Polvere dei sognatori

di Gloom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1) l'arrivo ***
Capitolo 2: *** 2) Corrado e Raffaele ***
Capitolo 3: *** 3) Morena ***
Capitolo 4: *** 4) La condizione ***
Capitolo 5: *** 5) Make you feel better ***
Capitolo 6: *** Raffaele - 1) Polverano ***
Capitolo 7: *** 2) L'invito ***
Capitolo 8: *** 3) il dialogo ***
Capitolo 9: *** 4) i paletti di Angela ***
Capitolo 10: *** 5) la svolta ***
Capitolo 11: *** 6) la serata ***
Capitolo 12: *** 7) insieme ***
Capitolo 13: *** 8) il pentito ***
Capitolo 14: *** 9) le reazioni ***
Capitolo 15: *** Corrado - 1) il segreto ***
Capitolo 16: *** 2) la pattinatrice sul ghiaccio ***
Capitolo 17: *** 3) Carolina ***
Capitolo 18: *** 4) l'elastico ***
Capitolo 19: *** 5) fluttuare ***
Capitolo 20: *** 6) le perplessità ***
Capitolo 21: *** 7) la scoperta ***
Capitolo 22: *** 8) la perdita ***
Capitolo 23: *** Angela 1) coma profondo ***
Capitolo 24: *** 2) Pu e Pam ***
Capitolo 25: *** 3) gli aculei ***
Capitolo 26: *** 4) il segreto svelato ***
Capitolo 27: *** 5) di nuovo insieme ***
Capitolo 28: *** 6) il cameratismo ***
Capitolo 29: *** 7) vivere ***
Capitolo 30: *** Corrado - 1) la fine ***
Capitolo 31: *** 2) la notizia ***
Capitolo 32: *** 3) il talento ***
Capitolo 33: *** 4) il gruppo ***
Capitolo 34: *** 5) la gita ***
Capitolo 35: *** 6) l'eden ***
Capitolo 36: *** 7) nuovi ricordi ***
Capitolo 37: *** 8) come da copione ***
Capitolo 38: *** Raffaele 1) primavera ***
Capitolo 39: *** 2) il concerto ***
Capitolo 40: *** 2) giugno ***
Capitolo 41: *** 3) dormire ***
Capitolo 42: *** Angela 1) il perdono ***
Capitolo 43: *** 2) L'arcobaleno ***
Capitolo 44: *** 2) la salita ***
Capitolo 45: *** EPILOGO! ***



Capitolo 1
*** 1) l'arrivo ***


Questa è la prima storia che pubblico... anzi, in realtà è proprio la prima storia che ho scritto, un paio di anni fa. Non ricordo come mi sia venuto in mente di scriverla, ma è la prima che è giuta alla fine.
Polverano, la città dove è ambinetato il tutto, non esiste.
L'ho inventato io, e forse è stata l'unica cosa intelligente che ho fatto: se avessi messo i miei personaggi a vivere nella mia vera città, molto probabilmente non avrei mai finito né questa storia né tutte le altre che sono seguite. Senza che sto qui a rompere per spiegare il perché, era solo per avvertire che Polverano non esiste.
 Come tutto il resto, d'altra parte: Angela, Corrado e Raffaele sono usciti fuori dalla mia testolina bacata, come le vicende che affronteranno.
Spero che piaccia... se poi vi viene in mente di recensire, fatelo, per carità! Sono molto più terrorizzata dal non essere cagata da nessuno, piuttosto che dal ricevere critiche :)




Ci sono centinaia di città delle quali nessuno sospetta minimamente l’esistenza; solo gli abitanti sanno dove si trovano, per il resto rimangono totalmente ignorate.
Una di queste è Polverano: città è una parola grossa, a me sembrava ancora un paesino mezzo sfigato pieno di pastori intenti a pascere le pecore.
Non si è ancora capito dove sia; potrebbe essere uno qualunque di quegli agglomerati di case che si vedono sbucare tra le montagne abruzzesi passando per la A 24.  
Quando noi ci arrivammo, il tempo non sarebbe potuto essere più desolante: il cielo era di un bianco accecante, con qualche goccia di pioggia che cadeva formando graffi bagnati sui finestrini dell'automobile; il vento spazzava tutto violentemente, con gli alberi che si piegavano infastiditi alle raffiche. E, particolare alquanto inquietante, dopo la prima galleria si cominciò a leggere “attenzione: animali vaganti sulla strada” sui cartelli elettronici.
Era una cittadina che non mi piaceva neanche un po': buttata tra le più alte montagne peninsulari del nostro Paese, si era fermata alla metà del secolo scorso insieme ai suoi abitanti.
O almeno, così la vedevo io.
Tuttavia sarebbe stata la mia casa fino a quando non avessi raggiunto l'età giusta per scappare in California o in India o sull'Himalaya.
Ci ero stata poche volte, e tutte quando ero ancora piccola: di solito andavamo a trovare la vecchia zia di mia madre, che aveva trascorso tutta la sua esistenza nella casetta incastrata tra i vicoli di Polverano. Ma da quattro anni la zia non c'era più e con lei erano finiti i motivi per venire...
Fino a qualche mese fa.
Fino a quando mamma non si è accorta dell'inferno che la stava avvolgendo in città e si è decisa a fuggire per ricominciare da capo una vita. O almeno provare... perché rimanere con mio padre era fuori discussione. 
La casa era come la ricordavo, con l’intonaco della facciata che cadeva a pezzi; solo il fazzoletto di terra pomposamente chiamato giardino si era un po' inselvatichito, con i trifogli che prosperavano clandestinamente insieme alle erbacce, dove il suolo non era coperto dai mattoni.
Mamma parcheggiò la macchina, scese e, guardando anche lei l'eredità della zia, sospirò: -non sarà una reggia, ma con un po' di lavoro sarà carina. Non credi?-
Uscii dalla piccola utilitaria buttandomi la sacca sulle spalle. Per arrivare a Polverano dalla nostra ex città non ci voleva molto, solo una quarantina di minuti, ma ero comunque troppo sfiancata: per tutto il viaggio avevo faticato a trattenere le lacrime.
Riuscii comunque ad arrangiare una risposta: -bé, no, non sarà malaccio...-.
Non lo pensavo. Non sapevo cosa pensare.
Non avevo la minima intenzione di rimanere in città se l'unica alternativa era andare a stare da mio padre, ma lasciare tutto (gli amici, la scuola, la casa) per venire a vivere a Polverano, il paese dimenticato dal mondo, non mi riusciva facile.
Eppure nel mese precedente al trasloco avevo cercato di mostrarmi, se non felice, almeno non triste a questa prospettiva. Se non altro per non farlo pesare a mia mamma.
Lei si avvicinò alla porta, scrollando un mazzo di chiavi per cercare quella giusta. La trovò e la infilò nella toppa. Dopo quattro anni di inattività evidentemente la porta era restia ad aprirsi, tuttavia, mamma diede una spallata e quella si schiuse sconfitta.
L'interno mi fece pizzicare il naso e gli occhi: c'era odore di chiuso nell'angusto corridoio, e polvere dappertutto che si alzava in nuvolette ad ogni passo.
Mamma cercò a tentoni l'interruttore della luce e, quando lo trovò, due vecchi lampadari (gli orribili lampadari anni '20) sprigionarono una debole luce, sufficiente appena a rischiarare tre porticine in fondo che conducevamo al bagno e alle camere da letto, e al lato un arco che introduceva a una tetra sala da pranzo, in cui erano decenni che non veniva servito un pasto. 
In silenzio, vagammo per la casa (evitando ragnatele penzolanti da chissà quanto tempo) ad aprire le imposte e le finestre.
La casa era desolata: forse le uniche forme di vita che riusciva ad ospitare erano acari della polvere, nascosti tra le pieghe dei lenzuoli che coprivano mobili indefiniti.
Indefiniti ed inquietanti. Rabbrividii al pensiero che quei mobili avrei dovuto usarli io. Mi faceva orrore anche solo la prospettiva di dover scuotere quei teli, come se invece di innocui lenzuoli fossero sudari avvolti intorno a cadaveri che giacevano indisturbati lì da anni.
Non mi piacque quella casa: come l'antica proprietaria, che nel tempo si era fatta sempre più avvizzita e prigioniera di un passato glorioso, anche qui alcuni dettagli testimoniavano una vecchia raffinatezza, ormai portata via dal tempo.
Il pavimento del corridoio era delizioso, di mattonelle decorate da venature che si intrecciavano a formare fiori intricati, ma era appiccicaticcio e coperto da uno strato di polvere; c'erano le porte di legno ai cui angoli erano dipinti motivi curvilinei, ma rimasti troppo tempo in ombra e scorticati; infine scoprii dentro la vetrinetta in sala da pranzo dei soprammobili semplici e di buon gusto, ma nascosti al mondo da un ennesimo lenzuolo che un tempo doveva essere stato bianco e che ora presentava alcune macchie di un dubbio giallastro.
Tastai un po' prima di estrarne uno a caso e mi ritrovai a reggere un'ampolla in vetro colorato, a foggia di delfino che saltava da un'onda. Dove si trovavano più cose così raffinate?
Quell'ampolla mi piacque molto. Però mi fece pensare a quando era stata esposta sulla vetrinetta, quando all'anno della mia nascita mancavano probabilmente decenni e quella casa era ancora come un castello in miniatura, e mi prese un fondo di malinconia. O meglio, scavò ancora di più nella malinconia che provavo da...da anni, e che aveva preso forma  nel mese precedente.   
-Angela- chiamò mia madre -vieni, se vuoi puoi scegliere la camera da letto-. 
-Oh, d'accordo...- riposi con cura l'ampolla e tornai in corridoio.
Delle due camere da bambina ne vidi solo una: l'altra era la stanza della zia e, se anche mi fosse stato permesso di entrare, non l'avrei fatto per nulla al mondo: la zia puzzava, e pensavo che la sua camera fosse sempre permeata da quell'odore rivoltante. Per questo non ci misi molto a decidere:
-credo che qui starò bene- dissi mettendo il naso nella cameretta che dava sulla strada dietro la casa.
Non era molto più grande del bagno, era spoglia e sulle pareti c'erano macchie scure d'umidità. 
-Bene. Il camion dei traslochi arriverà tra un po', nel frattempo vado ad accendere l'acqua e il gas...- mamma sparì lasciandomi sola in quella stanzetta.
Mi avvicinai alla finestra. Oh, mi ero scordata che c'era pure un balcone.
C'era ancora un filo che correva a qualche centimetro dalla ringhiera, addirittura ci penzolavano una manciata di mollette per il bucato, con i colori portati via dalla troppa esposizione al sole. Uscii e ne presi una: appena tesi un po' la molla, mi si sbriciolò tra le mani con un suono secco.
Il groppo che avevo nella gola si sciolse, trasformando in lacrime quel pizzicorio agli angoli degli occhi che avevo associato alla polvere.
Sentii le lacrime scivolare giù per le guance, fino a lanciarsi terminando la loro caduta sulla felpa.
Avevo nostalgia delle mie migliori amiche, dei miei compagni di classe, della mia camera, della mia città, del cazzeggio in giro con gli amici, delle multisale e dei locali...tutte cose che qui non avrei mai trovato, perché qui era tutto più lontano, più dimenticato, più estraneo.
Nuove lacrime, questa volta di odio: odio verso quella persona che ci aveva costrette ad andarcene, con il suo egoismo. E di quella persona avrei dovuto per sempre portare il cognome.
E' orribile...odio mio padre.
Non avevo neanche la forza per asciugarmi la faccia. Rimasi per parecchi minuti in piedi fuori al balcone, con il sole autunnale che tramontava prematuramente, tingendo il paesaggio di una dolce tonalità aranciata. Se fossi stata più felice, mi sarebbe sembrato anche bello. 
Davanti a me si vedevano le case e i tetti di Polverano: case sparse sulle montagne, sembravano addossate sopra infinite salite e discese.
Alcune erano antiche come la nostra, ma altre sembravano più recenti. Molte di quest'ultime sembravano disabitate, con le imposte sbarrate, come se fossero in vendita. Mi chiesi chi mai avrebbe potuto desiderare di comprare casa a Polverano.
-Angela?- mi asciugai in fretta le lacrime prima di raggiungere mia madre.
-Angela, è arrivato il camion, possiamo cominciare...rimbocchiamoci le maniche, ce la faremo-.
Annuii e passammo un pomeriggio estenuante, dirigendo gli uomini della ditta che arrancavano sotto il peso dei nostri scatoloni.
Scoprii di averne voglia: faticare mi aiutava a non pensare, e quindi a non ricordare. Di sera la casa era già più abitabile, sebbene fosse ancora lontana dal nido che avevo sognato. D'altra parte, negli ultimi anni non mi ero sentita a mio agio nemmeno in casa mia in città. Forse avevo qualche problema di adattabilità.
Finalmente, dopo un paio di rapidi panini per cena (niente pasti caldi fino a quando non fosse arrivata la nuova cucina), potei augurare la buona notte e andare in camera: era talmente tetra che neanche la luce rassicurante della mia lampada da tavolo riusciva a nascondere i dettagli più inquietanti come le macchie di umidità sulle pareti.
Avrei dovuto faticare per ricavarne un buco in cui ricreare la mia tana. Però la scrivania in legno era enorme e ospitava un computer, finalmente tutto mio, e il mio vecchio tappeto a fantasia mi sembrò di buon auspicio.
Nell'angolo vicino la finestra c'erano un paio di scatoloni con tutti i miei effetti personali. Anche se la stanza era illuminata solo dal debole chiarore della lampada e sebbene fossi in pigiama e con una borsa dell'acqua calda tra le braccia, decisi comunque di aprirli.
Sapevo cosa c'era dentro, perché l'avevo riempiti io stessa la un paio di giorni prima: vecchi libri, quaderni, poster, cartoline, peluche di quando ero bambina, soprammobili, lo stereo con i cd, riviste... Una foto cadde dal fascio che avevo in mano: vidi me stessa sorridere ghignante, con ai lati le mie migliori amiche, Pu e Pam. Era estate, eravamo vestite con camicette leggere, e dietro di noi il sole splendeva alto tra le fronde dei bagolari del centro.
Dietro la foto c'erano le loro dediche, sotto una scritta colorata: "a Polverano non piove!!".
Sorrisi: la vecchia storia del "piove o non piove?" che si ripeteva ogni volta che non capivamo che tempo faceva fuori dalla finestra. Un'altra lacrima, l'ennesima. Non mi piacevano le lacrime. Mi asciugai la guancia e appoggiai la foto sul comodino.

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Capitolo 2
*** 2) Corrado e Raffaele ***


La mattina dopo fui svegliata, dopo una dormita turbolenta, dal fastidioso suono della sveglia del cellulare. Non avevo mai avuto bisogno della sveglia, di solito ci pensava mia madre a farmi alzare dal letto in tempo per farmi prendere l'autobus per la scuola. Ma in città mamma ci metteva pochi minuti per arrivare al lavoro, qui invece avrebbe impiegato tre quarti d'ora: non aveva potuto portare il lavoro a Polverano, quindi era costretta a uscire di casa praticamente all'alba.
 Mi svegliai, accorgendomi di aver accumulato un'ansia a cui non ero abituata. Il primo giorno alla mia nuova scuola. Mi sembrava strano immaginare un liceo in un paese di vecchi. Ma non del tutto spiacevole.
 Guardai rapidamente il mio riflesso assonnato nello specchio: qualche mese prima avevo tagliato i miei capelli, ormai più rossi che castani, molto corti; probabilmente così li avrei tenuti per molto tempo. Erano arruffati e pieni di nodi, avevano bisogno di essere lavati. Invece era opinione comune che i miei occhi fossero belli, verde scuro, ma mi ricordavano talmente tanto quelli di mio padre che provavo ribrezzo anche per loro.  
 Mugugnando, mi avviai verso il bagno; sapevo cosa mi aspettava, ricordavo le torture quando la zia era ancora viva... la cabina della doccia era minuscola, c'era appena lo spazio sufficiente per muoversi. Quel bagno aveva ancora bisogno di essere personalizzato come si deve. Arraffai da uno scaffale di plastica (comprato al centro commerciale spendendo solo una banconota blu) shampoo, balsamo e bagnoschiuma e mi infilai sotto il getto d'acqua. Con mia grande sorpresa, l'acqua uscì subito calda e il getto fu uniforme. Con qualche difficoltà alzai lo sguardo e sorrisi: mamma aveva cambiato la cipolla, garantendomi un lavaggio confortevole.
 Una volta uscita, calda e fumante, frizionai i capelli con un asciugamano e tornai in camera. Dal guazzabuglio dell'armadio tirai fuori i miei jeans preferiti, abbastanza larghi da non mostrarmi troppo ma sufficientemente stretti da non sfociare nello stile anni '70, e una felpa scura. Non volevo farmi notare troppo, non quando avrei preferito essere invisibile. Ovviamente quindi niente trucco. Feci una rapida colazione, ficcata in gola a fatica, poi rimasi seduta in cucina con la testa fra le mani. Guardai l'ora: era presto, troppo presto. A casa ero abituata a scapicollarmi per prendere l'autobus, ma qui avrei potuto camminare tranquillamente fino a scuola impiegando non più di cinque minuti. Chissà come avrei ingannato il tempo...
 Un sonoro miagolio interruppe i miei pensieri. Mi affacciai dalla finestra, in tempo per vedere una signora nella casa vicino alla nostra che scacciava via un minuscolo gatto tigrato con una scopa. Il gatto si allontanò risentito e rimase a girovagare un po' davanti al cancello. Presi una fettina di pancetta dal frigo e feci capolino nel giardino, dopo aver battagliato con la porta.
 -Pss!- Sussurrai. Il gattino mi guardò con moderato interesse, facendo orgogliosamente mostra di un pezzino di orecchio mancante.  -Ehi gatto, tieni!- Gli sventolai davanti la strisciolina di carne. Quello si avvicinò circospetto e l'annusò. Poi si ritrasse con espressione schifata. Sbuffai e gli lanciai la pancetta tra i trifogli, stizzita, poi mi chiusi la porta alle spalle. Che gatto insolente.
 Dopo altri dieci minuti pensai che avrei fatto meglio ad avviarmi verso la scuola. L'idea di arrivare in anticipo non mi entusiasmava, ma pensai che almeno non avrei corso il rischio di fare tardi se non l'avessi trovata subito.
 Mi avvolsi nella giacca e misi la borsa dei libri in spalla. Camminare mi faceva sentire meglio, ed in più ebbi modo di osservare per bene Polverano. Non era il massimo. Le insegne dei negozi mi facevano pensare ai vecchi film dello scorso decennio, alcune delle più scrause avevano i colori portati via dal sole estivo come le mollette del mio balcone, mentre le vie erano strette e troppo...pulite, per me che ero abituata a decine di cartacce buttate in terra.
 Non fu difficile trovare la scuola: un brutto palazzo di cemento pieno di finestre dalle veneziane abbassate, racchiuso da un cancello arrugginito e da un muro pieno di graffiti. Dentro il cortile c'erano già un bel po' di ragazzi e ragazze, che chiacchieravano riuniti in campanelli, in piedi o seduti alle panchine, con gli zaini accasciati ai piedi. Alcuni fumavano, altri ridevano; tutto sommato sembrava un normale liceo classico. Mi sentii sollevata: adesso avevo la conferma che Polverano non era solo una città di vecchi.
 Incerta sul da farsi, mi avvicinai al portone. La campanella sarebbe suonata tra pochi minuti, e già alcuni ragazzi stavano entrando a suon di spintoni e risate. Scivolai tra le ante del portone mentre il fiume umano si ingrossava e mi guardai intorno smarrita. Feci un bel respiro e mi avvicinai a un gruppo di ragazze che erano in procinto di salire le scale.
 -Ehm, scusate, sapete dov'è il V A?-Chiesi. Quelle si guardarono per un po', dubbiose. Avevo pensato che fossero più o meno della mia età e che lo sapessero...
 -Mi spiace, non lo so- mi disse una, poi gettò lo sguardo in lontananza osservando un gruppo di studenti. -Oh, aspetta che chiedo, lui lo dovrebbe sapere...- disse ammiccando a uno dei ragazzi. Si alzò un attimo sulle punte gridando:
 -Raffaele! Vieni un attimo qui!-. Un ragazzo, con i capelli biondi che arrivavano quasi alle spalle, si avvicinò.
 -Che c'è?-Chiese.
 -Questa ragazza deve andare in V a...dove sta?-. Raffaele ci pensò un po' su, poi si rivolse a me:
 -Mi sa che è al primo piano...- Alzò lo sguardo come se potesse guardare attraverso il soffitto, mentre rifletteva -Si, ne sono sicuro, sali le scale e poi subito a destra-. Ringraziai e mi avviai dove mi era stato indicato, con la spiacevole sensazione di essere osservata. E infatti quando mi voltai vidi il campanello di ragazze e Raffaele che mi osservavano di sbieco.
 Arrivai in classe in poco tempo. La porta era aperta e dentro c'era la mia futura classe: alcune ragazze erano sedute sui banchi e chiacchieravano tranquillamente, due ragazzi e una ragazza erano chini su un banco a copiare una versione, alcuni maschi si stavano ancora salutando con sonore pacche sulle spalle, altri ripassavano con la grammatica latina davanti al naso.
 Mi guardai intorno spaesata, e pian piano qualcuno si accorse della mia presenza. Tutti smisero di fare quello che stavano facendo, tranne i tre che continuavano a scrivere furiosamente la versione.
 Una ragazza con voluminosi capelli ricci mi si avvicinò: -sei quella nuova?-Chiese.
 -Ehm, si sono io-risposi. Quella mi porse una mano dalle unghie perfettamente smaltate e lucidate:
 -Piacere, io sono Ludovica-. Io le porsi la mia mano, vergognandomi un po' delle mie unghie mangiucchiate. Acc.
Dopo Ludovica si presentarono anche gli altri componenti della classe, curiosi per questa novità dai capelli rossi. Agghiacciata, una volta che ebbero finito mi resi conto di essermi scordata tutti i nomi.
 Mi chiesero di tutto, ma soprattutto da dove venissi. Quando risposi timidamente che venivo dalla città, sembrò che tutti facessero la stessa domanda, quella che non avrei mai voluto sentire, a cui non avrei saputo rispondere: -e allora perché sei venuta qui?!?-. Chissà come me la cavai. Una colossale figuraccia. Alla fine a togliermi dall'imbarazzo arrivò il professore di latino e greco: un uomo imponente ma sgradevole, dai capelli brizzolati. Tutti presero immediatamente posto, sfrecciando ai propri banchi e lasciandomi in mezzo alla classe in bella vista. Il prof sorrise:
 -Tu devi essere Angela Nerella, la nuova studentessa- disse. Annuii.
 -Bene, siediti pure- fece mentre si avviava alla cattedra. Io mi morsi il labbro:
 -Ecco, mi chiedevo dove potrei sedermi...-biascicai. Qualcuna pigolò una risata.
 -Oh, mettiti qui, c'è un posto vuoto- disse il prof con un gesto della mano. Io lo seguii e vidi un posto in terza fila, vicino a un ragazzo dai capelli castano chiaro. Lui mi fece posto.
 Una volta seduta, concentrarmi fu difficile. Un po' perché tra gli interrogati del giorno capitò uno di quelli che stava copiando la versione, e lo spettacolo mi sembrò troppo penoso, un po' perché ero distratta dal mio compagno di banco che stava giocando a fantacalcio con i suoi amici al banco dietro il nostro. Accolsi la campanella con un sospiro di sollievo.
 -Che te ne pare di Polverano?- Chiese il mio vicino di banco. Sapere come si chiamava mi avrebbe fatto piacere, ma non osai richiederlo.
 -Oh, è... non mi piace neanche un po' se vuoi saperlo. Senza offesa- risposi. Schietta e sincera. Il tipo rise.
 -Perché?- Chiese, ma lo fece come se si aspettasse la mia risposta.
 -Bè... sembra tutto così vecchio- risposi.
 -Immagino di si, per te che vieni dalla città-.
 -Esatto. E poi vengo qui da quando ero piccola, a trovare la mia prozia, e con lei tutto sembrava antico. Non ho mai pensato a Polverano come a un posto per... per noi-.
 -In effetti, se sei sempre stata circondata da vecchi è normale che non ti piaccia. Ma magari hai bisogno solo di entrare nella generazione giusta di Polverano- sorrise.
 -Credo di si...- mi strinsi nelle spalle, restituendogli il sorriso.
 -Ma quindi perché sei venuta?- Chiese infine. No. Non di nuovo. Abbassai lo sguardo: non dire niente sarebbe stato peggio, quasi come dire la verità, quindi cercai una scusa plausibile. Pensai in fretta, mentre decine di idee andavano in ogni direzione senza incontrarsi mai.
 -Ehm, la casa in città ha bisogno di essere ristrutturata da cima a fondo. L'abbiamo venduta e siamo venute qui- farfugliai. Se non fossi stata così imbarazzata mi sarei scompisciata dalle risate a sentire quella panzana impossibile. Chissà che non meditasse di farlo pure il mio interlocutore. Tuttavia, lui annuì come a dire "capisco", e riuscii a sentirmi sollevata.
 -"Venute"? Tu e chi altro?-Chiese.
 -Io e mia mamma. Ehm, papà non...non c'è da quando ero piccola. Scappato via-. Sorrisi con semplicità a quell'affermazione, quasi rimpiangendo che non l'avesse fatto davvero.
 -Oh, mi dispiace. Sei figlia unica quindi?-.
 -Già. Tu?-.
 -Ho un fratello-.
 -Più grande o più piccolo?-. Lui sogghignò:
 -Gemello. Eterozigote, fortunatamente. Fa questa stessa scuola, solo nell'altra sezione-.
 -Oh, deve essere bello avere un fratello gemello...-sospirai. Il tipo annuì vigorosamente:
 -Andiamo molto d'accordo, è il mio migliore amico. Si chiama Raffaele-. Raffaele? Collegai subito il nome al ragazzo carino che mi aveva indicato la classe.
 -Mmm...ma per caso è alto e biondo?- Chiesi. Ora che ci facevo caso, notavo anche una certa rassomiglianza tra i due.
 -Si! Lo conosci?-
 -Non proprio. Mi ha solo detto dove stava la classe quando sono arrivata a scuola-. Mi chiesi se non si conoscessero tutti in quella scuola; la prospettiva mi faceva orrore. Ma tutto sommato Polverano non era poi così piccolo...
 -Ah, figurati. Dov'è che abiti?- Mi chiese il tipo, di cui continuavo a ignorare il nome. Eppure si era presentato...
 -Ehm, non so il nome della via...vicino all'alimentari, hai presente?-.
 -Non c'è un solo alimentari a Polverano-
 -Bè, non so come spiegarti...è a cinque minuti a piedi da qui...-. Improvvisamente lui proruppe con un "Ah!" significativo.
 -Hai capito?- Domandai. Lui annuì: -si si, credo di si. Noi abitiamo un po' più giù, vicino al cinema-.
 -C'è anche un cinema qui?- Esclamai fingendomi sorpresa. Lui sogghignò:
 -Polverano mica è un paesino! Non è poi tanto più piccolo della tua città, sai?-. L'angolo della bocca mi si arricciò verso l'alto, imitando la sua smorfia.


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Capitolo 3
*** 3) Morena ***


L'entrata della professoressa in classe fu preannunciata dalla caduta del silenzio fra i banchi: la donna che entrò infagottata in una giacca lunga fino ai polpacci era immensa: i rotoli di grasso erano così massicci che sembravano anormali, come le ciambelle gonfiabili dei bambini che non hanno ancora imparato a nuotare. Si levò il cappotto rivelando una scollatura abnorme, colmata da due seni che pendevano pericolosamente verso il basso. Scostò bruscamente la sedia dietro la cattedra, prendendo posto su una che si avvicinò dall'angolo, senza braccioli. Ebbi quasi paura quando abbandonò la sua mole sul povero legno, che scricchiolò pericolosamente. Se fosse caduta, quante persone sarebbero state necessarie per riuscire a rimettere in piedi quella donna?
 Guardai basita il mio vicino, che ridacchiò divertito alla mia espressione.
 -Quella è la Tediani, la prof di lettere. Che silouette, vero?-.
 -Non è normale! é...- non trovavo gli aggettivi giusti -come fa a vivere, con tutto quel grasso addosso?-.
 -Ah boh. Come vivono gli elefanti probabilmente-. Lo guardai con aria truce.
  -Povera donna, mi fa pena...non è giusto prenderla in giro-.
 -Tzè, pena! La si vede ogni volta che si esce da scuola con una pizza o una focaccia in una mano, e prima delle lezioni sempre con un bombolone alla crema o una zeppola. Se permetti non mi fa poi tutta questa pena. E poi prendere in giro i professori è sempre lecito, e loro accettando questo lavoro lo sanno. La Tediani poi in particolar modo. é una carogna nelle interrogazioni, fidati-.
 Guardai la donna che cominciava a impartire ordini con tono autoritario. Evidentemente il suo peso non la influenzava troppo...
 Passai due ore a cercare di tenere il ritmo della lezione di letteratura, rendendomi conto di essere terribilmente indietro rispetto al programma. Ma nella mia vecchia scuola non eravamo ancora arrivati così avanti ai "Promessi Sposi"...
 La terza campanella trillò e Corrado, il mio vicino di banco (mi era inconsapevolmente venuto in soccorso il suo amico al banco di dietro, chiamandolo per nome mentre gli proponeva di continuare la partita al fantacalcio) mi fece strada fino al corridoio:
 -bé, comincia il tour della scuola, della durata della ricreazione, ti va?- Chiese.

Annuii e lui riprese: -Andiamo a recuperare Raffaele, così vi presento-.

Mi condusse giù per le scale, mentre salutava conoscenti e spizzicava pezzi di merende. Per le scale fu placcato da un bidello, dal probabile passato da rugbista vista la stazza: sosteneva che non si poteva passare da un piano all'altro, ma Corrado lo canzonò trascinandomi giù.

Di sotto il panorama era lo stesso, ebbi modo di osservarlo mentre Corrado si avvicinava a tre ragazzi fuori da una classe vuota. Salutò due di loro con un cenno e poi schiaffò una pacca ben assestata sulla nuca di quello biondo.

Raffaele si girò: era più carino del fratello, con la corporatura smilza e profondi occhi color nocciola. Non che Corrado fosse da buttare via: alla mia amica Pam sarebbe piaciuto non poco.
 -Corrado, servo tuo- salutò. Poi mi guardò di sbieco.
 -Raffa, questa è Angela, si è appena trasferita qui- disse Corrado. Raffaele abbassò un po' lo sguardo e per un attimo il suo viso fu nascosto dai capelli, poi li scosse via e sorrise:
 -Oh. Ah, ecco perché ti serviva di sapere la classe. Mi sembravi un po' troppo cresciuta per essere una matricola-. Sorrisi a mia volta e alzai le spalle, senza dire una parola.
 Improvvisamente Corrado afferrò il fratello e fece in modo di fare cambio di posto, apparentemente senza motivo. Ora era Raffaele a guardare il muro, mentre lui poteva spaziare con lo sguardo su tutto il corridoio. Non capii subito quel gesto, ma a quanto pare fui l'unica: Raffaele sbuffò, sarcastico e probabilmente abituato.
 -Perché ti sei spostato?- chiesi. Corrado non rispose, ma si limitò a fissare un punto sopra la spalla del fratello. Lo seguii con lo sguardo e capii nello stesso istante in cui Raffaele mi spiegava: -quella è Morena. Corrado le sbava dietro da settimane, ma tanto lei è così tonta da non accorgersene. Fa il secondo liceo-.

Morena mi sarebbe sembrata anche carina, se fosse stata meno frivola. Questo mi facevano pensare di lei il pullover volutamente corto, che a ogni passo lasciava intravedere una striscia di pelle dorata, e l'alone di fondotinta che un osservatore attento poteva notare a confronto con la nuca pallida.
 -Ti piace quella?- Chiesi a Corrado. Lui scosse la testa:
 -No, assolutamente! Ma è un gran bel pezzo di...- tornò a mangiarla con gli occhi.
 -Vuoi che vada a parlarle? Così vi presento, a me non mi conosce, posso...-
 -No! Non farlo. Ci...ci penserò io, quando sarà il momento- esclamò Corrado. Mi strinsi nelle spalle.

Parlare agli sconosciuti era una delle cose che mi riuscivano meglio: in città feci vergognare un sacco di ex della mia amica Pu, lei che aveva sempre avuto tanto successo con i ragazzi sbagliati, perché mi riusciva facile fare la tosta davanti a persone che tanto non mi avrebbero mai conosciuta. Il problema sorgeva con le persone che sapevano come fossi davvero...


 Strano come ci siano giorni in cui tutto quello che era sempre stato quotidiana routine improvvisamente cambia: mi divertì pensare che per Corrado quel giorno era stato decisamente curioso. Una nuova vicina di banco prima, la ragazza a cui fa il filo che improvvisamente gli rivolge la parola poi. Certo, magari avrebbe preferito un dialogo leggermente migliore… non sapevo come avesse considerato la prima novità, di sicuro però non apprezzò per niente la seconda.
Infatti, Morena per girarsi scelse proprio il momento in cui Corrado era tornato a fissarla non proprio educatamente. Lo guardò stizzita, prima di esclamare:
 -Ehi tu, che hai da guardare?-. La voce sprezzante e strafottente giunse alle nostre orecchie, e non passò manco un secondo che il viso di Corrado diventò una maschera rossa di vergogna.
 -Chi, io? Io niente, niente, che vuoi che stia guardando…- Balbettò. Lei corrugò la fronte e strinse le labbra:
 -Senti cinno, bada a farti i fatti tuoi. Hai inteso?- Scosse la testa infastidita e tornò sul suo piedistallo immaginario.
 Corrado distolse subito lo sguardo, mentre Raffaele si schiariva rumorosamente la voce. Figura di cacca, sembrava voler dire. Io mi morsi un’unghia, non sapendo bene che fare.    
 La campanella suonò di nuovo, ponendo fine a quel tormento. Tornare in classe non fu facile, concentrata com'ero a schivare le persone che si affrettavano a tornare alle rispettive lezioni lanciandosi su o giù per le scale. Nessuno di noi tre tornò più su quello che era successo in quei miseri dieci minuti. Avrei avuto un mucchio di cose da dire a Corrado (ancora di più a quella Morena) ma ancora non mi permettevo. Mancanza di confidenza.

Prossima ora: latino. Non ero mai stata una latinista provetta, quella lingua non mi piaceva quasi per niente; tuttavia ero sempre riuscita a tenermi a galla strappando la sufficienza ai compiti in classe, per questo non avevo particolari problemi. Ero certa che finito il liceo non avrei ricordato nulla di tutte le nozioni studiate, ma non me ne preoccupavo: era una lingua morta, e il posto dei morti è sotto terra.
 Il professore entrò deciso, si avvicinò alla lavagna e con un sorriso malefico annunciò:- bene, adesso fate attenzione, sto per spiegare la perifrastica passiva-.
 Alla mia destra avvertii Corrado sbuffare contrariato e poi prese i libri rassegnato. Io lo imitai, con un fondo di vaga preoccupazione. Ci pensò il prof a consolidarla cominciando la spiegazione: parlava di gerundivo, un qualcosa di cui avevo fino ad allora ignorato l'esistenza. Provai a seguire, mentre il panico si faceva strada, ma non riuscivo a stare al passo con la lezione. Lo sguardo si perse nella lavagna, tra gli esempi che il prof spiegava sempre più elettrizzato, ignaro che la nuova studentessa del terzo banco non ci stava capendo un tubo. Corrado mi sbirciò con la coda nell'occhio e si rese conto che qualcosa non andava.
 -Angela, tutto ok?- Sussurrò. Io gli restituii uno sguardo smarrito:
 -Ehm, non proprio. Cos'è il gerundivo? E il gerundio?-. Lui mi guardò sconcertato:
 -Oddio...ma a che punto del programma eri arrivata nella tua vecchia scuola?-. Io ci pensai un po' su.
 -Credo...si, avevamo appena accennato i verbi deponenti. Ops...credo di essere un po' indietro-. Un attimo di silenzio.
 -Credi che dovrei dirlo al professore?-. Corrado annuì:
 -Sarebbe la cosa migliore...-. Un po' riluttante, alzai la mano. Il prof era così preso dalla sua spiegazione che ci mise un po' prima di accorgersi che stavo cercando di stabilire un contatto. Forse viveva su un altro pianeta. Questo avrebbe spiegato l'aria stralunata e (particolare abbastanza agghiacciante) i pallini di saliva accumulati agli angoli della bocca dal troppo parlare. Appena li notai, la voglia di parlare mi passò alla velocità della luce. Troppo tardi.
 -Nerella, hai qualche problema?-Chiese. Io feci un bel respiro e poi presi parola, rammentando solo all'ultimo minuto la regola che avevo imparato in anni di scuola ("non cominciare con ehm, mai!"). Ma non riuscii ad onorarla.
 -Ehm, io credo di essere un po' indietro con il programma...nella mia vecchia scuola eravamo arrivati a studiare i verbi deponenti- biascicai. Il prof mi guardò stizzito e poi alzò le spalle:
 -Bè, vedi di metterti in pari. Io non ho tempo da perdere per una sola persona. Adesso continuiamo...- si voltò verso la lavagna e riprese a spiegare come se non avessi mai parlato. Io rimasi di sasso, non ebbi neanche la decenza di prendere la penna per far almeno finta di scrivere.
 -Che bastardo- sussurrò Corrado per consolarmi. Apprezzai il gesto, ma non sortì nessun effetto. Avrei rivisto la sufficienza a latino solo col binocolo da quel momento.
 
 Una volta arrivata davanti alla porta di casa, grullai il mazzo di chiavi e infilai quella giusta nella toppa. La casa era ancora vuota, mamma non era ancora tornata. Quasi l'avessi chiamata telepaticamente, il cellulare squillò nella mia tasca. Risposi.
 -Angela? Tutto bene?- Chiese la sua voce, sempre troppo acuta al telefono.
 -Si si tranquilla. Sono appena rientrata a casa-.
 -Bene...io sarò di ritorno tra un'oretta e mezza o due ore, non so...tu intanto comincia a cucinarti qualcosa, ok?-.
 -D'accordo...-
 -è tutto in frigo. Fai qualche panino, dovrebbe esserci della pancetta-
 "Sempre che non l'abbia mangiata il gatto" pensai sarcastica. -Ok ma', va bene, non ti preoccupare...- Inutile, ovviamente. Ora che era partita in quarta, non avrebbe perso l'occasione di farsi venire i complessi.
 -Posso stare sicura? Mangia, ok? Come è andata la scuola?-
 -Oh, bé...- sfilai la giacca e la buttai su una sedia, mentre la borsa dei libri finì ad accasciarsi sul divano -mi toccherà studiare tantissimo, sono troppo indietro con il programma, e poi...mi hanno fatto tutti la stessa domanda-. Esitai.
 -Quale?- Chiese mia madre.
 -Mi hanno chiesto perché mi sono trasferita qui a Polverano-. Mamma rimase per un po' in silenzio prima di riprendere la conversazione.
 -E tu che hai risposto?- Domandò in tono neutro.
 -Che la casa in città cascava a pezzi e quindi abbiamo dovuto traslocare-. Silenzio, poi mamma sbuffò.
 -Ehi che vuoi, lo sapevi che tanto qualcosa avremmo dovuto inventare!- Replicai stizzita.
 -Si. Non fa niente. Allora ci vediamo dopo, d'accordo?-.
 -Ok. A dopo-. Riattaccai il telefono e lo scaraventai sul tavolo infastidita. Avevo capito perfettamente cosa aveva pensato mia madre: punta nell'orgoglio, probabilmente si stava già chiedendo cosa avrebbe potuto rispondere ai nuovi vicini di casa quando l'avessero incontrata. Non riuscivo a non biasimarla, il poco orgoglio che aveva le era già stato portato via, ma almeno non se la prendesse con me...

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Capitolo 4
*** 4) La condizione ***


Con il passare delle settimane, la casa si fece sempre più abitabile: io e mia madre riuscimmo a disfare tutti gli scatoloni e in breve mi abituai al nostro nuovo stile di vita. Imparai ad odiare il suono della sveglia che ogni mattina mi ricordava di dovermi alzare dal letto. Mamma tornava sempre dopo pranzo dalla città, per questo fui costretta ad imparare un po' dell'arte culinaria. In alternativa, memorizzai in testa il numero dello speedy-pizza, stratagemma a cui ricorrevo la maggior parte delle volte, visto che io e i fornelli continuavamo a non avere un buon rapporto.
 Avevo in parte cambiato la mia visione di Polverano: sembrava di meno il paese dei pecorari, ora somigliava di più a una sfigata e comunissima cittadina di provincia. Se non altro, i vecchi non mi sembravano più così tanti.
 Sul versante della scuola scoprii di essere un disastro: se in città mi mantenevo a galla grazie alla mia buona stella, evidentemente Polverano godeva di un altro sistema siderale. La prima settimana avevo lavorato come un mulo per rimettermi in pari col programma, ed ora si trattava solo di aspettare pazientemente che venissero corretti i compiti in classe.
 In classe imparai ad associare ad ogni persona il giusto nome: ormai riuscivo a capire il carattere dei miei compagni, ma di grande aiuto fu comunque una cruenta assemblea di classe, nella quale capii che la stessa legge che governava la mia vecchia scuola aveva preso posizione anche qui: la solita legge del più forte, o in questo caso del più simpatico alla prof.


 Una tetra mattina di novembre ero come sempre in catalessi sul banco, mentre la prof leggeva con voce monotona un passo dell'Immortale Romanzo del Manzoni e Corrado scarabocchiava distratto sull'angolo del libro. Avevo imparato a conoscerlo meglio, e mi riusciva semplice parlare con lui, come per lui parlare con me. Stavamo bene insieme, spesso preferivo passare la ricreazione con lui e Raffaele. La campanella trillò allegramente, ponendo fine a quel sermone antico di un paio di secoli. Odiavo Manzoni. Corrado si stiracchiò, poi proruppe:
 -Oggi è probabile che Torresi ci riporti il compito di latino. é passata una settimana, li avrà corretti ormai-. Io sbuffai: Torresi, il prof di latino e greco che mi aveva ormai preso di mira, certo che sarei stata da bocciare se fosse stato per lui. Ma lui era quello che non mi aveva manco ascoltata quando gli avevo spiegato che ero leggermente indietro con il programma.
 Entrò in classe spalancando la porta, e tanta fu la veemenza che la corrente d'aria sfogliò alcune pagine del registro sulla cattedra prima di chetarsi.
 La classe si alzò in piedi, scambiandosi da un banco all'altro sussurri concitati: in mano il prof teneva una cartelletta bordeaux e un fascio di fogli a righe piegati per il verso lungo. I nostri compiti. Lui si diresse alla cattedra e sistemò per bene tutte le varie cartellette, come se volesse tenerci sulle spine, sebbene avesse notato che avevamo notato. Poi sorrise malvagio: -Tabini, distribuisci i compiti. Sono andati nel complesso bene, anche se alcuni hanno delle...lacune da colmare- il suo sguardo saettò verso di me, ma forse l'avevo solo immaginato.
 Silvana si alzò dal suo posto in prima fila e prese il fascio di fogli, poi passò tra i banchi per consegnarli ai proprietari. A volte sorrideva complimentandosi con loro, a volte invece alzava le spalle incoraggiante sussurrando brevi parole di conforto di nascosto dal prof. Silvana era ok. Certo, nessuno ebbe tempo di consolarla quando gettò con uno sguardo rassegnato il suo cinque virgola cinque sul proprio banco. Si avvicinò al nostro posto:
 -Bella Corrà!- Bisbigliò consegnandogli la sua versione. Con la coda nell'occhio, vidi uno splendente sette brillare di luce propria sul foglio. Assestai una pacca sulla spalla al mio vicino, sorridendogli. Poi però Silvana torno con in mano il mio compito e un'espressine indecifrabile. Alzò le spalle dispiaciuta. Con mano tremante presi il foglio che mi porgeva: proprio sotto il mio nome Torresi aveva scarabocchiato un quattro con due meno affiancati. Rimasi a fissare il voto senza il coraggio di aprire il compito.
 -Quanto?- Sussurrò Corrado. Girai impercettibilmente il foglio. -Oh...- Con una buona dose di tatto, relegò il suo sette all'angolo del banco. -Mi dispiace...tranquilla però, si recupera...- cercò qualcosa di carino da dire, ma non gli venne in mente niente. Sempre incapace di parlare, aprii il foglio e vidi il mio tentativo di traduzione, vergato con una scrittura tremolante e minuta, soffocato da segni rossi e blu (questi ultimi molto più numerosi rispetto ai primi). Addirittura, di fianco ad alcune frasi il prof aveva vergato un paio di punti interrogativi, quasi a dire "come cavolo hai tradotto??". Oddio. Dove avevo sbagliato? Ero talmente scioccata che non riuscivo neanche a capire gli errori. Eppure avevo l'imbarazzo della scelta.
 -Ed ora correggiamo la versione del compito. Era fin troppo facile, vero?- Proruppe Torresi. Bastardo. Questa volta mi aveva guardata davvero, non era la mia immaginazione. Mi dispiacque potergli restituire solo uno sguardo acquoso, mentre avrei voluto lanciargli un'occhiata in grado di incendiargli quel ridicolo pullover che portava sulla camicia.
 Lesse i periodi di latino con una lentezza assurda e poi la traduzione citando gli errori più comuni che avevamo commesso. Ovviamente, sembrava che avesse imparato i miei a memoria, dato che li ridisse tali e quali a come avevo scritto io.
 Al suono della campanella, quaranta tediosissimi minuti dopo, reagii con un sospiro di sollievo. Finalmente potei parlare ad alta voce. I miei compagni di classe si fiondarono fuori dalla porta, decisi a spremere l'intervallo al meglio per sopravvivere alle restanti ore di lezione. Corrado mi guardò e alzò le spalle: -magari la prossima volta andrà meglio...- disse, vedendomi irritata.
 -Non ne sono sicura. Ho perso alcune lezioni che ormai non riuscirò mai a recuperare. Colpa di quel...quel...- Non mi veniva in mente niente per poter definire Torresi, neanche rovistando tra le espressioni meno ortodosse del mio vocabolario.
 -Animo dai. Vado da Raffaele, mi accompagni?-. Annuii: non avrei sopportato di rimanere nel gruppetto di ragazze della classe, dove stavano ancora ciarlando dei voti.
 Al piano di sotto l'atmosfera era un po' più tranquilla, evidentemente risentiva dell'assenza degli studenti più grandi, la cui maggior parte delle classi era impegnata nei compiti in classe dell'inizio del quadrimestre. Raffaele uscì dalla sua classe insieme a un gruppetto di amici.
 -Morena è assente- disse subito al fratello - me l'ha detto Elena, della classe mia. Sapevi che vanno a pallavolo insieme? Comunque mi ha detto che oggi sarebbe stata sicuramente interrogata, quindi ha deciso di non entrare. Ovviamente la versione ufficiale è che aveva bisogno di una visita medica-. Si appoggiò alla parete, con lo sguardo perso in lontananza. Corrado incrociò le braccia imbronciato.
 -Angela, tutto bene? Sembra che tu voglia uccidere qualcuno- disse poi Raffaele ghignando. Tornò a fissare il punto sopra la mia spalla.
 -No, niente va bene- mugugnai. Lui mi guardò interrogativo.
 -Il prof ha riportato i compiti di latino...- spiegò Corrado. Raffaele annuì comprensivo. -Se posso...quanto?-.
 Alzai quattro dita. Lui si strinse nelle spalle:
 -Bè non è la fine del mondo...questi sono solo i primi compiti-.
 -Come no...smettetela di dire sempre le stesse cose, sono tutte cretinate. Non sono mai stata una cima a latino e in nessun'altra materia, e qui toccherò il fondo, fino a quando non mi faranno ripetere l'anno!- Esclamai irritata.

Non capivo da dove venisse tutta quella rabbia: alla fine era solo un quattro, niente di grave sul serio. Eppure non era quello a farmi salire il sangue al cervello: era l’espressione di pena che tutti assumevano con me, lo sguardo carico di dispiacere riservato solo alla nuova studentessa. Raffaele mi guardò per un attimo, poi tornò alla velocità della luce al suo punto imprecisato, e ancora cambiò direzione per studiarsi i lacci delle scarpe mentre mormorava un "ma dai, non buttarti giù..." che mi parve neanche troppo convinto. Ci pensò Corrado a prendere in mano la situazione:
 -No Angela, non è così. Se nella tua vecchia scuola andavi bene, non vedo perché qui non dovrebbe essere lo stesso. Non ti bocceranno per un quattro, poco ma sicuro, e hai tutto il tempo per recuperare. Ma se ti fai scoraggiare così non arriverai da nessuna parte. Insomma, pensa più positivo!-. Lo guardai dritto negli occhi, mentre come al solito nella mia testa le obiezioni si affollavano in una matassa da cui non usciva niente di senso compiuto; solo concetti ancora non espressi a parole.
 -Io...tu...no! Non...non riesco ad essere positiva, ma non puoi capire!-.

Non avevo detto niente. Era la difficoltà a trovare le parole che non mi faceva esprimere quello che sentivo. E non solo le parole da dire ad alta voce, ma anche quelle per capire cosa pensavo. Pensieri troppo veloci per la mia testolina non proprio sveglia...
 -Spiegami, così forse riesco a capire- disse Corrado.
 -No-. Questo era facile. Non avrei spiegato un bel niente, e nessuno sarebbe riuscito a forzarmi.
 -Perché?-.
 -Perché no-.

Mi voltai e salii in fretta le scale, prima che potesse incastrarmi prolungando la conversazione. Non parlare, non parlare. Era la regola che mi ero prefissa arrivando a Polverano.

Sul pianerottolo, mi voltai e vidi Corrado e Raffaele che mi guardavano preoccupati ai piedi delle scale. Scappai su fino al bagno, dove mi rinchiusi in un gabinetto per calmarmi prima che finisse la ricreazione. Aspettai che le lacrime per il mio schifo di situazione arrivassero a pizzicare gli angoli degli occhi, ma dopo un paio di respiri profondi fui certa che non sarebbero scese, quindi tornai verso la classe. Vidi che Corrado non era ancora risalito, e sospirai di sollievo. Mi avvicinai a Ludovica e le altre, inserendomi a spintoni nella loro conversazione. Provai il tono di voce, e pensai che fosse passabile. Non sembravo particolarmente scossa...almeno speravo. Dopo il suono della campanella presi posto timidamente vicino a Corrado. Lui mi guardò come se fosse perplesso e preoccupato insieme.
 -Angela, c'è per caso qualcosa che non va?- Chiese cauto. Io lo guardai e scossi la testa. Lui non sembrava convinto, ma d'altra parte faceva bene: la mia era una bugia. Poi decisi di mettere in chiaro le cose:
 -Ascolta, ci sono cose di me che probabilmente non dirò mai, né a te né a nessuno. Se per te questo è un problema, puoi smettere di essermi amico, lo capisco. Ma ti prego, non mi forzare-. Aspettai.
 -D'accordo, non insisterò-. Sorrisi grata. -Ma non voglio troncare la nostra amicizia. Però...Anche Raffaele ci è rimasto un po' male. E credo che neanche lui voglia toglierti il saluto. Ti dispiace se ne parlo anche a lui di questa tua...condizione?-.
 Scossi la testa: -Al contrario, te ne sarei grata. E...Grazie- riuscii a dire sollevata.  

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Capitolo 5
*** 5) Make you feel better ***


 Forse fu proprio da allora che cominciammo a essere davvero amici, e non più semplici conoscenti. Fui contenta di questa novità. Non tornammo più sul discorso per tutto il resto delle lezioni, e sembrava andasse bene così. Ma non fu l'unica cosa che migliorò la giornata.
 L'ultima campanella trillò allegramente, o forse così sembrava a noi che avevamo trascorso ore e ore dentro la scuola, e diede a tutti il permesso di alzarsi, scaraventare i libri nello zaino e di fuggire verso la libertà.

Una scena quotidiana, appesantita però dal fatto che tornata a casa avrei dovuto trovare il modo meno immediato possibile di dare a mia madre la notizia del quattro. Evitai di pensarci, mentre con Corrado mi avviai verso il portone.

Trovammo Raffaele ad aspettarci fuori dalla scuola, e non appena mi vide mi squadrò con aria preoccupata: -Angela...stai meglio?- Chiese. Io mi morsi il labbro.
 -Si si, sta meglio- disse Corrado, lanciando uno sguardo significativo al fratello. Lui forse capì che una spiegazione sarebbe arrivata, e decise di aspettare pazientemente.

Ci incamminammo lungo la strada principale di Polverano, cercando di chiacchierare del più e del meno. Ma non riuscivo a non vergognarmi della mia reazione durante l'intervallo: cosa ero sembrata? E cosa sarei sembrata? La lunatica del momento? Mi scoprii a essere taciturna e a non ascoltare manco quello che i miei amici stavano dicendo. Fino a quando Raffaele mi chiamò, porgendomi il suo mp3.
 -Eh? Scusa, non stavo ascoltando, cosa devo fare?- Chiesi.
 -Mi chiedevo se ti andava di sentire una canzone... mi è venuta in mente per te dopo che sei scappata via...- districò le cuffiette e me le porse, accendendo l'affare. Lessi il titolo della canzone.
 -"Make you feel better"...suona bene- mormorai. Arrossendo, ovviamente.

Infilai le cuffiette e premetti il pulsante.
 Avevo sempre avuto un rapporto speciale con la musica: la assorbivo come le spugne assorbono acqua, come lo studio assorbe energie. Di ogni genere, di ogni cantante, ogni volta mi scorreva dentro le vene prendendo il posto del sangue e facendomi salire di un paio di gradini rispetto alla realtà. E la canzone che cominciò a pulsarmi nelle orecchie era quella giusta al momento giusto. In inglese, come piacevano a me (come aveva fatto Raffaele a immaginarlo?), sebbene non riuscissi a capire la maggior parte delle parole riuscii a intendere il significato globale della canzone. E il ritornello mi entrò nelle orecchie così a fondo che non ci misi molto a tradurlo.
 "We are the ones that will make you feel better". Sorrisi abbassando lo sguardo.
 -Ti piace?- Chiese Raffaele. Io annuii: -è molto bella- dissi, sincera. Lui sembrò soddisfatto.
 -Bè, puoi considerarlo come un regalo di benvenuto. Forse un po' in ritardo, però...- Corrado alzò le spalle.
 Ma cosa mi importava del ritardo? Sorrisi raggiante.

Di solito a questo punto nei libri e nei film la protagonista si getta tra le braccia di quelli che le stanno portando aiuto, fa loro capire in modo manifesto tutta la sua gratitudine, dice qualcosa di appropriato, trovando le parole giuste. Ma io rimasi impalata davanti ai miei migliori amici senza fare niente, anche perché non sapevo come fare per abbracciare entrambi allo stesso momento e con la stessa intensità, come era mia intenzione.

A volte si ha l’impressione che un semplice “grazie” non basti per ripagare le persone: mi venne voglia di fare qualcosa di grandioso per Corrado e Raffaele, qualcosa di altrettanto potente come ciò che loro stavano facendo per me. Sorrisi commossa, mentre i red hot chili peppers mi cantavano nelle orecchie quello che i due gemelli davanti a me mi volevano far capire. Loro erano quelli che mi avrebbero fatta sentire meglio. 

 
In città le miei migiori amiche erano Pu e Pam. Oltre a loro conoscevo parecchia gente, ma con nessuno avevo lo stesso rapposrto che con le mie ragazze. Mi limitavo a mettere dei paletti, e nessuno aveva voglia di oltrepassarli: proprio quello che volevo.

Con Corrado e Raffaele fu diverso: loro mi avevano vista, avevano sondato il terreno e avevano capito che c'era un lucchetto. Eppure avevano deciso di provare a scassinarlo, in mancanza della chiave; loro si avvicinarono, io mi avvicinai, e ci incontrammo a metà strada.
 Non che non avessi altri conoscenti: in classe andavo d'accordo con tutti, e imparai a conoscere anche altra gente che mi venne presentata nei mesi che seguirono al mio arrivo. Eppure, i miei migliori amici divennero loro.
 Insieme riuscivamo ad essere in sintonia, complice un feeling che ci teneva uniti e che tutti riuscivano ad avvertire facilmente anche dall'esterno. Era bello rendersi conto che avevo trovato lo stesso rapporto che avevo con Pu e Pam.

All’inizio il fatto che fossero dell'altro sesso mi aveva creato qualche perplessità; quando ero sola con loro, sentivo un fondo di inquietudine che non riuscivo a spiegare. Poi ci feci l’abitudine, e mi accorsi che spesso era più facile stare con loro che con ragazze che conoscevo, visto che da tempo non esistevano più differenze caratteriali tra le due sponde. In realtà dubitavo che ce ne fossero mai state, dato che conobbi ragazzi pettegoli come ragazze cafone. E ne avevo sempre conosciuti, anche in città. Ma non me ne importava: come si dice, vivi e lascia vivere. Senza rancore.
 Giorno dopo giorno, Raffaele mi passava le canzoni del suo gruppo preferito, che aveva cominciato ad appassionarmi. La musica ci accomunava, e forse fu grazie ad essa che riuscii a legarmi a lui come lo ero con Corrado, visto che a differenza del fratello era molto più timido.
 In breve tutti impararono a conoscerci come un trio inseparabile. E noi lo eravamo: prendevamo ogni occasione per stare insieme ogni volta che era possibile, sfruttando il fatto che l'autobus che attraversava Polverano impiegava non più di venti minuti.
 E il nostro motto, la nostra canzone (quando proposi questa versione Corrado e Raffaele si erano guardati fingendosi preoccupati) fu proprio "make you feel better". Forse la canzone più bella mai suonata al mondo.
 A suggellare la mia entrata nel micro-universo di Polverano.    


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Capitolo 6
*** Raffaele - 1) Polverano ***


-Raffaele-

 Polverano è una cittadina, dimenticata sulla catena di gelidi monti abruzzesi, dove tutto è più piccolo di come dovrebbe essere: le case e i cinema, i locali e i ristoranti, i vicoli e le piazze. In compenso, tutto c'è in abbondanza, come per stabilizzare la situazione. Il risultato è un'atmosfera soffocante, troppo soffocante.
Come per il resto, anche la classe della scuola dove mi ritrovavo era troppo piccola; nonostante ciò, autorità superiori erano riuscite a stiparci dentro ventisette studenti, consce però del fatto che sarebbe stato pericoloso. Che poi non si venissero a lamentare se per la fine dell'anno la struttura riporterà qualche danno...

Ovviamente non dico sul serio: non siamo quel tipo di classe, ad eccezione di qualche elemento siamo fin troppo tranquilli. La qual cosa dopo un po' diventa frustrante, se hai dentro una voglia di ribellarti come me. Non sono mai stato irrequieto, però se c'è un concetto che non mi si crea è quello di rimanere inerte per arruffianarmi un professore che ha instaurato un regime tirannico nella propria classe.

 Nelle altre sezioni non è così: in classe di Corrado e Angela il professore di ginnastica (come se ne avessero bisogno) ormai ha rinunciato a fare lezione: entra in classe, getta un'occhiata sulle masse studentesche che gli danno la stessa importanza che darebbero al muro dietro di lui e li trascina in palestra solo perché lo pagano, mentre loro fanno esercizi di "defaticamento" o, quando invece si sentono particolarmente attivi, salto collettivo della corda (venticinque ragazzi che saltano in "sincronia" una corda è uno spettacolo da non perdere).
 Con le altre materie le cose vanno relativamente meglio: non hanno sottomesso nessun altro professore (anche se alla fine dello scorso quadrimestre una delle loro prof li ha abbandonati nelle mani di una zelante supplente per prendersi tre mesi di ferie, causa stress psico-fisico), ma riescono a metterli in crisi instaurando dibattiti su temi decisamente poco consoni all'ambiente scolastico. Deve essere esilarante.
 Al contrario, io mi limito ancora ad ascoltare la voce della prof che aleggia soporifera sulle nostre teste, fingendo di prendere appunti. Il 90% di quello che dice sono solo chiacchiere, ormai lo sappiamo tutti per esperienza.
 Corrado è il mio migliore amico. In verità è il mio fratello gemello...Non siamo identici come due gocce d'acqua, ma ci somigliamo molto: entrambi alti, magri, occhi come cioccolata calda, l'unica -rilevante- differenza è il colore dei capelli; i suoi sono castani, meravigliosamente anonimi, io invece in testa ho quelle che sembrano tante pagliuzze bionde. Puah. Eppure quando entro in classe sua ci sono sempre un paio di ragazze pronte ad attaccare bottone con me.

Peccato per loro: un'altra cosa in cui siamo diversi è che lui ama stare al centro dell'attenzione, al contrario di me.
 Invece per Angela è un altro discorso. é arrivata a Polverano qualche mese fa, insieme a sua madre. é diventata la nostra migliore amica, nonché vicina di banco di Corrado. Fu lui a presentarci, il suo primo giorno in questa scuola... e da allora per me era diventata un chiodo fisso: non riuscivo a smettere di pensarla, di ammirarla, di amarla.

Era diversa dalle altre ragazze, meno banale e frivola, e decisamente più chiusa. Non ero mai stato un esperto, mai ci avevo provato seriamente con una ragazza, eppure in quel periodo mi ritrovai a concentrare tutti i miei sforzi nel cercare di sfondare il muro che aveva eretto intorno a sé.


  Il mio sguardo si perse fuori dalla finestra, mentre la prof continuava a blaterare su un numero imprecisato di imperatori romani. Fuori il paesaggio non offriva una valida distrazione: la nebbia che quella mattina avvolgeva Polverano si stava lentamente alzando, ma lasciava il posto a una strada umidiccia per la pioggia del giorno prima. Aveva piovuto per una settimana intera, con poche interruzioni. E niente neve. D'altra parte, eravamo appena alla metà di novembre, sarebbe stato un po' prestino per la neve.
 Il suono della campanella mi prese alla sprovvista, ma fui contento di sentirlo. Ricreazione, dieci minuti di libertà. Ovviamente, la prof non smise di parlare, e ovviamente nessuno fece niente per farle capire che la sua lezione era finita. Solo io avevo chiuso libri e quaderni, tutti gli altri membri della classe continuarono a seguire la lezione come se fossero realmente interessati. Se questa fosse stata la classe di Corrado e Angela, se la sarebbero già squagliata tutti, accalcandosi sulla porta con il rischio di sfondarla.
 Dopo altri cinque minuti di lezione clandestina, riuscii a raggiungere il corridoio. Fuori c'era una marea di studenti che, riuniti davanti alle finestre o ai termosifoni (a seconda della temperatura corporea), chiacchieravano, divoravano cibarie, prendevano a calci il distributore di merende o si limitavano a fare casino. Vidi Corrado che mi aspettava al nostro angolo preferito, davanti alle scale che portavano al piano di sotto.
 -Deve essere stata una lezione interessante, per trattenervi metà dell'intervallo- ghignò. Già, chissà da quanto tempo era fuori lui.
-lascia perdere. Guarda, sta salendo Angela- dissi. Ormai riuscivo a simulare indifferenza piuttosto bene, ma non potei impedirmi di contemplarla per un po'. Insieme a una compagna di classe, saliva le scale sulla punta delle scarpette da ginnastica, sembrando ancora più leggera di quanto non fosse già. Aveva un bel fisico, troppo spesso nascosto da felpe e jeans larghi che lo minimizzavano, soprattutto in inverno. Non era una bellezza che si notava subito, ma una volta notata non cessava di abbagliare.   
  Guardò Corrado, sorrise e alzò lo sguardo, come a dire "stavolta devo averla fatta grossa...".
 -Ti ha finito di interrogare?Come è andata?- Le chiese. Lei continuò a guardarlo con quel suo sorrisetto preoccupante.
 -Tre!- Esclamò infine, alzando le braccia in segno di vittoria. Scoppiai a ridere, per prenderla in giro.
 -Wow, ti sei data da fare...hai intenzione di dirlo a Susanna?- Chiese mio fratello. Ci era fin troppo nota la media di Angela, e anche la sua tendenza a nasconderlo alla madre. Lei rise.
 -Oh, non credo. La settimana prossima ricomincia il giro delle interrogazioni no? Basterà che lo becchi di buon umore...-. Saltellò e ci guardò con quel suo sguardo che significava "come se servisse a qualcosa!". Era opinione comune che le avrebbero ridato almeno una materia, ma lei non se ne preoccupava più.

Nella sua vecchia scuola aveva una media apprezzabile, ma a quanto pareva non le importava più da quando era arrivata a Polverano. Ora si trattava di faticare alla fine dell'anno, quando si tiravano le somme. Ma non avrebbe mai permesso che la bocciassero. Il suo carattere era deciso, forte. Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, e chi ci provava assaggiava la sua ira bollente. L'avevo vista arrabbiata poche volte, ma mi erano bastate.
 Una ragazza scese le scale. Era una delle ragazze più belle dell'istituto, e il caso voleva che ci passasse davanti quasi ogni giorno: era come una silfide, si muoveva fluttuando, lasciando che i lunghi capelli scuri le ondeggiassero sulla schiena. Era fasciata in jeans attillati, che ne esaltavano le forme. E che forme...La maglietta, volutamente troppo corta, si sollevava e abbassava di un paio di centimetri a ogni gradino, lasciando intravedere a intermittenza una striscia di pelle. Guardai Corrado ghignando. Non le aveva mai parlato, ma sapeva chi era. Morena, secondo liceo. Due anni più vecchia, gli dicevo io. Due anni più scema, aggiungeva Angela. Ma lei probabilmente era solo invidiosa, sebbene non ne avesse reale motivo.
 -Corrado? Ci sei?- Angela ed io cominciammo a ridacchiare dietro di lui.
 -Incantato di fronte a quell'opera d'arte?- Lo punzecchiai.
 -Tzè, opera d'arte, sai quante ne trovi...quella è stupida come una gallina- intervenne Angela.
 -Tu sei quella che ha preso tre a greco, non parlare- disse Corrado con lo sguardo ancora perso nel vuoto.
 -Elena, una della classe mia, la conosce. Ed è d'accordo con Angela- dissi.
 -Bah, chi non ha buona testa ha buone gambe- decretò Corrado.
 -Il proverbio significa un'altra cosa- puntualizzò Angela. Ma capì che era inutile. Ormai la sua mente era occupata dagli oggetti della sua perla di saggezza rinchiusi nei jeans scuri della proprietaria.
  Il campanello trillò di nuovo, un po' disconnesso perché evidentemente qualche studente stava cercando di impedire al bidello di suonarlo come si deve, in un inutile tentativo di prolungare la pausa. Angela e Corrado mi salutarono e con tutta calma salirono le scale, chiacchierando. Io attraversai il corridoio fino ad arrivare alla mia classe.

La professoressa di latino e greco mi fece cenno di precederla, poi entrò anche lei e si chiuse la porta alle spalle. Di nuovo bloccato qui, per altre due ore. Se non altro avevo una buona visione nella mia mente con cui distrarmi.

Angela...desiderai, non per la prima volta, di frequentare la classe sua e di Corrado.

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Capitolo 7
*** 2) L'invito ***


Nostra madre ci aveva spinti ad andare in due classi separate, sebbene dopo la terza media Corrado ed io avessimo deciso di andare entrambi al liceo classico. Era convinta che ci avrebbe fatto bene, e poi non voleva che i professori facessero confronti. Diceva che era possibile, ed era sicura che non avremmo gradito. Secondo noi non sarebbe stato affatto così, e in ogni caso non ci avremmo dato peso, ma lei si occupò personalmente di fare le iscrizioni. Noi non ci opponemmo più di tanto, così questo era già il secondo anno che ci ritrovavamo in due classi differenti, ma persistevamo. Non ci saremo divisi. Inoltre, su una cosa nostra madre ci aveva visto giusto: frequentando gente diversa, i nostri micro-universi si erano ampliati.   


 Sulla strada per tornare a casa, Corrado mi subissò di domande su Morena, ma io volevo evitare di rispondere. Lei era più grande, era una delle ragazze più belle della scuola. Meglio non creare false illusioni.
-Non so...ti sembra una cosa seria?-Chiesi.
-Stai scherzando?Certo che no. Insomma, Morena è solo un gran bel pezzo di ragazza, ma niente di più. Se riuscissi ad attaccare bottone sarei più contento, certo, ma posso tranquillamente vivere senza di lei- rispose lui.

Non era una bugia, su questo versante lo conoscevo abbastanza bene. Le storie lunghe non facevano per lui, le vedeva come una limitazione; perché sprecare interi mesi dell’adolescenza con una sola ragazza, manco fosse sposato?
-Bè, meglio- arrivammo davanti casa e scrollai il mazzo di chiavi, cercando quella giusta. La trovai e la infilai nella toppa -non mi convince quella tipa. E poi...-lasciai la frase a metà, mordendomi la lingua. Meglio tacere.
 -E poi?-Mi incalzò.
 -E poi...bé, meglio non provarci con le ragazze più grandi. Non ci mettono niente a scaricarti per un'altro- improvvisai.
 -Come se fosse un problema- mormorò lui entrando in casa e gettando senza troppi complimenti lo zaino nell'ingresso. Non era quello il suo posto, ma non importava. Lì non dava fastidio a nessuno. Presto a fargli compagnia arrivò anche il mio, e ci precipitammo in cucina. Nostra madre stava trafficando sui fornelli, dove sfrigolavano diversi cibi.
 La caratteristica migliore di nostra madre, Selina, è che è frizzante: conosce metà delle persone di Polverano, ha molti amici, a volte troppi, e se parla male di qualcuno è perché deve averla fatta proprio grossa. Con noi ha sempre avuto un buon rapporto, anche se a volte riesce a essere petulante; ha sempre da ridire sul fatto che lasciamo quotidianamente gli zaini buttati nell'ingresso, per fare un esempio. Lei non sa di essere così amata da me e Corrado, ma dovrebbe sospettarlo.

D'altra parte, non ne parliamo mai, siamo poco inclini alle smancerie. Nemmeno tra me e mio fratello ne abbiamo parlato, ma lo sappiamo.
Apparecchiò velocemente la tavola, dopo averci salutato frettolosamente, e portò una padella enorme dalla quale servì il pranzo. Mentre noi ci limitavamo a mangiare, nostro padre si sforzava spesso di trovare qualcosa di carino da dire, come se fosse strettamente necessario. E noi due rispondevamo sempre di fretta, fino a quando non lo abbandonavamo prima che ci chiedesse di lavare i piatti. Povero... lui non capiva più quanto potesse essere frustrante per noi rimanere costretti a tavola quando tutto quello su cui meditavamo era come spremere al meglio il pomeriggio per fare ciò che ci eravamo prefissi, il che spesso comprendeva una decina di cose diverse.
 Quel giorno non fu diverso. Ma a metà del pranzo squillò al telefono e, mentre i nostri genitori si chiedevano chi potesse disturbare a quell'ora, Corrado si precipitò alla cornetta. Sapeva già chi fosse.
 -Angela?-Salutò, poi si allontanò portando il cordless lontano.
 Dopo qualche minuto tornò in cucina, riappendendo la cornetta.
 -Questa sera Angela sta da sola a cena, chiede se andiamo da lei. Ci sarai, si?- Chiese. Rimasi con il boccone a mezz'aria, ma cercai di non far notare la mia esitazione. Ma certo, era ovvio. Era quanto di più meraviglioso meditassi.

 

(Due paroline dall'autrice: finalmente ho qualcuno a cui rispondere... grazie Alister09 per la tua recensione! Sono felice che ti piaccia questa storia :) in realtà avevo pensato anche io che il tema della "tipa che si trasferisce" è stato scritto e riscritto migliaia di volte, ma avevo bisogno di un inizio... ho pensato che al limite avrei potuto puntare su altre caratteristiche, ed è per questo che la tua recensione mi ha rincuorato :))

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Capitolo 8
*** 3) il dialogo ***


-Il tre deve essere passato inosservato- notai entrando a casa di Angela.
-E certo, altrimenti mamma non mi avrebbe mai permesso di invitarvi a cena-rispose lei facendoci entrare.


La casa di Angela non era molto grande, non come la nostra, ma era confortevole.
 Apparteneva alla vecchia zia di sua madre, morta quattro anni prima. Spesso avevamo chiesto ad Angela perché fosse venuta a vivere qui, a Polverano, quando sarebbe potuta rimanere in città senza problemi. Ma lei non aveva mai risposto.

E non nominava mai suo padre, neanche per sbaglio. Tutto quello che sapevamo era che per colpa sua odiava i suoi occhi verdi. Peccato.


 Corrado sprofondò sul divano e cominciò a fare zapping davanti alla televisione, perfettamente a proprio agio.

Angela volteggiò per il salone fino ad atterrare sul divano vicino a Corrado, si sporse per prendere il telefono e compose un numero, fatto talmente tante volte da essere ricordato a memoria.
 -Chi chiami?- Le chiese mio fratello. Lei si mise un dito davanti alle labbra facendo cenno di stare in silenzio. Dopo un po' qualcuno rispose dall'altro capo del filo, e Angela parlò.
 -Buonasera, vorrei ordinare delle pizze-
 Dall'altro capo qualcuno rispose qualcosa.
 -Si, allora aspetti un momento- Abbassò la cornetta premendosela contro il petto -veloci, che pizza volete?- Chiese.
 -Non potevi avvertire prima? Bé...prendi una margherita per me-
 -Tu?- chiese lei rivolgendosi a me.
 -Oh, io, ehm, uh...-
 -Eddài veloce!-
 -Margherita. Anch'io-
Angela tornò al telefono - due margherite e una con le salsicce e patate senza pomodoro. Esatto, solo mozzarella. No no, anche le patate e salsicce... si. Perfetto, la via è...- continuò a spiegare mentre io mi sedevo sulla poltrona del salotto e fissavo senza vederla la televisione.
 -Bene, le pizze arrivano tra un quarto d'ora -Disse mettendo giù la cornetta -Raffaele, cos'hai? Sembri un ameba, parla un po'-.


 Sentir pronunciare il mio nome dalla sua voce serafica non mi aiutò a focalizzare i pensieri, a metterli uno dopo l'altro secondo un filo logico, ma ci provai. Dopo tutto, era solo un essere umano, non mi avrebbe divorato...
 Iniziammo a chiacchierare del più e del meno, grazie anche all'aiuto di Corrado.

Mi chiesi, non per la prima volta, come mai non avessi ancora confidato il mio patetico amore per Angela a mio fratello. Un po' temevo la sua reazione, pensavo che sarebbe stato geloso: lui e Angela erano solo migliori amici, ma forse non gli avrebbe fatto piacere. O forse si. In ogni caso, non avrei potuto dirglielo quella sera, visto che alla fine tornò a casa anche lui con il suo bel carico di problemi, di cui né io né Angela sapevamo l'esistenza.
 Era passata un'ora da quando erano arrivate le pizze: eravamo in salotto, stravaccati sul divano, con la televisione accesa e il tavolino ingombro di cartoni della pizza e bicchieri di coca-cola, chiacchierando del più e del meno, quando uscì il nome di Morena.

Subito Corrado lasciò cadere il trancio di pizza che brandiva tra i cartoni davanti a lui.
 -Non è niente di speciale quella ragazza- disse Angela -ha un bel fisico, non lo nego, ma se glie lo levi non rimane niente-.
 -E poi ha la puzza sotto al naso, mi hanno detto che guarda tutti dall'alto in basso- aggiunsi.
 -A me non piace. Tra l'altro...-
 -Gente, non potete parlare d’altro?- Esclamò a un tratto Corrado, senza far finire Angela di parlare.
 -Hihi, le muori ancora dietro?- Lo stuzzicò lei. Lui le lanciò un'occhiata di ghiaccio.
 -Io non muoio dietro a nessuno- disse -chiaro? E smettetela di spettegolare su di lei, non la conoscete per niente!-.
 -Perché, tu la conosci bene? Andiamo, si sa che è una gallina -
 -Chi te lo dice? Smettetela di parlare di lei!- Si alzò e uscì dalla stanza.
 -Eddài, dove vai?- Chiesi seguendolo.
 -Al cesso!- esclamò sbattendosi una porta alle spalle. Tornai in salotto da Angela.
 -Accidenti, non mi aspettavo che se la prendesse così tanto!- Sussurrò lei.

Sprofondai sul divano, occupando il posto lasciato libero da Corrado.
-Neanche io. La cosa mi preoccupa...lui dice che non gli importa niente, ma a questo punto comincio a pensare che sia il contrario. è strano; non ha mai fatto così per una ragazza-.
 -Perché ti preoccupa?- Chiese Angela. Io controllai che Corrado non fosse nei paraggi prima di rispondere.
-Ci sta così male ora, e non sa che è già occupata. Mi hanno detto che sta con un tipo del quinto anno. Sarà il caso di dirglielo?-  
 Angela sospirò e si abbandonò su un cuscino, quasi sparendo dentro la sua felpa troppo larga. -Forse si. Senza che si faccia troppe illusioni. Corrado!- Gridò.

Nessuno rispose. Ci guardammo negli occhi, scoraggiati. Che verde stupefacente... Ma non dovevo distrarmi. -Vado a prenderlo io- dissi, e uscii dalla stanza.
 La casa era piccola, non ebbi difficoltà a trovare il bagno. Mi chiesi come facessero due donne ad usarne uno solo, visto che già in casa nostra non ne bastavano due. E l'unica femmina da noi era nostra madre. Bussai deciso, e mio fratello uscì, ancora furioso.
 -Da quando sei così permaloso?- Chiesi. Lui mi guardò truce.

Lo afferrai per la camicia e lo trascinai in salotto, dove Angela stava seduta sul divano con le gambe incrociate. Si voltò e sorrise triste, guardando l'amico.
 -Avvicinati. Adesso- disse a Corrado. Lui le si mise davanti, con le mani in tasca e lo sguardo ostile:
 -Avete finito di spettegolare?-Chiese.  
 -Hai finito di fare il bambino?- Ribatté Angela, sempre sorridendo.
 -Non... non parliamo più di Morena, ok?- Disse lui.
 -No infatti. Perdiamo solo tempo. Lasciala perdere, è una battaglia persa in partenza-.
 -Cosa intendi dire?- Il suo sguardo saettò da lei a me, veloce. Io arricciai l'angolo della bocca, in un'espressione che Corrado aveva imparato a conoscere, dopo quindici anni di vita insieme.

Strinse i pugni, corrugando la fronte. Aveva capito. Gli occhi si ridussero in fessure, piccole scaglie dello stesso colore del parquet.
 -Come si chiama?-Sibilò.
 -Lascia perdere. Che vuoi fare, prenderlo a pugni? Ti stenderà prima ancora di cominciare- dissi.
 -Voglio Sapere Come Si Chiama-.
 -Non lo sappiamo- mentì Angela -e anche se lo sapessimo non servirebbe. Tranquillo, il mare è pieno di pesci e...- ma Corrado non l'ascoltava più. Si lasciò cadere sulla poltrona, come un peso morto che non ha più ragione di vivere.

Non mi aspettavo che reagisse così; era quasi riuscito a convincermi che non gli importasse molto di Morena. Vederlo in quelle condizioni mi fece salire la voglia di prendere quella ragazza e tirarla per i capelli, farle del male, come lei ne aveva fatto a Corrado.
 -Coraggio- gli dissi - dov'è finita la tua filosofia? Il mondo è pieno di ragazze...-. Lui non rispose. Rimase a stringere i braccioli della poltrona, già abbastanza consumati per conto loro. Guardai Angela in cerca di aiuto.
 -Piangersi addosso non serve. Non la farà venire da te. Fregatene di quella sgallettata, è acqua passata. Ehi, la vita va avanti! Ci sono le pizze, ci siamo noi...se sei così depresso come mi aiuti a recuperare il mio nobile tre?- Cercò di farlo sorridere, ma con scarso successo. Tutto quello che ottenne fu di farlo alzare,  mentre borbottava qualcosa di simile a "bagno". Lo lasciammo fare. Le nostre parole di conforto arrivavano fino a un certo punto.


 Dopo alcuni minuti di silenzio Angela parlò:
-Accidenti, non me lo aspettavo così. Pensavo che con Morena fosse soltanto un gioco...-
 -Lo ha fatto credere anche a me. Ma perché? Insomma, ci ha sempre detto quando si prendeva una cotta-.
 -Non so se questa sia una cotta. Almeno non da come ha reagito...-.
 Ah, bene. Io non mi potevo proprio considerare un esperto. Non avevo mai amato nessuna seriamente, prima di Angela. E nutrivo ancora seri dubbi su quell'organo rosso e sanguinolento che mi ritrovavo nel petto.
 -Se così fosse, non guardare me. Io non so distinguere una cotta da...dall'amore-.

La conversazione stava andando in un'altra direzione, una strada tortuosa che non avrei voluto imbucare. Ma una strada dal panorama stupendo, che avrei potuto vedere se non avessi avuto paura di inciampare nel fango. Non avevo mai parlato di argomenti del genere con una ragazza. Con le mie conoscenti ci si pendeva in giro, si scherzava e si chiacchierava del più e del meno. Ma con Angela era una cosa diversa, che stavo sperimentando sul momento. Lei era la ragazza con cui volevo parlare, la ragazza che amavo.
 -Non sei mai stato innamorato?Non ti piace nessuna?-Mi chiese. Io abbassai lo sguardo, nascondendomi dietro i capelli. Taglio tattico. Sperai che non si accorgesse che ero arrossito.
 -Bè, non lo so...probabilmente si, ma come faccio a essere sicuro che sia davvero amore?- Domandai.
 -Eh già...bella domanda. Chi è lei?-.
 Ecco che i nodi venivano al pettine. Ma non volevo dirglielo, non ora, non quando il nostro migliore amico era qualche stanza più in là a tormentarsi per quella fregatura di cui stavamo parlando io e lei. Eppure ero consapevole che più il silenzio si prolungava, meno tempo ci avrebbe messo ad arrivare alla risposta. Mi morsi il labbro.
 -Ti scoccia se non te lo dico?- Chiesi. Lei mi guardò sbattendo le ciglia.
 -Oh. No no, tranquillo. Non fa niente, se non vuoi...-

Questa volta fu lei a distogliere lo sguardo. Mi sentii talmente imbarazzato che una seconda vampata di calore si propagò per la faccia, prima che potessi fare qualcosa.
 -Scusa. Non è che non voglio dirlo...cioè no, in realtà è proprio perché non voglio dirlo, però non è che non voglio dirlo a te...- Accidenti a me, mi stavo dando la zappa sui piedi. -Scusa. Fai finta che non abbia parlato. Ehm...vado a vedere che fine ha fatto Corrado- mi alzai, lieto di avere qualcosa da fare, e quasi scappai dal salotto.

Una volta fuori, mi appoggiai alla parete a riprendere fiato. Ora che non era più vicino a me, sentii che non avrei più avuto il coraggio di parlare ad Angela. Mi sembrava di aver fatto una colossale figura di cacca, e arrossii di nuovo. Perché esistevo ancora? Non c'era una botola, un buco dentro cui sprofondare per sempre? Mi morsi di nuovo il labbro, questa volta più forte.
 Corrado scelse proprio quel momento per uscire dal bagno. Mi vide, rosso in faccia, e pian piano scivolai giù per la parete. Non potevo fare un altra figuraccia anche con mio fratello, per questa vita avevo già dato.
 -Cosa hai fatto?-Mi chiese. Pensai che, se avessi continuato a mordere il labbro, presto avrebbe cominciato a sanguinare, quindi mi imposi di allentare la presa.
 -Allora?-Mi incalzò Corrado. Mi chiesi per quanto tempo sarei riuscito a resistere.
 -Ehm, ero venuto a cercarti. Stai meglio?- Domandai, con la voce leggermente tremolante.
 -Per niente. Ci vorrà un po'-.
 -D'accordo, è normale...-.
 -Torniamo in salotto-. Non avrei voluto farlo, ma seguii lo stesso Corrado. Angela era china sulla tv, armeggiando con un telecomando. Feci un bel respiro ed entrai.
 -Vediamo un dvd, vi va?-Chiese speranzosa. Ovviamente fummo d'accordo. Avevamo tutti e due bisogno di riflettere, e fare finta di guardare la televisione era perfetto. Angela era proprio una fata.

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Capitolo 9
*** 4) i paletti di Angela ***


Con il passare delle settimane le cose non migliorarono per Corrado: divenne taciturno, evitava di incrociare i nostri sguardi e in casa preferiva rimanere solo, rintanandosi nella nostra camera. Angela e io cercavamo di tirarlo su di morale, ma i nostri sforzi non portavano da nessuna parte. Angela fu la prima a perdere la pazienza:
 -Adesso basta!-Esclamò un giorno mentre eravamo seduti su una panchina fuori la scuola. Erano appena finite le lezioni, presto ci saremmo riavviati verso casa. Angela era seduta in bilico sullo schienale della panchina, Corrado invece si era accasciato senza dire una parola, con gli occhi fissi davanti a sé.
 -Insomma, sembra che sia morto qualcuno! Ma chi è lei per farti sentire così?-.
 -Nessuno infatti...- borbottò lui.
 -Esatto! Anzi, lei è meno di nessuno! Portare il lutto è inutile, faresti meglio a ricominciare a guardarti intorno... Se devi continuare così, fai prima a farti prete e a ritirarti dalla scena. é inutile. Ma se solo ti decidessi a trattarla come merita, ti sentiresti subito meglio-.
 -Io non voglio avere più niente a che fare con...con lei. Sto provando a dimenticarla. Non so come fare, ma ci sto lavorando. Quindi, per favore, lasciate fare a me e non parlatene più, ok?-.
 Angela lo fissò con aria bellicosa, come se non fosse del tutto convinta, poi alzò le spalle.
 -Fai come vuoi- disse -per qualunque cosa, ci siamo noi-.
 -Si. Grande. Io vado a casa-. Si alzò e si mise lo zaino su una spalla.
 -Aspettami!- dissi -Vengo con te. Abitiamo insieme, ricordi?-

Corrado si voltò.
 -Si. Andiamo-.
 Angela sbuffò, con un delicato balzo scese dalla panchina e ci seguì, mettendosi la borsa dei libri sulla spalla.
 -Vi accompagno per un pezzo. Anzi, lo accompagno per un pezzo- gli disse riferendosi a me -a quanto pare tu non vuoi compagnia, vero? Facci un fischio se hai voglia di parlare-.
 Uno dei segreti del carattere di Angela deve essere nella voce: decisa, tagliente, colpisce chi vuole come se seguisse un piano preciso. Corrado non ha una voce del genere, lui si limita a usarla per far capire quello che vuole esprimere, così come faccio anche io. Per lei non è così. Il tono non è un mezzo, è un fine, è il giusto equilibrio tra il significato delle parole e la maniera in cui sono dette. Alle mie orecchie sembrava il suono più bello che esistesse.
 Io e lei ci tenemmo dietro di Corrado, camminando per un po' in silenzio. Mi resi conto che Angela aveva ragione, voleva stare davvero da solo; mi diedi dello stupido per non essermene accorto, e si fece strada a tentoni un po' di risentimento quando mi resi conto che forse lei lo conosceva meglio di me, che ero il suo migliore amico da quando eravamo nati. Ma cercai di non farci caso.
 -Dovrò continuare a lasciarlo cuocere nel suo brodo quando te ne sarai andata?- Le chiesi, senza farmi sentire da lui. Il che sarebbe stato abbastanza difficile, perché si stava allontanando con passo sempre più svelto.
 -Bè, credo sarebbe meglio. Non ne sei convinto?- Disse lei.
 -Si, credo sia la cosa migliore-. Angela sorrise e lo guardò: ormai ci aveva distanziati, si vedeva solo la macchia rossa che era il suo zaino.
 -Deve essere fantastico avere come migliore amico il proprio fratello. Anzi, deve essere fantastico avere un fratello- disse poi.
 -Nel nostro caso si. Ma noi siamo gemelli, credo sia un'eccezione la nostra amicizia-.
 -Già, forse. O forse no. Però è comunque una cosa bella. Può sempre contare su di te-.
 -E perché, su di te no?-.
 Angela sbuffò: -puah, sono un'amica pessima io. Non te ne stai rendendo conto? Con te non sono una buona amica-.
 -Questo lo devi lasciar decidere a me. Ti assicuro che non è così. Tu sei...sei fantastica. Sai sempre cosa è meglio per le persone-.
 -Non credo. Io vado a caso, mi lascio trasportare dall'istinto-.
 -Doppiamente fantastica-. Ma per me anche di più. Fantastica era troppo poco per lei.
 Sorrise, abbassando lo sguardo. Una ciocca dei corti capelli le cadde davanti agli occhi e io glie la sistemai di lato.
 -Anche tu sei speciale- mi disse -non so, riesci a...a farmi sentire bene. Positiva-. Rimasi meravigliato dalle sue parole.
 Io ero sempre stato l'ultima ruota del carro, e l'avevo accettato come uno stile di vita: l'eterno secondo. Ormai me ne ero fatto una ragione, non ci facevo neanche più caso; di solito era Corrado a prevalere, lui quello che parlava e organizzava e faceva da portavoce per entrambi in ogni occasione. Era lui più figo, quello che faceva voltare le ragazze quando giravamo in centro e che tutti ammiravano, Angela compresa. Io invece mi sono sempre tenuto alla sua ombra, nascosto, accontentandomi di essere una delle due persone di cui si fidava ciecamente. Non avevo mai avuto una storia con una ragazza, anche se la colpa era mia e del mio carattere, e non avevo mai avuto una qualche qualità che mi facesse meritare una lode da parte del mondo.
 E ora proprio Angela mi stava rassicurando, inconsapevolmente, ignara che le sue parole per me significassero più di quanto lei credeva.
 -Grazie- borbottai tra i denti, troppo terrorizzato per dire qualcosa in più. Lei mi guardò e scoppiò a ridere.
 -Cosa c'è? Cosa ti ridi?- Chiesi imbarazzato.
 -Oh Raffa, sei tenero!- Mi diede un buffetto sulla guancia, poi mi fissò con il viso leggermente rosso dal ridere, strizzando gli occhi in un sorriso.
 -Bè, se ti crea problemi allora mi metto a fare il duro!- Ribattei restituendole il sorriso.  
 -No, non puoi. Tu sei tenero e basta. é un piacevole diversivo, quando tutti i ragazzi vogliono far finta di essere duri. Come quello- accennò a Corrado -povero, ci è rimasto malissimo per Morena. Vorrei aiutarlo. Ma se fosse stato veramente duro come dice di essere, l'avrebbe già mandata dove deve andare. Tu invece sei più...spontaneo-. Si fermò un attimo. -Ancora non vuoi dirmi il nome della ragazza che ti ha preso il cuore?- Chiese esitante.
 No, non volevo dirglielo. Non ancora. Mi sembrava che ogni momento potesse essere quello sbagliato, e poi avevo paura. Paura di essere guardato con compassione mentre mi rispondeva un "no" imbarazzato, come avrebbe sicuramente fatto. Riuscivo a figurarmi la scena, forse perché tutti i dettagli si incastravano perfettamente verso l'unica reazione possibile da parte sua. Grandioso. Inoltre, non volevo confessarglielo nello stesso periodo in cui il nostro migliore amico si struggeva per la sua mancata ragazza, mi sarei sentito ancora più in imbarazzo.
 -No, non ora. Forse quando staremo tutti un po' più calmi e rilassati, ma non ora-.
 -Oh. D'accordo, come vuoi-.
 Camminammo per un po' in silenzio, mentre davanti a noi Corrado era un punto vagante tra la modesta folla di Polverano.
 -Io giro qua- disse a un tratto Angela.
 -Oh, si. Bé, allora ci vediamo domani...-
 -Si. A domani- mi diede un rapido bacio sulla guancia, prima di sparire su per una strada secondaria.

Rimasi impalato sul mio posto mentre sentivo le sue labbra morbide che sfioravano appena la mia pelle. Era un gesto strano da parte di Angela: lei non si avvicinava alle persone più di tanto, segnava il suo territorio e non le faceva entrate più di quanto decidesse lei. Non salutava mai calorosamente i compagni di classe, con Corrado si limitava a un ghigno e un "oi!" appena accennato, mentre con me...non mi aveva mai salutato con un bacio. Sapevo quanto la cosa potesse essere banale o patetica, ma mi rincuorò e, quando raggiunsi mio fratello, sorridevo ancora.
 Rientrati a casa, Corrado si precipitò dritto in camera. Io lo guardai salire le scale, dispiaciuto. Ma voleva stare da solo, e io non ero il tipo da imporre la mia presenza. Selina alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo, incuriosita:
 -Cos'ha tuo fratello?- Chiese.
 -Oh, niente...-

Mia madre mi guardò con uno sguardo inquisitore.
 -C'entra una ragazza- confessai -ma non dirgli che te l'ho detto io. Dice che preferisce rimanere da solo, e non oso avvicinarmi. é decisamente nervoso-.
 -Si, nervoso... che se lo faccia passare il nervosismo, non ne vale la pena. Non per il genere di ragazze a cui va dietro lui-.
 -Glie lo abbiamo detto io e Angela, ma lui non ascolta-.
 -Normale. Lasciatelo cuocere nel suo brodo-. Detto questo, si appoggiò sul divano, riprendendo il libro da dove l'aveva interrotto.


 Nel pomeriggio Corrado ancora non aveva smesso di tenere il muso. Entrai in camera, dove mi aspettavano i libri di scuola. Lui era sdraiato sul letto, tra l'altro ancora sfatto, con le cuffiette dell'mp3 alle orecchie.

C'era silenzio in camera, e riuscivo a sentire distintamente le parole della canzone che stava sentendo. Immaginai il volume paurosamente alto e solo a pensarci mi fecero male le orecchie. Lui girò lo sguardo verso di me quando entrai, poi tornò a fissare il soffitto.


 Di tutte le stanze della casa, la nostra camera è la più vissuta: da una finestra sul lato ovest ogni pomeriggio il sole la inonda di luce; le pareti sono blu scuro, piene di foto e poster di gruppi musicali, invece il parquet è spesso ingombro di calzini spaiati, scarpe, libri, quaderni di scuola, dischi, fogli volanti pieni di appunti e talvolta vestiti, caduti dalle sedie dove spesso e volentieri li ammucchiamo senza un ordine preciso. A completare l'arredamento ci pensano due librerie, dimora del fidato stereo, piene di libri e cianfrusaglie, delle quali una aveva uno scaffale talmente ingombro di roba da aver ceduto, un letto a castello (il cavallo di battaglia di nostra madre -se non vi rifate il letto da soli non contate su di me, siete grandi abbastanza!- veniva quotidianamente ignorato), un'enorme scrivania, macchiata di inchiostro in più punti e ornata da scritte -che variavano da "nooo!" a "13.11.08 compito mate. Argh"- vergate con cura e precisione dalle nostre penne quando la distrazione vinceva su una versione di greco, e un armadio a muro sulle cui ante spiccavano i nomi "Corrado" e "Raffaele", in caso ci dimenticassimo quale fosse la nostra parte. Non si sa mai.

Era decisamente piena, a volte sembrava troppo piccola per contenere le vite di due adolescenti, ma ci si stava bene. Era la nostra tana, il nostro mondo, e chiunque non ci viveva non sapeva dove mettere le mani. Forse per questo Selina aveva rinunciato a mettere ordine da mesi.


 Quel pomeriggio guardai l'orologio troppe volte, forse sperando che così facendo il tempo passasse più in fretta, ma nonostante ciò sembrò lunghissimo. Non avevo voglia di studiare, stare sui libri era inutile quando alla fine mi ritrovavo a fissare le parole senza capirne il senso, lasciando che quei complicati ghirigori in uso solo in Grecia mi scorressero sotto gli occhi senza lasciare traccia nel mio cervello. Avevo altro per la testa: Corrado, che di fianco a me che fissava un libro di scuola con la guancia appoggiata sulla mano, sembrava quasi entrato in coma profondo, o il ricordo di Angela che mi sfiorava il viso con le labbra...avrei voluto tornare indietro nel tempo e cambiare la scena, sfruttarla per confessarle quello che mi aveva chiesto. Ora che lei si trovava solo nella mia mente, mi sentivo molto più coraggioso.


 Corrado uscì dal suo stato di trance scuotendo improvvisamente la testa. Si guardò un po' intorno, come se si aspettasse di trovare la stanza rivoltata da una tromba d'aria, poi si stiracchiò e chiuse il libro.
 -Ho appena scoperto di odiare Manzoni- affermò, gettando il libro nella catasta sulla sua parte di scrivania.
 -Te ne accorgi ora?- Chiesi sfogliando il vocabolario alla ricerca di un verbo che somigliasse vagamente a quello che avevo trovato nella versione. Vidi qualcosa di curioso e tornai indietro.
 -Già. Come se ci fosse qualcosa di migliore tra quello che devo fare per domani...- rivolse uno sguardo sofferente alla lista dei compiti per il giorno dopo, scribacchiata in disordine sul diario.
 -Ehi guarda, c'è una parola in greco di...boh, sono arrivato a contare sessantaquattro lettere!- Esclamai. La facilità con cui riuscivo a distrarmi era elevata quasi quanto la difficoltà della versione che avrei dovuto fare.
 -Wow. Mi interessa il giusto… cioè niente- mormorò lui passando a un'altra materia. La sua acidità stava raggiungendo livelli assurdi. Accidenti a Morena e al suo fantomatico ragazzo. Non risposi e tornai alla versione, pensando che avrei perso meno tempo a cercare di tradurla che a parlare con lui.

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Capitolo 10
*** 5) la svolta ***


Il giorno dopo ci fu la svolta, quella che cambiò radicalmente la situazione di Corrado, di Angela e anche la mia. Fu uno di quei giorni che segni sul calendario e che ogni anno ricordi con un "era oggi, ricordate?".
 Forse fu a causa proprio della stessa Morena, forse il merito fu di quel gruppo di matricole che aveva occupato il nostro angolo preferito dove trascorrere la ricreazione, costringendoci a cambiare postazione, forse il motivo stava nella giornata, semplicemente quella giusta.

Quel giorno eravamo come al solito noi tre, riuniti vicino a un vecchio termosifone piazzato in mezzo alla parete del corridoio, l'unico libero dalla torba di ragazze freddolose del primo piano. Corrado, come al solito taciturno, stava guardando la folla di studenti quando vide Morena.

Ce ne accorgemmo subito perché gli si avvicinarono le sopracciglia in una maniera che lasciava pochi dubbi. Io e Angela seguimmo il suo sguardo.
 -O santo cielo, come si è conciata i capelli?- esclamò Angela, senza preoccuparsi di abbassare la voce. In effetti, la chioma di Morena era strizzata in una coda di cavallo che le tirava i capelli indietro, lasciando la fronte scoperta. Coda anti-rughe? Là dove il pettine non era riuscito ad allisciare le onde create dalle ciocche refrattarie, aveva provveduto infilando ferretti dai colori fosforescenti. Ma l'attenzione era decentrata sulla scollatura, che poco lasciava all'immaginazione. Tuttavia, a occhi disinteressati non era una bella visione.
 -Forse non è la sua giornata- osservai sarcastico. Corrado la guardava con rancore, a braccia conserte.
 -Lasciamo perdere, cambiamo discorso -fece Angela. Provammo a chiacchierare del più e del meno, anche se la tensione di Corrado ci avvolgeva come una fune invisibile. Sentivamo quello che provava lui, come se riuscissimo a leggergli nel pensiero.
 Eravamo volutamente rivolti verso la finestra, non avremmo potuto vedere quello che stava facendo Morena.

Non ci accorgemmo che stava passando proprio dietro di noi, e quando Corrado decise di girarsi improvvisamente per raggiungere un suo compagno di classe che lo stava cercando, si ritrovò a pochi centimetri dal suo viso. Lei lo guardò con aria scocciata
-Vuoi continuare a pestarmi i piedi o ti sposti da solo?-. Lui divenne rosso, viola, fucsia, poi impallidì e la guardò con odio. Infine sorrise, un ghigno da diavolo arrabbiato, e rispose:
 -Mi scusi maestà. Ma non mi ero accorto di star calpestando una merda. E dire che porta fortuna. Non si preoccupi, me ne vado- Guardò divertito la sua faccia offesa.
 -Ma cosa vuoi? Ma chi ti conosce?- Esclamò lei.
 -Infatti grazie al cielo non ti conosco- e Corrado se ne andò, lasciandola confusa e imbarazzata.
 Io e Angela lo raggiungemmo esaltati:
 -Bella!! Finalmente!!- Esclamò Angela. Lui sorrise, un po' rosso in viso:
 -Forse adesso sono passato nel torto: io non la conosco davvero...-disse.
 -Nah, tranquillo-lo rassicurai -non sei stato il primo a farlo. Sapessi quante me ne hanno raccontate...e, stando a quello che so, essere offesa non le piace per niente. Le hai dato, eccome se le hai dato!-.
 -Allora va bene. Si ricomincia a vivere-.
 -Parla per te- replicò sorridendo Angela -io e Raffaele non abbiamo mai smesso di farlo-.
 Fuori cominciò a piovere: grossi goccioloni di pioggia schizzavano i vetri lasciando scie bagnate.

Eppure, per me quella continuava a essere una splendida giornata di sole.

La campanella trillò, malefica, e dopo aver salutato i miei amici tornai i classe.
 Davanti la porta incontrai Elena, della mia classe. Era una ragazzetta simpatica, con il viso da bambina troppe volte ansioso per un'interrogazione. Come in quel momento, tesa al limite della sofferenza.
 -Deve interrogarti a latino, vero?-Le chiesi.
 -Già...se le cose si mettono male, ho fatto testamento- disse lei sbuffando.
 -Tranquilla, io e gli altri proveremo a suggerirti qualcosa- dissi mentre entravamo.
 -Comunque, ho intravisto Morena. Stava arrabbiata nera... non era a tuo fratello che interessava?-
 -Oh, non più. Finalmente. Era ora, no?-
 -Già. Non è un granché come ragazza-.
 -Bè, questo non puoi dirlo. é un gran bel pezzo di...-
 -Raffaele, per piacere!- Elena si sedette al suo posto, cacciando la grammatica latina.
 -Tutta invidia- le sussurrai amichevolmente prima di sedermi al mio banco. La vidi alzare gli occhi al cielo prima che con un tonfo la prof ci chiudesse in quella cella della cultura.
 Un quarto d'ora dopo, Elena si trovava alla lavagna, con una frase vergata dalla sua stessa scrittura tremolante in una lingua ormai morta davanti agli occhi e un gesso quasi del tutto consumato tra le dita. Dalla cattedra, una professoressa talmente vecchia da sembrare di madre lingua greco-latina la fissava, compiaciuta della sua disperazione.
 -Allora Elena, devi solo tradurla- disse con un sorriso terrificante. Carogna. Gioiva nella sicurezza di mettere un quattro.
 -Ehm, si, dunque...- Elena si voltò verso la lavagna, ma la situazione non migliorò. La frase era sempre la stessa, incomprensibile.
 Se solo la prof si fosse distratta un attimo...sapevo la soluzione di quel rebus latino, me l'aveva appena rivelata il mio secchione vicino di banco, ma non riuscivo a farla arrivare alla martire che si struggeva davanti alla lavagna. Finalmente la prof decise che quello spettacolo non meritava la sua attenzione e prese a sfogliare il libro davanti a sé.
 -Elena!- Sussurrai. Lei si girò con un sorrisetto disperato. "Aiuto!" disse muovendo solo le labbra. Io mi sporsi in avanti e, sempre in labiale, le dissi le parole fondamentali per tradurre. Ebbi quasi l'impressione di vedere la lampadina che si accendeva sulla testa di Elena quando capì il resto della frase.

Alzò il pollice per ringraziarmi e, con la lingua fra i denti, scrisse la stessa frase ma nella lingua corrente. La prof alzò lo sguardo.
 -Sei sicura?-Chiese sibillina. Ahi ahi. Lo chiedeva sempre, a prescindere se la frase fosse esatta o sbagliata. Così riusciva a minare la sicurezza dell'interrogato, a far crollare i più deboli. Forse intendevano questo con "palestra di vita".
 -Ehm...bé...si, credo di si- farfugliò Elena. La prof lesse velocemente.
 - Che tempo è amavisset?- Domandò annoiata. Elena si morse la lingua, ma dopo tutto un po' aveva rispolverato le nozioni, anche se solo tre minuti prima di essere interrogata.
 -Congiuntivo...piuccheperfetto?- Incrociò le dita dietro la schiena.
 La prof la guardò. Lei resse coraggiosamente lo sguardo. Passarono diversi secondi, mentre quel testa a testa continuava, poi la prof si arrese: -si, è esatto. Puoi andare a posto. Ti do una sufficienza stiracchiata, non di più. Anzi, un sei meno meno-.
 Elena tornò a posto, alzando gli indici e i medi in segno di vittoria.
 -Te la sei cavata!-Le sussurrò la compagna di banco. Lei sorrise emozionata: -fiuu!- Rispose. Tossii. Elena alzò lo sguardo:-oh, già, grazie Raffa!!-Sussurrò. Io feci un cenno di assenso e tornai a stravaccarmi sulla sedia. Chissà se a Corrado sarebbe piaciuta Elena...però pensai che forse sarebbe stato meglio aspettare un po' di tempo prima di presentargli qualcun'altra. Intanto avrebbe seppellito il fantasma di Morena come si deve.

 -Dobbiamo festeggiare!- Annunciò Angela ritornando da scuola.
 -Cosa?- Chiese Corrado. Angela sorrise.
 -Me lo chiedi? Oggi è un grande giorno! Hai mandato Morena a...-
 -Oh, già. Ma non mi sembra un buon motivo per festeggiare- disse lui.
 -Scherzi? Già, tu non ti sei visto nei giorni passati, quando stavi da schifo. Credimi, è una buona occasione. Niente di che comunque- si affrettò ad aggiungere -pensate un po' a cosa potremmo fare...-.
 -Penso niente. Stasera mamma e papà non ci saranno a cena, e hanno detto che preferirebbero se restassimo a casa- Corrado guardò l'amica come a sfidarla a ribattere.
 -Oh- disse lei -bé, peccato...-
 -Vieni da noi -proposi io -ci cuciniamo qualcosina e stiamo un po' insieme-.
 -Ecco, così si può fare-.
 -Mmm, ok. Pizza?- Chiese Angela.
 -Niente affatto. Quello è il ripiego che usi tu, che non sai stare ai fornelli. No, ti farò vedere di cosa è capace Raffaele- Mio fratello mi diede una gomitata.
 -Davvero?- Angela mi guardò stupita. Accidenti a Corrado.
 -No. Ma so arrangiarmi...- cercai di schermirmi, ma fu inutile. Angela svoltò verso casa sua forzandomi la promessa di farle assaggiare qualcosa di delizioso.

 

Una nuova nottambula che non ha niente di meglio da fare oltre a leggere la mia storia: grazie a Hateful che mi ha lasciato una bellissima racensione :)

Immagino che sarai contenta ora che Corrado pare abbia deciso di "tornare a vivere" :) E, se davvero tieni tanto alla coppia Angela/Raffaele, aspetta il prossimo capitolo... sarà forse un po' troppo lungo, ma ne vale la pena :)

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Capitolo 11
*** 6) la serata ***


Leggermente incupito, dopo alcuni minuti raggiunsi la porta di casa nostra. Corrado aspettò che cacciassi le chiavi, ma le mie mani affondarono nella tasca della giacca afferrando solo un fazzoletto ridotto a brandelli e un biglietto dell'autobus usato.
 -Ops- dissi -credo di aver dimenticato le chiavi-.
 -Non posso crederci!- Esclamò Corrado -come facciamo ora a entrare? Accidenti, ma dove hai la testa?-.
 -Calmino! Potresti anche prenderle tu qualche volta, non ti fa male!- Mi sedetti su un gradino della veranda -adesso aspettiamo. Tra mezz'ora torna mamma-.

Corrado sbuffò e si sedette di fianco a me, scaraventando lo zaino sul terreno. Quello si afflosciò vicino alle aiuole traboccanti di verdi trifogli, rigogliosi e clandestini, nate per ospitare gerani. Ma nessuno in casa aveva mai avuto il pollice verde, e quel fazzoletto pomposamente chiamato giardino era utile solo ai gatti randagi che venivano in cerca di avanzi dei nostri pasti.

C'era stato inizialmente un tentativo di renderlo grazioso, quando Selina aveva appena acquistato la casa ed era ancora elettrizzata: in un angolo c'era un tavolo di plastica, ancora avvolto dal telo trasparente, e sparsi qua e là alcuni vasi di terracotta, che ora contenevano solo acqua piovana e gruppi di trifogli. Aveva un'aria decisamente trascurata, ma ci piaceva così. Solo papà aveva di che lamentarsi.
 Quella mattina uggiosa non faceva che peggiorare la situazione; il sole non era ancora uscito e la pioggia appena caduta dava ai rami spogli degli alberi un aspetto scheletrico e malato.
 -Raffaele?- Chiamò Corrado dopo un attimo di silenzio.
 -Cosa c'è?-.
 -Posso chiederti una cosa? Da amico, si intende-.
 -Dimmi- lo guardai incuriosito: era raro che non facesse domande dirette, non capivo cosa volesse. Un decimo di secondo prima che pronunciasse la risposta, capii, ma era troppo tardi per tornare indietro.
 -Angela-.
 Arrossii. Se ne era accorto. Non mi ero mai sentito più in imbarazzo che in quel momento: stavo per confessargli di essermi innamorato come un cretino della nostra migliore amica? Non ero sicuro che fosse la cosa migliore da fare. Eppure...
 -Cosa...che c'entra?- balbettai.
 -La mangi con gli occhi. Ci ho fatto caso-.
 Ahi ahi.
 -Si vede così tanto?- Mormorai mordendomi il labbro. Lui annuì. Seguì un minuto di silenzio.
 -Ah!- Esclamò lui -ahah!Ahahah! Bella Raffa!- Mi mise un braccio intorno al collo e con l'altro pugno cominciò a frizionarmi i capelli -Ecco chi era la ragazza misteriosa! Accidenti Raf!!- Ora stava ridendo come un pazzo.

Gli diedi una gomitata nello stomaco e riuscii a sottrarmi dal suo modo di congratularsi. Sapevo di avere la faccia di una delicata tonalità fucsia, e la cosa non mi piacque.
 -Allora?- Chiese lui dopo essersi calmato.
 -Allora cosa?- Cercai di risistemarmi i capelli in modo decente.
 -Allora, dimmi che devo fare. Ti posso aiutare no? Dimmi cosa vuoi che le dica-. Ci misi un po' prima di capire cosa intendesse.
 -Oh no, no! Non...non fare niente. Cioè, insomma...- cominciai a sentire caldo, troppo. Le parole mi si intrecciarono in bocca.
 -Insomma, cosa ti preoccupa?- Chiese spazientito Corrado.
 -Bè...non so...cioè...- che strano parlarne con qualcuno. Avrei preferito tenere il pensiero al sicuro dentro di me, anche se sapevo che prima o poi avrei dovuto cacciarlo fuori. Solo che non avrei voluto farlo nello stesso giorno in cui Corrado era riuscito a esorcizzare Morena. Era troppo, tutto insieme.
 -Parla come mangi fratello. Qual è il problema?-.
 Mi finsi pensieroso, poi dissi: -non so, tu che dici? Insomma, lei non mi vede, per lei sono solo un...un amico. E non basta-.
 Corrado mi guardò divertito, come se godesse nel tenere dentro la sua bocca parole che sapeva avrei voluto sentire. Continuò a ridacchiare per un paio di minuti, mentre io mi struggevo. Accidenti a lui, se non avesse smesso subito l'avrei disconosciuto come fratello.
 -Povero, povero Raffy...- cantilenò. Io alzai il pugno minaccioso, ma lui non smise di ridacchiare, tranquillo.
 -Dimmi cosa sai- Esclamai. Lui mi guardò serio.
 -Sai cosa mi chiede Angela ogni cinque secondi in classe? Mi chiede di te. Vuole sapere il nome della ragazza che ti piace. E diventa anche abbastanza furastica, perché non crede che io non lo sappia. Bé, ora lo so. E conosco anche lei: credimi, nelle ultime settimane con te si è avvicinata più di quanto mi aspettassi. Non ti dice niente la cosa?- Sorrise soddisfatto.

Fissai senza guardarlo lo zaino buttato per terra davanti a me. Non riuscivo a credere a quelle parole...io, Raffaele, che riuscivo ad arrivare a una ragazza come Angela? Il mondo aveva cominciato a girare al contrario. Tuttavia, scoprii che preferivo questo verso a quello di prima. L'angolo della bocca mi si arricciò verso l'alto.
 -Lo vedi?- Esclamò Corrado trionfante -è perfetto! Allora preparati oggi...sarà una grande serata-.
 Si, aveva ragione. Sarebbe stata una grande serata.

E, come succedeva sempre, le grandi serate mi facevano salire un'ansia da dolore fisico, per la paura di non saperle sfruttare, di sbagliare tutto. E il pomeriggio passò inaspettatamente veloce, passato sui libri e davanti alla tv e a fare tante altre cose inutili, quasi senza accorgermene. Corrado mi lanciava occhiate divertite con il ghigno compiaciuto da chi credeva già di sapere come sarebbe andata a finire.
 Fuori era buio da un pezzo. I nostri genitori uscirono, dopo averci salutati e raccomandandosi di non fare ragazzate: come se avessimo qualcos'altro da fare.

Finalmente lasciarono la casa, con il rumore della porta che sbatteva a dare il via alla loro serata. E alla nostra: Angela arrivò alcuni minuti dopo, portando la sua scia di allegria. Semplice e genuina, Angela: non si truccava spesso, sicuramente non quando doveva venire da noi, né badava troppo all'abbigliamento. Eppure la vedevo così bella, con gli occhi che avevano qualcosa in più di quelli delle nostre coetanee. Sembravano più pieni, come se a colmarli ci fosse la stessa cosa che aveva dato vita al mondo.
 -Allora chef, cosa ci propone il menù?- Salutò.
 -Oh, non so, mi aiuterete voi, non pretenderete che faccia tutto da solo?- Risposi.
 -Puah, i mortali non dovrebbero entrare nella cucina dei grandi cuochi- disse lei balzando sul divano e cercando con lo sguardo il telecomando. Non lo trovò, fino a quando Corrado non glie lo lanciò da dove era seduto. Lei lo prese al volo e cominciò a fare zapping.
 -Angela, non scherzo. Non sappiamo che mangiare, il frigo è quasi vuoto, mamma ci aveva avvertito. Conoscendoti, ha anche detto che avremmo potuto ordinare delle pizze, come volevi tu...-.
 -Uh...no no, niente pizze. Possiamo sempre inventarci qualcosa. Corrado, ricordi quando io e te facemmo quel risotto? Non era male...-. Corrado sbuffò.
 -Ora che sono passati due mesi posso dirtelo: era scotto, colloso e salato. Meglio non riprovarci-. Angela cominciò a giocherellare con un lembo di un cuscino. -Carogna. Potevi dirmelo prima. Bé, allora vedremo poi. Posso collegarmi un attimo a internet dal vostro computer?-.
 -Cosa devi fare?- Chiesi. Lei sorrise colpevole:
 -Ehm, diciamo che...devo controllare se la versione di latino è giusta. Mettiamola così-. Scossi la testa rassegnato, ma non dissi niente: quanti liceali non avevano mai cercato una versione su internet?
 -Lascia perdere. Tieni- Corrado le lanciò un quadernetto blu, ma non fece la stessa fine del telecomando: cadde atterrando sgraziato sul tappeto, con un rumore di carta piegata. Alcune fotocopie si sfilarono dalle pagine.
 -Hai una mira fenomenale. Grazie Corrado!- Angela lo sfogliò velocemente fino ad arrivare all'ultima pagina scritta. I ghirigori di mio fratello erano difficilmente comprensibili, ma per Angela fu uno scherzo, abituata com'era. Dopo un po' però corrugò la fronte perplessa: -Non è completa...- Disse.
 -Eh, cosa pretendi? Lavori in nero, nessuno ti garantisce la sicurezza- Corrado sogghignò - e poi a me mi ha già interrogato, a un certo punto mi sono stufato di tradurre e ho messo tutto via-.
 -Deve essere meraviglioso avere la sicurezza di non ricevere nessun pagellino alla fine del quadrimestre...- sospirò Angela. Sorrise come a scusarsi: -D'accordo, come non detto. Non è che io sia una di quelle che passa i pomeriggi sui libri...Comunque, che fanno di bello in tv stasera?-.
 -Vedi un po' tu...io vado a controllare se abbiamo qualcosa da mettere sotto i denti- Sparii in cucina lasciandola sola con Corrado.

Uscii in fretta dal salotto e mi appoggiai alla parete. Contai i secondi mentre cominciavo a fare bei respiri con la bocca. Stava andando tutto bene, tutto bene.
 In cucina non c'era nient'altro che un risotto. Ah ah. Gli avrei dato uno schiaffo morale come si deve. Mi rimboccai le maniche e cominciai a operare, risparmiando alla pizzeria due margherite e una patate e salsicce senza pomodoro.
 Ben presto per la cucina si cominciò a sentire un leggero profumo di zafferano e curry, con cui avevo salvato una manciata di fettine di carne per il secondo. Wow. Mi stupii di me stesso: ma dove avevo imparato a cucinare?
 Corrado entrò in cucina e ispezionò il mio lavoro che sfrigolava su una padella.
 -Promette bene. Le piacerà. Ma devi anche parlare Raffa, parlare. Capisci?- Cominciò a punzecchiarmi. Io presi il cucchiaio di legno con cui stavo mescolando il riso e glie lo puntai in faccia: -sssh! Ci sto lavorando ok? Ma non fare niente, non...-
 Angela entrò saltellando. Ci guardò in quella strana posizione e fissò incuriosita il cucchiaio, che usavo per minacciare mio fratello come se fosse una spada.
 -Cosa state facendo?- Chiese perplessa. Io e lui ci guardammo dubbiosi.
 -Oh, ehm, gli sto facendo assaggiare il riso per dirmi se è cotto. Allora?-
 Corrado fece finta di masticare qualcosa, improvvisando alla perfezione, poi mi guardò dubbioso. Per quello che ne sapeva lui, poteva essere al dente come splendidamente scotto.
 -Bè, mmm, ehm, secondo me è buono...- Errore, errore!
 Stavo per assaggiarlo io, che avrei potuto dare un giudizio fondato su qualcosa di provato, ma prima che potessi fare qualcosa Angela sorrise e mi levò il cucchiaio di mano:
 -Bene, è pronto. Dai, passatemi i piatti che lo servo, così mi rendo utile...- io e Corrado ci guardammo, lui con le labbra fra i denti, ma non osammo dire niente. O quello o rivelare di cosa stavamo parlando.
 Una volta seduti a tavola, fui il primo ad assaggiare: ebbi l'impressione di tanti sassolini che si frantumavano tra i denti, ben lontani dai deliziosi chicchi di riso disegnati sulla confezione che avevo provato a emulare...
 -Corrado, ma sono crudi!- Esclamò Angela -come assaggiatore fai pena!-
 -Giusto, Corrado!- Dissi guardandolo -Tutta colpa tua!- Adesso era il mio turno di punzecchiarlo. Ah ah.
 -Ehi, perché ve la prendete con me?- Chiese lui -io non c'entro niente...-
 -Bè, sei stato tu a dire che erano buoni!- Angela posò la forchetta. -Dai Raffa, magari possiamo provare a cuocerli un po' di più. Rimettiamo tutto insieme?- Afferrò i nostri piatti e cominciò a darsi da fare. Non ebbi cuore di dirle che così facendo sarebbe venuto ancora più uno schifo, quindi la lasciai divertire.
 -Si si. Certo che, Corrado, sei proprio una delusione!- Esclamai. Quando Angela si girò gli feci l'occhiolino. Lui sbuffò. "Carogna!" lessi sulle sue labbra. Ridacchiai.

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Capitolo 12
*** 7) insieme ***


Dopo aver mangiato un risotto che da promettente come sembrava si trasformò in chicchi di vinavil gialli, Corrado si rifugiò in bagno, lasciando a me e ad Angela il gravoso compito di riordinare la cucina.

Con la preoccupante impressione che mio fratello avesse qualcosa in mente, cominciai a sparecchiare la tavola.
 -Ti aiuto a mettere i piatti nella lavapiatti- disse Angela alzandosi da tavola.
 -Tranquilla, lascia perdere, ci penso io...- cercai di fermarla, ma ormai era partita in quarta.
 -Sei matto? Lo faccio volentieri- prese le stoviglie e cominciò a infilarle nell'elettrodomestico con gesti esperti.

Se Corrado ci avesse dato una mano, avremmo finito prima e avrei avuto più tempo per...per cosa? Per cercare di confessare ad Angela quello che voleva sapere? In ogni caso, decisi che avrei messo l'omicidio di Corrado tra i buoni propositi per il nuovo anno.
 Tutto sommato ripulimmo la cucina in poco tempo, ma di mio fratello non si vedeva ancora traccia. Angela si appoggiò al bancone, rilassandosi.
 -Oggi è stata una bella giornata però, vero?- Chiese. -Insomma, ci voleva proprio a Corrado...perdere tempo dietro quella cianfrina, chissà come mai si era ridotto così...-.
 - Bah, vai a capirlo. Ancora non riesco a crederci sai? Mi è sembrato strano vederlo stare così male per una ragazza...-.
 -Tu non ci sei mai stato così male?-Chiese lei. Ecco che era riuscito il discorso. Io io, sempre io. Non permetteva mai che si parlasse di lei.
 -Oh...bé, nel mio caso era...è diverso- dissi. Forse che mi stavo avvicinando alla meta?
 -In che senso?- Angela si fece interessata. Non pettegola, ma interessata.
 -Cioè...la ragazza che...- Dillo, maledizione pronuncia quel verbo, pezzo di idiota! -...amo...- Sì! -è diversa da Morena. é più... oh, non so come dire-.
 -Ti capisco. A volte succede anche a me, affollamento di parole, non trovi mai quella giusta...-. Angela abbassò lo sguardo. Avrei desiderato che continuasse a parlare, ma non lo fece. Forse stava provando le stesse cose che mi aveva appena descritto.
 -Già...è complicato-.
 -Già-.
 Silenzio. Se avessi saputo che in quel momento Corrado era fuori in corridoio ad origliare la nostra conversazione, e se avessi saputo quante maledizioni ci stava mandando per la nostra imbranataggine, l'avrei corcato di botte, e non per scherzo. Una volta da bambini gli avevo tirato un paio di forbici addosso per ripicca. Mamma mi aveva quasi mangiato. Ma questo non sarebbe stato niente a confronto.
 Ma non sapevo cosa stesse facendo. Tutto quello di cui ero conscio era che mi trovavo nella stessa stanza solo con la ragazza che amavo, che ero a un passo da dirle quello che mi premeva dentro da quando l'avevo conosciuta e che avevo l'impressione di sbagliare tutto.
 -Se vuoi mi puoi parlare di lei- disse improvvisamente Angela. Con un po' di preoccupazione? Ma decisi di accontentarla. Non avrei potuto tergiversare, non me lo sarei mai perdonato.
 Stavo giusto per parlare, quando successe ciò che non mi sarei mai aspettato.

Non ci voleva proprio, non in quel momento, eppure improvvisamente la luce si spense, facendo piombare la cucina nel buio. Nello stesso istante, sentii il getto d'acqua bollente della lavapiatti cessare e la televisione nell'altra stanza zittirsi, facendo scomparire il volto troppo truccato di una presentatrice scintillante.
 Io e Angela restammo per un po' in silenzio, completamente al buio, fino a quando lei non parlò:
 -Deve essere saltata la corrente-. Non la vidi mordersi il labbro e scrutare ansiosa l'oscurità.
 -Già...aspetta un minuto, chiamo Corrado...- fortunatamente Angela non poté avvertire la mia delusione, che pensavo sarebbe stata palesemente visibile alla luce. Che sfigato che ero: avevo appena radunato il coraggio per confessare ciò che la ragazza di fronte a me voleva sapere, e improvvisamente tutto era andato in fumo, per colpa di uno stupido contatore.
 Mi avviai a tentoni verso la porta della cucina e riuscii ad aprirla prima di spalmarmici sopra. Corrado ovviamente non si vedeva, ma non riuscivo neanche a sentirlo. Lo chiamai a gran voce, e scoprii che si era rifugiato al piano di sopra.
 -Sono quiii!- Urlò al mio richiamo.
 -Scendiii?- Gridai su per le scale.
 -Nooo! Sono...in bagnooo!-.
 -Ma è saltata la correnteee! Che si faaa?- Chiesi.
 -Che vuoi fare? Niente, aspetta che esco così chiamiamo mammaaa! Io non so dove mettere la maniii-.
 Sorvolai su cosa potesse fare qualcuno in bagno senza luce, decisamente in quel momento non era tra le mie priorità, e dopo un "ok" strascicato tornai in cucina. In realtà, sarei venuto a scoprire in seguito, Corrado ovviamente non era mai stato in bagno, semplicemente si era rintanato tranquillamente in camera a sentire la musica dall'mp3, aspettando che succedesse qualcosa tra me e la sua migliore amica.
 -Mi spiace, non abbiamo neanche un po' di candele- dissi ad Angela. Lei aveva estratto il cellulare, con cui dava vita a un fievole raggio di luce bluastra.
 -Tranquillo...ci tocca aspettare Corrado- sorrise; non aveva potuto non ascoltare la nostra conversazione.
 -Già... ehi, dov'è che sei?- Mi girai intorno, perché in quel momento il suo cellulare aveva deciso che sarebbe stato più conveniente il risparmio energetico e aveva spento l'illuminazione dello schermo.
 -Eccomi, sono qui- agitò la mano. Gli occhi cominciarono ad abituarsi al buio, adesso riuscivo a distinguere il profilo dei mobili e il riflesso degli elettrodomestici, grazie anche alla luce della luna che filtrava dalla finestra. Sentivo anche Angela di fianco a me: era ancora poggiata al bancone, tranquilla anche nell'oscurità.
 -Se non altro, non abbiamo paura del buio- dissi, giusto per dire qualcosa. Le mie parole suonarono immensamente stupide alle mie orecchie, ma lei rispose comunque.
 -Già... io non ne ho mai avuto paura, neanche da piccola. Sai, credo si chiami ablutofobia...no, quella era la paura di lavarsi. Si chiamava... acluofobia, ecco-.
 -Sul serio? Sembra il nome di una pianta d'appartamento- ghignai. Lei rise, poi però si ricompose:
 -Certo che è strano... insomma, perché c'è chi ha paura del buio? Voglio dire, alla fine ci sono le stesse cose che si vedono alla luce del sole, l'unica differenza è che non si notano-.
 -Dici poco... non sai mai quello che ti può capitare-.
 -Mah... a me piace il buio. Posso fare quello che voglio se nessuno mi vede-.
 -Io continuo a preferire la luce, anche se poca. Voglio vedere quello che ho davanti-.
 -Se lo vedi allora vedi anche ciò di cui magari hai paura- sentii Angela spostare il peso sull'altra gamba.
 Ci impiegai un po' di tempo per riflettere su quello che aveva detto: alla faccia dei suoi presunti pensieri troppo veloci e inafferrabili! Magari aveva ragione. Forse non si era resa conto che nella mia mente le sue parole assumevano un significato diretto proprio a lei, ma poteva anche aver ragione. Eppure...
 -Le paure mica si vedono. Più che altro si percepiscono. Non basta spegnere la luce per eliminarle- risposi.
 -Forse no... ma a volte credo che aiuti. No?-.
 -Non so. In ogni caso, non mi piace non vedere cosa o chi ho di fronte, o non capire dove sia-.
 Angela rise, poi la sentii tornare in piedi e muoversi per la stanza:
 -Forza, dove sono adesso?- Chiese ridendo.

Non era difficile, conoscevo bene quella cucina e sapevo dove si poteva arrivare con i movimenti che avevo percepito. Girai un po' su me stesso, poi mi avvicinai al tavolo: -presa!- Esclamai -adesso tocca a me-. Mi allontanai fino a poggiare la schiena sul frigorifero, sicuro su dove mettere i piedi per non andare a sbattere agli altri mobili.
 Sentii Angela muoversi goffamente, fino a quando non vidi la macchia scura che era il suo corpo portarsi dietro una sedia, facendola strusciare rumorosamente al pavimento. Riuscì ad acciuffarla prima che cadesse, e nel farlo mi pestò un piede: -eccoti!-; Senza aspettare una risposta, corse a nascondersi all'altro capo della stanza.
 Continuammo a giocare a mosca cieca per un po', mentre di Corrado ci eravamo quasi dimenticati. Se anche avessi saputo dove fosse, non l'avrei chiamato. In quel momento entrambi volevamo che io rimanessi solo con lei.
 In breve ci ritrovammo sotto la finestra, unica fonte di una fievolissima luce, non abbastanza forte da poter distinguere i dettagli dei nostri volti, ma sufficiente a rischiarare una cucina sottosopra: eravamo riusciti a far cadere in terra un paio di sedie, e inavvertitamente io avevo dato una gomitata al vaso di fiori sul davanzale. Fortunatamente non si era rotto, ma una pozza d'acqua e alcune foglie adesso giacevano sul pavimento.
 -Vedi che il buio è divertente?- Disse Angela.
 -Sì, ma non per la cucina- ammiccai alla stanza.
 -Tranquillo, quando sarà tornata la corrente ti aiuto a rimettere tutto a posto-.
 -Figurati, mi sarei aspettato anche di peggio-.
 Angela sorrise, poi guardò fuori dalla finestra. Mi concentrai sul suo profilo, mentre vedevo la luce candida della luna che era sbucata da dietro una nuvola schiarirle la pelle e trarre bagliori argentati dai capelli. Gli occhi fissavano un punto imprecisato del misero panorama, ed erano la cosa più bella che avessi mai visto. Avrei voluto contemplarli per sempre, e al diavolo che alla proprietaria non piacessero: li adoravo.
 -Di cosa stavamo parlando prima che saltasse la luce?- Chiese a un tratto. Oh... di nuovo.
 -Non ricordo...- risposi. Non mi veniva in mente nient'altro. Non sapevo come ricacciare l'argomento senza far sembrare troppo palese il fatto che mi premeva affrontarlo.
 -Io invece si. Dovevi parlare tu- disse Angela. Sospirai.
 -Ok, ok. Parlerò-. Ci fu un attimo di silenzio. Angela continuava a guardare fuori, ma mi aveva fatto cenno di continuare.    
-Lei è...è bella. é un po' bassetta. é simpatica. A volte fa scompisciare dalle risate. E...- no, no, non andava bene. Sospirai. Lei abbassò lo sguardo.
 -Ha i capelli quasi rossi. è complicata, molto. Non permette che si parli di lei, non vuole che le si facciano troppe domande. é riservata...anzi, è misteriosa. Non permette che qualcun le si avvicini troppo... e... mi sento felice sapendo di averla qui vicino a me-. Lei alzò lo sguardo, quasi spaventata. In quel momento mi resi conto di non sapere quanti ragazzi avesse mai avuto. L'idea che io fossi il primo non mi sfiorò minimamente. Era impensabile. Se adesso mi fermo, è finita.
 -Forse...forse potrei provare ad avvicinarmi un po' di più? Non so se me lo permetterebbe. Potrebbe scappare via, ne sono sicuro. Che ne dici? Provo?-. Sicuramente stava meditando se scappare in quel momento. Trema, osservai orripilato.
 Rimasi impalato, aspettando. Poi, miracolosamente, la vidi annuire nella luce lunare. Mi stava autorizzando ad avvicinarmi.
 Feci un passo. Due passi. Tre passi e le fui a pochi centimetri di distanza. La luna aveva fatto entrare molta più luce nella cucina di quanta ce ne fosse stata fino a poco prima. Lei alzò lo sguardo, muta, guardandomi negli occhi.
 -Adesso ho paura- disse. Mi bloccai.
 -Di cosa?- le sussurrai.
 -Di scappare-.
 Mi accorsi di avere le mani nelle tasche dei jeans; le cacciai per posarle sui suoi fianchi. Sentii quanto fosse esile, a dispetto della felpa.
 -Tranquilla. Adesso ti tengo io-. Le mani scivolarono sulla schiena. Ancora più vicini, tutti e due questa volta. Chiuse gli occhi prima che potessi di nuovo perdermi in quel verde che tanto odiava...e da quel giorno non fu solo Corrado a uscire più felice di quanto non fosse mai stato.  

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Capitolo 13
*** 8) il pentito ***


Forse era quella la vera felicità: Angela era una fata, una creatura particolarissima, ed ora era tutta per me. Era ciò che volevo, quello che mi faceva sentire bene, riusciva a legarmi alla vita come pochi. E lei, miracolosamente, ricambiava; non passava giorno che non fosse ansiosa di vedermi, di essere coccolata.

Cominciavo a capire che era in cerca di qualcosa, lo avevo notato da come si rannicchiava contro di me quando la stringevo tra le braccia. Eppure neanche ora osavo chiederle qualcosa che mi aiutasse a capire il suo passato in città: avevo paura a rompere la condizione che aveva posto quando diventammo amici, come se fosse un limite del suo territorio, una barriera invalicabile oltre la quale c'era l'ignoto.

Preferivo rimanere come stavamo: lei voleva così, non volevo rischiare di perderla.
 Corrado era contento per noi, anche spesso preferiva lasciarci soli e allontanarsi con gli amici della sua classe. Come biasimarlo? Odiava fare il terzo incomodo. Lui ci assicurava che ciò non rappresentava un problema, ma noi cercavamo di non escluderlo. Nei limiti del possibile ovviamente... riusciva facile a volte essere un po' egoisti e lasciarlo andare per rimanere soli.


 Un pomeriggio Angela mi confessò di essere il suo primo ragazzo. Rimasi di sasso. Lei abbassò lo sguardo arrossendo, mormorando che forse adesso non avrei più avuto voglia di stare con lei. Chissà cosa era accaduto tra i suoi neuroni per arrivare a una conclusione del genere. Le passai un braccio intorno alla vita:
 -E ti sembra importante?- Le sussurrai.
 -Pensavo che lo fosse per te...- Mormorò.
 -Scema-. La baciai delicatamente.
 Era stata una bella giornata di sole, anche se ormai la luce stava pian piano cedendo il passo al precoce buio di metà dicembre.

Era stato bello avere qualcuno con cui festeggiare un mesiversario, anche se mi sembrava ancora strano. Tuttavia, con un certo compiacimento da parte mia, da quel giorno sul collo di Angela splendeva il ciondolo che le avevo regalato. Una cosina semplice, un cuoricino appeso a una cordicella scura, ma era comunque bello che lo sfoggiasse ogni volta raggiante.

Parlammo del più e del meno. Mi raccontò delle sue amiche in città, mentre giocherellavo con un braccialetto che portava al polso. Le sue amiche si facevano chiamare Pu e Pam, ma non sapevo molti degli aneddoti che mi stava narrando. Sapeva parlare, Angela, ma solo dopo aver preso confidenza; riusciva a rendere tutto divertente, come se fossi con loro mentre mi raccontava di quando avevano fatto l'alba sulla spiaggia, o di quando per aver preso l'autobus sbagliato erano arrivate con un'ora di ritardo a una festa, oppure di quando avevano saltato la lezione pomeridiana a scuola per andare al cinema. Nel bar dove eravamo seduti la gente arrivava e se ne andava, ma a noi non importava. Riuscivamo a vedere i passanti attraverso il vetro, mentre i fondi dei caffè che ci eravamo presi si facevano sempre più freddi.

    
Era piacevole stare con lei. Non sembrava avere più niente della ragazzetta timida che avevo incontrato mesi prima, adesso mi pareva di conoscerla da sempre. I problemi che avevo intravisto in lei erano ormai acqua passata... O almeno, così faceva in modo che fosse.

In quel periodo avevo visto anche sua madre (ma alla prospettiva di incontrarla ero arretrato: non mi sembrava ancora il caso). Era una donna fiera, poco incline alle futilità e di sani principi, e qualcosa in lei mi ricordava Angela. Forse la forma del viso, o il taglio degli occhi. Sicuramente non il colore di quest'ultimi: Susanna aveva un paio di occhi color caramello, scuri e profondi, diversi dal verdone della figlia. Eppure qualcosa le accumunava, qualcosa da dentro, un cameratismo facile da percepire e difficile da spiegare.


 Qualcuno entrò nel locale, annunciato da una folata di vento freddo. Alzai lo sguardo solo per curiosità, per vedere se fosse qualcuno che conoscevo, ma capii subito che non rientrava nella mia generazione: era un uomo, alto e coperto da un impermeabile beige; mai visto a Polverano. Ma qualcosa nel suo viso mi colpì. Non capii subito cosa, così decisi di non perderci tempo, non quando avevo Angela vicino a me. Tornammo a parlare senza degnarlo di una seconda occhiata.
 A un tratto però sentii un corpo freddo avvicinarsi alle mie spalle. Angela, di fronte a me, impallidì. Mi girai in tempo per vedere l'uomo che la fissava, e rimasi di sasso quando riservò a me un'occhiata sprezzante e...gelosa? Ma chi era? Lo guardai in faccia, fissandone meglio i dettagli: era sulla quarantina, con la barba non fatta e un volto che ricordava un bambino viziato. I capelli scuri -già rigati da qualche filo bianco- erano tagliati corti, anche se alcune ciocche ricadevano sulla fronte, sopra un paio di occhi color... Scostai senza rendermene conto la sedia dal tavolo: ecco cos'era che mi aveva colpito nel suo viso. Gli occhi. Verdi, paradossalmente scuri. Come quelli della mia ragazza.
 -Angela?- Chiamò l'uomo.

Non avevo quasi il coraggio di respirare: Angela aveva detto che suo padre era scappato via, me l'aveva detto Corrado quando si erano conosciuti. Era una balla, si capiva, ma Angela non ne aveva mai fatto parola. Per lei era come se fosse sparito dalla faccia della terra. E allora adesso perché era venuto?
 Angela contrasse le labbra e strizzò gli occhi. Le tremavano le mani, potevo sentirlo perché le tenevo ancora il polso. Poi l'uomo fece una cosa per cui l'avrei ucciso volentieri: sorrise e le si avvicinò cordialmente.
 -Angela, ti sei fatta bellissima in questi mesi, sai?-

Lei continuò a guardarlo con odio, sempre muta, sempre ostile. Mi chiesi come osasse quell'uomo avvicinarsi tanto. Io non l'avrei fatto, non quando lei lanciava fulmini dagli occhi. Poi provò ad accarezzarle la testa. Angela si ritrasse con uno scatto fulmineo e si alzò facendo strusciare rumorosamente la sedia sul pavimento. Alcuni avventori si voltarono per un secondo nella nostra direzione.
 -Non ci provare- sibilò lei -non toccarmi-.

Iniziai a spaventarmi. Cosa aveva mai potuto fare quell'uomo per suscitare tanto odio? Ritrasse la mano titubante.
 -Ascolta ti prego...posso parlarti un attimo?- chiese. Angela cominciò a respirare velocemente.
 -No. Non puoi, hai capito? Come ti sei permesso di venire fin qui?- esclamò.
 -Angela...voglio solo parlare. Spiegarti come sono andate le cose...- non riuscì manco a finire.
 -Come puoi pensare che mi importi?-.
 -Ragiona, ti prego...-
 -Vattene via-
 -Angela...-
 -Mi fai schifo. Spero solo che tu non sia andato da mamma-. L'uomo abbassò la testa.
 -In realtà speravo di riuscire a parlare prima con te...- mormorò. Angela lo guardò disgustata.
 -Non ci provare. Non ti avvicinare a lei. Sparisci. Non ti vogliamo-. Mi accorsi che aveva gli occhi lucidi.

Pensai che fosse meglio portarla via da lì, visto che quel tipo non sembrava intenzionato a desistere. Senza farmi notare, contai alcune monete.
 -Ti prego, fammi almeno parlare-. L'uomo sembrava disperato. Angela lo guardò cercando di non lasciar trasparire alcuna pietà.
 -Vattene. Tornatene in città. Non ti vogliamo-. Vidi una lacrima scivolare dall'angolo dell'occhio. Lei se l'asciugò con un gesto arrabbiato, come se non avesse voluto lasciar trasparire quel segno di debolezza. Mi alzai e la presi per mano:
 -Andiamo- le sussurrai prendendo i nostri cappotti.
 -Fermo tu!- Esclamò l'uomo. Angela ruggì:
 -Tu non dai ordini a lui! Non ti permettere mai più!- Riuscii a vedere un altro paio di lacrime, prima che scappasse fuori. Rimasi solo con lui. Mi guardò.
 -Sei il suo fidanzato?- Mi chiese. Al posto di rispondergli gli lanciai un'occhiata di pura ostilità e gli voltai le spalle. Mi avvicinai alla cassa e gettai le monete sull'icona di una birra, poi senza neanche aspettare che il cassiere mi desse il resto corsi fuori.


 Cercai Angela nei dintorni, fino a quando non la trovai seduta su una panchina, stretta nelle braccia e tremante di freddo. Le avvolsi il cappotto attorno alle spalle, cercando di coprirla come meglio riuscii, poi mi sedetti vicino a lei abbracciandola.

Sentii le sue lacrime bagnarmi la felpa mentre la stringevo al petto. La lasciai piangere a lungo, con il sole che era ormai sparito del tutto e i lampioni sopra di noi che si accendevano con la loro spettrale luce arancione. Quando sentii che le lacrime si erano placate e che le spalle non erano più scosse dai singhiozzi, provai a parlarle.
 -Angela...ehi...tranquilla...se ne è andato...- la cullai tra le braccia. Lei rimase in silenzio, mentre la avvertivo deglutire le lacrime che non sarebbero cadute.
 -Scusa...- mormorò dopo un po' -non volevo stare così. Mi dispiace...-. Cercò di non far tremare troppo la voce, e in effetti era fin troppo ferma.
 -Non devi preoccuparti. Da quanto tempo era che non piangevi?-.
 -Io odio piangere. Non voglio piangere...scusa...-. Le baciai i capelli, confuso. Ero conscio solo di tenere tra le braccia una creatura così fragile da sembrare di vetro, come l'ampolla a forma di delfino che teneva in camera.
 -Angela...dimmi cosa è successo. Come fai a vivere tenendoti tutto dentro?- Sussurrai. Lei mugolò:
 -No Raffa, ti prego-.
 -Ehi...magari riuscirò ad aiutarti. Ma non puoi continuare così-. Tuttavia Angela scosse la testa, strusciandola contro il mio petto. Le accarezzai i capelli.
 -No. Questi mesi a Polverano sono i più belli che io abbia mai vissuto da anni, andava tutto bene, sono certa di poter continuare così...-.
 -Angela...-
 -Davvero Raffa, ti prometto che starò meglio. Già domani starò di nuovo bene, ok? Però ti prego, non voglio parlare-.
 La guardai negli occhi. Lei sorrise incoraggiante...e anche implorante. Non sapevo cosa fosse meglio, se farla parlare o no; ma odiavo forzare le persone...
 -D'accordo. Non insisto. Però sappi che qualunque problema tu abbia, io sono qui. Intesi?-. Lei annuì grata, poi appoggiò il mento sulla mia spalla. Non mi accorsi che altre lacrime erano riuscite a scavalcare le sue ciglia.

 

Un'altra recensione salutare per il mio cuoricino... per _sirio_: grazie dei pareri e... tranquilla, la storia non è affatto finita ;)

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Capitolo 14
*** 9) le reazioni ***


 Una volta tornato a casa, mi accorsi che dovevo avere una faccia troppo scura per non essere notata. Corrado mi prese di mira non appena misi piede in camera:
 -Raffa, sembri morto. é successo qualcosa che ancora non so?- Chiese dall'alto del letto a castello.

Scossi la testa, scostando un cumulo di vestiti da una sedia e scivolando dietro la scrivania. Pescai dallo zaino il libro di storia e cominciai a sfogliarlo in un inefficace tentativo di ripassare.

Lui balzò giù dal letto con un tonfo che fece tremare il pavimento e prese posto davanti a me.
 -Non te la cavi così facilmente. Si vede lontano un miglio che è successo qualcosa. Allora?-.
 Io rimasi in silenzio. Corrado si incupì:
 -Ha a che fare con Angela? Avete litigato?-. Scossi la testa con veemenza. Lui incrociò le braccia.
 -Non farmiti cacciare le parole a forza. Parla, coraggio-.

Pensai ad Angela che insisteva a non voler dire una parola sulla sua storia, anche se sapeva quanto mi avrebbe fatto sentire più utile sapere cosa nascondeva. In quel momento Corrado non si trovava forse in una situazione simile? Inoltre Angela era la sua migliore amica. E a lei avrebbe fatto comodo non dover ripetere ciò che era successo quel pomeriggio
 -Angela ha incontrato suo padre oggi- dissi. Lo sguardo di Corrado si impietrì.
 -E cosa è successo?- domandò in tono neutro.
 -Non l'ho capito bene. Lui voleva parlarle, ma lei non glie l'ha permesso. Alla fine è scappata via-. Abbassai lo sguardo.
 -Ma... ma per caso sai perché non vuole parlare di lui? Insomma, a questo punto è ovvio che quando mi ha detto che era scappato quando era piccola stava raccontando una balla. Ma perché?-. Scossi la testa:
 -Speravo che lo sapessi tu. Lei insiste a non volerne parlare. Non lo so il perché, non ne ho la più pallida idea...- mi presi la testa tra le mani, sentendomi completamente inutile. In quel momento Angela stava male, molto male, eppure non riuscivo a farla stare meglio. Forse avrei fatto bene a convincerla a sputare il rospo... mi sembrava di essere stato troppo ingenuo. Che cretino.
Anche Corrado rimase per un po' in silenzio. Entrambi pensavamo a quanto fosse orribile avere la consapevolezza di essere impotenti davanti a una persona che soffriva e che non permetteva che la si aiutasse.

Le mie braccia caddero con un tonfo a incrociarsi sulla scrivania, nello stesso momento in cui Corrado si alzava dalla sedia:
 -Io la chiamo. Magari sarà più facile scioglierle la lingua al telefono-. Prima che potessi fare o dire qualcosa aveva già afferrato il cordless ed era uscito dalla stanza.


 Ripresi a sfogliare le pagine del libro, assente, mentre pensavo a cosa avrebbe detto Corrado per far parlare Angela. Qualcosa si sarebbe inventato. Eravamo sempre stati gli opposti in queste situazioni: io preferivo il silenzio, con il quale i pensieri fluivano liberamente fino a quando non si placavano, sfiancati dalla corsa. Lui invece parlava, parlava, fino ad arrivare a qualche conclusione. Forse era meglio la sua tattica: il più delle volte il mio modo di fare passava per menefreghismo.
 Tuttavia, dopo un quarto d'ora, quando dalla cucina cominciò a fluttuare l'odore della cena e le pagine del mio libro di storia avevano finito di farsi sfogliare dalla mia mano (si erano fermate circa all'inizio del rinascimento), Corrado tornò in camera scaraventando il telefono sul letto.
 -Allora? Che dice?- Chiesi. Lui alzò le spalle:
 -Niente. Non vuole parlare. Continuava a ripetere che non ci dobbiamo preoccupare, che sta bene, e via dicendo-. Si accasciò sulla sedia che aveva lasciata vuota.
 -Facciamo così, vediamo come sta domani. Se sta peggio la facciamo parlare per forza- Dissi. Mio fratello annuì, senza dire una parola.
 Non era convinto, si vedeva lontano un miglio. D'altra parte, neanche io lo ero.

 


 

Sono tornata, dopo aver imprecato in ogni lingua contro la connessione a internet bacata xD Chiudo qui il capitolo, anche se è indecentemente corto, perché ho intenzione dal prossimo capitolo di iniziare la storia dal punto di vista di Corrado.

Qualcosa sta per cambiare nella vita dei protagonisti, abbiate fede (o, al limite, recensite anche per dire che tutto ciò fa miserevolmente schifo xD)

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Capitolo 15
*** Corrado - 1) il segreto ***


Chissà quali sono le ragioni per le quali un determinato tipo di persone preferisce tenere dentro di sé il dolore, rifiutando l'aiuto degli amici.

Forse paura, vergogna, voglia di dimenticare. Niente però sembra compensare quello sforzo immane, necessario a mantenere la facciata di buon umore da mostrare al mondo.


 Quella sera Raffaele era tornato a casa con una faccia tale che sembrava avesse assistito all'omicidio di un infante. Sentire ciò che era successo e chiamare Angela mi era sembrato ovvio come respirare. Avevo sentito un sacco di chiacchiere inutili da parte della mia migliore amica, ma non ero riuscito a cavare un ragno dal buco.


 Il giorno dopo Angela era tornata frizzante e allegra, come se il pomeriggio precedente non fosse successo niente. E di riportare a galla l'argomento non ne aveva voglia nessuno di noi tre, quindi finì con l'essere dimenticato.

Certo, più volte durante la mattinata avevo sorpreso Angela con lo sguardo assente e cupo, quasi preoccupato. Ma ogni volta si ridestava quasi scrollando la testa, come un cane che si sgrulla dopo un bagno, e tornava a sorridere.

Un sorriso che, mi accorsi dopo poco, era tirato e tenuto su da una buona dose di volontà. No, Angela non era frizzante e allegra, ma faceva finta di esserlo per non farci preoccupare. E per evitare di parlare. Dio solo sapeva quanto si stesse sforzando per mantenere quella facciata di normalità, facciata che io non avevo il coraggio di sbriciolare, non quando era stato così faticoso erigerla.


 Raffaele era disperato; cercava di non farlo capire, ma si vedeva che era confuso, non sapeva cosa fosse meglio fare; sarebbe toccato a me farla cantare. Alla fine, decisi di parlarle durante la lezione di ginnastica.

Pensai fosse la cosa migliore perché il nostro prof aveva come maggiore priorità quella di raggiungere l'età pensionabile, poco importava se insegnasse qualcosa, per quanto sia possibile insegnare educazione fisica. Ci portò in palestra, ordinandoci di fare dei giri di corsa per riscaldarci. Ci sottoponemmo al suo volere di buon grado: le seguenti due ore le avrebbe passate in un cantuccio della palestra immerso nelle sue questioni burocratiche, mentre noi saremmo stati liberi di fare ciò che ritenevamo più salutare per il nostro spirito.

Ovviamente, quel giorno andò diversamente.
 Angela trotterellava quieta insieme ad alcune compagne di classe, mantenendo ancora quell'assurda superficialità che non le si addiceva. La affiancai:
 -Stai meglio?- Chiesi. Lei strinse le labbra e accelerò, finendo in testa al gruppo di ragazze. Io la raggiunsi.
 -Sì, sto meglio. Tranquillo- disse sorridendo. Pessima attrice.

Avanzò ancora di più. Io le fui a fianco in pochi secondi.
 -Non sembra- le dissi. Lei rimase in silenzio, continuando a correre. Aveva raccolto i capelli in un minuscolo codino sulla nuca, ma alcuni ciuffi le cadevano sulla fronte saltellando e seguendo il suo ritmo della corsa.
 -Angela ti prego. Te l'ha già detto Raffaele, non puoi tenerti tutto dentro-. Angela sbuffò.
 -Faceva parte dei patti- disse. Io rimasi perplesso.
 -I patti. Le condizioni che avevo posto qualche settimana dopo che sono arrivata. Vi avevo avvertito che ci sarebbero state cose che non vi avrei mai detto, e voi avete accettato. Fine-. Tornò a guardare dritto davanti a sé.

Ricordai quel giorno, il giorno del suo primo quattro. Non avevo mai pensato a quali cose potesse alludere quando mi aveva parlato...
 -Bè, hai ragione. Ma non mi piace che la mia migliore amica stia soffrendo-.
 -Non sto soffrendo!- Esclamò. La corsa le aveva già fatto venire il fiatone.
 -Non mi pare proprio-.
 -Smettila. Ti avevo avvertito mesi fa, ora non rompere-.

Accelerò ancora fino a raggiungere le amiche, che si erano appollaiate sul quadro svedese dando fondo ai pettegolezzi più freschi. Sapevo che non avrebbe preso parte alla conversazione, ma se era disposta a sorbirsi la succursale di Vanity Fair di Polverano pensai che non avrebbe più parlato con me per le prossime tre ore.


  Il professore si allontanò un attimo dalla sua amata cattedra per gettare uno sguardo sconsolato alla classe. Probabilmente si stava chiedendo cosa avrebbe scritto sul registro nella colonnina delle attività fatte, perché poi preso da un'illuminazione ci chiamò a gran voce:
 -Ragazzi! Non potete rimanere senza fare niente!- Esclamò.
 -Oh no, gli ha ripreso la sindrome del buon professore- mi sussurrò all'orecchio un amico mentre ci avvicinavamo. Quando fummo tutti attorno al prof, questo sorrise raggiante:
 -Bene, adesso andate nel magazzino e prendete uno step ciascuno. Poi fate gli esercizi che vi mostrai all'inizio dell'anno, ricordate?-

Alcuni di noi annuirono rassegnati, poi tutta la classe si diresse verso una porticina all'angolo della palestra dove erano ammucchiati attrezzi di ogni genere: tre gabbie di ferro piene di palloni per basket, calcio e pallavolo, bastoni e corde per saltare ("funicelleee!" tuonava il prof quando le chiamavamo così), cerchi e, impilati alla buona contro la parete più lontana, una trentina di step rigati e consumati.

Ne prendemmo uno a testa, cercando di non ucciderci a vicenda nell'uscire da quello spazio angusto, e tornammo in palestra, dove i più sboroni li sistemarono all'altezza massima. Ovviamente io ero tra quelli. Angela si sistemò lontana da me, trascinandosi l'attrezzo vicino a Silvana, la quale si stava succhiando un dito che si era acciaccata nell'abbassare lo step. Ahi. Angela si chinò ad osservarlo, mentre una striscia di sangue scarlatto spillò da vicino l'unghia. Silvana lo ritrasse facendo le spallucce e rassicurandola, poi ficcò la mano nella tasca della tuta.


 Gli step erano attrezzi che odiavo in maniera particolare: su e giù, su e giù, ripetendo esercizi che il nostro prof si era inventato su due piedi all'inizio dell'anno. Sembravano facili, e tutto sommato lo erano, se non fosse stato per la fatica che richiedevano. Dopo i primi dieci minuti, già le prime ragazze si sedevano in inutili riprese di fiato tra un esercizio e l'altro.

Io mi divertivo come un cretino, mentre tra gli amici ci sfidavamo e facevamo a gara a chi resistesse di più. Avremmo preferito evitare di fare gli esercizi, ma il nostro professore era noto per la severità. Sembrava un paradosso: si distraeva facilmente, spesso trovava più interessante il suo amato registro, ma se a un tratto avesse alzato lo sguardo e avesse visto qualcuno che non stava facendo l'esercizio, non avrebbe esitato a mettere un sonante due. Ed essere rimandati a ginnastica era troppo umiliante per chiunque.


 Ma la sua distrazione quel giorno fece venire i nervi: nessuno osava smettere di saltellare su e giù, su e giù, quando invece lui non se ne curava e leggeva interessato quello che aveva tutta l'aria di essere il libretto delle istruzioni del nuovo cellulare, che giaceva spento sulla cattedra. Il risultato fu che presto iniziarono ad esserci segni di cedimento: la classe sbuffava e mugolava infastidita mentre i movimenti si facevano sempre più fiacchi. Persino noi avevamo smesso di scherzare e abbassato gli step per alleviare la fatica, ma la stanchezza aumentava sempre di più. E il prof pareva essersene dimenticato...


 Girai lo sguardo per vedere come se la cavavano gli altri: Silvana stava facendo finta di allacciarsi la scarpa per potersi rannicchiare un po', poi scioglieva il nodo, poi lo rifaceva, poi lo riscioglieva. Furba.

Un paio di miei amici si stavano massaggiando i polpacci, lanciando sguardi ansiosi verso la cattedra nel timore di essere scoperti.

Ludovica e le altre ruffiane cercavano di non demordere, nonostante il sudore calasse loro dalla fronte e le facce fossero paonazze.

Davide, due file di fianco a me, era l'unico che sembrava non avere problemi: saltava come se avesse le molle ai piedi, i muscoli induriti dagli allenamenti di rugby. Mentre osservavo Silvana passare all'altra scarpa, lo sguardo mi cadde su Angela: spesso inciampava, e lo step si inclinava pericolosamente ogni volta che prendeva troppo slancio. Quando tornava sul pavimento le gambe sembrava si rifiutassero di sollevarsi, e lo stesso quando atterrava sull'attrezzo. Ma fu il viso a farmi preoccupare: era pallido come un lenzuolo, e le labbra avevano perso colore, mentre il sudore stillava cadendo sulla fronte e vicino le orecchie. Abbassò le palpebre sofferente.
 -Angela!- Chiamai, ma attraverso il fracasso di cinquanta piedi che facevano su e giù sempre più pesantemente lei non mi sentì. Poi se ne accorse anche Silvana, che fortunatamente era più vicina a lei:
 -Angela? Stai bene?- Le chiese. Lei la guardò smarrita:
 -Oh...io...un po' caldo...- biascicò con un filo di voce.
 -Fermati un po', stai male!- Le rispose Silvana.

Angela scese dallo step e indietreggiò fino al freddo muro della palestra. Appoggiò la schiena e ci si abbandonò contro. Io e Silvana la guardammo preoccupati. Poi si avvicinò barcollante al professore. Lui la guardò atterrito e la fece stendere a terra, sentendole il polso. Angela chiuse gli occhi, senza neanche la forza di scostarsi i capelli sudati dalla fronte.

A questo punto tutti se ne erano accorti e si erano fermati, ringraziando nel profondo Angela per aver loro concesso quella possibilità. Il professore ci guardò, mentre gli restituivamo occhiate rancorose per averci fatto faticare così tanto, e disse che potevamo rimettere a posto gli step. Senza curarmi del mio, mi avvicinai in fretta all'angolo dove si era abbandonata Angela.
 -Come ti senti?- Le chiesi inginocchiandomi vicino a lei. Mi guardò, sempre spaventosamente pallida.
 -Male...non ci vedevo più...fa caldo...- mormorò.
 -Stavi quasi per svenire. Hai mangiato a colazione?-. Lei corrugò la fronte.
 -No, mi si era fatto troppo tardi, non potevo perdere tempo...-.
 -Hai almeno qualcosa da mangiare ora?-.
 -Ehm, non credo...dai tranquillo non fa niente...sto già meglio, guarda- cercò di sorridere, ma le uscì solo una smorfia. Sbuffai.
 -Hai sempre la mania di minimizzare. Ora che torniamo in classe ti do la mia merenda, ok?-. Scosse la testa:
 -No, no, tranquillo, non serve...-.
 -Perché fai finta di stare bene quando si vede lontano un miglio che non è vero? Fai sempre così. Sempre-.

Mi sembrò di aver gettato fuori troppa aria dai polmoni nel dire quelle parole. Aveva sicuramente capito che non mi riferivo solo al mancamento che aveva appena avuto. Mi ritrovai senz'aria, forse per mancanza di abitudine nel parlare chiaro e tondo di argomenti che era più comodo evitare. Inspirai troppo in fretta e sembrò che stessi trattenendo il respiro.
 Angela mi guardò torva, mentre una ruga le si formava tra le sopracciglia.
 -Perché ti evito un sacco di preoccupazioni inutili. Soddisfatto?- Sibilò. Scossi la testa:
 -No, il problema non è la mia preoccupazione. Il problema sei tu. Perché si vede che non riesci a tenerti tutto dentro, e non voglio vederti crollare senza poter fare niente-.
 -Stavo bene fino a poco fa-.
 -Non direi proprio-.

Sbuffò, senza rispondere. Si limitò a fissare un punto nel vuoto, mentre i nostri compagni di classe stavano stramazzando al suolo per riprendersi dalla fatica degli step. Aspettai che rispondesse, ma si avvicinò Silvana, che le si pose davanti:
 -Angela, tutto bene?- Chiese preoccupata. Angela annuì:
 -Tranquilla, è tutto ok-. Mi lanciò un'occhiata eloquente.


 Mi allontanai senza dire una parola: se non ero riuscito a spillare una confessione io, era improbabile che ci riuscisse Raffaele. Nessuno di noi due si era mai trovato a proprio agio con le parole, ma lui a differenza di me aveva il timore di obbligare la gente: odiava forzare le persone a fare qualcosa per paura che reagissero male. Che alla fine era quello che succedeva nella maggior parte dei casi, ma lui non voleva neanche avvicinarsi al rischio di discutere.

Eppure un po' di fermezza ci voleva, come ci volevano un po' di discussioni. E Raffaele era decisamente più vicino ad Angela e al suo segreto, avrebbe avuto più possibilità di me di capire quale fosse...
 Forse sarebbe stato meglio lasciarla in pace come mi pregava di fare. Ma se c'era un concetto che non mi si creava in testa, era proprio quello di lasciare i miei amici in difficoltà, sebbene fossero convinti di potercela fare.

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Capitolo 16
*** 2) la pattinatrice sul ghiaccio ***


  Il segreto di Angela ossessionò me e Raffaele per settimane intere, ma lei non desisteva... Fino a quando non arrivò il momento in cui i piccoli eventi quotidiani ebbero la meglio, e finimmo per dimenticarlo.

Come fosse stato possibile non me lo spiegai mai, non avrei mai creduto di essere capace di dimenticarlo, ma forse fu anche a causa degli eventi che presero luogo nella mia vita, della quale mi sentivo sempre più passeggero piuttosto che il conducente che ero sempre stato.


 Angela e Raffaele stavano insieme da tre mesi ormai: nessuno sembrava poterli dividere, e ognuno aveva occhi solo per l'altro. Un po' rimpiangevo il tempo in cui erano solo amici; era come se avessi perso i miei migliori amici in una botta sola, erano talmente presi che a volte temevo si dimenticassero di me.

Mi ritrovai a cercare di modificare la mia situazione sentimentale: eppure con Morena avevo preso un granchio colossale, non ero intenzionato a ripeterlo...

 Una mattina il panorama che mi si presentò appena sveglio fu spettacolare: durante la notte aveva fatto una gelata pazzesca, ed ora sugli alberi e sui tetti delle macchine c'erano diversi centimetri di neve, ben lontani dalla spruzzatina di zucchero a velo che avevamo avvertito la sera prima. Il bianco predominava fuori dalla finestra: bianche erano le strade, le aiuole, i tetti, gli alberi, il cielo.

In realtà non era caduta molta neve, sicuramente non abbastanza da indurre le scuole a chiudere, quindi utile solo a perdere la sensibilità delle dita dei piedi. Raffaele si contorse da sotto il piumone avvolgendosi come un involtino. Dal piano di sotto giungevano le urla indistinte di Selina che ci incitava a sbrigarci.
 -Avete intenzione di perdere l'autobus? In quel caso non sperate che vi accompagni a scuola! Veloci! E' tardissimo!-.
 Voltai le spalle svogliatamente alla finestra e lanciai una penna verso l'involtino di piumone.
 -Svegliati, a sentire mamma è tardi- borbottai con la voce ancora impastata di sonno mentre mi stiracchiavo.

Lui mugugnò qualcosa che somigliava a "dice sempre così, altri cinque minuti...". Mi strinsi nelle spalle e cominciai a vestirmi, mentre di sottofondo Selina continuava il suo monologo. Come se la stesse ascoltando qualcuno.


 Fuori il freddo era lacerante: io e Raffaele eravamo troppo insonnoliti per palare ,e nell'aspettare l'autobus (in ritardo, come previsto), fui certo di aver perso i lobi delle orecchie. Entrare nell'autobus fu un sollievo, anche se la folla di adolescenti ancora mezzi addormentati portava con sé ad ogni fermata un soffio di vento gelido. Raffaele si era estraneato dal mondo con le cuffiette del suo mp3 che gli sparavano nelle orecchie gli amati Red Hot Chili Peppers.


 Fu la prima volta che entrare a scuola fu un sollievo: se non altro faceva caldo. In classe si avvertiva l'agitazione provocata dall'imminente interrogazione di greco. Ancora intorpidito, presi posto al mio banco, dove un'Angela con la lingua fra i denti ripassava all'ultimo minuto futuro e aoristo dei verbi anomali.
 -Studiato?- Chiesi. Le scosse la testa, borbottando una serie di verbi politematici.
 -Yuppi- risposi sarcastico. Mi girai verso Sergio e Adriano, al banco dietro il nostro, ma anche loro erano immersi in libri e appunti fitti di ghirigori dell'antico idioma. Sbuffai, poi sconfitto cacciai la grammatica greca. Un ripassino lampo sarebbe stato comunque utile... Fortunatamente arrivò Maddalena a darmi la scusa per evitare di guastarmi il cervello di prima mattina.

Maddalena non aveva particolari problemi, non sarebbe stato difficile per lei strappare un sette. Trovarla impreparata era un po' come vedere la prof di lettere senza bombolone alla crema: possibile, ma estremamente raro.
 -Ehi, avete da fare questo sabato?- Chiese. Angela si staccò dalla grammatica.
 -Io credo di no- disse.
 -Idem- risposi io. Lei sorrise:
 -Si stava pensando di andare alla pista di pattinaggio sul ghiaccio che hanno messo vicino la piazza. Non so se l'avete vista. Fin'ora siamo in quattro. Vi va di venire?-. Il viso di Angela si illuminò:
 -Sarà divertente! Io vengo sicuro!- Maddalena le sorrise e poi mi guardò:
 -E tu? Dai vieni!-.
 -Non so...non sono mai salito su dei pattini- dissi.
 -Ah tranquillo, si impara!-
 -Mmm… Chi siamo?-
 -Oh, giusto io, Silvana, Sergio e Adriano...poi chi vuol venire viene. Angela, portarti anche Raffaele...-. Angela annuì.
 -Verrà sicuro-.
 -Corrado, tu non hai nessuna da portare?- Chiese Maddalena con malizia. Scossi la testa, simulando indifferenza. Al diavolo, era indifferenza. Davvero.
 -Oh, ok. Bé, allora ci vediamo lì. Tanto vedrete la pista, insomma, si nota...e c'è sempre un sacco di gente-.
 -Immagino. Sarà come un evento mondano qui a Polverano- ghignò Angela sprezzante. Maddalena le restituì il ghigno:
 -Più o meno. Conta che...- ma l'arrivo del professore le impedì di finire la frase. Scivolò verso il suo posto mentre tutti scattavamo in piedi.
 Lui si avvicinò alla cattedra e con lentezza esasperante cacciò il registro.
 -Interroghiamo. Badate che non accetto giustificazioni- sibilò con cattiveria.

Aprì la colonnina con i nomi. La tensione era palpabile. Lui puntò il dito e cominciò a fare su e giù, su e giù, a volte aiutandosi con la penna per controllare i precedenti voti della possibile vittima e vedere se fosse il caso di tentare un rialzo della media. Angela aveva le mani strette come se fosse in preghiera, mentre in realtà stava stringendo con tutte le sue forze una coccinella portafortuna.

Qualcuno rivolse uno sguardo tra lo scherzoso e l'implorante al crocifisso appeso al muro.

Sergio e Adriano stavano scaricando la tensione prendendosi a pugni sotto il banco.

Maddalena e Silvana leggevano gli ultimi verbi talmente velocemente che sicuramente non ci stavano capendo niente.

Solo cinque o sei persone erano completamente rilassate, o perché già erano state interrogate o perché se anche lo fossero state avevano la consapevolezza di un quattro in pagella, senza che ci fosse bisogno di preoccuparsi.

Poi il professore chiamò: -Chimera-.

Maddalena si alzò con un'espressione rassegnata. Ci fu un sospiro di sollievo, che si spezzò a metà in attesa del secondo martire. La preoccupazione ricominciò da capo. Pareva di sentire il battito di un paio di dozzine di cuori.

-Gramaglia-. Uno dei tipi con il quattro assicurato si alzò impacciato, sorridendo. Chissà cosa ci trovava di divertente.

Solo a quel punto coloro che avevano scampato il pericolo si sciolsero in un sospiro liberatorio, chi ridendo, chi congratulandosi, Angela che baciava esaltata la coccinella, Sergio che mollava un pugno più forte degli altri e Adriano che prorompeva in un "ahia cretino!" senza preoccuparsi di abbassare la voce.

Io mi accasciai sulla sedia, sorridendo: -Sento che tutto questo stress mi ha levato almeno dieci anni di vita- dissi ad Angela.


 Durante l'intervallo Angela chiese a Raffaele se sarebbe venuto a pattinare con noi.

Lui ebbe la mia stessa reazione: -non sono capace- disse infatti.

Angela gli passò le braccia intorno al collo: -io neanche. Sai le risate?- Sorrise.

Lui la contemplò per un po' e poi si arrese: -Ok, ci sarò. Ma non ridete, ok?-

Angela in risposta scoppiò in una fragorosa risata: - Ti vergogni!- Esclamò.
 -No!- Rispose Raffaele. Cominciarono a battibeccare affettuosamente.


 Improvvisamente sentii il bisogno di allontanarmi. Reggere le candele a loro due non mi pareva il caso. Mi avvicinai ai miei compagni di classe e mi inserii nella conversazione, soffocando l'amarezza. Cosa mi stava succedendo? Non avevo mai sentito il bisogno di avere una ragazza. Tutte le volte che mi ero messo con qualcuna, era solo perché la trovavo attraente. La solitudine non mi era mai pesata. Ora invece provavo un senso di fastidio che non riuscivo a spiegarmi; cosa pretendevo? Non volevo che i miei migliori amici si lasciassero.
 Mi avvicinai a Maddalena (la cui interrogazione si era risolta con un sette splendente, come suo solito; a sua detta, era una giusta combinazione di studio non eccessivo, intuito e furbizia) per dirle che si univa anche Raffaele alla spedizione verso la pista. Lei annuì pratica:
 -Perfetto. Allora siamo quelli che ti ho detto. Tanto sarà probabile che incontreremo una marea di gente che conosciamo, ti ho già detto che quella pista è un evento da non perdere...-.
 Restammo a chiacchierare fino a quando la campanella non trillò maleficamente, costringendoci a tornare in classe. Fui contento di sapere che sarebbe venuta anche altra gente a pattinare. Ero certo che non sarei riuscito a sopportare una coppia infatuata come Angela e Raffaele da solo.


 Entro sabato la neve si era sciolta di poco, ma il paesaggio da cartolina persisteva. Eravamo decisi a godercelo il più possibile, perché sapevamo che ciò durava a Polverano il tempo di una settimana.

Io e Raffaele raggiungemmo la pista senza troppi problemi: sembrava che tutti i ragazzi di Polverano si fossero dati appuntamento lì, nonostante fosse garantito che sarebbe rimasta per almeno un mese.
 -Eccoli là- disse Raffaele riconoscendo i capelli rossicci di Angela. Ci avvicinammo e lui le cinse le spalle da dietro baciandola. Con una smorfia salutai i miei compagni di classe. Sergio e Adriano, Silvana e Maddalena.
 -Soldi?- Chiese Sergio. Cacciai un pugno di monetine dalla tasca:
 -Basteranno?- Chiesi ridendo. Erano una decina di euro.
 -Corrado paga per tutti!- Esclamò Adriano raggiante.
 -Non pensarci proprio- misi le monete supplementari al sicuro in una tasca interna e ci avviammo verso l'angolo della pista.

Era già stracolma, piena di bambini e ragazzi che barcollavano incerti e sghignazzanti. Solo un paio di persone sapevano pattinare come si deve, si riconoscevano perché andavano a una velocità pazzesca, zigzagando tra i novellini. A volte qualcuno cadeva. Spesso rimanevano a terra ridendo come matti, anche se i tonfi sembravano capaci di spaccare il ghiaccio, solcato da talmente tante lame che si era ormai ricoperto di nevischio.
 Infilai i pattini con qualche difficoltà. Silvana era convinta di aver preso una misura troppo piccola, quindi tornò a cambiarli. Angela li infilò e come se niente fosse si alzò in piedi. Raffaele e Maddalena la seguirono, mentre noi ragazzi avevamo qualche problema con le chiusure. Troppo stretta, troppo larga... Alla fine riuscimmo a garantirci la sicurezza e ad alzarci in piedi. Sul terreno non era poi così difficile, e senza esitazioni entrammo nella pista.

Sergio fu il primo a finire lungo disteso: non fece in tempo a darsi la prima spinta che subito capì di aver ritenuto il ghiaccio meno scivoloso di quello che era. Iniziarono gli sfottò, mentre lui si rialzava coperto di neve. Ne fece una palla che lanciò contro Adriano: -Carogna!- Gridò ridendo.

Silvana riuscì a reggersi un po' di più, ma poi decise di cambiare i pattini una seconda vola, questa volta per una misura più grande. Altri sfottò.

Maddalena scivolò senza problemi, poi si girò divertita: -Dai è facile!- Ci incitò.

Angela la seguì scoprendosi a non avere problemi. Emozionata, prese le mani di Raffaele, ancora titubante, e lo trascinò per tutta la pista.
 -E quelli sono partiti. Corrado, vuoi rimanere lì? Conta che hai pure pagato per questo- disse Sergio. Io mi appoggiai alla ringhiera e cercai di staccare il piede dal ghiaccio, ma era troppo pericoloso...
 -Ah ah, non ci riesci!- Esclamò Sergio.

Lo guardai con uno sguardo assassino e lo agguantai per il cappotto, appoggiandomi a lui per darmi la spinta. Scivolai senza problemi, sentendomi estremamente ridicolo. Che pagliacciata! Maddalena e Silvana (questa volta con i pattini della giusta misura) pattinavano allegramente tenendosi per mano, appoggiandosi l'una all'altra.
 Dopo il primo quarto d'ora cominciammo a prenderci la mano: non era poi così difficile... Certe cadute furono spettacolari. Adriano riuscì addirittura a cadere da fermo, e Silvana si convinse che ci fosse una spaccatura nel ghiaccio nel punto in cui aveva battuto il coccige. Angela e Raffaele non smettevano di girare intorno alla pista, fermandosi ogni tanto a scherzare con noi per poi ripartire sognanti. Beati loro.


 A un tratto rimasi a lanciarmi palle di neve con Sergio e Adriano, perdendo di vista Maddalena e Silvana. Le ritrovai all'angolo opposto della pista, a parlare con un paio di amiche che avevo intravisto di sfuggita a scuola ed ero abbastanza sicuro che avessero la nostra età.

Risero, poi ripresero a pattinare. Una delle sconosciute, con un basco che le nascondeva il viso, distanziò subito le altre. Cominciò a pattinare così veloce che fui certo che non sarebbe riuscita a fermarsi, spalmandosi contro la staccionata che delimitava la pista. Ma poco prima dell'angolo riuscì a fare una curva stretta, come io non sarei mai riuscito. Arcuò la schiena in avanti e in poco tempo doppiò le amiche, che ancora si tenevano per mano.
 -Oh Gemma, ma sei matta? Quanto vuoi accelerare?- Gridò Silvana. La ragazza si voltò senza fermarsi, scoppiando a ridere:
-Ma non è divertente se andate piano!- Esclamò.
 -Almeno non cadiamo- rispose Maddalena. La ragazza si strinse nelle spalle.
 -Bah, meglio cadere ma andare veloce. Vi trascino io?- Chiese. Le amiche indietreggiarono:
 -Non ci pensare proprio! Tu ci ammazzi!-.
 -Puah, se volete io sto qua intorno- detto questo si rigirò e riprese a pattinare.

Era veloce, ma si distingueva solo per quello. Altrimenti si limitava a pattinare come tutti. Cercai di concentrarmi sui suoi dettagli, ma era raro vederla ferma: si concedeva solo brevi pause per scambiare due parole con le amiche, poi ripartiva come una saetta.

Lasciai perdere e mi concentrai sull'altra amica, quella che trascinava lentamente Silvana e Maddalena. Appariva più compatta, ma aveva due gambe che compensavano il tutto, enfatizzate dai jeans mozzafiato. Inoltre, almeno a questa si poteva vedere il viso: scrutava il mondo da dietro un paio di spettacolari occhi azzurri, incorniciati dai capelli scuri e ondulati, tra cui spiccavano un paio di fermagli. Teneva il cappotto aperto e lasciava intravedere una felpa dello stesso colore degli occhi.

 

Mozzo a metà il capitolo, perché sono bastarda geneticamente e voglio lasciarvi col fiato sospeso. Non è vero, in realtà volevo solo evitare che il tutto diventasse troppo pesante a leggersi xD Grazie a coloro che passano a leggere e a chi ha messo la mia storia tra le seguite :)

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Capitolo 17
*** 3) Carolina ***


-Siamo diventate pattinatrici professioniste!- Esclamò una voce all'improvviso.

Maddalena e Silvana si erano avvicinate, trascinandosi dietro la ragazza dagli occhi blu. 

-Questi sono Corrado, Sergio e Adriano. Ragà, lei è Carolina. E da qualche parte ci dovrebbe essere Gemma... bé, è la pazza che va a tutta velocità-.

Salutammo Carolina, mentre lei ripeteva i nostri nomi per essere sicura di ricordarseli.

Dopo un po' ripresero a pattinare, mentre noi le seguivamo barcollanti... non ci misero molto a distanziarci.

All'angolo della pista le aspettava la ragazza che si chiamava Gemma. Si era levata il cappotto e la sciarpa, ma il cappello le copriva sempre il viso.

Disse qualcosa a Maddalena, e lei annuì. Mi sembrò di vedere Gemma arrossire da quel poco che si vedeva del suo viso, poi riprese a pattinare dandosi una spinta talmente forte che i capelli le si alzarono sulla schiena scompigliandosi ancora di più, cosicché quando le raggiungemmo lei era già lontana.
 -Non si ferma mai?- Chiese Sergio ammiccando a lei.
 -è un po' scema- rispose Carolina, scuotendo la testa sorridente, come se l'amica avesse fatto un errore che ci si aspettava.
 -Accidenti, come vi volete bene!- esclamai sarcastico.
 -Ma lei lo sa, è lei la prima a dirlo. Comunque è solo timida- aggiunse alzando le spalle.
 -Oh. Contenta lei. Che classe fai?- Le chiesi.
 -Siamo al piano sopra al vostro, sezione b-.
 -Ah, anche voi avete la Tediani...-.
 -Già, ma a greco e latino. é un supplizio...-
  Cominciammo a chiacchierare del più e del meno, mentre scoprivo di trovarla estremamente piacevole.

Sapeva parlare, sapeva muoversi, pareva essere venuta al mondo apposta per far vedere come dovrebbe essere una persona. Era simpatica: riusciva a fare le battute giuste al momento giusto, e quando rideva le si formava una buffa rughina tra le sopracciglia.

Poi cominciò a nevicare: erano dei fiocchetti piccoli, impalpabili, ma li vidi comunque intrecciarsi nei suoi capelli.
 -Oh no!- Mormorò lei alzando lo sguardo. Si scosse i fiocchi dalla testa e si alzò il cappuccio della felpa: -meglio ce tu non veda i miei capelli quando c'è umidità nell'aria- ghignò.

-Ehi, io sono qui per pattinare!- Esclamò poi, come riavendosi -Come te la cavi tu?-
 -Benissimo, sono nato con i pattini ai piedi, io... Dico ma mi hai visto? A malapena mi reggo in piedi!- Risposi ridendo.
 -Non c'è problema; impariamo un po'. Vieni!-. Mi prese per il polso e mi trascinò quasi volando sui pattini.
 Mi piacque pattinare con lei: mentre i fiocchi di neve le danzavano attorno, piroettava e scivolava come se la cosa la riempisse di gioia. Chissà quanto tempo ci aveva messo per imparare...

La musica che si diffondeva dagli altoparlanti cominciò a suonarmi familiare alle orecchie: ero certo che fosse una canzone del gruppo preferito di Raffaele, dato che ormai ero abituato a sentirla fino alla nausea quando la metteva allo stereo. Mi sembrò appropriata per il momento, sebbene mi sfuggisse il titolo. Carolina mi prese per i polsi, poi mi trascinò dietro di lei.
 -Ferma, fermaaa!-

I pattini non rispondevano più ai comandi: sentii il baricentro indietreggiare sempre di più, mentre invece lei cercava di evitarmi una caduta tirandomi i polsi verso di sé:
 -Piegati in avanti!-.

Troppo tardi: i pattini scivolarono in avanti trascinando dietro di loro tutto il resto del corpo, e mi ritrovai con il fondoschiena dolorante e ghiacciato.

Carolina riuscì a rimanere in piedi, ma mi cingeva ancora i polsi. Scoppiò in una risata talmente forte che le vennero le lacrime agli occhi. Partì il ritornello della canzone.
 -Pazza! Sei una pazza! E ora come mi rialzo?- Chiesi, cercando di rimettermi in piedi senza toccare con le mani il ghiaccio troppo freddo.

Senza smettere di ridere, lei piantò il piede destro sul ghiaccio e fece forza per tirarmi su.
 -Quanto sei aggraziato! Che spettacolo!- Rise.

Qualcuno ci si avvicinò.
 -E anche Corrado è caduto!- Riconobbi la voce di Raffaele.
 -è colpa sua!- Esclamai indicando Carolina. Scossi la neve dai pantaloni e mi voltai verso lui e Angela.
 -Siete fratelli?- Chiese Carolina accennando a Raffaele -vi somigliate come due gocce d'acqua, è spettacolare-.

Raffaele annuì:
 -Siamo gemelli. Tu sei...?-.
 -Carolina. Voi?-.
 -Io Raffaele, lei Angela- si diedero la mano.
 -Oh, tu sei la ragazza che è arrivata qualche tempo fa in classe di Maddalena e Silvana?- Chiese Carolina. Angela annuì, abbassando lo sguardo.
 -Lo sospettavo, mi avevano parlato di te. Com'è che sei venuta qui a Polverano?-
 -Ehm, perché...ecco...- Angela si morse il labbro, poi partì: -è che abbiamo ereditato una casa e siccome c'erano da fare dei lavori alla casa in città siamo venuti qui...- Parlò senza riprendere fiato, come se temesse che le parole potessero sfuggirle se non le avesse dette in tempo.

Notai che aveva detto "Siamo venuti", usando il maschile: piccolo stratagemma per evitare altre scomode domande.
 -Oh. Bé, comunque credo che tu abbia già capito che tipo di posto è Polverano...niente di speciale, ma ci si sta bene-.
 -Già...all'inizio mi sembrava molto peggio- sorrise Angela.

Lo sguardo azzurro di Carolina saettò prima su Raffaele e poi sulla sua mano intrecciata a quella di Angela prima di risponderle:

-Si vede che ora stai meglio. Mi fa piacere-. Angela arrossì, distogliendo lo sguardo.
 -è quasi finito il nostro turno- fece Raffaele controllando in numeretto che gli avevano dato.

Notai che rimanevano solo una decina di minuti allo scadere dell'ora a noi concessa.
 -Un'ora e non hai ancora imparato a pattinare come si deve...che delusione- esclamò sarcastica Carolina.
 -Se volessi potrei pattinare meglio di te!- La rimbeccai.
 -Scommettiamo?- Ghignò arricciando l'angolo della bocca.
 -No no, meglio di no!- Sorrisi, temendo per il mio già troppo provato coccige.

Lei alzò le spalle, poi con un "come ti pare" piroettò e raggiunse le altre amiche al capo opposto della staccionata. Raffaele e Angela mi guardarono con lo stesso sorrisetto complice sul viso.
 -Oooh Corrado, ci manca poco che quella ti salti addosso! L'hai presa!- Disse Raffaele.
 -è simpatica. Secondo me state bene insieme- Aggiunse Angela.

Io guardai Carolina che pattinava tenendo per mano Maddalena. Rimasi un po' a fissarla, pensando a quello che avevo scoperto mi mancava in quegli ultimi tempi.
 -Non è per niente male- considerai.
 -Non è male? Dillo come si deve: quella è un gran bel pezzo di...- Angela diede una gomitata tra le costole a Raffaele prima che lui potesse finire la frase. 

-Scherzavo!- le disse passandole un braccio intorno alla vita. Lei scosse la testa affettuosamente e poi si rannicchiò contro di lui.


 "I numeri dal 46 al 68 compresi hanno finito il loro turno. Dal 46 al 68 compresi..." la voce dell'altoparlante interruppe i miei pensieri riportandomi sulla realtà. Barcollante, mi avvicinai all'uscita della pista.

Aveva ragione Carolina, un'ora e non ero riuscito a imparare nulla...sorrisi. La giornata era stata comunque fruttuosa. Insieme ai miei amici ci levammo i pattini e infilammo scarpe da tennis, stivali o scarponi, a seconda del proprietario, poi ci appoggiammo alla staccionata a chiacchierare un po' prima che ognuno di noi si riavviasse verso casa. Dopo un'ora passata in bilico su due lame, con le scarpe ai piedi sembrava di volare.
 Carolina e l'amica pattinavano veloci, come se stessero facendo a gara, evitando all'ultimo secondo altri pattinatori che spesso si giravano per mandarle in qualche posto ben preciso. Lei se ne infischiava e rideva, rideva, a volte salutando altri amici, a volte fermandosi a riprendere fiato. Era davvero carina.

A un certo punto si avvicinò alla staccionata sulla quale eravamo appoggiati noi.
 -Avete finito il turno?- Chiese. Noi annuimmo.
 -Tra un po' ci tocca uscire anche a noi. Ehi, perché non mi date i vostri numeri di cellulare?- Cacciò un telefonino dalla tasca della giacca, pronta a scrivere.

Noi dettammo le nostre cifre, poi lei fece uno squillo a tutti noi, tranne a Silvana e Maddalena che ovviamente già lo conoscevano a memoria.

Ci salutò e tornò a volare sul ghiaccio. Insieme ai miei amici mi voltai per tornare a casa.

Prima che la pista sparisse dietro una curva, mi girai un'ultima volta per vedere se Carolina fosse a portata del mio occhio. Non la vidi, in compenso però riuscii a vedere l'altra amica appoggiata al posto che avevamo lasciato da poco. Si era levata il cappello e mi fissava con uno sguardo spento. Fissava me?

Carolina la raggiunse. Le sussurrò qualcosa all'orecchio ed entrambe scoppiarono a ridere, poi ripresero a pattinare. Prima di partire Carolina si voltò verso di me e arricciò l'angolo della bocca nella stessa smorfia che aveva quando mi aveva sfidato sui pattini.
 -Ehi Raffa, mi è sembrato che mentre pattinavamo avessero mandato una canzone di quelle che piacciono a te...Come si intitolava?- Chiesi a mio fratello. Lui sghignazzò:
 -Come sarebbe, ti sei concentrato sulla musica mentre Carolina ti pattina davanti? Cadi in basso...comunque hai ragione, erano i Chili Peppers. La canzone è "Snow"-.

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Capitolo 18
*** 4) l'elastico ***


Era normale che da quel sabato ogni giorno incrociavo per caso Carolina?

La mattina prima delle lezioni, durante la ricreazione, all'uscita da scuola... lei gironzolava sempre con Silvana e Maddalena, le quali iniziarono a passare più tempo con noi.

Ne fui estremamente contento: Angela e Raffaele forse non avevano neanche fatto caso a loro, ormai fluttuavano sul loro palloncino a forma di cuore al di sopra dei comuni mortali. Ma in quel periodo mi sentii più felice: forse era il fatto che il freddo pungente dell'inverno di Polverano si stava arrendendo alle prime avvisaglie della primavera, forse il motivo era che trovavo estremamente difficile arrabbiarmi con il mondo, ma una settimana dopo l'avventura alla pista di pattinaggio fui certo di quale fosse la vera causa.

Giacevo sul letto a leggere un libro per la scuola, quando per la camera risuonò un bip della durata di un secondo.

Avevo riconosciuto il suono: il mio cellulare si era adattato al modo d'uso "riunione", ovvero due semplici bip, uno più acuto dell'altro, rispettivamente per i messaggi e le chiamate. E quello che avevo appena sentito era il bip acuto. Quello delle chiamate...o degli squilli.
 -Chi ti scrive?- Chiese Raffaele dalla scrivania. Il suo orecchio poco allenato l'aveva scambiato per un messaggio.

Presi il cellulare, dove era comparso l'avviso di una chiamata persa.
 -E' uno squillo...è Carolina-.

Alzai lo sguardo e incrociai gli occhi di mio fratello. Il messaggio contenuto in uno squillo era semplice da capire per gli umani della nostra specie (adolescenti): poteva variare da "ehi ciao, che fai?" a "sei vivo?" ma, più semplicemente, la maggior parte delle volte voleva dire "ti penso".

Raffaele mi guardò sconcertato.
 -Che aspetti? Restituiscile lo squillo!- sorrise raggiante.

Io schiacciai il tasto verde e lasciai che la chiamata durasse il tempo di tre secondi, poi riappesi. Un minuto dopo, il numero di Carolina tornò a lampeggiare per un secondo sullo schermo che mi ritrovavo davanti agli occhi.
 -Yuppi- ghignai prima di continuare il gioco. Ero deciso a essere l'ultimo a farle lo squillo, ma lei non demordeva. A distanza di alcuni minuti, man mano che il tempo passava, il cellulare continuava a trillare per un po' e poi tornava a tacere.

Quando in casa tutti andarono a dormire, io ero ancora sveglio, con il cellulare davanti agli occhi.  
 -Corrado bastaaa!- Mugolò dopo due ore Raffaele da sotto le coperte, quando l'unica luce accesa era la lampada sulla scrivania.
 -Devo vincere!- Risposi determinato.
 -See...almeno metti il cellulare silenzioso. Non voglio sembrare un vampiro domani mattina- Si rigirò dandomi la schiena.
 -Davvero?- Chiesi scettico. I vampiri avevano avuto un discreto successo nella nostra scuola dopo il film di Twilight.
 -Nooo...- rispose -mi fa schifo quella storia. E comunque stiano le cose, ho sonno. Piantala...- cambiò ancora posizione sotto le coperte, poi tacque.


 Aspettai ancora una mezz'ora buona, ma Carolina non si fece più sentire. Soddisfatto, mi spogliai e mi arrampicai su per il letto a castello.
 -Ho vinto io!- Dissi a Raffaele. Ma probabilmente lui era già nella fase rem del suo sonno.


 Il giorno dopo a ricreazione Carolina scese al nostro piano, ma non aveva l'aria di volersi staccare dalle amiche.

Non appena le passai di fianco mi sorrise, stringendo gli occhi. Quel giorno sembravano addirittura più chiari.
 -Ho vinto io- ghignai a mo' di saluto.
 -Solo perché mi si è scaricato il cellulare. Altrimenti non avrei mai smesso, puoi scommetterci-.
 -Tu hai la fissa delle scommesse- ricordai la sfida che mi aveva lanciato sui pattini. Lei alzò le spalle.
 -Quando avremo diciotto anni io e una mia amica vogliamo andare negli Stati Uniti: lei vuole andare in California a tutti i costi, io le ho detto che mi fermerò in Nevada-.
 -In Nevada?-.
 -Esatto. A Las Vegas! Patria dei casinò e delle scommesse, ah ah!-. Rise di gusto.
 -Ti piace giocare d'azzardo?- Chiesi.
 -No, ma quest'estate mi hanno insegnato a giocare a poker, e...  ti lascio immaginare- sorrise maliziosa.

Vidi Raffaele e Angela scendere insieme le scale a avvicinarsi a noi.
 -Ciao. Alla fine chi ha vinto alla gara di squilli?- Chiese Raffaele.
 -Io!- Rispose Carolina alzando il dito come una scolara diligente.
 -Davvero?- Chiese costernato mio fratello.
 -No- disse lei sorridendo.
 -E allora che parli a fare?- La rimbeccai. Lei ricacciò il suo ghigno caratteristico:
 -Quante cose che vuoi sapere...-

Suonò la campanella, ma io rimasi ancora un po' con lei.
 -Che materia hai alla prossima ora?- Mi chiese. Io ci pensai su:
 -Probabilmente inglese. Una noia pazzesca...- lei alzò le spalle:
 -Io invece ho il compito di latino. Quindi credo sia meglio che vada. Ci vediamo in giro allora!- Frullò le dita e si avviò verso le scale.

Quando mi passò davanti, le mie mani si mossero da sole: alzai il braccio, serrai le dita alla base della sua coda e lasciai che l'elastico le sciogliesse i capelli, liberandoli da quella prigionia. Lei si girò, mentre i capelli cadevano a circondarle il visino tondo.
 -NO! Ridammelo ti prego!- esclamò cercando di tirarsi i capelli di nuovo in su con il solo aiuto delle mani. Pessimo risultato.
 -Sbrigati, farai tardi per il compito- le dissi sorridendo.

Lei mi guardò furiosa: -tornerò a prenderlo!- Gridò prima di dirigersi verso le scale.

Proprio quello in cui speravo.

Carolina cercò di sistemarsi i capelli alla meglio, poi salì i primi gradini insieme all'amica che stava a pattinaggio.
 Mi intrecciai l'elastico tra le dita e con Angela entrai in classe.
 -E quello cos'è?- mi chiese lei mentre prendevamo posto. Io lo passai sull'altra mano:
 -E' di Carolina- risposi senza aggiungere altro. Lei mi fissò poggiando la testa sul palmo della mano:
 -Ti piace vero?-.

Non risposi. Mi limitai a giocherellare con l'elastico. Angela sorrise teneramente:
 -Allora te lo dico io. Ti piace. E anche tanto se vuoi saperlo. Posso farti da traduttrice?-.
 -Traduttrice?-.
 -Esattamente. Secondo me hai tanto di quel casino dentro, è proprio quello che ti ci vuole-.

Io continuai a tacere, mentre la professoressa ancora non entrava. Magari era uscita per farsi una sigaretta.
 -Ok. Hai intenzione di entrare in azione? Non so, quanto ti ci vuole?-.
 Sospirai e mi avvolsi l'elastico al polso. -Non so- risposi.

Angela sbuffò, poi tornò seria.
 -Sei preoccupato?- Chiese. Alzai di scatto lo sguardo:
 -Preoccupato? E di cosa?-

Lei si strinse nelle spalle:
 -Penso che tu abbia paura che finisca come con Morena-.
 -Oh. Bé, non penso...- le mostrai l'elastico -Morena non mi avrebbe mai permesso di passarla liscia se le avessi fatto una cosa del genere- alludevo all'aver distrutto una pettinatura costruita con cura in ore e ore di duro lavoro. Angela sospirò:
 -Già, forse hai ragione. Sono contenta che Carolina sia diversa. Secondo me state bene assieme-.


 La professoressa entrò reggendo uno stereo e una tonnellata di libri. Scaraventò tutto sulla cattedra e, già esausta, ci ordinò di aprire il libro.
 -Comincia il divertimento- bisbigliò Angela.

La capivo: inglese era una delle poche materie che le piacessero. Conosceva abbastanza bene la lingua ed era in grado di parlarla, ma spesso discuteva con la prof, sempre legata alle regole grammaticali. Su ogni frase quest'ultima rifletteva minimo un paio d'ore prima di decidere se fosse meglio usare passato prossimo o remoto. In inglese, in cui i tempi sono praticamente tre.

Angela si faceva molti meno problemi: parlava, fregandosene delle sfumature. "Il concetto c'è", si giustificava "e, in ogni caso, la prima cosa che dirò se mi troverò tète-a-tète con un inglese sarà che sono italiana, quindi qualche errorino me lo concederà".
 Quel giorno tuttavia la prof non diede l'occasione di battagliare: inserì un cd nello stereo e occupò un'ora intera a farci ascoltare un brano del libro. Angela le mise il muso, mentre lei le lanciava occhiate come a dire: "per oggi stattene buona".


 Chissà che fine fece l'elastico di Carolina: tornando a casa lo gettai da qualche parte in camera, e quello si nascose talmente bene che non lo ritrovai per settimane intere. Ne fui felice: in questo modo Carolina mi si avvicinava ogni giorno,  salutandomi ormai con un "dov'è il mio elastico?" che si faceva via via sempre meno speranzoso e sempre più spiritoso. Cominciammo a diventare amici: spesso all'uscita della scuola si accodava a me, Raffaele e Angela, dandomi una scusa per lasciare che loro due si infrattassero come meglio credevano.

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Capitolo 19
*** 5) fluttuare ***


Il traguardo dei venti capitoli è stato raggiunto e la storia comincia a pesare. Se proprio volere saperlo, siamo più o meno a metà... non mi aspettavo fosse così lungà :s

In ogni caso, inizialmente avevo intenzione di postare in base alle recensioni ricevute; all'aumentare delle une diminuiva lo stacco tra un capitolo e l'altro. Ma, siccome mi sono accorta che se continuo così la mia storia potrebbe tranquillamente morire (eh eh eh!) ho deciso che 'sti cavoli: i capitoli sono già pronti (diamine, tutta la storia è già pronta!), per cui da oggi in poi credo di aggiungere capitoli su capitoli fino a quando non finirà.

Lo so che le storie lunghe suonano come pesanti, ma vabbò... intanto la metto qui, poi chi la vuol leggere la legge.

In realtà ho deciso di accelerare i lavori con questa perché ho un nuovo progetto, e non voglio cominciare con troppi lavori in sospeso... indi per cui, ringrazio le autrici delle recensioni che ho ricevuto (sono una più bella dell'altra ^_^), ringrazio chi ha messo la storia tra le seguite, ringrazio chi legge, ha letto e leggerà...

E ora via :)

 

 

 

Un giorno eravamo come al solito noi quattro, seguiti a breve distanza da Silvana, Maddalena e l'amica di Carolina, quando al mio fianco Carolina si fermò e avvicinò una ragazza più grande. Il sangue nelle vene mi si gelò.
 -Ciao Morena!- Salutò Carolina baciandola su entrambe le guance.

Morena sembrava davvero una modella, per me che non la vedevo da tempo.
 -Ciao! Da quanto tempo!- Rispose lei.

Con mio sommo orrore, si misero a chiacchierare amichevolmente. Lo svantaggio di abitare in una cittadina così piccola era il fatto che tutti conoscessero tutti, anche persone che non ti aspetteresti mai. Angela e Raffaele mi affiancarono, come due guardie del corpo, mentre Angela mi mollò un pizzicotto di nascosto. La fulminai con lo sguardo.
 Avevo bisogno di spostare la mia concentrazione da qualche altra parte: feci caso al gruppo di spazzini che stavano spargendo sale sulla strada, ma erano troppo lontani. Mi accorsi di sfuggita delle mie compagne di classe più l'amica di Carolina che ci sorpassarono, ma ci misero un lasso di tempo incredibilmente piccolo per sparire dal mio campo visivo. Volsi lo sguardo in tempo per vedere la prof di lettere entrare nella pasticceria, ma la porta si chiuse riflettendo la mia figura insieme ai miei amici.
 Poi mi sentii improvvisamente libero di tornare a spaziare con lo sguardo: Morena se ne era andata, e Carolina si stava di nuovo rivolgendo a me:
 -Perché hai la faccia nascosta dietro la sciarpa?- Mi chiese innocentemente.

Solo allora mi accorsi che aveva ragione: mi affettai a riemergere e mi guardai intorno.
 -Conosci Morena?- Chiesi simulando indifferenza.
 -Andammo in vacanza studio insieme l'anno scorso. Sai, quelle organizzate dalla scuola. Perché?-
 -Niente, l'ho chiesto solo per sapere...-

Tornai a puntare lo sguardo su un punto dritto davanti a me. Carolina ghignò:
 -Già, come no-.
 -Scusa?- Esclamai, mentre pregavo per non arrossire. Lei continuò a ghignare:
 -Le cose sono due: o ti interessa e speri che io te la presenti, oppure ti interessava ma lei ti ha pisciato senza troppi complimenti. é così vero?-

Troppo tardi: una vampata di fuoco si propagò per la mia faccia, facendo salire il numero di volte in cui avrei desiderato sprofondare a terra in tutta la mia vita, includendo anche quelle dell'infanzia. Non risposi.
 -Ok, sembra che io abbia azzeccato con la seconda ipotesi-.

Carolina si fissò le unghie simulando indifferenza. Restammo per un po' in silenzio.
 -E' stato tempo fa- dissi infine -ormai è acqua passata. Insomma, aveva ragione Angela: è solo decisamente carina, ma oltre a quello non c'è niente- mi accorsi che forse Carolina avrebbe potuto infastidirsi: dopo tutto, erano amiche no? Seconda ondata di imbarazzo.

-Oppure non è così?- Cercai di recuperare terreno. Accidenti a Morena.
 -Se ti ha bidonato è ovvio che pensi così- rifletté lei, quasi come se non stesse parlando con me -il problema è che con le persone con cui vuole riesce ad essere simpatica. é un po'...selettiva-.

In altre parole, aveva la puzza sotto al naso. Ignorai il tentativo di giustificazione di Carolina:

-se lo dici tu...-

Lei continuò a camminare, per un po' in silenzio.
 -Ci sei rimasto tanto male per lei?- Chiese infine. Ah, bella domanda.
 -A sentire Raffaele e Angela si. Mi dicono che sembravo un serial killer in quel periodo. Che ero perennemente scontroso-.
 -Oh. Bé, se è sempre così allora in questo periodo non sembri innamorato. Ho ragione vero?-Ghignò come al solito.

Io alzai gli occhi al cielo:
 -Sei convinta di avere sempre ragione? Può anche darsi che ti sbagli-. Lei aggrottò le sopracciglia.
 -Oh. Già, può darsi-.

Restammo un po' senza parlare, mentre lei aspettava che il momento di alta tensione passasse. Ma io ero intenzionato a riprenderlo:
 -E tu? Dai, adesso parlami della tua ultima caduta di stile con un ragazzo-.
 -Vuoi sapere la mia ultima data da fidanzata o l'ultima volta che qualcuno mi ha bidonata?- Chiese lei.

Io mi strinsi nelle spalle:- fai tu-.

Lei ci pensò un po' su, poi disse:
 -L'ho mollato io. Le cose andavano male da tempo, non ce la faceva più nessuno dei due. Adesso credo che lui si sia messo con una tipa dello scientifico-.
 -Ah. Non ci ha messo molto per riprendersi quindi-.
 -Nah, non era niente di serio. Neanche io ci ho pianto poi così tanto- rispose con semplicità.

Me la immaginai in lacrime: che pazzo che doveva essere il ragazzo che osava farla piangere!
 -Quindi non ci sei rimasta tanto male- considerai.
 -Avrei preferito che fosse andata a finire meglio. Ma forse è stato giusto così. Anche se le mie amiche mi dicono che sono più terribile quando sono single- sorrise.
 -E perché?-.
 -Eh, quanto sei curioso...-
 -Dài dimmi!-

Lei cominciò a volteggiare per strada:
 -Tu devi ancora riportarmi un elastico vero?-
 -Non cambiare argomento-.
 -Guarda che lo rivoglio-.
 -Non cambiare argomento-.
 -Nah, sono cose che tu non potresti capire-.
 -Capisco molto più di quanto tu possa credere-.
 -Ok, te lo dico: quando sono single, è come se fossi a caccia. Intendi? Per questo mi dicono che sono pericolosa- ghignò.

Rimasi per un po' basito:
 -Sceglila preda che ti piace di più?-.
 -Proprio così-.
 -Non vedo cosa ci sia di terribile-.
 -Te l'ho detto che non avresti capito-.
 Io alzai le spalle: -d'accordo, d'accordo. E...credi di aver già trovato qualcuno da puntare?- Cercai di mascherare la mia esitazione.

Lei alzò gli occhi al cielo, poi tornò a volteggiare, quasi come se sperasse di distogliere l'attenzione dal punto in cui era arrivata. Quando fui certo che non avrebbe risposto, parlò:
 -Molto probabilmente si-.  
 

A quel punto mi dissi che era di fondamentale importanza trovare la cosa giusta da dire, ma non mi venne in mente nient'altro che un: -e chi è?-

Lei scosse la testa.
 -Non ci pensare proprio, non lo saprai fino a quando non sarà reso noto-.
 -E quanto dovrò aspettare?-

Lei ci pensò su:
 -Non so. Il tempo che ci vuole. Se si continua così, sarà sempre di meno-.
 -Ah-. Oddio. Aveva forse ragione Raffaele? -E se io fossi impaziente e volessi saperlo proprio ora?- Chiesi.
Lei alzò gli occhi al cielo, poi riprese a volteggiare per il marciapiede, allargando le braccia e facendo sollevare lo zaino irto di scritte sulle spalle.

Rimasi per un po' a contemplare quei movimenti sinuosi, come se volesse imitare le piroette possibili solo sul suo amato ghiaccio, poi sospirai:

-Ti prego...è inutile che cerchi di distrarmi...inutile che ci giri intorno- risi e lei mi imitò, senza smettere di volteggiare.

Mi chiesi se non le girasse la testa.
 Probabilmente sì perché, quando dopo un bel po' di tempo si fermò, barcollò sul marciapiede come se non sapesse più distinguere i quattro punti cardinali. Mi precipitai verso di lei e feci in tempo a recuperarla poco prima che cadesse in avanti, accogliendola tra le braccia.


 Quel giorno i suoi occhi erano azzurri come il cielo, chiari e puliti, senza neanche una pagliuzza. Sembrava che sarebbe stato possibile scoprire tutti i recessi del suo cuore solo guardando in quei brillanti, incorniciati da una linea precisa di matita, nera come le sue pupille piccole e scintillanti.

Non seppi quanto tempo rimasi a fissare quegli occhi, sicuramente molto. Ma lei era così vicina, i nostri nasi quasi di sfioravano...
Le sue labbra trovarono le mie e mi baciò, tenera e decisa allo stesso tempo. Restituii il bacio mentre sentivo il cuore che prendeva il volo, e capii perché cupido aveva sempre avuto le ali.
 Infine tornò a guardarmi, sempre più vicini di quanto fossimo mai stati, ma la sua espressione non tradiva alcuna emozione: non sorrideva, non aveva la sua smorfia o il suo ghigno caratteristico, semplicemente mi guardava; il suo viso mi appariva come se fosse stato quello di una statua o di un ritratto. Sospirò.
 -Credo che adesso ti possa ritenere soddisfatto- sussurrò. Poi finalmente arricciò l'angolo della bocca verso l'alto.
 -Già. Sai...ne sono felice- sorrisi alla sua smorfia. Lei mi passò le dita fra i capelli, poi si liberò dal mio abbraccio.
 -Io giro qui- ammiccò a un vicolo poco distante.
 Non volevo che se ne andasse così presto: avrei voluto passare tutto il tempo con lei, senza separarci mai, sempre insieme. Tuttavia fui costretto a lasciarla andare, mentre le sfioravo un'ultima volta la mano.
 -Ok. Ci...ci vediamo domani allora-. Carolina sorrise, poi fluttuò su per il vicolo.


 Pensai che quella fosse una delle ragazze più enigmatiche che avessi mai conosciuto: era come se dietro ogni parola che provenisse dalla sua bocca ce ne fossero dieci nascoste dietro, tutte con un'accezione diversa.

Rimasi a guardarla per un po' mentre mi dava le spalle e lo sguardo mi cadde sui suoi jeans...Lei si girò improvvisamente, mi trovò imbambolato e sorrise come se si aspettasse la mia espressione.

Arrossii violentemente, poi lei mi salutò con la mano e io mi affrettai a sparire, cercando di raggiungere Raffaele e Angela.

Ma scoprii di non avere nessuna fretta: forse stavo fluttuando anche io.

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Capitolo 20
*** 6) le perplessità ***


La prima delusione della giornata fu che Carolina non si fece sentire, neanche con uno squillo. Ero indeciso se farmi vivo io, ma pensai che fosse meglio aspettare.

La seconda riguardò quello che mi disse Raffaele quella sera, mentre finivamo di studiare.

Dopo che io e Carolina ci eravamo allontanati, lui e Angela avevano incontrato Maddalena e Silvana e si erano fermati un po' a chiacchierare. Quando le due avevano chiesto dove fossimo noi, Angela aveva risposto che eravamo rimasti un po' indietro e che ci avevano perso di vista. A quel punto Maddalena e Silvana si erano scambiate uno sguardo grave, salvo poi aver cercato di eludere le curiosità che erano balzate in mente ai miei amici.

Tuttavia poi Silvana aveva ceduto: "Non c'è niente che non va, ma ultimamente Carolina sembra cambiata...e non è mai stata uno stinco di santo".

A quel punto interruppi Raffaele:
 -Cosa intendeva dire?- Chiesi. Lui si strinse nelle spalle:
 -Non ne ho la più pallida idea. Poi Maddalena ha detto qualcosa riguardo Gemma, ma non ho capito cosa c'entrasse-
 -Gemma?-
 -Sì, l'amica di Carolina. Hai presente, quella che sta sempre con lei?-

Collegai la persona di cui mi stava parlando Raffaele alla ragazza schiva che avevo visto alla pista di pattinaggio.
 -Ah, ho capito-.         
 -Bè, credo che lei e Carolina abbiano litigato di brutto. A sentire Maddalena e Silvana, era incavolata nera-.
 -Perché, quella riesce anche ad arrabbiarsi? Pensavo che non sapesse manco parlare!- Ghignai.

Raffaele non sorrise alla battuta.
 -Se ne è andata poco dopo che io e Angela eravamo arrivati. Ma quando ha saputo che Carolina era rimasta con te, ha sibilato qualcosa e se ne è andata verso la fermata del suo autobus. Maddalena e Silvana sono rimaste scioccate, a quanto pare non l'avevano mai vista così nera-.

Rimasi un po' a riflettere:
 -E allora? Cosa le importa che ci siamo un po' allontanati? E comunque Carolina mi sembra a posto come ragazza, checché ne dicono quelle tre-. Incrociai le braccia.
 -Se lo dici tu...anche a me sembra ok- Raffaele mise da parte i libri mentre una ruga gli si formava tra le sopracciglia.

Poi però si soffermò sulla mia espressione e la perplessità divenne palese:
 -Ehi, parliamoci chiaro...cosa è successo con Carolina oggi?-
 Sorrisi. Non gli avevo ancora raccontato niente, avevo voluto tenere la cosa per un po' dentro di me, come se aspettassi di risvegliarmi da un sogno.

Ma, quando lo chiese, decisi di ufficializzare gli eventi della mattina.
 -Bè...è successo quello che volevo succedesse-.
 Mio fratello mi fissò per un istante, poi si aprì in un sorriso e balzò in piedi:
 -Yuppi! Bella Corra'!Ce l'hai fatta!- si avventò verso di me e prese a frizionarmi i capelli. Cercai di scrollarmelo di dosso, ma sorridevo anche io:
 -Già...ce l'ho fatta-.


 
 Aspettare il domani non era mai stato più faticoso, ma alla fine arrivò.

Prima di entrare in classe, salii rapidamente al secondo piano, lasciando Angela rassegnata e sorridente. Cercai la classe di Carolina, ma una volta trovata scoprii che lei non c'era. Mi dissi che non era ancora arrivata, ripromettendomi di cercarla a ricreazione.

Tornai in classe a macerarmi per tre ore, poi appena suonò la terza campanella mi fiondai di nuovo su per le scale.

Sentivo un bisogno di vederla troppo forte perché potesse essere ignorato. Arrivai davanti alla sua classe e la cercai con lo sguardo, ma non c'era. Tuttavia vidi Gemma: cercava di filare dalla direzione da cui ero venuto, probabilmente per cercare Maddalena o Silvana. Le andai dietro e la fermai.
 -Scusa...ehi, scusa un attimo-. Lei si girò, con un piede già posato sul primo gradino delle scale.
 -Sai per caso dov'è Carolina?- Le chiesi.

Lei rimase a testa bassa, ma alzò lo sguardo verso di me. Forse fu un caso, ma il ciuffo di capelli castani che le copriva la fronte cadde ad impedirmi di guardarla negli occhi.
 -No- rispose con un filo di voce -non è venuta-.

Rimasi impalato sul mio posto, come se qualcuno avesse riempito le mie scarpe di cemento a presa rapida e, mentre la delusione crollava su di me, ebbi l'impressione di sgonfiarmi, come se l'aria fuoriuscisse dai miei polmoni. Ebbi un'improvvisa necessità di respirare.
 -Come non...non è venuta? E perché?- chiesi. Gemma mise una mano nella tasca dei jeans.
 -Oh, probabilmente perché oggi la prof interroga a greco e lei ha già finito le giustificazioni- sibilò, poi mi voltò le spalle e quasi corse giù per le scale.

Che simpatia. Mi riuscì difficile biasimare Carolina per aver litigato con una tipa del genere.
 Scesi le scale mogio, tenendomi a debita distanza da Gemma.

Raggiunsi Angela, ma vidi che era avvinghiata a Raffaele e non mi sembrò il caso di avvicinarmi per reggere le candele.

Tornai dai miei compagni di classe, cercando di simulare indifferenza, ma Carolina era sempre al centro dei miei pensieri. Era come se avessi la mente divisa a metà: da una parte c'era la vita quotidiana, quella che stavo odiando sempre di più ogni giorno che passava; l'altra parte invece era interamente occupata da Carolina. C'erano i suoi occhioni, a volte azzurri, a volte tra il grigio e il celeste; c'era il suo ghigno; c'era il suono della sua voce; c'erano le sue mani affusolate; c'era quel suo naso che tanto odiava; c'era il suo fisichetto non trascurabile (sopratutto quando si metteva quei pantaloni lucidi...); c'era il bacio del giorno prima... c'era lei.

Non mi sarei mai aspettato che non vederla mi sarebbe sembrato così asfissiante. Tuttavia, mentre con i miei amici stavo chiacchierando del più e del meno, mi trovai davanti agli occhi una scena che non avrei voluto vedere.
 Sebbene fossi occupato dalla conversazione, notai Silvana e Maddalena riunite vicino a un termosifone all'angolo del corridoio insieme a quella Gemma.

Non riuscivo a sentire di cosa stessero parlando, ma dalle espressioni capii che doveva essere qualcosa di dannatamente serio. Da come ero messo io riuscivo a vedere il profilo di Silvana e la schiena di Maddalena, invece Gemma era nascosta dietro quest'ultima, invisibile ai miei occhi sebbene fosse l'unica voltata nella mia direzione. Disse qualcosa e si passò il dorso della mano sullo zigomo, mentre Maddalena le carezzava amichevolmente il braccio, forse consolandola. Mormorò qualcosa e poi l'abbracciò stretta. Riuscii a vedere il volto di Gemma sbucare da sopra la spalla dell'amica. Credevo fosse rigato dalle lacrime, invece era asciutto. Asciutto, sì, ma sofferente. Silvana le sistemò una ciocca di capelli.
 Mentre osservavo la scena, non mi resi conto che si erano aggiunti anche altri due spettatori. Mi accorsi di Sergio e Adriano solo quando parlarono:
 -Che sta succedendo all'amica di Maddalena e Silvana?- Chiese Sergio.
 -Non so...andiamo a vedere?- Propose Adriano. Mi guardarono interrogativi.
 -Oh, ehm, io...- non avrei voluto che parlassero con loro.

Credevo di aver capito perché Gemma fosse così triste, probabilmente aveva a che fare con Carolina, e in quel caso io non volevo prendere parte... perché sentivo che sarei stato dalla parte della ragazza che mi aveva preso il cuore, qualunque cosa questa avesse fatto. Anche se fosse stata dalla parte del torto.

I miei amici però non poterono intuirlo e si avvicinarono alle tre amiche, trascinandomi con loro.
 -Ehi, tutto bene?- Chiese Adriano.

Loro alzarono lo sguardo. Gemma vide prima lui, poi Sergio, infine me. Lanciò uno sguardo disperato alle amiche, poi scostò bruscamente Sergio che le si era messo davanti e, con uno "scusa" appena accennato, sparì nella direzione dei bagni.
 -Oddio- biascicò Maddalena mortificata, seguendola con lo sguardo.
 -Che è successo?- Chiese Sergio. Silvana alzò le spalle:
 -Un po' di casini...- rispose. Mi avvicinai anche io, sentendomi al sicuro ora che Gemma se ne era andata.
 -Che genere di casini?- Domandai. Silvana e Maddalena si lanciarono un'occhiata preoccupata, ma non risposero.
 -Allora?-.
 -No...niente di importante...- mormorò Silvana.
 -Chi riguarda? Qualcuno che conosciamo?- Chiese Adriano.
 -Oddio ragà, ma che è tutto questo interesse?- Esclamò Maddalena esasperata.
 -Dicci chi riguarda, se non è nessuno che conosciamo vi lasciamo in pace, ok?-

Le due si lanciarono un altro sguardo, ma non risposero. Poi arrivò il suono della campanella, con un tempismo quasi da ridere. Silvana e Maddalena ne approfittarono per dileguarsi, lasciandoci soli.
 -Bah, secondo me non ne caveremo un ragno dal buco- sentenziò Sergio.
 -Probabile. Peccato...avrei voluto qualche pettegolezzo fresco fresco- fece eco Adriano.

Mentre loro decidevano di lasciar perdere l'estorsione dell'accaduto, io rimasi pensieroso: non era per i pettegolezzi che mi interessava, bensì ero curioso di sapere se Carolina avesse avuto davvero un ruolo nella storia. Dopo quello che mi aveva detto Raffaele il giorno prima, non riuscivo ad escluderlo.

Alla porta della classe mi si avvicinò Angela, ignara dei pensieri che mi giravano per la mente, comprendendo entrambi gli emisferi che si erano formati dopo aver conosciuto Carolina. Sbirciai nell'aula e vidi che la prof non era ancora arrivata.
 -Angela, ti dispiace se per la prossima ora mi metto vicino a Maddalena?- Chiesi. Lei mi guardò curiosa:
 -No figurati...ma perché?-

Perché, perché? Sempre la stessa domanda inutile.
 -Non lo so, proprio per scoprirlo devo parlare un po'-.
 -Ah ok- fortunatamente Angela era famosa per la sua riservatezza.

Entrammo in classe e chiesi a Silvana di fare cambio di posto con me. Lei si morse il labbro e tentennò un po', però Maddalena sembrò prendere una decisione e la convinse a spostare la sua roba al banco vicino ad Angela.

 

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Capitolo 21
*** 7) la scoperta ***


Mi sistemai proprio nel momento in cui la prof di matematica entrava in classe.


 Quella donna mi aveva sempre fatto pena: pensavo che non ci dovesse essere niente di più triste che insegnare matematica al liceo classico, soprattutto al ginnasio; a noi non importava un accidente di quella materia, ma tutto sommato per le due ore scarse che facevamo alla settimana avevamo una media apprezzabile. Salvo casi particolari... vidi Angela farsi il segno della croce.


 Lasciai che i primi minuti della lezione scorressero un po', concentrandomi sulle scritte vergate con cura e precisione sul banco da Silvana. Quella ragazza aveva talento.

Poi Maddalena mi porse un foglio strappato dal suo quaderno: lo presi e vidi in cima una parola vergata nella sua scrittura minuta: "allora?".

Cercai una penna che funzionasse e cominciai a scrivere:

"cosa è successo con quella tipa, Gemma? Ieri Raffaele mi ha detto che lei e Carolina hanno litigato".

Maddalena lesse e rispose: "perché ti importa? Se ti dicessi che sono solo fatti loro?"


 "Mi importa perché riguarda anche Carolina, ok?"

Quando lo lesse Maddalena sbuffò: "vuoi provarci con Carolina?"

Prima di rispondere la penna indugiò a lungo sul foglio bianco. Poi pensai che sarebbe stato utile mettere le cose in chiaro:

"è un qualcosa che mi piacerebbe. Ma non sviare il discorso...puoi spiegarmi cosa è successo?"

Prima di rispondere Maddalena strappò una striscia dal foglio che stava ospitando la nostra muta conversazione e ci scrisse frettolosamente qualcosa sopra. Poi lo appallottolò e lo lanciò a Silvana. Lei lo afferrò, dopo averlo ripescato tra le pieghe del cappotto dove era finito, e lo lesse. Si morse il labbro, poi lanciò uno sguardo preoccupato e insieme rassegnato all'amica, come a dire "se credi che sia giusto...".

Intanto però Maddalena aveva scritto sul nostro foglio.
 "Non è affatto una bella cosa. Ti posso dire solo che Carolina ha avuto una gran brutta caduta di stile...e per quello che sta succedendo Gemma non sarà l'unica a starci male. Noi la stiamo stimando sempre di meno...".
 "Taglia corto" scrissi senza neanche darle il tempo di passarmi il foglio. Lei sospirò.  
 "Non sono mai stata troppo diplomatica, non so come esporre le cose nel modo migliore".
 "Non mi importa! Insomma, per cominciare, chi riguarda?".
 "Mmm...Ovviamente riguarda lei e il ragazzo con cui si è messa in testa di provarci ad ogni costo".
 "E questo sarebbe chi?" scrissi, un po' emozionato:
mio malgrado, il cuore cominciò a battermi più forte di come avrei desiderato... Maddalena non sapeva che il giorno prima Carolina mi aveva fatto capire palesemente chi fosse... sorrisi.

Lei scrisse un nome, poi sembrò ripensarci e fece per mettere via il foglio, ma io fui più veloce: le infilai due dita nel fianco, sapendo che soffriva il solletico, e riuscii a sfilarle la pagina di quaderno da sotto il gomito.

Lessi il nome che aveva scritto e il sangue mi si fermò nelle vene. Poi si coagulò diventando di pietra. Il cuore sembrò pompare solo aria, quella che mi mancò ai polmoni.
 "Raffaele".
 Rimasi a fissare quel nome intontito, mentre il concetto faticava a formarsi nella mia mente. Non capivo neanche in quale emisfero sarebbe potuto rientrare. Cosa c'entrava ora Raffaele?
 "Quello...quello del II C? Quello che gioca a rugby?"

Notai che la penna mi tremava nella mano. Maddalena abbassò lo sguardo con aria rassegnata.
 "Mi dispiace, ma no. Carolina ci sta provando con tuo fratello".

Non mi accorsi nemmeno che avevo le labbra talmente tirate da essere rimasto a bocca aperta. Fissai le parole, poi qualcosa mi suonò storto.
 "Come sarebbe, 'ci sta provando'?"

Maddalena si mangiò un'unghia.
 "E qui passiamo al secondo problema, che sarà spiacevole per te e credo soprattutto per Angela... si stanno sentendo. Carolina ci parlava di squilli notturni e messaggi al cellulare. Lui...Carolina è convinta che lui sarebbe d'accordo a una tresca".


 Il sangue che si era impietrito nelle vene si trasformò in acqua salata, l'acqua in sale, il sale in un bruciore che veniva trasportato per tutto il corpo.

Non volevo sentire una parola di più. Volevo sparire dal mondo e rifugiarmi sotto il mio piumone per tutta la mia vita, fino a quando non fossi morto soffocato. Mi alzai facendo strusciare la sedia al pavimento di mattonelle.
 -Scusi professoressa, posso andare in bagno?- Chiesi.

La mia voce suonò spaventosamente roca, come se stessi trattenendo le lacrime. Sciocchezze: tutto quello che provavo era un dolore nei pressi della mascella, come se qualcuno me la stesse tirando troppo in avanti e troppo indietro contemporaneamente.

La professoressa alzò il suo musetto da sorcio e mi squadrò per un bel po'. Quando si convinse che non volevo andare né a fumare né a distruggere qualche distributore di merende, si convinse a lasciarmi andare.


 Uscire dalla classe fu un sollievo: nei corridoi faceva più fresco, e solo allora mi accorsi di essere sudato. Andai in bagno e mi rifugiai in un gabinetto.

Mi abbandonai contro la porta, passandomi una mano sulla faccia.

Provai a deglutire tutta l'amarezza che avevo in gola, ma non fu di nessun aiuto. Mi accorsi che qualcosa non andava: rimasi con una mano sulla fronte, certo che non sarei stato capace di levarla. Poi improvvisamente ebbi un conato di vomito. Mi gettai sul water e rovesciai l'anima.

Quando fui certo di aver finito, mi accasciai contro la porta, a terra. Cosa era successo? Da dove usciva tutta quella debolezza? Pensai a Carolina, a Raffaele, ad Angela, e capii di essere perso.


 Ero riuscito a superare la cotta per Morena perché ero consapevole che con me c'erano i miei amici, e ci sarebbero stati per sempre. Adesso era diverso; mi sentivo male all'idea di essere stato preso in giro dalla ragazza che... amavo.

Male all'idea che mio fratello, il mio migliore amico, non si facesse scrupoli a distruggere tutto quello a cui mi ero aggrappato.

Male all'idea che trattasse la mia migliore amica come una vecchia pantofola spaiata.
 Ero solo. Forse rimaneva Angela...avrei dovuto avvertirla. Ma dove l'avrei trovata la faccia per dirle tutto?


 Mi accorsi che i minuti erano passati. Uscii dal bagno e guardai il mio riflesso nello specchio: sembravo un cadavere. Si sarebbero accorti tutti che qualcosa mi era successo. Accidenti.

Tornai in classe facendo finta di stare alla grande.

Mi resi conto che anche Angela doveva essersi sentita così mentre cercava di nasconderci il segreto che la faceva soffrire. Al solo pensiero stetti ancora più male: come poteva Raffaele abbandonarla così?
 Aprii la porta della classe e tutti si voltarono come se fossero sulle spine, in attesa dell'esplosione. Che infatti venne poco dopo:
 -Corrado!- Tuonò la prof -sei stato un quarto d'ora in bagno! Un quarto d'ora!! Cosa sei andato a fare? Hai per caso fumato?-

La prof era fissata con i fumatori. Non poteva accettare che un sedicenne si rovinasse i polmoni così presto. Caso voleva che se la prendesse con me, che avevo un ribrezzo naturale per le sigarette.
 -Mi scusi professoressa...mi sono sentito poco bene- mormorai.

Lei mi guardò inquisitoria, poi però si convinse che stavo dicendo la verità. Sarebbe stato difficile guardarmi in faccia e credere il contrario.

Mentre tornavo al mio posto (cioè, quello di Silvana) scorsi con la coda nell'occhio Angela che mi guardava preoccupata.
 Maddalena mi rivolse uno sguardo dispiaciuto: -mi dispiace tantissimo, davvero!- sussurrò quando mi sedetti.

Strinsi le labbra, senza avere la forza di parlare. Maddalena riprese il foglio di quaderno, poi con una buona dose di tatto strappò la parte che avevamo scritto prima che scappassi.
 " Comunque è per questo che...quella...e Gemma hanno litigato. Gemma è tristissima per questa cosa, ma non ha potuto tollerare il comportamento di C. In realtà non voleva neanche dirlo a noi, ma oggi come avete visto a ricreazione è crollata".

Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, poi però ci ripensò e mi porse il foglio. Io lo lessi e annuii, senza riuscire neanche a prendere la penna per scrivere un'inutile risposta.

Maddalena appallottolò il foglio e lo spinse in fondo allo zaino, poi mi diede un pugno amichevole sul braccio: -Forza e coraggio. E' lei che dovrebbe vergognarsi- sussurrò.


 No, non solo lei. C'era anche un lui che doveva vergognarsi, un lui con i connotati schifosamente simili ai miei.

La campanella suonò dandoci il via libera per uscire. Scaraventai i miei libri nello zaino e, senza una parola, mi diressi verso l'uscita senza neanche aspettare Angela. Non avrei potuto permettere che venisse con me.


 Fuori dal portone della scuola c'era Raffaele ad aspettare che uscissimo io e Angela, come al solito. Mi vide andargli incontro da solo, prima di tutti, e si aprì in un sorriso ironico: -uao, non sei mai stato così velo...-

Gli portai via il sorriso con un pugno, sorprendendo perfino me stesso. Forse gli avevo fatto più male di quello che mi ero aspettato.

Non mi importava. Lui si portò la mano al viso, sconcertato.
 -Che cazzo fai?- Esclamò.

Scaraventai lo zaino a terra e gli diedi una ginocchiata sullo stomaco. Lui si piegò in due, tenendosi le braccia strette sulla pancia. Cominciai a riempirlo di calci, incurante delle esclamazioni che cominciarono a fiorire tutt'intorno.
 -Che cosa state facendo?- Angela piombò sulla scena, con il fiatone. Subito dopo sentii Sergio e Adriano che mi fermavano da dietro.

Raffaele si alzò agonizzante.
 -Ma sei completamente pazzo?- Gridò guardandomi con odio. Angela gli si accucciò vicina, cingendogli la vita. Lui le si aggrappò, tenendosi con una mano il naso che aveva cominciato a sanguinare.
 -Mi fai schifo- sibilai.

Angela e gli altri mi guardarono basiti.

Raffaele mi fissò dritto negli occhi, si rese conto che dovevo aver saputo e contrasse le labbra. Gli voltai le spalle e corsi via.

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Capitolo 22
*** 8) la perdita ***


Quando arrivai a casa, Selina fu la prima ad accorgersi del mio umore.

Sarebbe stato difficile non notarlo: apparire tranquillo come se non fosse successo niente era fuori discussione.

Non le diedi neanche il tempo di finire di domandare: -Ehi cos'è questa faccia?- Che già mi ero chiuso in camera.

Oddio, la camera che condividevo con quello. Non lo sopportavo. Mi sarebbe piaciuto avere una chiave per bloccare la serratura, ma in casa non c'era mai stato bisogno di chiudere niente.

Selina ne approfittò per piombare in camera.
 -Vuoi spiegarmi tu che è successo oppure devo aspettare che rientri tuo fratello?-
 -Sono solo fatti miei!-

Selina incrociò le braccia e cominciò a battere il piede ritmicamente sul pavimento:
 -Perché Raffaele non è rientrato con te?-
 -Aveva un compito in classe all’ultima ora e ha perso l'autobus- inventai.
 -Non dire sciocchezze. Sei tu che sei in anticipo, non lui che è in ritardo-.
 -La smetti di rompere?- esclamai.

Lei gonfiò il petto, alzandosi di alcuni centimetri:
 -Abbassa i fari giovanotto, non ti permetto di parlarmi così. E sarà meglio se quando ti verrò a chiamare per il pranzo ti sarà passato il nervosismo, chiaro?- Uscì sbattendosi la porta alle spalle.
 Rimasi impalato al centro della stanza, senza sapere cosa fare. Una parte di me avrebbe voluto fare qualcosa di speciale, come scappare di casa ed arrivare fino a Salisburgo tutto di corsa, un'altra avrebbe voluto avere Raffaele ancora a portata di ginocchiata.

Siccome non potevo fare niente, mi ritrovai a guardarmi intorno nel caos della stanza: calzini spaiati, libri per terra, i letti sfatti, la scrivania ingombra di altri libri e fumetti e... e un cellulare, un piccolo telefonino grigio sepolto nel caos. Il cellulare di Raffaele. Se l'era per caso dimenticato? Lo presi e mi accorsi che era spento. No, Raffaele non dimenticava mai il cellulare, ma quel giorno l'aveva lasciato a casa perché era scarico.

Districai il filo del caricatore attaccato a una presa e lo collegai al cellulare. Aspettai che fosse abbastanza vivo da accendersi e poi andai dritto ai messaggi ricevuti.

Mi si gelò il sangue: erano decine e decine, tutti con lo stesso nome in cima: Carolina. Provai a leggerne qualcuno: erano chiacchierate, interminabili chiacchierate che non si preoccupavano di nascondere altrettanti flirt. Rilessi le stesse battute che Carolina aveva fatto parlando con me, questa volta rivolte a mio fratello. Non riuscii ad andare avanti.
 In quel momento entrò Raffaele nella stanza. Non mi ero accordo che fosse arrivato, tantomeno che avesse parlato con Selina. Scoprii che non mi importava cosa le avesse raccontato riguardo a quel labbro gonfio.
 -Posa il mio cellulare- Disse.

Io non mi fermai: andai alle chiamate senza risposta e vidi che l'ultima chiamata persa di Carolina risaliva alla mezzanotte del giorno prima.
 -Ho detto posalo!- eesclamò il proprietario del telefonino.

Siccome io non diedi segno di averlo sentito, lui mi si avventò contro strappandomelo dalle dita.

Lo guardai con odio, un odio mai provato e che non avrei mai voluto provare nei confronti di mio fratello.
 -Almeno abbi la decenza di sparire- sibilai.

Lui strinse le labbra:
 -Non sai come è andata. Io non c'entro...-.
 -Ah no? E allora Carolina parlava da sola al cellulare?-
 -No, ma...-
 -Fai schifo capisci? Mi fai schifo-.
 -Non mi hai neanche lasciato spiegare-.
 -Cosa vuoi che me ne freghi? Non cambia niente-.  
 -Non ti facevo così cretino-.
 -E io non ti facevo così stronzo! Come hai potuto? Non voglio sentire una sola parola di quello che mi vuoi spiegare, non mi importa! La verità è che sei uno sfigato, un poveraccio, e lo resterai per sempre!-


 Silenzio. Vedevo Raffaele pietrificato davanti a me, immobile, mentre tutto quello che avrei voluto fare era riprendere a picchiarlo selvaggiamente.
 -è questa la tua ultima parola?- ansimò a bassa voce.
 -Esatto. Io e te non abbiamo più niente da dirci-.
 -Perfetto- disse Raffaele sedendosi sulla sedia dietro la scrivania -solo una cosa...non dire niente ad Angela. Almeno fallo per lei, visto che non vorrai farlo per me-.

Lo guardai con rabbia crescente, poi uscii dalla stanza sbattendomi con violenza la porta alle spalle. Non solo era una carogna, ma mi chiedeva anche di coprirlo? Non trovavo epiteti abbastanza cattivi per descriverlo.
 Ovviamente quel pomeriggio Angela chiamò. Parlò un po' con Raffaele, poi lui mi raggiunse in camera lanciandomi il cordless senza dire una parola.

Afferrai il telefono e lo portai all'orecchio.
 -Spiegami come ti è saltato in mente di aggredire Raffaele senza motivo- disse Angela con voce autoritaria.
 -Senza motivo? Così ti ha detto?- risposi pacatamente.
 -Esatto. Se permetti però voglio ascoltare entrambe le versioni dei fatti-. Era una mia impressione o sembrava ostile?
 -Le ho date di santa ragione a Raffaele- spiegai -perché è uno schifoso puttaniere-.

Sentii Angela trasalire:
 -Adesso sì che mi hai convinto. Guarda che lui dice esattamente lo stesso. Ma io voglio sapere il perché! Capisci?-
 Sì, capivo. Esitai: adesso capivo come si era dovuta sentire a disagio Maddalena nel raccontarti i fatti. Ma almeno lei aveva avuto coraggio.
 -Quello schifoso di Raffaele si è preoccupato solo che io non ti dicessi niente appena ha scoperto che ero venuto a sapere la storia...-

Angela non parlò. Lo presi come un invito ad andare avanti.
 -Preferisci la versione diplomatica o non?- chiesi.
 -Taglia corto-.

Inspirai, poi buttai fuori l'aria dai polmoni insieme alle parole:
 -Raffaele se la fa con Carolina-. A quel punto la voce mi si spezzò.
 -No. E' ridicolo-.
 -Stamattina ho parlato con Maddalena, e lei mi ha detto che Carolina ci sta provando con Raffaele, e ho letto i suoi messaggi e sembra quasi come se lui sia d'accordo... Fa schifo-.
 Angela rimase talmente in silenzio che pensai fosse caduta la linea.
 -Angela, Angela?- Chiamai. Oh no.
 -Angela...mi dispiace...-

Capii troppo tardi di aver perso anche la mia migliore amica. Lei riappese la cornetta senza dire una parola.

 

 


 

Tranquilli, non sono matta... c'è una spiegazione al comportamento di ognuno dei personaggi. Però, mentre continuo a pubblicare, ringrazio Miharu Ozukawa per le sue bellissime recensioni, e chiunque abbia letto questa storia... siete sempre i migliori ;)

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Capitolo 23
*** Angela 1) coma profondo ***


Angela

 

Sembrava non ci fossero forme di vita nella casa: mamma non si vedeva ancora, bloccata al lavoro, sarebbe tornata solo verso sera.

Tuttavia qualcosa che respirava c'era, rannicchiata sul pavimento al centro della propria camera da letto... ma lo faceva solo perché il movimento non era dettato dal cervello. Per il resto dovevo sembrare davvero morta.
 I pensieri vorticavano nella testa senza un senso, come se fossero insieme ai panni sbatacchiati nella centrifuga. Ero consapevole della loro esistenza, ma non volevo sapere cosa riguardassero. Volevo tenerli chiusi nella mente e non leggerli mai.
 Il sole si fece sempre più spento, fino a sparire dietro i monti, ma io ancora non mi muovevo.

Poi pian piano cominciai a fare ordine nel casino che avevo dentro, ma non mi piacque: Raffaele? Raffaele? Lo stesso Raffaele dolce e tenero che aveva paura ad avvicinarsi a me, che mi aveva regalato il ciondolo che portavo al collo, che mi aveva salvata da mio padre, se la faceva con un'altra? Non era possibile.

Era successo sicuramente qualche altra cosa tra lui e Corrado e, per far del male a Raffaele, Corrado doveva essersi inventato una cosa del genere. Per forza. Se le cose stavano così, era Corrado a fare schifo. Ebbi bisogno di certezze.
 Con uno sforzo immane, riuscii ad alzarmi, guidata solo dalla sete di verità. In altre parole dalla paura.

Il cellulare, avevo bisogno del cellulare...lo trovai dopo aver girato per tutta la casa, sprofondai su una sedia in cucina e scrissi un messaggio a Raffaele.

"Dimmi che non è vero". Non me la sentivo di aggiungere altro.

L’avrei chiamato, se solo avessi avuto abbastanza soldi. Né potevo chiamarlo al telefono fisso, dato che mi avevano sempre insegnato che chiamare più volte non era proprio educato.

Ok che in quella casa uno era il mio ragazzo e uno il mio migliore amico, ma quando Selina mi guardava mi sentivo inquieta; già ero abbastanza ingombrante in quella casa, non ci tenevo a infilare il coltello nella piaga.

E poi non me la sentivo di sostenere una conversazione che richiedesse l’uso della voce.

Non so quanto tempo aspettai; sicuramente molti minuti, ma avevo perso la nozione del tempo.

Da fuori la casa doveva sembrare disabitata: non avevo la forza di accendere le luci o la televisione o il computer, e rimasi seduta fino a quando anche la luce bluastra che entrava dalla finestra cominciò ad essere insufficiente.

Poi il cellulare trillò; mentre allungavo la mano, scoprii di non voler affatto leggere la risposta. Ma non dovevo essere così vigliacca, non era giusto, non era... il pollice schiacciò il pulsante al centro, come se avesse preso da solo la decisione di aprire il messaggio.

All'inizio vidi solo lettere, senza capire le parole che erano scritte sul display, come se fossero scritte in svedese. Poi il cervello cominciò a funzionare.
 "Non so cosa ti abbia detto Corrado, però le cose non stanno come sembrano. Ti prego, parliamone domani".
 Non era quello che volevo sapere. Non mi importava come stavano le cose, volevo solo sapere se era la verità.
 "Corrado ha detto che Carolina ci sta provando con te e che tu la stai assecondando". Questa volta la risposta non si fece attendere:
 "Posso spiegarti domani, ora non avrei abbastanza messaggi gratis e non ho altri soldi!".

Il cuore cominciò a pompare più sangue e cominciai a respirare più velocemente.
 "Dimmi solo se è la verità".

Aspettai. Un quarto d'ora. Mezz'ora. Un'ora. Un'ora e mezza. Due ore. Dopo due ore e mezza fui certa che non avrebbe risposto. E ciò equivaleva a dire che era la verità.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime, ma prima che potessero cadere le strofinai violentemente via. No, non avrei pianto per un verme del genere.

Corsi in camera, accendendo tutte le luci, entrai aprendo la porta con un calcio e strappai dal muro una foto, l'unica che mi fossi data la pena di stampare dal computer. Nella foto c'eravamo io e Raffaele. La tenni in mano per un po', poi la strappai in due, in quattro, in otto, provai a stapparla ancora ma i frammenti caddero sul pavimento come tanti coriandoli.

Due lacrime caddero, ma non ci feci caso: mi strappai il ciondolo a forma di cuore dal collo e lo scaraventai tra i coriandoli, con la cordicella ormai distrutta.

Accesi il computer ed eliminai tutte le canzoni che mi aveva passato Raffaele dal suo mp3. Il titolo di una di queste mi fece cadere altre lacrime: "make you feel better".

Era passato così tanto tempo da quel giorno... Perché? Perché? Altre lacrime. Mi accasciai sulla sedia e seppellii il volto tra le braccia, piangendo fino a quando non si irritarono gli occhi. Perché, perché?


 Poi mi chetai. I singhiozzi finirono, le lacrime si asciugarono lasciando strisce salate sulle guance. Rimasi a fissare il vuoto con occhi spenti.

Sentii il cellulare trillare, avvertendomi che era arrivato un messaggio. Deglutii le lacrime che si erano fermate in gola, poi lo afferrai speranzosa.

Forse non era tutto finito. Forse quello era un messaggio di Raffaele che mi spiegava tutto... presi il cellulare ed aprii il messaggio. Non era Raffaele. Era Corrado.
 "Mi dispiace per come sono andate le cose...ci vediamo domani a scuola, ok?". Fissai quelle parole senza senso.
 Quando, dopo la scuola, avevo visto Corrado picchiare quello che era il mio ragazzo, l'avrei ucciso.

Raffaele mi spiegò che non sapeva cosa gli era preso, e la mia ostilità era salita. Pensavo che fosse qualcosa che riguardava solo loro due.

Poi l'avevo chiamato, e tutto quello che avevo sentito era l'odio per il fratello che trapelava dalla sua voce. Ricordai ciò che mi aveva detto: "Quello schifoso di Raffaele si è preoccupato solo che io non ti dicessi niente...".

Come se dicendomi quello che era successo avesse voluto fare un dispetto a Raffaele.

E di me non gli era importato niente. Voleva solo far del male al fratello, come questo ne aveva fatto a lui. E non aveva esitato a mettermi di fronte alla realtà, non gli era importato che io ci sarei potuta rimanere male, non si era dato la pena di trovare il modo più carino.  
 "In classe io rimango al posto vicino a Silvana" gli risposi.
 "Perché? Che ti ho fatto io? Guarda che fa schifo anche a me che io sia il fratello di Raffaele".
 "Non hai capito. Io vicino a te non voglio più starci. Tra te e tuo fratello non so chi è più stronzo. Ciao ciao".

Spensi il cellulare. Non volevo più sentire nessuno. Con mio grande disappunto, caddero altre due lacrime.

Infine la verità mi si presentò così immediata che ci mise alcuni istanti prima di delinearsi nel mio cervello in frasi di senso compiuto: ero rimasta completamente sola. Avevo perso il mio ragazzo e il mio migliore amico in un giorno solo, un giorno normale, un giorno dei tanti.

Era successo tutto così in fretta che ci avevo messo un po' per rendermene conto... Questa volta non provai neanche a fermare il flusso di lacrime silenziose che ripartiva, mi limitai ad affondare il volto tra le braccia, chiudendo gli occhi con l'intenzione di non aprirli mai più.


 Forse dovevo essermi appisolata: non mi accorsi della porta che sbatteva e del rumore di un mazzo di chiavi che veniva riposto sulla mensola vicino la porta. Non mi accorsi di mia madre che passava per casa a spegnere tutte le luci che avevo acceso nella foga di distruggere ogni cosa che mi legava a Raffaele. Non mi accorsi di lei che infine apriva dolcemente la porta della mia camera e mi vedeva accasciata sul letto, oppure del suo sguardo che vagava sui resti della foto per terra, tra i quali il ciondolo che rifletteva la luce del lampadario e che ormai era lontano dal mio collo.

Però la sentii sospirare; a quel punto aprii gli occhi e, senza muovermi, puntai il mio sguardo acquoso sul suo.

Lei si avvicinò cauta.
 -E' successo qualcosa?- chiese.

Mi venne voglia di ridere: che domanda cretina! Era ovvio che fosse successo qualcosa. Non impazzivo da un momento all'altro, non senza un valido motivo.

Poi però decisi di rispondere. Lei ci stava provando ad essere gentile con me.

Cercai di parlare, ma uscì solo un pigolio che non mi sarei mai aspettata potesse provenire dalla mia gola.

Mamma lo sentì e si sedette sul bordo del letto, poggiando le mani sulle ginocchia:
 -Raffaele vero?- Io annuii.

Lei mi carezzò i capelli.
 -Vuoi parlarne?-
 Rimasi un po' in silenzio. Parlare sarebbe stato come renderlo ufficiale, metterne un'altra persona al corrente avrebbe fatto sì che non potessi più tornare indietro.
 -Un'altra ci sta provando con lui e lui la sta assecondando- spiegai.

Mia madre annuì comprensiva.
 -Tu più di tutti sai che ti capisco- le si spezzò la voce -ma non devi buttarti giù. So che in questo momento vorresti sparire, ma non devi permettere di essere trattata come un oggetto. Tu sei una persona, e a lui non è concesso usarti e farti star male. Capisci?-

Annuii. Parole vuote. Lei mi carezzò la spalla.
 -Vuoi che vada via?- chiese.

Non sapevo cosa avrei voluto. A quel punto volere qualcosa mi sembrava anche troppo. Rimasi in silenzio.

Lei lo prese per un sì, mi baciò la testa e si alzò, facendo cigolare la rete del letto. Quando arrivò alla porta, mi sforzai di ricacciare la voce. Non ricordavo neanche più che suono avesse.
 -Mamma?-

Lei si girò.
 -Domani starò meglio?- chiesi.

Mi guardò comprensiva:
 -Sei una delle persone più forti che io conosca. Puoi stare meglio nel momento in cui lo deciderai-.
 -Non è vero. Mi sembra che non riuscirò mai a continuare la mi vita senza di lui. E' come se fosse finito tutto il mio mondo. Non ho voglia di fare più niente-.
 -La tua vita non sarà più come prima. Una parte di te è in lui, e una parte di lui è in te, ed entrambi la conserverete fino alla fine. Ma lui non è il tuo mondo, tu puoi continuare a vivere senza di lui. Fidati- sorrise dolcemente. Io non risposi.
 -Vado a cucinare qualcosina, d'accordo?- Annuii. Lei socchiuse la porta, lasciandola cigolare un po'.


 Raramente parlavo con mia madre: la chiusura di carattere l'avevo ereditata da lei. Ma oltre a questa mi aveva passato anche l'empatia: una spiccata capacità di capire i sentimenti degli altri. Il che non voleva dire che poi sapevo come comportarmi quando mi ci trovavo di fronte, ma entrambe riuscivamo ad immedesimarci l’una nell'altra. Per questo riuscì a capire che sarebbe stato meglio farmi stare un po' per conto mio.


 Quella sera fu silenziosa, più del normale. Mi trascinai a cena, dove la televisione borbottò prima un barboso telegiornale, poi una soap-opera, secondo gli ordini di mia madre, che li amministrava attraverso il telecomando. Evidentemente non riteneva che fossi predisposta per un film troppo impegnativo, a ragione. Prima di ritirarmi in camera, le feci la mia richiesta:
 -Domani c'è assemblea d'istituto. Il tempo di fare l'appello e poi in teoria dovremmo riunirci in aula magna ad ascoltare i rappresentanti a parlare non si sa di che. Non si fa lezione-.
 -Quindi?-
 -Posso venire in città con te?-

Mamma smise di lavare i piatti per rispondermi.
 -Io sto in ufficio. Cosa verresti a fare?-
 -Io...volevo vedere un po' le mie amiche. Domani proprio non me la sento di andare a scuola...-
 -Non c'è Corrado?-.

Scossi la testa:
 -Corrado non è meglio del fratello. Abbiamo litigato-.

Mia madre sospirò:
 -Se vuoi io ti porto con me. Ma ti annoierai...-
 -Tranquilla, loro escono da scuola a mezzogiorno, non mi pesa passare la mattinata da te-.

Lei annuì.
 -Grazie- mormorai.

Andai in camera, dove ripresi il cellulare; era ancora spento. Lo accesi, con l'intento di mandare un messaggio a Pu o a Pam. Sentivo che non sarei riuscita a reggere una telefonata. Non appena fu acceso, i messaggi che mi erano stati inviati cominciarono ad accumularsi sul display. Uno, due, tre. Non volevo leggerli, ma lo feci. Erano tutti di Corrado.
 "Ora perché te la sei presa con me???", il primo.
 "Eddai rispondi!!", il secondo.
 "Senti un po', non sei l'unica che ci è rimasta male. Ti credi che io sto meglio? Col mio migliore amico che se la fa con la ragazza a cui vado dietro? Almeno potresti degnarti di rispondere. Magari se la pianti con questo comportamento di autocommiserazione! Proprio non vuoi parlare delle cose che ti fanno stare male? Guarda che poi cominci ad essere irritante. Vedi un po' quello che devi fare". Il terzo era decisamente il più lungo.

Sentii la rabbia montare, e per alcuni istanti mi sembrò di capire ciò che provavano i tori mentre qualche Corrado sventolava davanti a loro il mantello rosso. Rabbia, furia, odio. Voglia di avere le corna per infilzare qualcuno. Oh, che sbadata, le corna non mi mancavano. Arrossii umiliata anche al solo pensiero.


 "Non hai capito un bel niente di quello che mi ha fatto incavolare con te, quindi senza che ti metti a cagare sentenze. Forse sei così accecato dal tuo incommensurabile dolore che non ti sei reso conto di quanto mi hai fatto male. Mi hai spifferato tutto solo per fare un dispetto a Raffaele. Solo per fargli tanto male quanto lui ne ha fatto a te. Ma non ti sei reso conto che hai fatto del male anche alla tua migliore amica. Non abbiamo più niente da dirci". Inviai il messaggio senza badare alla forma o a correggere gli errori del T9.

Strinsi le labbra in una smorfia di tristezza, poi inviai un messaggio uguale a Pu e Pam:
 "Ragà, domani se mi aspettate dopo la scuola torno per un po' con voi. Qui è successo un casino. Ci vediamo domani. Vi voglio bene".        

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Capitolo 24
*** 2) Pu e Pam ***


Tornare a calcare i sampietrini della mia città natale dopo mesi e mesi di paradiso mi fece uno strano effetto: era come tornare a fare un sogno ricorrente, un posto familiare in cui era strano trovarsi. Era la prima volta che avevo la sensazione vera e propria di tornare a casa.

La cosa mi fece anche un po' tristezza: ormai non sarebbe dovuta essere a Polverano la mia casa?
Pensai di no.

Pensai che in ogni caso una persona può andare ad abitare anche in capo al mondo, ma niente sostituisce la città di origine. C’è qualcosa di diverso in tutte le altre città, come se la tua mente avesse la stessa piantina della città in cui sei nato.
Evitai di pensarci: da piccola ero solita perdermi nei vicoletti della mia città.

Molto meglio concentrarsi sulle persone che entravano nei negozi per ripararsi dal freddo, su vecchietti che andavano a pagare le bollette, sui fruttivendoli che mi guardavano incuriositi, chiedendosi perché me ne stessi tutta sola a bighellonare per il centro storico invece di stare a scuola.

Mi sedetti su una panchina di pietra, con le cuffiette dell'mp3 alle orecchie. Sentire la mia vecchia musica mi creava un vuoto dentro: avrei voluto ascoltare ancora una volta le canzoni che mi aveva passato Raffaele, e ancora, e ancora, fino a non averne abbastanza.

Controllai l'ora e vidi che all'uscita del ginnasio mancavano solo pochi minuti. Incrociai le gambe sulla panchina e aspettai.
 La canzone stava finendo quando uscirono le prime classi.

Aguzzai lo sguardo, ma non mi sembrò di vedere chi cercavo. Come al solito erano tra le ultime ad uscire.

Poi piombarono su di me improvvisamente, facendomi cadere le cuffiette: Pu e Pam tentarono di saltarmi addosso contemporaneamente, ma fu Pu ad averla vinta e mi stritolò per un minuto buono prima di passare il turno a Pam, il tutto costellato da "Angelaaa!! Che bello vederti!! Oddio quanto ci sei mancata!!"

Poi si calmarono. Si misero fianco a fianco, una bassetta e una alta, una castana e una bionda, e mi squadrarono da capo a piedi.
 -Allora? Qui vogliamo sapere le novità. Dicci tutto quello che è successo dall'ultima volta che ci siamo sentite- disse Pu.

Io sospirai. Loro mi guardarono preoccupate:
 -Oi, che è successo?- chiese Pam. Io alzai le spalle.
 -Io e Raffaele ci siamo lasciati-.

Sentii che non sarei riuscita ad aggiungere altro. La loro espressione cambiò di colpo.
 -Oddio. Ma...perché?-

Raccontai loro tutta la storia, mentre ci incamminavamo senza una meta precisa. Loro mi avevano garantito che sarebbero rimaste con me fino a quando non fossi ripartita insieme a mia madre, dopo pranzo. Avevamo tempo per parlare.
 Ci sedemmo in quella che l'estate precedente avevamo eletto al ruolo di "panchina preferita", situata sotto le fronde degli alberi e in un buon punto per osservare la gente che passava, perché dava sulla larga discesa che conduceva alla via principale del centro.
 -Che viscido che è stato. Mi dispiace tanto...eri felice con lui. Però non è detto che non lo ridiventerai con qualcun altro. Insomma, il mare è pieno di pesci- disse infine Pam.
 -Già, non preoccuparti. Adesso come stai?- Pu mi guardò preoccupata.
 -Io...oh, sto male, accidenti. Non mi sembra possibile...solo due giorni fa a quest'ora ero con lui, ed ora invece...non è giusto. Se penso al tempo in cui mi ha preso in giro...- mi si spezzò la voce.

Pu mi passò un braccio attorno alle spalle.
 -Non pensarci. Hai più visto questa -com'è che si chiamava?- Carolina?-. Scossi la testa:
 -Non ho il coraggio di vedere neanche lei. Non credo che riuscirò a sopportare la sua presenza. E poi per quello che ne so potrebbe anche già essersi messa con Raffaele. Non ci riesco...- non finii la frase.

Pam mi carezzò un braccio, poi prese a intrecciarmi i capelli.
 -E Corrado non si è più fatto sentire?- Chiese Pu.
 -Anche se fosse non voglio parlarci io. Me l'aspettavo migliore. Sembra come se mi abbia usata per fare un dispetto a Raffaele. Voi non potete capire il tono che ha usato quando mi ha dato la notizia: sembrava posseduto. Non gli è importato niente di me, non vedo perché dovrebbe importarmi di lui-.

Pu e Pam rimasero in silenzio. Poi Pu azzardò: -Forse perché ti manca?-
 -No...- sospirai.

Ma chi volevo prendere in giro? Mi mancava, mi mancavano tutti e due. Si erano rubati un pezzo di me, l’avevano portato lontano ed ora era in balia dei loro sentimenti e delle loro azioni. Ed era proprio di quel pezzo che percepivo l’assenza.
 -Ok, mi manca. Ma non mi sentirò pronta a rivolgergli la parola per un bel po'. E ora non so che fare...lì sono sola, non ci siete voi. Non ho amici, solo un po' di conoscenti, e non so se possono bastare per andare avanti-.
 -Tranquilla, basteranno. Tu sei Angela, non puoi perdere- Pu cercò di tirarmi su il morale. Io sorrisi mesta:
 -Sono sempre stata sfigata, diciamocelo, anche prima di trasferirmi a Polverano-.

Pu e Pam si scambiarono uno sguardo che, come nei film, sembrò fosse sincronizzato, poi partirono all'attacco:
 -Non puoi permettere che un verme del genere ti faccia sentire così male! Sveglia! Hai un po' d'orgoglio sepolto da qualche parte?- esclamò Pu.
 -Come puoi pensare che sia tu la sfigata? Ma pensa a quella poveraccia di Carolina, che se continua così ha già il mestiere assicurato sulla tangenziale- Pam rincarò la dose, bandendo le finezze.
 -Lo devo conoscere questo tipo, così potrò prenderlo a sberle- Pu scrocchiò le dita dandosi arie da pugile.
 -E io mi occupo di Carolina...già mi sembra una vacca- Pam arricciò l'angolo della bocca all'insù.
 -Invece è anche abbastanza carina- bisbigliai. Loro mi guardarono scioccate, poi Pam sospirò:
 -Lei era quella costantemente obiettiva vero?-

Mi guardò in faccia -ascolta, lo so che ora puoi starci male, ma in questi casi basta aspettare e il tempo ti farà tornare come nuova, pronta per un'altra avventura, ma con il tuo bel carico di nuove esperienze. Magari ora ti sembra impossibile, ma vedrai che riuscirai a dimenticarlo-.
 -Ma il problema è che io non voglio dimenticarlo...io voglio tornare con lui...voglio tornare a quando di Carolina non ne sapevo neanche l'esistenza...-

Pu mi carezzò affettuosamente la spalla: -lo immagino. Ma non si può tornare indietro. Devi guardare avanti...sai che ti ci vuole?- Sorrise.

La guardai scettica e lei si alzò dalla panchina, saltellando per il mini parco giochi.
 -Un bel trancio di pizza e una coca cola, come quando ne andasti a dire quattro a Big Pig, ricordi?- scoppiò a ridere, seguita da Pam.

Io mi lasciai andare a un sorriso: Big Pig era stato il suo primo ragazzo, un'avventura durata il tempo di un'estate. Poi lui l'aveva mollata senza spiegazioni, con un sms lapidario.

Quanto tempo ci era stata male? Mesi e mesi. Fino a quando, stufa di vederla con il morale a terra, una sera non andai a parlargli; lui stava cercando di infilarsi il casco sul suo motorino quando gli diedi due pacche non proprio delicate sulla schiena.

Il resto è storia... ma ogni volta che riusciva il discorso il ridere era spontaneo. Pam aveva addirittura riassunto la serata sul suo blog.
 -Ok. Andiamo. Oggi stiamo insieme noi tre, come ai vecchi tempi. Ora raccontatemi di voi- dissi balzando giù dalla panchina.

Le mie amiche mi guardarono sorridendo:
 -Non puoi capire quante cose sono successe!-

Cominciarono a raccontare aneddoti, pettegolezzi, ancora aneddoti, ancora pettegolezzi, interrompendosi a vicenda e canzonandosi allegramente. Per la strada verso la pizzeria la gente lanciava occhiatacce a quelle due ragazze dalle voci troppo alte, ma noi ci divertivamo ancora di più.


 Non che mi fossi già lasciata tutto alle spalle. Solo pensare al giorno prima mi cancellava il sorriso dalle labbra. Ma se c'era una cosa che avevo imparato era che piangersi addosso serve solo a prolungare il periodo di coma profondo, dal quale invece io volevo uscire al più presto possibile.

Come al solito mi imponevo di essere forte, e se non lo fossi stata lo sarei diventata. Era una sfida con me stessa.


 Avrei sempre ricordato quella giornata con un sorrisetto sulle labbra: era stato divertente quando Pam aveva raccattato le monetine del resto che le si erano sparse per tutto il locale, cadendo dalla mano della cassiera che glie le porgeva, o quando Pu aveva deciso che nel suo pezzo di pizza mancava il sale. Ma la scena più divertente fu quando uscimmo: era ancora presto, abbastanza per incontrare i ragazzi della loro classe, tra i quali uno aveva disperato bisogno di capire i compiti per il giorno dopo. N gruppo c'era Tigatto. Non lo vedevo da mesi... che cotta assurda che mi presi per lui, l'anno prima. Ma scoprii che in quel momento mi sembrava molto più bello Raffaele. Soffocai l'amarezza.

Mentre Pu stava dettando gli esercizi al compagno di classe, Pam mi diede un pizzicotto.  

-Che c'è?- chiesi.

Mi accorsi che stava sogghignando talmente tanto da non riuscire quasi a parlare:
 -Guarda T-gatto!- biascicò sottovoce. Io lo guardai, senza farmi notare.
 -Allora?- chiesi a Pam.
 -Ti sta mangiando con gli occhi!-

Tornai a farci caso: in effetti aveva una faccia poco equivocabile. Arrossii voltandomi verso Pam, proprio nel momento in cui Pu diceva -Andiamo ragà-.

Ci voltammo e appena fummo fuori portata di orecchio Pam liberò le risate che aveva trattenuto per tutto quel tempo. Mi voltai in tempo per vedere Tigatto guardarmi come Corrado guardava a suo tempo Morena. Tornai a dargli le spalle, ritta come un ciocco.
 -Ma cosa si guarda?!?- sussurrai.

Pu e Pam risero:
 -Vedi un po' tu! Ma non te ne sei resa conto?-.
 -Di cosa?-. Di nuovo, loro due si lanciarono uno sguardo complice.
 -Mettiamola così: questi jeans ti stanno molto bene... se Raffaele ha preferito il culo di una vacca al confronto col tuo, ha dei seri probelmi-.
 Guardai Pu scioccata, poi i miei jeans e relativo contenuto, non notando alcuna differenza, poi ancora Pu.

Pam prese la parola.
 -Abbiamo sbagliato. Angela non è sempre obiettiva: pensa ancora di essere un cesso, e non si è resa conto che in questo periodo è diventata una vera topa-.

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Capitolo 25
*** 3) gli aculei ***


Ma, dopo la brevissima parentesi in città, la vita tornò a crollarmi addosso implacabilmente, come se fosse un peso che invece di uccidermi mi torturava giorno dopo giorno, notte dopo notte, lacrima dopo lacrima. Il mio cuscino diventò più salato del mar Morto.

La vita andava avanti, proprio come mi avevano garantito le mie amiche, ma avrei preferito mille volte morire piuttosto che continuare a limitarmi ad esistere senza il gusto di vivere.


A scuola l'atmosfera era così opprimente che quasi non riuscivo a respirare: passavo le giornate con Maddalena e Silvana, mentre Corrado non mi rivolgeva la parola; dal canto mio, passavo davanti a Raffaele senza neanche degnarlo di uno sguardo.

Per fortuna, una persona che ebbe la decenza di sparire fu Carolina: non la vidi più né a scuola né in giro.

Al contrario, chi cominciò a passare più tempo con noi fu Gemma. Col passare delle settimane imparai a conoscerla: era una cara ragazza, anche se forse un po' troppo silenziosa. In compenso era raro che dicesse stupidaggini.

Ma, a ripensarci, quello fu comunque uno dei periodi più orribili della mia vita. Passavo i giorni tappata in casa, e per ingannare il tempo cominciai a studiare a ritmi assurdi... sebbene i risultati fossero poco visibili. Ulteriore fregatura. Ma lo studio funziona così: se le disposizioni mentali non sono quelle giuste, se tutto quello che desideri è smettere di respirare, è inutile accanirsi sui libri. La media non si alza.

 
 Ma dovevo aspettarmi che al peggio non vi sarebbe stata mai fine.

Perché, una volta che si innesca il meccanismo, le cose ci prendono gusto ad andare sempre più male, cominciano a rotolare sotto i piedi come biglie scivolose, e se ci metti il piede sopra per sbaglio puoi agitarti quanto vuoi per ritrovare l'equilibrio... ma sei destinato a cadere.

Se poi, come nel mio caso, la superficie su cui cadi è irta di aculei, puoi farti molto molto male. Talmente tanto male che a quel punto dimentichi tutti i dolori passati pur di liberarti da quel male atroce.

Anche se probabilmente è proprio a causa di quelli che sei scivolato nel baratro. Chi potrà mai dirlo?

 

 Era una mattina di metà marzo. La primavera sarebbe arrivata a momenti, ma la prospettiva mi rendeva ancora più triste: per tutto l'inverno avevo fantasticato sulla stagione degli amori, certa di passarla col mio ragazzo. Invece mi ritrovavo a camminare sola per la strada di casa, con la mente piena di dolorosi ricordi. Ormai non facevo caso neanche più alle fitte al cuore, le accoglievo come se fossero parte integrante del mio corpo.
 Tornai a casa, mentre il solito gatto tigrato si era appostato sul davanzale della finestra in attesa di avanzi. Gli diedi qualcosa di pescato dal frigo e quello fu tutto contento. Beato lui.

Poggiai la borsa dei libri e cominciai ad armeggiare con i fornelli. Non avevo voglia di niente in particolare; se fossi stata più lucida mi sarei resa conto che erano settimane che non mangiavo qualcosa di davvero raffinato...come risotto allo zafferano o pollo al curry. Altri ricordi.
 Mi ero appena seduta alla mia solitaria tavola quando squillò il telefono. Chi poteva essere? Forse qualche amica di mia madre, forse le solite compagnie di call center. Alzai la cornetta, scocciata:
 -Pronto?-
 -Angela?-

Quella voce mi penetrò nel cervello scavando un solco da un emisfero all'altro. Non me ne accorsi, ma fu a quel punto che misi il piede sulle biglie sparse sul terreno irto di aculei.
 -Angela, sei tu, vero?-

Mio padre sembrava affannato, come se il cuore gli stesse battendo tre volte più veloce del normale. Come era giusto che fosse.

Il mio invece si era fermato. Non lo sentivo più.
 -Chi ti ha dato questo numero?- chiesi.
 -Ho cercato come un forsennato per un bel po'- ammise lui.
 -Bè, potevi risparmiarti la fatica-.
 -No, ti prego, non riattaccare. Almeno ascoltami. Ti va?-
 Cominciai a rotolare sulle biglie. Provai a cercare l'equilibrio, ma trovai quello sbagliato.
 -Tanto non c'è niente da perdere, no? Di' quello che devi dire-.

Lo sentii sospirare di sollievo.
 -Possiamo incontrarci?- chiese. Io esitai.
 -Sto aspettando mamma. Non voglio che torni e non mi trovi-.
 -Non ora. Se vuoi oggi pomeriggio andiamo a prenderci qualcosa?- solo verso la fine alzò il tono della frase per darle la foggia di domanda.

Corrugai la fronte.
 -D'accordo- dissi infine. Non avevo un'idea chiara in mente, ma volevo che nella mia vita piatta succedesse qualcosa, qualunque cosa.
 -Ci incontriamo al bar dove ti venni a trovare a febbraio?-

Esitai, ricordandomi il nostro ultimo incontro. Lì c'era Raffaele pronto a salvarmi... questa volta no.

Tanto meglio: ero in grado di cavarmela da sola.
 -Ok. Alle sei lì-. Stimai che per le sei avrei finito di studiare.

Sentii la persona all'altro capo del filo sospirare di sollievo.
 -Va bene. E...grazie. Sono contento di vederti-.
 -Non sperare che io sia altrettanto felice. E non ringraziarmi. Non ho la minima intenzione di riconsiderarti. Voglio solo sapere che cosa hai da dire- risposi lapidaria.
 -Come vuoi. Almeno me ne hai dato la possibilità-.
 -Ci vediamo dopo-. Riattaccai senza neanche aspettare un suo saluto.  


 Trovai orribile dire a mamma che uscivo con Maddalena e Silvana, mentre in realtà avevo tutta l'impressione di andarmi a infilare nella tana del lupo.

Eppure lei non fece una piega; se fossimo state ancora in città non mi avrebbe permesso di uscire; invece a Polverano era relativamente tranquilla e mi lasciava andare anche durante la settimana, perché tanto rimaneva comunque uno sputo di cittadina, semplice e dalla mentalità paesana. L'unico vantaggio... se si aveva qualcuno con cui uscire.
 Infilai la giacca e mi spazzolai velocemente i capelli, poi uscii. L'aria fredda mi sferzò le guance come se fosse composta da microscopiche lame di ghiaccio.

Incurante di tutto ciò, mi avviai verso il bar. Non era molto lontano e, con mio sommo disappunto, arrivai in anticipo.

Eppure lui era già lì, seduto a uno dei tavoli; fui contenta che non avesse scelto quello dove ero seduta quella sera con Raffaele. Anche se probabilmente aveva dimenticato un dettaglio simile. A differenza di me.
 Entrai facendo un respiro profondo, guardando il cielo ancora chiaro come un gladiatore che stava per essere dato in pasto alle tigri. Lui mi vide e il suo sguardo si illuminò. Mi fece un cenno per indicarmi una sedia libera di fronte a lui.

Presi posto senza neanche salutare. Silenzio.
 -Prendi qualcosa?- mi chiese.
 -Non porto soldi- risposi.
 -Ti pare che faccio pagare mia figlia?-.
 -Ne saresti capace-.
Il sorriso forzato che aveva sul viso si cancellò, manco fosse stato lavato via da una spugna. Il cameriere arrivò, zelante e saltellante.
 -Che vi porto?- Chiese allegramente. Chissà cosa si rideva.
 -Un caffè e...due caffè-.

Mio padre mi lanciò quella che doveva essere un'occhiata complice. Aspettai che il cameriere se ne andasse prima di dire:
 -Non bevo mai il caffè. Lo odio-.
 -Ah-. Lui alzò le spalle -non sei costretta a berlo-.
 -Ci mancherebbe altro-.

Ero decisa a mostrarmi il più ostile possibile. I caffè arrivarono, caldi e fumanti. In realtà mi venne voglia di berlo, ma mi trattenni. Mio padre sorseggiò il suo pian piano.

Quando posò la tazzina non era ancora finito.
 -Ascolta Angela, io sono venuto fin qui per spiegarti e darti una versione completa dei fatti- disse poi.

Io lo guardai come a sfidarlo ad andare avanti. Raccolse la sfida:
 -Me lo permetterai?-
 -Fai in fretta. Non voglio chiacchiere inutili-.
Annuì e cominciò:
 -Tra me e tua madre le cose non andavano bene da anni...anni, capisci?-.
 -Non è una giustificazione-.
 -Forse no. Ma quando arrivi ad un certo punto, cominci a rivalutare molti punti della tua vita, e pensi alle scelte che hai fatto, se siano state giuste o sbagliate...-
 Pensai improvvisamente a Raffaele: forse che lui aveva pensato le stesse cose? Mi imposi di ascoltare mio padre.
 -E poi sai come andarono le cose...fu un mio errore, lo ammetto, ma un errore impossibile da evitare-.
 -Non lo giustifico, lo sai. E comunque sarà stato pure impossibile da evitare, ma fin troppo facile da nascondere. Non che mi avrebbe fatto più piacere. Ma sappi che grazie a te ho imparato prima cosa fossero i vizi e solo quando me ne sono andata ho scoperto che esistevano anche le virtù-.

Lui deglutì:
 -Non sono stato affatto un buon padre, lo so. Eppure è difficile rendersi conto di quello che fai quando sei molto preso-.
 -Neanche questa è una giustificazione-.
 Si rese conto di star perdendo colpi. Chiacchiere, chiacchiere.
 -Avrò fatto qualche errore, d'accordo...-
 -Esatto. Qualche errore. Se ne avessi fatto solo uno sarebbe stato meglio. Invece no, anche quando non eri, come dici tu, "preso", non hai esitato a...a...- non mi vennero le parole. La voce mi morì in gola. Lui sospirò.
 -Hai ragione. Ma stai certa che se mi fosse ripresentata l'occasione lo avrei rifatto...-
 Rabbia. Rabbia e odio. Rabbia, odio e indignazione.
 -Sei venuto a dirmi questo?- esclamai irata.
 -No. Sono venuto a dirti che lo avrei rifatto...fino a pochi mesi fa. Ma sono cambiato. Da quando ve ne siete andate ho riflettuto molto. Angela, se sono venuto qui è per chiedere scusa a te e a tua madre-.    
 Il cuore mi si fermò per la seconda volta. Rimasi impietrita, a guardare i miei stessi occhi replicati su quel viso da eterno bambino.

Un bambino che aveva giocato con il suo giocattolo fino a quando questo non si era distrutto, ed ora cercava di ripararlo.

Cominciò a montare la rabbia. Sempre di più, sempre di più.
 -Vai via- sibilai. Se avessi fatto uscire anche solo un filino di più di voce avrei urlato.
 -Angela ti prego...-
 -Vai via!- Esclamai.

Alcuni avventori si voltarono. Magari si stavano abituando a quella strana coppia che finiva sempre per litigare nello stesso bar.
 -Angela...pensaci un po'. Rifletti-.
 -Ho riflettuto per tutti questi mesi, e ho capito che sei stato un viscido con me e con mamma! Come puoi pensare che ti vogliamo ancora?-
 -Ti prego...almeno fammi parlare con Susanna. Ti prego-.
 -NO!- Strillai.

Non mi importava più della gente che ci guardava: mai e poi mai avrei permesso che mia madre si ritrovasse di fronte l'uomo che l'aveva costretta a fuggire.
 -Angela...Angela!- Mio padre mi chiamò accorato mentre io mi ficcavo la giacca e uscivo dal bar, lasciando la tazzina di caffè colma. Mi raggiunse all'uscita e mi fece voltare, in tempo per vedere le lacrime che, incuranti del mio silenzioso divieto, erano cadute lungo le guance.
 -No. Non ci provare. Non ti avvicinare a lei. Non cercarci più. Tornatene in città e restaci- scappai via, immergendomi per i vicoli di Polverano.
 Corsi a lungo, anche se le gambe mi dolevano per lo sforzo, anche se non avevo più fiato, anche se il cuore minacciava di uscire dalla cassa toracica.

Corsi fino a quando non fui sicura di averlo lasciato abbastanza indietro. Non riuscivo a capire come avrei potuto fermarmi: non volevo. Volevo correre fino a fare il giro del mondo.
 Mentre la luce del giorno cedeva il passo alla notte tramite un tramonto dalle tinte forti e spettacolari, corsi fino a quando non sentii l'aria vorticare nei polmoni come se volesse lacerarli.

Quando temetti di strozzarmi, mi rassegnai a una camminata veloce.

Ero caduta tra gli aculei, aculei più dolorosi di quanto mi aspettassi... quelli che ti fanno dimenticare ogni altro dolore. E non solo il dolore delle gambe che protestano, dei polmoni che quasi scoppiano, del cuore che batte all'impazzata.

Ebbi un improvviso bisogno di Raffaele e di Corrado, ma quelli furono altri due aculei che si infilarono nel cuore, provando a fermarlo per la terza volta il quella giornata.

O forse no? O forse quel peso che mi faceva sentire come se i polmoni non bastassero davvero per i miei respiri era davvero fisico? Mi fermai, poggiandomi una mano sul petto: sentivo un tum-tum ritmico, affaticato.

No, niente di cui preoccuparsi. Io ero forte. Molto più forte di quanto credessi io stessa. Camminai, reggendomi alla staccionata di legno che correva a separare la strada dall'aiuola dei giardinetti. Tum-tum, camminare. Tum-tum, camminare. Era normale sentire così caldo ad appena la metà di marzo? Era normale che facesse già così improvvisamente buio? Era normale che sentissi la testa come compressa in un cappello troppo stretto?
 Sì, sicuramente si. Io ero forte...No?


 E gli aculei dei due gemelli che avevo conosciuto per primi si spinsero sempre più a fondo, e il dolore era direttamente proporzionale al bisogno che avevo di loro.

Continuai a camminare verso casa, cercando di tenere la mente sgombra, anche se i ricordi tornavano a galla -altri aculei.

E non i ricordi dei mesi a Polverano.
 Questi erano altri ricordi.... ricordi che avevo sempre tenuto solo per me, ricordi della mia infanzia; felice come quella degli altri bambini, fino a quando mio padre non cominciò a cadere vittima della lussuria...
Camminavo, mentre sentivo sempre più caldo, mentre sentivo sempre più buio; era strano, ma quel buio non lo vedevo, lo sentivo, come se un ombra calasse sui miei occhi.
 Gli aculei...l'infanzia...il caldo...Raffaele...il buio...
 Vidi una mano cadaverica, che a stento riconobbi per mia, aggrapparsi alla staccionata, poi il buio calò ad oscurarmi la vista e precipitai a terra.

Rovesciai la testa all'indietro, mentre gli occhi si chiudevano sconfitti: abbandonarsi agli aculei, al caldo e al buio...bello...
 -Angela!-
 Gli aculei stavano diventando troppo reali. Meglio non dar loro ascolto, anche se avevano la stessa voce di qualcuno che li aveva provocati.
 -Angela! Oddio, Angela!-

Questo aculeo non voleva smettere di materializzarsi sempre di più. Meglio abbandonarsi.
 -Angela, stai male! Angela?-
 Qualcuno si accovacciò di fronte a me, ma il buio era calato talmente tanto che quasi non riconobbi il volto che mi stava chiamando accoratamente.

Vidi dei capelli biondi, un viso magro...un aculeo spaventoso mi perforò il cuore.
 -Raffaele?- biascicai. No, no...
 -Angela, cos'hai?- chiese preoccupato.
 -Via...via...-
 -Angela...vuoi davvero che me ne vada?-
 -Via...- alzai una mano, pallida come un lenzuolo, e mi aggrappai a lui.

L'aculeo stava perforando il cuore, un dolore atroce, ma sentivo che sarebbe uscito se solo avessi sopportato. E se fosse uscito...
 -Come ti senti?- Raffaele mi prese la mano tra le sue.

Chiusi gli occhi. Il buio stava andando via... Dopo un po' fui in grado di parlare:
 -Devo alzarmi- dissi.

Lui si alzò e mi aiutò a fare altrettanto, poi mi passò un braccio attorno alla vita e mi sorresse fino a quando non arrivammo ad una panchina. Che fortuna che ci fosse. Mi adagiò delicatamente sul legno e poi si sedette al mio fianco.

Io mi raddrizzai, senza lasciar trapelare il giramento di testa che mi aveva preso. Ci guardammo negli occhi, mentre l'aculeo pian piano trapassava il cuore.
 -Mi dispiace, ma non vado via. Non mi perdonerei mai di lasciarti in queste condizioni. Anche se sono sicuro che lo preferiresti- disse lui.

Io sospirai, mentre gli occhi cominciavano a pizzicare.
 -No- riuscii a dire, prima che le lacrime sgorgassero.

Mi cinse le spalle, mentre io affondavo il viso sul suo petto e l'aculeo usciva dal cuore lasciando una dolorosa bruciatura.

Immagini confuse si susseguivano nella mia mente, i ricordi di una bambina che guardava il padre risentita e paurosamente confusa.
 -Angela...ti prego, dimmi cosa ti è successo- Raffaele mi baciò i capelli, insicuro.
 E a quel punto crollai. Gli raccontai tutto, dalla prima all'ultima parola.

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Capitolo 26
*** 4) il segreto svelato ***


I ricordi dell'infanzia sono sempre quelli che si rievocano con una punta di nostalgia: è l'età in cui non sei turbato da niente, non hai problemi, ti limiti a vivere puntando a crescere sempre di più.

Solo una volta che ne esci ti rendi conto che è come se fino ad allora avessi avuto un velo davanti agli occhi che ti impediva di vedere ogni lato della vita.

Per lo meno, è quello che successe a me.
 Quando penso a quando ero piccola, mi viene in mente una bambina dai capelli castani (solo verso gli undici anni cominciarono a schiarirsi) e una spaventosa loquacità. Tuttavia presto cominciai ad imparare a stare zitta: fu mio padre ad insegnarmi come.
 Non ricordo precisamente quando cominciò a cambiare la mia vita; la bambina avrà avuto nove o dieci anni, e somigliava a qualunque bambina di nove o dieci anni del mondo: tutta ginocchia e gomiti, vivace, con berretti dai colori sgargianti e fili di lana intrecciati ai polsi come braccialetti estremamente personali.


 Un giorno doveva essersi accorta che il padre non era quell'uomo perfetto, quell'eroe che pensava che fosse: gli eroi hanno davvero così tante "amiche", come le chiamava lui? E perché le portano a casa solo quando la mamma è via? La cosa non le quadrava.


 Un pomeriggio erano soli, la mamma era ancora al lavoro.

Lei era nella sua cameretta, circondata dalle bambole e dai giochi, china sulla scrivania a risolvere un problemino di matematica da portare il giorno dopo alla maestra. La penna sembrava troppo grande tra le sue dita, ma lei la adorava: nella sua classe era tra i pochi che avevano già smesso di scrivere con la penna cancellabile, ne era orgogliosa. Ma il problema sembrava veramente difficile: parlava di quadrati e di triangoli, e non sapeva come da quei pochi dati che le erano stati forniti dal colorato libro degli esercizi potesse capire quanto fossero grandi. Sicuramente più delle figure del libro... Decise di chiedere al padre: lui era un uomo importante, lavorava nei computer, sicuramente le avrebbe spiegato la soluzione.
 Uscì dalla camera e schiuse piano la porta scorrevole che portava al salotto, dove il padre le aveva detto che stava discutendo di lavoro con la sua collega.

Vide suo padre seduto sul divano, ma non ebbe il coraggio di avvicinarsi: stava baciando la collega come facevano nei film, molto più potentemente di come baciava la mamma.

Ma non era forse sbagliato? Li guardò, senza avere il coraggio neanche di respirare. Sì che era sbagliato. I papà delle sue amiche non baciavano nessun'altra che non fosse la propria moglie. E il suo non doveva essere diverso.

Poi, dopo un tempo incalcolabile, la collega si separò improvvisamente e guardò la bambina imbarazzata. Il padre seguì il suo sguardo e arrossì violentemente. Si alzò pregando la collega di non preoccuparsi, poi si avvicinò alla figlia:
 -Angela, piccola, perché non sei in camera tua?-
 -E tu perché hai baciato la tua collega?- lo rimbeccò la bambina seria. Il padre si torse le mani:
 -Non sono cose che puoi capire... adesso vai in camera tua, d'accordo?- la prese teneramente per mano e la riportò nella cameretta.
 -Non è giusto quello che hai fatto- gli disse la bambina. Lui si strinse nelle spalle:
 -Non preoccuparti...fai finta di non aver visto niente, d'accordo? Facciamo che questo è il nostro piccolo segreto-. Le carezzò la testa incoraggiante.

Se quella bambina non fossi stata io, mi sarei preoccupata a sentire un padre che inquina così a cuor leggero la mente della figlia.
 Lei lo guardò perplessa: -mi hai sempre detto che non si dicono le bugie-.
 -Infatti tu non dirai nessuna bugia, piccoletta. Basta che non dici niente, e tutto continuerà ad essere come prima. Ok?-
 - Ma la mamma lo sa?- chiese prima che lui uscisse.

L'uomo si fermò:
 -No, non lo sa... e non dovrebbe saperlo, altrimenti starà molto male. E noi non vogliamo che la mamma stia male, vero?- cercò di sorridere. La bambina lo guardò confusa:
 -Male come quando viene la febbre?- chiese.
 -Più o meno. Quindi è importante che tu non le dica niente. Lo farai?-. La bambina annuì.


 Forse fu proprio da quel gesto che il padre cominciò a rincarare sempre di più la dose: cambiava amante di continuo, duravano solo pochi mesi e non si preoccupava di nasconderlo alla figlia, che intanto cresceva. E con lei crescevano i dubbi, la paura, e soprattutto la confusione nei confronti dei rapporti tra i suoi genitori. La mamma non sapeva niente? Ma la cosa la riguardava, e invece lei glie la stava nascondendo... non era giusto.
 Arrivò il momento in cui la bambina cominciò a crescere, ad uscire dall'infanzia: ad undici anni tollerava sempre di meno il comportamento del padre, quasi non gli rivolgeva più la parola.

Inoltre erano aumentate sempre di più le litigate tra lui e sua madre: a volte si rinchiudeva nella sua stanza e si tappava le orecchie per non sentire gli insulti che si lanciavano con tanto odio, chiedendosi cosa sarebbe successo se avessero deciso di dividersi. Che fine avrebbero fatto? E che fine avrebbe fatto lei?
 Ma suo padre, quell'eroe che aveva smesso da tempo di essere tale, non sembrava curarsi di tutte le pene che faceva patire alle due familiari: ormai tradiva la moglie  palesemente anche davanti agli occhi della figlia, convinto che non rappresentasse più un pericolo.

Ma non si era reso conto che forse il pericolo l'aveva evitato, ma in compenso aveva accresciuto l'odio di quella non-più-bambina. Mentre i capelli si schiarivano, mentre il seno cresceva timidamente, mentre il fisico si modellava, mentre la non-più-bambina maturava, lui continuava la sua vita di lussuria ed egoismo incurante del mondo attorno a lui.

La non-più-bambina diventò Angela.

Angela arrivò ad odiare suo padre.


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Capitolo 27
*** 5) di nuovo insieme ***


-Poi mamma lo scoprì, in un modo o nell'altro- spiegai -e lo piantò senza pensarci due volte. E' per questo che siamo venute qui, perché era l'unico posto dove andare. Mamma fu contenta quando le dissi che sarei venuta con lei; aveva quasi ucciso mio padre quando scoprì che non si era preoccupato di tenermi all'oscuro di tutto. Però ho ancora il rimorso...forse avrei dovuto dire tutto a mia madre fin dall'inizio. Forse è stata colpa mia...e adesso non so cosa fare...potrei sbagliare tutto...- singhiozzai. Raffaele mi carezzò i capelli.
 -Eri solo una bambina, non hai colpe. E' tuo padre che dovrebbe vergognarsi, lo sai. Ora si sta assumendo le conseguenze dei suoi sbagli, e tu non devi fare niente. Lascialo stare. Hai già sofferto troppo, non credi?-

Annuii.

Restammo per un po' in silenzio. Il ruzzolone sugli aculei era stato quanto di più doloroso avessi mai provato, e la bruciatura che l'aculeo di Raffaele aveva lasciato sul cuore scottava ancora.
 -Adesso capisci perché me la sono presa tanto con te- dissi, sforzandomi di tenere la voce ferma.

Lui sospirò:
 -Lo so. Mi sono odiato per come sono andate le cose. Ma il motivo per cui mi sono avvicinato a...a quella- controllò la mia reazione per decidere se fosse il caso di andare avanti, ma io rimasi impassibile, così lui riprese: -è perché speravo di riuscire ad avvicinarla a Corrado. Chissà cosa pensavo di fare… Quando poi è andata...oltre... ho pensato che qualcosa non quadrava, ma non sono riuscito a fermarla. E lei ha cominciato a mettere la voce in giro...- Si fermò.

Io rimasi in silenzio.
 -Quando ho capito di averti perso per colpa sua mi sono dato dell'idiota. Non erano quelle le mie intenzioni. Io… Angela, io ti amo. E non permetterò a nessuno di farti dubitare di questo- Respirò a fondo, poi aggiunse: - ma se tu non vorrai più avere a che fare con me lo capirò. Sono stato un idiota…- la voce gli si spezzò: il capire non implicava l'accettare, come io stessa sapevo bene.

Lo fissai negli occhi e alzai una mano per carezzargli una guancia.
 -Ma io da sola non vado da nessuna parte. Ho bisogno di te. E anche di tuo fratello. Le ultime settimane sono state così orribili...-. Lui mi carezzò.
 -Something out there, where love is your only friend, and we are the ones that will make you feel better- canticchiò a bassa voce.

Continuò, tentennando un po’ quando vide altre lacrime sgorgare dai miei occhi, ma non smise; dopo pochi versi, presi fiato e cantai anche io.

Il gomitolo di lacrime che avevo in fondo alla gola si sciolse, trasformandosi in parole, poi in strofe, infine nella nostra canzone.

La gente si voltava passandoci davanti, curiosa di capire cosa facessero due ragazzi abbracciati che cantavano, stonando anche. Strano come una persona che canticchia tra sé e sé passi inossevata, quando nel momento in cui a cantare la stessa canzone si aggiunge qualcun altro, non si può non sentirla.
Presto però ci ritrovammo a non cantare più niente.

Mi ritrovai a fissarlo negli occhi, immensamente sollevata di poterlo ancora fare, quando solo fino al giorno prima pensavo di doverli dimenticare.
 -Posso baciarti?- chiese.

Io sorrisi, poi avvicinai il volto al suo. Fu quasi come il primo bacio... Ma in qualche modo diverso.

Io stessa mi sentivo diversa, come se fossi guarita da una brutta malattia. Per anni ero stata bloccata e restia a raccontare persino alle persone più vicine quello che da piccola avevo passato, ma ora mi sentivo più libera.

Il peso che aveva gravato tutto quel tempo sul mio cuore stava viaggiando lontano da Polverano, su una vecchia Lancia blu metallizzata.

Mentre il mio ragazzo disinfettava le ferite prodotte da lui stesso.

 

 

I'm back! E tutto per Miharu Ozukawa, che mi continua a recensire costantemente :) Ok ok, lo ammetto: in realtà io ti spio... conosco ogni tua mossa, ogni tuo movimento, ogni singolo attimo della tua vita... da oggi in poi dovrai stare più attenta xD

Ovviamente scherzo. A quanto ho capito ci sono parecchi chilometri tra noi :) Però ho pensato di aggiornare in fretta, così parti senza stare sulle spine... non azzardarti a leggere da Dublino, pensa a divertirti (io non sono mai stata in stage con la scuola, ma mi sembra figo! :D)

 

Grazie anche a _sirio_!! Mi ha fatto piacere la tua recensione :) In realtà su quel "Ma" ci ho riflettuto a lungo anche io... inifine, mi sono affidata a Beppe Severgnini e al suo libro "lezioni semiserie di italiano" (se ricordo bene... andrei a controllare, ma ho perso di vista quel libro e non lo ritrovo -.-"): secondo lui iniziare una frase con "ma" va bene, purché non diventi un'abitudine... e, siccome mi ci piaceva, avevo deciso di lasciarlo.

Però, per qualunque errore che trovi, dimmelo senza pensarci su! Siamo entrambe sulla stessa barca, e tengo conto dei suggerimenti degli altri :) 

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Capitolo 28
*** 6) il cameratismo ***


Tornai a casa decisa a non dire niente a mamma, ma lei dovette capire che il mio umore era diverso dagli ultimi giorni.

Stavo apparecchiando la tavola, pensando agli eventi del giorno e riflettendo che alla fine, oltre a essere stata una delle giornate più dolorose della mia vita, mi ero sentita felice.

Pensare che Raffaele era di nuovo mio... Forse stavo facendo male a fidarmi. Forse mi aveva solo raccontato una balla. Eppure era l'unico che mi avesse vista così indifesa, eppure non aveva esitato ad aiutarmi. Stringermi a lui era stata la mia ancora di salvezza... altrimenti sarei potuta svenire sul marciapiede e rimanere lì.
 -Angela?- chiamò mia madre.

Nonostante il lieto fine, non ero ancora riuscita a cancellare la smorfia di dolore seguita all'incontro con mio padre. E mia madre se ne accorse.
 -E' successo qualcosa quando sei uscita con le tue amiche? Sembri strana...-

Sospirai: come pretendevo di nascondere un dialogo come quello che avevo avuto nel pomeriggio a una donna che riusciva a capire ciò che era successo solo guardandomi in faccia?
 -Non sono uscita con Silvana e Maddalena- dissi -in realtà è che...è venuto papà-.
 Lei si bloccò.

Poi si impose un tono neutro e chiese:
 -L'hai incontrato?-
 Esitai:

-Non è la prima volta che viene. Venne pure a febbraio, e cercò di parlarmi già allora, ma io mi rifiutati. Solo che oggi ha chiamato... e ho pensato che, se l'avessi ascoltato, magari ci avrebbe lasciate in pace una volta per tutte...- abbassai lo sguardo.
 -Cosa ha detto?-
 -Voleva scusarsi. Ha detto che è cambiato, che ha capito i suoi errori. Un mucchio di balle-.


 Lei sospirò, poi ciò che vidi mi fece gelare il sangue: una singola lacrima le stava scivolando per la guancia, poi si lanciò nel vuoto dopo aver esitato sul mento.
 -Mamma, ho detto qualcosa che non va?- chiesi preoccupata.

Lei scosse la testa, poi si asciugò la faccia:
 -No, stai tranquilla. Solo che... pensavo... forse ho fatto uno sbaglio a proporti di allontanarti così da tuo padre. Insomma, lui è pur sempre l'uomo che ti ha cresciuta, essere importante per te è un suo diritto...- capii dove voleva andare a finire e, senza pensarci neanche un po', la strinsi in un abbraccio un po' goffo.
 -No, non pensare così. Non sopporterei di vederlo ancora, dopo quello che ha fatto a te. Sei tu che mi hai cresciuta, lui stesso ha ammesso di non essere stato un buon padre. Io voglio rimanere con te, qui a Polverano-.

Lei si liberò dolcemente dell'abbraccio e mi sorrise:
 -Sei sicura?-
 -Lo sai. Altrimenti non avrei accettato, non credi? L'importante è saper andare avanti, lo dici sempre. E io sono qui per impasticcarmi con le tue pillole di saggezza-. Provai a buttarla sul ridere.

Lei fece un risolino giusto per farmi piacere. Apprezzai.
 -E tu? Stai meglio?- mi chiese infine.

Io sorrisi ed annuii.
 -Ecco... non vorrei neanche dirtelo, ma... dopo il colloquio con papà sono crollata. Pensavo di essere più forte... però ho incontrato Raffaele, e... mi ha consolata. Mi ha anche anche spiegato come sono andate le cose quando ci siamo lasciati... però, ti prego, non farmi ripetere tutto di nuovo. L'importante è che sto meglio no?- sorrisi, e mia madre fece lo stesso.

Mi carezzò la spalla:

-Hai ragione. Sono contenta se tu sia felice-.
 Anche io lo ero, ma mi sarebbe piaciuto che anche per lei le cose andassero meglio.

La guardai con affetto mentre si dava da fare per lavare i piatti.

Era l'affetto creato dal cameratismo per l'aver sopportato un dolore insieme, essercelo spartito cercando di non farlo pesare troppo sulle spalle dell'altra.     

 

Miharu, mi spiace di averti fatta piangere :( davvero, trovo terribile quello che è successo a te... a te, cavolo, non ad Angela... però ti ringrazio per i complimenti, che nonostante tutto mi hai fatto... sei davvero un mito :) E allora, giusto per far passare il punto drammatico della storia prima che tu parta, sto pubblicando a go go, così almeno parti felice :) 

(oooh, ecco che mi sento utile almeno a qualcosa xD)

 

E invece volevo tranquillizzare Sirio: bella, tranquilla... ho intenzione di pubblicare, pubblicare, pubblicare, fino a quando non vi sarete rotti le balle xD

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Capitolo 29
*** 7) vivere ***


Mi svegliai precedendo di un paio di minuti il suono della sveglia: era incredibile come il tempo passasse più in fretta quando eri sotto le coperte, al caldo e al sicuro. Fuori il sole era appena sorto, e gli usignoli cantavano allegramente. Era la prima volta che li sentivo.

Bloccai la sveglia prima che potesse scampanellare, come se mi volesse sgridare per essere ancora a letto.

Mi coprii per un istante sparendo sotto le coperte, poi con un gridolino balzai giù dal letto: ero felice. Piroettai fino alla finestra spalancandola, e l'aria gelata scosse la stanza svegliandola del tutto. In bagno mi lavai spruzzando getti d'acqua sullo specchio e poi volteggiando nell'asciugamano.

Forse non era giusto sentirsi così elettrizzati, ma pensai che fosse un premio per essere sopravvissuta alla giornata precedente, un contrappasso per il ruzzolone sulle biglie.

E poi quel giorno avevo una missione da compiere: un migliore amico da ritrovare.

Ero stata ingiusta con Corrado, dopo tutto lui doveva aver sofferto non poco. Avevo succhiato l'orgoglio dal biberon, ma era tempo di cospargermi il capo di cenere e chiedere scusa.


 Entrai in classe un'ora dopo trattenendo il respiro. Salutai i miei compagni e vidi che Corrado non era ancora arrivato. Molto bene.
 -Silvana?- chiamai. Lei si girò verso di me:
 -Dimmi-.
 -Credo che tu possa tornare vicino a Maddalena se ti va. Grazie per essere stata d'accordo ad essere mia vicina di banco- le sorrisi.
 -Vuoi dire che tu e Corrado avete fatto pace?- domandò aprendosi in un sorriso.

Io mi strinsi nelle spalle:
 -Non ancora, ma volevo parlargli...-
 -D'accordo. Sono contenta...sembravi stare proprio male. Ma...con Raffaele?- chiese esitante.
 -E' tutto ok. Mi ha detto come sono andate le cose...- A quel punto anche Maddalena prese parte alla conversazione:
 -Siete tornati insieme?- sorrise speranzosa.

Io annuii.
 -E' meraviglioso!- mi abbracciò, sinceramente. Apprezzai fino in fondo quel gesto.
 -In realtà mi ha anche proposto di leggere i messaggi, per convincermi che la sua sia la verità, ma io ho rifiutato. Voglio fidarmi...-.

Ripensai a quando ci eravamo sentiti la sera prima. Ero contenta.
 -Senti Angela, mi dispiace di essere stata io la portatrice di tutte quelle brutte notizie...- Maddalena abbassò lo sguardo.
 -Stai tranquilla, non sono mai stata arrabbiata anche con te- la rassicurai.
 -Oh...
 Corrado era entrato in classe e aveva visto la mia tracolla al banco vicino al suo.

Lasciai le mie amiche e lo raggiunsi. Ci fu un attimo di silenzio, poi parlai:
 -Senti... mi dispiace, sono stata ingiusta con te. Non avevo nessun motivo per prendermela a quel modo in queste settimane- dissi tutto d'un fiato.

Lui sorrise mesto:
 -No, avevi anche ragione. Non mi sono comportato poi così bene...-.

Altro silenzio.
 -Raffaele mi ha detto cosa ti è successo ieri. Ha detto che sei stata poco bene...no, in realtà ha detto che eri uno straccio. Mi è dispiaciuto un sacco. Però...in ogni caso puoi contare su di me, ok?-

Altro silenzio.

Sentii una tortura che finiva, come se fino ad allora avessi respirato limatura di ferro e solo ora che era finita me ne stessi rendendo conto.
 -Ok. Grazie- sorrisi.

Lui fece per girarsi, quasi imbarazzato per quello scambio di battute sdolcinate. Ghignai e pensai di lasciarlo fare, poi però non mi trattenni:
 -Ooohhh broccolò!- gridai cercando di sembrare il più cafona possibile.

Lui si girò.
 -Eh?-

Non ebbe il tempo di dire altro: gli gettai le braccia al collo e lo strinsi a me, felice di sentirlo ancora così vicino.

Lui mi stritolò le costole, sollevato. Se non fosse entrata la professoressa sarei tornata a casa con le ossa a pezzi. Ma il morale sarebbe rimasto sopra le stelle.
 Per tutta l'ora chiacchierammo, in barba alla prof che ci richiamò più volte. Lui mi disse che Raffaele gli aveva raccontato la storia di mio padre e mi chiese se mi avesse dato fastidio; io risposi che al contrario ne ero sollevata, perché mi evitava di dover rivivere tutto.

Mi disse che avrebbe picchiato volentieri mio padre, anche se alla fine considerò che proprio a causa sua io ero finita a Polverano e quindi ci eravamo conosciuti. Mi chiese come mi sentissi, e io risposi che ero felice. Del malore del giorno prima non era rimasta traccia.
 Fu bello tornare come un tempo: a ricreazione io e lui raggiungemmo Raffaele, come se l'ultimo periodo non fosse mai esistito.

Fu bello notare che erano ancora amici: vederli che si picchiavano quel giorno era stato orribile, come se il mondo si fosse rovesciato.
Prima di tornare in classe, mi fermai a chiacchierare con Silvana, Maddalena e Gemma.

Quest'ultima sembrò addirittura più silenziosa del solito, come se qualcosa le impedisse di parlare. Spiccicò solo un "ciao" strozzato e, quando la campanella suonò, schizzò via su per le scale, quasi aspettasse con ansia la prossima lezione.
 -Ma quella non parla?- ghignò Corrado guardandola salire i gradini quasi volando.
 -E' solo spaventosamente timida- dissi.
 -Credevo che a una certa età si smettesse di essere timidi-.
 -Che dire? Se non altro quando parla non è per dire stupidaggini. E poi secondo me è tutta da scoprire-.
 Corrado la guardò come se volesse mangiarla, prima che lei sparisse dopo il pianerottolo.
 -Se solo si vestisse un po' più...femminile, sono d'accordo che qualcosina ci uscirebbe- sentenziò.

Io sbuffai:
 -Non in quel senso! Intendevo dire che secondo me c'è del buono, sicuramente di più che in molte delle persone che conosciamo, solo che non lo tira fuori-.
 -Oh. Bé, abbastanza stupido, non trovi?-
 -Forse...- mi strinsi nelle spalle e tornammo in classe.

In tutto il casino che era successo, Gemma era quella che alla fine ne era uscita peggio: aveva litigato furiosamente con la sua migliore amica, ed ora a parte la nostra compagnia era rimasta completamente sola. Non sapevo neanche se avesse un ragazzo, o altri amici al di fuori della scuola.
 Manco a farlo apposta, dopo le lezioni fece un pezzo di strada insieme a me, Maddalena, Silvana e Corrado, ma solo su richiesta di Silvana.

Quando però lei e Maddalena si allontanarono verso la fermata del loro autobus, tornò ad essere taciturna, in un modo che mi faceva sentire in imbarazzo. Ma dalla sua espressione capivo che la prima a vergognarsi di quell'assenza di parole era proprio lei.
 -Oggi Raffaele esce un'ora dopo di noi, vero?- chiese Corrado.
 -Non ricordi neanche gli orari di tuo fratello?- esclamai ridendo -e comunque se fosse uscito alla nostra ora l'avrei aspettato-.
 -Ci sei tu che li ricordi, perché devo faticare io?- rispose lui -guarda che avere un fratello è proprio una faticaccia- disse sarcastico.
 -Se vuoi puoi regalarmelo- sorrisi.

Corrado scosse la testa:
 -Non voglio diventare zio così giovane- ghignò.

Cercai di tirargli un calcio nello stinco, ma lo mancai. Lui scoppiò a ridere:
 -Ah ah! Si vede che sei figlia unica!-
 -Cosa c'entra?-
 -Che se avessi avuto un fratello o una sorella sapresti tirare calci agli stinchi divinamente. Non sai quante ce ne davamo io e Raffaele da piccoli!-
 -Povero! Magari sarebbe stato meglio che uno di voi due fosse uscito femmina. Tu saresti dovuto essere femmina. Le sorelle sono migliori- dissi.
 -Non ci contare...- il borbottio fu così basso che ce ne accorgemmo a malapena, eppure era finalmente uscito.

Gemma sembrò pentirsene.
 -Davvero? Hai una sorella?- chiesi sollevata. Che bello avere un argomento di cui parlare.
-Magari una...- Lei sbuffò. Poi incrociò i nostri sguardi interrogativi e si decise a rispondere per bene:
 -Due sorelle e un fratello maggiori e un fratello minore. Lo so... sembriamo una famiglia tipo quelle dell'ottocento, ma me la devo tenere...- sorrise rassegnata.

Io e Corrado restammo basiti:
 -Mi stai dicendo che siete in cinque??- esclamò lui.

Gemma arrossì e chinò la testa, in modo che un ciuffo di capelli le nascondesse il viso.
 -Già...-
 -Ma è fantastico!- esclamai.

Mi sembrava il massimo avere quattro fratelli in giro per la mia casa, sempre troppo solitaria. Certo, pensai che con i casini tra i miei sarebbe stato un po' scomodo, ma se una coppia era abbastanza affiatata da generare cotanta prole, allora doveva essere fin troppo solida.

Gemma però non la pensava così:
 -Magari fossimo uniti come voi- disse accennando a Corrado, sottintendendo Raffaele, -invece ormai la maggiore di noi ha finito la scuola e sta studiando all'università in città, quindi non la vediamo spesso; gli altri due non si sopportano e stanno sempre a litigare anche per le cose più futili... e il più piccolo è il principe di casa. E' seccante stare sempre in mezzo a loro...- sospirò; sembrò volesse aggiungere qualcosa, ma ci ripensò e rimase zitta.
 -Lo credo...ma sembra comunque fico. Insomma, non sei mai sola no?- Corrado sorrise incoraggiante.
 -E ti sembra bello? Convivo con loro, a casa, a scuola, sull'autobus...già se riuscivo a ritagliarmi un po' di tempo con i miei amici era tanto-.

Notai l'uso del passato. Che brutta cosa.
 -A scuola? Ma quanti anni hanno?-
 -La maggiore, Patrizia, ha ventitré anni. E' quella che abita in città, forse per questo con lei vado più d'accordo...non c'è mai- riuscì addirittura a ghignare prima di riprendere -Sabrina ne ha diciotto, fa l'ultimo anno nella nostra scuola. Renato ha un anno in meno di lei, ma va allo scientifico. Poi ci sono io e infine Lucio che ha tredici anni e va ancora alle medie. Lo chiamiamo ancora il piccolo, anche se ormai è quasi più alto di Patrizia. Oh, e poi c'è il gatto di Renato e il criceto di Lucio a completare il quadretto-.
 -Oh- Non riuscimmo ad aggiungere altro.
 -Secondo me deve essere divertente- sentenziò Corrado.

Gemma rispose solo con un "Eh!" da chi la s lunga e, poco dopo, ci salutò per girare verso la fermata del suo autobus.
 -Ecco, ovviamente c'è Sabrina ad aspettarlo. Che vi avevo detto?- sospirò sconsolata e raggiunse la sorella.

Noi continuammo a camminare, mentre Corrado allungava il giro pur di farmi compagnia fino a casa.
 -Bè, almeno adesso so che non è muta- disse riferendosi a Gemma.
 -Te l'ho detto. Ti immagini che figata avere tutti quei fratelli?-
 -Già... hai sempre qualcuno di diverso da far innervosire- ghignò.

Lo guardai scandalizzata:
 -Tu andrai al'inferno, nel girone di quelli che seminano zizzania. Non ricordo come si chiama. Comunque, pensavo che però può essere anche un po' stressante...insomma, secondo me Gemma fatica anche un bel po' per farsi notare lì in mezzo-.
 -Bah, allora è il caso che impari ad imporsi, se non vuole che le vengano messi i piedi in testa. Il mondo non è fatto per i deboli- rispose duramente lui.
 -Non credo che lei sia affatto debole. Non so perché, ma mi sembra tosta, anche se a suo modo-.
 -Davvero?-
 -Se vuoi sapere la mia, è molto più tosta lei di Morena, giusto per farti un esempio-.
 -E da cosa lo deduci?-

Mi strinsi nelle spalle, prima di dare la mia patetica risposta:
 -Non lo capiresti-.
 -Invece ho capito perfettamente. Però può essere anche più tosta di Morena, ma Morena è mooolto più bona. Almeno concedimi questo- sorrise.
 -Forse...o forse no. Gemma è carina-.
 -Sì, se solo si levasse i capelli da davanti agli occhi. Sembra così patetica-.
 Sospirai, poi girai l'angolo e sbucai davanti casa mia.
 -Ti fermi un po'? Tanto a casa dovrai aspettare Raffaele no?- chiesi.

Lui scosse la testa:
 -Grazie, ma preferisco tornare a casa. Può darsi che mia mamma mi stia aspettando- rispose.
 -Come vuoi... allora ci sentiamo oggi-.

Arrivata a casa, sentii il cuore leggero come non lo era da settimane: Corrado, il mio migiore amico, era ancora al mio fianco. Raffaele, il mio ragazzo, era ancora il tesoro di cui mi ero innamorata. Avevo trovato amiche che avevano dimostrato di tenere a me. Avevo forse trovato pace per quanto riguardava la questione di papà. 

E allora, si tornava a vivere... a vivere meglio di prima.

Perché il dolore mi aveva temprata, perché ero sollevata dall'averlo superato e perché ero ormai certa che per ogni cosa che va storta ce n'è una che ristabilizza la situazione.

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Capitolo 30
*** Corrado - 1) la fine ***


Corrado

Fissavo le parole senza comprenderle, con lo sguardo fisso sulla fotocopia irta di appunti e tratti di matita; soffocavano il testo latino a cui avrei dovuto trovare senso e significato, e non mi aiutavano affatto.
Non ce la facevo, non quel pomeriggio.
A che pro? A cosa mi serviva perdere tempo? Per strappare un altro sette? E per farci cosa? Scossi la testa e cercai di concentrarmi: non avrei permesso che una sgallettata sul modello di Morena potesse essere la causa dell'abbassamento della mia media scolastica.
Sfogliai il mastodontico vocabolario alla ricerca di un esempio che mi aiutasse nella traduzione. Trovai una colonna piena di significati di un unico verbo e vacillai, ma non mi persi d'animo: sarebbe bastato cercare, se fossi stato sulla strada giusta il significato sarebbe uscito immediato.
Evidentemente però non ero sulla strada giusta, non c'era niente che potesse aiutarmi. Oh, cavolo, ecco perché: stavo cercando un nome tra i significati di un verbo. Ma come era possibile essere così rincretiniti?
Gettai le braccia sconsolato sulla scrivania, alzando lo sguardo; stavo su quella versione da talmente tanto tempo che la luce da fuori era completamente sparita, e l'unica cosa a rischiarare l'ambiente era una lampada da tavolo puntata sul mio tentativo di traduzione, cancellato e ricancellato.
Mi sentivo come se ci fosse un lucchetto a serrare la mia mente, che non mi faceva comprendere ciò che era sempre stato tutto sommato facile per me. Capii che avrei potuto rimanere chino sulla versione anche fino a mezzanotte, ma sarei rimasto allo stesso punto.
Lo sguardo vagò sconsolato per tutta la stanza, talmente in disordine da mettere depressione, fino a fermarsi alla causa di quel blocco mentale: gettato sulla scrivania, a pochi centimetri dalle mie dita, un elastico colorato giaceva pieno di polvere.
Lo presi e me lo intrecciai tra il pollice e l'indice; era buffo e particolare, come un sottile nastro arricciato su se stesso, che comprendeva tutte le sfumature di colore tra il rosa e l'arancione.
E il pensiero tornò subito alla proprietaria, a come le stava bene e al fatto che non sarebbe mai più venuta a riprenderlo.
Carolina... Non la vedevo da un sacco di tempo: forse era meglio così, nessuno di noi ne avrebbe sopportato la presenza. Ma, se per Raffaele o Angela rappresentava la potenziale vittima di un omicidio da parte loro, per me era esattamente il contrario: la volevo a tal punto da starci male fisicamente, avevo voglia di tornare a vederla volteggiare sui pattini o di sentirla fantasticare sui suoi viaggi in Nevada.
Aveva costruito la sua identità così perfettamente che la percepivo in ogni singola cosa. Mi mancava troppo, tanto...
 Raffaele entrò in camera accendendo la luce:
 -Studi al buio?- chiese.
Poi vide il mio sguardo fisso sull'elastico. Rimase per un po' in silenzio, prima di tentare:
 -Non credi sia il caso di gettarlo, una volta per tutte? E' una settimana che ti incanti davanti a quell'affare, è ora di farla finita-.
Strinsi le labbra:
 -Hai ragione- mormorai.
Lui si avvicinò alla scrivania e sfilò il quaderno su cui avevo provato a scrivere la versione; lo guardò per un secondo scandalizzato e lo gettò di nuovo dove l'aveva preso.
 -Non riesci neanche più a tradurre una favoletta di Fedro? Ma come puoi sopportare di stare così?- esclamò.
 -Infatti non lo sopporto-. 
 -Ti stai rovinando. Non puoi permetterlo-.
Capii a cosa si riferiva: un paio di giorni prima avevo riportato a casa uno splendente quattro all'interrogazione di storia.
L'episodio mi bruciava ancora: sentivo ancora la voce della prof che si chiedeva, con lo stesso tono di voce che aveva appena usato Raffaele, come fossi potuto passare dal sette e mezzo a un palese quattro. Ma come lo spieghi a una professoressa ultracentenaria che ci sono momenti in cui l'ultima cosa che riesci a fare è studiare Carolingi e longobardi compresi di tutte le date? Erano rimasti tutti scossi dalla mia performance, ma solo Angela seppe di avere il permesso di parlarmi.
Mi si era avvicinata e mi aveva guardato con quel suo sguardo duro, di chi ti impone qualcosa per il tuo bene.
 -Uccidila- aveva detto -vederti così depresso a causa sua mi fa impazzire-.
Ma Carolina sbucava tra i miei pensieri arrogantemente, non le importava dei danni che causava. Ormai esisteva solo lì, e per quei pochi strascichi la volevo conservare. Masochismo.
 -Ormai non ce la fai a finire la versione, tra un po' si cena. Fai prima a fartela passare su internet da qualcuno della tua classe. Però- e a questo punto mi si avvicinò -bada che se non ti riprendi saranno dolori. Non sei morto, puoi ancora vivere, senza che ti rovini per quella-.
Mi diede un pugno amichevole sulla spalla e fece per andarsene.
-Ah, dimenticavo. Se permetti...- si riavvicinò e mi sfilò l'elastico dalle dita, poi lo tese fra l'indice della mano sinistra e il pollice della destra e lo lanciò dall'altra parte della stanza.
Uscì dalla stanza sospirando esasperato prima di chiudersi piano la porta alle spalle.
 Essere tornato amico di Raffaele mi aveva sollevato da un peso enorme: era innaturale trattarlo come uno scarafaggio quando ci trovavamo a casa. Non parlavamo, neanche per chiederci cose stupide come "passami il sale" quando eravamo a tavola; appena mettevamo il piede fuori di casa, pur di non vederci, prendevamo due strade diverse per raggiungere la fermata dell'autobus, quando addirittura non uscivamo ad orari differenti.
Ci evitavamo come si evitano i lebbrosi e gli appestati. I nostri genitori non sapevano dove sbattere la testa: messi di fronte al nostro silenzio ostinato, i primi tempi continuavano a fare domande su domande; solo dopo un po' Selina capì che sarebbe stato meglio lasciarci perdere. Eppure l'atmosfera era soffocante: come potevo sopportare di non rivolgere mai più la parola a mio fratello?
 Poi quel pomeriggio Raffaele era uscito per andare a una lezione di ripetizione di matematica. E l'ultima cosa che mi sarei aspettato, dopo che era ritornato con un palese ritardo e che per questo era stato sgridato duramente dai nostri genitori, era che salisse di corsa a cercarmi e che biascicasse trafelato: "Angela è crollata. Sta male".
Ricordavo la caduta del nostro muro di ostilità e io che chiedevo spiegazioni, lui che raccontava la storia di Angela e io che inorridivo man mano che andava avanti.
Poi il lungo silenzio che era seguito, mentre entrambi pensavamo agli ultimi giorni.
 -Comunque...io e Angela abbiamo parlato. Le ho spiegato come sono andate le cose. Lei mi ha perdonato. E...dice che le manchi anche tu-.
Altro silenzio.
 -Spiega anche a me come sono andate le cose- ero riuscito a dire.
E lui aveva spiegato tutto, coronando il tutto con delle scuse generali.
Altro silenzio.
 -Ok. D'accordo. Diciamo che...ok- avevo sbuffato, incapace di trovare le parole. Poi avevo optato per la soluzione più semplice: -Amici come prima?-
 -E me lo chiedi?- Raffaele mi aveva dato un pugnetto sul braccio, ed entrambi avevamo sentito quell'asfissiante capitolo che si chiudeva.
 Ed ora tutto era tornato come prima. Cioè, quasi tutto.
 In ogni caso, la vita continuava. C'erano i miei amici, c'era la scuola, c'era Angela felice perché sua madre le aveva permesso di tenere quel povero gattino che ogni volta ritrovava accoccolato sul davanzale della finestra...

 Poi un giorno rividi Carolina: era un sabato assolato, dove nelle chiazze di suolo bagnato dal sole faceva anche relativamente caldo.
Io, Raffaele, Angela e altri amici eravamo usciti a fare un giro, come il sabato concedeva, ma annoiati ci eravamo ritrovati nei pressi della pista di pattinaggio, che continuava ad essere il luogo più frequentato di tutto Polverano.
Guardavamo la gente pattinare mentre scherzavamo e chiacchieravamo del più e del meno. Lei non stava pattinando, ma era appoggiata alla staccionata insieme a un paio di amiche. Teneva una sigaretta tra le dita e rideva rumorosamente, mentre spaziava con lo sguardo in cerca di conoscenze.
Carolina, la ragazza bella e maledetta delle canzoni di Ligabue, quella che non chiede mai il permesso, entra nella mia vita solo per fare casini e non lo sa, non immagina. Guarda il mondo come se fosse tutto una sorpresa dell’ovetto kinder.
Quando i nostri sguardi si incrociarono mi si avvicinò sorridendo. Cercai di spostarmi, tenendola lontana da Angela e Raffaele.
 -Ehilà- salutò.
Strinsi le labbra in un'espressione ostile; aveva il coraggio di venire a salutarmi? Non si rendeva conto di ciò che aveva combinato? Poi mi venne in mente che probabilmente da quando aveva litigato con Gemma doveva aver troncato i contatti con tutto il resto. Forse non sapeva neanche tutto ciò che aveva provocato.
Ma trovarmela lì davanti mi rendeva confuso: quante volte avevo sperato di parlarle... da una parte la amavo, volevo averla per me; dall'altra riuscivo solo ad odiarla. Era un testa a testa che destava qualche preoccupazione.
 -Cos'è, non parli?- tirò una boccata dalla cicca.
 -Non sapevo che fumassi- sibilai.
Le guardò teneramente la sigaretta, poi sorrise con aria di sufficienza:
 -Avevo smesso, ma da poco meno di un mese ho ricominciato. Ma è un sacco di tempo che non ci vediamo, che fine hai fatto? Raccontami un po' di novità-. Credo che stessi sbuffando fumo dalle narici, tanta era la furia.
 -Credo sia stato meglio non vederci. Magari dovremo continuare così- dissi, sapendo che non era quello che volevo.
Eppure era quello che dovevo fare. La sua espressione cambiò:
 -Fammi indovinare: Gemma ha spifferato tutto alla tua amichetta rossa, vero?-
 -No. Non è stata lei. Io l'ho saputo da Maddalena. E in ogni caso "la mia amichetta rossa" ha un nome- sibilai.
 -Si certo. Mbè, mi vuoi tenere il muso per questo? Se ti può far piacere sappi che ho lasciato perdere con tuo fratello-.
 -Meglio per te. Adesso però meglio se ti allontani. Non è che mi faccia poi così piacere vederti-.
Carolina tirò un'altra boccata:
 -Davvero?- mi squadrò per un attimo, come valutandomi. -Peccato- disse.
Mi soffiò il fumo in faccia. Arricciai il naso infastidito:
 -Mi fa schifo l'odore del fumo, evita di rifarlo-.
 -Di fare cosa?- Chiese innocentemente -guarda che è stato il vento, che ce l'hai in favore-.
 -La metti così? D'accordo- le voltai le spalle -adesso sono controvento-.
Feci per andarmene, ma lei mi prese per il braccio e cercò di farmi voltare. Non riuscendoci, balzò davanti a me:
 -Eddai smettila...non ti va di tornare amici?- sorrise.
 -Non penso proprio. Non sai neanche i casini che hai combinato-.
 -Ah sì? Racconta un po'-.
 -Sono solo fatti nostri-.
 -Nostri?- ammiccò a Raffaele e Angela.
 -Esattamene-.
 -E se a me non importasse? Tanto lo scoprirò comunque, quindi tanto vale che mi racconti ora-. Ghignò.
Quel ghigno che avevo sempre ricordato tanto carino adesso mi sembrò una smorfia di cattiveria.
 -Non credo che riuscirai a scoprirlo. E in ogni caso perché ti interessa?- chiesi.
Lei si strinse nelle spalle:
 -Voglio sapere cosa si dice di me, se permetti-.
 -Dovresti saperlo- sorrisi sarcastico, lasciandole intendere la risposta.
Lei incrociò le braccia, ostile:
 -Immagino che Gemma ne abbia dette di tutti i colori su di me-.
 -No. Lei non parla. Non ti rendi conto che ti sei comportata proprio da quello che sembri?-
Carolina arricciò la bocca, senza trovare una risposta. Poi tornò la smorfia:
 -Già, ci credo che quella non parla. Chissà dove vuole andare senza di me-.
 -Credi davvero di essere così importante?-.
Lei annuì.
 -Come no. Senti un po', io preferisco andare. Addio- questa volta me ne andai senza sperare che mi acciuffasse un'altra volta.
Raggiunsi i miei amici e cominciai a chiacchierare come se non l'avessi mai incontrata.
 Angela e Raffaele non si erano accorti di niente. Ovvio, erano presi l'uno dall'altra...ne fui felice. Più tardi avrei raccontato loro della mia conversazione. Mio malgrado però mi ritrovai a cercare Carolina con lo sguardo, fino a quando non la vidi che era tornata con le sue amiche. Aveva cacciato un'altra sigaretta, e adesso ci stava giocherellando nell'attesa che un'amica le prestasse l'accendino. L'amica lo trovò e glie lo passò. Lei fece lampeggiare la fiamma, ma quella sparì subito. Provò più volte, ma il vento glie la portava sempre via. Controvento.     
 Quel giorno i suoi occhio erano azzurri azzurri, come due pietre preziose.
Inspirai; io non aspettavo altro che tornasse.
Io la volevo, la amavo, l'avevo cercata per tutto quel tempo.
Ma… dopo tutto ciò che aveva fatto passare a me e ai miei migliori amici? Dopo che avevo visto di cosa era capace, mi chiedevo quanto tempo sarebbe rimasta con me. Molto, molto poco.
E a questo punto le cose cambiavano: non mi importava del sacrificio, del rinunciare a una soddisfazione effimera. La vita sarebbe andata avanti anche senza di lei. In quel momento mi sembrava un concetto impossibile da intendere, ma i due emisferi della mia mente non si sarebbero mai fusi di nuovo assieme se lei avesse continuato a gironzolare attorno a noi; a questo ci arrivavo.
Lei cacciò l'ennesima boccata dalla sua sigaretta. Soffiò il fumo fuori dalla bocca come se fosse un vento esotico.

Raffaele ed io tornammo a casa chiacchierando del più e del meno. Cercavo di soffocare il pensiero di Carolina...
  Per rendere la cosa ufficiale avevo bisogno ancora di un gesto da compiere.
Una cosa per la quale mia madre sarebbe stata capace di uccidermi se mi avesse scoperto. Eppure non mi importava: certe cose erano al di sopra di alcune patetiche fissazioni di eventuali genitori ansiosi.
 Salii in camera e, dopo aver perlustrato il pavimento, scavando tra mucchi di libri, calzini e vestiti, trovai quello che cercavo: un elastico tra il rosa e l'arancione, come un nastrino arricciato su sé stesso.
Lo presi e lo strinsi nel pugno, poi ebbi bisogno di uno degli accendini di mio padre. Cercai nel salotto, dove Raffaele stava facendo zapping, sperando di vedere almeno la fine di un film sul sesto canale. Vedendomi aggirarmi su e giù per il salotto, si incuriosì:
 -Cosa cerchi?- chiese proprio quando trovai l'accendino.
Io gli mostrai i due oggetti senza dire una parola.
 -Cosa hai intenzione di farci?- esclamò. Sorrisi e gli dissi di seguirmi in bagno.
 Accesi la luce, chiusi la porta e mi avvicinai al water.
Raffaele aveva capito e mi lanciava occhiate torve e rassegnate.
Tenni l'elastico tra la punta delle dita sopra il water, poi accesi l'accendino e lo avvicinai fino a quando l'elastico non prese fuoco. Aspettai che la fiamma si alzasse e, prima che mi raggiungesse le dita, lasciai cadere quell'ammasso di fiammelle nel gabinetto. Cadde con uno splash sordo nell'acqua e le fiamme affogarono, lasciando sul fondo del sanitario un cerchio bruciacchiato.
Senza dire una parola, lo scaricai nelle fogne.
Dove si sarebbe trovato a suo agio, senza dubbio.

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Capitolo 31
*** 2) la notizia ***


Non per la prima volta, desiderai essere impegnato in qualche attività extra-scolastica: qualche sport, sarebbero andati bene tutti, o magari suonare uno strumento.
Qualcosa che riuscisse a distrarmi dalla monotonia della vita, perché quest'ultima gravitava, come quella della maggior parte dei miei coetanei, attorno alla scuola: la mattina rinchiusi in quel palazzotto troppo piccolo, il pomeriggio a studiare come un forsennato e la sera a farsi passare le versioni, o magari a correggerle, che suonava meglio. A stabilizzare la situazione c'erano gli amici, con cui spendevo ogni secondo del mio tempo libero, spremendolo a fatica. Eppure tutto era così noioso...

 Una mattina di fine marzo ero come al solito in catalessi sul banco, mentre la professoressa leggeva appassionata il primo coro dell'Adelchi di Manzoni, ignara degli studenti che non la stavano affatto ascoltando.
Angela scarabocchiava distrattamente sul margine del libro, con lo sguardo assente e la testa poggiata sul palmo della mano.
Al banco dietro il nostro, Sergio e Adriano giocavano a morra cinese sotto il banco, segnando i punti in quella che stava diventando una colonna di crocette lunga quanto il banco.
Maddalena leggeva un libro, nascosta dietro una barricata costruita unendo i suoi articoli di cancelleria e quelli di Silvana. Quest'ultima sembrava prendere appunti, ma in realtà stava disegnando qualcosa di simile alla caricatura di Ermengarda intenta a mangiarsi con gli occhi Carlo Magno che cacciava. Ludovica stava scrivendo qualcosa, ma forse anche lei era lontana dall'argomento su cui avrebbe dovuto prendere appunti: scriveva, anche quando la prof rimaneva in silenzio. Forse un cruciverba.
L'unico immune alla distrazione collettiva era Davide, uno di quei secchioni che paradossalmente era stanziato al'ultimo banco dall'inizio dell'anno.
Il suo vicino di banco, forse per fare almeno finta di tenergli testa, annuiva periodicamente alla prof ogni volta che questa alzava lo sguardo. Ma l'espressione annoiata vinceva su tutto il resto.
Mi stiracchiai; come sarebbe stato bello se adesso qualcosa avesse distratto talmente tanto la professoressa da indurla a uscire dalla classe per sistemare qualche faccenda burocratica, o magari per parlare con qualche genitore che se ne era fregato degli orari di ricevimento... Si udì un bussare alla porta.
In un primo momento la prof non ci fece caso, tanto era presa dalla sua lettura e dai significati nascosti in quell'opera. Puah, la metà se li stava inventato: se lo stesso Manzoni ci fosse stato interrogato, avrebbe preso un bel tre.
Ma il bussare si fece più insistente, fino a quando lei non se ne accorse: -avanti!- esclamò, come se l'avesse già detto ma non si fosse sentito.
Una bidella fece capolino nella classe. Tutti la accolsero con un sospiro di sollievo, lieti di avere una scusante per distrarsi.
La bidella si mosse goffamente tra i banchi fino a raggiungere la cattedra, dove diede un foglio alla prof.
Cercò di chiacchierare un po' del tempo, complice di noi studenti, ma la prof la liquidò dopo averla ringraziata. Lei se ne andò alzando le spalle.
 -Professoressa, cosa dice il foglio?- chiese Ludovica. Una delle poche che aveva il permesso di rivolgere la parola così leggermente alla prof, certa che avrebbe avuto una risposta.
 -Mah...parla della gita- rispose la prof.
L'atmosfera in classe cambiò come se ognuno avesse bevuto una dose di troppo di caffè: tutti rizzarono la testa, sorrisero, si girarono verso i compagni, esaltati e facendosi domande.
 -Davvero? Dove andiamo?- esclamò Ludovica.
 -Scavi di Pompei ed Ercolano. Alla fine del mese...vedete di sbrigarvi a portare i soldi- la prof mise da parte il foglio.
L'esaltazione si sgonfiò come un palloncino aperto:
 -Pompei?Ma a Pompei ci si va in quinta elementare!- esclamò Angela indignata.
 -Ci hanno sempre portano lì, non è giusto!- si lamentò Sergio.
 -Ragazzi, sarà interessante! Adesso che sapete greco e latino, capirete molto di più-.
La prof cercò di infonderci un po' di interesse, senza riuscirci: la prima a non sorridere alla prospettiva di dover portare cinquanta alunni scalmanati in giro per un sito archeologico era proprio lei.
 -"Sapete", per modo di dire!- sibilò Angela sorridendo.
 -Prof, ma quanto dura la gita?- chiese speranzosa la compagna di banco di Ludovica.
 -Quanto vuoi che duri? Fortunatamente, solo un giorno. Senza che facciate finta di ignorarlo, non farete gite più lunghe di un giorno durante il ginnasio. Sono le regole della scuola-. Ovvio. Sbuffammo.
 -Professoressa, con quale classe andremo?- chiese una voce dall'ultimo banco.
La professoressa ispezionò il foglio prima di rispondere:
 -Mmm...sezioni partecipanti, quinto A e quinto B-.
Angela emise un gemito: niente Raffaele in gita.
Ma un pensiero mi attraversò la mente, trapassando come un ago gli emisferi che si stavano cicatrizzando.
Spostai lo sguardo e vidi Maddalena e Silvana che bisbigliavano elettrizzate. Io invece mi voltai verso Angela:
 -Ci sarà Carolina!- esclamai.
Lei mi guardò mordendosi il labbro, poi si impose un tono neutro:
 -Bé, non sarà un problema. Perché dovrebbe ancora importarti?- cercò di tirarmi su di morale.
 -Già, hai ragione...- dissi giusto per farla contenta. No, no...
 -Che bello, ci sarà anche Gemma!- disse Angela.
 -Oh, è vero. Bah...- non era di lei che mi interessava.
 Ma era come diceva Angela no? Cosa mi importava? Decisi che avrei fatto finta che Carolina non esistesse.
D'altra parte, era proprio quello che mi ero proposto. Avevo anche bruciato l'elastico. Era ora di smetterla.
 La lezione continuò come prima, dopo la breve parentesi della comunicazione della gita.
L'unica differenza era che tutti adesso avevano qualcosa di nuovo a cui pensare.

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Capitolo 32
*** 3) il talento ***


Polverano in primavera sembrava come una persona cagionevole che si riprende da una brutta malattia: prima tutto è grigio e buio, l'aria frizzante e gelata ti sferza le guance e, se non tieni le mani in tasca, le dita ti si congelano rischiando di far cadere le dita una dopo l'altra.
Poi si inizia con una giornata di sole particolarmente calda, nella quale nessuno esita ad andare in giro tenendo i cappotti in mano, giusto per creare l'illusione di un caldo che non sia effimero; dopo una ricaduta a temperature polari, pian piano il freddo cede il posto a un'aria frizzantina e allegra, accompagnata da venti freddi che spazzano le strade facendo volare le cartacce dai marciapiedi.
Eppure il clima sembra più caldo; il tutto viene suggellato dalla fatidica frase: "il peggio è passato", ripetuta fino allo sfinimento dai vecchietti sull'autobus.

 Tuttavia quell'anno la primavera si fece attendere: ci fu un mese intero di pioggia e cielo coperto, prima che i raggi di sole si insinuassero tra le montagne.
 Marzo passò in un lampo; fu il periodo dei primi compiti in classe del secondo quadrimestre e del compleanno di un bel po' di gente, fra cui Silvana.
 Quando ci invitò per festeggiare i suoi sedici anni accettammo senza esitazioni; disse che aveva invitato tutta la classe e un po' di altre persone, non volevo lasciarmi sfuggire l'occasione di distrarmi un po' dalla mia solita monotonia.
 Alla festa c'era anche Gemma. Sembrava strano vederla sperduta, nella casa piena di gente, mentre tutti si davano da fare per divertirsi il più possibile, approfittando di quella piccola parentesi incastrata alla meglio tra interrogazioni e compiti in classe.
 Angela la avvicinò subito, come se non riuscisse a vederla lì sempre in silenzio e con le braccia intrecciate sul petto.
La ammirai: sarebbe riuscita a far smuovere anche un ciocco. Com'era che aveva detto? "Quella ragazza è tutta da scoprire". Io avevo subito ricacciato la battuta più ovvia, tuttavia mi scoprii a prenderla sul serio.
Gemma non rispondeva ai canoni tipici della bellezza, o almeno non ai miei, ma non era male. Forse avrebbe dovuto valorizzarsi un po', ma i suoi lineamenti marcati erano particolari e quella sera aveva sostituito ai soliti jeans un abito di cotone, forse troppo lungo rispetto a quello che si sarebbe potuta permettere, con calze scure che finivano appena prima degli stivali (leggins, mi avrebbe istruito Angela in seguito). 
 A un certo punto Silvana cominciò a pregarla con insistenza di qualcosa che non afferrai, mentre lei si schermiva timidamente. Angela, Maddalena e un altro paio di ragazze si unirono a Silvana, ma Gemma non demordeva.
Sergio si avvicinò al gruppetto e chiese sorridendo:
 -Di cosa discutete?-
Maddalena ghignò con sguardo pestifero, ammiccando a Gemma, prima di rispondere:
 -Ho chiesto a Gemma se mi cantava qualcosa, ma lei si rifiuta...- vidi Gemma arrossire furiosamente, prima di chinare la testa e nascondersi dietro il ciuffo di capelli.
 -Sai cantare?- chiesi avvicinandomi anch'io. Questo non me lo sarei aspettato.
 -Tanto non so farlo bene, non è il caso...- biascicò la ragazza mordicchiandosi l'unghia.
 -Non è vero- disse Silvana -io e Maddalena l'abbiamo sentita, è bravissima. Ti prego Gem, solo per il mio compleanno!-
Gemma scosse la testa: -no, mi dispiace ma c'è troppa gente... e poi non posso cantare così, insomma, già sembro patetica di mio...-
 -Non sei affatto patetica- disse Angela -ti prego, mi piacerebbe molto sentirti- le prese una mano.
 -Non lo so...sono sicura che c'è gente molto più brava, perché non chiedete a loro?- supplicò.
 Le ragazze sospirarono, scambiandosi occhiate rassegnate.
 -Eureka!- esclamò infine Silvana.
Prese per mano Maddalena e la trascinò fino alla porta che divideva il rustico dove aveva organizzato la sua festa dal resto della casa.
-Aspettami lì, torniamo subito!-
Sparì su per le scale, lasciando Gemma terrorizzata.
 -Non mi lascerete cantare, vero?- guardò Angela.
 -Maddài! Secondo me ti ci vuole. Non vorresti smuoverti un po'?-
Gemma si morse il labbro, distogliendo lo sguardo.
 -Ma se poi stono, prendo una stecca...-.
 -Non è un problema!- Silvana era tornata, reggendo tra le mani una scatola che sembrava anche abbastanza pesante. Oh...karaoke. Sorrisi.
 -Ta da!! Con questo possiamo fare tutte le figuracce che ci pare e quando canterai tu non ti sentirai in imbarazzo! Allora, sono o non sono un genio?- Gongolando, Silvana cominciò a districare i fili fino a cacciare un microfono. Poi si avvicinò a una televisione nell'angolo (fino ad allora era stata inutile, sovrastata dall'impianto stereo che sparava musica house a palla, per la gioia degli improvvisati ballerini da discoteca che si limitavano ad agitarsi, ignari del mondo come se avessero raggiunto il nirvana).
 -Oh...abbiamo bisogno di Davide- Maddalena andò a chiamare il secchione di classe, nella speranza che l'aiutasse ad attaccare i fili alle prese giuste.
 Tempo un quarto d'ora e mezza classe si era radunata davanti al televisore, spingendosi per far rientrare nel proprio campo visivo le parole che scorrevano sullo schermo... ma era una cacofonia di suoni così male articolati che a malapena si sarebbe potuto dire che stessero cantando la stessa canzone.
 Gemma cercava di simulare indifferenza, chiacchierando con Angela, ma si notava che era estremamente tesa, come se ne andasse della sua vita.
Quando la gente si stancò di far finta di seguire le parole, il karaoke cessò di essere il polo di maggiore attenzione e gli invitati tornarono a disperdersi. Silvana fece cenno a Gemma di avvicinarsi, mentre metteva un'altra canzone. Ormai erano rimaste cinque o sei persone intente a gorgheggiare.
Gemma raggiunse l'amica titubante.
 Rifiutò di prendere il microfono in mano, insistendo perché lo continuasse a tenere Silvana, poi l'ennesima canzone commerciale risuonò per la stanza.
All'inizio sentii solo le cinque o sei voci che si mischiavano, poi però Gemma si decise a far uscire la propria.
 -E' brava!- esclamò Sergio nel mio orecchio.
 -No, di più... è spettacolare- risposi.
 Da dove veniva fuori quella voce? Non avrei mai creduto possibile che una creatura così piccola riuscisse in una tale impresa. Gemma si ritrovò il microfono tra le mani e ci si aggrappò come se fosse un'ancora di salvezza.
 Cantava come se impiegasse tutta la voce che non usava per parlare. Mi chiesi perché fosse stata così insicura quando le era stato proposto. Come poteva essere convinta di non esserne molto capace? Avevo sentito cantanti alla radio molto meno dotati.
 Incredibilmente, fui contento di sapere che cantava. Una voce così spettacolare non poteva essere ignorata, non doveva andare perduta. Pensai che sarebbe potuta diventare famosa. Chissà se aveva una band... sapevo che c'era gente che avrebbe pagato oro per averla. Cerai di spulciare tra le mie conoscenze, per farle sfruttare al meglio le sue capacità.
La canzone finì, ma Gemma smise di cantare prima degli altri.
 Quando tutto tacque, Angela le fu vicina in un baleno:
 -Non provare mai più a dire che non sei brava. Hai la voce più bella che io abbia mai sentito, sai?-
Gemma arrossì, mormorando un "grazie" educato. Poi tutti gli invitati le si precipitarono addosso, riempendola di complimenti e quasi soffocandola.
Lei sembrò barricarsi dietro i capelli, fino a quando Maddalena non glie li sistemò dietro l'orecchio, fermandoli con un ferretto:-lo sapevo che eri brava- le disse dandole una pacca sulla spalla.
 Gemma sorrise e raggiunse il divanetto da cui si era alzata tanto controvoglia, tormentandosi le unghie. Mi avvicinai prendendo posto vicino a lei e Angela mi affiancò all'istante.
 -Sei bravissima. Hai un gruppo in cui canti?- le chiesi.
Lei diventò se possibile ancora più rossa prima di rispondere.
 -Ehm, veramente no...-
 -Eppure i cantanti sono pochi. Se vuoi posso presentarti qualcuno. Conosco un paio di persone che suonano. Sempre se sei d'accordo-.
 Lei mi guardò, sempre a testa bassa, e sorrise:- oh...sì, perché no?-.
 -Meno male. Saresti sprecata altrimenti. Come fai a cantare senza musica?-
 -Oh, no...voglio dire, posso anche cantare quando sento l'mp3 o lo stereo...comunque in realtà un po' suono...-
 -Davvero?- quella ragazza mi stupiva sempre di più.
-Cosa?-
 -Ho una chitarra...classica...la suono da un po' di anni...-
 -Ma è fantastico! Mi piacerebbe sentirti suonare. Se lo fai bene come canti, allora è il caso che cominci a spedire qualche demo alle case discografiche- ghignai, ma non ero del tutto scherzoso.
Lei scosse la testa e distolse lo sguardo:
 -No, io...no. Cioè...- sorrise e si strinse nella spalle -mi vedi? Magari la voce c'è, ma è tutto il resto che manca- si morse il labbro.
 -Cosa intendi dire?- chiese Angela.
Gemma sospirò:
 -Bè, le cantanti sono tutte estremamente carine e impavide. Sanno sempre quello che dire e non inciampano nei propri passi. Io invece... sono una delusione. Nessuno pensa a me e vede una cantante. E poi...non voglio mettermi in mostra...non mi piace-.
 -Ci si fa l'abitudine, cosa credi. Tu sei solo timida- disse Angela teneramente.
 -Già...dici poco. Timida e patetica-.
 -Ma smettila!- Angela la canzonò dandole una spintarella.
 -Dì quello che ti pare, ma io lunedì vado dritto da un mio amico. Lui suona in un gruppo, e cercano un cantante. Vedrai come ti troverai a tuo agio- dissi rivolgendomi a Gemma.
 Lei arricciò l'angolo della bocca all'ingiù:
 -Non so...io ho il panico da palcoscenico. Ve ne siete accorti-.
 -E allora? Il panico si supera-.
 -Bè...speriamo-. Gemma si sistemò la gonna tirandola verso le ginocchia. Nooo...
 -Vieni, andiamo a prendere qualcosa da bere- Angela tirò su Gemma e si diressero verso il tavolo delle bibite.
 Forse aveva ragione Angela: quella ragazza era tutta da scoprire.
Mi ricordai che era stata la migliore amica di Carolina. Come era stato possibile? Non riuscivo a immaginare persone più differenti: Carolina era aperta, allegra, socievole, parlava con tutti e si sentiva sempre a proprio agio. Gemma invece...era troppo schiva, troppo timida. Mi chiesi quando avessero cominciato a diventare amiche. Mi sembrava strano che Carolina avesse avuto la pazienza di conoscerla per bene.

 Come avevo promesso, il lunedì successivo, accompagnato da Angela e Raffaele, presi Gemma quasi di peso e la trascinammo fino al secondo piano, dove cercai la classe di Moraschini.
Mauro Moraschini era il cugino di un amico di Sergio, lo conoscevo abbastanza da potermi permettere di presentargli Gemma: all'inizio dell'anno andammo a sentire un paio di volte il suo gruppo in sala prove, e non mi era sembrato male.
 Era un paio di anni più grande di noi, e già per questo metteva in soggezione la povera Gemma. Aspettammo un po' prima che uscisse dalla classe, ma poi lo intravidi vicino alla finestra. Gli feci un cenno e lui si avvicinò.
 Gemma osservò dal basso il ragazzone che le si parava davanti: spalle larghe, viso squadrato e capelli lunghi fino alle spalle, castano chiaro e ondulati. Era vestito con colori scuri, dalla felpa aderente agli anfibi enormi, e sembrava l'incarnazione della musica potente, quel rock che è rimasto nella storia e resiste nelle menti di ognuno. 
 -Ciao Mauro! Senti un po', state ancora cercando un cantante?- chiesi.
 -Oh, abbiamo provato un po' di gente, ma dobbiamo ancora decidere...- rispose lui.
 -Perché se vuoi qui c'è Gemma. L'ho sentita cantare a una festa, è bravissima e non ha nessun gruppo- tirai in avanti la ragazza.
 Moraschini la squadrò per un po', soffermandosi sul suo viso, il cui sguardo era seminascosto dai capelli.
Difficile trovare due persone più diverse da quelle che mi ritrovavo davanti e che si stavano esaminando brevemente.
 -Davvero?- fece lui interessato.
Gemma inspirò:
 -Ehm, diciamo che me la cavo. Vado a lezione di canto da quest'estate...ma suono la chitarra da un po' di più-.
 -Chitarra?-
 -Ehm, già. Sai com'è, in casa c'era una chitarra classica da quando ero bambina e col tempo mi è venuta la curiosità...-
 -Ma anche si. Se vuoi potresti farmi sentire qualcosa... magari poi puoi venire in sala prove con me e gli altri, vediamo un po' come ti trovi. Che ne dici?-
 -Oh...ma anche sì- sorrise.
-Domani ti porto le registrazioni delle lezioni di canto? Magari taglio le parti più noiose e porto solo le canzoni che ho cantato...-
 -Sarebbe perfetto-.
 -Ok- Gemma rispose subito, come se non volesse prolungare di più la conversazione.
Moraschini la guardò incuriosito prima di salutare e tornare in classe, dopo aver strappato a Gemma il numero di cellulare.
 Mi voltai verso di lei, insieme a Angela e Raffaele:
 -Fantastico! Ti prenderanno sicuramente!- esclamò Angela sorridendole.
Gemma abbassò lo sguardo confusa, senza sapere cosa rispondere.
 -Sarà bello, potrai cantare alla Giornata dell'Arte!- le dissi. A scuola era raro che riuscissimo ad arrangiare qualcosa per la "Giornata dell'Arte", che di solito si teneva verso la fine di maggio. Ma sarebbe stato elettrizzante assistere a un concerto nel quale la cantante aveva la voce più soave del pianeta.
Tuttavia lei alzò lo sguardo terrorizzata, mordendosi un'unghia fino a farla sanguinare:- oddio, non ci avevo pensato! No!- lasciò perdere l'unghia e prese a mordersi il labbro, quasi sperasse di infliggersi più dolore.
 -Perché, che problema hai?- domandò Raffaele perplesso.
 -Io...io non so esibirmi in pubblico...- mormorò Gemma.
 -Tranquilla, vedrai che ti abituerai. Prima di tutto devi concentrarti per entrare nel gruppo di Moraschini: ricorda che hai dei concorrenti. Ma sono sicura che mangeranno la tua polvere... che ne dici se veniamo anche noi a sentirti in sala prove?- propose Angela.
Gemma strinse la labbra, sempre con lo sguardo ben lontano da noi, prima di rispondere: -come volete... ma anche sì-.

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Capitolo 33
*** 4) il gruppo ***


 C'è una differenza palese tra il sentire la musica dalle cuffiette di un mp3 o dalle casse di uno stereo e il sentirla dal vivo, mentre ragazzi più o meno della tua età la suonano proprio davanti a te.
Dal vivo tutto sembra più forte, più potente, più reale: ti accorgi che la musica non è solo un'illusione pronta a svanire nel momento in cui stacchi la spina dallo stereo, ma esiste veramente e pulsa intorno a te, riempiendo l'aria di suoni che prendono una forma diversa a seconda della mente di chi li percepisce. 
 Sebbene gli strumenti siano un'invenzione dell'uomo, la musica continuava a sembrarmi qualcosa nata molto prima di esso, più o meno nello stesso momento in cui si creò l'acqua e il vento e il fuoco e la terra; mi sentivo estremamente sollevato nel rendermi conto che, fortunatamente, si trovò il modo di convertire quell'elemento in melodia, tramite gli strumenti musicali.
Se poi a effettuare tale conversione è una creaturina che vive nascondendosi dietro un ciuffo di capelli, come se si volesse proteggere dal mondo, la cosa risulta doppiamente spettacolare.
 Credo che Gemma sia il quinto elemento naturale: musica allo stato puro. Il risultato fu che ovviamente la presero nel gruppo, liquidando tutti gli altri pretendenti al posto con un sorriso sulle labbra. Come fare a non essere soddisfatti?

 Sentii Gemma cantare accompagnandosi con la sua chitarra (un vecchio strumento che aveva l'aria di essere un cimelio di famiglia, ma il cui suono sembrava buono alle mie orecchie da profano); si chinava lasciando che i capelli le celassero il viso e lo strumento le nascondesse il corpo, così tutta l'attenzione era rivolta alle canzoni. Canzoni conosciute, ma strane a sentirsi da una voce diversa da quella dei propri cantanti. Eppure cantate da quella ragazza non erano affatto male.
 Gemma uscì dalla sala rossa in viso e anche abbastanza compiaciuta. Chissà che non ci sperasse dall'inizio ad essere inglobata nel gruppo.
Angela le si avvicinò e le rivolse un sorriso a trentadue denti:- sei stata meravigliosa. Adesso farai un figurone a casa tua, no?-
 -Oh...probabilmente sì. Spero solo non mi chiedano di cantare davanti a loro...-
 -Invece io spero il contrario. Sarebbe ora che ti abitui a cantare con un pubblico di fronte- Angela incrociò le braccia, come sfidandola a ribattere.
Lei però non rispose.
 -Non capisco. I tuoi familiari non ti hanno mai sentita cantare?- chiesi.
 -E' raro che canti in casa...di solito lo faccio quando non c'è nessuno, cosa abbastanza rara...-
 -E perché?-
 -Oh...boh. E' che non mi si crea proprio in mente...-
 -Tu non sei normale- Angela scosse la testa sorridendo.
Improvvisamente quella mossa mi ricordò Carolina: era il giorno che ci eravamo conosciuti, alla pista di pattinaggio, e con i miei amici mi ero avvicinato a lei nello stesso momento in cui Gemma (della quale non sapevo manco il nome) schizzava via, lontana da noi.
Guardarla e scuotere la testa era una reazione spontanea a Gemma, ma perché? Tutti la guardavano come si guarda qualcuno che sbaglia e che si è sicuri capirà i propri errori. Ma forse c'era qualcosa di più radicato: Gemma sapeva di sbagliare, ma credeva di non poter fare altrimenti.
Ero certo che sarebbe stato necessario buttarla di peso nelle cose nuove piuttosto di aspettare che si facesse avanti: se pure ne avesse avuto la volontà, non avrebbe trovato la forza.
 

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Capitolo 34
*** 5) la gita ***


E poi c'era la gita, il vero fulcro del mese: già si iniziarono a smistare i posti in autobus, evitando apertamente lo scontro della battaglia per i posti dietro -salvo poi tessere piani machiavellici per riuscire ad accaparrarseli.
Sentii gente promettere che pur di ottenere quei cinque miseri sedili consecutivi sarebbe arrivata con addirittura un'ora di anticipo sul luogo di ritrovo.
 Insieme ad Angela decidemmo di evitare fanatismi così eccessivi: ci saremmo accontentati di un paio di sedili nel fondo dell'autobus, lontano dai prof e vicini agli amici, in posizione strategica.
 Sergio e Adriano non erano giunti alla stessa conclusione, mentre Maddalena e Silvana avevano rinunciato dall'inizio a cercare dei posti decenti; si sarebbero messe dove fosse capitato, possibilmente non troppo vicine ai prof.

 La fatidica mattina cercai di scendere dal letto a castello il più delicatamente possibile, per non svegliare mio fratello, ma un "hei, leva il piede dalla mia faccia!" vanificò i miei sforzi.
 -Scusa, non credevo che fossi lì...- sogghignai.
 -E dove sarei dovuto essere secondo te? Uff...- Raffaele si girò dall'altra parte, cercando di riaddormentarsi per quel poco che gli rimaneva.
Era mattina presto; il sole non era ancora sorto, ma i primi uccellini già si stavano attivando con le loro corde vocali.
 -Divertitevi...- mormorò Raffaele prima di immergersi di nuovo nelle coperte.
 Infilai nello zaino una quantità infima di oggetti: giusto il pranzo al sacco (il cui contenuto mi era sconosciuto: l'aveva preparato Selina dopo aver fatto un rapido blitz passando per il frigorifero e la dispensa), il vecchio mp3 dalle cuffiette quasi completamente spellate e il portamonete, mentre il cellulare finì in tasca. Era il classico kit di sopravvivenza a una banale gita scolastica da ginnasio, collaudato in anni e anni di esperienza.
 Potei godermi il lusso di un passaggio in macchina da Selina, visto che a quell'ora anche gli autisti degli autobus di Polverano avevano diritto a un po' di ore di sonno. Il parcheggio da cui partiva il nostro autobus era alla periferia della città, ma arrivammo in meno di cinque minuti, essendo le strade completamente sgombre.
 Il parcheggio era già abbastanza affollato, sebbene dei pullmini ancora non ci fosse traccia. Come se fossero vip, talmente desiderabili da potersi permettere di arrivare in ritardo.
 C'erano i miei compagni di classe, riuniti in un paio di campanelli poco distanti tra loro, più alcuni componenti dell'altra sezione.
Con lo sguardo cercai Carolina, sperando di capire dove fosse prima di trovarmela davanti all'improvviso, ma non la vidi da nessuna parte. Le uniche persone della sezione B erano quelle che conoscevo solo di vista, delle quali mi importava meno di niente.
 Raggiunsi la mia classe, che aspettava impaziente il momento di assediare i pullmini, a cui presto si aggiunse un'Angela insonnolita ma rilassata.
 -Che bello poter guardare i prof negli occhi sapendo che non puoi essere interrogata- disse a mo' di saluto.
 -Tranquilla, troveranno comunque il modo di rovinare la giornata- sorrisi mesto: -Pompei...- mormorai con sufficienza.
 -Ma che ti frega della meta, l'importante è saltare almeno un giorno di scuola- Sergio si sfregava le mani impaziente: -se non ci fosse stata la gita, tra un paio d'ore sarei potuto essere interrogato a latino-.
 -Occhio a non farti sentire da Torresi, oggi sembra abbastanza scocciato da poterti fare qualche domanda a tradimento-.
 -In quel caso non esiterei a rispondergli altrettanto a tradimento- Sergio sogghignò.
 Il sole stava facendo timidamente capolino da dietro le montagne, tingendo il parcheggio e i volti che mi ritrovavo davanti di una delicata tonalità grigiastra, rovinata dalla luce arancione dei lampioni attorno a noi.
 Un ruggito segnò l'arrivo dei due autobus che fecero elegantemente irruzione nel parcheggio, alla cui guida sedevano un paio di autisti dall'aria già nervosa. Provai pena per quei due sorteggiati sfortunati.
 -Addosso!- Adriano guidò l'assalto al primo autobus, col risultato che l'autista si bloccò a metà del gesto di aprire le porte e preferì rimanere barricato dentro, temendo le masse studentesche ansiose di accaparrarsi gli ultimi posti.
Sentii decine di corpi che si ammassavano per conseguire lo stesso fine di Adriano, poi una voce imperiosa che si faceva largo accompagnata dalla mole della proprietaria: la prof di lettere avanzava passo dopo passo spingendo via gli studenti, la maggior parte dei quali si spostava istintivamente.
 -Spostatevi, non siate infantili, spostatevi!-
Raggiunse a fatica la porta, comparendo interamente nel campo visivo dell'autista. Questo fu sul punto di sprofondare insieme alla sua poltrona molleggiata nel bagagliaio del suo autobus non appena la vide: ora più che mai l'ultima cosa che avrebbe voluto era aprire le porte, ma non ebbe altra scelta. Fortunatamente per lui, la stazza della prof ostruiva completamente la stretta entrata, quindi tutti dovettero aspettare che si spostasse prima di entrare. In questo modo si era assicurata il monopolio della portiera.
 -In questo autobus i miei studenti! Avete sentitooo? Solo gli studenti della A!!!-
Agitò l'enorme braccio, come per scacciare mosche fastidiose, tuttavia riuscì a far fuggire una manciata di ragazzi dell'altra sezione.
 -Adesso salite, uno alla volta- lasciò uno spiraglio per far passare i primi fortunati, quelli che le si trovavano più vicini.
 -Non possiamo permetterlo!- Sergio si fece largo fino a raggiungere l'entrata e riuscì ad issarsi sull'autobus. Adriano fece per seguirlo, ma non ebbe la stessa fortuna. La prof lo agguantò per il cappuccio e, quasi strozzandolo, lo riportò a terra:
 -Devi prima posare lo zaino nel portabagagli. Avete capito ragazzi?- aggiunse a voce più alta -gli zaini vanno nel portabagagliii!-
 -Ma prof, così mi fregano i posti migliori!- Esclamò Adriano.
 -Sciocchezze, fila a poggiare quella roba-.
 -Ma ho il cellulare, potrebbero chiamarmi da casa per un'emergenza...-
 -Suvvia, hai anche le tasche per metterci il telefonino!-.
 -Ma...- Adriano non fece in tempo a finire la frase che un boato di protesta si levò dai compagni di classe.
 -Veloce, niente storie!- la prof lo sospinse lontano dall'autobus e lui dovette capitolare.
 -Dammi il tuo zaino!- sibilò Angela al mio orecchio -ci vado io a poggiarli, tu occupa i posti-.
Sfilai lo zaino dalle spalle e lei lo prese, sparendo tra la piccola folla.
 Sull'autobus regnava il caos: Adriano stava tentando di scavalcare Ludovica e le compagne per raggiungere Sergio, che lottava per occupargli un posto. Maddalena e Silvana erano riuscite ad accoccolarsi verso le ultime file e chiacchieravano tranquillamente, mentre il resto della classe si smistava velocemente, come se i posti in prima fila fossero un polo negativo che li spingeva lontano, verso la parte settentrionale.
Vidi Angela salire agilmente, tenendo le braccia strette a x sul petto come gli antichi faraoni imbalsamati nei musei egizi. Mi raggiunse sempre in quella strana posizione, poi si sporse sul posto che le avevo occupato vicino al finestrino e sciolse le braccia, lasciando cadere sul sedile un pacco di biscotti, l'mp3, fazzoletti, il cellulare e altri effetti personali:
 -Tutto ciò che sono riuscita a trafugare dalla borsa prima di buttarla lì sotto- spiegò con aria furba, -non potevo mica permettere che rimanessero lì-.
 -Non ti permetteranno di mangiare sull'autobus- dissi ammiccando ai biscotti.
 -Lo so. Ma se si aspettano che muoia di fame per loro, hanno sbagliato ottica- sogghignò, poi si sfilò la giacca e la lanciò sui sedili di fianco ai nostri, separati da poco più di mezzo metro di corridoio, ancora miracolosamente liberi.
 -Presto, occupa anche l'altro!-
 -Perché?-
 -Ho sentito la Tediani dire che alcuni studenti della B vengono sul nostro autobus. Devo occupare i posti per Gemma e una sua amica-.
  Presi la mia giacca e la buttai vicino a quella di Angela, poi chiesi:
 -Ma Carolina non salirà qui, vero?-
 -Oh, Corrado! Carolina non è un problema, tranquillo. E comunque evita Gemma come io evito il greco, quindi non preoccuparti-.
 L'autobus si andava riempiendo rapidamente. Quando tutti i componenti della mia classe trovarono posto, cominciarono a sfilare gli altri ragazzi, con l'aria scocciata di chi è consapevole di doversi arrangiare.
Non conoscevo nessuno se non di vista, solo visi scorti tante volte prima di entrare in classe, magari che si riconoscevano per i tratti particolari o per il colore dei capelli. Ma a un tratto Angela si rizzò in piedi, spaziando con lo sguardo.
 -Oh, eccoti-.
Riconobbi la voce di Gemma un nanosecondo prima di vederla. Si riconosceva perché era sempre quella che tendeva a coprirsi di più: questa volta portava un berretto bordeaux calato sugli occhi, con la scritta Queen - on tour ricamata a lettere nere.
 -Vi abbiamo occupato questi posti- Angela indicò le nostre giacche sui sedili.
 -Grazie!- Gemma sorrise e fece cenno a un'amica, dall'aspetto assolutamente anonimo, a precederla, poi si sedette al posto vicino al corridoio.
 Angela si sporse verso di lei e cominciarono a chiacchierare, mentre i prof tentavano di fare l'appello. Le due ragazze si interruppero solo ai nomi "Nerella", al quale Angela rispose prontamente, e "Fiordilisia", che però dovette essere chiamata due volte perché la prima risposta di Gemma fu così fievole da essere avvertita solo dai vicini più prossimi.
 L'autobus partì, allontanandoci da quello sputo di cittadina di provincia. Il paesaggio scorreva fuori dal finestrino, passando gradualmente dalla periferia di Polverano all'autostrada che si inerpicava tra i monti, attraverso ponti e cavalcavia dall'aspetto ancora insonnolito, mentre il sole imperversava in quella che prometteva essere una giornata che non avrebbe avuto niente da invidiare all'estate propriamente detta.
 Sull'autobus il chiasso era talmente alto e la compagnia talmente elettrizzata che non si poteva fare a meno di ridere e scherzare, come se per un giorno tutti ci allontanassimo dai nostri problemi. Anche perché il mio unico problema viaggiava su un autobus che arrancava nella nostra scia e, ogni volta che ci superava sull'autostrada, partivano fischi e ovazioni tali che per l'autista del nostro mezzo diventava una questione personale rimanere in testa.
 Ad un certo punto i prof rinunciarono a girarsi di continuo per intimarci di restare seduti: con persone che giocavano a poker, al gioco della bottiglia (ma da dove era uscita la bottiglia?), che si visitavano lasciando i propri posti e che cantavano a squarciagola stupide canzoni commerciali, ragionare era impossibile.
Più o meno a metà del viaggio Angela tirò fuori la scatola di biscotti, senza preoccuparsi di nascondere i suo pasto clandestino, e la fece girare per tutto l'autobus offrendone a tutti, anche a chi non conosceva. Il fatto che ne spizzicarono un po' anche i prof e (Angela era sicura di averlo visto) lo stesso autista, dissolse ogni dubbio sull'illegalità della cosa. Ma ne sollevò qualcuno sulla coerenza dell'autista che aveva insistito tanto per far poggiare sacche, zaini e affini nel portabagagli.
 Il culmine fu quando Sergio e Adriano riuscirono a legare il nostro secchione al sedile con la cintura di sicurezza e Ludovica gli disegnò un'opera di pop art sulle guance con un mozzicone di matita da trucco. Lei fu l'unica che osò fare tanto, perché non avrebbe mai necessitato di farsi passare la versione dalla vittima, cosa dalla quale -ne eravamo sicuri- si sarebbe astenuto per almeno un mese verso chiunque.
 Anche Gemma partecipava all'ilarità generale: lì c'erano anche i suoi compagni di classe, a differenza della festa di Silvana, e fui sorpreso nel vedere le battute che riusciva a cacciare in risposta ai soliti simpaticoni-da-doppio-senso, quelli che non mancano mai in una classe che si rispetti.
La sentii addirittura gridare, cosa che credevo fosse incapace di fare. Eppure in quel grido (un semplice "cascettarooo!" urlato scherzosamente a un suo compagno di classe che aveva beccato a barare a poker) mi sembrò di intravedere qualcosa che poteva essere la stessa cosa che usava per cantare.

Ok ok, la gita durerà un bel po' e sono consapevole che può essere noiosa. Sono intimamente convinta che questa parte lasci un po' a desiderare (mi sa di polpettone, di un rigirare la frittata per allungare), e magari un po' di recensioni sarebbero più che mai gradite qui :)
Per il resto, cercherò di aggiornare il più presto possibile!!

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Capitolo 35
*** 6) l'eden ***


Verso la fine del viaggio (il sole era ormai alto e il paesaggio si era fatto da tempo più lineare, con le montagne che avevano lasciato il passo a dolci colline che si susseguivano una dopo l'altra) cominciammo a cambiare di posto, muovendoci a nostro agio sull'autobus ed evitando gli scossoni del mezzo; Angela finì vicino a Silvana e Maddalena, le quali le fecero posto tra i loro sedili per scattare un mucchio di foto di loro tre insieme, e Gemma e l'amica si avventurarono verso i posti davanti dell'autobus, andando a trovare i loro compagni di classe.
 Mi ritrovai di nuovo al mio posto, ormai abbastanza personalizzato da briciole di biscotti, fazzoletti infilati a forza nel micro-posacenere insieme al bastoncino di un lecca-lecca e le giacche mia e di Angela strizzate agli angoli dei sedili.
Mi volevo concedere un secondo di pausa prima di ributtarmi senza esitazioni nel casino dell'autobus.
 Sentii un corpo balzare sul sedile accanto al mio, ma ancora una volta fu la voce della proprietaria a sconfiggere la mia memoria nel farmi capire chi fosse:
 -Ooops, Angela, credo di averti spalmato la giacca sul sedile...- Gemma rise.
 -No, non preoccuparti, quella è la giacca di Corrado, il mio posto è quello vicino al finestrino- sentii Angela rispondere dall'altro lato dell'autobus.
 -Ah- Gemma mi guardò e arrossì violentemente. Si alzò e sfilò a forza il piumino da sotto il sedile.
 -Scusa. Ehm...spero non ci fosse niente di fragile dentro-. Si morse il labbro.
 -Tranquilla, ho tutto nella tasca dei pantaloni. Non sono scemo come sembro- scherzai.
 -Ah, meno male-.
Silenzio.
 E ora perché non parlava? Non aveva forse riso e scherzato fino a poco prima? Ma che problema aveva?
 -Già-. Non sarei stato io ad attaccare bottone. Avrebbe imparato da sola, oppure tanti saluti.
Gemma si guardò attorno simulando indifferenza, ma a salvarla venne un suo compagno di classe, che fece capolino dal sedile davanti al nostro.
 -Ehi Fiordilisia, passi avanti, non è vero?- ghignò.
Forse la frase aveva un senso più profondo alle orecchie di Gemma, perché lei arrossì di nuovo e guardò il tipo come se avesse detto qualcosa di assolutamente proibito e inopportuno. Infatti si alzò e fece per prendere a pugni il compagno.
 -Ahahah! Calmina!- lui le trattenne i polsi con una mano e con l'altra le fece il solletico sul ventre, protetto da una felpa aperta su una t-shirt dello stesso colore del berretto, che ora portava con la visiera al rovescio, come Qui Quo e Qua.
Sembrava un personaggio dei fumetti proprio come loro.
 -Ahi, ahi!- Gemma rise e si divincolò, cercando di sfuggirgli: si tirava indietro, mentre quello infieriva sempre di più, fino a quando non sentii la sua schiena su di me.
 -Ehi!- esclamai mentre il suo peso mi schiacciava contro il finestrino. Il tipo smise subito di farle i solletico, ma sembrava stesse trattenendo molte più risate di quelle che si lasciava sfuggire dalle labbra contratte.
 -Bella Fiordili'!- esclamò prima di dileguarsi.
Gemma si portò un dito alle labbra, mordendosi un'unghia, mentre con l'altra mano si sistemava la t-shirt per farla cadere meglio sui jeans chiari.
 -Scusa, scusa!- mormorò scansandosi.
 -Tranquilla, mica mi hai ucciso- sorrisi.
Lei allontanò subito il dito dalla bocca, come se si fosse morsa troppo l'unghia. Infatti, con un "oh!" di dolore, contemplò il danno per un decimo di secondo prima di ficcare tutta la mano nella tasca.
 -Che voleva dire il tuo amico? "Passi avanti"?- chiesi.
 -Oh, ehm, no, è...è una storia lunga- mormorò.
 -Racconta!-
 -Nooo...è una cosa stupida-.
 -E allora? Dai, sono curioso-.
Lei sorrise:
 -No, è...insomma, diciamo che...- cominciò a farfugliare.
 -Me la vuoi cantare? Pare che ti riesce più facile che a parlare- esclamai. Lei rise a annuì:
 -Cantare è molto più facile. Però dipende...-
 -Da cosa?-
 -Bè, ovviamente dalla lingua. Io canto solo in inglese-.
 Corrugai la fronte: -e perché?-
 Lei si strinse nelle spalle prima di rispondere: -perché è più...boh...è più, come dire...ecco, ci risiamo- sbuffò, -sono proprio stupida, non riesco neanche a parlare-.
 -Dai, non ti buttare giù. Senti, se le cose stanno così allora non parlare-.
 -Non...non devo parlare?- chiese perplessa.
 -Esatto. Facciamo così: puoi evitare di dirmi la storia del fungo solo se mi canti una canzone. Ok?-
 -Non pensarci neanche! Qui? Ora? Ma sei matto?-
 -E perché? Dai, la scegli tu-.
 -No! Mai e poi mai-.
 -Ti prego...voglio sentirti cantare-.
 -Ma...non posso...attirerei l'attenzione-.
 -Bè, in positivo. Pensa a chi l'attira in negativo-.
 -Non...non so. No. Non posso-.
 Improvvisamente Angela piombò su di noi e si sedette sulle ginocchia di Gemma: -cosa non puoi? Gemma, ricordati che tu puoi fare tutto-.
 -Esatto-.
Non chiesi ad Angela come facesse a sapere di cosa stessimo parlando, perché sapevo che era inutile. Lei aveva un istinto naturale nel capire di cosa si parlava anche solo avvicinandosi a qualcuno.
 -No, vi prego...non ora-.
 -Le hai chiesto di cantare?- mi chiese Angela.
 -Si, ma lei non vuole- poi tornai a rivolgermi a Gemma: -Senti un po', hai detto "non ora"? Allora dopo. Quando vuoi. Ok?-
 -Nooo...-
 -Sììì. Fidati, lo farai. Comunque siamo quasi arrivati- Angela ammiccò alla testa dell'autobus, -me l'hanno appena riferito-. 

 Scendere dall'autobus fu un sollievo: l'aria lì dentro si era fatta irrespirabile, satura del respiro di cinquanta studenti, mentre invece fuori tirava una leggera brezza e il sole picchiava implacabile.
 -Accidenti, sembra agosto- esclamò Angela balzando giù dal gradino dell'autobus. Si levò la felpa e la legò sul bacino, sistemandosi la tracolla meglio sulla spalla.
 -Bene, non soffriremo. E poi ricorda che Polverano sembra essere a una latitudine diversa per quanto riesce a farci freddo-.
 -Già. Ho sempre detto che è uno schifo di paese- mi fece una linguaccia, fiera del suo retaggio cittadino.
 La fila di ragazzi si snodava contorta e disordinata mentre ci avvicinavamo al sito archeologico: orami la maggior parte aveva tolto la giacca e la felpa, rimanendo con tante t-shirt colorate.
Tutti si trascinavano dietro borse e zaini, chiacchierando del più e del meno mentre un paio di volenterosi raccoglievano soldi per pagare una guida. Infatti, non molto dopo, due miei compagni di classe mi avvicinarono per ritirare il mio contributo.
 -Quanto bisogna sganciare?- chiesi.
 -In teoria sono otto euro e sessantasette centesimi. Ti prego, dimmi che ce li hai spiccioli! Nono sappiamo cosa inventare per dare il resto a tutti- Bartolomeo mi guardò con aria supplice.
Con una complicata manovra riuscii a sfilare lo zaino da una spalla e a raggiungere la tasca dove tenevo il portamonete, lo cacciai e versai una decina di monetine rosse sul palmo della mano.
 -Basteranno?- chiesi.
Lui li contò velocemente, sfruttando la familiarità coi numeri che gli aveva fruttato un otto virgola cinque all'ultimo compito di matematica, poi ne afferrò alcune.
 -Mancano gli otto euro-.
 -Già...se sei fortunato li trovo- ghignai.
 -Hei, se non li hai non possiamo pagare la guida!- esclamò.
Alzai gli occhi al cielo, maledicendo le menti matematiche come la sua. Sembrava che vedessero la vita tutta spigoli e rette perpendicolari, e che non riuscissero a cogliere il sarcasmo nelle battute. Poveracci...se davvero erano tutti così, fui contento di non essere mai salito oltre il sette a matematica.
 -Eccoli- gli ficcai una banconota stropicciata e un paio di monete nella mano tesa -ce li avevo, tranquillo-.
 Lui intascò i soldi sospirando di sollievo, poi si volse alle persone dietro di me per raggiungere la cifra che la guida richiedeva.
Non appena vidi quella povera donna, mi fece lo stesso effetto degli autisti dell'autobus: ero sicuro che avrebbe dato qualunque cosa pur di guidare un pacifico gruppo di anziani piuttosto che una marea di ragazzi come noi.

 Trascorsi la mattina con i miei amici, vagando per strade e case vecchie di millenni, mentre i prof cercavano di spremerci fuori quel po' di cultura che ci avevano ficcato a fatica nelle teste, chiedendoci di tradurre le antiche iscrizioni in cui ci imbattevamo periodicamente. Magari volevano solo fare bella figura davanti alla guida, ma in quel caso capirono di aver fallito clamorosamente.
Avrebbero dovuto chiamare il secchione di classe (sulla cui guancia dell'opera d'arte di Ludovica rimanevano solo tratti scuri), ma evidentemente non lo trovarono in tempo. Ad essere beccato fu Aldo, il mastodontico rugbista dell'ultimo banco, il quale farfugliò una traduzione palesemente inventata davanti a un mosaico restaurato. Ci pensò la guida a salvarlo, deviando l'attenzione sull'immagine raffigurata in esso e sulla casa in cui si trovava. Se non altro, almeno lei era preparata nella nostra compagnia.
 Insieme a Sergio, Adriano, Silvana, Maddalena e Angela, era difficile fare più di due passi senza prorompere in una risata: sembrava impossibile, ma riuscivamo a ridere anche per le cose più stupide.
Forse succede solo a una certa età, forse succedeva solo a noi, forse succedeva perché nessuno di noi aveva una media brillante a matematica, ma l'umorismo toccava punte vertiginose quando ci ritrovavamo insieme.
 La visita finì quando i primi stomaci avevano iniziato a brontolare. Siccome i primi ad essere affamati erano proprio i prof, decisero di farci fermare per pranzo nel primo posto dove cinquanta ragazzi potessero buttarsi.
Trovammo un prato bagnato dal sole, nel quale alcuni alberi garantivano un'ombra fresca al punto giusto, e presto il paesaggio fu pieno di campanelli di ragazzi che si erano seduti per terra, sull'erba o sulle giacche ripiegate, intenti a scartare panini e a stappare bibite zuccherate.
 Noi ci trovammo un angolino sotto un'imponente quercia, pareva quasi una succursale dell'eden, e ci gettammo affamati sui nostri panini.
Angela, che si era allontanata per un istante, tornò accompagnata da Gemma.
 Chiacchieravamo del più e del meno, sentendoci felici: cosa potevamo desiderare di più? Eravamo sazi, eravamo insieme, eravamo liberi. Era il paradiso.



Giuro che è successo davvero: in quarto ginnasio, la guida venne a costare esattamente 8 euro e 67 centesimi.
Ovviamente, l'unica strafiga che ce li aveva precisi era la sottoscritta ;)
Lauto premio per chi recensisce.

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Capitolo 36
*** 7) nuovi ricordi ***


Dopo un po' Silvana cacciò un i-pod dall'aria vissuta e ne districò le cuffiette. Ne offrì una a Maddalena, e insieme cominciarono a sentire la musica, canticchiando sottovoce.
 Adriano si accese una sigaretta, nascondendosi dallo sguardo dei prof, mentre Sergio studiava la quercia con l’intenzione di arrampicarcisi.
 -Io non comincerei da lì- disse a un tratto Gemma a Sergio, che stava per issarsi sfruttando una spaccatura nella corteccia.
 -Dici?-
 -Assolutamente. Da lì si scivola-.
 -E tu come lo sai?-
Gemma sorrise e tornò a nascondersi dietro la frangia laterale.
 -Bè...da piccoli io e mi miei fratelli ci arrampicavamo sempre sugli alberi a casa dei nostri nonni. A me piaceva perché riuscivo a farlo meglio di tutti, e nessuno lo sopportava. Abbiamo smesso quando Lucio è caduto e si è spappolato il polso- si strinse nelle spalle -lui ha sempre preferito rimanere con i piedi per terra-.
 -E tu?- Adriano fece capolino da dietro il tronco.
 Gemma si guardò un po' intorno, poi invece di rispondere passò subito alle vie di fatto: girò di nuovo il berretto al contrario, si avvicinò alla quercia e, dopo averla ispezionata attentamente, afferrò due rami e si issò sul tronco.
 Cominciò ad arrampicarsi come se fosse tutt'uno con la pianta, sapeva esattamente dove mettere mani e piedi, si allungava e si chinava stando attenta a non perdere il berretto o a non lasciare che la maglia le superasse l'ombelico. Infine si accoccolò su uno spesso ramo e incrociò le braccia, poi ci guardò sorridendo: -da quassù sembrate...infimi-.
 -Accidenti!- Sergio fischiò. Angela e le altre due amiche guardavano Gemma ammirate, sorridendo come se intimamente se lo aspettassero.
Io rimasi con un fondo di preoccupazione dentro: quante altre cose avremmo dovuto scoprire su Gemma? Quante abilità aveva che non sfruttava? Ero preoccupato per lei.

 Poi successe. Per quanto mi fossi preparato a quella scena, mi trovò comunque impreparato.
Qualcuno aveva cominciato a passeggiare su e giù per il prato, e tra quelli che passarono davanti a noi capitò anche Carolina con un'amica. Ci vide con i nasi al'insù e decise di dare un'occhiata.
 -Oh- esclamò leggermente interessata.
Ebbi un sussulto, non mi ero neanche accorto che si fosse avvicinata così tanto. Prima che qualcuno potesse dire qualcosa, parlò: -Che ci fa Gemma lì sopra?-
Lo disse come se stesse parlando di un'estranea, aveva detto "Gemma" con lo stesso tono con cui avrebbe detto "quell' idiota". Credo che stessero per rispondere Angela, Silvana e Maddalena contemporaneamente, ma Gemma sorprese tutti.
 -Sono salita quassù perché so farlo-.
A questo punto ci fu silenzio. Si sentivano solo i nostri amici che strillavano e chiacchieravano poco lontani e gli uccellini che cantavano.
 -Addirittura. Complimenti-.
 -Grazie-.
Non avevo mai sentito Gemma parlare così. Sembrava ghiaccio quello che spillava dalla sua bocca, lo stesso che mi dava i brividi sulla schiena.
 -Non ti facevo così sborona. Un passo avanti-.
 -Sei venuta per criticare?- esclamò Angela senza sapersi trattenere.
 -Stavo solo facendo una considerazione. E' concesso, no?- sorrise.
 -Tranquilla, Angela. Forse sono proprio sborona. Bé- Gemma avvicinò le sopracciglia, -io posso permettermelo-.
Silenzio.
 -See. Come ti pare. Ci si vede in giro- disse infine Carolina. Prese l'amica per mano e si allontanò, facendomi faticare per trattenere pensieri impuri sul contenuto di quei pantaloni chiarissimi.
 Sgrullai la testa.
 Stavamo giusto per esplodere in vituperi contro Carolina, ma una voce improvvisamente ci fece tremare persino le ossa.
 -FIORDILISIA!- urlò la Tediani.
 Talmente presi come eravamo, non ci eravamo accorti del suo incedere pesante -il che era tutto dire.
Gemma borbottò un'espressione che pareva troppo colorita per quella vocina che si ritrovava, poi si nascose dietro il ciuffo.
 -Gemma! Scendi immediatamente da lì! Sei matta? Puoi cadere da un momento all'altro!- la prof sembrava tanto terrorizzata quanto irata.
Con poche semplici mosse Gemma si immerse nel fogliame e in poco tempo fu di nuovo con i piedi sull'erba.
 -Come ti è venuto in mente di salire su un albero? Se ti fossi fatta male ci sarei andata di mezzo io, sei sotto la mia supervisione!- ora che era partita in quarta, nessuno avrebbe potuto togliere alla prof l'occasione di scaricare un po' di stress su quel piccolo essere dal berretto bordeaux con la scritta Queen on tour.
Gemma annuiva meccanicamente, senza proferire verbo. Aspettava semplicemente che la sfuriata finisse. Era quello che Torresi avrebbe definito "stoicismo".
Quando la prof si allontanò, il viso di Gemma si era avvicinato alla tonalità del berretto. Sbuffò, poi imbarazzata prese a raccogliere le sue cose nella borsa, giusto per fare qualcosa.
 -Bella Gem- Angela le diede una pacca sulla spalla, e Gemma sorrise:
 -Meno male che a greco e latino sono già stata interrogata...altrimenti una volta tornati a scuola sarebbe stata la fine-.
 -Ma che ti frega! Oh, comunque sei stata grandiosa con Carolina- Maddalena le sorrise.
A quel punto pensai che Gemma si sarebbe nascosta di nuovo dietro il ciuffo, ma mi stupì, come stava diventando sua abitudine: scosse la testa, spostandosi i capelli dal viso, e restituì il ghigno all'amica:
 -Ci voleva. Non sopporto di essere trattata come una mentecatta...non da lei, almeno-.
 Come sarebbe "non da lei"? Perché, c'era forse qualcuno che poteva trattarla da mentecatta, oltre che come faceva lei stessa? Mi chiesi cosa ci fosse sotto quel berretto bordeaux.
 Ero convinto che esistesse una testolina piena di idee, ma mai esposte a nessuno.
 Penso che più o meno a quel punto capii di essere fin troppo incuriosito da Gemma. Incuriosito, interessato... più del lecito.
Lottai per non cambiare colore.
 -Fai bene. Ti stai forse finalmente convincendo di valere qualcosina?- Silvana la stuzzicò amichevolmente. Gemma sorrise e, questa volta, abbassò lo sguardo.
 -Bè... forse... diciamo che cantare nel gruppo di Moraschini mi sta facendo bene- dicendo questo, alzò lo sguardo e mi sorrise per una frazione di secondo, come un ringraziamento timido e sincero. Ne fui contento.
 -Che canzoni fate?- Sergio si interessò alla cosa.
 Iniziarono a parlare del suo gruppo e di musica in generale, e Gemma partecipò sollevata a quella conversazione in cui si sentiva padrona di casa.
A quanto pareva, nel gruppo si trovava bene: ormai conosceva abbastanza i suoi compagni, e loro conoscevano lei. Avevano già capito quanto fosse timida, e si chiedevano come sbloccarla per farla cantare al massimo della sua forma. Più o meno la stessa impresa in cui mi volevo cimentare io.

 La visita al museo fu quanto di più faticoso avessi mai affrontato; forse faceva concorrenza all'epica sfacchinata degli step, quella dove avevamo raccolto Angela col cucchiaino.
Di certo gli effetti furono diversi, ma presto tutti cominciarono ad afflosciarsi come fiori secchi, cercando qualsiasi appoggio su cui sedersi per riposarsi un po', mentre i prof arrancavano nella scia della guida senza mostrare segni di cedimento. Magari l'interesse aiutava...ma per quella giornata avevamo già avuto la nostra razione di resoconti su stragi e corpi carbonizzati.
 Prima che la gita finisse, successe un'altro fatto: un'ulteriore chiacchierata con Gemma, ovviamente cacciata a forza.
 Eravamo sull'autobus, sulla via del ritorno: fuori dai finestrini il tramonto incendiava il paesaggio, tingendo il cielo di arancione, accompagnato dal rosa delle nuvole che si ammucchiavano sui leggeri rilievi campani, mentre il Vesuvio dava al tutto la foggia di una cartolina.
Mi chiesi perché la gente andasse in posti esotici come le Hawaii o la Polinesia, quando già avevamo qui tutte le bellezze di cui avevamo bisogno. Tuttavia, pensai anche che agli hawaiani o i polinesiani i loro paesaggi paradisiaci sembrassero roba vecchia, se messa a confronto con la nostra.
 Gemma si era concessa un po' di pausa, ascoltando il suo piccolo mp3 a un volume talmente basso da non percepire nulla da fuori. Io mi avvicinai a lei, prendendo posto sul sedile lasciato vuoto dalla sua compagna:
 -Che ascolti?- le chiesi.
Lei mi guardò come se fosse meravigliata di vedermi lì, e prima di rispondere aspettò di staccare una cuffietta dalle orecchie e di mettere la canzone in pausa.
 -Oh...una canzone...vuoi?- mi porse la cuffietta.
Io la presi e l'accostai all'orecchio.
 -Non so se ti piace...- Gemma rimise la canzone dall'inizio. Una voce femminile cominciò a cantare in inglese, senza che riuscissi a capire le parole, neanche sforzandomi.
 -E' carina, anche se forse un po' troppo lenta. Sai com'è, diciamo che sono abituato a canzoni un po' più... toste-.
 -Lo immaginavo. Se vuoi puoi cambiare- mi porse l'affarino -scegli tu la canzone-.
 -No, voglio sentire questa, davvero-.
 -Sul serio?- Gemma mi guardò con un cipiglio incuriosito e anche un po' perplesso.
 -Si, tranquilla-.
 -Oh, ok. No, è che...è strano. Di solito tutti preferiscono sentire canzoni che conoscono, invece di sentire quelle degli altri-.
 -Bè si, però in questo caso voglio sentire qualche canzone tua. Mi piacerebbe sapere che canzoni ascolta una cantante...-.
 Gemma arrossì, rigirandosi l'mp3 tra le mani: -canzoni normali, credo...-.
 Ascoltammo un po' di musica, poi però vidi Gemma socchiudere gli occhi ed abbandonarsi per un istante sul sedile.
 -Hai sonno?- le chiesi facendole una fianchetta.
Lei si destò e sorrise, arricciando gli angoli della bocca:
 -Diciamo che stanotte non ho dormito molto...- alzò le spalle.
 -Perché?-
 -Oh...niente di che...niente di interessante in ogni caso-.
 -No dai dimmi! Perché inizi una frase e poi non la finisci?-
 -Perché non è importante...-
 -Ehi stai attenta, già mi devi una canzone, tu. Non vorrai mica accumularle?- ghignai.
Lei sbuffò.
 -Sei un ricattatore. Comunque era solo un...si ecco...un...sogno. Non molto rilassante-.
 -Oh- rimasi un po' in silenzio, poi però decisi di farla parlare: non poteva mica rimanere tutta la vita in silenzio.
-E che succedeva in questo sogno?-
 -Ti prego!- implorò lei.
 -Non si può dire? Ah, ho già capito...roba forte...- sorrisi, ma presto fui costretto a ripararmi dai pizzichi che aveva cominciato a tirarmi, mentre era arrossita fino alla radice dei capelli.
 -Porco! Sei un porco!-
Però rideva. Ricadde sul sedile e sospirò.
 -No, niente roba hard comunque... è solo che era strano...-.
 -Racconta-.
 Gemma si morse il labbro, poi però si decise: -Mah, era ambientato a casa mia... vedi, io condivido la camera con mia sorella, Patrizia, quella che va all'università in città, quindi praticamente la camera è solo mia. E' una grande cosa, se conti quanti siamo. Devo solo sopportarla le poche volte che torna. Comunque, la nostra camera è nella mansarda, sopra tutta la casa, e ci si va con una scala che da su un pianerottolo, dove appunto c'è la mia porta. Bé, nel sogno succede che non riuscivo ad entrare: la porta era chiusa a chiave, ed ero praticamente sicura che ad averla fosse qualcuno dei miei fratelli, solo che non volevano darmela, capisci?- Si fermò per riprendere fiato e annuii, senza capire cosa ci fosse di strano in quel sogno. Ma la lasciai continuare.
 -A un certo punto decido che non mi importa: decido che me ne sarei andata da casa, perché ero certa che avrei potuto farcela da sola. Allora cerco di fare mente locale su ciò che mi serve, e scopro che l'unica cosa di cui ho bisogno è la mia chitarra... Che sta nella stanza chiusa a chiave. Quindi non posso prenderla-.
 -Cavolo! Deve essere stato frustrante...- dissi.
Lei annuì:
 -Molto. Anche perché, nello stesso momento in cui mi rendo conto che non posso raggiungere la mia chitarra, capisco improvvisamente che ad avere la chiave della mia camera non sono i miei fratelli, ma...Carolina-.
 Pugnalata nello stomaco. No, non nello stomaco, bensì più sopra e un po' più a sinistra. Cercai di simulare indifferenza.
Gemma doveva essersi accorta di quello che avevo provato, infatti si fermò per un istante.
 -Ehm, scusa. Non volevo raccontartelo, lo sai...- abbassò lo sguardo.
 -No, tranquilla- cercai di sorridere. Lei mi guardò dispiaciuta, da dietro il suo ciuffo.
-E finisce così il sogno?- provai a farla continuare.
 -Bè, sì. Ad un certo punto vengo presa talmente tanto dalla disperazione che penso "tutto questo non può essere reale". E infatti mi sono svegliata. Non sai quanto è stato bello vedere che la mia chitarra era ancora lì vicino a me...- sorrise.
 -Immagino. Sembra che sia un prolungamento del tuo braccio, tanto ci sei attaccata. E poi...- mi bloccai. La canzone nel mio orecchio era cambiata: le dolci note della cantante sconosciuta (solo in seguito scoprii che si trattava di una Amy Macdonald ai suoi esordi) avevano ceduto il posto al familiare incipit di una canzone che avevo imparato ad associare ad una persona particolare. Snow, Red Hot Chili Peppers.
 Gemma si accorse anche di questo. Con un movimento della mano strattonò le cuffie e lasciò che la mia mi cadesse.
 -Grazie- riuscii a dirle.
Ma lei mi guardava con aria dura, mentre provava a celare anche un piccolo dubbio che si era fatto spazio sul suo viso. Poi però si decise e cominciò a cantare:
 -Come to decide that the things that I tried were...-
 -NO! Ti prego, non posso sentirla, ti prego!- esclamai.
 -...in my life just to get high on...-
 -Gemma, ti scongiuro!-
 -...when I sit alone come get a little know but...-
 -Ti prego, non sei divertente!-
 -... I need more than myself this time...-
 -GEMMA!- inutile: continuava a cantare, e non mi sembrava possibile che ci godesse così tanto nel farmi soffrire. Non la facevo così sadica.
Ogni nota e ogni parola entravano e scavavano dentro di me come se fossero tante piccole vanghe taglienti. Quando si fermò cercai di porre fine a quella tortura:
 -Perché? Perché vuoi farmi questo?-
 -Quanto sei melodrammatico. Ti dovevo una canzone no? Avevi detto che avrei potuto scegliere quella che volevo. Bé, ho scelto questa. Perciò...-
 -Ma mi ricorda troppo...Carolina...-
 -Esattamente. L'ho scelta per questo. Non puoi legarti a una canzone, e l'unico modo per liberarti dei ricordi dolorosi è crearne altri più piacevoli. Quindi, se per te sentirmi cantare rappresenta un ricordo piacevole...- la musica ricominciò, anche se non avevo più la cuffietta me ne accorsi perché Gemma riprese a muovere la testa a tempo: -Deep beneath the cover of another perfect wonder where it's so white as snow...-
 Rimasi in silenzio mentre la voce della mia vicina, levigata dalla musica e dal ritmo, si faceva spazio nell'aria tra noi giungendomi alle orecchie, affilata come ghiaccio. Forse però non sentire la musica mi era d'aiuto: sebbene ogni parola mi ricordasse il mio primo incontro con Carolina, tutto il resto era differente. La voce con cui era cantata la canzone, prima di tutto, poi il sottofondo (tutti i miei compagni che chiacchieravano e strillavano sull'autobus), l'ambiente, la compagnia...
 Forse Gemma intendeva proprio questo; presto quella canzone non ebbe più niente a che vedere con quella che avevo sentito dagli altoparlanti della pista di pattinaggio. Questa era decisamente più naturale. In comune aveva solo il testo, di cui in ogni caso non sapevo le parole.
Mi venne voglia di prendere di nuovo la cuffietta: la ripescai e, accostandola all'orecchio, la musica fu tutt'uno con la voce di Gemma. Creare altri ricordi, per scacciare quelli vecchi e dolorosi...davvero niente male come pensata.

 Mi chiesi perché Gemma mi era sembrata una ragazza antipatica, prima che litigasse con Carolina. Adesso non avrei saputo trovare una persona più dolce.

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Capitolo 37
*** 8) come da copione ***


Successe un pomeriggio, circa un mese dopo.
Il caldo era arrivato, portando via definitivamente gli strascichi di quello che era stato l'inverno più lungo e difficile della mia ancora breve vita. Ormai gli stormi di uccelli viravano di nuovo verso Polverano e le giornate si allungavano sempre di più.
 Successe che, per una fortunata serie di coincidenze, la famiglia di Gemma si ritrovò fuori per pranzo: un'ulteriore esempio di come spesso il destino altro non è che la conseguenza di azioni altrui che ricadono su di noi.
 Gemma era uscita da scuola contenta e aveva raggiunto me, Raffaele e Angela che la stavamo aspettando, come era diventata nostra nuova abitudine; il filo che la legava ad Angela si era inspessito molto da entrambe le parti, e le due prmai erano più amiche di quanto lo fossero con chiunque altro. Quando avevamo chiesto il motivo di tanta ilarità, Gemma aveva risposto:
 -Mamma e papà accompagnano Lucio in città per una partita di basket, quindi non ci sono. Sabrina ha approfittato ed è andata da una sua amica per il pomeriggio. Renato deve rimanere a scuola, perché la sua prof ha organizzato una lezione supplementare. Sfigato! E ciò vuol dire che ho la casa tutta per me. E' incredibile! Non succedeva da anni!-
 -Wow! E cosa hai intenzione di fare?- le aveva chiesto Angela sorridendo.
 -Non so...qualcosa di speciale...ehi!- il suo viso si era illuminato, guardandoci uno a uno. Pian piano si era aperta in un sorriso sempre più ampio, fino a far esplodere la sua idea: -venite da me!- aveva esclamato.
 Io e i miei amici ci eravamo guardati, come a confermare la risposta che stavamo progettando di dare, poi le perplessità erano svanite:
 -Per me è ok- aveva detto Angela -tanto lo sapete meglio di me che mamma non c'è mai a pranzo-.
 -Penso che anche noi non avremo problemi- Raffaele mi aveva lanciato un'occhiata, come a chiedermi di rinfrescargli la memoria su qualche impegno che si era dimenticato.
 -Infatti. Possiamo venire, a me farebbe piacere- avevo risposto.
Gemma aveva sorriso, ma sempre a labbra serrate, e tempo un quarto d'ora eravamo davanti alla sua porta.

 Abitava in un quartiere di periferia: la sua casa era l'ultima di una fila di villette a schiera, altre un paio di piani ciascuna...ovviamente più la mansarda.
 -Non vi aspettate niente di che, potrebbe esserci disordine… sembra la casa dei Cesaroni- cominciò a giustificarsi ancor prima di entrare, mentre ci faceva strada per i gradini della piccola veranda. Armeggiò con un mazzo di chiavi e ne infilò una nella toppa.
 La casa era estremamente spaziosa, e pensai che con cinque fratelli non sarebbe potuto essere altrimenti. C'erano molti quadri alle pareti e oggetti poggiati su qualunque superficie, che avevano tutta l'aria di essere stati lasciati lì distrattamente da una mano frettolosa. C'erano monetine, chiavi (qualcuno dei fratelli di Gemma doveva averle dimenticate), biglietti dell'autobus, libri e quant'altro.
Gemma ci indicò un angolo dove gettare gli zaini, poi ci fece strada su per una rampa di scale. Le rampe divennero due. Poi tre. Quando iniziammo ad avere il fiatone si fermò su un pianerottolo.
 -Bè, questa è la mia camera-.
Aprì una porta di legno scuro e la stanza che ci si parò davanti mi sembrò spettacolare: c'era un letto, rifatto alla meno peggio, in un angolo della mansarda. Un secondo materasso era stato dotato di morbidi cuscini, per dargli la foggia di un divanetto. Probabilmente era lì che dormiva la primogenita Fiordilisia. La luce proveniva da due ampie finestre, lì dove il soffitto era più alto; il sole primaverile inondava la camera di calore, che si propagava in macchie di luce sul parquet chiaro. Verso i lati il soffitto si abbassava, fermandosi a circa un metro dal pavimento.
Non c'erano librerie, ma lunghe mensole di legno che correvano lungo la parete alle nostre spalle. Le mensole erano piene zeppe di libri, soprammobili, ancora libri, ma soprattutto cd: sembrava una collezione infinita quella di Gemma.
A interrompere la serie di scaffali c'era un armadio, anche un po' piccolino, i cui cassetti non combaciavano perfettamente all'intelaiatura, forse perché chiusi di fretta. C'era una scrivania proprio davanti a una delle finestre, in modo da godere di tutta la luce che queste filtravano. La scrivania era affollata di libri di scuola e quaderni, ma si intravedevano anche spartiti di musica. Ovviamente, ospitava anche uno stereo completo di un paio di casse.
E poi lì, appoggiata con amore sul divano letto, c'era la chitarra di Gemma, quel cimelio di famiglia che riusciva a suonare divinamente nelle mani della proprietaria. 
 -Wow- sussurrò Raffaele, -questa si che è una camera! Supera perfino la nostra-. Gemma sorrise, poi ci fece segno di accomodarci dove volevamo.
 -In effetti, è uno dei miei colpi di fortuna... credo sia la stanza più bella della casa, anche se d'inverno ci fa freddo e d'estate ci fa caldo. Eppure è mia. Voglio dire, adesso è mia. Solo fino a due anni fa avevo dovuto condividerla con Patrizia, e lei si è sempre presa più spazio. Però adesso mi ci trovo bene. E' quasi come una casa vera e propria-.
 Angela si era avvicinata alle finestre e osservava il paesaggio di un campo incolto, splendente alla luce del sole. Raffaele invece stava esaminando i cd, mentre io mi guardavo intorno, complimentandomi con Gemma.
 -Loro!- esclamò a un tratto Raffaele indicando un cd. Gemma gli si avvicinò e lo sfilò dallo scaffale, consegnandolo a mio fratello.
 -Se vuoi puoi metterlo allo stereo-.
 -Posso? Davvero?- Raffaele era notevolmente emozionato, quel tipo di emozione che avevo imparato a riconoscere. Infatti, riuscii a vedere la copertina del cd: Red Hot Chili Peppers...la sua fissazione. Lui lo infilò nello stereo e, dopo aver battagliato un po', riuscì a far partire una traccia.
 -Bella!- cinguettò Angela.

Sì, sapevo che era una delle loro preferite. The zephyr song: una di quelle canzoni che compiono il loro dovere già solo dal titolo.
 Successe che quel giorno ci divertimmo come matti: Raffaele riuscì a deliziarci, arrangiandosi alla meglio con i cibi che la padrona di casa gli aveva messo a disposizione, e Gemma riuscì a suonarci una delle sue canzoni preferite.
 Successe che a un tratto, mentre eravamo in salotto, al piano terra, Gemma decise che le occorreva un cd da mostrare a Raffaele e ad Angela, così io l'accompagnai su in camera sua. La osservai, mentre faceva scorrere il dito sulle custodie dei cd alla ricerca del suo obiettivo, e mi parve bella, mentre il sole le si infrangeva addosso. Il ciuffo le era di nuovo caduto a nasconderle lo sguardo, ma mi accorsi di non sapere di che colore avesse gli occhi. Non l'avevo mai saputo, mai notato.
 Successe che, quando tornammo giù dai nostri amici, non ci sembrò il caso di mostrare loro quel cd: avevano di meglio da fare, avvinghiati sul divano.
Io e Gemma ci guardammo imbarazzati, poi io alzai le spalle e decidemmo di tornare su in camera sua, a posare quello che eravamo andati a prendere.
 Successe che uno dei cd preferiti di Gemma si ritrovò a girare implacabile nello stereo, e mi venne in mente di farle cantare una canzone. Una qualunque, ormai non c'erano più melodie che non riuscissi ad ascoltare.
 Successe che lei decise di accontentarmi, mentre il sole si immergeva nelle montagne dietro quel campo incolto fuori dalla sua finestra. La luce entrava diagonalmente nella stanza, tingendo tutto di una tonalità così accesa da sembrare innaturale, e circondava Gemma, quasi che lei ne fosse la padrona. Padrona di un piccolo sprazzo di luce, che aveva addomesticato da sola per farlo entrare da quelle finestre. Notai lo spettacolare tramonto fuori da quella finestra, più bello persino di quello della gita.
 Gemma suonava concentrata, mentre la sua voce sovrastava quella del cd.
In un quadretto del genere, Carolina non sarebbe mai potuta rientrare: la luce non le si sarebbe mai posata sulla sua pelle così come si posava sulla pelle di Gemma, e la musica non le sarebbe mai entrata nel cuore come entrava nella ragazzetta seduta davanti a me.
Carolina non avrebbe mai avuto i suoi riflessi dorati nei capelli, e non sarebbe mai stata capace di suonare seduta sul pavimento solo per rientrare nella pozzanghera di sole.
 Successe che quando Gemma mise da parte la chitarra, io mi avvicinai a lei, entrando nella luce solare, con la scusa di voler osservare da vicino lo strumento. Mi ero accucciato sulle ginocchia, per stare alla sua altezza.
 Successe che, nell'alzare lo sguardo verso di me, che non le ero mai stato così vicino, Gemma mi guardò negli occhi. E quelli che mi accorsi essere profondi occhi marrone scuro, alla luce del sole che tramontava sembravano scintille di cioccolato al latte, confusi e preoccupati.
Carolina non avrebbe mai potuto vedere il sole dritto in faccia, con i suoi occhi chiarissimi. Gemma sì, lo faceva ogni giorno. 
 Successe che le passai un dito sotto il mento, costringendola al alzare quello sguardo, troppo spesso in ombra.
 Successe che nel farlo avvicinai il suo volto al mio.
 E mentre il sole tramontava glorioso, mentre sotto di noi Angela e Raffaele capirono che erano riusciti nel loro intento di farci rimanere soli, mentre Gemma chiudeva emozionata i suoi nuovi occhi, riuscii a baciare la ragazza che avevo sempre cercato.
 Come da copione.

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Capitolo 38
*** Raffaele 1) primavera ***



Siamo quasi alla fine! Con mio sommo sollievo, dato che questa storia sta diventando alla stregua di un parto per me. Magari, alla fine, dedicherò un capitoletto a me, per descrivere tutto quello che c'è dietro. Dopotutto, potrebbe essere interessante per quei quattro strafighi che mi leggono.
 In ogni caso, a proposito di strafighi/e, un grazie infinito a _sirio_ e Miharu, che continuano a recensire imperterrite.
 Se poi tante le volte anche qualcun altro recensisse, vi porto tutti a prendere un gelato :D

Raffaele

Era come se l'avessimo saputo da sempre: i fantastici tre divennero quattro, con l'arrivo di Gemma.
 Era stata Angela a rivelarmi che la sua amica era innamorata di mio fratello, lo stesso giorno che si misero insieme.
Eravamo in camera di Gemma, a sentirla cantare accompagnandosi con la sua chitarra; Angela aveva preso una penna dalla scrivania e aveva scritto qualcosa sul palmo della sua mano, poi me l’aveva avvicinata al viso per farmela leggere: “Hai capito a chi sta parlando Gemma?”
Io avevo scosso la testa, allora lei aveva aggiunto una freccia sotto la scritta, che indicava verso sinistra.
Rivolse la mano verso Corrado. Ahhh…
 Gemma era timida, d'accordo, anche silenziosa; ma, dopo mesi che ci frequentava, con me e con Angela aveva preso a rilassarsi un po'.
Invece Corrado continuava a metterla in soggezione, e mi accorsi che il suo era tra i modi di amare più masochisti: la timidezza la bloccava e non le permetteva di farsi avanti.
 Ma quel giorno era successo: ad un certo punto io e Angela avevamo sentito la sua chitarra suonare, mentre lei era al piano di sopra con Corrado.
Cantava una delle sue canzoni preferite.
Non riconobbi la cantante, ma Gemma stava dando il meglio di sé, in modo così spettacolare da farmi pensare che la canzone originale non fosse importante. Poi lei si era fermata, ma non aveva ripreso più a cantare o a suonare. Si sentiva solo l'eco del disco.

 Era passato un mese da allora: maggio era finalmente arrivato, si riuscivano a cogliere le prime avvisaglie dell'estate di Polverano; caldo torrido, serate accompagnate da una brezza fredda, tramonti mozzafiato e mattine splendenti. In un contesto del genere, era difficile non essere felici.
 Maggio portò con se l'evento che Gemma temeva, quello a cui era sicura non sarebbe riuscita a sopravvivere: la giornata dell'arte.
Cominciò a provare con il suo gruppo canzoni su canzoni, insieme ai membri si preparava ed erano elettrizzati; erano riusciti a ritagliarsi il loro spazietto nel palco che sarebbe stato allestito in una delle piazzette di Polverano, e nessuno avrebbe portato via loro lo show.
Eppure Gemma era tesa: raramente cantava davanti a noi, solo Corrado riusciva a sentirla, ma esclusivamente su sua richiesta. Per avere la conferma che non avrebbe dovuto temere niente, spesso dovevamo andarla a sentire in sala prove.
Ma alla fine il giorno che si aspetta con impazienza viene, lento o veloce a seconda dello stato d'animo.
Avevamo tutti i nostri personali motivi per essere eccitati: Angela aveva fatto venire a Polverano le sue amiche Pu e Pam, riuscendo a convincerle a prendere l'autobus dalla città. Era la prima volta che venivano, e Angela era ansiosa di presentarcele e di mostrare loro tutto il suo micro-universo.
 Corrado non vedeva l'ora di sentire la sua ragazza cantare; voleva essere presente nel momento in cui avrebbe raggiunto quella sua personale vittoria. Era da prima che si mettessero insieme che cercava di convincerla che non cantava affatto male e aveva provato in tutti modi a farla esibire davanti a noi o ad altri amici (senza il supporto di un karaoke).
 Aspettare fu faticoso, da dolore fisico: il pomeriggio avanzava lento, quasi come se il sole avesse deciso di fermarsi per prolungare la nostra attesa. Ci eravamo ritrovati a casa di Angela, ma senza Gemma, che era andata con il suo gruppo. L'avremmo rivista direttamente sul palco, quella sera.
Il sole pomeridiano entrava dalla finestra del salotto di Angela, bagnando tutto ciò che toccava di luce dorata.
Stavamo sgranocchiando pop corn davanti alla televisione, mentre una manciata di cartoni di pizze giacevano sul tavolino davanti al divano e in televisione scorrevano vari videoclip musicali. A un certo punto Angela, sdraiata su di me e con i piedi poggiati sul divano, sospirò; vidi che sorrideva, ma come se stesse trattenendo qualcosa di più grande dentro di sé.
 -Cosa c'è?- chiesi.
Lei si morse il labbro, come se avesse il cuore gonfio di commozione.
 -Stavo pensando... è cominciato tutto così, in novembre: eravamo noi tre, le pizze e la tv-.
 Pensai a quel tempo lontano che era novembre: la casa di Angela che ancora risentiva del trasloco, i nostri vestiti pesanti, Corrado che si macerava dietro Morena, Gemma e Carolina delle quali non sapevamo neanche l'esistenza, io che non mi permettevo ancora di tenere Angela stretta a me come stavo facendo ora.
Sentii qualcosa che mi premeva il cuore, quasi come una mano forte -molto forte- che lo carezzava, magari strizzandolo più di quanto avesse voluto e provocandogli così anche un minimo di dolore. Un dolore buono, come quello degli amici che ti tirano un pizzicotto.
 Quante cose erano cambiate da allora. Eppure noi eravamo rimasti sempre gli stessi. Cioè...
 Corrado era cresciuto, non solo in altezza: aveva imparato a riconoscere le cose buone da quelle sbagliate, aveva capito che dare troppo amore a una persona poteva essere doloroso, ma mai sbagliato, e aveva riconosciuto l'animo pulito di una ragazzetta schiva, riuscendo a valorizzarlo.
 Io ero riuscito ad affrontare la mia paura di non essere apprezzato, avevo imparato a sbagliare, a pagare per i miei errori e a porvi rimedio. Avevo capito come fronteggiare le persone, come rafforzare il mio carattere titubante. Avevo capito che sarebbe bastato essere me stesso perché il mondo si accorgesse di me, come se ne era accorta Angela.
 Proprio Angela forse aveva combattuto la battaglia più dura: aveva sopportato dolori e pene, aveva provato a tenerli per sé ma non ci era riuscita. Era dovuta crollare prima di capire che gli affetti esistevano per scaricarci un po' di sofferenze. Che le persone che le volevano bene avrebbero patito quanto di più doloroso pur di alleviarle il dolore.
E adesso guardava la vita, dura e felice, temprata dalle esperienze ma pronta ad andare avanti col sorriso sulle labbra.
 Guardai Corrado e capii che anche lui stava pensando le stesse cose: i nostri cuori si stavano gonfiando come era successo a quello di Angela.
Le labbra ci si allargarono in un sorriso, come se la bocca avesse potuto allargare lo spazio concesso ai cuori. Ovviamente non avremmo mai ammesso nulla del genere, ma l'importante era che l'avessimo capito.
Le parole spesso ufficializzano i sentimenti, ma ce ne sono alcuni talmente potenti da non richiedere tale formalità.
 -è...è vero- sospirai e strinsi a me Angela.
Lei si rannicchiò sul mio petto, poggiandomi l'orecchio sul cuore come per auscultarlo.
 -Ehi...come ti batte forte il cuore- disse.
Corrado si lasciò sfuggire un ghigno. Io le poggiai una mano sul petto a mia volta.
 -Senti chi parla. Se non ti dai una calmata il tuo ti esce dalla cassa toracica- risposi.
 -Si, bé... sono felice. Voi no?-
Io e mio fratello ci guardammo.
 -Abbastanza felice. Vorrei che Gemma fosse qui però- Corrado guardò fuori dalla finestra.
 -Tenerone! E dire che appena ti ho conosciuto facevi tanto il duro!- Angela gli lanciò un pop corn, riuscendo a farlo arrossire.
 -Devo mettermi a fare il duro?- chiese. Io e Angela ci guardammo increduli: quella era stata la mia battuta, molti mesi prima. Scoppiammo a ridere.
 -Cosa c'é? Che ho detto?- Corrado ci fissò perplesso.
 -Niente, tranquillo- lo rassicurammo prima di tornare in silenzio.
Presi a carezzare dolcemente i capelli di Angela, mentre Corrado si tormentava con il cellulare, ben sapendo che se anche avesse inviato un messaggio a Gemma lei non avrebbe potuto sentirlo, occupata com'era a riprovare la scaletta per quella sera.
 -A che ora arrivano le tue amiche?- chiese infine.
 -Il loro autobus arriva per le sei. Possiamo incontrarci prima con Maddalena, Silvana, Sergio e Adriano e poi tutti le andiamo a prendere alla stazione. Non mi perdoneranno mai per averle costrette a prendere l'autobus, ma ne vale la pena. Oggi sarà una serata irripetibile, e dovranno esserci tutti-.
 -Già... non vedo l'ora di sentire Gemma cantare- Corrado era talmente impaziente che a stento si tratteneva dal saltellare.
 -Chissà come sarà ansiosa...- considerai. Non riuscivo neanche ad immaginarla.
 -Sicuramente sarà terrorizzata. Ma è anche coraggiosa-.
 -Davvero?- Chiese Angela.
 -Sicuro. Mi raccontava che da piccola riusciva a tuffarsi dagli scogli più alti quando andava in vacanza al mare. E poi...ti ricordi quando la conoscemmo? Alla pista di pattinaggio? Bé, lei pattinava da poco. Ma non aveva esitato a prendere subito velocità-.
 -Già... bell'accoppiata di caratteristiche- risi.  
 -è troppo forte quella ragazza. Una forza della natura- Angela mi guardò gettando la testa all'indietro.
 -Non l'avrei mai creduto possibile. Eppure...- Corrado lasciò la frase a metà. Un'altro che non si era mai trovato a suo agio con le parole. Ma non gli chiedemmo di continuare a parlare.

 Restammo a non fare niente per un alto po', poi ci dirigemmo verso la stazione dei pullman. Adesso anche Angela era elettrizzata ma, a differenza di Corrado, non si preoccupò di nasconderlo.
Biascicava parole una dopo l'altra, a una velocità spaventosa; ero sicuro che avesse imparato a Polverano a parlare così velocemente.
 Ci incontrammo con gli altri amici come previsto; tutto quello che rimaneva da fare ora era aspettare l'autobus, nel caldo sole primaverile. Angela si accoccolò su una ringhiera, seguita dalle altre ragazze.
Accidenti, era proprio cambiata da quando era arrivata. Sembrava più adulta, una donna come sua madre.
 L'autobus arrivò, entrando dolcemente nell'ampio parcheggio.
Angela schizzò giù dalla ringhiera così velocemente che fece perdere l'equilibrio a Silvana e Maddalena, costringendole a scendere a loro volta. Si fiondò verso la porta del pullman prima ancora che questo si fermasse, tanto che rischiò di finirci sotto. L'autista la guardò scocciato, ma lei non ci fece caso.
 Vidi due ragazze scoppiare a ridere dietro i finestrini pieni di polvere. Una piuttosto bassetta, l'altra alta e compatta.
Le due si misero in spalla le sacche e si affrettarono a scendere dall'autobus, passando velocemente per il corridoio di sedili sfondati.
 -Angieee!- gridò la più alta balzando giù dai gradini.
 -Paaam!- Angela le si gettò addosso, mentre anche l'altra bassetta scendeva dall'autobus, più tranquillamente. Sorrise e schioccò un bacio sulla guancia di Angela, dopo averla salutata.
Angela le prese per mano, una ciascuna, e le portò verso di noi con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia:
 -Raga, loro sono Pu e Pam. Pu, Pam, loro sono Corrado, Sergio, Maddalena, Silvana e Raffaele- ci indicò con il dito mentre ci presentava.
Le ragazze ci sorrisero, stringendoci le mani. Con un tuffo al cuore, notai che si soffermarono su di me più a lungo che sugli altri. Ricordai che l'ultima volta che avevano visto Angela era quando avevamo litigato, e la cosa mi preoccupò: fu come se a squadrarmi fossero due genitori più che le migliori amiche della mia ragazza.
Tuttavia, dopo un'occhiata fugace si decisero a sorridermi, come se con quell'occhiata avessero dissipato ogni dubbio. Bé, sarebbe stato meglio per loro.
 -Manca quella che canta...Gemma, vero?- chiese la più bassa, Pu.
 -Sta con il suo gruppo, la vedrete direttamente all'opera- disse Angela.
Le due sorrisero, poi cominciarono a chiacchierare con la loro amica che non vedevano da tempo. Era tutto un susseguirsi di aneddoti e pettegolezzi, ai quali Angela reagiva scandalizzata, emozionata o scioccata a seconda di chi riguardavano.
Presto cominciai a perdere il filo, ma fu proprio a quel punto che lei ci rese partecipi della conversazione. Insieme agli altri amici, guidammo le nuove arrivate attraverso i luoghi più caratteristici di Polverano, mentre loro osservavano interessate.
Non avrei mai pensato che Angela sarebbe potuta diventare amica di due persone così diverse da lei: eppure erano così legate da farmi pensare a quanto doveva essere stato difficile il momento della loro separazione. Anche se, considerai, non si erano mai separate completamente; se così fosse stato, non sarebbero state lì in quel momento.


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Capitolo 39
*** 2) il concerto ***


La sera era calata, finalmente. Già per le strade del centro era facile imbattersi in gruppi di ragazzi che si trascinavano dietro chitarre, bassi e altri strumenti musicali: durante la giornata dell'arte, la sera era il momento dei musicisti.
 Insieme agli altri, mi ero ritrovato in quell'angolino tra i palazzi più antichi di Polverano, in cui davanti a un piccolo palco passava gente che magari decideva di fermarsi.
 Il gruppo che stava suonando non era male, faceva delle cover di canzoni rock anni '70, alcune tra le migliori.
Sapevo che il repertorio sarebbe stato grossomodo quello, e fui felice di apprezzarlo, in mezzo a gente a cui sentendo I want it all dei Queen veniva in mente solo la pubblicità della Q8.
Ma presto, molto prima di quanto mi aspettassi, il gruppo cedette il passo, tra ovazioni generali, al seguente.
 I ragazzi del gruppo di Moraschini presero posto agli strumenti, perfettamente a proprio agio. Un batterista, un chitarrista, un bassista e un tastierista. E poi Gemma: indossava un paio di jeans chiari, quasi sbrindellati all'altezza delle giocchia, con una t-shirt blu, ma finalmente sembrava carina come effettivamente era. Qualcuno doveva averla truccata, e lo stesso le aveva stirato i lunghi capelli, che ora brillavano delle luci blu e bianche.
 Avanzò titubante verso il centro, poi insieme alla band confermò ciò che avevano provato e riprovato per settimane.
Mi voltai verso Corrado, che non la smetteva di saltellare, sebbene fossimo in prima fila.
Era emozionato -non avrei mai creduto di vederlo così- e, quando Gemma incrociò timidamente il suo sguardo, lui le sorrise e alzò i pollici. Lei unì il pollice e l'indice in un cerchio, come a dire "ok", poi cominciò a cincischiare col microfono.
La musica iniziò, all'inizio assordante prima che le orecchie si abituassero di nuovo.
 -Accidenti, niente male!- esclamò Pu quando Gemma cominciò a cantare.
 -E' bravissima, vero?- Corrado sorrise, insieme a noi altri.
 -Già... ha una voce stupenda- Pam la fissava incantata da dietro Sergio.
 Le luci si muovevano ritmicamente sul palco, illuminando ora un componente del gruppo, ora l'altro; quando cadevano su Gemma facevano splendere quel sorriso che sprigionava musica. All'inizio si limitava a cantare, poi cominciò a prenderci confidenza e riuscì a muoversi più liberamente.
Durante i pezzi strumentali allontanava il microfono e un paio di volte alzò lo sguardo al cielo, dove le stelle scintillavano in quel blu profondo, già estivo, e la luna gibbosa sembrava sorridere. 
Ma, anche se pareva distratta, ogni volta tornava a cantare come se ci fosse un segnale preciso ad avvertirla. E il segnale c'era, ma poteva essere avvertito solo da chi era avvezzo a quelle melodie.
 A un certo punto riuscii a sentire un brandello di conversazione, poco dietro di noi.
Fu facile perché, per sovrastare la musica, i due parlavano praticamente gridando.
 -Senti questa canzone! Fermiamoci un po' ad ascoltare- diceva qualcuno.
 -D'accordo...- rispondeva l'altro.
 -è il gruppo di Moraschini vero? Aveva suonato anche l'anno scorso...-
 -Si, è lui. Ne sono sicuro perché... vedi la cantante?-
 -Si... non è affatto male. Ha una bella voce-.
 -Già... è mia sorella-.
Non mi voltai neanche per vedere quale dei fratelli Fiordilisia fosse. L'importante era che, almeno per quella sera, in casa Gemma avrebbe avuto il suo momento di gloria e di rivalsa.

 Mentre la sentivamo, stringevo Angela al petto, con le mani incrociate davanti a lei. Ci cullavamo seguendo il ritmo delle canzoni e a volte cantavamo i ritornelli, quando non gridavamo incitazioni a Gemma.
Ma, a un tratto, lei si voltò verso di me con un sorriso terribile e allo stesso tempo divertito sul volto:
 -Carolina-.
Sebbene avesse urlato per sovrastare la musica, più che altro la capii leggendole le labbra.
Mi voltai e vidi una ragazza mora appoggiata distrattamente alla fontana della piazza, che insieme a un gruppetto di amiche guardava il concerto con moderato interesse.
Aveva l'aria e la posa da "vediamo un attimo di che si tratta e poi via", ma sembrava che non si riuscisse a scollare dal suo posto.
Non avrebbe voluto farlo capire, ma sapevo che era rimasta molto colpita: si stava chiedendo come Gemma fosse riuscita ad arrivare fin lì, senza di lei. Si stava chiedendo se la sua ex-amica era chi credeva che fosse, o una persona diversa.
 -Guarda come ci è rimasta!- dissi ad Angela.
 -Non se l'aspettava- detto questo tornò tra le mie braccia, tranquillamente.
 Tuttavia, un paio minuti dopo, sentii Carolina avvicinarsi. Mi rivolse un cenno, poi si avvicinò a Corrado e gli picchiettò un paio di volte il dito sulla spalla. Lui si girò e, non appena la vide, alzò gli occhi al cielo.
Lei gli si avvicinò all'orecchio:
 -Avete fatto un ottimo lavoro con Gemma- la sentii esclamare.
 -Ma tu devi sempre metterti in mezzo? Non ce ne frega delle tue prese in giro- Corrado cercò di liquidarla.
Lei si gonfiò, poi cacciò fuori l'aria in quello che doveva essere un sospiro senza dubbio rumoroso, ma soffocato dalla voce di Gemma.
 -Non vi sto prendendo in giro. Fatele i complimenti da parte mia-.
Fece per andarsene, ma Angela la richiamò.
 -Puoi farglieli direttamente tu. Li accetterà-.
 Batteria e chitarra cominciarono a scambiarsi note e battute come se parlassero, mentre la voce del gruppo taceva per alcuni istanti.
Approfittando della pausa, Gemma volse lo sguardo verso di noi e vide Carolina. I loro sguardi si incrociarono, poi Gemma riavvicinò il microfono alla bocca e riprese a cantare. Ma sorrideva, senza smettere di guardare Carolina. Era come se le stesse parlando...
 "Guarda, guarda cosa so fare. Tu mi hai fatto stare male, eri la mia migliore amica ma ci hai provato col ragazzo che piaceva a me, credendo che me ne sarei stata zitta e buona. E adesso guarda dove siamo finite. Avrei tutti i motivi per odiarti... ma non lo faccio. Sarò disposta a concederti di nuovo il mio saluto. Perché io sono. La senti questa voce? La senti come canta? E' grazie a questa che adesso so di esistere, e non ne ho più paura. Adesso lo sai anche tu: le persone che non credono in niente presto o tardi mangiano la polvere dei sognatori".
 Io, Angela e Corrado ci guardammo raggianti, mentre la musica finiva e il pubblico esplodeva in apprezzamenti e ovazioni.
Gemma si morse il labbro e sorrise, con lo sguardo commosso. Vidi i membri del suo gruppo raggiungerla e congratularsi con lei, darle pacche affettuose sulla schiena e chiedere il cinque. Lei parlava, annuiva, si complimentava a sua volta con i suoi colleghi e intanto scendeva dietro al palco, lontana dalla folla.
Dove presto fu raggiunta dal suo ragazzo, al settimo cielo. E tutto la nostra cricca a seguire, ansiosi di parlarle, di complimentarci ancora, e ancora, e ancora.
 E dietro a tutti, con aria rassegnata, una vecchia amica che andava a seppellire l'ascia di guerra.




Beh, senza che io stia qui a spiegare perché questa è la scena che preferisco di più di tutta la storia.
Insomma, stiamo parlando di Gemma: mica noccioline.
 E da qui è partito tutto... "le persone che non credono in niente presto o tardi mangiano la polvere dei sognatori".
 Bello, no? Ahahah ma jamooo!! :D

 Come al solito, un grazie infinito a chi legge e alla mia devotissima recensora... cara, tu canti? Allora che possa venire anche per te l'occasione che ho concesso io a Gemma :)
 

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Capitolo 40
*** 2) giugno ***


Finalmente estate: la scuola finì in un tripudio di gavettoni e pistole ad acqua, puntate contro chiunque fosse passato per strada e disgraziatamente fosse incappato negli studenti più anziani.
Angela tornò a casa completamente zuppa, ma rise di gusto quando Sergio e Adriano riuscirono a placcarmi e a rovesciarmi un secchio d'acqua gelida in testa.
Anche se il colmo fu scoprire che Moraschini e i suoi erano riusciti ad acciuffare Gemma e a scaraventarla nella fontana della piazza vicino la scuola... Corrado non la smetteva più di rievocare la scena.

 Una mattina, liberi dai compiti delle vacanze nella nostra condizione di passaggio dal ginnasio al liceo, io, Angela, Gemma e Corrado ci eravamo incontrati al campo sportivo di Polverano: consisteva in una misera pista sconnessa e ovale dove la gente andava a correre, a pattinare o in bici, sebbene le suddette attività non durassero mai più di dieci minuti.
Gli unici che resistevano erano gli stoici anziani, quelli che appartenevano alla categoria "non mi do per vinto". Di solito erano i più simpatici, quelli che non guardavano noi giovani dall'alto della loro età e che non consideravano la loro vita al capolinea. Era la differenza tra vecchino e vecchiaccio, la visione della vita: il vecchino sa che ha avuto la sua occasione, è soddisfatto di ciò che ha costruito e si gode gli anni della saggezza. Credo che siano questi gli unici che riescono a superare il centinaio di anni. Il vecchiaccio sa che ha avuto la sua occasione, è consapevole di non essere riuscito a fare ciò che si era prefisso e si purga i suoi ultimi anni nel rimorso e nell'acidità. O magari addirittura nell'invidia. 
 In ogni caso noi non pensavamo agli anziani che trotterellavano; eravamo distesi sull'erba, sotto il sole delle idi di giugno, e ci godevamo tranquillamente la libertà su cui avevamo fantasticato per tanti mesi di scuola: finalmente potevamo riposare le nostre membra e i nostri cervelli, che per i prossimi tre mesi sarebbero stati surriscaldati dal caldo estivo invece che da versioni vecchie di millenni.  
 -Allora, che si fa domani? Sergio e gli altri chiedevano se andavamo in piscina- disse Corrado.    
 -Per me è ok- Gemma era sdraiata con la testa sul suo grembo e gli occhi rivolti al cielo e alle nuvole.
 -Ovviamente di pomeriggio, vero?- chiesi ghignando -per tutto giugno ho intenzione di dormire-.
 -Pigrone! Dovrebbe essere adesso che ci si sveglia!- Gemma mi tirò uno stelo d'erba, giusto per avere qualcosa con cui mimare il gesto.
 -Seee, vedremo. Angela, tu che fai?-
Angela era stata taciturna, appoggiata contro il mio fianco mentre giocherellava con i mini trifogli sotto di noi. Ci mise un po' prima di rispondere.
 -Io domani non ci sono- disse.
 -Perché? Hai da fare?-
 -Io...- esitò, poi prese fiato: -vado in città per un giorno-.
Lì per lì non capii perché fosse così titubante:
 -A trovare Pu e Pam?- chiesi.
Solo dopo capii che la risposta non era quella. Un nanosecondo prima che rispondesse, desiderai di non averle mai chiesto niente.
 -No. Vado da mio padre-.
 Ci fu un minuto buono di silenzio.
Né io né Corrado sapevamo cosa fosse più opportuno dire, e non sapevo neanche se Gemma fosse al corrente della storia. Poi mi feci coraggio, le passai un dito fra le ciocche di capelli, luminosi al sole, e chiesi:
 -Ma... sei sicura?-
 Le si formò un nodo alla gola, poi deglutì e rispose:
 -Sì. L'ho deciso io, insieme a mamma. Io... lei ha acconsentito ad accompagnarmi in macchina. Comunque... insomma, ho riflettuto. Io non vorrei mai perdonare a mio padre quello che ci ha fatto passare, però... è mio padre- le si spezzò la voce.
Gemma si alzò e le poggiò la mano sulla sua, senza parlare. Si limitò a stringerla, facendole capire quello che avrebbe voluto dire, se avesse trovato le parole adatte. Angela sorrise.
 -Gli parlerò. Gli farò capire che se devo portare il cognome che mi ha passato, non posso vergognarmene. E poi... penso che debba essere orribile non poter vedere la propria figlia... anche se la figlia sono io. Magari... Carolina due- si strinse nelle spalle.
 -Se ci riesci, sarai la persona più buona dell'universo- disse Corrado -lui non meriterebbe il tuo perdono. Se tu glie lo concedi, allora vuol dire che sei superiore-.
 -Sì, più o meno è quello che ho pensato io. Non voglio portargli eterno rancore. Credo che abbia capito i suoi sbagli, altrimenti non sarebbe mai venuto a trovarmi due volte per farmelo capire-.
 La strinsi a me: -se sei sicura, puoi farlo e ci riuscirai. Sei forte-.
 Angela ebbe un fremito, poi sospirò: -lo credevo anche quando decisi di incontrarlo, a marzo. Se ti ricordi, a momenti non rimanevo per la strada-.
Mi venne un groppo alla gola, e provai il desiderio di stringerla ancora più forte, anche a costo di farle del male.
 -Non ci pensare. Non è più marzo e... le cose sono cambiate da allora-.
Attesi che succedesse qualcosa, sulle spine, poi però la vidi sorridere.
 -Già. Adesso ci siete voi. Lo diceva... Tacito? Non si torna indietro, ma si va avanti-.
 Tre paia di occhi la fissarono increduli: -addirittura, te lo ricordi?- cominciammo a prenderla in giro, mentre lei si schermiva e ostentava una presunta cultura mai sfoggiata.
 Ma era pronta per la sua prova finale: due giorni dopo la rivedemmo.
Non sembrava particolarmente cambiata, ma sapere come andò con suo padre fu facile: disse semplicemente che adesso riusciva a guardare i suoi occhi allo specchio senza schifarsi.





Per la vostra gioia, manca poco alla fine!! Quando pubblicherò l'ultimo capitolo, stapperò una bottiglia di spumante, giuro.

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Capitolo 41
*** 3) dormire ***



 In questa storia mancava un finale da romanzo solo a me e a Corrado.
Tuttavia, non credo che i finali da romanzo ci siamo sempre. Spesso accade che si vada semplicemente avanti, senza una fine precisa. Potevamo ritenerci soddisfatti, e tanto bastava: entrambi avevamo tutto ciò che avremmo potuto desiderare.
 C'era anche il fatto che eravamo maturati non poco, ci avevo fatto caso quel giorno a casa di Angela.
Ma se ne accorsero anche gli altri, sebbene in modo differente.
Forse però Selina fu quella che si preoccupò di più: ricordo un pomeriggio, verso la fine della scuola, quando io e mio fratello ci eravamo rinchiusi in camera a studiare per lo sprint da fine-della-scuola-imminente. Selina aveva messo il naso nella nostra stanza, insospettita per l'assenza di rumori.
Lo spettacolo che si era ritrovata di fronte fu desolante: Corrado stava stravaccato prono sul letto, a braccia aperte, con la faccia sprofondata nelle coperte, e russava lievemente. Io ero crollato sui libri, appisolato sul Rinascimento.
La sera a cena si era chiesta ad alta voce il motivo di tutta quella stanchezza che si ripresentava ogni pomeriggio e, prima che potessimo inventare una qualche risposta (sebbene ne fossimo noi le vittime, non ne sapevamo più di lei), papà aveva risposto, da bravo medico che rassicura una mamma ansiosa per i propri pupi:
-E' normale che a volte crollino. In realtà sono anche troppo attivi. Hai la più pallida idea di quante energie consumino per crescere?-




- 3 alla fine!! :D

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Capitolo 42
*** Angela 1) il perdono ***


Il panorama che scorreva fuori dal finestrino della macchina era splendente; come se ogni montagna, ogni albero, ogni cavalcavia su cui si posava il mio sguardo brillasse di luce propria, sotto il cielo azzurro.
Le autostrade mi piacevano in modo particolare: la macchina andava più veloce del normale (anche se quella di mia madre non si avvicinava neanche ai centoventi) e avevo l'impressione di sentire i chilometri che venivano divorati da quelle gomme cocenti, sotto il sole di una mattina di giugno.
Avrei voluto che mia madre accelerasse: sentivo il cuore che mi batteva forte, sarebbe stato fantastico cercare di raggiungere quella stessa velocità con la macchina. Ma sicuramente sarebbe stato anche illegale e impossibile: una macchina che sfora il limite di velocità andando a trecento all'ora, se pure fosse stata di nostra proprietà, non sarebbe passata per la modesta autostrada che collegava Polverano alla città.
Il suo posto sarebbe stato al circuito di Indianapolis o di Montecarlo.

 Tentavo di mascherare il mio nervosismo come meglio potevo: avevo ficcato le cuffiette dell'mp3 nelle orecchie, la faccia era schiacciata contro il finestrino e lo sguardo era fisso.
Le emozioni fluivano dentro di me ed ero consapevole che mentre il mio cervellino le elaborava, la meta si avvicinava.
 Presto il panorama cambiò: tempo una decina di minuti ed avevamo attraversato il casello autostradale, che ci dava il benvenuto insieme ai primi palazzi della città.
La periferia si snodava per un bel pezzo; tra le vie asfaltate e apparentemente disordinate mamma riusciva a districarsi benissimo, mentre si avvicinava alla casa in cui non avrebbe mai più rimesso piede neanche se l'avessero pagata.
La stessa casa in cui stavo per entrare io. Ovviamente come ospite: avevo smesso da quasi un anno di abitarci.
 Il palazzo, così familiare, così normale, mi fece pizzicare gli occhi: cattivo segno.
Ricordavo quando da bambina avevo imparato ad andare in bici proprio in quello spiazzo davanti al portone, oppure quando la macchina spesso veniva posteggiata lì davanti, piena da scoppiare dei bagagli necessari per portare al mare una famigliola di tre persone. La mia famigliola.
Erano ricordi così belli, così semplici ed efficaci, che in un primo momento vacillai e temetti di venir presa dalla disperazione: perché era cambiato tutto? Non sarei potuta rimanere sempre bambina? Perché ero cresciuta?
Mamma si fermò un po' prima del portone:
 -Bè, eccoci qua- disse.
 -Già-.
 Ci fu un minuto di silenzio.
 -Sei sicura?- chiese infine lei.
 -Sì, tranquilla-.
Non sarei riuscita a dire niente di più, avevo le labbra troppo tese.
 -D'accordo. Io sto un po' in giro per il centro. Quando hai finito... bé, quando hai finito fammi uno squillo e ti vengo a prendere, ok?-
 Annuii, poi scesi dalla macchina buttandomi la sacca sulle spalle. Salutai mia madre e mi assicurai che la macchina scomparisse dalla visuale prima di muovermi.
 Il citofono era sempre lo stesso, ma dall'ultima volta che lo avevo visto pareva più basso... o forse ero io più alta. Adesso per spingere il secondo bottone dovevo accorciare il movimento a cui ero abituata.
Il dito esitò davanti a quel nome a cui stavo per citofonare.
Mi fece tristezza, ma allo stesso modo in cui me l'avrebbe fatta se fosse stato il nome di qualche estraneo.
Forse più che tristezza mi faceva pena: era stato scritto con una biro blu in stampatello maiuscolo molti molti molti anni prima, infatti i nomi erano due: solo che mentre il cognome di mia madre era stato cancellato con un tratto di una penna di colore diverso, più in alto ce n'era un altro.
Nerella, il cognome che avevamo solo io e mio padre.
 Premetti il pulsante, senza indugiare troppo. Dubitai persino che il proprietario lo avesse sentito.
Ma poi una voce gracchiò dal citofono, ancora impastata di sonno:
 -Chi è?-
 Respirai, contai fino a tre, poi parlai: -sono Angela-.
Meno male che avevo la voce ancora ferma. Seguirono parecchi istanti di silenzio, mentre il mio interlocutore assorbiva la notizia.
 -Oh, Angela!- Sentii mio padre sospirare di sollievo, poi il portone che si apriva - sali, sono contentissimo- disse lui mentre entravo.
Non si può dire altrettanto pensai. Poi però mi bloccai.
Ma chi voglio prendere in giro? Magari sto provando una marea di emozioni, ma sicuramente non c'è odio... sembra impazienza. Rabbrividii a quest'ultima constatazione: non era l'emozione che ritenevo giusta provare.
 Salii un paio di rampe di scale, cercando di non badare a quella strana sensazione, come se mi ritrovassi a casa.
Non volevo considerare quel luogo la mia casa. Io abitavo a Polverano.
Papà mi aspettava sulla soglia della porta, avvolto nell' accappatoio che usava a mo' di vestaglia. Non appena mi vide si aprì in un sorriso raggiante, ma anche perplesso.
Mi fece passare non appena mi avvicinai, arretrando come se fossimo i poli positivi di una calamita.

 Mettere piede in quella casa mi sembrò stranamente naturale: tutto era come ricordavo, o quasi. Se i mobili erano gli stessi di quando l'avevo lasciata, non si poteva dire altrettanto delle condizioni generali: quell'appartamento rispecchiava l'unico proprietario che gli era rimasto: sciupato, solo e incasinato.
Il tavolo del salone, che ricordavo essere stato sempre sgombro e ordinato, era sommerso da fascicoli, buste e un mazzo di chiavi gettato distrattamente, mentre i pochi soprammobili rimasti erano pieni di polvere e sparsi disordinatamente, come se fossero stati accidentalmente urtati e nessuno avesse avuto la premura di rimetterli in ordine.
Rivolsi un breve cenno a mio padre, prima di avvicinarmi al tavolino basso e raddrizzare una vecchia bomboniera d'argento. Era in quella casa da prima che nascessi, da bambina la adoravo.
 -Angela... sono felicissimo che tu sia venuta. Posso offrirti qualcosa? Vuoi un caff... un cappuccino? Qualcosa da mangiare?- Mio padre aveva la voce velata di emozione e nervosismo.
Apprezzai il fatto che si fosse ricordato che non prendevo il caffè: un passo avanti.
 -Grazie...- dissi con noncuranza. Non volevo mostrarmi troppo aperta.
 -Vieni in cucina- mi fece segno di precederlo attraverso la porta a vetri, come se non mi volesse perdere di vista, per quel poco che gli avevo concesso di vedermi.
 Presi posto sulla sedia al lato più vicino alla porta, quello che aveva sempre occupato mamma. Lui iniziò a trafficare con una macchinetta del caffè, per servirmi un cappuccino schiumoso e fumante.
 -Zucchero- disse mettendomi davanti il barattolo.
Il mio sguardo corse alla zuccheriera, vuota, e mi chiesi da quanto tempo mio padre non la riempiva. Piccole cose che mi facevano capire quanto la sua vita fosse ridotta all'osso. Mi sentii male a quel pensiero.
 Papà mi porse un cucchiaino, poi prese posto di fronte a me.
Tanto per fare qualcosa, gettai un po' di zucchero nel cappuccino e cominciai a girare il cucchiaino, come al solito in senso orario. Dicevano che portasse fortuna.
 -Come stai?- mi chiese.
 -Tutto bene- risposi.
 -Dovrebbero già essere usciti i quadri a scuola, vero?-
 -Oh...sì. Sono stata promossa. Ho solo un debito a greco, ma è facilmente recuperabile-.
 -Ovvio, ovvio-.
 -Già-.
Figo, un padre che invece di farti un cazziatone per il debito a greco dice “ovvio, ovvio”. 
 Smisi di girare il cucchiaino ed accostai la tazza alle labbra. La bevanda era deliziosa, ma avrei voluto averci messo un altro po' di zucchero.
 -A Polverano tutto ok?- fece papà.
 -Si, stiamo bene-.
 -Bene-.
 -Già-.
 Ecco che non sapevo più che dire. Non volevo lasciargli intendere che l'avevo perdonato del tutto, anche perché non ne avrei avuto motivo. Che non credesse di averla fatta franca.
Eppure volevo che capisse che non gli serbavo più rancore. Chissà come avrei fatto ad arrivare all'argomento, se i nostri discorsi riuscivano ad essere semplicemente tediosi.
 -Susanna sta bene?-
 -A meraviglia-.
 -Oh... bene-.
 In quella cucina ero abituata a sentire il tempo scandito dall'orologio appeso alla parete, ma non c'era più.
Ormai tutto quello che ornava il muro era un calendario irto di appunti e mementi e un paio di agghiaccianti cartoline.
 -Bè... alla fine sei venuta- disse mio padre.
Scelse il momento sbagliato, perché avevo appena deciso di tirare un'altra sorsata di cappuccino: riuscii ad impataccarmi la t-shirt, ma cercai di non farci caso.
 -Sì, sono venuta. Te lo aspettavi?- chiesi dopo un attimo di esitazione.
 -In realtà quasi più. Però non ho mai smesso di sperarci, in fondo-.
 -Allora sarai felice...- non mi venne in mente niente di più creativo. Pronunciai le parole meccanicamente, sebbene la loro inutilità fosse palese.
Lui però decise di non farci caso, con molto tatto:
 -Non immagini quanto-.
 Annuii, poi immersi un altro cucchiaino di zucchero nel cappuccino.
 -Angela, se posso... come mai alla fine hai deciso di tornare?-.
 Alzai la testa di scatto: -non sono affatto tornata. Ormai io rimango a Polverano, e non ho intenzione di muovermi da lì-.
 -Sì, sì, scusa, ho sbagliato termine... intendevo dire, perché hai deciso di... venire, ecco, di venire. Non che non mi faccia piacere, ovvio, ma...-
 -No, ho capito. Bé...- abbassai lo sguardo, stringendo la tazza tra le dita: -diciamo che... credo che posso smettere di tenerti il muso. Ovviamente, non credere che dimenticherò quello che hai fatto. Ma... il nostro odio non lo meriti neanche-.
 Magari quelle parole erano state troppo potenti e crudeli, me ne resi conto un secondo dopo averle pronunciate. Parole cattive, come escono solo dalla bocca degli adolescenti. Eppure non siamo noi a essere cattivi: semplicemente, assorbiamo il mondo e lo risputiamo fuori nella maniera meno delicata possibile.
 Papà incassò il colpo e annuì:
 -Forse hai ragione. Neanche io mi stimo più a causa dei miei errori-.
 -Già. Però- e a quel punto feci un bel respiro -però tu sei mio padre. Non voglio portarti rancore per il resto della mia vita. E... non voglio sapere che tu stai... male-.
Fu come tornare a respirare dopo aver trascorso troppo tempo sott'acqua: adesso mi sentivo più libera, come se una parte di me, l'ennesima, fosse volata via, e il cuore cominciò a battermi forte, decollando.
 -Grazie- mormorò lui -vuol dire che mi vuoi ancora bene?
 -Io... non come te ne volevo da piccola. Forse ci vorranno anni per tornare a provare quell'affetto, e non è detto che ci riesca.
Però, se non altro, adesso possiamo provare a riallacciare un po' i rapporti. E' un inizio-. Mi grattai il naso, imbarazzata.
Lui fece lo stesso: vizio di famiglia.
 -D'accordo. E' anche più di quello che speravo... grazie-.
Mi sorrise, chiaramente grato.
Gli restituii il sorriso sollevata.

- 2!

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Capitolo 43
*** 2) L'arcobaleno ***


 Quel pomeriggio il cerchio che avevo visto aprirsi all'inizio di questa storia si chiuse: la scena sembrava la stessa, con me e mamma che viaggiavamo in macchina verso Polverano, ma in realtà in comune non aveva che l'ambiente: se all'inizio di questa storia tutto quello che provavo era confusione e rancore, adesso vedevo il mondo con molta più tranquillità.
 -Mamma, mi lasci in piazza? Ci sono Raffaele e gli altri che mi aspettano- dissi all’improvviso.
Appena partita, tutto quello che volevo era tornare a casa e restare un po’ per conto mio, ma ora mi era venuta voglia di stare con i miei amici.
 -Guarda che tra un po’ piove- avvertì mamma.
 Lo capivo anch’io: man mano che ci avvicinavamo a Polverano, l’aria si faceva sempre più umida e pesante, si avvertiva facilmente l’elettricità che precede un bell’acquazzone.
 -Si, lo so. Bé dai… Ho l’ombrello con me- inventai.
Lei sospirò:
 -D’accordo. Ti aspetto per cena-.
Prese una curva, guidò la macchina traballante attraverso i vicoli di Polverano e mi fece scendere in piazza.
 Loro erano lì: Raffaele, Corrado e Gemma si erano ritagliati uno spazietto sul bordo della fontana, ma non appena mi videro saltarono su come grilli. Raffaele fu il primo a raggiungermi.
 -Come è andata?- chiese poggiandomi le mani sui fianchi.
 -E' tutto ok… diciamo che ora i miei occhi non mi fanno più così schifo- sorrisi con semplicità. Lui mi posò un lieve bacio sulle labbra.
 -Oh Angela, è meraviglioso. Sono contenta per te- Gemma sorrise, sempre a bocca chiusa, ma era l’immagine stessa della felicità.
 -Che ne dite di festeggiare? Inventiamoci qualcosa- propose Corrado.
 -Buona idea… peccato che non ci sia niente da fare. E tra un po’ si mette pure a piovere- Raffaele alzò le spalle, senza lasciare molte speranze.
Ci guardammo un po’, incerti e annoiati, quando Gemma sospirò:
 -Avrei un’idea… ma non so se vi va. Insomma, c’è un bel posticino che conosco… non ci va mai nessuno, e si sta bene… vi va di venire?-
 -E' tanto lontano?- chiesi.
 -Appena dietro casa mia. Possiamo prendere l’autobus, ci mettiamo pochi minuti-.
 -Perché no? Facci strada Gem-.
 Mi piacque l’idea di Gemma: un piacevole diversivo, quando l’unico altro modo per passare i pomeriggi era bighellonare in centro, dove non c’era mai niente di interessante.
 Una volta scesi dall’autobus, ad accoglierci ci fu un rombo di tuono.
 -Wow- sussurrò Corrado.
 -Ehm, il posto è all’aperto. Volete che passiamo a prendere un ombrello a casa?- disse la ragazza.
 -Nah, tranquilla, possiamo farne a meno- Presi per mano Raffaele, e insieme seguimmo la nostra amica.
 Lei avanzava in salita, trascinandosi dietro Corrado. Camminava sicura, sebbene io al suo posto lo sarei stata molto meno: eravamo su una stradina spalmata d’asfalto sconnesso, dove non si vedeva anima viva.
Continuava a ripetere “è qui vicino, tranquilli”, anche quando lasciò la stradina per un viottolo sterrato, attraverso gli arbusti. Tutta salita, già avevo il fiatone. Ed ero sicura di essere poco elegantemente sudata.
 -Eccoci!-
Seguimmo Gemma, fino a ritrovarci su un piccolo altopiano. Per terra c’era erba secca, arbusti, pietre e, alzando lo sguardo, mi resi conto di essere su una di quelle montagne che ero abituata a vedere come sfondo dalla finestra della mia camera.
 -è fighissimo- sussurrò Raffaele, voltato nella direzione opposta alla mia.
Mi prese per mano e mi fece voltare, e anch’io rimasi senza parole.
 Sotto di noi i tetti di Polverano erano tante macchie rosse, intrecciate dai vicoletti che eravamo soliti percorrere. Sopra il cielo era bianco accecante, coperto da immense nuvole grigie; riusciva a tingere tutto di una luce particolare, limpida e pulita.
E tutto, tutto era circondato dalle montagne, le stesse montagne che mi avevano vista crescere.
Era un panorama spettacolare, potente, incredibile. Quel tipo di paesaggi che nessuna macchinetta fotografica riesce ad immortalare.
 Prima che potessimo dire qualche altra parola di meraviglia, cominciammo a sentire le gocce, accompagnate da un secondo tuono, ancora più potente del primo.
Poco ci volle perché fossimo tutti completamente zuppi.
 -E' bellissimo!- gridai, cercando di acchiappare le gocce con la bocca.
Corrado si era rannicchiato contro Gemma, cercando di proteggerla dal temporale, ma entrambi ridevano; Raffaele non parlava, si era semplicemente seduto per terra a guardare il panorama, mentre rivoli di pioggia gli solcavano il viso.
Mi fermai un po’ a contemplarlo: sia Pu che Pam mi avevano chiesto come avessi fatto a innamorarmi proprio di Raffaele, quando c’era Corrado che a detta loro era molto più carino, ma io avevo alzato le spalle senza rispondere. Quella era una di quelle domande che, se poste a un’interrogazione, mi avrebbero fatto fare scena muta. Mi incantai ad osservare i suoi tratti fino a quando non parlò:
 -Quella è casa nostra, Corrado!- esclamò ad un tratto, puntando il dito verso l’aria di fronte a sé.
 -Già… e quella è casa tua, Angela!- Corrado prese il braccio della sua ragazza e lo puntò poco distante.
 -Si vede tutto da qui… quella è la scuola, e quello è l’Aquilotto- Gemma aveva riconosciuto a anche il nostro bar.
 Mentre loro erano occupati a cercare gli altri luoghi che componevano le nostre vite, un raggio di sole si fece spazio tra le nubi.
Meccanicamente, spostai lo sguardo dalla città e lo alzai: meraviglia.
Senza parlare, presi la mano di Raffaele e gli indicai quello che stava succedendo nel cielo. Ammutolì anche lui, e fece cenno agli altri due di seguire il nostro sguardo.
 Non era certo la prima volta che vedevo un arcobaleno, ma non ne avevo mai visto uno così spettacolare: era enorme, si distinguevano tutti i colori… chi era l’idiota che ne aveva classificati solo sette? In quello che stavamo ammirando noi, ce n’erano migliaia.




Bello schifo! Più corto delle mie versioni di greco. E l'ultimo non sarà certo meglio.
Ma siamo alla fine, occorre solo pazienza :)
 Grzie a Miharu, e a tutti coloro che leggono -senza commentare, ma è ok anche così :)

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Capitolo 44
*** 2) la salita ***


Un lembo dell’arcobaleno finiva oltre le montagne: verso il mare, che quell’anno ancora non avevo visto.
Il capo opposto cadeva dritto su Polverano.

Quattro ragazzi seduti su una montagna a contemplare in silenzio un arcobaleno.
E io mi sentii, per la prima volta, in pace con me stessa e con il mondo… magari era solo quello che si provava quando arrivava la consapevolezza di essere maturati.
 Ma non volevo credere di aver smesso di crescere e di imparare, perché sapevo che davanti a me le salite sarebbero state molte di più di quelle che avevo scalato nei mesi precedenti.
Forse la vita altro non è che un'unica salita, una parete rocciosa da affrontare senza mollare mai, senza arrendersi. Anche se per alcuni è più ripida o più dolorosa, anche se a volte non si trovano gli appigli a cui sostenersi, l'importante è salire: non guardare più in alto o perdi l'equilibrio, non guardare in basso altrimenti ti viene la tentazione di tornare giù, semplicemente va’ avanti fino ad arrivare in cima.
 Quando sarai arrivato all'apice, quando sentirai l'aria pura e fresca di chi è pienamente soddisfatto, potrai guardarti intorno e stupirti di quanta strada hai fatto.
Potrai sorridere e dire "ce l'ho fatta".
Potrai guardare fiducioso l’arcobaleno, lo stesso arcobaleno che stavo fissando con i miei amici, e a quel punto ti renderai conto che della discesa con cui ti sei consolato durante la salita non te ne frega più niente... perché, se sei arrivato in cima alla montagna, vuol dire che sei riuscito a trovare la felicità.
E, se hai trovato la felicità, non vuoi andartene altrove.
 La mia scalata non era ancora finita, lo sapevo.
Ma, adesso che sapevo della sua esistenza, sarebbe stato più divertente affrontarla fino alla fine.

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Capitolo 45
*** EPILOGO! ***


Due paroline dall'autrice:

Infine, eccoci a noi. Ho postato gli ultimi capitoli praticamente uno dopo l'altro, come se fossi un chitarrista a conclusione di un bel live rock.
Spero che la storia sia stata apprezzata, anche se forse non mi sono ben regolata con la lunghezza... so che probabilmente 44 capitoli non invogliano alla lettura su un sito di fanfiction (e so anche che una cosa del genere non adrebbe scritta proprio alla fine dei suddetti 44 capitoli), ma che ci volete fare: mi è uscita così.
 Ora, siccome ne ho voglia e non ho nient'altro da fare (a parte studiare per un compito in classe di inglese previsto per domani, ma non studio inglese dall'inizio dell'anno ed è sempre andata benissimo così), voglio raccontare a quei quattro strafighi che mi hanno seguita fin qui tutto quello che c'è dietro Polvere dei Sognatori.

 In principio, c'ero io che volevo scrivere un romanzo. Avrò avuto dodici o tredici anni, e anche tanta fantasia. Dopo aver imbrattato non so quanta carta (carta vera, non computer), il risultato non mi soddisfaceva -e non mi soddisfa ancora.
 Poi, un paio di anni dopo, da neoquindicenne (lo dico come se ora fossi vecchia) mi è venuta l'ispirazione: tre amici, due lui e una lei, un paesino e qualche casino qua e là.
 Quanti cambiamenti che ci sono stati... originariamente Corrado e Raffaele avrebbero dovuto chiamarsi Thomas e Daniel (e ora non mi venite a dire che vi piacciono di più questi di nomi!) e Polverano sarebbe dovuto essere un posto chiamato Nuova Bly. Molto esotico, ma poi ho pensato che era anche molto inutile.
Però nel frattempo avevo già cominciato a scrivere...
 Ora viene la parte divertente: penso che si sia capito che sono una fiera abruzzese, abruzzese della conca Aquilana. Oltre la nostra conca c'è la Marsica: una piana che un tempo era bagnata da un lago, il lago del Fucino - che però hanno avuto la bella pensata di prosciugare.
Insomma, tutto questo per arrivare a dire che metà del mio sangue è Marsicano (ma è bene che non si sappia in giro... è un po' come la storia della rivalità tra Italia e Francia), e che, arrivata a più o meno il primo capitolo della storia vista da Raffaele, andai a trovare nonna a Pescina, proprio nella Marsica. (Pescina, il paese di Silone... quante volte sono andata eremita sulla sua tomba! No, non avevo proprio nient'altro da fare).
 Ed era proprio come Pescina che immaginavo "Nuova Bly": paesello sfigato, pieno di vecchi, inutile ma molto folkloristico.
 Ci è voluto poco da lì in poi: nomi più consoni, e qualche ritocco alla trama.

 Insomma, da dicembre a marzo ogni volta che tornavo a casa mi mettevo a scrivere, sul mio fidato pc vecchio stravecchio, e tutto scorreva per il meglio.

Ora c'è la parte ancora più divertente: siccome un tempo ero ancora più riservata di quanto sia ora, non volevo correre il rischio che un qualche parente, tipo -per fare un esempio- un certo fratello di mia conoscenza, incappasse in quella che definivo (e continuo a definire) "la storia". Sentite che ideona: salvavo la storia sul mio vecchio lettore mp3 e la facevo sparire dal computer. Che poi lo usavo solo io, non lo accendeva nessun altro, ma tant'è... non si è mai troppo sicuri. Poi, ogni volta che volevo scrivere, collegavo l'mp3 al computer, aggiornavo, salvavo e alla fine staccavo tutto di nuovo. Figo eh?
 
 Ok, sono quasi alla fine: mentre scrivevo Polvere dei Sognatori avevo 15 anni, abitavo a casa mia e tutto andava per il meglio (attenti, sto per cadere nel melodramma, quindi preparatevi e se volete evitare melasserie chiudete ora). Entro la fine di marzo, avevo appena scritto tutte quelle belle parole sulla montagna, sulla vita che è tutta una salita e che l'importante è salire ed andare avanti.
 Poi, beh, il resto è storia: c'è stato qualche problema da queste parti, e io mi sono ritrovata catapultata sulla costa, con una casa inagibile e un computer irrimediabilmente fuso.
 Sapete che, se non avessi salvato tutta la storia sull'mp3, a quest'ora non avrei avuto niente da pubblicare? E che forse non avrei scritto nient'altro? Beh, ora lo sapete. Comunque, l'mp3 è la prima cosa che ho arraffato quando, rapidissimamente, mi hanno fatto sgattaiolare in casa, qualche ora dopo che era accaduto il fatto a cui uno ormai pensa quando sente nominare L'Aquila.
 Figo, eh?

Non finisce qui: sulla costa le cose andavano relativamente bene, ma ovviamente io e la mia famiglia non avevamo la minima intenzione di restare lì. Insomma, volevamo quantomeno riavvicinarci all'Aquila. Anche se i lavori per rimettere a posto casa sarebbero durati molti molti molti mesi.
E' partita la caccia all'affitto (e tralascio gli atti di sciacallaggio, condensando tutti quegli strozzini con una parola: bastardi), ma non c'erano molte offerte allettanti.
 Lo volete sapere dove sono finita, pur di stare vicina a casa mia?
 Nella Marsica.
 Proprio da dove è cominciato tutto.
 E' quasi comico... figo, eh?

Ora abito ad Avezzano (e al popolo? Vabbò, ne ho voglia), ma all'Aquila frequento la mia scuola, i miei amici, e tutti insieme cerchiamo un po' di adattarci. 
Quesso è e quesso remane, si dice dalle nostre parti.
 Ci diamo da fare, cerchiamo di non lamentarci troppo e di tirare avanti fino a quando non potremo fare qualcosa di più concreto anche noi.
 Io continuo a scrivere: dopo Polvere dei Sognatori, l'unica storia scritta all'Aquila, sono venute I fratelli Glossa e L'Allegra Brigata, che ho finito di scrivere qualche settimana fa. Queste ultime storie mi piacciono molto di più di quella che avete appena finito di leggere, ma devo ancora decidere se pubblicarle.
 Nel frattempo, non penso di lasciare i miei pochi estimatori a mani vuote, ho un paio di progetti in mente.

A gennaio tornerò all'Aquila anche io: i lavori a casa stanno per finire.
Io ancora non ci credo... penso che, una volta tornata a casa, sarò la persona più felice della terra.
 Tutto sommato, rispetto a prima di tutto questo casino, ho rivalutato parecchie cose: per essere felice ora mi bastano una casa, la mia famiglia (a volte magari riusciremo ad essere uniti) e persone intorno a me che mi vogliano bene.

 Grazie a tutti quelli che hanno letto. Soprattutto a Miharu che, instancabile, ha recensito tutto il recensibile. E anche a Sirio, con i suoi commenti schietti e fulminei.
 E a tutti quelli che hanno la storia tra le seguite (beh, ora ci sarà poco da seguire!), o che hanno anche solo letto.
 Era esattamente quello in cui speravo.
 Grazie, grazie, grazie.

  Alla prossima!

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