due.
«E chi altri, se
no?», tentò di sdrammatizzare Firmin, con un sorriso tirato.
La donna li salutò
cortesemente, seguendoli nel loro ufficio.
No, non sarebbe
stato per niente facile convincerli.
Si accomodarono
nell'ufficio, una delle poche stanze rimaste miracolosamente quasi illese
dall'incendio. Anche se, dal disordine in cui gravitava, si sarebbe detto che
ci avessero scoppiato una granata.
«Come state, Madame? La vostra graziosa figlia?», domandò gentile Firmin,
con un sorriso da orecchio ad orecchio.
«Stiamo
bene, grazie. Voi? Avete trovato qualche acquirente?»
André balbettò
qualcosa, scuotendo il capo. «Nessuno, Madame.
Nessuno! Le nostre casse sono in rosso e dobbiamo
ancora risarcire più della metà degli spettatori! Rovinati, siamo rovinati!»
Claire Louise Giry
si accarezzò distrattamente la lunga treccia che le cadeva stanca su una spalla.
«A questo proposito, Messieurs, avrei una possibile soluzione.»
Gli occhi dei due
impresari brillarono di luce propria a quelle parole. «Di cosa si tratta, Madame?», domandò Firmin, mal celando la sua emozione.
La donna, prima di
parlare, prese un bel respiro per auto incoraggiarsi. «Conosco qualcuno che
vorrebbe pagare tutti i danni, i risarcimenti e comprare il Teatro.»
«Veramente?!», chiese esaltato André, scattando in piedi.
«E di grazia, di
chi si tratta?», azzardò Firmin, anch'esso contento per la bella novella.
Claire cercò di
ponderare al meglio le sue parole, onde evitare qualsiasi brutta reazione;
anche se era ben consapevole che non l'avrebbero presa bene per niente a
prescindere dal modo in cui avrebbe parlato. «È un
uomo che vuole rimediare ai danni che ha commesso in passato. Spera vivamente
che voi possiate capire ed accettare la sua generosa
offerta.», disse, tirando fuori un paio di buste dalla sua borsa, contenenti
l'anticipo di cui aveva parlato Erik.
Passò qualche
secondo prima che i due iniziassero ad assimilare la cosa.
«C-Come, prego?», chiese timidamente André, studiando
attentamente la donna. Sperava di aver
mal interpretato le sue parole.
Non rendetemi la
cosa ancor più difficile, pensò lei, sospirando nuovamente.
«Avete capito bene, Monsieur. Mi ha chiesto essere una
sorta di mediatrice tra voi e lui.»
André, colpito da
un tremendo calo di pressione, dovette sedersi, per evitare di crollare a
terra, senza forza; Firmin, invece, la guardava con gli occhi spalancati per lo
stupore e il timore di un ritorno al passato tanto temuto quanto aspettato.
«Madame,
volete dirci che quel... quell'uomo è ancora vivo? Che vuole ancora
perseguitarci?», domandò sconvolto Firmin.
Lei annuì, conscia
che se Erik stesse ascoltando la conversazione, sicuramente si stava trattenendo per non uscire allo scoperto e fargli
passare ogni dubbio su cosa fare.
«Mon Dieu, Madame!», esclamò André,
passandosi un fazzoletto sulla fronte madida di sudore per lo shock. «State scherzando, mi auguro! Se credete veramente che
rimarremo zitti a farci soggiogare nuovamente da quel pazzo allora potete anche
morire di vecchiaia, nell'attesa!»
Firmin diede man
forte al suo collega, con un'espressione seria, ma fin troppo preoccupata. «Madame, se volete un consiglio, liberatevi di lui prima che
vi faccia del male. Anzi, vi accompagniamo noi stessi alla polizia, per
denunciare la situazione.»
Madame
Giry strinse convulsamente i pugni sulla stoffa della sua gonna, cercando di
trovare le parole più adatte per farli ragionare. «Signori, con tutto rispetto,
ma so badare a me stessa e conosco l'uomo di cui stiamo parlando.», disse
lentamente, guardando prima uno poi l'altro. «Posso giurare su mia figlia, che
è la cosa più cara che abbia al mondo, che ha buone intenzioni, questa volta.»
«No, no e no!»,
strillò come una vecchia bisbetica André, sull'orlo di
una crisi di nervi. «Madame, se voi state difendendo
un assassino ed un folle saremo costretti a denunciare anche voi! Non
costringeteci a fare qualcosa che non vorremmo fare.»
«Oh,
su questo non c'è problema. Non lo farete.», fece una
voce profonda e bassa, alle loro spalle.
I due manager
sobbalzarono sulle loro sedie nel sentire quel suono terribile quanto
affascinante. Quando si voltarono, lo videro poggiato alla parete, vestito di
tutto punto con una delle sue consuete giacche lunghe e nere, così come erano neri i pantaloni e le scarpe lucide, gilet sul
beige che mostrava il colletto ancora più chiaro della camicia, e sopra un
foulard ben annodato sul collo, anch'esso scuro e finemente ricamato. Il bianco
della mezza maschera risaltava in maniera sinistra, per i gusti dei due
manager, che mai avevano visto due occhi più taglienti e gelidi dei suoi.
«Mi sembrava di
capire che fino a due minuti fa stavate piangendo miseria,
signori.», continuò Erik, piegando il capo su un lato, con fare quasi curioso.
«Ed ora rifiutate una così generosa offerta? Un
comportamento inopportuno da parte vostra.»
I direttori del
Teatro non ebbero la forza di aprire bocca, limitandosi a fissare il nuovo
arrivato completamente immobili.
«Allora,
avete perso l'uso della parola? D'accordo che sono conosciuto come un fantasma
e non mi aspettavo certo un benvenuto caloroso, ma degnatevi almeno di chiudere
quelle bocche. Siete ridicoli.»
«Erik...», lo rimproverò bonariamente Louise, spazientita.
La voce della donna
sembrò ricordare ai due di non essere soli con quel mostro e parve che
ritrovarono un po' del loro controllo - se mai ne avessero avuto uno.
«Monsieur...»,
bofonchiò Firmin, non sapendo bene nemmeno lui cosa dire.
Erik alzò un
sopracciglio, aspettando che continuasse, ma non ottenne altro se non una serie
indistinta di borbottii. «Cosa non avete capito di voglio-comprare-il-teatro?», chiese, cercando
di non perdere la calma. Quei due riuscivano perfettamente a farlo innervosire
in meno di due secondi.
«A-abbiamo capito tutto, Monsieur,
ma…», iniziò André, tamponandosi febbrilmente la fronte, sempre più lucida.
«Voi non fate mai... mai niente per niente.»
Le labbra carnose
dell'uomo si piegarono in un sorrisino cinico. «Molto bene, vedo che iniziate a
capire.», si staccò dalla parete, iniziando a camminare lentamente per tutta la
lunghezza della stanza, mani giunte dietro la schiena, sotto lo sguardo
attentissimo ad ogni suo movimento dei due impresari e
quello preoccupato di Claire Giry. «Come avrete già sentito, voglio risarcire
tutti i danni che io stesso ho causato. Sia ben chiaro, non lo faccio per voi
due. Fosse per me sareste già belli che in rovina.»,
disse duramente, fulminandoli con lo sguardo. «Non siete mai stati molto
consenzienti quando vi chiedevo gentilmente un favore, quindi non dovete
meravigliarvi se ho agito di conseguenza.»
Firmin deglutì a
fatica, quando Erik si fermò a pochi passi da lui. Dalla notte di Capodanno,
non lo aveva mai avuto così vicino e la cosa lo spaventava non poco.
«Ma ho ragioni ben
più importanti per quello che ho intenzione di fare, e se permettete le mie questioni le tengo per me. Ora.»,
proseguì Erik, riprendendo a camminare, lento e felino. «Quello
che voglio da voi è che accettiate la mia offerta senza compiere alcun gesto...
azzardato, mi capite? Vorrei evitare spiacevoli inconvenienti come in
passato. Voi dovrete occuparvi solo della parte finanziaria del Teatro, io
penserò al resto. Tutto chiaro fin qui?»
I due annuirono
tremanti, senza però obiettare. Anche volendo, sotto quello sguardo, non ne
avrebbero avuto la forza.
«Bene,
se farete esattamente quello che vi dico sarà un guadagno per entrambi, oltre
che in primo luogo per me.», disse Erik, guardando ora Claire come a dirle “Visto? Te l'avevo detto che non avrebbero fatto storie!”. «Ingaggiate una compagnia per il restauro dell'edificio e
ditemi quanti ancora devono ricevere il risarcimento; provvederò subito a
pagare. Come vedete, i ventimila franchi che ricevevo ogni mese son serviti a
qualcosa.», aggiunse, con un sorrisino di scherno,
mentre i due lo assecondavano, non troppo convinti. «Ve
lo ripeto, signori: non fate niente che non sia un mio volere, vi sto
avvertendo. Non sono poi così cambiato in poche settimane. Anzi, da questo
punto di vista non credo cambierò mai.»
Firmin e André
annuirono vigorosamente, capendo l'antifona. Temevano quell'uomo come nessun
altro: li aveva terrorizzati, li aveva mandati in rovina... Eppure
ora stava risollevando in gioco le sorti del Teatro... del suo Teatro.
Erano ben consapevoli che l'Opera era sempre tacitamente appartenuta a lui e
che il fatto che ora stesse offrendo i suoi soldi per averla fosse solo una
circostanza “burocratica”. Cosa avrebbero dovuto fare?
Assecondarlo e guadagnarci, senza opporre resistenza alcuna, oppure andare a
denunciare tutto alla polizia e liberarsi finalmente di lui?
Nessuno si libera
dei fantasmi.
«Monsieur,
perdonate la domanda sciocca, ma...», azzardò Firmin, quasi con riverenza e
timidezza. «La gente che vorrà sapere chi è colui che
ha comprato l'Opera... Ecco, mi chiedevo, come dovremmo comportarci?»
Erik gioì
intimamente: stavano accettando e lui non avrebbe dovuto compiere gesti
sciocchi per convincerli. «Direte che sono una persona
molto riservata e che non trascorre molto tempo a Parigi. Direte che sono un
compositore che ama la musica più della sua stessa vita e direte che mi chiamo
Erik Duval. Mi sembra ovvio che non dovrete fare più alcuna menzione al
Fantasma dell'Opera. Del resto, se farete ciò che dico non ci sarà più bisogno
di un fantasma, giusto?»
«Sì, signore.»,
disse Firmin convinto, tirando una gomitata al suo compare affinché dicesse la
stessa cosa.
«Molto bene, siamo
d'accordo allora.», disse Erik, avvicinandosi alla porta. «Per qualsiasi
problema rivolgetevi a Madame. Per le altre questioni
sarò io a cercarvi, quindi non scomodatevi e state al vostro posto. Buona giornata,
signori.» Se ne andò subito dopo, lasciandoli sgomenti
e pallidi come un lenzuolo.
Sembravano aver
visto veramente un fantasma.
I giorni successivi
alla notizia non si parlò d'altro se non del
misterioso personaggio che aveva deciso di finanziare nuovamente il Teatro
dell'Opera Populaire di Parigi ed accollarsi tutte le spese del caso. Nessuno
conosceva l'identità di quell'uomo, nessuno che l'avesse visto, nessuno che
sapesse molto di più se non le solite chiacchiere della gente. C'era chi
parlava di un ricco aristocratico venuto dall'Italia, chi invece diceva fosse
un Parigino particolarmente benestante, altri ancora
andavano in giro a raccontare che ci fosse un imbroglio dietro l'asta del
teatro per cui era stato comprato dalle sovrintendenze del comune per renderlo
un museo.
Ma
verità o menzogna, poco importava alla popolazione di Parigi dell'alta
borghesia, che finalmente poteva sperare in una prossima riapertura del loro
teatro prediletto, sebbene il ricordo del devastante incendio fosse ancora ben
vivo nei ricordi di chi era presente quella sera.
Raoul de Chagny,
ovviamente, fu tra i primi a ricevere la bella novella dai manager, che lo
tenevano costantemente aggiornato sulle loro (dis)avventure, e fu ben contento di trovarli finalmente allegri
e contenti, anche se le occhiate che i due si lanciavano di tanto in tanto non
lo convincevano molto. Ma di questo si preoccupò veramente poco, dato che conosceva che tipo di persone fossero Firmin e
André, ed era arrivato alla conclusione che tanto normali, in fondo, non lo
fossero. Inoltre era super indaffarato nel programmare alla perfezione il suo
imminente matrimonio - imminente per così dire, dato
che si sarebbe celebrato da lì a sette mesi, tra preparativi e quant'altro.
D'altro canto,
Christine quando ebbe la notizia della riapertura del teatro, così come il
resto del corpo di ballo, fu ben felice di tornare all'Opera, anche se quel
posto le portava alla memoria troppi ricordi belli quanto spiacevoli. Non aveva
ancora dimenticato quell'uomo che l'aveva segnata, che l'aveva messa di fronte
ad una scelta decisamente più grande di lei, che le
aveva donato il suo cuore senza giri di sorta e che l'aveva lasciata sgomenta
anche dopo settimane. Chissà come stava? E se si fosse ucciso per il troppo
dolore? Non l'avrebbe retto, no. Un altro peso così gravoso sulle spalle non
sarebbe riuscita a sopportarlo.
Christine I loveyou...
«Smettila di
pensare ancora a lui, ormai fa parte del passato.», si disse, arrossendo subito
dopo per essersi resa conto di aver parlato da sola e di aver destato le
attenzioni delle altre ballerine.
«Hai detto
qualcosa?», chiese Meg, guardando incuriosita l'amica.
«Oh, no, no!», fece
lei, agitando le mani in segno di diniego.
«Scusate se vi
disturbo, ragazze.», disse una voce gentile alle loro spalle. Étienne, il
ragazzo che aveva ballato con Phénix qualche giorno prima, le guardava
sorridente come sempre. «Mi chiedevo, la vostra amica...
Quella dai capelli rossi... Sophie, giusto? Sapete se verrà più? È qualche
giorno che manca.»
Meg sbarrò gli
occhi, entusiasta che Étienne stesse chiedendo di lei.
L'aveva capito subito che quel ragazzo era rimasto incantato dalla sua amica!
«Sì, verrà ancora.»
«Veramente?»,
domandò contento.
Meg annuì. «Credo che entrerà nel corpo di ballo. Maman è soddisfatta
delle sue performance.»
«Oh, come
biasimarla.», sospirò lui, ripensando al loro ballo. «Grazie mille, mi avete
tolto un pensiero dalla mente, Meg!»
Appena Étienne si
allontanò, la biondina si mise a ridacchiare, eccitata. «Hai visto,
Christine? Étienne si è innamorato di Sophie!»
La giovane cantante
sorrise, ripensando a quella particolare ragazza che aveva conosciuto e che le
sarebbe piaciuto conoscere ancora meglio. Sembrava
avere tante cose da raccontarle dalla vita, sebbene fosse ancora molto giovane.
«Son felice per Étienne, è un bravo ragazzo.»
«Sì,
vero, vero. Oltre che parecchio carino.», continuò
Meg, guardando il ballerino mentre provava alcuni passi di danza. Ed era vero:
era un bel giovane alto e snello, i muscoli segnati dalla lunga attività
fisica, un viso gentile e asciutto, capelli non troppo lunghi e castani scuri,
così come i suoi occhi sempre allegri e sorridenti. Chissà se la ragazza ne
sarebbe stata lusingata? Doveva assolutamente raccontarglielo!
«Quella strega dai
capelli rossi entrerà nel corpo di ballo?», chiese meravigliata una ballerina,
che a Meg non stava tanto a genio, a dirla tutta.
«Sophie non è una
strega.», ribatté, offesa per l'amica. «E sì, ballerà
con noi. Ti crea qualche problema, Françoise?»
La ragazza alzò un
sopracciglio sottile, con fare altezzoso. «Sì che me
lo crea. Danzo da quando son piccola e ho dovuto fare
sacrifici per guadagnarmi questo posto e se permetti non mi piace che l'ultima
arrivata, per di più senza modi e volgare, possa passarmi avanti così
facilmente.», disse tagliente, assottigliando gli occhi già affilati di per sé.
«Ah già, scusami. Parlo con quella che è la figlia
della direttrice del balletto... Cosa puoi saperne tu
del sudore per far parte di questo teatro?»
Christine frenò
l'amica da qualsiasi azione sconsiderata bloccandola per un braccio e facendole
capire che lei era lì, vicino a lei.
«Françoise, faresti
bene a dosare le tue parole.», fece una voce fredda alle sue spalle, che la
impalò sul posto. Madame Giry la guardava severa e altera,
parecchio infastidita per quelle insinuazioni. Non le era mai piaciuta quella
ragazzina viziata e che credeva di essere la migliore su tutte. Ancora, dopo
tutti quegli anni, non aveva imparato ad abbassare le penne.
«Sì, Madame. Torno al mio lavoro.»,
biascicò velocemente e livida di rabbia la ballerina, a testa china.
«Brava.
Così magari vedi se riesci a concludere il tuo pezzo
senza sbagliare.»
Meg e Christine
trattennero a stento le risate, dato che l'occhiata
della donna non prometteva niente di buono.
«La
cosa vale anche per voi due. Su, filate a ballare!» Claire si lasciò sfuggire un sospiro e scosse la testa mestamente. Sperava che
Françoise non facesse niente di sciocco per spaventare Phénix - per lo meno,
credere di riuscirci - o che non le stesse troppo
dietro per farle compiere qualche gesto azzardato, conoscendo l'impeto della
ragazza; anche perché a quel punto non avrebbe toccato solo la zingarella, ma
il suo stesso protettore si sarebbe sentito chiamato in causa.
Ed era l'ultima
cosa che voleva: una ballerina con una trave in testa durate le prove.
Continua...
Ma buon
salve a tutti! Oggi son troppo svogliata per scrivere
qualcosa di sensato - non che solitamente lo faccia, ma questa ultima settimana
è stata uno strazio, e non è ancora finita!
Prima di passare ai
commenti, vorrei pubblicizzare un contest che ho
indetto con la mia socia GiulyRedRosesul
nostro bel Fantasmone, giusto perché questa sezione ci sembra in apnea (ed
effettivamente lo è, tranne per poche anime pie che scrivono qui). The Phantom of the Opera - Contest. Partecipate numerosi! *O*
Keyra83: carissima! Non farti strane idee, io
aggiorno questa regolarmente perché è scritta da un anno, altrimenti stavi
fresca! XD Concordo, Jacques è antipatico, tutto suo cugino! Chissà che diavolo
combinerà, ora. Mah! Comunque no, sei solo tu che si aspetta che qualcosa nasca
tra Erik e Phénix, sìsì. Fidati. :'D Effettivamente Erik è ancora
troppo ferito dall'accaduto con Christine, da far pensare che non voglia
nemmeno sentir parlare di lei, ma non dimentichiamoci che prima di innamorarsi
lui era il suo Maestro, che vedeva in lei le potenzialità per diventare la
prima donna. Almeno, questo è quello che penso io... e che mi
serve, poi, per il resto della storia! Ahah XD
Alla prossima! (:
sydneybristow: ma
ciau! Posso dirti che mi hai scioccata?
Voglio dire, l'idea di Raoul con Phénix... ehm, posso dire con sicurezza che
non mi è mai passata per la mente una cosa simile, tengo a rassicurare tutti! XD
Anche perché Phénix è appena corsa in bagno a rigettare il panettone del '91,
povera ragazza. >_> Comunque! Grazie mille, cara!
Sempre troppo buona *_* Al prossimo capitolo! (:
Elby: ri-salve! È
sempre un onore sapere che leggi le mie scempiaggini! *_* Apprezzo il tuo
coraggio, davvero. (': E son ancor più contenta che ti
piaccia l'imbastitura della trama, e dire che all'inizio mi sembrava
un'idiozia! :D Spero ti piaceranno anche i prossimi
capitoli, quando vuoi son qui ;) Grazie mille! :)
Era passata più di una settimana dall'inizio
dei lavori, e due da quando Erik aveva avuto l'incontro di lavoro con i
manager. Aveva stipulato un contratto, in modo tale che fosse tutto in regola,
e il risarcimento venne pagato come promesso, per la gioia di tutti coloro che
ricevettero finalmente la loro somma di denaro. Firmin
ed André non avevano più avuto la piacevole occasione di parlare con il
nuovo padrone dell'Opera - non che la cosa gli dispiacesse, ecco - ricevendo
solo le consuete missive che Erik adorava tanto scrivere, in cui elencava
dettagliatamente cosa fare e non fare.
Neanche Phénix ebbe
la possibilità di incontrarlo, dopo quella notte, se non solo un'altra volta la
sera successiva, per la sua lezione di lettura e scrittura. Le era sembrato
eccitato all'idea di essere riuscito nel primo passo del suo grande piano e lei
non poteva che essere contenta per lui. Mai gli aveva visto quella luce di
euforia brillargli negli occhi, ora così vivi e più
intensi di prima, che tanto l'avevano lasciata interdetta. E mai aveva
conosciuto un uomo che fosse talmente devoto a qualcosa di immateriale come la
musica da dare sé stesso e tutti i giorni della sua vita per essa.
Poi era sparito nel nulla, proprio come un
fantasma. Solo Madame Giry sembrava l'unica tranquilla,
nonostante non si fosse più fatto vivo. Era sicura che fosse molto impegnato a
ricoprire il ruolo che aveva acquisito e che stesse lavorando giorno e notte
per pianificare tutto al meglio. E la donna non si sbagliava di certo, Erik era
un uomo che aveva una cura dei dettagli quasi maniacale e che, quand'era
invischiato in progetti così importanti, non voleva farsi distrarre da niente e
nessuno. Per questo aveva sconsigliato alla giovane Phénix
di andare a trovarlo, se non avesse voluto essere cacciata
via di malo modo.
Nel frattempo, Phénix
era ufficialmente entrata a far parte del corpo di ballo del teatro dell'Opera,
sotto gli sguardi contenti e fieri di Meg, Christine ed Étienne
- completamente perso per lei - e quelli infastiditi della maggior parte delle
altre ballerine, in particolare di Françoise. Phénix aveva del talento, su quello nessuno aveva dubbi, ma
aveva molto da imparare per raggiungere almeno metà della grazia e
dell'eleganza che era tipica di una ballerina di prima fila. E non era certo
una delle allieve più brave che Claire Louise Giry
avesse mai avuto, dato che i pezzi che le chiedeva di eseguire venivano
puntualmente conclusi con la giovane che seguiva la musica senza curarsi delle
sue direttive, tra le risate di tutti.
Ma Erik non si era dimenticato di lei, della
sua nuova protetta. Quando aveva un attimo di tempo libero si recava sempre ad
assistere alle prove e alle lezioni, nascosto dietro il grande specchio della
sala da ballo. Non gli era sfuggito il fatto che Phénix si lasciasse andare un po' troppo traviata dalla
musica, non senza farlo sorridere spesso e volentieri; così come si era accorto
delle antipatie che stavano nascendo nei suoi confronti - cosa che avrebbe
dovuto fermare, se fossero degenerate - e del particolare interesse per la
zingara suscitato in quel giovane ballerino di nome Étienne,
che per un certo verso gli ricordava la fastidiosa figura di Raoul de Chagny:sempre
sorridente, sempre sguardo perso verso l'oggetto dei suoi desideri, sempre
gentile e sempre dannatamente bello.
Bello, cosa che lui non era.
Tu sei un mostro!
«Sophie, potrei
farti una domanda?»
Erik, che in quel momento stava per lasciare
il suo nascondiglio, si fermò un attimo, per seguire la scena. Étienne si era avvicinato alla giovane, come ogni sera dopo
la fine delle prove, per congratularsi con lei per i suoi progressi. Ma c'era
qualcosa di diverso, quella volta, nello sguardo del ragazzo, l'aveva capito
subito.
Così come l'aveva capito Phénix
stessa, a cui non era passato inosservato il fascino che il ragazzo subiva,
soprattutto dopo averne avuto la conferma da Meg. «Certo, Étienne,
dimmi.»
Il ballerino si passò una mano dietro il
collo, imbarazzato. «Ecco, mi chiedevo... ti andrebbe
di rimanere ancora un po' per provare un pezzo a due? O hai altri impegni?»
Phénix
arrossì a quella proposta, lanciando qualche occhiata per cercare lo sguardo di
qualcuno di sua conoscenza. Peccato che trovò solo Meg
che, dietro il ragazzo, le sorrideva come una povera pazza e non le era per
niente d'aiuto. «Non saprei se Madame Giry sia
d’accordo...»
«Oh, per questo non c'è problema, ho già
chiesto le chiavi del palazzo.», confessò in un sorriso lui.
La giovane zingara si sentì le farfalle nello
stomaco nel vedere quello sguardo così sincero ed innamorato. Ah, com'era
carino!
«Sophie, andiamo?»,
chiese Madame Giry, facendo voltare i due e imprecare
sommessamente Meg.
Phénix
guardò interrogativa la donna, che fece scivolare lo sguardo prima su di lei
poi su Étienne. Infine, come fulminata, schioccò la
lingua, avendo capito la situazione. «Étienne, se mi
avessi detto che doveva restare anche lei ti avrei avvisato che Sophie oggi non può trattenersi.»
Il giovane abbassò le spalle, sconfitto,
mentre Phénix corrugava la fronte. «Perché?»
«Ti sei dimenticata della cena dal Visconte?»
Phénix
sospirò, quando le venne in mente dell'ennesimo invito da parte di Raoul e
Christine a cenare con loro. Maledicendo l’eccessiva gentilezza del Visconte,
guardò dispiaciuta Étienne, rendendosi conto che sì,
sarebbe rimasta volentieri con lui a ballare e a chiacchierare. Lo trovava
adorabile e la lusingava il fatto che fosse attratto da lei. Inoltre era un
bravo ballerino e avrebbe potuto insegnarle tanto. «Mi dispiace, Étienne, facciamo per la prossima volta?»
Lui, dopo un sospiro, annuì sorridendole. «D'accordo, ma tieniti libera. Buona serata, signore.»
Erik, dietro il suo nascondiglio, si stupì non
poco nel rendersi conto che stringeva i pugni talmente forte da farsi quasi
male. Fu solo quando Phénix seguì le altre tre donne
per andare via, lasciando il ragazzo solo a guardarla sparire dietro l'angolo,
che decise di rilassare un po' tutti i muscoli del corpo, che poco prima erano
tesi come una corda di violino.
Solo una domanda gli frullò in testa per tutto
il resto della serata: che diavolo gli
era successo?
La villa della famiglia de Chagny,
una bella abitazione ben curata parecchio eclettica: aveva elementi
classicheggianti che si fondevano con altri prettamente barocchi, in un trionfo
di forme e curve che, solo dall'esterno, preannunciavano saloni maestosi e
vivacizzati dalla numerosa statuaria dei bassorilievi e delle decorazioni.
Per quanto non fosse la prima volta, Phénix si ritrovò ad ammirare estasiata quello spettacolo
che le si presentava davanti, non concependo come potesse esistere così tanto
sfarzo e a poche miglia da lì gente come lei moriva di fame. La vita era
ingiusta, e anche tanto.
Il maggiordomo, un uomo basso e paffuto, dalle
gote sempre arrossate come se avesse appena finito di bere una buona bottiglia
di liquore, le accolse gioviale e cortese come il suo solito, accompagnandole
al salone e facendole accomodare in uno dei tanti comodi e morbidi divani.
Il visconte arrivò poco dopo con il suo
immancabile sorriso gentile, bellissimo in un elegante completo blu notte.
Accanto a lui seguiva un uomo alto e magro, dai baffi curati e scuri ed un paio
d'occhi che si puntarono subito sulla zingara.
«Buona sera,
signore! E' un piacere rivedervi qui.» Si chinò in
segno di saluto, mentre l'uomo accanto a lui tossicchiava per avere attenzione.
«Oggi ho anche il piacere di presentarvi Monsieur Jacques David Faucon, il mio lontano cugino di cui vi parlai.»
Faucon
fece qualche passo avanti, baciando galantemente le mani alle tre donne, ma
soffermandosi un po' troppo, per i gusti di tutti, sulla bella Phénix. «Enchanté, mademoiselle…?»
«SophieRembrant, signore.»
«Rembrant?
Non siete di qui, vero?»
«No, sono di…» Phénix
lanciò un'occhiata di aiuto a Madame Giry, accanto a
lei. «Di Marsiglia.»
Marsiglia... Aveva tanto sentito parlare di
quella cittadina sul mare... Chissà se era così bella come se la immaginava?
«Oh, e cosa vi porta qui a Parigi?»
La sua protettrice intervenne, prontamente. «Mademoiselle è la figlia di un
mercante, un mio lontano parente. Resterà ospite da noi per qualche tempo, per
provare ad intraprendere la carriera di ballerina. Dovreste vederla, sembra un
angelo.»
Jacques Faucon
guardò incuriosito la bella zingarella, non potendo
nascondere un sorriso interessato. «Immagino, se danza bene quanto è graziosa.»
Phénix
non si sentì lusingata da quel complimento, dato che quell'uomo le piaceva
veramente poco. Ma si sforzò di sorridere compiaciuta, raddrizzandosi la
schiena in postura eretta e sicura. Ora aveva anche un “passato” da reggere! Figlia
di un mercante... suonava bene, in fondo.
«Christine ci raggiungerà a momenti.»,
annunciò il padrone di casa. «E dovrebbero
raggiungerci tra pochi istanti anche monsieur Firmin
e monsieur André. Ho voluto invitare anche loro per brindare al misterioso
acquirente dell'Opera e al loro salvataggio dalla bancarotta.»
«Oh, mi piacerebbe proprio conoscere
quest'uomo.», disse Faucon, poggiando un gomito sul
bracciolo della poltrona su cui si era seduto. «Nessuno sa chi sia?»
Raoul scrollò le spalle. «Non
ho la più pallida idea. Magari più tardi riusciremo a scoprire qualcosa su di
lui dai due direttori.»
Phénix e
madame Giry si scambiarono un'occhiata veloce, ma non
dissero niente in proposito. Non volevano destare attenzioni inutili e
pericolose.
Pochi minuti dopo li raggiunsero anche
Christine, splendida in un abito rosato e bianco, e i due direttori del teatro,
più allegri del solito, ma anche più strani agli occhi di tutti. Non che
fossero stati mai normali, certo. Dopo una sana chiacchierata sull'ultima
battuta di caccia del Visconte con il cugino, il gruppo si spostò in sala da
pranzo, dove li attendeva una tavolata imbandita di tutto punto, segno di una
cena che sarebbe stata superba.
«Ebbene, signori.
Vorrei brindare alla prossima riapertura dell'Opera Populaire
di Parigi, che tanto ha dato alla città ed alla Francia e che presto tornerà a
splendere come un tempo. All'Opera e ai due direttori qui presenti!», fece Raoul, alzando un bicchiere di vino rosso, per poi
portarselo alle labbra, imitato dagli altri ospiti.
Firmin e
André si guardarono euforici, forse un po' troppo. «Oh,
grazie, grazie Visconte. Siamo lieti di tutto ciò!»
«Dalla catastrofe alla buona novella!»,
proseguì André, ridendo allegramente.
«Dunque, ci sono novità su questo acquirente
di cui nessuno sa nulla?», domandò Jacques Faucon,
posando il suo bicchiere sul tavolo e asciugandosi lentamente le labbra con il
tovagliolo che teneva sulle gambe.
I due direttori risero nervosamente,
suscitando parecchie perplessità e curiosità. «Oh, è un uomo molto riservato.»,
iniziò Firmin, dato che il compagno non accennava ad
aprire bocca sulla questione. «Non ama che si
chiacchieri troppo di lui. Ma è un buon intenditore di musica. Oh, compone
anche, sapete? Credo che qualche sua opera si sentirà tra un Faust e un’Aida*, molto probabilmente.»
«Davvero? Un uomo
senza dubbio di alto livello artistico, allora.»,
commentò Raoul, interessato. «Mi piacerebbe veramente fare la sua conoscenza.»
«Non credo sia possibile.», lo interruppe un
po' troppo brutalmente André, mentre Richard Firmin
per poco non si strozzava con la sua stessa saliva. «Monsieur
non è di Parigi e si ferma qui solo per poche ore, per poi ripartire via,
chissà dove. E' un uomo molto occupato.»
«E questo monsieur ha un nome, di grazia?», chiese Faucon.
I due si guardarono un attimo. «Duval. Erik Duval,
o così ha detto di chiamarsi.»
«Erik Duval, dunque? Che personaggio strano.»,
commentò l'altro. «Non trovate anche voi, cugino?»
«Sì, decisamente. Da
come ne parlate, signori, sembra quasi si tratti di un fantasma! C'è, ma non si
fa vedere.»
Non sapeva, il povero Visconte, che quelle
parole furono per i due uomini un bel tuffo al cuore, dato che divennero
pallidi come un lenzuolo candido.
«Monsieurs, va tutto
bene?», domandò la bella Christine, che fu l'unica, oltre a Madame Giry ed alla sua protetta, ad accorgersi del piccolo
momento di mancamento dei due uomini.
«Oh, sì, sì, mademoiselle. Va tutto bene, benissimo! Ah ah!»
L'allegra cena fu interrotta dall'inviato di
un gendarme, che irruppe nella sala con il fiatone, scusandosi mille volte per
aver interrotto la serata con inchini vari ed eventuali.
«Ditemi, Gilbert, è successo qualcosa?»,
s'informò subito il Visconte, andandogli incontro, sotto lo sguardo dei
presenti, che osservavano la scena curiosi e un po' agitati.
«Visconte, abbiamo
fatto una scoperta! Una scoperta sensazionale!»,
esclamò l'uomo, agitando il cappello in una mano. «Il Fantasma dell'Opera...
l'abbiamo trovato!»
Il gelo calò all'istante nell'intera sala,
spedendo brividi di paura ed eccitazione a tutti, a seconda dei loro pensieri.
Madame Giry, che inizialmente si era alzata come
tutti gli altri, ricadde senza forze sulla sua sedia, incredula e terrorizzata
all'idea che avessero trovato veramente Erik. Idem per Christine, che nel
sentire quel nome per poco perse i sensi, e fu
prontamente sorretta dall'amica Meg e dal signor Faucon,
che sedeva lì vicino. Firmin ed André rimasero
immobili come stoccafissi, le bocche spalancate per la meraviglia ed il timore,
la fronte imperlata di sudore.
L'unica persona che sembrò non curarsi di
quella notizia era Phénix, che però più di tutti era
preoccupata e spaventata. Nessuno avrebbe potuto leggerle negli occhi la paura
che stava provando in quel momento, nessuno avrebbe potuto capire cosa si
stesse agitando dentro di lei, se non ascoltandole il battito del suo cuore,
impazzito. Cosa significava che l'avevano trovato? Erik non poteva essere
trovato, era impossibile! Era lui che trovava gli altri, non viceversa! Non
poteva aver commesso qualche passo falso, non era da lui.
«L'avete trovato?», chiese Raoul, con la gola
secca per l'emozione.
«Sì, monsieur!
Abbiamo trovato il suo cadavere!»
A quelle parole Christine non resse più
davvero e perse in sensi, cadendo tra le braccia di Faucon
a peso morto, mentre Meg soffocava un gridolino di apprensione.
«Christine!» Raoul corse dalla sua fidanzata,
sventolandole un fazzoletto sul viso e prendendola in braccio, per portarla in
un luogo più arieggiato e farla riprendere. «Chiamate un medico, presto!»
«Cugino, il medico della situazione sono io.»,
disse pacatamente Faucon, alzando gli occhi al cielo
e seguendo il Visconte al piano superiore della villa.
Madame Giry era
ancora seduta, lo sguardo perso nel vuoto, tacitamente disperata. No, non era
possibile. Erik non poteva essere morto, non doveva neanche pensarlo.
Gliel'aveva detto, ripetuto fino alla nausea, che quello che stava facendo era
pericoloso... gliel'aveva detto... A stento sentì la mano di sua figlia che,
con tenerezza, le accarezzò la schiena, ma si impose un po' di calma per
ascoltare lucidamente il discorso tra i due direttori e Gilbert.
«Siete sicuri che sia lui?», domandò
febbrilmente André, prendendo per le spalle e scuotendolo come un giocattolo.
«S-sì, monsieur.
Un operaio si è attardato a lavorare, questa sera, e ha trovato il suo corpo
senza vita nel secondo sottopalco. Era impiccato. Non siete felici?»
«Come fate ad esserne certi?», continuò Firmin, con gli occhi fuori dalle orbite.
«Beh, il suo viso era deformato per metà,
proprio come l'uomo che tutti abbiamo visto il giorno dell'incendio.»
I due direttori si lasciarono sfuggire un gemito di dolore, misto all'euforia. Si erano finalmente
liberati di quel mostro, ma quel mostro stesso li
stava risollevando dalla crisi economica! E che aveva fatto? Si era tolto la
vita! Come avrebbero fatto ora, senza di lui e le sue finanze? Rovinati,
doppiamente rovinati!
Intanto Phénix,
ancora immobile nel suo posto, si ritrovò a stringere convulsamente la tovaglia
sotto le sue dita. Non riusciva a ragionare, non riusciva neanche minimamente a
pensare ad una cosa simile. Erik morto... il viso deformato... era quello che
si ostinava a nascondere sotto la maschera? Per un attimo, in tutta quella
confusione, le venne alla mente quel bambino malato e sfigurato che aveva
“ucciso” i suoi genitori... Quanto dolore aveva passato anche lui come il
bambino, in tutta la sua triste vita?
Provò a prendere un bel respiro per trovare un
po' di calma, ma ci riuscì poco e niente. Sarebbe voluta correre all'Opera,
alla casa sul lago per vedere se veramente fosse morto, anche se era evidente
che il contrario fosse impossibile. Ma non poteva, il teatro sarebbe stato
pieno come un uovo di giornalisti e soldati. L'avrebbero vista sicuramente.
Oh, Erik...
Non aveva mai pianto in vita sua, se non al pensiero
dei suoi poveri genitori... ma quella volta niente poté fare per fermare le
lacrime che le bagnarono le guance.
*Mi perdonerete sicuramente una svista voluta, dato che la prima
dell’Aida venne messa in scena al Cairo alla fine del 1871... Ma io amo l’Aida,
dovevo inserirla in qualche modo. :D
Continua...
Buona domenica a tutte voi, mie adoratissime lettrici! E lettori, se ve n’è qualcuno! (: Prima di passare ai vostri commenti, vorrei ricordarvi
del contest che ho indetto con la mia socia GiulyRedRosesul nostro
bel Fantasmone, The Phantomof
the Opera - Contest, che ora è ufficialmente aperto!
Partecipate numerosi, mi raccomando! *O*
Grazie mille a tutti coloro che seguono questa
cosa! *vi abbraccia tutti
virtualmente*
sydneybristow: salve!
Prima di tutto ti ringrazio per esserti iscritta al contest, io e Giulia non
vediamo l’ora di leggere cosa hai prodotto! *_* Comunque, noto con
preoccupazione (o devo esserne felice?) i tuoi istinti da killer nei confronti
di chiunque si avvicini a Phénix… la donzella
ringrazia per il sostegno! XD Grazie mille, al prossimo aggiornamento! (:
Elby: oh *_* Ma che
splendido commento! Ora mi commuovo, sul serio! ;_; Ammetto
di essere una sostenitrice del “complichiamo le cose e, se scorre un po’ di
sangue, è anche meglio!”, ma come hai detto tu Erik merita un lieto fine... Chissà
che diavolo succederà! :D E ammetto anche che l’idea
di Phénix e Christine che si tirano i capelli dietro
le quinte mi ha solleticato l’immaginazione, fantastico! XD Ah, son contentissima che qualcuno apprezzi Rosalinda! Io adoro
quella donna, anche se son di parte, vabbè. :’D Grazie, grazie mille per tutto! *_* E se riesci davvero
a trovare il tempo per partecipare al contest, beh… son
pronta a colarti una statua in oro seduta stante! *-* Speriamo che
partecipino in molti, quello mio e di Giulia vuole essere un
input per riscoprire questa splendida e drammatica storia!
Era notte fonda,
una notte disgraziata, fredda e sferzante per il vento
gelido che veniva da nord. Erano passate solo poche ore dalla scoperta del
cadavere del famigerato Fantasma dell'Opera, e solo
chi non aveva interessi con lui e chi era più che felice della notizia era
riuscito a prendere sonno tranquillamente. Christine si era ripresa dal momento
di mancamento, ma era pallida come un cadavere. Il fidanzato sapeva che la sua
reazione era dovuta al fatto che fosse ancora intimamente legata a quell'uomo
che l'aveva stregata, e la cosa lo infastidì non poco. Ma
ormai quel mostro era morto definitivamente; non avrebbe più attentato alla
loro felicità e lui poteva solo tirare un sospiro di sollievo.
Madame
Giry, quella notte, rimase seduta al buio nel salotto di casa sua, in silenzio,
a rimuginare su quello che era stata la sua vita dopo aver conosciuto quel
bambino disperato e storpio, diventato poi un uomo dalle mille sorprese,
pericoloso e buono nello stesso tempo. Quello stesso uomo che ora non c'era
più. Era per quel motivo che in quegli ultimi giorni non si era più fatto
vedere? Cosa era successo di così grave da spingerlo
ad uccidersi? Perché si era dato la morte? Perché?
Trasalì sulla
poltrona quando sentì i passi nudi di qualcuno che scendeva le scale
velocemente, non curante di fare rumore e svegliare
gli abitanti della casa.
«Phénix?», domandò,
quando riconobbe la sagoma della ragazza, rischiarata dalla poca luce della
luna che penetrava tra le pesanti tende.
«Non provate a fermarmi, Claire. Per favore.», sussurrò la zingara,
sgusciando via verso lacucina,
per poi sparire in giardino. Madame Giry sospirò,
pregando Dio che almeno non succedesse niente a lei.
Phénix correva,
correva a perdifiato verso la mole dell'Opera, scura ed
imponente in quella nottata gelida e lugubre. Sembrava che anche il cielo
avesse saputo della morte di suo figlio, l'Angelo della Musica, e che a modo
suo stesse piangendo per la sua perdita. In cuor suo la ragazza sapeva che
quello che stava facendo era pericoloso e che non avrebbe trovato niente, se
non un desolante silenzio a conferma di quello che aveva sentito. Ma non poteva restare con le mani in mano, non ci sarebbe
riuscita. Voleva sbollire il suo dolore, gridarlo al teatro vuoto, maledire
quell'uomo che era stato così insensibile e stupido da uccidersi proprio quando
stava per rinascere... L'aveva abbandonata, aveva abbandonato
tutti... E non glielo avrebbe mai perdonato.
Non curandosi di
poter essere vista, Phénix corse in Rue duScribe, cercando di forzare quellegrate in ferro, che sfortunatamente erano chiuse a
chiave. Respirando affannosamente, batté i pugni contro il freddo muro
dell'Opera, arrabbiata come non mai. Alzò lo sguardo verso il cielo plumbeo,
che aveva iniziato a piovere, come a farsi beffe di lei. Sembrava che stesse
veramente piangendo.
«Sei
lì, vero? Sei su qualche stella, vero Erik?», mormorò,
lasciandosi andare a terra, rabbrividendo tra un singhiozzo e l'altro. «Sei su
qualche stella... Insieme a lui, insieme a loro...»,
continuò, stringendosi lo scialle sulle spalle. «Che tu sia maledetto... Mi hai
lasciata sola... Io... mi fidavo di te...»
Rimase
raggomitolata in terra per quelle che le sembrarono ore, ma che in realtà erano
solo pochi minuti. La pioggia era aumentata, inzuppandola completamente come un
pulcino appena nato, e qualche lampo illuminò a giorno la notte. I brividi di
freddo si fecero sentire sempre di più, e molto spesso si ritrovò a starnutire
e tossire. Fu solo il rumore metallico di una serratura che saltava che la fece
svegliare da quel pianto senza freni. Con gli occhi gonfi e rossi, guardò la
grata che chiudeva l'unica via al mondo sotterraneo del teatro, e si accorse
con stupore che era aperta.
«Erik...», soffiò al vento, speranzosa. Scavalcò velocemente la
bassa finestra e si ritrovò nella cappella, illuminata solo da poche candele.
Chi le aveva accese?
«Erik!», gridò,
tastando i muri come impazzita, nella vana speranza di trovare una porta
nascosta che potesse condurla a lui, o alla sua dimora. «Erik...»
«Perché piangi?»,
fece una voce bassa e calda, accompagnata subito dopo da un tuono che svegliò
mezza Parigi. Phénix si voltò, cercando il proprietario di quella Voce che
aveva imparato a conoscere bene. Ma non lo vide, da
nessuna parte. Sembrava essere dietro di lei, accanto a lei... Ma era sola, tristemente sola in quella cappella. E lei
stava delirando, non c'era altra spiegazione.
«Sei
tu? Sei un angelo?»
La Voce
rise sommessamente, spedendole un brivido lungo la schiena. «Non sono mai stato
un angelo, Phénix.»
La ragazza
s'immobilizzò un attimo quando sentì un soffio sul collo e la sensazione di un
mantello che si muoveva per la corrente d'aria fredda che aveva appena
attraversato la cappella. Quando si voltò a stento
riuscì a reprimere un grido di stupore, nel ritrovarsi Erik vestito di tutto
punto a pochi passi da lei.
«Che
c'è? Hai visto un fantasma?», le domandò sarcastico,
incrociando le braccia sul petto.
Phénix, le mani giunte
sulle labbra per evitare che gridasse, riprese a respirare con più regolarità. «Sei tu? O sei... un sogno?»,
mormorò lei rocamente.
«No,
purtroppo son reale. Perché piangi?», domandò l'uomo
ancora una volta.
Tutto d'un tratto Phénix divenne rossa per la rabbia e per
l'imbarazzo di essere stata scoperta in quello stato di totale indifesa. Che
domande erano quelle? «Tu sei pazzo, pazzo!»,
gli gridò, facendogli sgranare leggermente gli occhi. «Mi
chiedi perché piango? Ma che domande mi fai,
disgraziato!»
Erik si trovò
letteralmente preso alla sprovvista quando la ragazza
gli si gettò contro, tirandogli pugni al petto e piangendo come una bambina.
«Ti credevo
morto... tutti ti credevamo morto!», proseguì Phénix,
diminuendo i pugni contro l'uomo, sempre più deboli. Era pallidissima, in
volto. «Sei impazzito del tutto! Ero terrorizzata
all'idea che ti fossi ucciso veramente! ...E mi chiedi perché piango?»
Erik chiuse gli
occhi per trattenere lacrime di commozione nel sentire quelle parole
pronunciate con tanto dolore, come se quella giovane ragazza, scossa dai
singhiozzi e dai brividi lì, tra le sue braccia, fosse realmente spaventata
all'idea di perderlo. «Phénix... Volevo solo
proteggermi. Devo proteggermi. In realtà, l’idea era proprio
quella.»
La zingara alzò uno
sguardo furente verso l'altro. «Allora vedi di tenermi informata la prossima
volta che dovrai simulare la tua morte.»
La strinse tra le
braccia così forte da lasciarla senza respiro. Le aveva fatto male, ne era pienamente
consapevole ora. Ma mai avrebbe pensato che qualcuno potesse disperarsi così tanto per la sua possibile scomparsa. Credeva anzi che
molti, se non tutti, avrebbero gioito alla notizia.
«Sei uno stupido se
credi che a nessuno importi di te.», proseguì la
ragazza, stringendo tra le mani la stoffa del suo mantello. «Non solo io, ma
anche Madame Giry e Christine son state male.»
«...Christine?
Lei...»
«È
svenuta. Per colpa dei tuoi scherzi.»
Erik si morsicò le
labbra, emozionato. Oh, la sua piccola Christine... Allora
nonostante tutto gli voleva bene, in fondo.
«Ma
posso ancora capire che non volessi che lei sapesse, che anzi credesse che
fossi morto davvero. Ma io e Madame Giry? Ci hai tenute all'oscuro di tutto.»
Ogni parola, ogni
singola parola che Phénix gli diceva lo trafiggeva al
petto dolorosamente; parole pronunciate con durezza e rabbia, con
preoccupazione e rammarico. Doveva farla smettere, doveva
zittirla, altrimenti non avrebbe retto veramente. «Perdonami,
Phénix. Non avrei dovuto, ora lo so.»
Perdono.
Aveva chiesto
perdono per la prima volta in vita sua, quando era sempre stato convinto che
sarebbe dovuto essere il mondo intero a porgergli le sue più umili scuse.
Phénix sorrise di
nascosto, stringendosi a lui ancora un po'. Trovava le sue braccia
il suo luogo naturale dove sarebbe voluta rimanere in eterno. Erano così
grandi e calde, così rassicuranti, così... belle, semplicemente. «Bene, ora che
i sensi di colpa hanno fatto il loro effetto, posso anche perdonarti.» Rise tra le lacrime quando si accorse dello sguardo
dell'altro, misto di perplessità e rabbia per la sua sfacciataggine. Fortuna
che Erik fosse ancora vivo...
«Insolente
strega che non sei altra! Scappa o saranno guai.», la
minacciò con un sorriso che non prometteva niente di buono. Ed
infatti la bella zingarella vide bene a correre via dalla cappella, ridendo
come una bambina mentre cercava di lasciarsi indietro il suo inseguitore. Lo
sentiva a pochi passi da lei, poi spariva in qualche apertura nascosta, per poi
ricomparirle di fronte, bloccandole la fuga.
«Trovata.»
Phénix lanciò un
urlo per lo spavento, poi riprese la sua folle corsa, continuando a ridere
divertita. Tra un sottopalco e l'altro, tra travi e
funi di varia natura, la ragazza riuscì a sfuggirgli senza neanche sapere come,
e si fermò un attimo, per riprendere fiato. Era un'impressione o ultimamente si
sentiva più debole del solito?
Lui, intanto, era
sparito. Il teatro, a quell'ora della notte, quando era completamente deserto
era inquietante. Soprattutto se si aveva qualcuno alle calcagna come Erik.
«Dove sei?», chiese
la giovane, respirando velocemente e tendendo le orecchie. Un fruscio, poi più
niente. «Erik, non farmi spaventare ancora.»
Si sentì cingere la
vita da due forti mani, e gridò impaurita, col cuore che le scoppiava per
l'adrenalina.
«Presa.», le soffiò
in un orecchio Erik, che mai si era divertito così tanto
in compagnia di qualcuno. Ad essere sinceri, non aveva
mai pensato che sarebbe potuto accadere.
«Ho perso altri
venti anni di vita per colpa tua.», borbottò Phénix, rilassandosi tra le sue
braccia e poggiando il capo all'indietro, sul suo ampio petto. Sì, si stava
veramente bene tra le sue braccia... E la sua voce, la sua voce
era musica per le orecchie. «Son così contenta che tu sia ancora vivo.»
Erik sorrise,
depositandole un leggero bacio tra la sua chioma indiavolata.
Rimasero in quella
posizione per minuti interi, immobili, una completamente persa contro di lui,
l'altro troppo occupato a respirare il profumo dei suoi capelli per pensare di
muoversi. Se qualcuno li avesse visti avrebbe pensato
certamente ad una splendida statua, scolpita in un dolce momento che
immortalava per sempre la gioia di due innamorati. Loro non erano innamorati, ma erano felici di essersi trovati. Piaceva ad entrambi la loro compagnia e ormai nessuno dei due ne
avrebbe potuto fare a meno.
«È meglio che torni
a casa.», disse Erik, sciogliendo il loro abbraccio. «Non
saresti dovuta venire. È pericoloso.»
«Per
rimanere sveglia tutta la notte senza sapere cosa ti fosse successo? Stai
tranquillo, l'intera Parigi dormiva quando sono uscita.»
«Parigi
dorme, ma le ombre no. Quelle son sempre deste, Phénix. Se ti dovesse succedere
qualcosa...»
«Non c'era nessuno,
te lo ripeto.», ribatté convinta la ragazza, mettendosi le mani sui fianchi e
guardandolo teneramente. «Se mi avesse visto qualcuno di mia conoscenza
non sarei neanche arrivata fin qui, credimi. Mi avrebbero presa
prima.»
Erik si lasciò
sfuggire un sospiro profondo, constatando per
l'ennesima volta che quella ragazzina era quasi più testarda di lui, quando si
metteva d'impegno. Il pensiero, però, lo fece sorridere. «Torna
a casa. Sei stanca e infreddolita.» Si tolse il
mantello e glielo gettò sulle spalle, coprendole anche la testa con il
cappuccio.
«Ci rivedremo
presto, d'accordo?», domandò Phénix, stringendosi in quella stoffa nera come la
notte, impregnata del suo profumo. «Non sparire più come hai fatto in questi
giorni.»
L'uomo annuì in un
lieve sorriso e le fece cenno di seguirla, conducendola alla cappella.
Quando Phénix uscì
dal teatro notò che non pioveva più. Dunque, anche il cielo aveva saputo che suo figlio era
ancora vivo.
Gentili signori,
Immagino vi sia
giunta notizia della mia dipartita per aver ritrovato il mio cadavere impiccato
nel secondo sottopalco. Ebbene, sono morto ma la mia
anima, purtroppo, non mi da pace e non posso riposarmi neanche dopo la vita...
Dio dev'essere proprio arrabbiato con me per punirmi
così ancora! Sicché mi rincresce informarvi che il Fantasma è tornato, ma
questa volta nel vero senso della parola.
Suvvia, chiudete
quelle bocche da pesci lessi e riprendete colorito al viso. Perdonate l'ironia
macabra, ma non conosco altri modi per divertirmi, capite. È palese che quella
fosse solo una messinscena per togliere qualsiasi dubbio sulla mia morte, cosìpotrò lavorare con
più tranquillità, dato che sono “morto”. Il cadavere che è stato ritrovato
apparteneva ad un uomo senza casa né famiglia, che
stava morendo nelle vicinanze del teatro; io gli ho solo dato una mano per non
soffrire ulteriormente. Se vi state chiedendo come ho completato l'opera,
ecco... mi son preso la libertà di ustionargli metà
volto. Non è stato piacevole, credetemi, ma purtroppo un uomo che deve
difendersi deve pur compiere gesti simili. Evidentemente son l'unico mostro al
mondo con metà del viso storpiato. Ironico, no?
Ora, andate a
gioire e a festeggiare che il vostro nuovo patrono non vi ha abbandonato e non
siete caduti nuovamente in rovina; ma tenetevi lucidi, per quanto questo possa
essere nelle vostre facoltà, perché presto riceverete un'altra missiva su come
dovranno procedere i lavori di restauro e su come gli operai non dovranno
avvicinarsi non più in basso del terzo sottopalco. Lì sotto me
ne occuperò io la notte.
Rimango, signori,
vostro umile servo,
Il Fantasma
dell’Opera.
I due direttori
rilessero tre volte quella lettera, che mai sembrò così bella ed aspettata come quella, da parte di quel mostro - ironia
macabra a parte. L'idea che fosse morto li aveva
mandati nuovamente nello sconforto totale, tanto che la notte precedente
avevano dovuto fingere un malore affinché nessuno sospettasse il collegamento
con il Fantasma. Ma ora che avevano scoperto che si
trattava tutto di una farsa, potevano finalmente tirare un sospiro di sollievo
- sebbene l'idea che avesse dovuto bruciare un cadavere li raccapricciava
parecchio. Quell'uomo aveva un senso dell'umorismo decisamente
orripilante, come aveva ben scritto, ma saperlo vivo e vegeto li
tranquillizzava non poco. Uno spavento come quello poteva anche starci, per
così dire.
«Hai visto, Richard? Siamo salvi! Salvi!»,
esclamò contento André, agitando al vento quella lettera scritta in inchiostro
rosso come il sangue.
«Sto
seriamente pensando di andare a bermi qualcosa, proprio come ci ha consigliato.
Mi ci vuole un bicchierino per riprendermi da ieri!»,
fece Firmin, tamburellando una mano sul tavolo, per poi alzarsi tutto pimpante
dalla poltrona. «Vediamo un attimo come proseguono i lavori nella platea, diamo
due direttive sui sottopalchi finché non riceveremo l'altra lettera e andiamo a
berci qualcosa.»
Il compare annuì
allegro e lo seguì parlottando su qualsiasi cosa gli venisse in mente, ridendo
e scherzando come se fossero a tre metri da terra per la felicità. E lo erano,
eccome.
Continua...
Prima di passare ai
ringraziamenti vorrei scusarmi per il lieve ritardo dell'aggiornamento (mi son
semplicemente dimenticata, con tutte le cose che ho da fare
mi capita .__.) e per la cortezza di questo capitolo: l'ho riveduto parecchie
volte e, nonostante non mi soddisfi totalmente, non son riuscita a migliorarlo.
Spero non faccia così schifo. :°
sydneybristow: carissima!
Come avevi previsto (e com'era facilmente intuibile) il cadavere non era di
Erik... una forzatura? Dopo un anno dalla scrittura sì, mi sembra una
forzatura, ma non ho avuto il cuore di cambiare le cose, dato
che era essenziale che ci fosse la prova tangibile della sua morte. Come
sempre ringrazio, insieme a Phénix, per i complimenti! Troppo buona! :*
Elby: ahahaha
credo di sì, l'avrai! XD Prima di tutto son sempre più contenta che i momenti Phénix-Rosalinda ti
piacciano, a me ha divertito tantissimo scriverli! Per quanto riguarda le tue
obiezioni, giustissime tra l'altro, vediamo di risponderti: per il ballo della
zingara hai perfettamente ragione, ha ballato troppo bene, ma tieni conto che
il suo modo di muoversi e le sue non-regole nella danza non la mettono al di sopra delle ballerine di fila, anzi! Phénix
avrà molto da imparare, e Madame Giry avrà molto su
cui lavorare, eccome. :D Sull'incontro tra Christine e
Phénix posso dirti che Erik stesso aveva deciso di farla entrare nel corpo di
ballo, indi per cui non avrebbe dovuto temere niente; anche perché stando al
musical Christine non sa niente del passato del Fantasma - tranne Raoul, lui sa,
e quindi potrebbe averglielo raccontato, ma ho pensato che, per evitare di dare
altri dispiaceri alla donna amata, abbia sorvolato la questione. Pensandoci
bene Madame Giry dovrebbe guardarsi dalla lingua lunga
della figlia, piuttosto che da quella di Christine (se ricordi aveva rischiato
che le spifferasse tutto, qualche capitolo fa). Mi rendo conto che forse queste
spiegazioni avrei dovuto darle durante la narrazione e che quindi venga mal
interpretata la mancanza, chiedo venia! :° Inoltre
colgo l'occasione per ringraziarti di aver trovato il tempo di partecipare al
contest, io e la mia socia siamo felicissime! Siete già in otto a partecipare!
*_* A presto! :)
Keyra93: leggo del sarcasmo tra le righe, lol. Spero
che questo capitolo abbia chiarito le cose :° Ho pensato cosa avrebbe pensato
(scusa il doppione!) la Giry con una notizia simile e perché no? Erik avrebbe
potuto anche togliersi la vita in un momento di sconforto. Sì sa che la mente
di quest'uomo sia particolarmente labile! Etienne, povero ragazzo, presto
diventerà un morto che cammina se non sposta i suoi interessi verso altri lidi,
l'hai detto! :/ XD A presto! :)
I giorni seguenti
furono molto concentrati per tutti, operai, direttori e fantasmi vari. I lavori
di ristrutturazione del teatro proseguivano speditamente per un duro ordine
“dall'alto”, come spiegavano sempre i due manager ogni qualvolta
qualcuno glielo chiedesse. Erik, infatti, aveva ordinato che si proseguisse con
la massima celerità, onde evitare ritardi di alcun tipo e avere una riapertura il più prossima possibile. E non ci fu solo quella
richiesta, sia ben chiaro. Da quando era diventato a
tutti gli effetti l'unico ed indiscusso padrone
dell'Opéra, i due direttori non avevano avuto un momento di pace. Per paura che
qualcosa andasse storto, o perché Erik impartiva direttive a destra e a manca,
Firmin e André si ritrovarono parecchie volte a lavorare fino a tardi, a
saltare pranzi e pause per controllare che ogni minimo dettaglio fosse al suo
posto. Non avevano mai avuto un padrone così esigente, ma nonostante quello che
gli aveva fatto passare, erano ben consapevoli che tutto quel sudore sarebbe
servito a qualcosa, tra non molto. Inoltre Erik aveva dato il via anche ai
provini per il nuovo cast di cantanti che avrebbe messo in scena le prossime
opere durante la nuova stagione; dopo le consuete lezioni di danza
nell'edificio provvisorio a poche centinaia di metri dal teatro, lui rimaneva
nascosto dietro il grande specchio e ascoltava gli attori che si esibivano in
determinati atti delle opere più difficoltose. Che fosse un uomo esigente,
Firmin ed André l'avevano capito da molto tempo, ma
vedere con che poco cuore rifiutasse cantanti che, a parere loro, erano
superlativi li lasciava sgomenti. L'unica cantante che non ebbe bisogno di
provini fu Christine Daaé, cosa per altro prevedibile, dal loro punto di vista,
anche se non osarono commentare in proposito.
Erik aveva bisogno
di prendersi un po' più di tempo per preparare la sua ricomparsa davanti alla
sua musa, e avrebbe dovuto farlo da solo, senza occhi ed
orecchie indiscreti. L'occasione gli si presentò dopo i consueti provini,
grazie all'aiuto di Phénix, a cui aveva confidato il
suo desiderio di rimanere solo con la ragazza.
La giovane zingara
l'aveva convinta ad andare a teatro, quando ormai non c'era già più nessun
operaio in giro.
«Ma
è pericoloso! E se ci trovasse qualcuno?», chiese
Christine in apprensione, mentre Phénix entrava dalla grata che dava sulla
cappella.
«Stai
tranquilla, non c'è nessuno a quest'ora. L'Opéra è uno spettacolo quando è
vuota!»
«Ci sei venuta altre volte?», le domandò incuriosita la ragazza.
L'altra si morsicò
la lingua, dovendo stare attenta a quello che diceva. «Solo
una volta, qualche notte fa. Non riuscivo a dormire e quando son passata qui
vicino mi son accorta che quella finestra era aperta.», disse con un sorrisino birichino la zingara, facendo sospirare l'altra.
«Ho
una strana sensazione, Sophie. Non credo dovremo
essere qui.»
«Fidati di me,
Christine.» La rossa le prese una mano, sorridendole ora per
rassicurarla. «Non c'è niente di sbagliato se
per una volta ci divertiamo un po', no? La maschera della ragazza perfetta non
si addice a nessuna di noi.»
La trascinò verso
le quinte, tra stanze e stanzine, corridoi e scale, facendole rivivere ogni
singolo momento della sua vita dentro quel teatro. Le
sovvenne in mente la prima volta che vi aveva messo piede, piccola e timida; il
primo incontro con Meg e sua madre, la sua seconda famiglia; la prima
volta che aveva sentito la Voce
dell'Angelo della Musica; la scoperta che quell'angelo era solo un uomo folle,
innamorato della musica così come di lei; l'incontro con Raoul e quella notte
sul tetto... Per arrivare al giorno di Capodanno, e alla messa in scena del Don
Giovanni Trionfante e tutto quello che seguì poi.
Quando arrivarono
all'immensa platea, Christine restò senza fiato. Nonostante fosse un vero e
proprio cantiere, quel posto conservava ancora tutto il suo splendore e tutta
la soggezione che le faceva provare ogni volta che guardava quella volta decorata - ora annerita dalle fiamme - quella vastità
di poltroncine rosse che non c'erano più, ma che poteva chiaramente vedere
davanti ai suoi occhi castani, che immaginavano come quelli di una bambina.
«Quanto mi è
mancato tutto questo...», sussurrò, accarezzando
distrattamente il legno del ponte mezzo distrutto, una delle poche testimonianze
rimaste dell'ultima opera recitata prima dell'incendio.
Phénix sorrise
nell'ombra, mentre era china sul bordo del palco, a
giocare con una delle fiammelle danzanti dei lumicini presenti. «Sai perché mettono queste candele? Non c'è nessuno, a parte
noi.»
Christine si
riprese dai propri pensieri, avvicinandosi alla zingara. «È
un'usanza che è nata parecchi anni fa, a causa delle solite superstizioni.
Accendono anche una sola luce perché così son sicuri di tenere lontano i... i
fantasmi. Dicono che se le luci si spengono e il teatro, soprattutto la scena,
rimangono al buio i fantasmi che vi saliranno
porteranno sfortuna.»
«Ah,
odio le superstizioni. Sono sciocche... come quando vengono a dirmi che uso la
magia nera solo per via del colore dei miei capelli.»,
esclamò amaramente Phénix, spegnendo con due dita una delle candele presenti.
«I fantasmi non esistono.», decretò, alzandosi.
«No, non
esistono.», ripeté Christine, sospirando profondamente.
Phénix tornò dietro le quinte velocemente, sperando di sfuggire alla
vista della ragazza. Christine si alzò subito, chiedendole di aspettarla, e
seguì la risata divertita dell'altra. Si ritrovò sola in mezzo ad un corridoio
buio, che la fece rabbrividire. Sentì il fruscio di una veste dietro di sé, ma
quando si voltò non vide nessuno.
«Sophie, dove
sei?», chiese a voce alta, muovendo qualche passo e guardandosi intorno.
«Sono
qui! Vieni, ho trovato qualcosa!»
«Qui dove?»
«Non so, è una
stanza tra le altre!»
Christine sospirò
ancora una volta, appuntandosi nella mente che mai più avrebbe dato retta a
quella folle, se si fosse trattato di gironzolare da sole nel teatro deserto,
in piena notte. Trovò una stanza con la porta semi aperta e pensò che Phénix
fosse lì, dato che vedeva chiaramente la luce tremula di una candela. Era il
suo camerino. Quando vi mise piede la chiamò ancora
una volta, ma fu costretta a fermarsi in mezzo alla stanza quando vide cosa ci
fosse accanto alla candela, sul tavolo: una rosa rossa, listata a lutto con un
nastrino di seta nero sul gambo, privo di spine.
Si dovette poggiare
alla prima cosa che trovò, per evitare di cadere sulle ginocchia, senza forze.
Quella rosa, quel nastrino... Non poteva trattarsi di lui... Era morto, era diventato... un fantasma, ormai.
“Sciocca, i
fantasmi non esistono.”, si ripeté per rassicurarsi, mentre continuava a
fissare con sguardo perso la rosa. Doveva uscire da quel posto, non avrebbe
retto un secondo di più, lo sapeva. Ma non fece quasi in tempo a concludere il pensiero, che una voce iniziò a cantare
dolcemente, invadendo la stanza, invadendole l'anima, accarezzandola come un
paio di mani guantate di nero. Quella voce... era la sua
Voce!
«Wandering
child,
So
lost, sohelpless
Yearningfor my guidance.»
Trattenne il fiato,
gli occhi sbarrati verso il buio, cercando una figura che non trovava, che non
sapeva se volesse vedere veramente, ma che l'attirava
a sé come una calamita, come sempre. «Angelo?», domandò, con la gola secca per
l'emozione. «Siete voi?»
Erik,
nascosto dietro lo specchio, sorrise, cercando di placare il battito impazzito
del suo cuore. «Sì, bambina mia.
Sono io, il tuo... angelo.»
La ragazza non
riuscì a fermare le lacrime di commozione, e cadde a terra, incapace di
reggersi in piedi. Non poteva crederci, mai avrebbe pensato alla possibilità di
risentirlo, mai avrebbe pensato che si sarebbe sentita così felice e leggera
alla sola possibilità. «Ma voi... voi siete morto.»
«Lo vorresti,
Christine?», domandò la Voce,
facendole scuotere veementemente il capo.
«Oh,
no, Angelo mio, no! È stato un dolore atroce quello che ho provato quando ho
saputo che eravate morto... E ora sento la vostra
voce! Sto sognando, forse?»
«Se questo è un
sogno, mia dolce Christine, non voglio svegliarmi più.», mormorò Erik,
prendendo un bel respiro, prima di mostrarsi a lei.
La ragazza rimase
immobile com'era, guardandolo con gli occhioni spalancati per lo stupore e lo
spavento, per la gioia ed il terrore che fosse tutto
frutto della sua fervida immaginazione. Ma lui era lì,
a pochi passi da lei, che la guardava innamorato e sereno, come se fosse la
persona più felice sulla faccia della terra solo perché poteva guardarla dopo
tanto tempo, ancora una volta.
Erik le si avvicinò con calma, porgendole una mano per farla
rialzare.
E lei non capì più nulla
quando si specchiò nuovamente in quegli occhi chiari, carichi di passione e
tristezza, che tanto l'avevano lasciata sgomenta in passato e che l'avevano
affascinata, portandola al punto di non ritorno. Quegli stessi occhi che ora le
sorridevano lucidi per la commozione. Portava la consueta mezza maschera bianca
che gli aveva visto al loro primo incontro, come se ancora avesse paura a
mostrarsi a lei senza quella protezione.
Accettò la mano che
le porgeva e fu scossa da una scarica di brividi quando sentì la sua presa
forte contro la pelle. Si ritrovarono vicini, un solo passo si metteva tra i
loro corpi, immobili. «Angelo mio, allora non sei un sogno.», mormorò
sorridendo tra le lacrime, allungando la mano libera verso la guancia
dell'altro, che accarezzò quasi con il timore che potesse svanire da un momento
all'altro.
Erik chiuse gli
occhi, imponendosi un po' di calma. Dio, era inconcepibile che, dopo tutto il
dolore che aveva sofferto, potesse ancora provare un sentimento così forte per
lei. Ma doveva fermarlo, doveva bloccare qualsiasi
cosa prima che fosse tardi. La vista dell'anello di fidanzamento di Christine -
evidentemente un altro, dato che il primo lo
conservava gelosamente lui - fu un buon motivo per ragionarci sopra. «Erik. Chiamami Erik, Christine. Forse mi hai già sentito
nominare come Monsieur Duval.», disse con fatica,
prendendole la mano sulla guancia ed allontanandola dal suo viso.
«Voi... avete
comprato il teatro?»
Lui annuì
lentamente, gustandosi l'espressione di stupore che le si
dipinse in volto. «Ora è finalmente mio a tutti gli effetti.» Notando che la ragazza era incapace di proferir parola,
Erik proseguì. «Voglio rimediare ai miei sbagli,
voglio poter sbiadire il tremendo ricordo che Parigi e questo teatro hanno di
me. Non mi pento di quello che ho fatto, ma son ben consapevole di essere stato
un mostro.»
«Non dite così, Erik.» Lui rabbrividì, sentendo il suo nome
pronunciato per la prima volta dalla sua amata. «È
vero, avete compiuto atti terribili, e ho temuto di odiarvi alla fine. Ma mi
avete dimostrato che siete tutto fuorché un mostro, se mi avete lasciata libera di fuggire da voi.»
«Dopo tutto quello che ti ho fatto...» Erik le si
inginocchiò davanti, tenendole le mani tra le sue grandi, e
baciandogliele con disperazione. «Potrai mai perdonarmi,
Christine?»
«L'ho già fatto.»,
mormorò dolcemente lei, chinandosi e depositandogli un leggero bacio sulla
fronte, libera dalla maschera. Con lentezza, provò a sfilargliela via, decisa a
guardare nuovamente il vero volto del suo Maestro, ma
Erik le bloccò il polso prima ancora che potesse sfiorarla.
«Ti prego,mon Ange, non lo
sopporterei ancora una volta. »
«Non
mi pare di essere mai scappata inorridita per il vostro aspetto, Erik. Neanche
l'ultima volta.»
«Ma
sei comunque andata via, Christine.», sussurrò. L'uomo chiuse gli occhi,
prendendo un respiro profondo e lasciando la presa sul suo esile polso. La
maschera scivolò a terra con un tonfo sordo, mentre il suo cuore prendeva il
galoppo. Credeva che se non lo avesse fermato in tempo, Christine avrebbe
sentito indistintamente ogni suo battito rimbombargli nel petto. Rabbrividì
quando l'aria fresca gli accarezzò la guancia piagata, rossa e gonfia, ed egli voltò
il capo quando a quel tocco lieve si sostituirono le dita affusolate della
giovane cantante, per niente spaventata dal suo aspetto. «Christine...»
La ragazza si morse
un labbro, rendendosi conto di cosa stesse realmente facendo, in quale
situazione compromettente si trovasse. Si sentiva in pace con sé stessa, lì con lui, ma al tempo stesso tremendamente in
colpa al pensiero di Raoul, che aveva rischiato la sua vita pur di liberarla da
quell'uomo. «Tornerete a darmi lezioni di canto, Maestro?»
Erik sorrise,
stringendole la mano sul viso sfigurato. «Sono qui per chiederti questo,
bambina mia.»
«Posso fidarmi di
voi?»
Quella domanda gli
fece più male di quanto Christine potesse immaginare,
ma Erik tentò di non darlo a vedere. «Non ho
intenzione di fare del male a te, tanto meno al tuo fidanzato. Vi ho lasciati
liberi, non tornerò a tormentare la vostra vita.»
La giovane cantante
non seppe se provare gioia o meno nel capire che il suo Angelo non l'amava più come una volta. Era felice perché, nonostante
lui in quel momento sembrasse più emozionato di lei, quella frase aveva messo
in luce il fatto che si fosse liberato da un peso gravoso; d'altro canto sapere
che non l'amava più pungeva in modo fastidiosissimo il
suo lato femminile. «Son felice di sentirvelo dire.»
Phénix, nascosta
dietro un angolo della stanza, decise di non voler ascoltare altro di
quell'incontro e tornò in silenzio da dove era venuta, così che Christine
credesse che non si fosse accorta di niente. Ma lei aveva sentito, aveva visto...
E non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine di lui,
senza la maschera, ai piedi di lei, supplicante ed innamorato. Si fermò contro
una parete in legno, leggermente bruciata, e chiuse gli occhi, per calmarsi un
po'. Non avrebbe sopportato quella vista neanche per altri due secondi.
E non riusciva a
capire il perché.
Quando Christine
tornò da lei, dopo qualche minuto, era raggiante e sorridente come mai l'aveva
vista. «Dov'eri finita?», le chiese, alzando lo sguardo da un vecchio abito di
scena del Faust che si era messa contro il petto per provarlo.
La cantante
arrossì, ma nella penombra l'altra non se ne accorse. «Son rimasta a curiosare
nel mio camerino... I ricordi son tanti...»
«E quella?», chiese
Phénix, guardando la rosa rossa che teneva in mano.
Christine la rigirò
tra le mani, sorridendo timidamente. «Sai, Sophie,
forse i fantasmi non esistono. Ma gli angeli sì, loro
esistono.»
Continua...
Buon pomeriggio a
tutti! Nonostante siano passati mesi e mesi da quando ho scritto questo
capitolo, continua a non soddisfarmi pienamente, oltre al fatto che è anche più
corto del precedente... Forse perché mi infastidisce
aver descritto un Erik ancora troppo coinvolto da Christine, o forse è il come l'ho descritto... Non mi piace,
quindi se mi direte che fa letteralmente schifo avete pienamente ragione. ;___;
Ringrazio tantissimo
i tre angioletti che, puntuali, recensiscono sempre ogni capitolo: sydneybristow, Elbye Keyra93, siete dolcissime e
simpaticissime! Son veramente felice che vi piaccia l'idea di un rapporto che
nasca prima dall'amicizia, d'altronde l'Erik che
immagino io è ancora troppo preso da Christine per innamorarsi perdutamente della
prima donna che incontra - immagino si sia capito da questo pessimo capitolo!
Perdonatemi se non
rispondo a tutte e tre, ma son stanca e mezzo influenzata!
;_; Ci sentiamo la settimana prossima, spero di stare
meglio! (;
Alla prossima, un
abbraccio e buon fine settimana!
La notizia che
quella mattina lesse sul giornale non le piacque per niente.
“Nuovi indizi
preziosi sul caso dei due zingari assassinati nel mulino.”, diceva il titolo a lettere cubitali.
“Sono
passate settimane dal giorno del ritrovamento dei due cadaveri nel mulino
diroccato alla periferia della città.
Ebbene, uno
zingaro, che per comodità chiameremo signor X, dato
che non ha rilasciato nominativo, ha denunciato alla gendarmeria di conoscere
chi abitava quell'edificio diroccato.
«Ci
abitava una donna, Phénix si chiama. La Fenice.», racconta. «È una zingara come me ed è riconoscibile subito perché ha i
capelli rossi come il fuoco dell’Inferno e gli occhi son verdi, così verdi da
sembrare due gemme di smeraldi. Lei abitava lì da sola, poi è sparita. La stavo
cercando perché è una mia cara amica, ma sono settimane ormai che si son perse
le sue tracce. Sono preoccupato.»
Ma
non è tutto. Oltre all'identità della ragazza si è aggiunto un particolare
molto interessante, che potrebbe essere la svolta del caso. «Uno dei due uomini
che son stati uccisi, quella mattina, aveva detto di
aver visto un uomo ammantato di nero in sua compagnia, molto alto e ben
piazzato. Forse è stato lui ad ucciderli?»
Alla domanda «Perché quei due erano lì? Forse per spiarla?», il signor X
ha risposto così: «Eravamo preoccupati per lei. Tutta la nostra comunità è in
apprensione per la piccola Phénix. Temiamo che qualcuno l'abbia rapita o peggio
ancora...»
Il mistero si infittisce, ma questi nuovi indizi forse aiuteranno la
gendarmeria a compiere il loro lavoro ed a trovare il colpevole una volta per
tutte. Nel frattempo, invitiamo tutta la popolazione di Parigi e delle zone
vicine ad avvisare le forze dell'ordine qualora dovessero vedere la ragazza
descritta sopra. Magari lei saprà rispondere a tutte le domande su quello che è
successo.”
Madame
Giry alzò lo sguardo dall'articolo di giornale, per guardare Phénix, bianca
come un cencio.
«Mi arresteranno?»,
domandò rocamente.
L'altra sospirò
pesantemente. «No, se non ti trovano. Spero solo che
nessuno colleghi quella descrizione con te. Comunque sia tu non sei accusata di
omicidio, mi sembra di capire. Stanno cercando l'uomo vestito di nero. Ma se
prendono te, è ovvio che arriveranno a lui.»
«Non
parlerò, se dovesse capitare. Posso anche dire che quell'uomo si è inventato
tutto.»
«Phénix, non è così
semplice mentire alla polizia.»
«Beh,
so essere una persona convincente, Claire Giry. E non ho intenzione di tradire
Erik per salvare me. Per chi mi avete presa?»
La donna sorrise di
fronte alla determinazione della giovane. Erik aveva ragione: era testarda, e
in quel caso poteva solo essere un bene. Ma conosceva
i metodi poco ortodossi dei soldati, anche la persona armata delle più buone
intenzioni di non parlare alla fine avrebbe ceduto.
«C'è solo una cosa
che mi preoccupa sul serio.», mormorò Phénix, rannicchiandosi sulla sedia e
accarezzando la testolina del piccolo Dante. «Lucas,
il cugino di quei due, è probabile che si stia muovendo per cercarmi.
Quell'uomo è pericoloso... Ed è l'unica persona al mondo che mi spaventa
veramente.»
Claire le si avvicinò, passandole una mano sulle spalle. «Non ti troverà, vedrai. Quando Erik verrà a sapere cosa sta
accadendo farà di tutto per proteggerti.»
«È
proprio questo che mi spaventa. Lucas non mi farebbe mai del male, ma so cosa
potrebbe fare se si trovasse un ostacolo come Erik sulla strada. Non voglio che
gli succeda niente a causa mia. E non voglio che anche voi passiate guai.»
«Bambina
mia, Erik ha dovuto risolvere problemi ben più grossi di questo. Vedrai, non si
metterà in pericolo, stai tranquilla. Quanto a me e alla mia famiglia, non
saresti qui se avessi avuto paura delle conseguenze.»
«Lo spero.»,
sussurrò la ragazza, in un sorriso di circostanza. «Non me lo perdonerei mai.»
Madame
Giry la coccolò come se fosse sua figlia, poi decise di cambiare discorso, per
non farla pensare eccessivamente a quella brutta situazione. «Sai, mi son
accorta di un certo interesse di Étienne nei tuoi confronti.», buttò lì, mentre
ripiegava il giornale con cura.
Phénix arrossì
peggio dei suoi capelli ed abbassò lo sguardo sulle
punte dei piedi. «Voi dite?»
«Oh,
sì. So riconoscere uno sguardo innamorato da una semplice amicizia.»
«È così gentile e
carino, con me...», disse con un sorriso sognante. «Ma ho paura che soffra.»
Madame
Giry alzò un sopracciglio, perplessa. «Perché dici così?»
L'altra rispose
scrollando le spalle. «Perché sento che andrà a finire
così, se mai dovesse iniziare. Lo sto prendendo in giro, facendogli credere che
sono una persona invece che un'altra.»
«Quello
è il minimo, Phénix. Lo stai facendo per proteggerti, solo per quello. O c'è
dell'altro?»
La zingara si
morsicò un labbro, impacciata. «Ecco, non è solo per quello... È complicato...»
«Me ne vuoi
parlare?»
Phénix si sentì
andare a fuoco, anche più di poco prima. Mai si era
sentita così al pensiero di un uomo. Mai aveva desiderato così
tanto potergli stare accanto, felice come non lo era mai stata, anche
solo per scambiare due chiacchiere.
Peccato che cadde
nello sconforto più totale quando si rese conto che non era Étienne l'uomo in
questione.
«No, non è così
importante, davvero.», si sforzò di sorridere la giovane, agitando noncurante
una mano. «È che non sono molto brava in questo genere di situazioni.»
«D'accordo.
Però non esitare se vuoi parlare, va bene?»
Phénix annuì
riconoscente, ma non aggiunse altro. Aveva altri problemi per la testa per
ammettere a voce alta quello che in quei giorni si stava muovendo dentro di lei
e parlarle apertamente... di lui.
In quel momento Meg
fece la sua comparsa in cucina, osservando curiosa l'espressione crucciata
delle due donne. «Cosa è successo?»
Claire sorrise,
scuotendo il capo. «Niente, piccola mia. Hai bisogno
di qualcosa?»
«Veramente
avrei bisogno di qualcuno. Sophie, mi
accompagneresti dal sarto? Dovrei far aggiustare quest'abito.»
Mostrò il vestito che teneva tra le braccia, di color vinaccio e molto
raffinato. Aveva un piccolo strappo nell'attaccatura del braccio, ma niente di irreparabile. O almeno, lei sperava così, dato che si
trattava del suo abito preferito.
«Si
è rotto? Fammi vedere.»
Meg lo porse alla
madre, indicandole il punto in cui si era scucito. «Lo
stavo infilando e crack! Si è rotto!»
«Non è che stai
ingrassando?», le chiese bonaria la madre. «Dovrò dire
a Rosalinda di preparare meno dolci.»
«Maman!», esclamò indispettita l'altra,
facendo ridere le due donne.
«Comunque
non è il caso che vada dal sarto per un buco del genere. Te lo sistemerò io più
tardi.»
Meg sbuffò,
vedendosi in fumo il suo piano per distrarsi un po' con la sua nuova amica. Aveva
in mente di passare un po' di tempo tra donne, per chiacchierare, per
confidarsi un poco... Le piaceva quella ragazza. «Ma,
Maman...»
«Niente
“ma”, Meg. Se possiamo risparmiare qualche soldo non
vedo perché non farlo.»
«D'accordo.»,
borbottò la biondina incassando la testa sulle spalle. Lanciò un'occhiata di
scuse all'altra ragazza e ritornò in camera mestamente.
Quando fu sicura
che la figlia si fosse allontanata, Claire chiuse la porta per non farsi
sentire. «Volevo chiederti, com'è andata l'altra notte?»
Phénix cadde dalle
nuvole, non capendo inizialmente a cosa si stesse riferendo. «L'altra notte?»
«Mi pare di
ricordare che Erik volesse incontrare Christine... È andato tutto bene?»
Lei annuì, cercando
invano di placare il battito del suo cuore e di apparire più tranquilla di
quando non fosse. «Sì, è andato tutto bene... O almeno credo, non son stata ad origliare. Non mi sembrava il caso.»
Mentì senza arrossire, ma purtroppo per lei Madame
Giry non le credette. Sarà stata anche una brava attrice, la gitana, ma lei non
veniva facilmente raggirata dalle sue abilità.
«Non so perché ma
mi riesce difficile non pensare al contrario.» La
guardò con eloquenza, mentre ripensava a quando l'aveva scoperta mentre
ascoltava la sua discussione con Erik.
«Per chi mi avete presa? Per una spia?»,
esclamò indignata la zingara, facendola ridere.
«No, solo per una
ragazza molto, troppo curiosa.»
Phénix voltò lo
sguardo altrove, cercando di non pensare a quella notte. Le
si era stretto il cuore vedendolo ridotto così, ad un cagnolino che si
donava completamente nelle mani della giovane, che scodinzolava ad ogni minimo
gesto di affetto, che acconsentiva addirittura a rimanere smascherato davanti a
lei. Aveva paura che Erik cadesse nuovamente nella ragnatela dell'amore per
Christine e non voleva che soffrisse ulteriormente. Ed
il fatto che non sapesse neanche lei da dove iniziare per aiutarlo a
dimenticarla la infastidiva come non mai. Cosa avrebbe
potuto fare, del resto, se lui d'ora in avanti fosse tornato a cantare con lei,
a parlare e ad instaurare un rapporto così forte che neanche il dolore aveva
spezzato?
Si sentiva
inadeguata e... inconsapevolmente gelosa. Tremendamente gelosa. Vedere
quale legame ci fosse ancora tra loro le aveva fatto capire quanto tenesse a
lui, anche più di quello che aveva sempre pensato. Ma
lei, in fondo, cos'era se non solo un'amica? Non doveva essere felice per lui,
se lui piangeva dalla gioia per aver ritrovato la donna amata?
Forse era lei
quella che aveva bisogno di aiuto, prima che rischiasse di perdere
completamente la testa.
La notizia che
Christine Daaé sarebbe tornata a calcare le scene dell'Opera come nuovo soprano
fece il giro di Parigi nel giro di pochi giorni.
Nessuno poteva dimenticarsi della sua splendida voce, potente e soave come il
canto di una sirena, e molti accolsero con gioia questa novità. Raoul stesso fu
ben lieto di sapere che la sua fidanzata avrebbe ripreso ciò che aveva
tristemente fermato. Amava sentirla cantare e non vedeva l'ora di poterla
nuovamente applaudire come la vera Diva del teatro. Non gli importava di cosa
avrebbe potuto dire l'alta società sul suo conto - molti, infatti, non gli
avevano ancora perdonato di essersi fatto incantare da una semplice ballerina
di prima fila e successivamente cantante - ma non gli
era mai importato del pensiero altrui, né aveva intenzione alcuna di iniziare a
dargli adito proprio ora.
Nessuno aveva
ancora avuto l'onore e la possibilità di conoscere il fantomatico Erik Duval di
cui tutti parlavano, ma di cui si sapeva poco e niente. Ma
chiunque egli fosse, Raoul de Chagny gli sarebbe stato grato per sempre per
aver pensato alla bravura della fidanzata come motivo di trionfo dell'Opera.
Sicuramente sapeva riconoscere le vere stelle da quelle che passavano per tali
solo perché non c'era altra scelta. Il Fantasma dell'Opera era finalmente morto
- anche se ancora non era andato a constatare che si
trattasse veramente di lui - ma di una cosa era certo: era stato grazie a lui
che ora Christine aveva acquistato quel ruolo. Poteva solo essergliene grato,
ma solo ed esclusivamente per quello. Il ricordo di quella corda che gli aveva
stretto al collo, mesi prima, premeva fino a soffocarlo la notte.
«Oh, cugino, avete
letto le ultime notizie su quei due zingari che avevano ucciso qualche
settimana fa?», gli domandò Faucon, mentre sellava il suo cavallo.
Raoul scosse il
capo. «No, oggi non ho ancora letto il giornale. Ci sono novità?»
«Qualcuno ha
descritto chi abitava nel mulino.»
«Ah sì?», chiese
poco interessato l'altro, salendo in groppa al suo destriero.
«Mi venga un colpo,
Raoul, ma sembra la descrizione di mademoiselle Rembrant!»
A quelle parole il
Visconte tese le orecchie. «Mademoiselle Rembrant?
Perché?»
«Questa persona che
ha parlato descrive una zingara - Phénix si chiama - dai capelli rossi come il
fuoco, occhi verdi come smeraldi... Quante donne avete
incontrato in vita che rispondono a queste caratteristiche?»
Raoul guardò
stranito il cugino, ridendo poi divertito. «Suvvia, non mi volete far credere
che pensiate che mademoiselle sia quella zingara?»
Jacques storse le
labbra, indispettito. «Non vedo perché dobbiate ridere
delle mie supposizioni. Sto solo facendo notare che si somigliano parecchio. E
se leggeste quell'articolo ve ne convincereste anche
voi.»
«Il
mondo è pieno di donne con occhi verdi e capelli rossi, cugino. Credetemi, so
riconoscere una persona sincera da una falsa. E vi posso assicurare che
mademoiselle non è una zingara, tanto meno si chiama Phénix.»
Il Visconte agitò le briglie e il suo cavallo iniziò a
muoversi, seguito poi da quello del cugino, entrambi diretti ad una nuova
battuta di caccia.
«Ah,
quello zingaro parla anche di un uomo con un mantello nero che era in compagnia
della ragazza. Che ne pensate?»
«Che è la polizia a
dover fare le indagini, non noi.», rispose indifferente Raoul. Chissà, magari accidentalmente
poteva anche sparargli un pallettone in mezzo alla fronte e toglierselo dai
piedi una volta per tutte...
«Suvvia, sto solo
cercando di fare conversazione!», disse esasperato il cugino, allargando le
braccia.
«E
io vi sto prendendo in giro, Jacques!»
L'altro agitò una
mano, scoraggiato. «Ah, forse avete ragione. Del resto
che posso saperne io? Sono solo un medico.»
Il Visconte scosse
il capo, tra il divertito e lo sconcertato, ma divenne serio d'improvviso. «A proposito, non vi ho ancora ringraziato a dovere per aver
soccorso Christine, la scorsa notte. Vi devo un favore.»
Faucon scrollò le
spalle. «Ho fatto solo il mio dovere. E piacere, se si
tratta della fidanzata di mio cugino. Non dovete ringraziarmi.»
Raoul abbozzò un
sorriso, nel rendersi conto che quell'uomo era pieno di sé, ma nonostante la
sua arroganza e la sua boria, gli sembrava si stesse imbarazzando. «Chi arriva
ultimo dovrà tornare a casa a piedi!», esclamò il Visconte, spronando il suo
destriero e lasciando l'altro per un momento a bocca aperta.
«È increscioso che
non mi aspettiate!», gridò Faucon offeso, seguendolo al trotto per non perdere.
Del resto, odiava
perdere.
Continua...
E dopo un po' di
ritardo nell'aggiornare - spero mi perdonerete, son veramente
piena di cose da fare, studiare e presentare fino al collo - rieccomi
qui! E infatti mi tocca scappare praticamente subito a
studiare - qualcuno sa dove posso trovare qualche ora in più da aggiungere alle
consuete 24? ;_;
Ringrazio
infinitamente sydneybristow
e Keyra93, è bello leggervi in ogni capitolo! *_* Per rispondere a qualche
dubbio ammetto che scrivere parti dei testi del musical non sia un'idea
originalissima, ma era un motivetto che secondo me ben si sposava con lo
smarrimento di Christine in quel momento... anche perché non sono solita
inserire canzoni nel mezzo dei miei racconti - a meno che
non lo voglia la situazione, come qualcuno che canta, ecco xD
- quindi cerco sempre di evitarlo. :D
E grazie anche a
tutti coloro che hanno aggiunto questa Cosa tra i
preferiti, tra le seguite e quelle da ricordare!
Spero di avere il
tempo per aggiornare la settimana prossima, anche se dubito altamente. Nel caso
ci vediamo quella dopo. Buon fine settimana! (;
ps:
ne approfitto per ricordare a chi partecipa al The
Phantom of the Opera Contest che avete ancora tempo fino al primo Dicembre
per consegnare le vostre creazioni! Se avete bisogno della proroga
chiedete pure! :)
Tieniti sveglia
questa notte, verrò a trovarti. Erik.
La grafia era
ordinata ed elegante come sempre, del suo consueto color cremisi che molto spesso
serviva a mettere in soggezione i destinatari delle sue missive. Sarebbe andato
a trovarla e lei era lì, sveglia ad aspettarlo, senza saper bene il motivo
della sua visita. Probabilmente aveva saputo della testimonianza su di lei e
voleva metterla personalmente in guardia da ogni pericolo. Forse aveva in mente
qualche piano per metterla a riparo? Era difficile cercare di capire cosa
passasse per quella mente geniale.
Accarezzò la
testolina di un assonnato Dante, che aprì leggermente gli occhi, sbadigliò con
un miagolio e poi si rimise a sonnecchiare, come se niente fosse. Phénix
rilesse il biglietto che Madame Giry le aveva fatto
avere quel pomeriggio, dopo la lezione di ballo, e sorrise felice, forse anche
troppo, alla sola idea di rivederlo. Ogni istante che trascorreva insieme a lui era oro colato per lei e, nonostante tutti gli sforzi,
le risultava inutile opporsi alle emozioni che provava in sua compagnia. Si sentiva protetta e voluta bene. Una sensazione che non
saggiava da tempo.
Quando, dopo la
mezzanotte, lo vide comparire sul davanzale della finestra, a parecchi metri di
altezza dalla strada, per poco non le venne un colpo. Corse velocemente verso
di lui, aprendola il vetro in fretta, nel timore che potesse perdere
l'equilibrio e cadere ancor prima di entrare.
«Ma
sei impazzito?», esclamò a voce bassa, per non svegliare nessuno, e porgendogli
le mani per aiutarlo.
Erik entrò nella
camera della soffitta con un agile balzo e si limitò a sorridere sarcastico.
«Che non ci sono tanto con la testa mi pareva l'avessi capito da tempo.»
Phénix gli fece una
smorfia, incrociando indispettita le braccia. «Potevi
entrare dalla porta, come tutti i comuni mortali. Non
sarebbe stato un problema per te, immagino.»
«Ricorda,
Phénix, io non uso le porte, io attraverso i muri.»
Lei roteò gli
occhi, davvero preoccupata che potesse perdere
l'equilibrio e cadere dal quarto piano della mansarda. Con che coraggio, poi,
si metteva a scherzare? «A cosa devo la visita? Hai
letto la notizia sul giornale?»
Il corpo dell'uomo divenne
subito un fascio di nervi. «Sì, Claire mi ha procurato
l'articolo, e converrai con me che la situazione non sia delle migliori. Molti
potrebbero ricollegare la zingara a te.»
«Non si
sbaglierebbero di certo.», commentò amaramente lei.
«Non preoccuparti,
finché ci sarò io a proteggerti non potrà succedere niente che non sia nelle
nostre aspettative.», le disse dolcemente.
Phénix sorrise e
riuscì per un pelo a scacciare l'impulso di arrossire e di abbracciarlo. Non
era il caso, si ripeté mentalmente.
«Tuttavia non son
venuto qui per parlare di questo. Non stanotte,
almeno.»
La ragazza lo
guardò curiosa, mentre un sogghigno per niente promettente gli increspava le
belle labbra. «Ah, no? Non mi dire che avevi una
voglia disperata di vedermi?»
Erik si lasciò
sfuggire una risatina divertita, scuotendo il capo. Le prese con gentilezza una mano, guidandola giù per la casa
addormentata, verso il giardino sulla cucina.
«Che intenzioni
hai?», chiese sempre più perplessa, quando si
trovarono sotto il cielo stellato. Ma un dito guantato le si
posò sulle labbra, intimandole il silenzio. Erik le coprì il capo con il
foulard che le girava intorno al collo, poi la riprese per mano, portandola tra
le strade deserte di Parigi senza dire una parola. Phénix, come una bambola
nelle sue mani, lo seguì senza chiedere altro, dato che aveva ben capito che
non sarebbe riuscita a scoprire niente di quello che gli stava frullando in
mente, se non una volta arrivati a destinazione.
E la loro
destinazione fu l'Opera, silenziosa e tenebrosa come l'aveva lasciata l'ultima
volta. Solo che ora non c'era Christine a farlo piangere di gioia. C'era solo
lei con lui, e anche se non era commosso per il fatto di averla affianco,
ecco... Sembrava per lo meno felice di essere in sua
compagnia. Altrimenti non si sarebbe scomodato per andare a prenderla, no?
«Voglio mostrarti
una cosa.», le sussurrò, mentre birichino la conduceva
per le scale a chiocciola che portavano in alto, sempre più in alto. Arrivarono
ad una porta chiusa con un passante in ferro, che Erik
non ci mise molto a far saltare con pochi e sapienti gesti. Fu così che si
ritrovarono sul tetto del Teatro, che dominava l'intera Parigi dormiente. C'era
più fresco lassù, ma Phénix non se ne curò. Era letteralmente incantata. Mai
aveva potuto ammirare la città dall'alto, mai di notte. Parigi era magica e
misteriosa, proprio come magico e misterioso era
l'uomo che aveva accanto.
«È splendida.»,
mormorò, avvicinandosi alla balaustra, accanto ad una delle grandi statue
presenti.
Erik sorrise e le
strinse una mano, per avere la sua attenzione. «Ora,
guarda il cielo. Vedi quella stella?»
Phénix alzò il naso
all'insù e cercò di seguire la direzione che le indicava il dito di Erik.
«Si
chiama Phénix. Delle volte salgo quassù e osservo il cielo, ma quella stella
ancora non l'avevo notata. Ho voluto darle il tuo
nome.»
Gli occhi della
ragazza si spalancarono per lo stupore e per qualche istante non riuscì a
spiccicare parola. «Erik... dici sul serio?»
«Ti sembro uno che
scherza?», le disse canzonatorio, facendola arrossire. «Sei una stella, Phénix,
una stella che ha illuminato il mio cammino quando mi
stavo perdendo.», le confessò seriamente.
«Oh,
Erik! Accidenti a te, mi fai piangere!», esclamò
commossa, abbracciandolo forte, senza parole.
«Ti faccio notare
che non è un crimine.», disse, accarezzandole il capo.
«È
che... È la cosa più bella che qualcuno mi abbia mai detto, Erik. Grazie.»
Lui sorrise,
guardando la volta stellata. «Sai, qualcuno qualche
secolo fa mi ha rubato il nome. Ho letto da qualche parte che esiste una
costellazione visibile solo nel sud del mondo, e si chiama la Costellazione della
Fenice. Curioso, vero?»
«Oh, son
importante, allora!», scherzò la zingara, asciugandosi gli occhi dalle lacrime.
«Sì, lo sei
davvero.»
Phénix abbassò lo
sguardo, a disagio. «Erik, non so perché tu stia
facendo tutto questo per me, ma non riesco a pensare a nulla di tanto
importante da fare per ricambiare. Non ho niente da darti, per farlo.»
«Non ti sto
aiutando per ricevere qualcosa in cambio, stupida.», la rimproverò con tono
duro. «Al massimo dovrai sopportarmi per qualche tempo.»
«Anche tutta la
vita, se necessario.» Phénix si nascose contro il suo petto, per nascondere un forte imbarazzo per quella frase che in realtà
aveva pensato, ma era evidente avesse pronunciato a voce un po' troppo alta.
Erik, d'altro
canto, rimase imbambolato, mentre il significato di quelle parole gli
rimbalzava in mente da una parte all'altra, accelerando il battito del suo
cuore. Tutta la vita? Con lei al suo fianco?
Non illudermi anche
tu, pensò, stringendola dolcemente tra le braccia. Non voleva
innamorarsi ancora, non voleva ripercorrere gli stessi errori, non voleva
ricadere in quella ragnatela chiamata amore, perché era sicuro che non sarebbe riuscito a liberarsi una seconda volta.
«Sai cosa mi
piacerebbe, ora?», chiese Phénix, sorridendo di nascosto nel sentire il battito
veloce del cuore di Erik.
«Sì?»
«Sentirti cantare.»
Erik sorrise,
facendo scivolare la mano sinistra lungo la schiena della ragazza, mentre
l'altra si univa a quella di lei. «Mi concedete l'onore di un ballo, in cambio?»
«Con piacere, monsieur.», annuì lei, improvvisando un goffo inchino.
Ballarono sulle note di una musica
inesistente, cullati solo dalla voce di Erik che cantava seducente una canzone
che lei non aveva mai sentito, ma di cui si era innamorata subito. Era
incredibile quanto la voce di quell'uomo fosse ammaliante e calda;
un dono che copriva totalmente la bruttezza del suo viso piagato, come a farsi
beffe del fatto che non è la bellezza esteriore a rendere un uomo affascinante
e bello.
Ma
lei l'aveva capito da parecchio tempo, ormai. Non aveva provato disgusto od orrore alla vista del suo viso deformato, ma solo un
groppo alla bocca dello stomaco per aver formulato un unico pensiero che
l'aveva lasciata spaventata. Lo trovava bellissimo, così bello da farle male. E
non solo per il suo aspetto prestante, per i suoi splendidi occhi, o per le sue
spalle larghe... La sua bellezza andava ben oltre il fisico - che, se ne
rendeva conto ogni volta che lo guardava, a discapito di ciò che si ostinava a
pensare lui, la faceva rabbrividire con la sola presenza - ma aveva un qualcosa
di magnetico nei suoi modi affabili e raffinati, nella sua immensa cultura che
era impensabile per un uomo che aveva vissuto all'ombra del mondo, nella sua
aura di mistero che si portava dietro ad ogni passo, ad
ogni sguardo... Lui e la sua irrefrenabile passione per la musica, la sua
splendida voce, il suo entusiasmo nel comporre... Adorava vedere quel luccichio
di eccitazione negli occhi quando parlava o pensava ai suoi prossimi progetti
per il suo teatro.
Fu quando si
accorse che Erik la stava osservando da qualche secondo che si risvegliò dai
suoi pericolosi ragionamenti.
Oh, avrebbe pagato
oro pur di sapere cosa le stesse frullando per la testa in quel momento! Poter
carpire almeno un piccolo frammento dei suoi pensieri, sapere se fosse contenta
di essere con lui, o se fosse voluta essere in
compagnia di qualcun altro, magari di quel bel ballerino che le faceva la
corte.
«Phénix, sei felice
qui con me?», le domandò, interrompendo per un attimo la loro danza ed il suo canto. La ragazza, in
risposta, gli sorrise candidamente. Forse non le aveva mai visto un'espressione
così tranquilla e beata. O forse lo stava solo sognando?
«Non immagini
neanche quanta paura abbia che tutto questo possa finire, Erik.», sussurrò
Phénix, mentre un'altra lacrima le sfuggiva lungo una guancia. «Ogni giorno mi chiedo se non sia tutto frutto della mia
immaginazione, mi chiedo come sia possibile che sia capitato a me, proprio a
me! Poi vedo Madame Giry, Meg, Rosette... e te. E
capisco che è tutto vero, ed è bellissimo sapere che ho persone così splendide
che son pronte ad aiutarmi e a rendermi felice come nessuno aveva mai fatto!»
Erik le asciugò le
lacrime con i pollici, indugiando un po' troppo sul suo viso minuto.
Sei bellissima.
Avrebbe tanto
voluto dirglielo. Ma non ci riuscì. Perse completamente
l'uso della parola quando si rese conto che le sue labbra si stavano
spaventosamente avvicinando a quelle della ragazza. Neanche riusciva a
fermarsi, ad imporsi un po' di controllo, tanto la sua
mente l'aveva abbandonato, lasciando spazio solo all'istinto. Ricordava ancora
il sapore delle sue labbra dalla prima ed ultima volta
che si erano baciati, in quel vicolo, per sfuggire alle attenzioni dei soldati.
Come sarebbe stato baciarle nuovamente, per davvero?
Riuscì solo a
sfiorarle in una carezza, perché fu costretto ad aprire di scatto gli occhi
quando Phénix fu colpita dall'ennesimo forte attacco di tosse, che Erik aveva
notato da tempo la colpiva sempre più spesso. E,
guardandola meglio, la trovava più pallida e sciupata del solito. Eppure ora
viveva in una casa confortevole e mangiava, anche parecchio da quando Claire
gli raccontava. Allora cos'era quell'aspetto e quella tosse? Si stava per caso
ammalando?
«Scusami.»
La sentì mormorare
così piano che a sento riuscì a capirla. Sospirò
pesantemente, pensando che stava per commettere una sciocchezza, se non ci
avesse pensato lei a rimediare alla cosa. «No,
perdonami tu, Phénix. È che...»
«No, non dire
niente.», lo bloccò prontamente alzando le mani all'altezza del suo viso. «Stavamo per fare una sciocchezza e la tosse l'ha evitato.
Del resto tu... tu ami Christine, vero?»
«Sì, io... amo
Christine...», annuì Erik, che però apparve meno
convinto di quanto non volesse mostrarsi.
«Ecco.» Phénix
deglutì a fatica, cercando disperatamente di pensare a tutto fuorché a quello
che stava per succedere solo pochi istanti prima.
Erik la guardò
stranito, come se fosse in trance, su di un altro pianeta. La stava per
baciare. Dio, stava per baciare Phénix! Ma che gli era saltato in mente? Era forse impazzito del tutto?
Lei era la figlia di quei due poveracci che erano morti per colpa sua, era la
ragazza che aveva deciso di aiutare, era diventata la sua amica, la migliore
dopo Claire... Voleva rovinare tutto e perdere ciò che
aveva duramente conquistato? E poi, lui era ancora follemente innamorato di
Christine, la sua piccola Christine! E la stava per tradire... inammissibile da
parte sua una debolezza del genere.
Ma veramente l'ami ancora come un tempo?
«Erik?»
Allora perché non
riusciva a capacitarsi del fatto che avrebbe voluto tenerla saldamente a sé e
baciarla con forza, se avesse opposto resistenza? Aveva sentito l'impulso
imbarazzante di sentirla vicina, ancora di più, voleva
baciarla con tutto l'ardore di cui era capace, voleva stringerla a sé e non
farla andare via mai più, voleva... amarla, lì, in quel preciso istante. Non
capiva cosa gli fosse successo quella notte, ma era ovvio che quella ragazzina
l'avesse stregato. Altrimenti non si sarebbe comportato certo in quel modo
indecoroso.
«Erik, tutto come
prima, vero?»
«Sì,
sì. Tutto come prima.», disse, senza pensarci troppo e
sorridendole, non molto sicuro. «Tutto come prima.» Prese un bel respiro,
cercando di calmarsi un poco e facendole un cenno col capo. «Vieni,
ti riporto a casa. Stai tremando.»
Phénix annuì, senza
aggiungere altro, mentre si stringeva nelle spalle. Anche perché, in tutta
sincerità, non avrebbe saputo che dire.
Continua...
Oh perbacco! Ho
talmente la testa tra le nuvole che mi ero scordata di aggiornare! °_°
Potrete perdonarmi?
;_; Sto esaurendo lentamente, il che non è un bene,
data la mia già precaria sanità mentale. Per recuperare il perduto e farmi
perdonare pubblicherò anche il capitolo successivo, spero apprezziate. *O*
Françoise Lafayette
era bella, su quello nessuno poteva permettersi di ribattere. Era bella e lei
lo sapeva. Ed era anche una brava ballerina, come se non bastasse. E sapeva
bene anche questo. Danzava da quando aveva imparato a stare sulle sue gambe ed
era sempre stata seguita dagli insegnanti migliori, dato che
la sua famiglia poteva permetterselo. Quando poi avevano aperto le audizioni al
Teatro dell'Opera di Parigi aveva fatto i salti
mortali pur di parteciparvi, nonostante i genitori non fossero molto convinti
della sua decisione. Avevano ben altri progetti per la loro unica figlia ma,
come spesso accade, preferirono vederla felice che dover sopportare una scelta
imposta da altri. Era questo, infatti, uno dei suoi migliori difetti: era
imperativa e tutto doveva andare secondo ciò che lei decideva; nessun altro
aveva il diritto di scegliere per lei, se non lei stessa. Da qui all'arroganza
pura il passo fu veramente corto. Non era certo la ragazza più amata tra il
resto del corpo di ballo, anzi; ma a lei bastava che venisse
rispettata e che nessuno le mettesse i piedi in testa o le passasse avanti. Lei
era la migliore, e su questo non voleva discutere.
Ma già da quando le
scene furono tutte per Christine Daaé, quella ballerina
diventata soprano dal nulla, Françoise iniziò a nutrire un profondo
senso di rabbia e frustrazione, che traboccò quando aveva infine fatto la sua
misteriosa comparsa quella strega di Sophie Rembrant, che gliela raccontava
giusta quanto un pugno in un occhio. Non le piaceva quella ragazza. Non le
piaceva perché piaceva a tutti. Chi era e come si
permetteva di oscurarla così, di colpo? Non sapeva neanche ballare decentemente
ed era già entrata a far parte a tutti gli effetti del corpo di ballo! Non
solo: era la cocca di Madame Giry, amica di tutti e
l'oggetto del desiderio di Étienne, il ragazzo più carino dell'intero corpo di
ballo maschile. Tutto ciò non poteva sopportarlo la bella Françoise, abituata a
ben altro fin da quando era piccola, e per questo quando lesse l'articolo che
aveva fatto il giro di Parigi le sue supposizioni
negative su quella ragazza aumentarono a vista d'occhio. Lo diceva, lei, che
quella strega nascondeva qualcosa: era strana, misteriosa e comparsa dal nulla.
La intimoriva, con quegli occhi felini che sembravano scrutarle l'anima e
odiava gli scherzetti che si divertiva a fare usando
trucchi di magia tra una lezione e l'altra. Se il Fantasma dell'Opera fosse
stato ancora vivo avrebbe detto che era sua figlia, o peggio
ancora l'amante!
«Credi veramente
che Sophie possa avere a che fare con la zingara di cui si parla tanto?»,
chiese una sua compagna, mentre tornavano ognuna nella
propria casa.
«Non mi
meraviglierei certo se dovessi scoprire che sia veramente così.», fece
Françoise, togliendosi un ciuffo corvino dalla fronte. «Non ha modi ed è
ignorante su parecchie cose, come se fosse cresciuta in mezzo alla strada.»
«A te sta
antipatica perché nonostante tutto ha del talento.», affermò un'altra facendo
andare su tutte le furie la bella Françoise.
«Talento?
E voi chiamate talento la volgarità con cui si muove?»
«Andiamo,
Fran, non farla tanto lunga. Ormai è entrata nelle
grazie di Madame Giry e dobbiamo tenercela. Prova
almeno a non creare tensioni, o non riusciremo più a ballare decentemente
nemmeno noi.», l'ammonì Alice, la più grande tra il
gruppetto, che ancora aveva un certo charme nei confronti dell'altra.
Françoise le
riservò un'occhiata risentita e preferì non aggiungere altro, per il momento.
Camminarono per qualche altro minuto, poi una di loro le salutò velocemente,
sgattaiolando in un vicolo da un bel ragazzotto che aveva tutta l'aria di un
contadino.
«Ah, guardatela!»,
«Beata lei...», furono i sospiri di alcune, mentre la
guardavano sparire con il fidanzato segreto.
«Quanto vorrei
avere anche io il mio fidanzato!», fece sognante Ginette, mettendosi le mani sulle guance.
«Non capisco questa
smania che avete di crescere troppo in fretta, voi.», borbottò Alice, alzando
un sopracciglio.
Françoise
sorrise maliziosa. «Se tu sei vecchia
non è colpa nostra.»
«Non è questione di vecchiaia, tesoro mio. È questione di
mentalità diversa.», ribatté l'altra, ormai stanca da tempo
delle sue continue provocazioni.
«Stai dicendo che
siamo frivole solo perché sogniamo l'amore?»
«Quello
non è amore. Non sappiamo neanche se lo troveremo l'amore, un giorno.»
Françoise alzò le
spalle, non troppo preoccupata. «Io so solo che il mio
“amore” sarà il nuovo patrono dell'Opera. Monsieur
Erik Duval, mi ispira come nome. E poi sembra un uomo misterioso ed affascinante...»
«E cosa ti fa
pensare che si innamorerà proprio di te, se mai
dovessi incontrarlo?» Alice alzò le braccia al cielo, fingendosi arresa.
«Scusami, Fran, tu sei la migliore e la più bella,
quasi lo dimenticavo.»
Alcune ridacchiarono
sommessamente, mentre la diretta interessata si mise a borbottare e a fumare
rabbia come una teiera.
Tutte intentead occuparsi dei fatti
propri, le ballerine rimaste fecero un bel salto dallo spavento quando un uomo,
non certo di raccomandabile aspetto, le fermò di colpo, sorridendo cercando di
mostrarsi galante e gentile. «Perdonate la mia intrusione, ma non ho potuto
fare a meno di ascoltare il vostro discorso, prima, su una ragazza che
somiglierebbe alla zingara ricercata dai soldati.»
A quelle parole
Françoise drizzò le orecchi, improvvisamente attenta.
«Cosa volete sapere?»
«Ecco, come potete immaginare sono un povero disgraziato e la ragazza in
questione, la buona Phénix, è mia cugina. Sono molto preoccupato per la sua
scomparsa e qualunque notizia che possa aiutarmi a ritrovarla per me è di
fondamentale importanza.»
Alice strattonò la
ragazza per una manica, intimandole di proseguire senza badare a quello strano individuo, ma Françoise non volle muoversi. «Non so se
stiamo parlando della stessa persona, monsieur, dato
che la ragazza che conosco io si fa chiamare Sophie Rembrant. Però, per
cancellare ogni dubbio, posso portarvi da lei e verificare insieme.»
Gli occhi dell'uomo
guizzarono all'istante di una strana luce euforica. «Sarebbe veramente molto
gentile da parte vostra, signorina?»
«Lafayette.
Françoise Lafayette, monsieur. Se volete seguirmi.»
«Fran! Che stai facendo?»,
sibilò Alice, bloccandola per un polso.
«Aiuto
un pover'uomo. E tolgo una mia curiosità.», disse in
un sorriso cinico la ragazza. «Non aspettatemi, ci vediamo
domani a lezione.»
Alice richiamò
l'amica parecchie volte, ma quella sembrava non sentire, mentre si allontanava
seguita da quell'uomo che non le piaceva nemmeno un po'. Come sempre, se quella
ragazzina non faceva di testa sua non era contenta. «Ah, al diavolo. Che faccia quello che vuole, non sono sua madre.»
Phénix ed Étienne stavano ballando da una mezzora buona nella sala
da ballo deserta. La lezione era finita, ma come spesso stava accadendo in quei
giorni, i due rimanevano a provare ancora per qualche tempo, oppure
chiacchieravano a ruota libera, come due vecchi amici.
Phénix adorava la
compagnia del ragazzo, che era sempre così gentile e timido,
a volte, ma che non nascondeva un evidente interesse nei suoi confronti.
Nonostante questo ancora non aveva osato farsi avanti, e lei ne era ben
sollevata. Non che Étienne non le piacesse, anzi; ma non se la sentiva, in quel
momento, di pensare a lui come qualcosa di più di un amico. Non dopo quello che stava per succedere un paio di notti fa sul tetto
dell'Opera. Sì, non era accaduto niente di male, ma ci era mancato veramente
poco che lei ed Erik si baciassero sotto il cielo stellato di Parigi. Al solo
pensiero le volavano le farfalle nello stomaco, accidenti a lui!
«Sophie, va tutto
bene?», si preoccupò Étienne, guardandola bene. «Ultimamente
sembri su un altro pianeta. Oltre che essere spaventosamente pallida. Ma stai mangiando?»
La ragazza lo
guardò come scesa dalle nuvole. «Sì che sto mangiando!
È solo che sono un po' stanca, forse...» In effetti Étienne aveva ragione: era stanca, molto stanca. Ma non potevano certo essere le lezioni di ballo a farla
stancare così, non c'era il tanto. Probabilmente era quella tosse odiosa che la
debilitava e il freddo di quelle settimane di aprile - quell'anno la primavera
sembrava non voler arrivare – non la stava aiutando di certo.
Un rumore al piano
di sotto li fece scattare in piedi, chiedendosi chi fosse a quell'ora.
Impossibile che fosse una ballerina o Madame Giry: la
porta era chiusa dall'interno e loro avevano l'unico mazzo di chiavi.
Étienne le fece
cenno di stare indietro, e lentamente mosse qualche passo verso la porta che
dava sull'andito e sulle scale. Phénix, invece, si avvicinò alla finestra che
dava sulla strada e rimase immobile mentre guardava chi stava cercando di
entrare nell'appartamento adibito a scuola di danza.
«Étienne, vieni,
presto!», esclamò prendendolo per mano, e portandolo
via da quella sala.
«Che
c'è, Sophie? Hai visto qualcuno?»
Lei non rispose,
portandolo in uno stanzino adibito a piccolo magazzino, sperando che ci fosse
qualche altra via d'uscita. Niente.
«Sophie?
Che sta succedendo?»
«Ti
spiegherò tutto più tardi, ora tu stai qui e non fiatare. Fidati di me.», gli disse imperativa, riacquistando la sua espressione
seria e decisa, di quando ancora doveva difendersi dai pericoli della strada. Étienne
non osò ribattere davanti a quegli occhi sottili e penetranti, sebbene stesse
morendo dalla curiosità di sapere. Ma con quel tono che non ammetteva repliche dovette rimandare tutto ad un altro momento.
Phénix chiuse la
porta dello stanzino e si avvicinò alla scala, sbirciando verso il basso. Si
guardò velocemente intorno per cercare qualche oggetto utile per salutare l'ospite
indesiderato e trovò solo un leggero appendiabiti in
legno che poteva fare al caso suo. Si posizionò contro
la parete della sala da ballo, con le luci spente, proprio accanto alla porta,
ed attese, trattenendo il respiro per evitare di tossire in quel momento.
Sentì
indistintamente il rumore della porta che veniva
aperta con forza e il click della serratura che saltava.
E così alla fine
l'avevano trovata...
I passi pesanti
dell'uomo che salivano frettolosamente le scale le fece
aumentare spaventosamente il battito cardiaco. Si fece forza stringendo
convulsamente il legno della sua “arma” e, quando l'uomo fu ad altezza giusta,
uscì allo scoperto, colpendolo all'addome con una spinta.
L'uomo, per lo stupore ed il dolore, imprecò a denti
stretti, piegato in due per terra.
Ma prima di dargli il colpo di grazia, Phénix fu costretta a fermarsi
non appena si accorse della seconda figura presente: una Françoise che la
guardava inorridita e spaventata.
«Tu...», balbettò più volte la bella ballerina, indicandola con
un dito. «Strega... Sei una strega!»
«No, Françoise,
aspetta!»
«Sei una strega,
l'ho sempre detto io!», gridò spaventata, guardando l'uomo dolorante sul
pavimento, che nel frattempo aveva estratto un coltello da una tasca sulla
cintura.
Stava per alzare il
braccio e far finta di colpirla, giusto per spaventarla come aveva raccomandato
Lucas, ma un'ombra saltò fuori dal nulla e un cappio gli si arrotolò intorno al
collo, facendogli mancare l'aria.
«Scappa,
portati via il ragazzo e quell'impertinente di ballerina. Qui ci penso io.»
«Erik, non lo
vorrai...»
«Ho detto di
andartene!», tuonò Erik, con occhi di brace e l'espressione di un folle in
viso.
Étienne comparve in
quel momento dal suo nascondiglio, incredulo per quello che i suoi occhi chiari
stavano vedendo. Non fu tanto l'uomo che aveva un cappio intorno al collo a
lasciarlo sgomento, quando quello che gli stava sopra, completamente ammantato
di nero e il viso spaventoso coperto da mezza maschera bianca. «Il Fantasma
dell'Opera!», soffiò impietrito in mezzo al corridoio, mentre Françoise gridava
terrorizzata e scappava via, con un diavolo per capello.
Erik alzò lo sguardo
furente verso il giovanotto che, se non fosse stato per Phénix che lo trascinò
a forza fuori dal palazzo, sarebbe rimasto impalato lì, a guardare quella furia
omicida che credeva morta e seppellita da settimane.
Con le mani strette
ancora sul cappio mortale, guardò i due giovani allontanarsi velocemente, senza
dire una parola. Al ballerino che aveva osato chiamarlo “Fantasma” davanti agli
altri due ospiti indesiderati avrebbe pensato più tardi. Guardò lo zingaro
sotto di lui, che a stento provava ad opporre
resistenza: la poca aria che gli entrava nei polmoni era del tutto
insufficiente per dargliene la forza.
Erik non voleva
ucciderlo; l’idea di farlo, inspiegabilmente, gli rivoltava lo stomaco. Voleva
solo interrogarlo un po' e dargli qualche piccola dritta su come avrebbe dovuto
comportarsi in futuro, se non voleva rischiare di ritrovarsi un altro cappio intorno
al collo spezzato. Non sarebbe stato clemente per due volte consecutive, non
era nella sua indole.
L'uomo aveva paura,
una maledetta paura di morire. Ma
per un attimo dimenticò tutto per concentrarsi sugli occhi del Fantasma. Agghiaccianti
in quel momento, ma soprattutto infinitamente tristi. Dove li aveva già visti?
«Chi sei?», gli
sibilò Erik, allentando di poco la presa sul suo collo per permettergli di
parlare. «Rispondimi con sincerità e ti risparmio la
vita. Mi sembra uno scambio ragionevole.» L'uomo gli
sputò in viso, facendolo infuriare del tutto. Continuando di quel passo non
sapeva se avrebbe resistito alla tentazione di ucciderlo seduta stante. Gli
fece sbattere malamente la testa contro il legno del pavimento, stordendolo. «Ho chiesto. Chi. Sei.»
«D-Davìd... Mi chiamo così...»
«Bene, Davìd, che
cosa pensavi di fare con mademoiselle?»
«Fatti miei.» Sentì
la stretta intorno al collo farsi sempre più insopportabile e strabuzzò gli
occhi, disperatamente.
«Non farmi perdere
la pazienza, non so quanto ti convenga.», disse pacatamente Erik, non
nascondendo però un certo nervosismo.
«Lui vuole solo
riportarla a casa...», sussurrò soffocato lo zingaro.
«Lui chi?»
«Lucas... Il suo uomo.»
Erik rimase
talmente stupito da quell'inaspettata risposta, che abbassò per pochi secondi
la guardia. Phénix era la donna di quello sporco animale? Perché diavolo non gliel'aveva
detto prima?
Ma
quel momento di esitazione gli costò caro, perché Davìd riuscì a liberarsi il
collo dal cappio il tanto giusto per tornare a respirare regolarmente, e con
una mano tirò via la maschera che gli copriva il viso storpio.
Sì, ecco dove
l'aveva già visto. Quel viso di mostro non avrebbe potuto dimenticarlo
facilmente.
Erik assottigliò
gli occhi, accecato dalla rabbia per quel gesto. «Dimmi,
ora che mi hai visto sei soddisfatto? Ti faccio paura?»
David ghignò, spintonandolo via con forza e balzando in piedi prima che
lui potesse acciuffarlo per la manica della giacca logora. «Macchè. Mi hai sempre e solo fatto ribrezzo, Erik, ilFiglio
del Diavolo. Ma mai paura!»
Erik rimase
imbambolato a quelle parole, mentre lo zingaro scappava via a salvarsi la pelle
ed a riferire tutto quello che aveva scoperto quella
sera.
Continua...
Come promesso, per farmi perdonare, eccovi anche il quindicesimo capitolo!
A presto! :)
«È una zingara, vi
dico!», strillò per l'ennesima volta Françoise alle amiche. «L'ho
vista con i miei occhi! E improvvisamente è uscito fuori un uomo vestito di
nero con una maschera in viso e ha aggredito quel signore che ha chiesto di
lei!»
«Una maschera?»,
ripeté Alice, alzando un sopracciglio perplessa. «E
magari quello era il Fantasma che è tornato sulla terra per continuare a
perseguitarci?»
«Non
sei simpatica, sappilo. Per quanto ne so quello
potrebbe essere veramente il Fantasma dell'Opera! Io ho ragione e se non mi
darete ascolto succederà qualcosa di veramente brutto,
me lo sento.»
Alice roteò gli occhi esasperata, mentre il resto delle ballerine, si
accorse, erano terrorizzate dal racconto della loro amica. Era incredibile
quanto suscettibili fossero quelle ragazzine. L'unica che non sembrava per
niente spaventata era Meg, e ringraziò il cielo che ci fossero ragazze mature
come lei in giro per Parigi, altrimenti avrebbe veramente preferito sbattersi
la testa contro ilsolido
muro del teatro per la disperazione. Era vero, Sophie era strana, parecchio strana; ma ci voleva molta immaginazione per pensare che
fosse una zingara scappata dalla scena di un delitto.
«Fran, fatti dare un consiglio da buona amica: lascia perdere le fantasie e fai quello per cui sei nata.
Non occuparti di faccende che non ti riguardano e che sono più grandi del tuo
ego. Se anche Sophie fosse la zingara di cui parli che problemi ci sarebbero?
Non ha ucciso nessuno, mi pare di aver capito. Forse vuole solo farsi una vita
migliore.»
«Che
non abbia ucciso nessuno non puoi saperlo. E comunque»,
disse con veemenza Françoise. «Comunque si dice che fosse in compagnia di un
uomo vestito di nero, proprio come quello che ho visto io ieri!»
«Da quando in qua
solo un uomo può vestirsi di nero per essere riconosciuto così facilmente come il
Fantasma dell'Opera?», domandò Madame Giry, comparendo
in quel momento.
Le ballerine
arrossirono, tornando ai loro posti per proseguire le prove. Solo Françoise
rimase dov'era. «Dicono che fosse mascherato, proprio come…»
«Ragazza
mia, chiunque può indossare una maschera, qualsiasi folle che vuole imitarlo,
per esempio. O per vezzo, o per qualsiasi altro assurdo motivo. Il Fantasma
dell'Opera è morto, lasciamolo riposare in pace.»
Claire la guardò intensamente, schioccandole un'occhiata severa. «Torna al lavoro, è meglio. Non c'è motivo che ti preoccupi
della buona fede di Sophie, posso garantirtelo.»
«Certo,
potete garantirmelo. Ma non mi fido di una donna che
aveva rapporti con il Fantasma dell'Opera.», disse la ballerina, lasciandola di
stucco.
In quel momento arrivò
Phénix, accompagnata da un Étienne ancora un po'
stravolto, ma in buona salute.
«Oh,
eccolo! Lui sì che può confermare quanto ho detto!»,
esclamò Françoise, raggiungendo in due aggraziati saltelli il ragazzo. «Étienne, dì alle altre che non sto inventando niente, su! Cosa è successo ieri sera?»
Il ballerino scese
dalle nuvole, non capendo. «Cosa è successo ieri
sera?», ripeté, confuso.
Françoise
assottigliò gli occhi, ora veramente arrabbiata. «Stai cercando di
difenderla?», sibilò, indicando la ragazza in questione con l'indice.
«Difendermi da che
cosa?», domandò questa, sorridendole candidamente con un'espressione più che
innocente.
Madame
Giry la guardò con eloquenza, scrollando il capo con fare rassegnato. Quella
ragazza era incredibilmente sfacciata. Chissà con quale metodo aveva convinto
Étienne a non aprire bocca su ciò che era successo la
sera prima? O forse c'era di mezzo la mano di Erik? Non voleva pensarci, tra
quei due non sapeva più dove girare la testa.
La lezione di ballo
si concluse alle sette come sempre e Françoise, che
non aveva fatto altro se non osservare i due con aria sospettosa ed
innervosita, prese le sue cose per tornare a casa senza aspettare nessuno, fin
troppo indispettita per gli avvenimenti di quelle ultime ore. Odiava non essere
ascoltata, tanto meno creduta. Aveva avuto ragione fin dall'inizio su quella
strega! Sarebbe presto andata dalla gendarmeria a denunciare il fatto, dato che nessuno le credeva; così finalmente si sarebbe
chiarito tutto quel mistero e tutti avrebbero capito che non andava a
raccontare in giro menzogne solo per screditare qualcuno.
Borbottando tra sé
e sé e pensando a qualcosa per far valere le sue idee, non fece
caso alla sensazione di essere osservata che provò finché non mise piede in
casa. Troppo occupata a rimuginare, neanche salutò la madre, che premurosa le
chiedeva com'era andata la lezione quella sera. La donna sospirò sconsolata
quando la figlia si chiuse in camera sbattendo la porta, al piano superiore,
ormai abituata al suo caratterino particolare.
«Fran, mia cara, è successo qualcosa?», le domandò,
avvicinandosi alla porta. Non ottenne risposta e la chiamò ancora, preoccupata.
«Françoise? Apri la porta!»
La voce della
figlia le arrivò ovattata, quasi tremula. «Non è
successo niente, state tranquilla. Vorrei restare sola, ora.»
La donna sospirò
ancora una volta, guardando la porta in legno davanti
ai suoi occhi. «D'accordo, ma chére, come vuoi tu.»
Françoise,
impietrita in mezzo alla stanza, non riusciva neanche a respirare. La finestra
era spalancata, permettendo ad un venticello fresco di
sferzarle il viso ed il corpo tremante.
Provate solo a far
capire un minimo la mia presenza e vi uccido.
Il potere di quelle
parole avevano avuto lo stesso effetto di una doccia
gelida. Mai aveva avuto così tanta paura in vita sua.
La mano guantata dell'uomo, che poco prima le tappava la bocca per
impedirle di gridare, scivolò via dal suo collo, ma era pronta a qualsiasi
evenienza.
«Bene, vedo che
siete una persona ragionevole, mademoiselle.», disse Erik, muovendo qualche
passo senza distogliere l'attenzione dalla ragazza, troppo scioccata e
spaventata per provare ad opporre resistenza. «Ho
notato, non senza un certo disappunto, che non amate molto la presenza di
mademoiselle Sophie... o Phénix, se
preferite chiamarla così.» Un sorrisino di scherno si
fece largo dietro la maschera nera che gli copriva interamente il volto,
illuminandogli di un luccichio sinistro gli occhi acquamarina.
«Allora è così...», sussurrò Françoise, rabbrividendo.
«Facciamo un patto,
io e voi.», esordì Erik, fermandosi davanti alla ragazza e congiungendo le mani
dietro la schiena. «Io non vi farò del male se voi
vivrete la vostra vita come se io e mademoiselle non esistessimo. Che ne dite?»
«E difendere lei e
voi?»
Lo sguardo
dell'uomo s'indurì. «Mi pare che abbiate la vostra
ricompensa, in cambio. O la vostra vita non ha importanza rispetto alla verità?»
Françoise impallidì
sentendo quel tono duro e che non ammetteva alcuna replica. Quell'uomo non
stava scherzando, non l'aveva mai fatto neanche negli anni passati. Che avrebbe
potuto fare, lei, per ribellarsi?
Niente,
le suggeriva una voce dentro di sé.
Ma
lei non si era mai arresa, mai neanche davanti alle difficoltà più grandi.
Sapeva di poter fare sempre il meglio di quello richiesto, sapeva che avrebbe
sempre dato il massimo in tutto. Lei sapeva, sapeva
che il Fantasma dell'Opera era vivo e più pericoloso di prima. Sapeva che stava
proteggendo una zingara, che probabilmente aveva a che fare con un duplice
omicidio. E sapeva che questa stessa zingara era ricercata anche dai suoi
stessi compagni. Tutto quello, forse, poteva solo giocare in suo favore.
«La mia vita è la
cosa più importante che ho,Monsieur le Fantôme.»
Erik non riuscì a
nascondere un moto di stizza, stringendo i denti nel sentirsi chiamare così. Ma se quello era l'unico modo per avere un po' di rispetto,
allora avrebbe dovuto sopportare nuovamente quell'appellativo. E dire che aveva
persino inscenato la sua morte, mentre ora compariva quella bisbetica, rischiando
di rovinare tutto!
Le
si avvicinò lentamente, chinandosi sul suo viso,
parlandole in un sussurro all'orecchio. «State ben
attenta a dove mettete i vostri preziosi piedi, mademoiselle. Potreste cadere e
farvi male.»
Quelle ultime
parole suonarono come una minaccia alle orecchie di Françoise.
Ed era veramente
quello l'intento di Erik. Se voleva finire di terrorizzarla ci era riuscito
alla perfezione.
Ascoltarla cantare era ogni volta una tortura e una delizia. Non solo gli era
sempre piaciuta la sua splendida voce che lo abbracciava con le sue note calde
e potenti, ma ogni volta era una continua sorpresa rendersi conto di quanta
strada avesse fatto la sua piccola allieva e musa nel giro di pochi anni.
C'erano soprani che dovevano allenarsi anni, anni ed
anni prima di arrivare a quei livelli di sublimità, ma lei sembrava aver
bruciato ogni tappa ci fosse prima.
«Basta
così, per oggi. Sei andata divinamente, Christine.
Come sempre, del resto.» Era da un paio d'ore che
provavano quell'aria, Pur ti riveggo, mia dolce
Aida, atto terzo dell'Opera di Verdi, con cui aveva intenzione di aprire la
stagione lirica quell'autunno; ma il tempo era volato così velocemente che
quasi nessuno dei due se n'era accorto. La musica era il loro ossigeno, la
linfa vitale che li manteneva in vita.
«Quando
continueremo?», domandò Christine, chiudendo lo spartito e restituendolo al
legittimo proprietario.
«Domani,
sempre alla stessa ora. Qualcuno ti ha mai chiesto dove
vai?»
La ragazza si
strinse nelle spalle. «MadameValeriuos
ultimamente è molto stanca e quando esco di casa lei dorme già. Temo che si
stia ammalando.»
Erik si alzò dallo
sgabello, sgranchendosi le gambe indolenzite. «Son soddisfatto
che stia facendo ottimi progressi e che abbia accettato la mia proposta. Non
avrei mai più pensato di aver ancora una volta la possibilità di cantare con te
e sentirtelo fare.»
Christine sorrise,
contenta per quello che aveva tutta l'aria di un complimento con i fiocchi. «Vi sono grata, Erik. Vedervi così desideroso di fare per il
vostro teatro è una gioia per gli occhi ed il cuore.»
«Non è me che devi
ringraziare, bambina mia.», disse dolcemente, al ricordo della zingarella dai
capelli rossi. «Non avrei avuto la forza di riprendere in mano la mia vita se
non fosse stato per una persona.»
«Chi?», domandò
curiosa lei.
Erik esitò qualche
istante, incerto se rivelare la verità al suo angelo o meno. La vera identità
di Phénix la riteneva salva, dopo aver regolato i conti con quella ballerina
altezzosa e pericolosa, anche se non sapeva se potesse realmente fidarsi di
lei; ma non voleva tenere la cantante all'oscuro, così come non voleva mettere
in pericolo Phénix. L'unica cosa che non aveva messo in conto era che quel
Davìd potesse riconoscere in lui l'Erik bambino.
Quella scoperta era stata una vera e propria doccia fredda.
«Se non volete dirmelo non è un problema, davvero.», azzardò con un sorriso
Christine, sebbene stesse morendo dalla voglia di sapere.
Erik si avvicinò
con lentezza al banchetto in legno ricoperto di fogli
e plichi, soffermando la sua attenzione sull'unica rosa che, col suo colore
rosso acceso, quasi stonava in tutto quel disordine. «È la mia Salvezza,
Christine.», esordì, prendendola in mano e accarezzandone distrattamente i
petali freschi. «È la scintilla che ha riacceso in me
il fuoco della musica, colei che inconsciamente ha aiutato un povero mendicante
a tornare a trionfare. E non ha chiesto niente in cambio, ha solo dato. Mai
nessuno mi aveva offerto così tanto senza volere una
ricompensa.»
Christine non
riuscì a distogliere lo sguardo da quello così profondo e colmo di gratitudine
dell'uomo. Non credeva di avergli mai visto un'espressione così prima di
allora. Sembrava veramente felice e lei si ritrovò a dover asciugare le lacrime
con la manica dell'abito.
«Ma
io l'ho aiutata, Christine, l'ho voluta ringraziare a dovere.», disse
entusiasta, con un sorriso così caldo che la fece vacillare sulle sue gambe.
«Oh, se sapessi cosa ha dovuto passare a causa mia quella
povera anima. Il mio lato mostruoso non mi abbandona mai,
Christine. Ma vedrai, ho in serbo per lei tante di quelle sorprese che l'aiuteranno, anche se non sarò in grado di restituirle ciò
che le ho tolto.»
La cantante non capì
cosa Erik le stesse raccontando, ma poteva percepire quanto dolore e quanto
entusiasmo si celassero dietro quelle parole, dietro
quel viso ora triste, ora completamente disteso, perso in chissà quale
piacevole pensiero.
«È... bellissimo,
Erik, davvero.»
L'uomo le sorrise,
guardando poi la rosa che ancora continuava ad accarezzare come faceva con il
piccolo Dante. «Sì, è davvero troppo bello per me. Non
dovrei meritarlo.»
Christine gli si
avvicinò, posando le sue piccole mani su quelle grandi di lui. «Avete sofferto tanto, Erik, ma non per questo voi non
potete provare la felicità che ognuno ha diritto di avere. Voi a maggior
ragione.»
«Dimmi,
Christine: tu sei felice?»
Lei non rispose
subito, ponderando al meglio la domanda e quella che sarebbe dovuta essere la
sua risposta. Se avesse risposto affermativamente lui
si sarebbe potuto offendere, poiché aveva trovato la gioia con un altro uomo;
se, viceversa, avesse detto di no, allora si sarebbe arrabbiato, perché le
aveva permesso di abbandonarlo per finire tra le braccia di un uomo che non la
meritava. Eppure scelse la verità, seppur dolorosa per lui; ma voleva essere
sincera, finalmente. «Sì, immensamente.»
Erik sospirò
profondamente, conscio di essere giunto ad una
conclusione che mai avrebbe pensato di raggiungere. «Ho sempre pensato che quel
damerino non sarebbe stato in grado nemmeno di badare a se stesso, figurarsi di
amare te almeno metà di quanto ti ho amata io. Ma se
mi giuri che mi son sempre sbagliato, allora, solo allora potrò essere libero
definitivamente.»
Christine notò
subito il fatto che avesse usato “ti ho amata” e non
“ti ami ancora”. E per quanto quello la lasciò sgomenta, ormai abituata al
forte sentimento che lui provava nei suoi confronti, poco a poco si
tranquillizzò, ora finalmente contenta.
«Giuro sull'amore
per mio padre, per Raoul e per voi che mai sono stata così felice.»
Erik sorrise,
prendendo un altro bel respiro, ora più tranquillo. «Sai,
bambina mia, una volta ho chiesto, anzi pregato la mia Salvezza di aiutarmi a
dimenticarti. È un pensiero orribile, in effetti, ma è l'unico modo che conosco
per stare in pace con te e con la mia anima.»
«E la vostra
Salvezza vi ha aiutato davvero?»
Erik chinò il capo
sulla rosa, che le porse con gentilezza. Una rosa non più
listata a lutto, ma immacolata come appena colta. «È riuscita a fare
quello che io non ho mai provato neanche a pensare.»
Christine, per la
prima volta dopo mesi, si sentì veramente sollevata. Un po' per vanità, un po'
per egoismo, non avrebbe mai pensato che Erik sarebbe riuscito a dimenticarla e
a non amarla più come un tempo; ma quella notizia fu come una mano dal cielo e
lei fu grata a chiunque fosse questa misteriosa persona per averlo aiutato.
Continua...
Chiedo perdono per
l'immenso ritardo, visto che questa storia è scritta
da una vita e devo semplicemente rivederla e correggere alcuni passi, ma
gennaio è stato un mese infernale, e i prossimi si prospettano molto simili,
indi per cui il tempo a mia disposizione è diminuito drasticamente. Spero che
ci sia ancora qualcuno, là fuori, a leggere questa cosa!
Era più di una
settimana che Erik non si faceva vedere, e lei stava iniziando a spazientirsi.
Gli aveva fatto promettere di non sparire più come l'ultima volta, di tenerla
informata su qualsiasi follia gli venisse in mente, ma a quanto pareva sapeva
mantenere la parola data come un bugiardo. Sparito nel nulla, ecco tutto.
«Dios,
la smetti de sbuffare? Me innervosisci!», sbottò
Rosalinda, mettendosi le mani sui fianchi, parecchio seccata. «Sto cercando de concentrarme, se non te ne fossi accorta!»
Phénix spostò lo
sguardo sul libro di ricette che la domestica aveva aperto sul tavolo e che
continuava a leggere da qualche minuto con la fronte corrugata. «Cosa devi preparare?»
«Una
torta alle mandorle. La señorita Meg fa follie
quando la mangia.»
«Ti serve una mano
o posso uscire per un po'?»
Rosalinda la guardò
perplessa, scuotendo il capo. «E dov'è che vuoi andare
a quest'ora? Sta già facendo buio.»
Phénix si alzò
dalla sua sedia e si buttò in testa uno scialle a frange colorate. «Voglio solo respirare un po' di aria fresca, tutto qui. Non
tarderò, tranquilla.»
«Me
raccomando, stai attenta.»
La ragazza neanche
le rispose, limitandosi ad annuire e ad uscire di
casa, sperando che Madame Giry non si accorgesse di nulla. Se c'era una cosa
che, infatti, le era proibito fare era proprio uscire
dopo il tramonto. Una delle tante regole dettate da Erik ma che lei, in quel
momento, voleva solo mettere sotto i piedi in segno di ripicca nei suoi
confronti. Non sarebbe accaduto niente quella sera se
per una volta decideva di andare a trovare la nonna. Erano settimane che non
passava a trovarla, non aveva neanche avuto la possibilità di farle sapere la
sua nuova sistemazione.
Fuori l'aria era
frizzante, ma non pungente come qualche giorno prima. Aprile non era mai stato
un mese soleggiato e neanche quell'anno si stava smentendo. Si strinse nel suo
cappotto di lana, un tempo di Claire, e si diresse verso il quartiere di periferia dove abitava la nonna. Non era certo l'ambiente
migliore da frequentare, ma era convinta di non avere niente da temere. Non
aveva mai avuto nemici, di conseguenza nessuno avrebbe
dovuto alzare un dito su di lei.
Tranne quei due che
han fatto fine brutta, ricordi Phénix?
Accelerò il passo
quando attraversò un vicolo deserto e buio, dall'altra parte del quale si
trovava la mansarda in cui era diretta. L'abitazione era desolata come sempre, tranne per la luce tremula di una candela che proveniva
dall'ultimo piano. Forse l'avrebbe trovata ancora sveglia, si disse.
Bussò
tre volte quando si trovò di fronte alla logora porta in legno, mangiata dai
tarli e parecchio sghemba; dopo qualche istante sentì dei passi lenti e pesanti
che si avvicinavano, e subito dopo una voce burbera e roca, che chiedeva: «Chi
è?»
«Nonna, sono io,
Phénix.»
Un gemito eccitato
provenne dalla stanza e, poco dopo, la donnina aprì la porta, abbracciando la
nipote adottiva. «Bambina mia, ma ti sembra modo di sparire?»
Phénix si morse un
labbro nel pensare a qualcuno di conoscenza che ormai ci aveva preso
l'abitudine, ma si sforzò di non pensarci e di concentrarsi unicamente sulla
donna davanti a lei. «Scusami, è che son successe talmente tante cose...»
La donna sorrise ed il suo viso s'illuminò tra le decine di rughe che le
solcavano la pelle. «Abbiamo tutto il tempo che vogliamo, raccontami.»
Phénix si accomodò
al tavolo, mentre la nonna le preparava una tisana calda. «Non saprei da dove
iniziare...»
«Inizia dalla fine:
è il modo migliore per rimettere insieme tutti i pezzi del rompicapo.»
La ragazza annuì,
rimescolando le idee. «Non sono più una zingara. O
meglio,», si affrettò a dire appena si accorse
dell'occhiata perplessa e un po' infastidita dell'altra. «Non
lo sono nel senso proprio del termine. Non abito più al mulino, ma in una casa.
Una casa vera, nonna!»
«Una casa?»
Phénix annuì,
entusiasta. «Sì, proprio una casa! Di quelle belle,
eleganti, nel centro aristocratico della città! Oh nonna, dovresti vedere come
son fatte dentro!»
«Hai per caso fatto
fortuna sposandoti un ricco?»
«No,
no! È successo tutto così, all'improvviso... ricordi l'uomo di cui ti avevo
parlato l'ultima volta?»
«Sì, il Fantasma
dell'Opera.»
«È stato lui ad
aiutarmi.», disse con più dolcezza, sorridendo. «Mi ha
servito il suo aiuto senza che io gli chiedessi niente. Il Cambiamento è
avvenuto, nonna, e io son stata pronta ad affrontarlo,
hai visto?»
La donna rimase in
silenzio, respirando rumorosamente. «Niente in cambio?»
«Niente.
Oh, dovresti conoscerlo, nonna! È l'uomo più
incredibile che abbia mai conosciuto, anche se delle volte è insopportabile. Te
ne innamoreresti anche tu!»
«E
tu? Ne sei innamorata, non è così?»
Phénix ammutolì di
colpo, arrossendo peggio dei suoi capelli. «Io... non
saprei. Ci sono molto affezionata e farei qualunque cosa pur di renderlo
felice. È amore, questo?»
La nonna controllò
l'acqua nella teiera, poi si voltò a guardarla nuovamente. «Phénix,
non farti ingannare dalle buone maniere. Spesso colui
che si presenta gentile d'animo è più furfante di chi invece lo
ammette.»
«Erik non è
falso.», replicò duramente la giovane. «È sincero e lo capiresti anche tu se lo
guardassi negli occhi.»
«Erik?
Hai detto che si chiama così?», domandò d'improvviso
la donna, curiosa.
«Sì,
Erik. Perché?»
L'altra rimase in
silenzio, rimuginando per conto proprio. «No, non è niente.», disse poi con un
sorriso. «Le mie orecchie non funzionano bene come una volta.»
Versò l'acqua calda in una ciotola, in cui mischiò una polvere di qualche erba.
«E dimmi, cosa fai ora?»
Gli occhi di Phénix
si accesero d'entusiasmo. «Ballo per il teatro, sempre grazie
a lui.»
«Bene,
bene. Son veramente contenta per te, piccola mia. Ma
stai attenta: Lucas non ti lascerà andare per molto, lo sai.»
"Stai scappando, mia dolce Phénix?
Scappa, scappa per ora.
Sei libera di fare quello che vuoi.
Ma non andrai molto lontano, tu mi
appartieni.
Siamo indissolubilmente legati, io e te.
Tu mi appartieni, e lo
sai bene."
«Sì, purtroppo lo
so.», sospirò la rossa, abbassando lo sguardo sulla tisana fumante e
stringendosi nelle spalle ai ricordi. «Lo so.»
Scioccato.
Ecco come si
sentiva.
Scioccato
dalla sconcertante scoperta che aveva fatto pochi giorni prima: non amava più
Christine. O meglio, l'amava ancora, certo, ma non più
con quella morbosa passione che l'aveva portato in rovina. No, non l'amava più così disperatamente, e la situazione gli
sembrava così strana da apparirgli anche ridicola. Come doveva reagire a quella
novità? Rallegrarsene o disperarsi per aver perso uno dei suoi pochi punti
fermi nella vita? Agganciarsi all'amore per la sua musa gli era servito ad
andare avanti, ad avere un valido motivo per continuare la sua opera, la sua
vita. Quella stessa vita che, nonostante la sconfitta, aveva deciso di non
buttare via con un cappio solo perché ancora aggrappato a quell'amore viscerale
e doloroso che gli aveva riempito le giornate.
E ora sentiva, lo sentiva che si stava allontanando da lei come mai avrebbe
pensato. La figura di Christine non era mai stata così lontana, svaniva a poco
a poco, sbiadendo in un mare di nebbia, mentre al suo posto si delineava la sagoma di una figura ancora troppo misteriosa
per capir bene di chi si trattasse. Poteva solo tirare ad
indovinare, e la risposta a quel rompicapo lo spaventava.
La sua questione in
sospeso.
Ancora non riusciva
ad interpretare bene tutto quel dedalo di emozioni che
ogni volta provava quando era con lei o semplicemente la pensava, ma percepiva
perfettamente quanto pericoloso fosse. Doveva sopprimere tutto prima che fosse
tardi, prima che quella situazione potesse sfociare in qualcosa di più che lo
terrorizzava e gli faceva mancare il respiro. La paura di essere soggiogato
nuovamente dall'amore, proprio ora che se ne stava liberando pian piano, era
troppa anche per lui; non voleva ricadere in quel labirinto che riusciva a
disorientarlo, non voleva sentire il proprio cuore fermarsi per paura di essere
nuovamente rifiutato per il suo aspetto.
Era
per questo che aveva deciso di starle lontano per
qualche tempo, sperando che tutto sarebbe passato grazie alla distanza. Ma era andato totalmente fuori strada, quella volta: starle
lontano faceva accrescere in lui l'irrefrenabile desiderio di vederla, di
sentire il suono della sua voce, di poter guardare ancora in quegli occhi
smeraldini che tanto l'avevano messo in soggezione, ma di cui ormai non poteva
fare più a meno.
La musica che
fragorosa s'infrangeva contro le pareti di pietra della sua casa sotterranea s'interruppe brutalmente, quasi a voler
sottolineare il suo disappunto che sovrastò tutto quel magma di pensieri
pericolosi. Si passò la manica della camicia bianca sulla fronte imperlata di
sudore per l'impegno e rimase immobile, seduto davanti al suo organo per minuti
interi. Suonava ormai da ore ininterrotte, aveva anche perso il senso del tempo
ormai. Ma la musica era la sua unica amica, l'unica
confidente su cui poteva fare cieco affidamento senza essere mai tradito. Gli
toglieva le energie, alla fine delle ore passate a suonare, ma
contemporaneamente lo rinvigoriva nell'animo, dandogli la forza che gli
mancava.
Quando decise di
alzarsi, fu l'ennesimo brutto colpo della giornata. Guardandosi intorno si rese
conto di quanto desolante fosse la sua casa: per quanto l'avesse arricchita con
un arredamento raffinato ed aristocratico, per quanto
calore e magia potesse regalare la vista di quel lago sotterraneo, a lui ora
appariva solo come una caverna, triste e deserta. Solo la sua musica e la sua
voce potevano darle vita. Ma
mancava un ingrediente che non aveva tenuto in conto prima di allora: la
compagnia di qualcuno. Era sempre vissuto isolato dal mondo, i contatti sociali
per lui erano il nulla totale; solo Claire era stata,
e lo era ancora, l'unica persona degna di parlare con lui, e successivamente
Christine. Ma cosa poteva saperne lui del vero
significato della compagnia? Niente.
Ed
ora che l'aveva scoperto si rendeva sempre più conto di quanto solo fosse stato
fino a quel momento. Le lunghe chiacchierate con Phénix ed
il calore del piccolo Dante erano due novità che si erano trasformate in
consuetudine, e di cui ne sentiva fortemente la mancanza.
Perché non posso
semplicemente essere libero di vivere normalmente?
Odiava non saper
dare risposta a quella domanda che molti avrebbero trovato scontata e sciocca. Lui non poteva essere libero, non ne aveva il
diritto.
Si passò
stancamente una mano sul viso, togliendosi la mezza maschera che perennemente
glielo nascondeva. Mosse qualche passo verso i grandi specchi rotti coperti dai
drappi cremisi in velluto, che fece scivolare via, per potersi riflettere sulla
superficie lucida. L'immagine distorta che lo specchio rotto gli restituì non
fu poi tanto diversa da come sarebbe stata se fosse stato integro. Il suo
stesso viso, del resto, era distorto.
Tra tutte le persone del mondo... perché hai scelto proprio me,
Signore?
I suoi pensieri
furono improvvisamente interrotti da un suono metallico che proveniva dal
ventre del teatro, di una qualche trappola che era scattata. Rimase in
silenzio, aspettando di sentire qualcos'altro; poi il gelo totale.
«Stupida!», ringhiò
a denti stretti, infilandosi in uno dei tanti corridoi nascosti e correndo
verso il grido soffocato che era riuscito a percepire in tutto quel silenzio.
«Phénix, parlami!», gridò freneticamente, nel tentativo di capire in quale
delle decine di trappole fosse caduta. Che diavolo le
era saltato in mente?
La voce della
ragazza gli giunse alle orecchie flebile e lontana, ma
si rese subito conto di averla proprio sotto i suoi piedi.
Il signore delle
botole.
Mostro,
era solo ed esclusivamente un mostro!
Tirò una leva
nascosta posta dietro una delle pietre umide della parete, e immediatamente la
botola si aprì. Afferrò brutalmente una torcia quasi del tutto consumata e
cercò di illuminare il piccolo antro in cui stava Phénix, impigliata in una
serie di corde.
«Tieni
sempre una mano sopra gli occhi, eh? Ora capisco che intendevi dire.», borbottò, cercando di liberarsi e tossendo per la polvere
e per qualcos'altro.
«Ferma, o le corde
continueranno a stringersi.»
Erik, avendo riacquistato
il suo sangue freddo nel vedere che tutto sommato la
ragazza stava bene, iniziò a sciogliere sapientemente quella matassa di cappi e
corde, fremendo di rabbia e di qualcos'altro ogni qualvolta la guardasse negli
occhi o la sfiorasse involontariamente. Dire che stava ardendo come un tizzone
appena tolto dal camino non rendeva bene l'idea. E tutto per quel maledettissimo
mancato bacio, ne era sicuro.
Appena finì il
lavoro, le porse una mano per farla alzare e lei gli si gettò tra le braccia,
ancora troppo spaventata per la brutta sorpresa.
«Stolta, ti ho
sempre detto che è pericoloso aggirarti qui sotto se non ci sono io con te.»,
le mormorò, stringendola forte per paura di perderla. Era incredibile quanto un
gesto semplice come un abbraccio potesse rinvigorirlo come l'acqua per uno disidratato.
La sentì
accoccolarsi meglio contro il suo petto, praticamente
nudo dato che la camicia bianca che indossava era una di quelle che tanto
adorava, dal colletto aperto e svolazzante.
«Dovevo vederti.»
«Perché?», domandò allarmato, temendo che ci fossero brutte novità.
Phénix alzò lo
sguardo su di lui, sospirando. «Ci deve essere un motivo?» Rise quando lo vide imbarazzato,
nel tentare di dire qualcosa, anche se quel qualcosa stentava a venir fuori. «Sai, Erik, stai decisamente meglio così, senza maschera.»
Il sangue gli si
gelò nelle vene, rendendosi conto solo allora di non aver indossato la sua
protezione, troppo preso dal salvataggio della ragazza
per ricordarsene. Voltò il capo per nasconderle, almeno un poco, la vista di
quell'orrore e chiuse gli occhi, maledicendosi per la stoltezza della
dimenticanza, ripetendosi che era ancora troppo presto per mostrarsi a lei, che
sarebbe scappata via impaurita, che...
«Erik, se non te ne
fossi accorto io sono ancora qui, e non ho intenzione
di andarmene.», gli sussurrò, accarezzandogli il viso che tanto odiava.
Aprì le palpebre
lentamente, come se si fosse appena svegliato cercasse invano di riportare alla
memoria le immagini di un bel sogno, temendo che potessero svanire nel nulla. Ma lei, invece, era sempre lì, tra le sue braccia, che lo
guardava con i suoi occhioni verdi e rassicuranti. «Non ti faccio paura?», le
chiese con un filo di voce.
Phénix
sorrise, alzandosi sulle punte e baciandogli con tenerezza la guancia piagata.
«Non potrei mai avere paura di un Angelo.»
Con le lacrime agli
occhi, Erik la strinse tra le braccia, alzandola quasi da terra per la troppa
foga. «Oh, Phénix, Phénix! Dimmi, dimmi che non sei un
sogno e che sei qui con me, ora!»
«Sì, ma se continui
a stringermi così forte non so per quanto possa ancora
rimanere!», scherzò lei, nonostante non avesse alcuna voglia di staccarsi da
quel calore che era il corpo dell'uomo.
«Perdonami, non
volevo farti male.», disse subito lui, allentando la presa e facendo scivolarele sue mani fino a
farle intrecciare con quelle di lei.
Sotto quello
sguardo penetrante e profondo quanto un oceano, Phénix non poté non trovarsi in
soggezione, e preferì abbassare il capo per sviare l'attenzione da quegli occhi
acquamarina... e da quelle labbra tentatrici. «Che fine avevi fatto?»
Erik sospirò
pesantemente, cercando una scusa plausibile da darle. «Componevo.»
«Componevi?»,
chiese lei perplessa.
«Sì.
Quando comincio a scrivere musica niente ha più valore
intorno a me. Perdo completamente il senso del tempo.»,
spiegò, cercando di essere convincente. Non che stesse raccontando totalmente
frottole, ma era ben ovvio che quella volta la musica non
aveva niente a che vedere con la questione.
«Capisco... e
potresti farmi ascoltare qualcosa?»
«No,
ancora no. Ci devo lavorare sopra.» Erik s'intenerì al
viso imbronciato di lei, ma riuscì a strapparle un sorriso subito dopo. «In
cambio posso suonarti qualcos'altro, se ti fa piacere.»
Gli occhi di lei s'illuminarono subito, ed Erik fu ben felice di
poterla allietare con la sua musica. Sempre tenendola per mano la condusse al
suo giaciglio e si accomodò davanti all'organo. «Questa
che sto per suonare è un'opera scritta da un compositore del secolo scorso,
Johann Sebastian Bach, e s'intitola Toccata e Fuga. Perdonami se
commetterò qualche errore, è molto complessa.»
Aggiunse poi, con falsa modestia, dato che sapeva per
certo che non avrebbe sbagliato una nota.
Phénix non rispose,
accomodandosi sullo sgabello accanto a lui. «Disturbo qui?»
E come potresti?,
avrebbe voluto dirle. «No, tranquilla.»
Quando le dita di
Erik si posarono sui primi tasti dello strumento, Phénix temette che le pareti
sopra la sua testa sarebbero crollate per la potenza
di quei suoni gravi che fuoriuscirono dalle canne dell'organo. La composizione
che sentì fu un continuo crescendo di tonipotentissimi, poi calmi, poi veloci
così tanto che a stento riusciva a seguire i movimenti delle mani dell'uomo
sulla tastiera, poi ancora lente, lentissime. Guardarlo mentre suonava quella
musica sublime che sembrava uscire dalla pietra per insinuarsi affondo nella
sua anima fu indicibile. Concentratissimo sul suo lavoro sembrava che fosse
veramente estraniato dal mondo, come se lei non esistesse più e fosse solo, lui
con la sua adorata musica. Si chinava sulla tastiera, come a volerle sussurrare
parole confortanti, si dondolava a seconda dell'andatura
delle note, gli occhi chiusi per assaporare meglio ogni nota, le sue mani che
saltavano da una parte all'altra per andare a pizzicare i tasti con bravura e
superbia... Era indescrivibile a parole quello che vide e quello che provò.
La musica terminò
con un'unica nota grave, che risuonò per tutta la caverna anche dopo parecchi
secondi dopo che Erik aveva staccato le dita dai tasti.
Phénix non riuscì a
proferir parola, troppo inebetita per la bravura e la maestria che risiedeva
tutta in un solo uomo. «Erik, io... sono senza parole.»
«Il che è un bene o
un male?», chiese sarcastico, incrociando le braccia.
«Non so cosa tu
sia, se veramente umano o no, ma... quello che ho sentito ora può provenire
solo da un angelo, non da un semplice uomo.», gli disse semplicemente,
sorridendogli poi. Gli prese una mano, studiandone il palmo con attenzione e
passando delicatamente un dito sulle linee che glielo segnavano. «Vedi questa piccola linea? È la linea del destino. Ti dice
in che modo la tua vita verrà influita a seconda di
com'è.» Erik non parlò, cercando di frenare i brividi che lo percorrevano ogni
qualvolta il polpastrello di lei lo sfiorava. «La tua
è piccola, parte solo dalla linea della testa... E sai cosa vuol dire?»
Lui scosse la
testa, con l'aria incuriosita di un bambino.
«Vuol
dire che otterrai grandi risultati nel tuo campo. Sarai un compositore famoso
in tutta Parigi e chissà, magari in tutta la Francia.»,
gli spiegò, sorridendo. Poi guardò ancora la sua mano. «Oh, è anche molto
sottile...»
«Quindi?»
«Ecco, significa
che hai una particolare predisposizione a subire duri colpi dalla sorte.»
«Non è una
novità.», commentò amaramente lui.
Phénix gli strinse
la mano, dolcemente. «Ma non è detto che sarà così per sempre.»
«Quelle che
dicono?», le chiese, indicando con un cenno del capo il palmo della sua mano.
La ragazza abbassò
lo sguardo, studiando ancora i movimenti delle curve. «Oh,
questa è bella! È la linea della salute e dice che sei instabile di umore e di
carattere capriccioso! Direi che ha azzeccato.», disse
pensierosa, facendogli alzare un sopracciglio.
«Spiritosa.» Phénix
scoppiò a ridere divertita, e anche lui si lasciò andare ad
un sorriso. «E così sai leggere il futuro.»
«Sono una strega
io, ricordatelo.», ammiccò strizzando un occhio.
«E dimmi, cosa sto
per fare ora?»
Phénix arrossì
indecentemente quando lo vide avvicinarsi ancora di più. Stai per baciarmi?, gli avrebbe
voluto chiedere. Sì, sarebbe dovuta essere la risposta.
E invece no, niente
di tutto quello che nel giro di due secondi era riuscita ad
immaginare. Erik, con un sorrisino birichino, l'aveva
presa in braccio, sollevata dal sedile e portata dentro il lago, con il chiaro
intento di farle fare un bel bagno.
«Non pensarci
nemmeno, Erik!», esclamò lei, aggrappandosi al suo collo. «Non so nuotare!»
Lui si fermò,
l'acqua all'altezza delle ginocchia, e la guardò curioso. «No?
Pazienza, avevo comunque intenzione di affogarti.»
«Disgraziato
che non sei altro! Mettimi immediatamente giù!», strillò lei, tra il divertito
e la reale paura che la buttasse dentro veramente.
Ma
lui non le fece niente che potesse farla arrabbiare. La mise giù, facendole
bagnare solo l'orlo dell'abito e le scarpe, poi le circondò la vita con un
braccio, mentre l'altra mano cercava la sua.
Fu quando lui
iniziò a cantare, che Phénix si sentì leggera come una piuma.
Continua...
Torno dopo un mese
circa, è stato l'Inferno ma è praticamente finita! E
tra nove giorni parto per Siviglia per tre mesi in tirocinio! Spero solo di non
sparire definitivamente! :D
Ringrazio tutti coloro che continuano a seguire questo racconto e chi invece
ha iniziato da poco! Spero possiate perdonare questa scribacchina degenere che
aggiorna una volta ogni morte di Papa. :)
Felice, ecco come si
sentiva. Una sensazione che raramente aveva provato, che in tutta sincerità non
pensava neanche che avrebbe mai capito cosa significasse. E invece eccola lì,
la felicità, a portata di mano come non lo era mai stata. I lavori a Teatro
avanzavano velocemente, sotto i suoi precisi ordini che i due manager non
rifiutarono di far seguire alla lettera, e che d'altra parte non potevano
lamentarsi, dato che l'Opéra stava risorgendo dalle ceneri
più bella e maestosa di prima. E ogni giorno che passava, Erik si rendeva
conto che la sua malattia per Christine svaniva a poco a poco, grazie alla sua
piccola Phénix, quella ragazza che era piombata nella sua vita come una
scintilla che aveva riacceso in lui la fiamma viva della passione per la
musica, e gli aveva insegnato cosa volesse dire altruismo. Lui non si era mai
preoccupato degli altri, troppo occupato a prendersi cura di sé
stesso per difendersi dal mondo... ma dopo tutto quello che era successo, aveva
capito che non poteva chiudere ulteriormente gli occhi trovandosi di fronte
l'ennesima vittima delle sue crudeltà.
Ma
se da una parte era contento di come stavano andando le cose, dall'altra aveva
una tremenda paura che tutto potesse svanire da un momento all'altro. Del
resto, cosa poteva sperare lui? Che andasse tutto per il verso giusto,
finalmente? Certo che no. Lui non era nato giusto, figurarsi se almeno la sua
vita potesse esserlo, un giorno.
«Che cosa stai
combinando, Erik?», chiese Claire con apprensione, incrociando le braccia.
«Che cosa sto
combinando?», ripeté l'uomo, non capendo inizialmente a cosa alludesse.
«Non ti ho mai
visto così... felice.», gli disse cauta, abbozzando un sorriso.
Erik rimase calmo,
nonostante la mascella contratta parlasse di altro. «Non
posso esserlo, Claire? Dimmi, mi è vietato?»
«No,
non fraintendermi. Lo sai bene che quello che voglio per te è il meglio.», si affrettò a dire la donna, con un sorriso. «È proprio
per questo che non voglio che ti illuda prima che
tutto sia finito. Non commettere ancora lo stesso sbaglio.»
«Ho già avuto modo
di dirti che non lo rifarò!», esclamò ora arrabbiato l'uomo, sovrastandola in
tutta la sua altezza. Ma lei non mosse un muscolo, per
niente spaventata. «Perché non posso semplicemente sperare,
Claire? Quanti uomini nella vita hanno sbagliato e hanno ripreso in mano tutto,
azzardando a volte, ma vincendo alla fine? Dimmi che nessuno l'ha mai fatto e
allora sarò doppiamente soddisfatto.»
Lei non rispose,
lasciandosi andare ad un sospiro.
«Credi in me, per
favore.», mormorò Erik, prendendola per le spalle e guardandola con affetto, senza più quel lampo di rabbia di qualche secondo prima. «Lo
farai?»
«Ho
sempre creduto in te, Erik. Lo sai.» Si morse un
labbro prima di parlare, conscia di quello che avrebbe detto. «Ho capito che ti piace quella ragazza, te lo leggo negli
occhi. Però ricordati che Phénix non è a conoscenza di
quello che le stai nascondendo. Diglielo ora, spiegale che hai avuto paura
all'inizio, spiegale tutto. Ma fallo ora, o più passerà il tempo, più sarà troppo tardi e perderai la sua fiducia.»
Il groppo che sentì
alla bocca dello stomaco non lo abbandonò per giorni interi, soprattutto ogni
qualvolta incontrava la ragazza e non riusciva a parlarle apertamente. Lei
l'aveva capito che qualcosa non andava, era ovvio, lo capiva sempre al volo. Ma non osò chiedere niente, conscia che sarebbe stato lui a
cercarla per confidarsi.
Phénix quei giorni
non mancava mai di partecipare alle lezioni di ballo
tutte le sere, nonostante la tosse si stesse facendo più insistente, anziché
diminuire. E nonostante la premura di Erik, Madame
Giry, della figliola e di tutti coloro che l'avevano a cuore, lei non volle
sentir parlare di medici. Confidava nelle sue tisane, perché doveva farsi
visitare da un estraneo?
Ma a
volte la cocciutaggine è anche presagio di disfatte, come spesso accade.
«Devi farti
controllare da un medico.», ripetécon calma e per l'ennesima volta
Claire, togliendole il panno bagnato dalla fronte.
«Non
è niente, vi dico! È solo un po' di febbre.», sbuffò
l'altra, girandosi su un fianco e coprendosi fino sopra le spalle per il
freddo. Era sudata e investita dai brividi. Stava tremendamente male.
Peccato che Erik si
fosse accorto da tempo del suo stato fisico e aveva
premuto affinché Claire la facesse controllare, anche usando la forza se
necessario. Lui sì che si preoccupava per lei, forse anche troppo.
Ed era arrivato il
giorno in cui svenne davanti agli occhi terrorizzati di Rosalinda, che gridò
per tutta la casa che la ragazza si sentiva male, ed
invocando la Madre
de Dios per proteggerla.
«Sophie, perché non
fai come dice Maman?», chiese Meg,
seduta sul bordo del letto. «Solo una visita, per vedere cosa puoi prendere per
guarire.»
«Passerà.»,
borbottò la zingara, nascondendosi la testa col cuscino.
«Oh, potremo
chiedere a monsieur Faucon, il cugino del Visconte.»,
continuò imperterrita madame Giry, facendo roteare gli occhi alla rossa. «È un
medico, se non erro.»
«Sì, hai ragione, Maman! Vado subito ad
chiedere a Rosalinda di informare monsieur de Chagny.», balzò dal letto la
piccola Meg, sparendo due secondi dopo.
«Grazie, eh.», fu
la frecciatina sarcastica di Phénix.
Madame
Giry si mise le braccia sui fianchi. «Lo stiamo facendo per te, mia cara.»
Bagnò il panno in una tinozza d'acqua fredda e le levò il cuscino dalla testa,
per rimetterglielo in fronte e raffreddarla un poco. «Scotti
e la febbre non sembra voler diminuire. Può essere pericoloso.»
«Non voglio
rimanere ferma in un letto!»
«E invece lo farai,
se non vuoi collassare nuovamente.», le disse con calma, spintonandola
lentamente contro il letto, dato che la giovane si era messa a sedere, con il
chiaro intento di alzarsi. «Per fortuna Erik si è
mosso per farmi notare la tua salute! Se avessi aspettato te...»
«Devo ricordarmi di
strangolarlo.»
«No, devi
semplicemente ringraziarlo.»
Phénix si accucciò
in posizione fetale, assumendo un'espressione infantile. «Devo dirgli così
tanti "grazie" che ormai ho perso il conto.»
L'altra donna
sorrise, inchinandosi vicino a lei. «Erik si è
affezionato a te, bambina mia. Ormai farebbe qualsiasi follia pur di vederti
felice. Ti vuole bene, lo sai.»
«Mi vuole bene...», ripeté, chiudendo gli occhi per immaginarlo meglio.
Non riusciva a pensare ad altro ormai. Lo sguardo furente di quando Davìd
l'aveva scovata, e quell'espressione diabolica in viso per la rabbia... era
spaventoso, così adirato. Ma l'affascinava anche per
quello. E quando i suoi occhi acquamarina risplendevano calmi come un lago, il
suo sorriso dolce, il calore delle sue braccia? Era incredibile come sapeva
accendersi come un fuoco e raffreddarsi subito dopo con una facilità
disarmante, rendendolo lunatico e adorabile nel contempo.
Neanche il suo aspetto scoperto da poco, senza quella maschera a coprirgli il
volto, l'aveva disgustata, anzi. Se possibile vederlo così le aveva fatto
completamente perdere la testa. Era dolce e indifeso, senza quell'oggetto che
gli conferiva quell'aria misteriosa e sinistra, veramente troppotenero per i suoi gusti. Quale strano sortilegio le aveva
fatto per ammaliarla così? Era lei la strega della situazione, non lui!
Ma
ora era arrivato quello strano male a sfiancarla, sperava vivamente che
passasse tutto in fretta pur di rivederlo.
Monsieur
Faucon giunse in casa qualche ora dopo, portandosi dietro una valigetta in
pelle piena di arnesi e medicine di soccorso.
Phénix sentiva di
non andare a genio a quell'uomo, ma si sforzò in tutti i modi di essere gentile
e disponibile, per non attirare altra attenzione su di sé. Ne aveva abbastanza
delle insinuazioni sul suo conto da parte di Françoise, non voleva che anche
Faucon ci mettesse del suo.
«Bonjour, mademoiselle Rembrant.», esordì cortese il medico,
mentre s'inchinava lievemente in segno di saluto.
«Buongiorno a voi, monsieur.», rispose lei, mettendosi a sedere. Vide con la
coda dell'occhio madame Giry che si accostava ai piedi
del letto, per intervenire in caso di necessità, e gliene fu tacitamente grata.
«Dunque,
quali sono i sintomi?», chiese Faucon, tirando fuori lo stetoscopio, oggetto
che Phénix non aveva mai visto e che, in un primo momento, la spiazzò non poco.
«Solo un po' di
tosse ogni tanto, niente di che.» Madame Giry le
lanciò un'occhiata eloquente, rimproverandola. «E tanta stanchezza, anche.»
Faucon annuì,
assimilando la cosa. «Dovrei chiedervi di scoprirvi il torace, mademoiselle.»
Phénix guardò allarmata l'altra donna, che le sorrise per rassicurarla.
Riluttante, la rossa si spogliò della parte superiore della camicia da notte,
arrossendo peggio dei suoi capelli quando l'uomo avvicinò lo stetoscopio sul
petto, per sentirle i polmoni.
«Ora
respirate con la bocca, profondamente. Bene, continuate finché non vi dico di
smettere.»
Phénix si sentì un
po' ridicola, a pensarci bene, ma evidentemente serviva affinché la visita
andasse a buon fine. Lei, del resto, non aveva mai avuto il piacere di farsi
controllare da un medico.
«Da quanto tempo è
iniziata la tosse?»
«Non saprei...» La ragazza si strinse nelle spalle, pensando. «Più di
un mese, ma non così frequentemente.»
«E non siete mai andata a farvi controllare?», esclamò indispettito Faucon,
mettendosi dritto sulla schiena.
Phénix balbettò un
innocente no, pensando che nessun medico l'avrebbe voluta visitare qualche mese
prima.
«Aprite bene la
bocca, ora.» Faucon le poggiò sulla lingua una stecchetta di legno e le
controllò la gola per qualche secondo. Poi le batté sulla schiena due dita,
scuotendo il capo. «Potete coprirvi ora.»
Phénix obbedì
subito, decisa a porre fine a quella situazione alquanto imbarazzante. Nessun
estraneo l'aveva mai vista mezza nuda!
«Mademoiselle, sarò
onesto con voi.», disse il medico, ritirando i suoi strumenti di lavoro. «Noto con disappunto che siete molto magra e pallida; per
non parlare delle condizioni in cui versano i vostri polmoni. Avete mai tossito sangue?»
Claire trasalì a
quella domanda e strinse convulsamente i pugni contro la stoffa del suo abito
scuro, temendo la conclusione di quel discorso.
«No, mai...»
«La cosa fa ben
sperare, allora, ma Mademoiselle Rembrant... non posso
dirlo con certezza, ma avete tutti i sintomi della tubercolosi polmonare. Forse
la conoscerete con il nome di tisi.»
«Oh Dio...», mormorò Claire, poggiandosi contro il muro, spiazzata.
La ragazza non aprì
bocca, non capendo esattamente la gravità della situazione.
«Purtroppo ancora
non si conoscono rimedi efficaci per curare questa malattia.», proseguì il
medico, schiarendosi la voce. «Ma alcuni studiosi stanno cercando di trovare
una soluzione.»
«State dicendo
che... non posso essere curata?», chiese a gola secca Phénix, per la prima
volta in vita sua spaventata all’idea di morire.
«Sto dicendo che la
tubercolosi è una brutta bestia, ma faremo il possibile per aiutarvi.» Faucon si voltò verso madame
Giry. «Madame, pregherei voi e la vostra famiglia di coprirvi le vie
respiratorie con qualcosa se doveste stare a stretto contatto con mademoiselle,
anche se non è detto che verrete contagiate, vedo che voi non avete sintomi.»,
disse scrivendo qualcosa in un foglio. «E comprate
questa medicina. Aiuta a rallentare la corsa della malattia.»
Claire annuì,
guardando preoccupata la giovane, immobile sul suo letto.
«Mi raccomando, mangiate sano e soprattutto molto, anche se non ne sentite
lo stimolo, o vi indebolirete ancora di più.», continuò l'uomo, continuando a
scrivere. «E prendete regolarmente questo antibiotico,
per ora è il massimo che posso fare. Oh, è ovvio che dovrete starvene al caldo,
siamo d'accordo?»
Phénix annuì,
ricambiando la stretta di mano che il medico le porse, e guardò la sua schiena
che spariva dietro la porta. Rimase inebetita per qualche minuto, incapace di
muovere un solo muscolo. Aveva paura, una
tremendissima paura. Paura di ammalarsi gravemente, di non poter dare la svolta
decisiva alla sua vita, finalmente cambiata, di non poter più vedere l'uomo di
cui si era innamorata - ebbene, ormai non poteva più negarlo. Perché proprio
ora che tutto stava andando per il meglio doveva sgretolarsi in un istante
davanti ai suoi occhi? Si sentiva impotente ed
arrabbiata con chiunque fosse stato l'artefice di tutto. E che questo si
chiamasse Dio o Belzebù, non le importava.
Quella notte non
chiuse occhio, neanche dopo le parole rassicuranti che madame
Giry le disse per farla tranquillizzare almeno un po'. Riacquistò un po' di
vitalità solo quando si accorse che qualcuno di sua conoscenza bussava alla
finestra di camera sua.
Erik non fece
neanche in tempo ad entrare che Phénix gli si era già
buttata tra le braccia, piangendo nervosamente. La strinse forte contro di sé,
soffrendo ad ogni nuovo singhiozzo della ragazza, come
se fosse stato lui l'ammalato disperato.
«Ho paura... Erik,
ho paura...»
«Shh, bambina mia. Ci sono qui io, ora.», le sussurrò dolcemente in un orecchio, cullandola con
lentezza nel suo abbraccio.
Come risvegliata,
Phénix sgranò gli occhi e balzò indietro, con le mani sulla bocca. «Erik, non dovresti essere qui! Potrei contagiarti! Il
dottore ha detto che...»
Erik non sentì
niente di quello che la ragazza aveva iniziato a blaterare. L'unico modo che
conosceva in quel momento per zittirla una buona volta era uno ed uno solo. E sortì l'effetto desiderato immediatamente.
Le sue labbra le ricordava esattamente così, morbide e carnose. Con la
differenza che fu lui a farle tremare sotto le sue carezze, ad
indugiare con lentezza prima che lei iniziasse a ricambiare quel bacio
infuocato con il suo stesso ardore. Fu come ritornare a bere dopo giorni e giorni, e si sentì morire di felicità quando Phénix si
strinse di più contro il suo torace, fremendo al tocco delle sue mani che
percorrevano audacemente la schiena. Da troppo tempo avevano agognato quel
momento, da troppo tempo avevano nascosto i loro desideri per non rischiare di
rovinare tutto.
Un bacio ha lo
stesso magico potere di far dimenticare qualsiasi cosa che non sia la persona
che si ha tra le braccia. Ed entrambi si dimenticarono di chi fossero, degli ultimi avvenimenti, della notizia sulla
malattia di lei... niente in quel momento aveva più importanza di quelle dolci
carezze che si stavano scambiando, e che avevano la stessa forza di una
promessa indissolubile.
Non ti lascerò mai, qualunque cosa accada.
Phénix pianse a quelle
parole sussurrate. Lo strinse forte, temendo che sparisse da un momento
all'altro, sperando che quell'abbraccio servisse a scacciare chiunque volesse
portarla via dal mondo, lontana da lui e dalla sua musica, proprio quando era
tornata a vivere, quando era rinata e aveva scoperto cosa significasse avere
qualcuno da amare...
«Erik, non voglio
morire.», gli mormorò contro le sue labbra. «È già quasi successo anni fa, non
voglio morire.»
Non comprese
appieno le sue parole, ma non ci pensò sopra molto. «Non morirai,mon ange. Non ora che ti ho trovata.»
«Rimani
con me. Ti prego.»
Erik abbassò lo
sguardo sul suo viso rigato dalle lacrime e glielo asciugò con i pollici. Baciò
ancora una volta le sue labbra arrossate per quella dolce tortura e sorrise.
Phénix pensò che
fosse di una bellezza sconvolgente con quell'espressione di beata felicità che
gli si era dipinta in viso. Poteva il volto di un uomo che non sorrideva da una
vita ritornare quello di un bambino felice e spensierato?
«Mi prometti che
non piangerai più?»
La ragazza annuì,
sorridendo tra le lacrime. Lo prese per mano e lo fece
sdraiare accanto a sé, lasciandosi avvolgere dal suo caldo abbraccio che la
strinse possessivamente, quasi come se stentasse a credere che lei era lì, con
lui, come se avesse paura che potesse svanire ed essere solo frutto di un suo
splendido sogno.
Gli tolse con
delicatezza la maschera che gli copriva la consueta metà destra, facendogli
chiudere gli occhi, come se ancora temesse una qualche reazione da parte sua. Ma Phénix gli sorrideva e pensò che non ci fosse sensazione
più bella di quella del sentirsi osservato senza suscitare pietà o peggio
ancora orrore.
«Grazie di tutto,
Erik.», gli sussurrò, accoccolandosi meglio tra le sue braccia ed inspirando a fondo il suo profumo che tanto adorava.
Lui, in risposta, si chinò su di lei per baciarla ancora, e
ancora una volta, come se quel gesto potesse essere l’unico in grado di dargli
forza.
Continua...
A
meno che la mia testa mi faccia dimenticare tutto, ho deciso
di aggiornare più speditamente questi ultimi capitoli che mancano (sei,
compreso l'epilogo), perché presto avrò poco tempo libero, immagino, e ho in
programma di scrivere qualche altra storiella, quindi non vorrei ritardare
ulteriormente quelle che ho già in cantiere. :)
Madame
Giry chiuse con lentezza la porta della camera di Phénix, dopo aver controllato
che stesse bene. Era tutto il pomeriggio che dormiva, del resto, e doveva
assicurarsi che non fosse morta nel frattempo senza che se ne accorgesse. Scese
le scale, diretta verso la cucina, dove trovò Rosalinda intenta a preparare un
dolce calorico per la loro ospite.
«Perdonateme, señora, se
non vi ho chiesto el permesso, ma la chica è debole,
come sapete.»
«Non preoccupatevi,
Rosalinda, ve l'avrei chiesto comunque.», fece la donna, prendendo
posto su una sedia e guardando le sapienti mani della domestica che mescolavano
la futura torta.
«Come sta la chica?», chiese
l'altra, continuando ad impastare, le guance piene e
rosse per l'impegno.
«Oh,
credo bene. Monsieur Faucon mi ha detto che si tratta
solo di una leggera polmonite che passerà presto, se continuerà a prendere le
medicine. Ormai il peggio è alle spalle.»
«Meno male, sono
così in pena!»
Claire sorrise,
pensando a quello che era stato l'ennesimo piano di Erik. Secondo lui se Phénix
avesse scoperto di essere gravemente malata, avrebbe
seguito docilmente le cure; viceversa avrebbe continuato a fare di testa sua,
aggravando la situazione per davvero. Faucon era stato avvertito della
testardaggine della zingara e, seppur riluttante all'inizio, aveva
acconsentito a reggere il gioco. Sperava solo che Phénix non venisse a
sapere anche quella verità, altrimenti sarebbero stati guai per tutti. Giocare
col fuoco, del resto, non è mai stato
saggio, lo sapevano entrambi bene.
L'altra cosa che la
preoccupava, poi, era quello che era sicuramente successo
qualche notte prima. Sapeva che Erik era stato da lei la sera della scoperta
della "malattia" e quelle successive, ma non sapeva se esserne felice
o meno. La situazione stava pian piano degenerando e temeva che tutti i nodi, prima o poi, sarebbero venuti al pettine. Non voleva che
Erik stesse male ancora una volta, quello sarebbe stato il colpo di grazia ad una vita che aveva già sofferto troppo in passato; così
come non voleva perdere quella cara ragazza che aveva imparato ad amare come
una figlia.
«Oh, señora, c'è il Monsieur
che vi aspetta.»
Claire alzò lo
sguardo verso la domestica, che sapeva bene del rapporto con Erik e del fatto
che avrebbe dovuto tenere a freno la lingua. «Grazie, Rosalinda, grazie di
tutto.»
La donna fece
spallucce. «Finché non me tocca, io non parlo.»
Erik la stava
aspettando nella cantina, avvolto completamente nel suo mantello nero. «C'è un
problema.», esordì l'uomo, prima ancora che l'altra potesse aprire bocca.
«Se ti riferisci al
fatto che è ancora presto per andare in giro per Parigi senza essere
riconosciuto, sono perfettamente d'accordo con te.»
«Non è quello di
cui voglio parlare.» Il tono di Erik era duro, non senza una venatura di preoccupazione
nella voce, che la fece tremare. «Ho visto Lucas gironzolare intorno alla tua
casa.»
«Lucas?
Intendi il figlio di quello zingaro?»
Erik annuì, tirando
un pugno all'innocente tavolo in legno che per sua
sfortuna gli era accanto. «E se me la dovesse portare via?»
Claire lo guardò
severamente. «Sapevi bene come sarebbe potuta andare a
finire questa storia. Non è tanto il fatto che possano portartela via,
quanto il fatto che la ragazza scopra quello che le hai sempre tenuto nascosto.
Credo che sia peggio avere il suo odio che non averla per niente, non trovi?»
Erik si sedette, le
mani tra i capelli in un moto di disperazione. «Ho
paura di aver sbagliato tutto, Claire. Ho paura di perdere quello che ho
guadagnato con fatica, ancora una volta.»
Il fatto che Erik
le stesse confidando così apertamente le sue paure la fece
rabbrividire. Non ricordava che l'avesse mai fatto con così tanta disperazione
e pregò Dio o chi per lui che tutto potesse risolversi per il meglio. Un Erik le cui difese crollavano così platealmente era anche
un Erik pericoloso. «Dammi retta, amico mio. Parlale
con tutta la sincerità di cui disponi. Dille che volevi proteggerla e che
presto le avresti spiegato cosa accadde quando ancora era piccola. Sei una
persona buona e anche lei lo è; son sicura che
capirà.»
La porta della
cantina venne sbattuta con forza e Phénix si mostrò ai
due, con le lacrime agli occhi e uno sguardo che più furente di così non poteva
essere. «Cosa dovrei capire? Che mi avete mentito
entrambi?»
Erik non riuscì a
far altro se non sbarrare gli occhi, atterrito, mentre Madame
Giry tratteneva il respiro.
Quando si gioca troppo col fuoco...
«Credevate che non
lo avrei scoperto, prima o poi? Che non avrei
ricollegato quel bambino a te, Erik? Mi credevi tanto stupida?!»
Phénix piangeva, piangeva disperatamente, mentre a stento riusciva a parlare
tra un singhiozzo e l'altro.
...prima o poi ci si scotta.
«Phénix, per favore...»
«Voi non osate parlare, Claire! Non osate!», gridò
la zingara, coprendosi il viso con le mani. Quando Erik sentì su di sé quegli
occhi verdi ridotti ad una fessura, che proprio le
scorse notti l'avevano guardato con dolcezza, provò l'irrefrenabile desiderio
di morire. «Sei tu il bambino... tu mi hai mentito,
Erik. Io... io mi fidavo di te... ti ho dato la mia vita...» La ragazza strinse i pugni,
ferendosi con le proprie unghie. «Sai cosa abbia significato per me... dare la mia vita ad uno sconosciuto?»
Erik riuscì ad
alzarsi lentamente, come se qualcuno bloccasse i suoi movimenti e gli impedisse
qualsiasi gesto. «Phénix... perdonami, io...»
«No.», disse
risoluta lei, alzando una mano per farlo tacere e cercando invano di frenare le
lacrime. «Mi hai mentito e dovrei ucciderti, Erik. Lo
ricordi, vero? Ho promesso... l'ho promesso a loro.»
Erik allargò le
braccia, aspettando. «Lo so. E non mi tirerò indietro,
se è questo che vuoi.»
La ragazza si
morsicò un labbro per non riprendere a piangere. «Se solo me l'avessi detto... se
solo ti fossi fidato di me...» Respirò profondamente,
per placare il pianto, per poco che servisse. «E dire
che io...», mormorò, chinando il capo.
«Phénix...»
«No, no! Ti odio,
Erik! Vai all'Inferno!», esclamò, correndo via.
Lui non resistette
più e cadde sulle ginocchia, incapace di reagire, incapace
di rincorrerla per fermarla. Si sentì svuotato di tutte le forze, fisiche e
mentali. Avrebbe voluto bloccarla per spiegarle tutto, per dirle che aveva
avuto paura di confessarle la verità all’inizio, che si era affezionato a lei
troppo in fretta per rischiare di rovinare tutto, che l'amava
per farla soffrire.
Ma
non fece niente. Si comportò come il peggior codardo del mondo e si odiò ancora
di più.
All'Inferno ci sono già, Phénix. Ci sono già.
E dire che io...
La ragazza correva
per le strade di Parigi, lontano da quella casa, lontano da quella vita che
aveva scoperto da poco, ma che si era rivelata solo una mera illusione. Non
poteva credere che a mentirle fosse stato proprio lui, l'uomo di cui si era
fidata di più in tutta la sua vita; non poteva credere che fosse stata così
stolta da non collegare quello stesso uomo con il bambino dal viso deforme. Bugiardo, era solo un maledetto bugiardo!
E dire che io mi
sono innamorata di te...
Soffocò un grido di
dolore mentre continuava a correre, diretta verso
l'abitazione della nonna. Non si curò delle persone
che avrebbe potuto incontrare, che avrebbero potuto riconoscerla come la
zingara dai capelli rossi. Ora come ora non poteva importarle nulla.
Quando la nonna la
vide in quello stato capì cosa fosse successo. Sapeva
che sarebbe andata a finire così, lei sapeva sempre tutto.
«Quindi
tu... avevi capito.», mormorò Phénix, una volta che il pianto le passò, davanti
ad una tazza calda di the.
«Mi dispiace, piccola mia. Ma non ne ero sicura.
Quando mi nominasti Erik mi venne in mente quel
bambino, si chiamava proprio così. E aveva il viso deformato, proprio come lui.
Ma non potevo dirtelo senza sicurezze. E non volevo
rovinare il tuo bel momento di felicità.»
«Capisco... ma ha
pensato bene lui di rovinare tutto.» Si asciugò le guance con il palmo delle mani, prima di parlare
ancora. «Posso rimanere qui per qualche tempo? Ho
intenzione di lasciare Parigi... ormai ho capito che questa città non fa per
me.»
La nonna la guardò
bonaria. «Puoi restare quanto tempo ti pare, sciocca.»
«Grazie.», sussurrò
in un sorriso tirato.
«E dimmi, dove hai
intenzione di andare?»
Phénix non fece in
tempo a rispondere, che qualcuno dalle mani pesanti bussò con forza alla porta
sgangherata di legno. Guardò con paura verso l'ingresso, temendo che Erik
l'avesse seguita e che ora la volesse portare via con la forza.
«Chi è là?», chiese
a gran voce la nonna, attendendo risposta.
«Sono
io, Lucas. Fammi entrare, vecchia.»
Phénix sbarrò gli
occhi, e pensò che forse avrebbe provato più sollievo nel rivedere Erik che
quell'uomo.
«Cosa
vuoi?», continuò la nonna, non aprendo la porta.
«Sai
bene cosa voglio. C'è Phénix in casa, vero? Non farmi perdere tempo. O
preferisci che butti giù il muro?»
Phénix guardò la
nonna e acconsentì con lo sguardo a farlo entrare. Vederlo dopo tutto quel
tempo non fece altro che spaventarla ancora di più. Lo sguardo da folle e da
gran mascalzone non gli era scomparso, anzi; il ghigno che gli spuntò sulle
labbra appena la vide lo fece sembrare ancora più malevolo.
«Salve
Phénix. Tutto bene? Mi sembri scossa.», esordì, quasi
allegro di vederla in quello stato.
«Puoi
anche andartene, Lucas. Non ho intenzione di seguirti.»
«No?
Peccato, speravo di non usare le maniere forti, mia cara. Sai quanto tengo a
te.»
«Oh,
immagino. Ci tieni così tanto da farmi picchiare dai
tuoi cugini, vero?»
Lucas assottigliò
gli occhi. «Non ho mai ordinato che ti venisse torto
un capello, ingrata! Mai!»
Scrollando le
spalle, Phénix voltò il viso, senza una parola. Era un uomo di parola, lo
sapeva, ma non aveva alcuna intenzione di dargli ascolto, non in quel pessimo
momento.
«Che sei venuto a
fare?», chiese burbera la nonna, a cui non era mai
piaciuto quell'uomo.
«Stai
zitta, vecchia. Non sono qui per te.»
«Abbi almeno un po'
di rispetto nei confronti di mia nonna!», esclamò Phénix, alzandosi e piantandosi
sotto il suo naso, i pugni stretti per la rabbia e la stizza.
Lucas
sorrise perfido, inchinandosi in segno di scuse. «Perdonami,
mia cara, ma divento parecchio suscettibile quando vengo
incolpato di fatti che non sono mai accaduti.»
«Perché sei qui?»,
domandò stancamente la ragazza, incrociando le braccia.
«Perché
sono venuto ad aiutarti nel momento del bisogno. Voglio darti una mano a
vendicare i tuoi genitori, i miei cugini e... mio padre.»
Phénix non capì,
corrugando la fronte. «Tuo padre?»
«Chi credi che
fosse l'uomo che quel mostro uccise quando eri ancora una mocciosa di due
anni?», tuonò Lucas, facendola arretrare di qualche passo.
Lei sgranò gli
occhi, interdetta. «Non me l’hai mai detto...»
«A quanto pare
nemmeno lui te ne ha parlato.», ribatté, secco. Poi, con un sorriso sbilenco,
aggiunse: «Ah, già. Non ti ha detto parecchie cose.»
Fu in quel momento
che tutto le fu chiaro. Il perché Lucas odiasse tanto
il Figlio del Diavolo, perché fosse cresciuto con quel brutto carattere
vendicativo e cattivo, perché continuasse a maledire quell'uomo che lei non
aveva mai visto ma che sembrava veramente il diavolo in persona. Erik, quel
giorno, non aveva mandato alla morte solo i suoi genitori, ma anche il padre
dell'uomo che ora le stava di fronte. Ma, a differenza
di quello che Lucas potesse pensare, lei non provò pena per la sua situazione,
bensì ne fu sollevata. Perché se da una parte non riusciva a perdonargli il
fatto di non averle detto la verità, ora che sapeva che Erik era stato usato
come il burattino di turno da parte di suo padre e da parte
di Lucas stesso, era più imbestialita che mai.
«Quel
mostro sfigurato avrebbe dovuto essere più che felice di essere d'aiuto al
nostro circo! Sai quanti soldi ci ha portato? E lui che ha fatto? Ha ucciso chi
gli stava dando il pane. Ti sembra giusto, Phénix?»
«E a te sembra
giusto che per vivere si debba deridere chi è meno fortunato di te?»
Lui divenne serio
tutto d'un tratto. «Lo stai difendendo, per caso?»
«Mi fai schifo, Lucas.»
Lo schiaffo che
ricevette dopo fu talmente forte da farle girare la testa. Stordita, non capì
subito cosa accadde dopo; ma fu sufficiente sentire un gemito soffocato di
dolore da parte della nonna e il tonfo sordo di quando cadde senza vita a
terra, a farla tornare lucida. «Nonna!», gridò, precipitandosi verso l'anziana
donna, ferita all'addome da una pugnalata. «Nonna, resisti, ti prego... non
lasciarmi anche tu...»
Lucas le arrivò
dietro, prendendola per la collottola e alzandola da terra. «Mai provare a
colpirmi alle spalle.», le disse, perfido. «Inoltre sbaglio o avevo un conto in
sospeso con quella vecchia?»
Phénix si morse il
labbro inferiore appena si accorse dello sguardo dell’altro, ma cercò di
ribellarsi e di non pensare al passato. Non poteva permettersi debolezze, non
in quel momento. «Lasciami!», gridò con tutte le sue forze, provando a
divincolarsi dalle grinfie di quell'uomo troppo forte per lei.
Lucas le bloccò i
polsi dietro la schiena e la fece cadere all'indietro contro il materasso
logoro della stanza. «Ora tu fai quello che ti dico, chiaro?», le sussurrò ad un orecchio, facendola rabbrividire per la paura quando
si accorse della lama sporca di sangue che le puntava alla gola. «Chiaro?»
Phénix dovette
annuire, vedendosi al momento senza via di fuga.
«Brava, bambina.»,
disse soddisfatto, dandole un bacio sulle labbra che la fece gemere dal disappunto.
«Sai, ho in mente tanti progetti, ora che sei di nuovo
con me. Non vedo l'ora di metterli in atto. Prima di tutto
fare fuori quell'assassino. E dire che pensavo fosse già morto!»
Con il pugnale
tenuto saldamente contro la sua schiena, Lucas le ordinò di alzarsi e di
camminare. Phénix si vide costretta ad obbedire, non riuscendo
però a staccare lo sguardo dal corpo esanime della nonna. Quando uscirono dal
vecchio edificio la luna venne oscurata da delle
nuvole nere, cosa che non le piacque. Sapeva interpretare il comportamento del
cielo, proprio come sapeva capire un uomo guardandolo negli occhi. Quel cielo
terso non le faceva presagire niente di buono.
«Dante!», esclamò
tutto d’un tratto la zingara, facendo trasalire l’uomo
che aveva al fianco.
«Che?», chiese
scocciato Lucas.
«Dante,
il mio gatto! L’ho lasciato a casa Giry...»
L’uomo la guardò
perplesso. «Non credere che sia così stupido da lasciarti andare a riprenderlo
da sola.»
«Non
intendo scappare, Lucas. A che scopo?», chiese più a sé
stessa che a lui. Non aveva più niente, scappare sarebbe servito solo a
peggiorare le cose.
«Brava,
piccola streghetta. Ti troverei comunque, anche se riuscissi a scapparmi.», le sussurrò. «Dato che sei così docile
ti accompagno a recuperare quella palla di pelo nera che ti piace portarti
dietro. Anche se ammetto che non mi sia mai stato simpatico.»
Phénix fece una
smorfia, guardandolo sbieca. «Se è per questo neanche tu
gli stai a genio.»
«Lo sospettavo.»
Camminarono in
silenzio attraverso le vie deserte di Parigi. Phénix sperò ardentemente di non
vedere ombre ammantate sparire dietro qualche vicolo; non avrebbe retto oltre.
«Ora, bambina, fai
la brava.» Lucas le girò un braccio intorno alla vita e l’avvicinò
al suo corpo una volta arrivati davanti alla lussuosa porta in legno in Cité d'Antin.
Phénix, prima di
bussare, prese un bel respiro e le venne in mente quella stessa notte in cui
tutto era cambiato, quando era ancora una ragazza perduta che aveva trovato nel
suo cammino una luce da seguire. Quella luce che l’aveva tradita, spegnendosi
proprio ora che ne aveva più bisogno.
«Ah, dì una sola
parola che sei con me contro la tua volontà o fai qualcosa per fuggire... e io agirò di conseguenza, intesi?» Phénix si vide costretta
ad annuire e lui sorrise soddisfatto. «Vedo che sei ragionevole come sempre.»
Fece appena in
tempo a finire la frase, mentre la ragazza bussava, che una Claire
Giry sconvolta aprì loro la porta. Stava per sciogliersi in un sorriso alla
vista della fanciulla, ma tutto morì istantaneamente
appena la vide accompagnata da quell’uomo che, per quanto affascinante fosse,
non prometteva niente di buono.
«Sono venuta a
riprendermi le mie cose.», disse con un tono freddo e pungente la zingara,
sorpassandola senza uno sguardo in più, seguita da Lucas che, invece, non le
tolse gli occhi di dosso, con quello sguardo da impertinente che si ritrovava
in stampato in viso.
«Gran
bella casa! Quasi quasi è meglio dei sotterranei
delle fogne, non trovi mia cara?», chiese Lucas,
curiosando in giro, mentre Phénix saliva le scale verso la soffitta.
Claire guardò
preoccupata e stizzita l’uomo, che invece sembrava perfettamente a suo agio. E
così era quello il ragazzo che aveva perso il padre, lo stesso che insieme al
genitore si prendeva beffe di Erik quando ancora era un bambino.
«Lui dov’è?»
La donna trasalì,
ma cercò come sempre di non darlo a vedere, nascondendo il suo stato d'animo
tormentato in una maschera d'impassibilità. «Di chi parlate?»
Lucas piegò il
labbro in un sorrisino cinico, poggiandosi contro il muro e guardandola
intensamente. «Lo sai di chi sto parlando, donna.»
«No,
non lo so. E se anche lo sapessi me lo terrei per me.»
Claire strinse le labbra in un cipiglio severo e risoluto per cui tanto era
rispettata e conosciuta. Non avrebbe venduto Erik a quell’uomo, tanto meno si
sarebbe fatta mettere i piedi in testa da un disgraziato come quello che aveva
di fronte.
«Mi piacciono le
persone coraggiose e che difendono i propri amici, davvero.», disse Lucas,
serio. «Credo che siano degne del mio rispetto. Ma vedi, ci sono situazioni in cui è meglio mettere da parte
il proprio coraggio e i propri sani e stupidi principi. Questo è uno di quelli,
signora mia. Ora...», continuò, parlando ora con un
po’ più di arroganza e muovendo qualche passo verso di lei. «Dov’è l’uomo che
ha rovinato la mia vita e quella di Phénix?»
«Se non siete
sordo, monsieur, vi ho appena detto che non lo so.»
«Non ti credo.»
Lucas la studiò per qualche secondo, irritato. Poi sorrise, o meglio ghignò. «Tu sai qualcosa, donna. E io lo
scoprirò.»
Phénix scese in
quel momento, con la sua borsa sghemba ed il piccolo
Dante tra le braccia, che per poco non saltò addosso all’uomo per graffiarlo.
Con Erik non faceva così...
«Lo troverò, farò
in modo di trovarlo.», fece Lucas a Claire, che tremò.
«Diteglielo anche. Ovunque egli sia. Andiamo, Phénix.»
«Sophie!
Che succede?»
La rossa si immobilizzò all’istante, terrorizzata nel sentire la voce
preoccupata di Meg.
Torna in camera, ti prego.
Lucas guardò la
ragazza senza celare un certo interesse e le sorrise cortese.
«Sophie, hai detto?»
«Meg,
non mi chiamo Sophie. Ora vattene a dormire.», sbottò
Phénix, maledicendo tutta quella situazione e scusandosi mentalmente per il
tono sgarbato e freddo che le stava rivolgendo. Ma non
voleva che Lucas capisse il loro legame di amicizia e ne approfittasse per
qualche sua stupida idea. Non se lo sarebbe mai perdonato.
«Sophie...»
«Meg, per l’amor
del cielo, tornatene in camera!», esclamò Claire, facendo sobbalzare tutti per
l’improvvisa alzata di voce. La ballerina guardò per un’ultima volta l’amica e
corse su per le scale, intimorita.
Lucas fu l’ultimo ad uscire dalla casa e, con un goffo e provocatorio inchino,
disse: «Bella casa e bella figlia. Arrivederci, signora!»
Claire si accasciò
senza forze contro il divano, subito soccorsa dalla figlia, che non aveva mai
abbandonato un istante della discussione di poco prima.
«Maman, tutto bene?»
«Sì, Meg, è solo un
calo di pressione... Sto bene.»
«Maman, che è successo? Chi era quell’uomo con Sophie?»
«Non lo so, piccola mia.»
«Maman!
Non ti sembra il caso di smetterla di nascondermi tutto?»,
chiese con troppa enfasi la ragazza, sentendo subito il pensante sguardo della
madre premerle contro. «Voglio sapere chi in realtà sia la donna che abbiamo avuto in casa per mesi! Perché è andata via?», aggiunse, ora con un po’ più di tristezza.
«Per colpa mia.»,
dissero all’unisono la madre ed Erik, quest’ultimo comparso in quel momento dal
nulla, il che fece sbiancare in un batter di ciglia la giovane ballerina.
«Erik!» Claire
scattò in piedi nel vederlo ancora lì. Al suo fianco Meg tratteneva il respiro
nel rendersi conto di quanto vicino fosse quell’uomo così pericoloso e che
tutti credevano morto.
«Maman...», mormorò. La madre le strinse una mano per rassicurarla
e poco a poco si rilassò, non fosse che la vista di quell’anima tormentata che
ora si era seduta sul divano, le mani tra i capelli, le fece
capire che in quel momento il Fantasma era tutto tranne che pericoloso. Non
aveva mai visto uno sguardo così triste e perso.
Claire si sedette
accanto a lui, ma non osò sfiorarlo. Vedeva benissimo quanto Erik stesse
trattenendo le lacrime della disperazione, non voleva che crollasse
definitivamente.
«L’ho perduta, Claire. Perduta per sempre.»,
disse con un filo di voce, tanto che la donna faticò a sentirlo.
«Niente è perduto
se non si prova a riprenderselo, Monsieur.», azzardò
timidamente Meg, facendo alzare uno sguardo stupito ad entrambi.
Erik scosse il
capo. «No, mi è stata data una seconda possibilità da
questa vita maledetta, ed io non l’ho saputa usare. O forse è solo uno scherzo
della vita stessa che si prende gioco di me, ancora una volta.»
Il cuore di Meg si
strinse per un incredibile senso di tenerezza e pietà per quell’uomo che non
aveva fatto altro se non seminare il terrore per anni nel suo teatro. Aveva
amato la sua migliore amica con una devozione tale da portarlo alla follia; aveva ucciso, aveva distrutto la sua stessa
casa. Ora sembrava più disperato di prima, ma non
aveva più quella scintilla che l’aveva trasformato in un folle assassino,
viceversa sembrava così abbattuto da non avere più forze per combattere. Era
semplicemente un uomo che aveva perso.
«Voi l’amate?», chiese Meg, avvicinandosi di qualche passo e
inchinandosi davanti a lui. Si sentì spogliata quando lo sguardo umido
dell’uomo si alzava su di lei.
Erik sorrise
amaramente, quasi a farsi beffe di sé stesso. «Mi ha
affidato la sua vita, sapendo chi fossi... Morirei per
lei. Ma ora non serve più. Sono morto nel momento in
cui se n’è andata via da me.»
Continua...
Ahi ahi, le cose si mettono male! Un saluto da
Siviglia, amici e amiche mie! ;)
Phénix pensò che
non fosse umano piangere tante lacrime. Nemmeno credeva di averne così tante in
corpo. Si strinse le gambe al petto e un brivido di
freddo la fece tremare. Era chiusa in un vecchio e piccolo magazzino nel ventre
di Parigi, un tempo la sua camera che divideva con
altre zingare. Ma ora era sola, a piangersi addosso e
a maledire chiunque le avesse affibbiato quella vita schifosa in cui era
imprigionata. Era ben consapevole che prima o poi
Lucas sarebbe ricomparso, soprattutto dopo quello che era successo qualche anno
prima, ma non avrebbe mai immaginato che potesse accadere in quel modo; non
avrebbe mai immaginato che Erik le avesse potuto mentire su una verità così
importante per lei. Si era fidata ciecamente di lui, non le aveva mai dato
un’occasione per pensare il contrario; eppure l’aveva ingannata, aveva
abilmente nascosto il suo passato e toccato raramente quel tasto dolente per
evitare di lasciarsi sfuggire qualsiasi cosa potesse compromettere la sua
menzogna.
Claire Louise Giry
aveva sempre detto che lei fosse una maledettissima curiosa, con il vizio di
ascoltare i discorsi altrui. Ma aveva fatto bene
quella notte ad alzarsi dal suo letto per sentire il discorso tra la donna e
Rosette sul suo stato di salute. Anche su quello le avevano mentito. Quando poi
la domestica aveva nominato il Monsieur la curiosità era diventata irrefrenabile e non aveva
impiegato molto a collegare tutti i pezzi di un puzzle che improvvisamente si
erano fatti chiarissimi ai suoi occhi. Il suo volto deturpato era lo stesso di
quel bambino di nove anni che aveva ucciso il padre di Lucas; quello stesso
omicidio che aveva causato la pena di morte ai suoi innocenti genitori. Ancora
stentava a crederci.
Possibile che tutto
quello che avevano condiviso insieme fosse solo una bugia? Che fosse solo un
meschino metodo per rabbonirla in vista della scoperta della verità? Un modo
come un altro per rinfacciarle tutto l’aiuto che le aveva dato in cambio del
suo perdono? No, non l’avrebbe mai perdonato. Mai.
Un rumore di passi
affrettati le fece alzare il capo dalle ginocchia e rimase in attesa di sentire
altro. Anche il piccolo Dante si svegliò dal suo sonnellino, drizzando le
orecchie in ascolto. Forse Lucas era tornato per scambiare due parole dopo
tutto quel tempo?
Non sentì altro, se
non il ticchettio di qualche goccia che scivolava giù dalle pareti umide.
Phénix si asciugò gli occhi con i palmi delle mani e si alzò silenziosa,
aiutata anche dal fatto che fosse scalza contro la pietra fredda del pavimento.
Scostò la logora tenda che fungeva da porta e guardò il lungo corridoio buio e
fresco di uno dei tanti sotterranei che faceva parte del sistema fognario
parigino. Nessuno, non c’era anima viva.
O quasi.
«Ma-mademoiselle...», sussurrò una
voce alquanto spaventata.
Phénix si voltò di
scatto verso la provenienza del suono e strinse gli occhi verdi, ancora velati
dalle lacrime. Decisamente quello non era né Lucas né
qualcun altro della sua compagnia, dato che nessuno si sarebbe rivolto a lei
con quel tono cordiale, seppur tremolante.
«Chi è là?», chiese
in un bisbiglio, continuando a controllarsi intorno per avvistare qualsiasi
pericolo.
«Sono qui,
mademoiselle Rembrant.»
Phénix guardò alla
sua sinistra, verso un cunicolo buio, stretto e puzzolente in cui riuscì ad intravedere la sagoma di un uomo. «Faucon!
Che ci fate qui?», chiese precipitosa, raggiungendolo
e spingendolo ancora più nel buio. «Qualcuno potrebbe trovarvi.»
Jacques Faucon non
era mai stato un uomo molto coraggioso, ma aveva in comune con la zingara
un’incredibile curiosità. Già da quando aveva letto sul giornale la notizia di
quel duplice omicidio si era incuriosito alla
faccenda; quando poi si era messo in testa che la zingara dai capelli rossi
potesse essere la Sophie
ospite da Madame Giry niente l’aveva fermato dal continuare ad indagare per
conto suo. Quella sera stava andando a trovare la giovane per assicurarsi che
stesse prendendo le medicine che le aveva prescritto,
ma quando l’aveva vista insieme a quell’uomo poco raccomandabile il cuore gli
era balzato in gola per l’adrenalina. Aveva ragione, era lei la zingara! Non ci
aveva pensato su troppo quando aveva deciso di seguirli per capire cosa stesse
succedendo. E ora si trovava lì, invischiato in un bel pasticcio per un uomo
d’alta classe come lui e che si teneva ben lontano dai guai.
«Mademoiselle,
volete spiegarmi che succede?», chiese con il suo solito tono saccente che
tanto la mandava in bestia.
«Non
sono fatti vostri. E ora andatevene.», tagliò corto
lei. «Non voglio più vedervi qui, è chiaro?»
Faucon fece per
ribattere ma i passi pesanti di qualcuno che si stava avvicinando lo zittirono
immediatamente. Phénix lo spintonò via e senza fare
rumore si poggiò contro il muro in pietra. Quando Lucas la vide
incrociò le braccia al petto, avvicinandosi con circospezione.
«Stai ancora
piangendo, mia piccola strega?», le chiese, fermandosi davanti a lei, pochi
passi li separavano.
«Non ti interessa.» Voltò il viso da un’altra parte, ma lui la
costrinse a guardarlo.
«Sì che mi interessa, Phénix. Sei la mia donna, io mi preoccupo per
te.» Le accarezzò con gentilezza una guancia ancora
bagnata dalle lacrime, che asciugò via subito. Phénix pensò che quell’uomo
sarebbe potuto diventare veramente colui che avrebbe
avuto al suo fianco per tutta la vita se solo non fosse cresciuto con tutto
quel risentimento in corpo. Perché in fondo Lucas non era mai stato cattivo con
lei, ma sapeva bene cosa significasse mettergli i bastoni tra le ruote. La
nonna che ancora giaceva sopra il suo sangue era un ottimo esempio.
«Vieni, parliamo un
po’ del nostro comune amico, così cerchiamo di studiare un modo per fargliela
pagare.», le disse con un ghigno che secondo lui avrebbe dovuto rassicurarla.
L’effetto che sortì, invece, fu quello di farla tremare. Perché, ora che ci
pensava, l’idea di uccidere quell’uomo che le aveva mentito sulla cosa per lei
più importante le sembrava solo una follia? Ora che conosceva l’identità del
bambino che aveva cercato per più di venti anni non
pensava che ucciderlo per vendicarsi sarebbe stata una mossa saggia. Anche
perché, pur volendo, non ne avrebbe avuto la forza.
Sì, Erik aveva taciuto, aveva capito e non aveva mai parlato, ma era anche un
uomo che aveva patito troppe sofferenze per una vita sola, e
lei... lei si era affezionata così tanto a lui che non sarebbe riuscita neanche
a torcergli un capello. E la consapevolezza dell’esistenza di questo ascendente potente che Erik aveva su di lei la
spaventava a morte, quasi quanto l’idea di saperlo morto.
Tuttavia fu
costretta a seguire quell’uomo che detestava con tutte le sue forze e si
appuntò mentalmente di stare attenta a quello che avrebbe detto. Non poteva
rischiare di farsi sfuggire qualche particolare importante sul conto di Erik
che avrebbe potuto metterlo in pericolo. Perché per quanto Erik fosse il Fantasma
dell’Opera sapeva bene quanto Lucas si sarebbe
intestardito pur di farla pagare all’uomo che aveva ucciso suo padre.
Erano giorni che
non si muoveva da lì. Seduto davanti al suo organo, con lo sguardo vacuo e
perso di chi non aveva altre ragioni per andare avanti, di chi non sapeva dove
sbattere la testa per riprendere in mano la propria vita. Guardava i tasti
ingialliti del maestoso strumento, ma non li vedeva. I suoi occhi erano
appannati, le sue orecchie ovattate sentivano solo le grida di quella giovane a cui aveva spezzato il cuore...
Ti odio, Erik! Vai all’Inferno!,
gli aveva gridato, con così tanto dolore che gli mancava il respiro al solo
pensiero. Non aveva più forze, né fisiche né morali, non un unico motivo valido
per andare avanti. Lei se n’era andata e non l’avrebbe voluto più vedere. Anzi,
desiderava vederlo morto.
Ma
lui era già morto.
Lui era un fantasma.
Si mise le mani tra i capelli spettinati e poggiò i gomiti sui
tasti dell’organo, che lanciò un suono sordo e profondo che risuonò per tutta
la grotta. Non era possibile, no... Era un incubo, un
bruttissimo incubo. Perché non poteva credere che proprio nel momento in cui
stava tutto andando alla perfezione la vita avesse voluto giocargli l’ennesimo
scherzo. Aveva trovato qualcuno da proteggere, da amare, qualcuno per cui avrebbe fatto di tutto pur di renderlo
felice... qualcuno che lo apprezzava per quello che realmente era.
Phénix...
Era talmente fuori
dal mondo che non sentì neanche i leggeri passi di ballerina che si muovevano
verso di lui, con cautela e timore.
«Erik...» Christine gli si avvicinò con le mani chiuse in un
pugno per la rabbia e la tristezza. Non poteva sopportare di vederlo in quello
stato, non dopo quello che già lei gli aveva fatto
passare. «Erik... mi sentite?» Gli posò una mano sulla spalla, ma lui non si
mosse. Non sembrava né sentirla né vederla. «Erik, per favore, reagite...» Lo scrollò lievemente e solo allora lui sembrò
risvegliarsi da quello stato di shock in cui riversava da un paio di giorni.
Si voltò a guardarla
con lentezza e Christine si coprì le labbra con le
mani nel vedere quegli occhi così carichi di tristezza.
«Christine...», sussurrò con voce roca, di chi non parlava da tempo.
«Cosa... Cosa fai qui?»
Lei represse un
singhiozzo di commozione e gli accarezzò il braccio che poco prima aveva
scosso. «Sono preoccupata per voi. Tutti lo siamo.»
Erik sembrò
interessarsi solo allora della sua presenza. Aggrottò entrambe le sopracciglia.
«Tutti?»
«Sì, io, Madame Giry, Meg... Claire mi ha raccontato tutto. Mi dispiace.»Christine si mordicchiò nervosamente il
labbro quando lui abbassò lo sguardo e sorrise mestamente. Non aveva mai
visto un sorriso più spento e finto di quello.
«Non
essere in pena per me, angelo mio. Non ne vale la pena.»
«Oh,
Erik! Non dite stupidaggini!», esclamò la ragazza,
rossa in viso per la frustrazione. «È lei la Salvezza di cui mi
parlaste tempo fa, vero?»
«Christine,
torna dal tuo fidanzato. Non c’è niente che tu possa fare per me.»
«È lei, vero?»,
continuò imperterrita.
Erik sospirò profondamente,
voltando lo sguardo verso l’acqua che brillava per effetto delle candele accese
e consumate, ed annuì con lentezza.
«Allora andate a
riprendervela.»
Lui la guardò con
occhi stupiti per il tono duro e deciso che sembrava non appartenerle. Andare a
riprenderla? Con quale diritto? «Non posso, io... non posso.»
«Per l’amor di Dio,
non siete voi l’uomo che ha mandato a fuoco il suo stesso teatro per
conquistare la donna che amava?», strillò Christine,
ormai le lacrime che scendevano senza sosta lungo le guance arrossate. «Se è
vero che è grazie a Soph... Phénix che avete ricominciato a vivere, se è vero che l’amate... allora dimostratelo.»
Lui scosse la
testa, impercettibilmente. «Perché lo fai?»
Christine si lasciò
andare ad un sorriso. «Perché vi voglio bene e se ci
fosse qualcosa che potrei fare per vedervi felice non esiterei un attimo.»
Erik deglutì a
fatica, ma non riuscì a dire niente, dato che qualcuno
si stava avvicinando a gran fretta alla sua dimora. Scattò in piedi appena Claire
sbucò trafelata e con uno sguardo terrorizzato che mai le aveva visto in viso.
«Claire...»
«Meg... Meg, l’hanno presa!»
Christine trattenne
il fiato, gli occhi sbarrati per l’apprensione, mentre Erik, al suo fianco
s’irrigidì di colpo. «Chi?»
«Lui, Lucas.»,
soffiò Louise, prima di accasciarsi sul pavimento di pietra, per un calo di
pressione. Erik si precipitò a soccorrerla, prendendola in braccio e portandola
sul suo letto. Christine, intanto, aveva raccolto in un
contenitore un po’ di acqua e ci aveva bagnato un pezzo del suo abito,
che aveva prontamente strappato.
Erik tornò con una
fialetta di liquore, che usò per bagnarle le labbra e per farglielo annusare. Claire
riprese coscienza solo una decina di minuti dopo, completamente sudata.
«Erik, non... non andare da lui.», sussurrò, preoccupata. «È una
trappola, è solo un modo per prenderti.»
«Non mi interessa, Claire. So difendermi.»
Christine alzò lo
sguardo su quell’uomo che aveva riacquistato in così poco tempo la sicurezza e
l’autorità di cui andava fiero e tremò al pensiero dei suoi metodi difensivi.
«Erik, non capisci...
Ti vuole morto, Faucon l’ha sentito.», continuò la
donna.
«Chi?»
Christine la guardò
senza capire. «Monsieur Faucon? Dove l’ha sentito?
Come?»
«Li ha seguiti,
qualche giorno fa e sa anche come tornare al loro accampamento.», spiegò la
donna, prendendo un bel respiro e chiudendo gli occhi per un lieve giramento di
testa. «Per questo ti dico di non andare, Erik. Raoul
e i soldati si stanno già preparando per l’incursione, lascia fare a loro.»
«No.», fu la secca
risposta dell’uomo, che non voleva sentire ragioni. «Tua
figlia è in pericolo per causa mia,
sempre e solo per questo. Non permetterò a Lucas né a nessun altro di farle del
male.»
«Erik, per favore...»
«Claire
Louise Giry, non voglio ripetermi. Ora ti riporto di sopra così ti farai
medicare. Christine, tu seguimi.» Erik prese
nuovamente in braccio la donna e si incamminò con una
certa fretta e attenzione per i cunicoli dell’Opera, finché non sbucò nel
camerino in cui si era mostrato, per la prima volta, alla sua musa.
«Erik, promettetemi
che starete attento.», lo supplicò Christine, fermandolo prima che potesse
sparire nuovamente.
Lui esitò qualche
secondo, il cuore che gli batteva veloce più per l’adrenalina e la rabbia che
per altro. Quella sarebbe stata l’occasione buona per far pagare anche al caro
Lucas tutti gli anni di soprusi che aveva dovuto sopportare.
“Ehi, mostriciattolo!”, gridò un bambino dai capelli scuri e lasciati
andare sopra le spalle, lo sguardo strafottente e un sorrisino cinico sulle
labbra. “Che stai facendo con quell’arnese?”
L’altro bambino, smunto e col capo coperto da un sacco bucato in
prossimità degli occhi, si strinse al petto il suo giocattolo preferito: una
scimmietta con i cembali tutta consumata e sporca.
“Oh, stai pensando che persino quella scimmia è più bella di te?”,
continuò a deriderlo quello, strappandogliela di mano e guardandola con
disgusto. La lanciò lontano, tra le risate degli altri bambini.
“C’è solo un problema, mostriciattolo.”, gli disse, con un tono di
voce più basso e serio. S’inchinò verso di lui, afferrando la stoffa del
copricapo e tirandola via; il viso deturpato del bambino fece ridere ed
esclamare tutti i presenti e fu lesto a coprirsi il viso con le mani sudice.
“È proprio questo il tuo problema. Tu non sarai mai bello. Tu sei un mostro.”
Erik strinse gli
occhi a quel pensiero, ma tornò a guardare la ragazza spaventata di fronte a sé
e sorrise mestamente. «Non posso prometterti niente,mon ange.»
Christine si lasciò
cadere sul pavimento, non distogliendo lo sguardo dal grande specchio in cui
Erik sparì subito dopo. Aveva paura, paura che non
tornasse più, paura che proprio quando l’aveva visto splendere di una nuova
gioia questa potesse spegnersi di colpo e farlo precipitare nuovamente nelle
tenebre. Non poteva permetterlo... non se lo meritava.
«La salverà, me lo
sento.», sussurrò Claire, sdraiata con un braccio sulla fronte.
«Non ne dubito, Madame.», fu la risposta della giovane cantante, che si
strinse le gambe al petto come per cercare conforto. «È per la sua incolumità
che mi preoccupo.»
Quando l’aveva
vista raggomitolata contro le gambe in uno stanzino, dietro una grata
arrugginita di ferro, per un attimo credette di
esserselo sognato. Ma gli occhi di Meg, velati di lacrime, quel visino sempre pulito e sorridente ora smunto e pallido più del dovuto la
riportarono alla realtà.
«Meg!
Meg, mi dispiace!», esclamò Phénix, appendendosi alle
sbarre e tendendole una mano che subito la ragazza strinse con forza. Era
gelida.
La ballerina strinse
le labbra, cercando di non singhiozzare, e la guardo con occhi supplicanti.
«Sophie, portami via.»
La voce flebile più
simile ad un lamento le strinsero il cuore, così come
il fatto che l’avesse chiamata con il suo falso nome. «Te
lo prometto, ti tirerò fuori di qui. Te lo prometto,
Meg.»
La biondina chinò
il capo e poggiò la fronte contro le sbarre, lasciandosi andare all’ennesimo
pianto isterico che in quelle ultime ventiquattro ore l’aveva sfiancata.
Phénix strinse le
mani contro il ferro umido e si sentì muovere da una rabbia che mai avrebbe
pensato di provare dopo la delusione di Erik. Corse da Lucas, furibonda, e
quando lo trovò intento a discutere con Faust, l’uomo che aveva ferito in un
impeto di rabbia pochi mesi prima, e qualche altro suo compagno dall’aria poco
raccomandabile.
«Tu,
ti odio! Ti odio!», gridò, correndogli contro e
scaricandogli una serie di pugni sul petto che su di lui ebbero l’effetto di
carezze.
«Oh, non ne
dubitavo, Phénix.», rispose lui divertito, con il solito ghigno malevolo
stampato sulle labbra. «Hai trovato la tua amichetta?»
«Lascia
stare Meg, mostro! Lei non c’entra
niente!», continuò Phénix, mentre i suoi polsi venivano
immediatamente bloccati dalle mani forti e ferme dell’uomo.
«Come mi hai
chiamato?»
Phénix, gli occhi
rossi per le lacrime, gli sputò in viso. «Mostro, mostro!»
Lucas strinse i
denti per la stizza e lo schiaffo che le tirò sulla guancia ebbe il potere di
farle perdere l’equilibrio, spedendola direttamente per terra. «Non. Osare. Mai. Più. Sono stato sufficientemente chiaro?»
La ragazza serrò i
pugni, sbattendoli contro la pietra del pavimento. Perché Meg? Perché non
l’aveva lasciata fuori da quella storia in cui non ci azzeccava niente?
Maledetto il giorno in cui aveva incontrato Erik, maledetto!
Lucas la strattonò
per un braccio e la costrinse a rialzarsi. «Si dia il
caso, mia piccola strega dalla lingua lunga, che la graziosa biondina l’ho
presa in prestito per qualche giorno. Se il nostro amico Erik si comporterà bene potrà tornare libera al pascolo, altrimenti... Beh,
lascio a te l’immaginazione.»
«Sfiorala anche con
il solo sguardo e giuro che ti uccido.»
Il silenzio tombale
che era calato nell’intera stanza venne interrotto
dallo scrosciare fragoroso delle risate dei presenti, Lucas compreso. «Grande prova di coraggio, tesoro. Ma
non devi dimostrare niente a nessuno qui.», le disse duramente. «Ora tornatene
da brava nel tuo buco, e non uscirne finché non te lo dico io.» Fece un cenno del capo a due uomini che, dopo aver
annuito, le si avvicinarono per prenderla di peso ed
allontanarla, tra le sue esclamazioni contrariate.
Lucas si passò una
mano tra i capelli sporchi e lunghi e sbuffò con fare divertito. «Quanti
grattacapi mi da, quella ragazzina insolente.»
Faust si poggiò
contro il muro, incrociando le braccia. «Ancora non capisco perché ti ostini
tanto ad averla.»
«Per
principio, amico mio. Solo principio.» L’uomo strinse
gli occhi, riportando alla mente ciò che si erano promessi qualche anno prima. «Sarebbe dovuta essere la mia compagna, per sempre. E sai
benissimo quanto io odio che qualcuno non mantenga la parola data. Soprattutto
se è una donna.»
Ed era vero, lui
era un uomo di parola. Se faceva una promessa
l’avrebbe mantenuta, su quello non si poteva discutere. E quando questo non
avveniva da parte di terzi lui si arrabbiava, e anche
tanto. Sarebbe potuto arrivare anche ad uccidere, per
la sua contrarietà. Ma Phénix era una donna, aveva dei
sani principi anche da quel punto di vista. Non le avrebbe fatto del male, così
come non avrebbe sfiorato la ballerina bionda che aveva requisito la sera prima. Erano donne ed in
quanto tali meritavano rispetto. Ma era anche ben
consapevole dei suoi limiti di pazienza, quindi non avrebbe potuto escludere un
prossimo momento di follia anche nei loro confronti. Lo schiaffo che aveva dato
a Phénix solo pochi minuti prima era solo un assaggio.
Continua...
Più morta che altro
dal caldo, vi saluto tutti! ;)
Erik ricordava alla
perfezione quei passaggi umidi e bui che scorrevano sotto le strade di Parigi.
Li ricordava così bene che sembrava fossero passati solo un paio di giorni
dall’ultima volta che li aveva percorsi e non più di venti anni. Ricordi vividi
di momenti che sarebbe stato meglio dimenticare
affiorarono alla sua mente, irritandolo più del dovuto. Memorie di un’infanzia
che nessun bambino avrebbe dovuto vivere, ma che lui invece aveva dovuto
sopportare per un brutto scherzo della vita.
Si guardò le
spalle, rendendosi conto di qualcuno che silenziosamente gli stava dietro,
senza farsi notare. Loro sapevano che era lì, era esattamente quello che
volevano. Quando tornò a guardare davanti a sé una figura gli si parò davanti,
con le braccia incrociate sul petto. Non riuscì a capire di chi si trattasse,
perché l’unica fiaccola accesa si stava per consumare tremolante, impedendogli
di studiare i lineamenti dell’altro.
«Vieni,
Erik. Il padrone di casa ti sta aspettando.» La voce di
Faust echeggiò per tutto il lugubre corridoio ed Erik strinse i denti e i pugni
per la rabbia. Di lì a poco si sarebbe nuovamente trovato faccia
a faccia con il figlio dell’uomo che si era preso gioco di lui da
piccolo, usandolo come mera attrazione per i passanti, deridendolo,
picchiandolo. Ma lui non era più un bambino indifeso,
succube delle loro prese in giro; no, lui era cresciuto, era diventato un uomo
dalla grande personalità, un genio... e un uomo che sapeva difendersi. Un
assassino, il tanto temuto Fantasma dell’Opera.
Portò una mano
all’elsa a forma di teschio della sua spada lucente, che pendeva lungo un
fianco nascosta dal mantello, e seguì l’uomo che gli faceva
strada, continuando a lanciare occhiate di circospezione intorno. Si
ritrovarono in quello che un tempo doveva essere un vecchio magazzino, ora il
punto principale del rifugio di quella banda di
zingari.
Lo vide alzarsi
dalla sedia sbilenca, dietro un tavolo consumato dai tarli, ed
allargare le braccia in segno di saluto. Guardandolo attentamente si accorse
con stizza che il ghigno di derisione che gli aveva sempre visto in faccia non
era ancora sparito. Avrebbe presto rimediato alla questione. Ora doveva solo
far liberare Meg Giry, quella era la cosa che più gli premeva.
«Guarda,
guarda chi è venuto a farci visita! Mostriciattolo, qual buon vento ti porta
qui? Sentivi forse la nostra mancanza?», chiese Lucas,
avvicinandosi di qualche passo a lui, anche se vide bene di mantenere una certa
distanza di sicurezza, soprattutto quando si accorse dello sguardo infuocato
dell’altro.
«Lasciala
andare.»
Il suono profondo e
imponente della voce Erik gelò per un attimo il sangue nelle vene dei presenti;
Lucas stesso rimase impressionato da quel tono che non ammetteva repliche, lo
stesso tono di chi era abituato ad impartire ordini da
una vita. Era evidente che il bambino impaurito ed
assoggettato di un tempo era sparito per lasciar spazio ad un uomo che aveva
pieno controllo di sé stesso.
«Però,
sei cresciuto.», commentò lo zingaro, piegando il capo verso una spalla,
incuriosito. «E hai anche buon gusto, la maschera che usi per coprire quella
schifezza che hai in viso è un gran bell’oggetto.»
Erik non rispose
alle sue provocazioni, sapeva benissimo che genere di uomo si trovasse davanti.
Voleva rimanere lucido fino al momento in cui l’avrebbe ucciso, quel maledetto.
«Lascia andare la ragazza.», ripeté con calma.
«Quale
delle due? La biondina o quella a cui hai
involontariamente fatto uccidere i genitori?», chiese con cattiva strafottenza,
che fece rabbrividire di rabbia l’altro. «Sai, Phénix
ti odia. Me l’ha detto lei giusto l’altro giorno. Devi essere stato molto
cattivo con lei... Lo sai che le donne non si fanno
soffrire?» Lucas scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «No,
certo che no. Tu non hai avuto nessuna madre né padre che potessero
dirtelo, tanto meno una donna che ti insegnasse le buone maniere.»
Erik fu lesto ad estrarre la spada e premergliela al collo, ma altrettanto
fulmineo fu Lucas, che gli puntò una pistola in mezzo alla fronte. Gli uomini
presenti, intanto, erano sul chi vive, pronti per ogni evenienza.
«Ti
piace la mia pistola? L’ho fregata ad un giovane
soldato che camminava da solo in piena notte. Non c’è più la gendarmeria di una
volta, non sei d’accordo con me?»
Erik strinse gli
occhi guardando la canna dell’arma a pochi centimetri dal suo viso, poi spostò
lo sguardo verso l’uomo che lo minacciava e che lui stesso minacciava.
«Getta la spada, amico.», gli consigliò Lucas. «Anche perché non so cosa ti convenga con una pistola in
fronte. Gettala e possiamo iniziare a ragionare insieme sulla bella biondina.»
L’immagine di Meg
che danzava lieta e felice, del suo sorriso, dei suoi cipigli severi che
acquisiva con Christine quando questa faceva qualcosa di sbagliato e così simile
alla donna che gli aveva salvato la vita quando ancora era un bambino, lo portò
a far cadere di mano la spada lucente, che finendo per terra emise un suono
metallico sordo, che rimbombò per tutta la stanza. Il teschio, nell’elsa,
sembrava ridere derisorio e molti dei compagni di Lucas lo guardarono con
timore, come cattivo presagio.
«Molto
bene, Erik. Ora vai verso quella parete, qualcuno provvederà
a tenerti fermo.», continuò Lucas, sempre puntandogli contro la pistola.
Due uomini si
fecero avanti e, nonostante il brivido di paura che provarono nel sentire
quello sguardo carico d’odio del prigioniero, gli ammanettarono i polsi su un
anello di ferro sopra la sua testa e, una volta che si assicurarono
che non potesse più muoversi, gli sputarono contro.
«Portate qui la
nostra ragazza.», ordinò Lucas ai due, abbassando ora la pistola. Raccolse la
spada che giaceva in terra e, avvicinandosi lentamente, gli sfilò la maschera
con la punta dell’arma, ferendogli la carne già martoriata di suo. «Patetico. Se credi che una maschera ed
un nome come il Fantasma possano
incutere paura. Tu sei e rimarrai un mostro sfigurato.»
Erik distolse lo
sguardo dall’uomo solo quando si accorse della figura femminile che entrò nella
stanza e perse un battito quando vide Phénix sgranare gli occhi per lo stupore;
era più sciupata del solito e aveva gli occhi rossi, gonfi per i lunghi e
numerosi pianti. Diavolo, quanto gli era mancato anche solo poterla vedere da
lontano!
«Erik...» Phénix si portò le mani alle labbra, sgomenta. Mai avrebbe
pensato di rivederlo in quello stato, legato ed
impossibilitato a muoversi. Lui, che invece non esitava un secondo ad uccidere se veniva messa in pericolo la sua vita o quella
dei suoi pochi cari, lui che aveva seminato il terrore per anni in un teatro,
lui che aveva avuto il potere di stregarla con i suoi modi autoritari ed
eleganti, ma mai rudi.
«Sai Phénix, ci ho
pensato parecchio in questi ultimi giorni.», esordì Lucas, ottenendo
l’attenzione di entrambi. «Pensavo... Quest’uomo qui,
o meglio, questo che dovrebbe essere
un uomo, ha ucciso mio padre senza pietà. Non basta, per causa sua i tuoi
genitori sono morti quando ancora avevi due anni. Se non fosse mai vissuto, se
non avesse avuto l’aspetto di un mostro tutto questo
non sarebbe successo.»
«Nessuno ti ha mai dato il permesso di giocare con la vita di un altro.»,
sibilò Erik, ora completamente furibondo.
«Taci!
Non è con te che sto parlando, feccia!», gridò Lucas,
tirandogli il calcio della pistola in viso e facendolo sanguinare copiosamente
dal naso.
Phénix, dietro lo
zingaro, si dovette mordere un labbro per evitarsi di gridare. No, non poteva
permettere che lo ammazzasse, lei... lei era innamorata di lui, anche se le
aveva mentito per tutto quel tempo!
Non smise di
guardarlo neanche quando Lucas riprese a parlare.
«Mi
chiedevo, dovrò farlo io o lo lascio a lei? In fondo lui ha strangolato mio
padre.» Lucas corrugò la fronte, pensieroso.
«Poi mi son detto: in realtà la piccola Phénix è stata privata di tutto, e non
basta... le ha nascosto la verità!»
Erik socchiuse le
labbra come per voler dire qualcosa, ma non fiatò. Si limitò a fissare gli
occhi verdi della ragazza con dolore e risentimento.
«Sei
sempre stata decisa, Phénix. Hai sempre mantenuto le tue promesse e per questo
hai tutto il mio rispetto. Ora non deludermi: uccidilo.»
Phénix distolse di
scatto lo sguardo dall’uomo sanguinante per guardare con orrore la pistola che
Lucas, deciso, le stava porgendo.
«Uccidilo,
Phénix.»
Impiegò qualche
secondo prima di rendersi conto che quell’uomo stava dicendo sul serio. E in
quel momento tutto il peso di quella terribile situazione si fece sentire come
un macigno sulle spalle, che le impediva di muoversi, di ragionare a mente
lucida. Riusciva solo a tremare sotto quello sforzo immane, tremare
e piangere incontrollabilmente.
Il metallo della
pistola era tiepido, riscaldato dalle dita di Lucas che fino a poco prima la
stringeva tra le mani, ma lei rabbrividì come se avesse toccato del ghiaccio.
Improvvisamente tutto divenne offuscato, tutto tranne la sagoma di quella
povera anima appesa per i polsi, con il capo chino di chi si rassegnava alla
sua fine.
Erik,
abbandonandosi alla realtà, chiuse gli occhi quando la vide prendere
l’arma tra le mani, riluttante, non avendo il coraggio di sostenere lo sguardo
di una donna distrutta da tutte quelle novità, la stessa donna per cui provava
l’immenso e tremendo sentimento per il quale si era maledetto in passato, la
stessa donna che gli aveva detto di odiarlo e che presto avrebbe posto fine
alle sue sofferenze.
Le mani che
tremanti reggevano la pistola si sollevarono con lentezza verso di lui, mentre
un dito cercava il grilletto.
Una lieve pressione
e tutto sarebbe finito.
Per sempre.
Ma
lo sparo non arrivò, non ancora.
Erik riaprì gli
occhi solo quando si rese conto che la donna stava indugiando un po’ troppo per
i suoi gusti. O forse era solo un modo per torturarlo lentamente, lasciandolo
ai suoi rimorsi e ai ricordi di una vita funesta che, veloci, gli passavano
davanti agli occhi?
Ma
quando Erik capì le vere intenzioni della ragazza, lei aveva già spostato la
pistola contro Lucas e non poté fare niente per fermarla.
Quella stupida!
«Che stai facendo,
Phénix?», le chiese pacatamente Lucas, alzando un sopracciglio.
La zingara deglutì
a fatica prima di parlare. «Ti ricordi cosa mi dicevi,
anni fa? “Figli
del vento, siamo i figli del vento.” Dimmi,
Lucas, hai mai provato a fermare il vento?*»
L’uomo strinse gli
occhi, ripetendo la domanda di prima. «Che stai facendo,
sciocca?»
«Quello che avrei
voluto fare da tempo.»
Il vento non si può
fermare. Prova a fermarmi, ora.
«Abbassa la
pistola, ragazzina.», le ordinò con incredibile calma l’uomo. Conosceva bene la
ragazza per sapere che non gli avrebbe sparato. Non ne avrebbe avuto il
coraggio.
«Tu lascia andare
Meg ed io abbasserò la pistola.»
Lucas esitò un
attimo, poi fece un cenno d’intesa a Faust, che aveva già la mano pronta sulla
sua arma da fuoco. Questo sparì subito dopo, e Lucas tornò a guardare Phénix.
Scoppiò a ridere due secondi dopo. «Non giocare,
streghetta. Potresti farti male!»
«A te che
importa?», chiese, stringendo convulsamente l’arma tra le mani. «Non mi pare
che tu ci abbia pensato due volte a farmi del male.»
«Non ho mai alzato
un dito su di te, maledetta ingrata!», esclamò furente Lucas. «E Dio solo sa
quanto avrei voluto!»
«Non sono le
percosse o le violazioni al mio corpo gli unici modi
per procurarmi dolore, Lucas.», sibilò, gli occhi verdi che ribollivano di
rabbia. «Mi hai sempre trattata come se fossi il tuo
bamboccio, come se io avessi dovuto sottostare ai tuoi voleri. E io, troppo impaurita all’epoca, ti seguivo, perché ti
temevo. Mi hai lasciata andare solo perché gli altri
avevano iniziato a temere me, una strega
secondo le loro stupide teorie!»
«Sei
sempre stata innocua, Phénix. Non è il colore dei capelli a fare una persona.»
«Mi hai fatta seguire, se non fosse stato per Erik Dio solo sa cosa
quei due disgraziati dei tuoi cugini mi avrebbero fatto.» Vide Lucas contrarre
la mascella per il disappunto nel sentire nominare Victor e Nicolas, ma lei non
vi prestò attenzione. «Hai ucciso mia nonna e con lei
una parte di me. Hai messo in mezzo una ragazza che non c'entrava niente con
questa storia solo per arrivare ai tuoi scopi... E non meno importante, non mi
sembra che tu abbia fatto qualcosa per far scagionare
i miei genitori per l’uccisione di tuo padre. Sapevi benissimo che loro non ne
avrebbero avuto i motivi e nemmeno la forza. Non posso
chiudere ancora un occhio.»
«Quel mostro ha
ucciso mio padre!», tuonò Lucas,
muovendo un passo verso la rossa. «Secondo te avevo anche la voglia di aiutare
una mocciosa come te quando mio padre si ritrovava con un cappio al collo?!»
«E tuo padre non
era da meno!», ribatté lei, con le lacrime agli occhi. «Se ci fossi stato tu al
suo posto, che avresti fatto?»
Erik strinse i
pugni per la avvilimento nel rendersi conto ancora una
volta che quella donna lo stava difendendo, nonostante sapesse. Ma fu quello che sentì dopo che
lo lasciò più sgomento di quanto già non fosse.
Tu hai ucciso
nostro figlio. Te ne sei dimenticata, forse?
Alzò lo sguardo
verso Phénix, gli occhi sbarrati mentre si rendeva conto che quella domanda era
fondata. La vide morsicarsi il labbro inferiore, le lacrime che continuavano a
sgorgare ormai senza freni sul suo viso scarno.
Figlio? Avevano avuto...
un figlio?
Phénix
singhiozzò rumorosamente, stringendo convulsamente la pistola tra le mani.
«Hai mai pensato... Anche solo lontanamente... Che una
ragazzina come me non poteva avere un figlio?», gli chiese, ormai senza forze.
«Era il nostro bambino
quello che portavi in grembo, per Dio!», gridò l’uomo. «E tu hai permesso a
quella vecchia di ucciderlo prima ancora che nascesse!»
«A stento mi
reggevo in piedi, come avrei potuto farlo nascere?!»,
ribatté lei, distrutta dal ricordo. «Pensi che non avrei voluto vederlo
crescere?»
Lucas sospirò
rumorosamente, passandosi una mano sul viso imperlato di sudore. Erik, nel
frattempo, a stento riusciva a credere alle sue orecchie.
«Ti ho amata, maledetta sciocca... E ti avrei amata anche dopo
quello che è successo, se solo non mi avessi abbandonato. Quest’idea ti ha mai
sfiorato quella bella testolina che ti ritrovi?», le
chiese il gitano, più dolcemente.
Phénix socchiuse le
labbra per rispondere, ma il grido disperato di Meg e il suono di uno sparo le fece voltare il viso verso la direzione del frastuono e
Lucas ne approfittò per coglierla alla sprovvista e rubarle la pistola dalle
mani, tirandole un colpo e facendola rovinare a terra. Il ghigno gli comparve
nuovamente in viso e puntò l’arma verso Erik, avvicinando il dito al grilletto.
«Mi son sbagliato sul tuo conto, mia piccola
streghetta. Vuol dire che lo ucciderò io per entrambi. Con te facciamo i conti
dopo.»
Il suono sordo di
due colpi risuonò per l’intero ex-magazzino, facendo trattenere il fiato a tutti
i presenti. Phénix sbarrò gli occhi umidi per le lacrime e provò a gridare, ma
niente fuoriuscì dalla sua gola.
Ma la pallottola
non colpì Erik, per lo meno non quella del primo sparo, che era partito da un Raoul de Chagny freddo e deciso, mentre a farne le spese
maggiori fu Lucas, che cadde a terra reggendosi il petto, insanguinato. Voltò
lo sguardo terrorizzato e vacuo verso Phénix, che piangeva a pochi passi da
lui; poi cadde sul pavimento sporco e umido, senza muoversi più.
Raoul, accompagnato
da alcuni soldati, ordinò di arrestare tutti gli altri zingari e si avvicinò al
corpo senza vita dell’uomo a cui aveva appena sparato.
Poi sollevò gli occhi verso colui che solo un anno
prima aveva cercato di strangolarlo e di portargli via la donna amata. Se non
fosse stato per Phénix che gli si era avvicinata in lacrime per controllare la
ferita che aveva sul fianco, provocata da un colpo accidentale di Lucas,
l’avrebbe finito lui stesso.
«Erik... Erik ti
prego, guardami.»
Lui scosse la
testa, stanco. «Non posso...»
Phénix gli prese il
viso tra le mani e lo costrinse ad alzarlo. «Guardami.»
Lui aprì debolmente
gli occhi e cercò di mettere a fuoco la figura china su di lui. Non aveva mai
provato un dolore fisico come quel bruciare tremendo dovuto ad
un’arma da fuoco, ma tutto sembrò svanire quando incontrò lo sguardo umido per
le lacrime di Phénix. Non sentì la sua voce che lo chiamava, non sentì la
ragazza gridare a Raoul affinché lo portasse da Faucon o da qualcuno che
potesse medicarlo celermente.
Perse i sensi
prima.
Phénix si alzò e
corse incontro a Raoul, sconvolto dall’espressione terrorizzata della ragazza.
«Vi prego, vi supplico, salvatelo!», gridò, afferrandolo per il bavero della
giacca e scuotendolo con disperazione. «Morirà se qualcuno non lo curerà in
tempo!»
Il Visconte lanciò
un’occhiata al suo acerrimo nemico che ora era immobile e piegato su sé stesso, mentre la macchia rossa di sangue sul fianco si
allargava sempre di più. «Morirà comunque. È un
assassino e finirà al patibolo questa settimana stessa.»
«No, no, no!»
Phénix strinse con forza e rabbia la stoffa del suo cappotto. Avrebbe anche
potuto ucciderlo in quel momento. «È
venuto qui per salvare Meg! Se non fosse stato per lui
chissà cosa sarebbe successo!», esclamò tra le lacrime ed
i singhiozzi la zingara. Poggiò disperata la fronte contro il petto dell’uomo,
mentre lentamente perdeva ogni forza. «Per favore, ve lo chiedo per favore.»
La ballerina
comparve in quel momento, accompagnata da un soldato ed
avvolta in una coperta che avevano trovato da qualche parte, scossa ma viva e
senza ferite. Raoul la guardò a lungo prima di prendere una decisione e di
spostare lo sguardo su quell’uomo che, nonostante avesse ucciso, nonostante
tutti i guai che gli aveva causato, si era rivelato il salvatore della piccola
Meg e anche della sua Christine. L’aveva lasciata andare, sebbene l’avesse
amata con una passione ed una follia che ancora
stentava ad immaginare. Inoltre non poteva sopportare il peso dello sguardo di
quella ragazza distrutta dal dolore, perché aveva capito quale sentimento la
legasse a quell’uomo. Se lui avesse perso Christine era più che sicuro che avrebbe dato via la vita pur di salvarla.
La sua stessa
Christine che prima di uscire di casa, quella mattina,
lo aveva pregato di non fargli del male...
Ti prego, Raoul, ti scongiuro. Se è vero che
mi ami salva anche lui! Fallo in nome del nostro amore.
«D'accordo, vi
accontenterò.» Phénix sollevò lo sguardo stupito ed
insieme riconoscente su di lui, facendolo sospirare. «Ma non posso assicurarvi
la sua salvezza da un processo.»
«Grazie, grazie!»,
gioì tra le lacrime la ragazza, che gli si appese al collo per abbracciarlo.
Raoul fece chiamare
urgentemente il cugino, che era rimasto tutto il tempo nascosto dietro un
angolo per paura di essere coinvolto, e con l’aiuto di alcuni soldati portarono
il corpo di Erik fuori da quei cunicoli bui ed umidi,
diretti alla villa del Visconte stesso per dargli le prime cure e togliergli il
proiettile dal fianco.
Phénix guardò la
carrozza andare via veloce, poi cadde in ginocchio, piangendo tutte le lacrime
che le erano rimaste. Quando Claire Louise Giry la trovò in quello stato non riuscì a non versare anche lei una lacrima e pregò
Dio che Erik si salvasse e donasse un po’ di tranquillità a quelle due anime
che per troppo tempo avevano vissuto nell’angoscia.
Continua...
Ammetto che la
facilità con cui Erik si abbassa a gettare la spada ha lasciato sgomenta anche
me, ma ho pensato che fosse un uomo senza più niente
da perdere, che sperava così facendo di poter salvare almeno Meg... spero vi
sia piaciuto anche questo capitolo! ;)
Rosette bussò alla porta, ma non aspettò che qualcuno le desse il
permesso di entrare. Sapeva bene che la ragazza non stava dormendo, ed infatti la trovò accanto alla finestra, immobile come
l’aveva lasciata solo un’ora prima, il piccolo Dante placidamente addormentato
sul suo grembo. «Te ho portato un po’ di the caldo, chica.»
Phénix si voltò a
guardarla come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno e le sorrise
debolmente. «Grazie, Rosette, sei un angelo.»
Le
guance paffute della donna s’imporporarono velocemente, facendo sorridere più
apertamente la zingara. «Sai, me
dispiace per quello che è successo. Al Monsieur e
tutto quanto.»
«Dispiace anche a
me e spero che tutto possa sistemarsi per il meglio.»
Phénix si scaldò le mani con la tazza fumante che la domestica le porse e
abbassò lo sguardo. «Forse se me ne andassi davvero
eviterei di portare i miei soliti guai.»
«Andare?
Non scherzare, pazza! E dove vorresti andare, dimme!», borbottò la donna, contrariata. Vedere
quella ragazzina andarsene ancora una volta era l’ultima cosa che avrebbe
voluto.
«Non
so, pensavo su al nord, lungo la costa. Sai, non ho mai visto il mare.»
«E tornare ad essere una vagabonda? Non farme
ridere, chica.»
Phénix poggiò il
capo contro la parete e guardò tristemente la sagoma dell’Opera. «Gli ho gridato di odiarlo... con che coraggio potrei
rimanere qui? Se solo non l’avessi mai incontrato...»
«Non dire
sciocchezze, Phénix.», l’ammonì la voce di madame Giry
che entrò in quel momento, con una busta in mano che entrambe conoscevano bene.
«Come stai?», le chiese, mentre ringraziava con lo sguardo Rosette che lasciava
la stanza.
Quella si strinse
nelle spalle. «Mi sento vuota.»
Claire strinse le
labbra, preoccupata. «E fisicamente? Hai continuato a
prendere la medicina che monsieur Faucon ti aveva
prescritto?»
Phénix annuì. «Mi è passato completamente tutto. Non avevo niente di
grave, vero?»
«È
così, ma credimi, Erik, io e Faucon abbiamo agito in buona fede. Lui
sapeva che non avresti accettato a farti visitare se non fosse stato niente di
grave.»
«Come sempre lui ha la soluzione a tutto.», commentò
la zingara, con un amaro sorriso. «C’è altro che dovrei sapere e che mi avete
tenuto nascosto?»
La ragazza, vedendo
che la donna non accennava a rispondere, guardò insistentemente la lettera in
cui spiccava ancora il teschio nella ceralacca rossa e Claire se ne accorse,
perché gliela porse. «Mi sembra che sia giunto il
momento che tu la legga. Un po’ tardi, in effetti, ma è un tuo diritto. Qui c’è
scritto tutto quello che devi sapere.»
Phénix rabbrividì
al contatto con la carta ruvida ed ingiallita. La
rigirò tra le mani, indecisa e nel contempo curiosa di
leggerla, anche se sapeva benissimo cosa potesse contenere.
«Comunque monsieur Faucon dice che si riprenderà presto, grazie al
cielo.», continuò Claire. «In questa settimana è riuscito anche ad alzarsi,
nonostante il medico gliel’avesse vietato.» La donna
sorrise, al solo pensiero. «Ora ti lascio alla lettura, se hai bisogno chiamami.»
La ragazza posò la
tazza di the e aprì con una certa impazienza la lettera, scoprendo quattro
fogli scritti da una grafia elegante e regolare. Fortuna sua che Erik le aveva
dato lezioni e che, nonostante qualche tentennamento, riuscisse a leggere,
altrimenti avrebbe dovuto chiedere l’aiuto di qualcuno. Iniziò a scorrere gli
occhi tra quelle parole che le riportarono alla mente la dolcezza e la potenza
di quella voce che l’aveva ammaliata dal primo momento e che avrebbe voluto
sentire ancora una volta, almeno per un addio.
“Claire, amica mia,
torno ad inquietare la tua vita dopo
settimane di silenzi, dopo settimane di freddo. Ma non
lo faccio per me, questa volta non chiederò il tuo aiuto per nascondermi o per
consegnare qualche missiva. Vorrei solo che facessi un favore ad un tuo vecchio amico che vorrebbe perdonarti per la tua
mancanza di lucidità e sono più che sicuro che accetterai, dopo aver letto
queste righe.
È successo un fatto che mi ha sconvolto, che ha riacceso in me i sensi
di colpa ma anche una tremenda voglia di ricominciare daccapo, per rimediare ai
miei errori. Forse tu non ricordi, o forse lo ignori proprio, che qualche
giorno dopo il nostro primo incontro vennero
giustiziati due zingari per l’omicidio del mio aguzzino. Ebbene, quei due erano
genitori di una bambina splendida, le uniche due persone che non avevano mai osato
alzare le mani contro di me o insultarmi per il mio aspetto. Forse perché anche
la loro bambina era in qualche modo diversa… Capelli rossi come il fuoco, due occhi
verde smeraldo così grandi ed intensi che ancora
ricordo la prima volta che li vidi. Questa piccola creatura è cresciuta orfana,
per causa mia, e guarda tu se il fato non doveva giocarmi l’ultimo scherzo,
l’ho incontrata proprio ieri. Mi ha offerto il suo aiuto, il suo cibo ed il suo letto senza pormi domande scomode e io, quando mi
ha raccontato dei suoi genitori, non ho avuto il coraggio di dirle chi fossi in
realtà. Avevo davanti l’ennesima persona a cui avevo
rovinato la vita e che per giunta mi aveva trattato come se fossi un uomo
normale.
Questa mattina, però, è rientrata nel suo umile mulino proprio quando
io stavo per lasciarlo e mi ha ordinato di andare via, perché aveva scoperto
chi fossi... Il Fantasma dell’Opera. Non saprei dirti
se mi abbia fatto più male sapere che mi stesse respingendo solo perché mi
conosceva per sentito dire o per il fatto che la
verità più importante non l’avesse ancora scoperta. Fatto sta che mi sono
allontanato da lei, ma evidentemente qualcosa mi tratteneva ancora. Ho notato
due uomini che la stavano spiando e son rimasto nascosto tutto il giorno,
aspettando che succedesse qualcosa.
Quando la ragazza è tornata al mulino, questa sera, l’hanno aggredita e io non son riuscito a rimanere con le mani in mano. Sì,
Claire, li ho uccisi, entrambi. Se non l’avessi fatto avrebbero anche potuto violarla, o tornare il giorno
dopo armati delle più pessime intenzioni.
Ora sono qui, a scriverti, perché la ragazza ha accettato il mio
aiuto, nonostante all’inizio fosse restia, e ti
chiedo, Claire, ti chiedo di ospitarla in casa tua per qualche tempo. Si chiama
Phénix e capirai bene il perché di questo nome. È sola e ora rischia di essere
invischiata in una situazione più grande di lei, con l’omicidio di quei due
disgraziati. Mi pare superfluo dirti che non devi raccontarle niente del nostro
incontro, né della storia sui suoi genitori.
Ti do qualche piccola dritta per evitare possibili problemi: non
voglio assolutamente che lasci la casa
da sola e in piena notte. Se dovesse capitareche esca durante il giorno, falle indossare
un copricapo che le nasconda i capelli. Sarà meno riconoscibile. Quando la
presenterai a qualcuno dì che si chiamerà Sophie Rembrant, o quello che
preferisce. Il suo nome può essere pericoloso.Inoltre esigo che venga trattata come una persona di famiglia e che le trovi
un lavoro sicuro, in modo tale che non ti pesi sulle spalle.
Ho grandi progetti
per lei, ma dovrai fare esattamente quello che dico. Ho intenzione di
finanziare il restauro del mio Teatro per rimediare al mio errore e voglio
mettere su un’ottima orchestra che possa essere all’altezza dei miei desideri.
Voglio scrivere un’opera, Claire, l’opera della mia
vita, l’opera che racconterà a tutti chi sono stato, il mio dolore, la loro
ipocrisia. E voglio che Phénix vi partecipi come colei che mi ha salvato. So
che quello che sto per dirti ti lascerà sgomenta, ma non voglio assolutamente
che tu ti intrometta nei miei progetti. Dovrai promettermelo, amica mia.
Perché dopo la fine
della mia opera, “La Vita
Nova”, io non ci sarò più. Lascerò tutto a te e a lei, e a
chi dimostrerà la caparbietà per continuare il mio lavoro con il massimo
impegno. Sì, Claire, la fine della mia opera coinciderà con la mia morte. E non
voglio sentire repliche, perché non cambierò idea. Sarò felice di andarmene
sapendo che ho rimediato ai miei sbagli, che la ragazza avrà una vita degna di
essere tale e che tu con tua figlia non siate più in pericolo per causa mia.
Mi farò sentire
appena possibile, sempre che non mi ammazzino prima. In quel caso non
preoccupatevi di aprirmi una porta, attraverserò i muri. Anche
se lo faccio da tutta una vita.
Mi raccomando,
Claire, te lo ripeto ancora una volta: quella ragazza non deve mai venire a conoscenza del mio passato e di come mi hai fatto
fuggire dal suo gruppo. Se dovesse fare qualche domanda in proposito
inventati qualcosa, so che in queste cose sei molto brava.
Te lo chiedo per
favore, in segno della nostra vecchia amicizia.
Erik.”
Quando
Phénix finì di leggere era letteralmente senza fiato.
E non solo per il dolore che trasudava da ogni singola parola, ma per le
intenzioni di Erik, quelle che non le aveva mai riferito, perché si trattava di
una sorpresa. Si sarebbe ucciso, ecco qual era la sorpresa!
Si precipitò fuori
dalla sua camera e raggiunse Madame Giry in quella di
Meg, tremando al solo pensiero di quello che Erik avrebbe potuto fare. «Voi
sapevate le sue intenzioni e non lo avete mai fermato?», chiese
sbalordita e impaurita, mentre la donna sospirava.
«Piccola
mia, conosci bene il caratteraccio di Erik e sai meglio di me che quando
decide una cosa è difficile che cambi idea.», le rispose con calma, sebbene
Phénix notò una nota di tristezza nella sua voce. «Non
credere che non gli abbia parlato della questione, che non abbia provato a
farlo ragionare. Ma non ci sono santi che reggano davanti alla sua ottusità!»
Phénix si morse un
labbro, stringendo ancora la lettera tra le mani. «E
se avesse cambiato idea? Magari non vi ha detto niente.»Sciocca,
perché avrebbe dovuto cambiare idea? Per lei, forse? Le aveva promesso di non
lasciarla mai, qualsiasi cosa fosse accaduta, eppure ora non poteva più esserne
sicura, non dopo quello che era successo.
«So
cosa stai pensando, Phénix, e credo che un mese fa fosse del tutto convinto che
desiderare la morte fosse l’ultimo dei suoi pensieri. Ora spetta a te
riportarlo sulla via giusta, solo a te.» Claire le
sorrise ma si sorprese non poco quando la ragazza le finì tra le braccia,
includendo in quell’intimo gesto anche Meg che rideva sollevata per la
ritrovata amica.
«Grazie, grazie
davvero di tutto.», mormorò con voce soffocata la zingara, mentre la donna le
accarezzava maternamente i capelli rossi.
«Non devi ringraziarmi, bambina mia. Ho sempre desiderato un’altra
figlia da proteggere.»
Quello stesso
giorno Phénix ricevette la visita di Raoul de Chagny, appena tornato
dall’ufficio della Gendarmerie. Si
accomodarono in cucina, davanti ad una tazza di ginseng caldo di cui il
Visconte si era innamorato fin da subito, e rimasero in silenzio per qualche
istante. Non avevano mai parlato faccia a faccia da
soli, neanche dopo tutto quello che era successo.
Fu lui a prendere
parola per primo, non sapendo bene da dove cominciare. «Immagino che sappiate
che mio cugino sta facendo un lavoro eccellente con... conlui.»
Phénix annuì,
lasciandosi andare ad un sorriso. «Non finirò mai di
ringraziare entrambi.» E costringerò
anche Erik a ringraziarvi, quando avrò sistemato tutto, concluse
mentalmente, ottimista.
Raoul si schiarì la
voce, sentendosi a disagio. «Non dovete ringraziarmi... in realtà non so
neanche il motivo per cui lo sto facendo, ma suppongo sia la cosa giusta da
fare.»
Lei annuì. «Lo è, Raoul. Erik non è un uomo cattivo, tutto quello che
ha fatto in passato è stato dettato dalle circostanze.
Anche voi, se vi foste trovato nella sua stessa
situazione, avreste fatto lo stesso.»
«Non
saprei, non saprei davvero. È una vita che non ho mai preso in considerazione,
la sua, perché mi è sempre sembrata surreale. Ma probabilmente parlo perché non
so di cosa stia parlando.»
Phénix allungò una
mano sul tavolo, per raggiungere quella del Visconte. «Non
siate confuso, Raoul. Se non volete dargli la libertà, lasciate almeno che
lasci Parigi.»
«A questo
proposito, Sophie... o Phénix, come vi dovrei chiamare?», domandò il giovane,
abbozzando un sorriso.
«Il
mio nome non ha importanza. In realtà non ne ho mai avuto uno vero, posso
continuare così per un altro po’.»
«Bene,
oggi sono stato alla Gendarmerie,
per... dare un’identità a quell’uomo. Erik.»
Phénix trattenne il
fiato, sapendo che il suo futuro e soprattutto quello di Erik sarebbe dipeso dalle parole del Visconte.
«Ufficialmente
il Fantasma è morto impiccato, quindi in teoria non ci sarebbero problemi. Ma il volto di... Erik…» Pronunciò quel nome con fatica,
come se stentasse ancora a credere che l’uomo che per anni aveva seminato il
terrore nel Teatro dell’Opera avesse un corpo e un’identità e che ci fosse
davvero qualcuno pronto a tutto per la sua salvezza. «Quello
difficilmente si scorda. Alcuni soldati che erano presenti la sera
dell’incendio non hanno potuto fare a meno di riconoscerlo. Inoltre una
ballerina, una certa Lafayette, ha deposto una dichiarazione contro di lui,
dicendo che l’ha minacciata, anche se poi ha ritirato tutto
non so bene per quale motivo... credo fosse spaventata.»
Phénix strinse la
stoffa dell’abito con forza, il cuore le batteva furiosamente nel petto. «E... quindi?»
«Quindi
ho dovuto fare i salti mortali, Sophie. Ho richiesto l’aiuto di mio cugino per spiegare
ai soldati che quella particolare malformazione del viso è più diffusa di
quanto si pensi.»
«E vi hanno
creduto?»
«Non troppo, a dire la verità. Ma nessuno ha mai
avuto il coraggio di controbattere alla parola di un de Chagny.», concluse, non
senza una punta di orgoglio.
La ragazza sembrò
rilassarsi sulla sedia, ma non cantò vittoria troppo presto. Sapeva bene che
avrebbe potuto gioire solo quando tutta quell’assurda situazione sarebbe finita
definitivamente.
«Erik
non sarà processato, se è questo che vi preoccupa, perché la deposizione di
mademoiselle Giry è stata di vitale importanza, da questo punto di vista.
Tuttavia consiglio ad entrambi di stare lontano dalle
scene per qualche mese, il tanto giusto per calmare le acque.»
Phénix si sciolse
in un pianto liberatorio, ridendo e singhiozzando contemporaneamente, troppo,
veramente troppo felice per sembrarle vero. Erik era salvo, non solo
fisicamente, ma anche dalle possibili accuse per i reati precedenti. Era salvo
e libero, era tutto ciò che aveva desiderato. «Raoul,
grazie, grazie! Davvero, non so cosa devo fare per ringraziarvi! Siete una
persona splendida, voi e vostro cugino.», gli disse
con enfasi, ancora piangendo.
Il ragazzo ora
sorrise apertamente, commosso da quella dimostrazione
di affetto e, soprattutto, per quella di amore nei confronti di quello che un
tempo era un mostro. Non gli avrebbe
mai perdonato quello che aveva fatto in passato, certo, ma era sicuro che con
Sophie, o Phénix o come si chiamava quella ragazza, sarebbe stato un uomo
migliore. «Posso farvi una domanda?»
Phénix annuì,
asciugandosi gli occhi con l’orlo del suo abito. «Certo, tutto quello che
volete.»
«Se è vero che
tenete a quell’uomo così tanto, perché in questi
giorni non siete mai venuta a trovarlo?»
La ragazza
s’irrigidì in un attimo e Raoul capì di aver toccato una nota dolente. «Abbiamo avuto un... diverbio, qualche settimana fa. Una
cosa spiacevole.»
«Qualcosa di irreparabile?»
«Spero
di no. Lui ha taciuto su un avvenimento per me molto importante, io non ho
saputo apprezzare il suo gesto e soprattutto capirne i motivi. Abbiamo
sbagliato entrambi.»
Raoul si alzò dalla
sedia e la guardò con indecisione. «Ho la carrozza qui
fuori che mi aspetta. Volete venire con me?»
Lei annuì,
raggiante. L’idea di rivederlo l’elettrizzava e la
spaventava nel contempo, ma non le importava. Voleva solo vedere con i suoi
occhi che stava bene e dirgli che ora era un uomo libero, che non avrebbe avuto
motivo di porre fine alla sua vita. Il resto sarebbe venuto da sé.
La villa dei de
Chagny era esattamente come la ricordava, imponente ed elegante come l’ultima
volta. Il domestico dalle gote arrossate e paffute li accolse gentile e prese
in custodia il cappotto della ragazza, che seguì immediatamente Raoul per la
grande scalinata che portava al primo piano. Videro Christine uscire da una
stanza e richiudersi la porta alle spalle, con un sospiro, ma appena si accorse
del suo fidanzato e della presenza al suo fianco sorrise candidamente, andando
loro incontro. «Oh, che sorpresa vederti qui, Sophie!
…O Phénix?»
La zingara quella
volta scoppiò a ridere nel vedere la confusione che aveva creato per due
semplici nomi, e agitò una mano noncurante. «Potrei vederlo?»
Christine annuì,
indicandole la porta che aveva appena chiuso. «È
parecchio suscettibile in questi ultimi giorni. Ci manca poco che Faucon lo
leghi al letto per farlo stare fermo e per impedirgli di fare qualche
sciocchezza.»
«Qualche
sciocchezza?!», strillò nervosa Phénix, tesa come una
corda di violino. «Legatelo davvero, allora!»
La
soprano e il suo fidanzato risero.
«Tranquilla, gli ho
appena dato un calmante che spegnerà qualsiasi sua
intenzione bellicosa.», le confessò, sorridendo. «Piuttosto, dovresti
cambiargli le bende quando sarà più calmo, io non ne ho più le forze.»
Phénix sentì
qualcosa contorcerle lo stomaco all’idea che la ragazza avesse avuto la
possibilità di vederlo praticamente mezzo nudo e che
avesse potuto sfiorarlo come lei non si era mai azzardata: forse era gelosia,
forse erano i sensi di colpa per non esserci stata lei al posto di Christine,
al fianco dell’uomo che amava. Ma dimenticò tutto nel
momento in cui aprì la porta e i suoi occhi incontrarono quelli di Erik, più
stupiti e spaventati di lei.
Era bello, bello da toglierle il respiro, nonostante fosse ancora un
po’ ammaccato e leggermente sciupato per il poco cibo che aveva voluto
mangiare. Ma era lì, vivo, e stava bene, grazie al
cielo.
Continua...
Siamo agli
sgoccioli ormai! Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, infine ci sarà l'epilogo. *asciuga
una lacrimuccia*
Guardò Christine
richiudersi la porta alle spalle e sorrise, intimamente divertito. Sapeva di
essere intrattabile in quei giorni e sapeva anche che non avrebbe dovuto
prendersela con quell’angelo di donna che, con una pazienza infinita, ingoiava
il rospo e cercava in tutti i modi di tranquillizzarlo e di obbligarlo a
mangiare e a farsi medicare. In un certo senso, però, considerava quella strana
situazione una rivincita su quel damerino del Visconte, che si vedeva sottratta
la fidanzata per ore intere anziché trascorrere del tempo con lui. Quanto buono
era il sapore della vendetta!
Erik se ne stava
seduto sul letto, con la schiena contro la testiera in
legno a rigirarsi tra le dita la maschera bianca che Christine gli aveva
sequestrato e nascosto in un cassetto del comodino mentre dormiva, ma lui,
ovviamente, l’aveva trovata subito. Alzò lo sguardo dal suo nuovo passatempo
quando la porta si aprì ancora una volta, ma al posto dei boccoli castani della
cantante trovò una testa rossa che lui conosceva bene. Rimase a fissarla
immobile, come se stentasse a credere che lei fosse lì, per lui. Non era
possibile, del resto. Lei lo odiava, non era venuta a trovarlo neanche una
volta nel corso della sua degenza. Perché sarebbe dovuta comparire proprio in
quel momento?
«Erik...»
Il suono della sua
voce, quella voce che aveva sognato di risentire ogni
notte e ogni giorno, ebbe il potere di togliergli tutte le forze che gli erano
lentamente tornate. Ogni possibile pensiero sul farla finita svanì nello stesso
istante in cui lei gli si gettò tra le braccia, facendolo gemere dal dolore,
sebbene poco gli importasse ora che lei era tornata. Inspirò profondamente il
profumo di quei capelli indiavolati e lasciò cadere la maschera dalle mani, per
ricambiare quell’abbraccio tanto agognato che sapeva di agrodolce. Le era mancata Dio solo, o chi per lui, sapeva quanto e
glielo fece capire stringendola più che poteva, senza curarsi delle sue ferite
che lentamente guarivano. Non gli importava altro che lei.
«Erik, ho avuto
così tanta paura di perderti.», gli disse con la voce soffocata dalla stoffa
della camicia da notte di lui e da un principio di pianto.
«Sono qui, mon ange, sono qui.», le sussurrò in un
orecchio, facendola rabbrividire.
«Mi
dispiace, Erik, mi dispiace tanto! Non sarei dovuta scappare quel giorno,
magari non sarebbe successo niente!»
«No, Phénix, ti
prego, non parlare come se la colpa di tutto fosse tua.»
Le accarezzò i capelli ritirati nella consueta treccia e le baciò il capo,
cullandola tra le braccia. «Avrei dovuto dirti tutto
dall’inizio, anche se non so a quest’ora dove saremmo andati a finire.
Probabilmente mi avresti odiato davvero.»
«Erik, non potrei
mai odiarti, non ne sarei capace.» Phénix si scostò il
tanto giusto per guardarlo negli occhi e gli accarezzò la guancia piagata,
facendolo sospirare. «Non lo pensavo veramente quando
te l’ho detto. Ma capiscimi, ero arrabbiata e delusa...»
«Lo so... e non
basterebbero cento anni per cancellare i miei sensi di colpa, Phénix.»
La ragazza lo zittì
con un bacio disperato ed urgente, come se tutta la
sua vita fosse dipesa da quel gesto. Erik non impiegò troppo tempo a
ricambiare, stringendola contro il suo petto e baciando quelle labbra che erano
state l’inizio della sua dolce rovina e, ne era
sicuro, sarebbero state anche la fine.
«Ti amo così tanto da far male, bambina mia.», le sussurrò contro la
bocca, provocandole l’ennesimo tuffo al cuore della giornata. «Sei arrivata come una tempesta, mi hai stordito e
soggiogato, Phénix. E sono talmente innamorato di te che potrei morire come
un’onda quando manca il vento.»
«Non mi lascerai mai, Erik?», gli chiese, con le lacrime agli occhi. «Neanche
dopo “La Vita Nova”?»
Lui s’irrigidì
subito, spaesato. «Come lo sai?»
«Madame
Giry mi ha fatto leggere la tua lettera.»
Erik fece una
smorfia. «Quella donna... deve ancora imparare a comportarsi.»
Phénix strinse gli
occhi verdi, puntandoli in quelli acquamarina di lui. «Non dare
le colpe a lei! Quando avevi intenzione di dirmelo?»
«Diciamo che
contavo sull’effetto sorpresa a fine spettacolo...»
«Erik!», strillò
lei, mettendosi a sedere e distanziandosi da lui. «Non
azzardarti più a pensare una cosa orribile come quella! Sono troppo innamorata
di te per perderti.»
«Dillo ancora.»,
mormorò, accarezzandole il mento con un dito.
Lei raggiunse la
sua mano con la propria e se la portò contro una guancia, sorridendo. «Ti amo, Erik.»
«Sei tu la mia
nuova vita, Phénix.» L’attirò a sé senza troppe
cerimonie e la baciò ancora con desiderio, per rendersi conto che lei era lì e
lo amava, per imprimersi al meglio quella piacevolissima sensazione che aveva
il terrore di perdere ancora una volta.
Le fece spazio in
quel letto troppo grande per ospitare una sola persona
e Phénix si accoccolò meglio contro di lui, ricordandosi solo in quel momento
della sua ferita sul fianco.
«Erik,
scusami! Ti ho fatto male?», chiese preoccupata,
indicando le bende.
Scosse il capo,
avvicinandosela contro e baciandole la fronte. «Non è niente, sto guarendo
ormai.»
Phénix alzò il
capo, poggiato contro la sua spalla, e rimase a fissarlo in silenzio, con un
delizioso sorriso sulle labbra.
Erik si sentì
spogliato da quello sguardo, come sempre accadeva, non ancora abituato ad essere osservato senza la protezione della maschera. «A
cosa pensi?»
«Penso che sei bellissimo.»
«Sì, un bellissimo
relitto.», borbottò, sarcastico.
«Ora non fare il
narcisista, sai benissimo che è così e non te lo ripeterò ancora una volta solo
per compiacerti.»
Erik scoppiò in una
sana risata, come non faceva da tempo, e a lui si unì
anche la ragazza, che in realtà sarebbe voluta apparire più seria di quanto non
fosse, ma venne contagiata dal buon umore del compagno. Era così bello vederlo
ridere come un bambino!
Vennero
interrotti da qualcuno che bussò alla porta, così Phénix fece appena in tempo a
mettersi seduta sul letto che Faucon entrò in camera, seguito da Raoul. Il
medico salutò entrambi con cordialità, soffermando la
sua attenzione sulle mani ancora intrecciate dei due. «Mademoiselle, sono
contento di rivedervi in forma.»
«Grazie, anche io son felice che non vi sia accaduto niente di male.»
La ragazza gli sorrise apertamente e tirò una gomitata
all’uomo sdraiato sul letto, continuando a sorridere. «E vorremmo entrambi
ringraziare sia voi che Raoul per quello che avete
fatto e che state facendo.»
Erik si lamentò per
il colpo, soprattutto avendo capito cosa quella pestifera gli stava intimando
di fare. Alzò gli occhi al cielo e si lasciò sfuggire uno
sbuffo. «Sì, bel lavoro.», disse tra i denti.
«Erik...»
Faucon non fece
molto caso ai modi burberi di quell’uomo che non conosceva per poterlo
giudicare come faceva il cugino, che, invece, corrugò la
fronte contrariato. «Mi fa piacere vedere quanto sia immensa la vostra
gratitudine per avervi salvato la vita.»
«A me non fa
piacere sapere che ho messo la mia vita in mano ad un ragazzino come te.»,
ringhiò, lanciando un’occhiataccia a Phénix che lo guardava arrabbiata.
La ragazza si voltò
verso il Visconte, agitando le mani. «Perdonatelo, a volte è più delicato un masso di lui.»
«Vedo.», borbottò
Raoul, passandosi una mano tra i capelli. «Allora vi farà meno piacere sapere
che è grazie a me che siete un uomo libero.»
«Come se avessi
avuto il bisogno del tuo aiuto, per questo.»
«Erik!», esclamò la
ragazza, mettendosi le mani sui fianchi.
Lui alzò le
sopracciglia, facendo finta di non capire. «Phénix, guarda che ho capito che
conosci il mio nome.»
La zingara chiuse
gli occhi, prendendo un bel respiro profondo e contando fino a dieci per non
scoppiare. Sorrideva come un bambino, si comportava come un bambino.
Perfetto.
«Forse avrei fatto
meglio ad ucciderlo, quel giorno.», bofonchiò Raoul,
mentre se ne andava.
«Sono sempre
disposto ad un duello, ragazzino!»
«Vi ricordo che
l’ultima volta che abbiamo duellato non ero io quello in terra con una spada
puntata contro.»
«Maledetto
insolente...»
Faucon, nel
frattempo, fece scivolare lo sguardo dai due uomini alla ragazza dall’altra
parte del letto, e iniziò seriamente a preoccuparsi per la sua salute: quei
respiri profondi che stava prendendo da qualche
secondo non promettevano niente di buono. Forse avrebbe fatto bene a dare una
dose di tranquillanti un po’ a tutti, quel chiasso
stava iniziando a fargli venire un mal di testa con i fiocchi.
Erik venne lasciato andare quasi due settimane dopo, per sua
gioia e per quella del padrone di casa. Se non fosse stato per le amorevoli
cure di Christine e le visite di Phénix avrebbe
preferito andare in gattabuia, pur di dover avere a che fare con il Visconte.
Tornò alla sua Dimora sul lago, nonostante Christine gliel’avesse caldamente
sconsigliato; dopo tutto il caos che era successo qualche soldato
avrebbe anche potuto arrischiare una visita sotto il Teatro, ma Erik, su quel
punto, rimase irremovibile. Non avrebbe lasciato la sua casa, non nel momento
più delicato di tutta la sua esistenza: doveva controllare che i lavori di
restauro stessero procedendo nel migliore dei modi, doveva essere il
supervisore che avrebbe scelto ogni singolo componente
della nuova orchestra, ogni cantante, ogni attore. No, l’idea di vivere in un
luogo che non fosse l’Opera neanche l’aveva presa in considerazione, per lo
meno non per il momento.
Respirò a fondo
l’aria umida che impregnava la grotta per la sua lunga assenza e, accese un po’
di candele, tornò a sedersi al suo organo ed accarezzò
con riverenza quei tasti ingialliti che aveva premuto così tante volte nel
corso degli anni. Era incredibile come un paio di settimane potessero essere
così pesanti da trascorrere senza il suono grave di quello strumento che lui
amava come se si fosse trattato di pane quotidiano.
La musica
s’infranse fragorosa contro la pietra nuda e continuò per ore intere prima che
Erik decidesse di smettere. Suonare la sua musica fu il penultimo gradino di
una scala ripida e quasi infinita e poté finalmente dire di essere arrivato al
culmine della salita. Mancava solo un’ultima cosa prima di sentirsi totalmente
realizzato: la Prima
dell’Opera. Sarebbe stato un successo, già immaginava gli spettatori in piedi
sulla platea e sui palchetti, commossi fino alle lacrime, mentre lui gonfiava
il petto, orgoglioso. Era già tutto scritto nella sua mente, doveva solo
tramutarlo in realtà, pensò con un sorriso.
«Neanche settimane
di fermo hanno saputo intaccare la tua bravura, eh?»
Erik si voltò di
scatto nel sentire l’eco di quella voce che riusciva a scaldargli il cuore ogni
volta e rimase fermo a guardarla, come se fosse una visione. «Da quanto sei
qui?»
Phénix fece
spallucce, avvicinandosi piano alla sua postazione regale. «Non so... il tempo
non passa mai quando arrivo qui. Soprattutto se tu
stai suonando.», aggiunse, sorridendogli.
Erik allungò una
mano per cercare quella della ragazza, e l’attirò a
sé, tra le sue gambe, per imprigionarla in un caldo abbraccio. «Sei tornata,
alla fine.»
«E dove sarei
dovuta andare?»
«Non saprei... lontano
da me, magari.»
«Erik...» Gli accarezzò la guancia libera dalla mezza maschera,
che fece volare via subito dopo infastidita, e avvicinò le labbra a quella pelle
martoriata che lui disprezzava tanto ma che lei amava, perché era il segno di
un uomo unico, unico al mondo. Un po’ egoisticamente, forse, ringraziò Dio o
chi per lui per aver messo al mondo una creatura così, perché altrimenti Erik
non sarebbe diventato l’uomo che era: geniale, passionale, dolce, malinconico,
ma nonostante tutto forte. Era un’alchimia vivente, e lei lo amava per questo.
Perché era diverso.
Erik chiuse gli
occhi, stringendo la presa sui suoi fianchi e tra i suoi capelli, godendosi fino
in fondo i brividi che quegli innocenti baci gli stavano provocando. Poteva una
sola donna avere questo potere su di lui? Poteva una sola donna scombussolargli
l’anima ed il corpo con la sua sola presenza?
Le loro labbra
s’incontrarono in un bacio rovente ancora una volta e, dopo settimane, mesi,
anni, i pensieri, di qualsiasi tipo fossero, vennero
lasciati lontani, chiusi da qualche parte. Niente li avrebbe disturbati, quella
notte, non un ricordo, non il passato. C’erano solo loro ed
il presente in quella grotta che ora sembrava troppo calda per i gusti di
entrambi.
Phénix si allontanò
un poco, per contemplarlo come non faceva da tempo. Lo
guardò chiudere gli occhi e sorridere finalmente sereno, come un bambino. Lo prese per mano, tirandolo gentilmente verso di sé per
intimargli di alzarsi e seguirla.
E lui sì che la
seguì, docile e totalmente rapito da quella donna che l’aveva stregato dal
primo momento in cui aveva incontrato quegli occhi verdi. Catturò ancora le sue
labbra tra le proprie, quasi fosse l’ossigeno che lo teneva in vita. La prese
in braccio, portandola nella nicchia che ospitava il fastoso letto a forma di
cigno e la fece sdraiare sulle lenzuola rosse come il
sangue, rosse come la libidine. Lui la seguì subito dopo, sdraiandosi accanto a
lei e chinandosi a baciarla ovunque l’abito lo permettesse, sulle guance, sulla
gola, sul decolté. Quando alzò lo sguardo per guardarla trattenne il respiro:
la vide con le labbra dischiuse per reclamare quanto più ossigeno possibile,
gli occhi chiusi e il capo piegato contro il cuscino, per permettergli di
baciarla meglio. Era incantevole.
«Erik...»
Dio,
quanto gli piaceva il suo nome sulle sue labbra. Quelle stesse labbra che
riprese a baciare con infinita dolcezza, per gustarle meglio, per imprimersi
ogni singolo istante di quel momento che avrebbe voluto continuasse in eterno.
Phénix gli passò le
mani tra i capelli, facendole scivolare poi su quel viso martoriato, ma ora
illuminato da un’espressione di contentezza ed
incredulità che mai avrebbe pensato di vedergli. Le sue dita sottili scesero
verso l’ampio petto dell’uomo, coperto solo da una camicia color panna, di
quelle che lui amava tanto indossare nei suoi momenti di solitudine. Slacciò
gli unici tre bottoni che la tenevano chiusa e la fece cadere da qualche parte
giù dal letto. Aveva sempre e solo potuto immaginare il corpo di Erik sotto
quegli abiti eleganti che lo facevano sembrare ancora più imponente; ma ora,
poter vedere e sfiorare quelle spalle larghe, quelle braccia che tante volte l’avevano
stretta con forza, quel torace che l’aveva accolta come un cuscino quando era
giù di morale... ora si sentiva mancare.
Erik abbassò lo
sguardo, quasi imbarazzato, verso il corpetto che le stringeva la vita già
troppo sottile di per sé e giocò con uno dei tanti fiocchetti. Tornò a
guardarla, le labbra socchiuse a volerle dire qualcosa.
Phénix sorrise e
gli baciò dolcemente la punta del naso. «Cosa ti preoccupa,
Erik?»
Lui si chinò sulle
sue spalle, nascondendovi il capo. «Ho paura che tutto questo possa finire.»
«Non pensare, Erik. Ti prego, non pensare ora.»,
lo supplicò, stringendolo contro di sé con necessità. «Non pensiamo al domani.»
Erik sospirò
profondamente e quando iniziò a baciarle il collo metà dei fiocchi del corpetto erano già stati sciolti. Le accarezzò languidamente
un fianco, fino a fermarsi rovente sulla coscia. Un istante dopo il vestito
della ragazza giaceva per terra, accanto alla sua camicia.
Phénix si morsicò
un labbro quando Erik si distese completamente su di lei, una volta che anche i
suoi pantaloni vennero gettati via. Lo guardò
intensamente in quegli splendidi occhi acquamarina, ora
completamente velati dalla cieca passione che stava conoscendo, e lo
abbracciò, reclamando ancora una volta il suo posto tra quelle braccia calde.
Erik le baciò la
guancia arrossata e, sussurrandole in un orecchio quanto l’amasse,
unì i loro corpi con una spinta decisa ed urgente. Non riusciva ad immaginare che una persona, per di più lui, potesse provare
una tale felicità e un tale senso di completezza. Credeva che sarebbe scoppiato
dalla gioia in quel preciso istante. Iniziò a muoversi su di lei con desiderio,
baciandola e facendo intrecciare le loro mani, mentre i loro sospiri di piacere
si perdevano per tutta la grotta, unica testimone di quell’amore nato con
lentezza, di nascosto, ma ora talmente travolgente che
se l’avessero represso sarebbero impazziti entrambi.
Raggiunsero
l’apice del piacere una tra le braccia dell’altro e così rimasero per qualche
altro istante, a guardarsi negli occhi, ad accarezzarsi e scambiarsi dolci e
languidi baci.
«Dio, cosa mi hai
fatto...», le sussurrò, stringendosi a lei. «Dimmi la verità, si tratta di qualche sortilegio...»
«Ebbene sì, mi hai scoperta.», rispose lei, scoppiando a ridere quando lo vide
ghignare, divertito.
Poi una mano di
Erik le scivolò lungo il fianco per fermarsi sul suo ventre, e rabbrividì nel
rendersi conto di cosa quel gesto volesse dire. «Tu... vuoi sapere, vero?», gli
domandò, raggiungendo la mano di lui con la propria.
«Ne hai diritto.»
Erik si morsicò un
labbro. «Non sei obbligata a farlo. È parte del
passato.»
«No,
non per me. Io lo volevo veramente quel figlio, anche
se avesse significato crescerlo da sola.» Gli accarezzò il viso, la parte
martoriata, e gli baciò le labbra, dolcemente. «Ma il mio corpo non avrebbe
retto e io ho sempre avuto una paura dannata della
morte, lo sai.»
«Hai interrotto la
gravidanza...»
Lei annuì, gli
occhi lucidi per il ricordo di quei giorni. «Non mi perdonerò mai per quello
che ho fatto.», sussurrò, contro le sue labbra. «Amami, Erik, amami ancora e lava via ogni brutto pensiero, ora.», lo
pregò, stringendosi al suo corpo. «Se mai un giorno capiterà ancora
so che ci sarai tu accanto a me, e a nostro figlio.»
La baciò con
rinnovata passione, incapace di contenere la gioia e il desiderio che quella
piccola donna era in grado di provocargli. Lui e lei, insieme, con dei figli,
una famiglia... Era un pensiero così splendido per essere
vero che a stento riusciva a capacitarsene. Forse anche lui avrebbe
finalmente avuto una vita normale?
Si amarono per
tutta la notte, mai sazi dei loro sospiri, dei loro baci, delle loro unioni.
Il Fantasma e la Strega ormai erano lontani,
per lasciar spazio ad un uomo, una donna ed il loro
amore.
Continua...
Alla prossima
settimana con l'epilogo!
Marta.
PS: vi ricordo che potete trovarmi su il mioaccount
di Facebookche
utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia
aggiungermi è liberissimo di farlo. (: E ora è
arrivato anche il gruppo per ricevere notizie, spoiler e anteprime! Lo potete
trovarequi.
:)
Il sipario rosso e
pesante calò sulla scena, mentre la musica terminava e gli applausi iniziavano
a spargersi per tutto il teatro, fragorosi come un temporale. Il pubblico si
alzò in piedi, commosso e ancora percosso dai brividi che quella
rappresentazione struggente e drammatica aveva suscitato. Era stata lunga,
quattro ore di spettacolo, diviso in tre atti, ma il tempo era volato, per
tutti. Per il pubblico, per i musicisti, per i ballerini e
gli attori.
Christine, che
aveva assistito dal palco numero 5 all'intera opera
seduta al fianco del suo neo-sposo Raoul, si asciugò le lacrime che, calde, le
bagnavano le guance. Avrebbe dovuto essere lei a cantare nella sua parte, ma la
sua gravidanza avanzata non le aveva permesso di farle prendere parte. Non
avrebbe mai creduto che Erik sarebbe stato in grado di superare il suo stesso
genio con quel suo ultimo lavoro. Vi aveva inserito tutto il
dolore che aveva provato durante la sua vita, il dolore di un bambino che non
era stato accettato dagli altri, tanto meno dai suoi genitori; vi aveva messo
l'amore per la musica e l'arte, per lei, per la sua voce; poi il
disastro il giorno dell'incendio - era riuscito anche a riprodurre la caduta
dal lampadario, tanto che molti degli spettatori avevano lanciato urla di paura
- la perdita del suo amore e la disperazione.
Quando era entrata
in scena la zingara, nel ruolo di sé stessa, i toni
dell'opera erano cambiati, diventando più caldi, più dolci. La giovane era la
Fenice che aveva riacceso il fuoco in lui, che gli aveva ridato una possibilità
e la voglia di guardare avanti, nonostante le avversità. Ed era proprio quel
terzo atto il simbolo de La Vita Nova.
Con lei, Erik aveva iniziato una nuova vita e Christine si sentì felice di
saperlo finalmente in pace con sé stesso e con una
donna come lei al suo fianco.
Il bacio finale tra
i due amanti fu la conclusione di un sensuale ballo della zingara, un tango
molto simile a quello che aveva ballato con Étienne - sembravano passati
decenni dal giorno! - mentre Erik cantava del loro amore, con la sua consueta splendida
voce.
Gli applausi non
sembravano diminuire quando il sipario si riaprì sulla scena e tutti gli attori
e i ballerini s'inchinarono al pubblico. Erik, che teneva fermamente per mano
la sua Phénix, chiuse gli occhi, godendosi quel momento di gloria. Non avrebbe
mai pensato che un intero teatro avrebbe potuto acclamarlo di persona, senza
additarlo e senza provare orrore per lui. Era passato del tempo dall'ultima
volta che aveva cantato su quel palco, ma nessuno avrebbe mai dimenticato la
sua voce e la sua sensualità. Nonostante questo, forse per l'assenza della
gendarmeria, forse per il troppo entusiasmo della riapertura del teatro,
nessuno badò alla sua vera identità, nascosto dietro una maschera di scena - o
forse tutti avevano taciuto per non rovinare la serata. Per loro lui era monsieur Duval, il nuovo proprietario dell'Opéra, nonché il
miglior tenore che avessero mai sentito.
Phénix, bellissima
nel suo abito gitano, i capelli rossi lasciati sciolti, tranne
per qualche piccola treccia chiusa da anellini colorati, sorrise,
orgogliosa del suo uomo, ma anche compiaciuta della sua esibizione.
Tutto era un vero
trionfo, ed era del suo Erik.
Gli spettatori
iniziarono a lanciare fiori, rose soprattutto, e Erik
s'inchinò per raccoglierne una e donarla alla sua donna, che l'accettò
volentieri. Poi applaudì lui stesso all'orchestra, agli altri attori e ai
ballerini, tra cui figurava un bravissimo Étienne. L'ultimo sguardo fu per il
suo palco prediletto, dove Raoul applaudiva con ardore insieme alla sua sposa, ancora
in lacrime. E quello sguardo, Erik, glielo doveva al Visconte, nonostante gli
attriti del passato. Aveva fatto carte false - letteralmente - per dare loro
un'identità fittizia, contattando persone poco
raccomandabili per i documenti e usando molto bene le sue doti discorsive con
l'anagrafe. Ora non erano più due persone senza un nome, ma finalmente esistevano. Sophie Rembrant e Erik Duval, una donna e il suo uomo.
Il sipario calò
nuovamente, ma gli applausi continuarono per parecchio ancora.
Phénix si appese al
collo di Erik, stringendolo forte. «Sono fiera di te.»
Lui la baciò
ancora, sorridendo. «Consideralo un regalo di nozze, monamour.»
Meg, che li stava
osservando così come tutti gli altri, dovette voltare
loro le spalle, per evitare che qualcuno la vedesse piangere, commossa.
Étienne, al suo fianco, le strinse una mano, sorridendo. «Bisognerà ringraziare
quell'uomo, è la prima volta che ti vedo così fragile, Meg!», scherzò,
abbracciandola. Lei gli fece una smorfia, ricambiando il gesto e sorridendo
anch'essa.
Françoise, d'altra
parte, stava osservando l'intera scena da dietro le quinte,
un disonore per lei non poter partecipare a quella gioia. Il brutto incidente
che aveva avuto le era costato la carriera di danzatrice - Una disgrazia!aveva esclamato il signor
Duval, con uno strano tono sarcastico. Del resto lei lo sospettava che
quell'orribile imprevisto tanto imprevisto non lo fosse. Ma evidentemente
nessuno tra i ballerini ne aveva sentito la mancanza e
lei era passata al reparto sartoria, tanto per non tornare a casa ed essere
quindi un peso per la sua famiglia.
«Splendido,
splendido!», gridarono in coro i due manager dell'Opéra, che di certo non si aspettavano un tale successo dopo il disastro di qualche
mese prima, e festeggiavano a modo loro, con un bicchiere di champagne e abbracciando
chiunque incontrassero - meglio se fossero due ballerine di fila quelle che
tenevano per un fianco.
Quel giorno Parigi
imparò cosa volesse dire vivere una non-vita come quella del Fantasma e molti
di coloro che ebbero il permesso andarono a
congratularsi con lo scrittore dell'opera che li aveva commossi. Erik non
nascose un certo disagio nel sentire quelle stesse persone che l'avevano
rifiutato complimentarsi con lui ed esprimere tutta l'angoscia che avevano provato nell'assistere a quello spettacolo. "Una visione del Fantasma che non avevo mai
neanche immaginato di considerare!", era la frase che più sentì quella
sera. Fu la presenza di Phénix, che gli stringeva forte la mano, a dargli la
forza per discorrere con loro - fortuna che nessuno osò chiedergli di sfilarsi
la maschera che indossava.
I festeggiamenti
durarono a lungo, ma il sipario si chiuse solo quando Erik e Phénix si
ritrovarono sdraiati tra le lenzuola rosse, proprio come quello stesso
tendaggio che copriva la scena.
La Vita Nova stava solo iniziando.
Continua...
Lacrimuccia finale,
immancabile quando termino una storia.
Spero che questo
racconto vi sia piaciuto, come è piaciuto a me
scriverlo, un paio di anni fa.
Ringrazio tutti, ma
proprio tutti coloro che l'hanno seguito capitolo per
capitolo: chi ha recensito, chi lo ha inserito tra preferiti, seguite e
ricordate, o chi ha semplicemente letto in silenzio. Grazie di cuore!
Questo saluto non è
un addio, tornerò nuovamente a scrivere sul Fantasma, che mi regala giorno dopo
giorno nuovi spunti e nuove idee. Spero di ritrovarvi
tutti e magari di più, in futuro. :)
Un abbraccio
virtuale a tutti!
Marta.
PS: vi ricordo che potete trovarmi su il mioaccount
di Facebookche
utilizzerò per gli aggiornamenti e le novità di EFP, chiunque voglia
aggiungermi è liberissimo di farlo. (: E ora è
arrivato anche il gruppo per ricevere notizie, spoiler e anteprime! Lo potete
trovarequi.
:)