Niente pioggia.
Per
il secondo giorno consecutivo
il cielo era rimasto muto e asciutto, non una sola goccia di pioggia
aveva
lasciato quelle nuvole sempre più simili a spugne senza
colore. Seattle rimaneva
sospesa in una luce senza luce, un biancore latteo che velava i
contorni dei
palazzi e smorzava il verde di solito brillante dei parchi.
Tutto
sembrava fermo come in una
foto d’epoca, sfumata.
Come
in una fastidiosa replica
del giorno precedente, Eddie si era svegliato con la spiacevole
sensazione di
trovarsi nel posto sbagliato e non era un buon segno. Si era srotolato
dalle
lenzuola sentendosi sgradevolmente appiccicaticcio benché
avesse dormito in
mutande, e i capelli gli si erano tutti incollati al viso ed alla
schiena
facendolo sentire una sorta di Cugino It.
Doveva
farsi una doccia, urgeva.
Eddie
non immaginava ci fosse già
qualcuno che lo aspettava dabbasso mentre s’incastrava nel
microscopico
gabbiotto della doccia tentando di lavarsi senza morire soffocato dai
suoi
stessi capelli.
“La
tua chitarra è scordata, lo
sapevi?”
In
quel preciso istante Eddie
Vedder, quasi ventisei anni da compiere il 23 dicembre, aveva rischiato
d’allungare la nutrita scia di morti bianche della musica e
di farlo in un modo
al contempo umiliante ed originalissimo: stava per prendergli un
infarto.
“Mike!
Cazzo mi hai fatto
prendere un colpo! Aspetta che diventiamo famosi prima di farmi la
pelle, ora
come ora non diventerei un mito per nessuno!”
Il
chitarrista si era allungato
ulteriormente sul letto sfatto con noncuranza mentre ancora trafficava
con le
corde della chitarra. Aveva pizzicato qualche nota prima di sorridere
tra sé e
finalmente decidere che poteva prestare attenzione al cantante, che se
ne stava
ancora impalato sulla porta del bagno, i capelli grondanti e un
asciugamano
stretto intorno ai fianchi.
“Ma
stai ancora così? Guarda che
abbiamo un sacco di cose da fare oggi, per questo sono passato a
prenderti. E
comunque dovresti chiudere la porta a chiave, sai?”
“Non
avete le prove con Cornell
oggi? Non voglio starvi tra i piedi se…”
“Sei
del gruppo anche tu e i
nostri amici sono i tuoi amici. Vedrai che Chris ti piacerà,
anche gli altri
sono a posto. E poi anche loro sono curiosi di conoscerti.”
“E
perché?”
“Oh
andiamo, lo sai che il mese
scorso al Ramp c’era pure Susan Silver e, se non ti hanno
avvertito, oltre ad
essere la donna di Chris è anche la manager dei Soundgarden
e degli Alice, un
pezzo grosso insomma. E sembra tu abbia fatto colpo.”
“Non
lo sapevo fosse la donna di
Cornell…”
“Ora
lo sai. Quindi muoviti a
vestirti che ci stanno aspettando alla Galleria.”
“…”
“…”
“…”
“Allora?”
“I
miei vestiti sono nella
valigia sotto il letto. E tu ci sei sopra.”
Mike
lo aveva visto
inspiegabilmente arrossire e distogliere lo sguardo mentre quel suo
vocione
cavernoso diventava sempre più flebile: e poi dicevano
quello strano fosse lui.
Si
era sollevato dal letto con
un’alzata di spalle portando con sé
l’acustica di Eddie e si era seduto sul pavimento
rivolto alla finestra per evitare di metterlo ulteriormente a disagio;
e aveva
cominciato ad accarezzare le corde con delicatezza estrema richiamando
le
lacrime sbiadite dalla foschia di un Angelo londinese. La malinconia
del blues
gli si addiceva, lo vestiva come un guanto usurato, esattamente come
riusciva
ad indossare la maschera orribile dei Kiss. La musica gli si addiceva
tutta, se
avesse potuto l’avrebbe bevuta, liscia e senza ghiaccio, o
l’avrebbe sciolta
fino a farsela scorrere direttamente nelle vene fino al cuore e al
cervello. Pum.
Angie non doveva essere infelice ed anche
Eddie doveva saperlo,
perché aveva cominciato a mormorare piano le parole di quel
lamento triste a
tempo con le note. Mike non era riuscito a fare a meno di sorridere
ascoltandolo
cantare, la lingua di Eddie stava mutando senza nemmeno accorgersene lo
spirito
di Jagger, sulle sue labbra il pianto funebre del blues diventava il
vagito
altrettanto doloroso della nascita: ancora
non lo sapevano, ma Eddie avrebbe convinto una generazione intera a
fare
bandiera di un canto di morte facendo credere a tutti stesse intonando
la
rinascita, avrebbe raccontato un suicidio come una favola al contrario,
di
lotta e di sopravvivenza fino alla fine.1
Ma
Eddie era un ragazzo strano,
era un ragazzo triste che non ci aveva proprio mai pensato a farsi
sconfiggere
dalla storia - soprattutto dalla propria.
Il
luogo d’incontro si trovava
verso la periferia opposta di Seattle, purtroppo parecchio distante
dall’oceano
ed anche dal canale. E Mike non era esattamente quello che si sarebbe
detto un
buon guidatore, almeno per i parametri di Eddie: andava troppo veloce,
persino
per qualcuno che aveva fretta; ed Eddie odiava la velocità
quando non poteva
controllarla.
Erano
arrivati alla Galleria – che era
effettivamente una galleria d’arte:
le prove le avrebbero tenute nel piano interrato, tra tele invendute o
ancora
da esporre e cataste di bottiglie vuote – un
po’ in ritardo, ma nessuno si
era scomposto. Eddie aveva salutato tutti con un mezzo sorriso ed un
cenno
prima di defilarsi silenziosamente verso un angolo della sala,
abbastanza
vicino da ascoltare i discorsi degli altri, ma non tanto da dovervi per
forza
partecipare. Gli unici membri dei Soundgarden presenti erano Cornell e
Cameron,
il batterista, ma prima di allora gli era capitato di intravederli solo
di
sfuggita in qualche club o after-party, non ci aveva mai parlato; non
li
conosceva.
Chris
Cornell era esattamente
come Eddie l’aveva visto sulle cover degli LP, un ragazzo
altissimo – o almeno, staccava
chiunque in sala di
almeno una spanna – con lunghissimi capelli neri e
gli occhi verdi, la
pelle lattea; sembrava l’incarnazione della città,
ne fondeva in sé lo spettro
di sfumature e colori, persino quella sua bellissima voce, che
ricordava di
aver ascoltato per la prima volta in Flower
appena un paio d’anni prima, sembrava rispecchiare
il vento del nordovest,
un range vocale potente, che toccava le scale superiori senza apparenti
difficoltà.
Eddie
non riusciva a non
concentrarsi sulle voci dei due sconosciuti mentre fingeva di
scribacchiare sul
suo blocco appunti, gettando di tanto in tanto qualche occhiata al
gruppo che
provava e suonava quel ricordo postumo di Andrew Wood.
Gli
avevano detto Wood e Cornell
fossero stati molto amici, avessero addirittura diviso casa; non
l’ero, però,
perché Cornell era un’anomalia per Seattle: in una
città in cui il narcotico
era l’unica via di fuga da quella realtà
soffocante e uggiosa, lui pretendeva
di rimanere lucido fino in fondo, e ci aveva provato a spiegarlo ad
Andy.
In
realtà né Eddie né gli altri
potevano immaginare cosa fosse davvero quel tributo in musica, nessuno
di loro
poteva immaginare quel che si agitava nel cuore di Chris mentre
scriveva quelle
canzoni. Ed era senso di colpa.
Aveva
voluto bene a quel biondo
idiota come ad un fratellino minore, aveva cercato di proteggerlo come
tale, ma
aveva fallito, gli aveva probabilmente dato la spinta finale verso
l’oblio
proprio quando Andy si era finalmente deciso a ripulirsi. In pochi lo
sapevano,
ma, proprio alla vigilia delle registrazioni del primo album degli
allora
Mother Love Bone, Andy aveva deciso di darci un taglio, di tornare a
casa dai
suoi genitori, di farsi aiutare a disintossicarsi del tutto: aveva
ventiquattro
anni e si sentiva ancora troppo figlio per non desiderare la sicurezza
del nido
in un momento come quello.
Era
stato proprio Cornell a
convincerlo a rimanere, a continuare le registrazioni.
Puoi venire a stare da me, non puoi mollare proprio
adesso che avete
una possibilità vera, io sono pulito, ci penserò
io a tenerti lontano dalle
cattive compagnie.
Invece
non aveva considerato che
l’essere il leader di un gruppo già affermato e di
successo l’avrebbe tenuto
lontano da casa anche per settimane; così aveva finito per
diventare il demone
della distruzione per il proprio migliore amico.
Era
quel senso di colpa che gli
riempiva la voce di passione mentre cantava, era per
quell’unico motivo che
aveva deciso di non cantare quei testi con il suo gruppo ma di chiedere
ai
vecchi compagni di Andy di dividere il calice con lui. E se Jeff
– pur ignaro
dei veri sentimenti di Chris – si sentiva egualmente in colpa
nei confronti di
Andy, Stone era quello più arrabbiato, l’unico a
poter creare la cornice giusta
per quei testi.
Erano
nati così i Temple of the Dog,
per motivi
sbagliatissimi, per quello sapevano fin dall’inizio che non
ci sarebbe stato
seguito per quell’unico album ed avevano deciso di
coinvolgere più gente
possibile persino nelle prove, che fosse Kevin Wood, Mike, o un ragazzo
californiano totalmente estraneo.
Eddie
si era limitato a stare in
disparte per giorni dopo quella prima prova, senza accorgersi di essere
oggetto
delle curiosità di tutti i presenti, Cornell compreso:
l’avevano già sentito
cantare, sia Chris che Matt erano stati tra i primi ad ascoltare la
cassetta
che Jeff aveva ricevuto da San Diego qualche tempo prima ed erano stati
tra
coloro che avevano dato il benestare per quel nuovo acquisto. Non lasciatevelo scappare, questo materiale
è ottimo.
L’avevano
anche visto sul palco,
però, e non sapevano
cosa pensare, non riuscivano a sovrapporre i suoi testi
all’atteggiamento che
teneva in scena. Eddie Vedder aveva il sapore intrigante degli enigmi
più
complicati da sciogliere. Nemmeno
immaginavano lui non si sentisse affatto tale e non vedesse
l’ora di unirsi
alla festa: aveva semplicemente paura di occupare un posto che non gli
spettava
per l’ennesima volta.
Lo
scantinato della Galleria era
un po’ più fresco dell’esterno, le
pareti non sembravano bere l’umidità di quel
novembre stranamente asciutto come ogni altro palazzo di Seattle.
Chris
aveva smesso di cantare ed
aveva lasciato il microfono, scompigliandosi quei lunghissimi riccioli
neri che
finivano sempre per coprirgli il viso, con l’aria avvilita. Non andava.
Il
demo continuava a girare in
loop in consolle inascoltato ormai da tutti. Il cantante dei
Saundgarden stava
mostrando i suoi appunti agli altri sconsolato, quella strofa gli
sembrava
perfetta, ma non riusciva ad aggiungervi altro: serviva un bridge,
serviva un
ritornello, serviva assolutamente aggiungere qualcosa o avrebbero
dovuto
accantonarla e non voleva.
Immersi
in quelle discussioni,
nessuno – o quasi - aveva
notato l’altro
vocalist avvicinarsi al microfono. Eddie aveva quasi smesso di
respirare pur di
non far rumore, ma quella canzone gli piaceva troppo, quel brano era
stupendo.
Con circospezione si era avvicinato al microfono lasciato aperto ed
aveva
aspettato che la cassetta ritornasse al punto esatto che gli serviva,
poi aveva
cominciato: aveva aperto la bocca ed aveva cantato. Con gli occhi
chiusi e le
mani strette al bordo della felpa mentre il movimento del piede con cui
dava il
tempo gli faceva scivolare i capelli sul viso.
Cantò
esattamente la stessa
strofa che aveva poco prima sentito cantare a Cornell, ma a modo suo.
La sua
voce tanto più morbida e profonda di quella di Chris dava
una consistenza
diversa alle parole, le arrotondava, le ricopriva come di una sostanza
vischiosa
e sporca da cui ci si sentiva attratti inesorabilmente.
I
suoi bassi coprivano le note
profonde che l’intonazione naturalmente più acuta
di Cornell non riusciva a
raggiungere facilmente.
Eddie
aveva guardato
istintivamente verso Jeff e i suoi compagni di band come per chiedere
silenziosamente un parere, ma lo sguardo di Stone l’aveva
quasi gelato: era
praticamente inespressivo, lo fissava senza guardarlo con gli occhi di
vetro.
Eddie
non sapeva che aveva appena
fatto accendere una lampadina nella testa del chitarrista che aveva
smesso di
pensare a quella sessione di prove
e
di jam non appena l’aveva sentito intonare il secondo
movimento. Stone era già
lontano, Stone era già virtualmente su un nuovo spartito, su
mille nuovi
spartiti, perché in quel momento aveva realizzato di avere
potenzialmente mano
libera, di poter scrivere qualunque melodia, sicuro che Eddie
l’avrebbe
comunque cantata nel modo giusto. Stone in quel momento aveva perso
ogni dubbio
residuo sul cantante, proprio lui che era stato anche l’unico
ad avere
inizialmente delle resistenze.
Il
cantante era tornato a
fissarsi le scarpe pronto a tornare nel suo angolo quando si era
sentito
afferrare per le spalle da Cornell stesso.
“E’
perfetta, è così che deve
essere, sei stato incredibile. Ragazzi! Abbiamo risolto,
contenti?”. E gli
aveva sorriso dandogli una pacca sulla spalla spingendolo finalmente
verso il
centro della stanza, verso il gruppo.
Quella
di Cornell era stata una
dichiarazione di stima incoraggiante, che obbligava Eddie ad ulteriori
sessioni
di prove certo, ma la cosa non gli pesava per niente, e stare in sala
prove o
in studio di registrazione con gli altri – insieme
agli altri – l’aiutava a rilassarsi, a
sentirsi accettato e, soprattutto, a
dimenticare per qualche ora l’urticante umidità di
quei giorni.
Però
non ci furono cambiamenti nella
compostezza già notata da Stone di Eddie: sul palco
continuava a sentirsi
spaesato, nervoso. Non perdeva una nota e teneva gli occhi del pubblico
incollati su di sé, ma quegli occhi cercava di evitarli il
più possibile
perdendosi piuttosto nel buio oltre i faretti d’illuminazione.
Confondendo il pubblico del Ramp
dell’Hollywood del Tunnel. Di Seattle.
Perché
il biondino con gli occhi
grigi non saltava, non scuoteva la testa, non si dimenava, non urlava.
Cantava
e basta.
Il
biondino con gli occhi grigi
era bello, ma per una groupie quel dettaglio poteva anche passare in
secondo
piano se non si aveva anche la sfrontatezza di Axl Rose.
Al
biondino si avvicinavano
energumeni equivoci ed universitari in pausa studio a cui piacevano i
suoi
shorts cargo un po’ consunti, ma non gli chiedevano mai dove
li avesse
acquistati.
Eddie cantava e basta.
Anche
quella sera Eddie si limitò
a cantare, l’unica concessione che fece – e si fece
– fu di non cercare Jeff, non
solo almeno, ma d’inaugurare il primo dei tanti
assoli schiena contro
schiena con Mike: scoprì che gli piaceva sentire le vertebre
del chitarrista
vibrare contro le sue insieme alle corde della chitarra, era una
sensazione
elettrizzante, quasi sessuale. Sembrava
di entrare fisicamente in contatto con la musica.
“Che
ne dici Kim, non sono per
niente male, eh?”
Chris
Cornell era appoggiato al
bancone del bar del Ramp con una birra davanti a sé ed il
suo chitarrista-filosofo-sciamano
di fianco: Thayil era un concentrato di stereotipi tutto indiano,
filosofo e
buddista con una punta di trascendenza animista – o quello che era - che non guasta mai;
un po’ il suo Maharishi
Mahesh Yogi2, solo che gli costava
significativamente meno. Insomma,
per fortuna aveva preferito la chitarra elettrica al sitar, chitarra
che sapeva
maneggiare maledettamente bene.
“I
ragazzi sono sempre stati
grandiosi. E anche se è ancora un po’ timido,
hanno fatto bene a scegliere quel
californiano, ha un certo non so che… quell’aura
particolare che lo circonda…
Non la vedi?”
Chris
aveva contato fino a dieci
per non sbottare a ridergli in faccia, o peggio ancora, cedere e dargli
ragione
sulla fiducia, ma quest’ultima opzione l’avrebbe
poi costretto ad ubriacarsi di
brutto per tentare di reggere l’inevitabile lezioncina sulle
filosofie
orientali, le discipline di controllo dell’aura e pure sul
relativismo
culturale che stava così brutalmente spogliando le
tradizioni millenarie del sapere
dei popoli orientali per piegarle alla moda. Cominciare a fare yoga per
sfuggire alle paranoie pseudo-intellettuali del suo chitarrista era
fuori
discussione, che poi sarebbe finito pure lui nel novero dei modaioli
che
praticano gli antichi insegnamenti
solo per fare i fighetti.
Santa
pazienza.
“Certo,
quello che hai detto tu.
Hanno finito, vado a salutare!”
Chris
non sapeva se quel Vedder
fosse circonfuso di luce come sosteneva Kim, quelle puttanate
esoteriche non lo
interessavano – anche se si guardava
bene
dal metterla in quei termini con l’amico -, ma era
certo gli piacesse e,
sebbene non ne fosse cosciente per primo, quel ragazzo aveva i numeri
ed il
carisma per stare al centro del palco.
Eddie
era sudato fradicio, la
maglietta gli si era completamente incollata addosso, così
come i capelli;
nell’ambiente era impregnato ovunque lo sgradevole odore di
sudore misto a
polvere smossa ed al terriccio umido che fungeva da pavimento per il
locale. Il
soffitto basso – e
l’inevitabile ulteriore
vicinanza dei faretti – non aiutava a liberarsi
dalla leggera claustrofobia
che la struttura ispirava fin dall’esterno:
l’acustica del Ramp era
praticamente perfetta, ma sembrava di suonare in una bara circondata
dai mille
lumini della Statale.
Avrebbe
voluto cantare ancora,
avere qualche altra canzone da poter offrire, ma giù dal
palco si sentiva
meglio, qualche entusiasta della prima ora - già
pronto a giurare la propria fedeltà imperitura di fan a quel
nuovo
gruppo - si era addirittura avvicinato senza ricevere in
cambio solo
silenzi imbarazzati, ma autentica gratitudine.
Eddie
non riusciva a capire
perché non riuscisse a sciogliersi, aveva pensato il
problema fosse il
possibile paragone con Wood, ma aveva ricevuto più di una
rassicurazione al
riguardo, a ripensarci a mente fredda era vero: lui e Wood non avevano
proprio
nulla in comune, a partire dal timbro vocale.
E quindi cosa?
Quello
con Jeff, Stone, Mike e
Dave non era il suo battesimo del fuoco, era già stato
davanti ad un pubblico,
aveva già cantato su un palco, a San Diego aveva addirittura
registrato un
piccolo EP con la sua vecchia band3, avevano
persino un piccolo ma
fedele seguito. Pure a scuola aveva recitato tutti gli anni nel musical
di fine
anno!
Cos’era
quell’ansia che lo
prendeva lì a Seattle, allora? Perché aveva paura
di quel pubblico e dei loro
occhi?
Forse
era tutta colpa della
pioggia sempre sospesa a mezz’aria in quella città
grigia e verde in cui la
vita pareva saper esplodere solo in sprazzi di luce acida.
“Ehilà,
Eddie!”
Cornell
gli si stava avvicinando
facendosi largo tra la piccola folla dei frequentatori del Ramp
già piuttosto
alticci. Aveva salutato un po’ di gente, nel mentre, qualche
ragazza gli aveva
ammiccato invitante, debitamente ripagata con una furtiva palpata di
chiappe. Con tutta probabilità
Susan non c’era quella
sera.
“Siete
stati davvero forti
stasera! Vieni, ti offro una birra. Ma dove sono gli altri?”
Gli
altri erano semplicemente già
inseriti in una rete di conoscenze amicizie incontri che dopo ogni
concerto
vedeva Eddie sempre un po’ defilato: quella sera, poi,
Pandora si era presa una
piccola pausa dai suoi studi per volare a Seattle dal Montana, e aveva
preteso
Jeff tutto per sé dopo il concerto, quindi chissà
dove si erano imboscati.
Era
solo insomma.
Cornell
si era appoggiato di
nuovo al bancone del bar facendo cenno all’allampanato
biondino che serviva da
bere di portare due birre che comunque non riuscirono a bere visto il
viavai
continuo di gente che si fermava a salutarli –
sì, entrambi – e a fare i complimenti a
Eddie per lo spettacolo.
Chris
sembrava soddisfatto
dell’accoglienza che il popolo di Seattle stava riservando
all’altro cantante,
nemmeno si sentisse il padrone di casa desideroso di fare bella figura.
E un
po’ era anche vero, ma la realtà era Cornell fosse
semplicemente un ragazzo
naturalmente accogliente, felice i suoi amici riuscissero ad avere
successo
nonostante quello che era loro capitato, ed era un altro drogato di
musica che
cercava nuove sonorità e nuovi stimoli dietro ogni angolo.
Aveva sentito da
subito una naturale connessione con quel ragazzetto californiano con
gli occhi
che sembravano ghiaccio e la voce ch’era invece pura lava.
“Vieni
con me, qui c’è troppo
casino, non si riesce nemmeno a parlare.”
Cornell
l’aveva portato verso uno
degli angoli estremi del palco in fondo alla sala, vicino alle
strumentazioni
ormai spente e ai faretti ancora puntati verso il pubblico che pian
piano
sciamava verso l’uscita o il bancone del bar: i neonati
Blaylock non avevano
ovviamente roadies per aiutarli con la strumentazione, quindi avrebbero
risolto
per conto loro dopo la chiusura del locale.
In quell’angolo un po’
defilato, però, Eddie aveva cominciato a
sentirsi nuovamente a disagio.
Chris
sorseggiava tranquillo la
sua birra mentre gli parlava, la sua voce era piacevole e suadente,
persino
troppo per qualcuno che conosceva da tanto poco.
Eddie
non poteva fare a meno di
tenergli gli occhi incollati addosso, probabilmente lo stava fissando
con
espressione ebete, ma non riusciva a preoccuparsene. Chris continuava a
parlargli e a sorridergli, ogni tanto spostava una ciocca riccioluta
che gli
cadeva sugli occhi per appuntarla dietro un orecchio, il suo sguardo ed
i
movimenti ritmici della sua testa bruna ipnotizzavano Eddie che ormai
li vedeva
come al rallentatore, perso completamente dietro la malia diabolica che
circondava l’altro: Eddie pensò che forse avrebbe
dovuto dirglielo che si era
piazzato proprio davanti ad uno di quei faretti alogeni scuri che
avevano usato
durante il concerto, e che, soprattutto, quel faretto lo rendeva una
macchia
nera aureolata con gli occhi e i denti fosforescenti.
“Cavolo, la mia prima
conversazione con
Satana…”
Alla
fine, ovviamente non gli
aveva detto nulla temendo di metterlo in imbarazzo, ed era
l’ultima cosa
volesse. Anche perché, Chris, fatta eccezione dei suoi
compagni di band e dei
loro ‘familiari’, era stato l’unico a
mostrargli sincera simpatia da che era
tornato a Seattle. Era pur vero nessuno gli avesse esplicitamente
mostrato
avversione, non c’era stato aperto ostracismo nei suoi
confronti, ma Eddie sapeva
di non essere stato completamente accettato nel giro. La scena musicale
di
Seattle –l’aveva capito
immediatamente –
era chiusa e ripiegata su se stessa, una sorta di scombinata famiglia
infelice
che andava avanti su scambi matrimoniali ed incesti incrociati: tutti
erano
stati, anche solo per poco, in gruppo con qualcun altro.
Tutt’altra cosa
rispetto alla California.
Stone
e Jeff erano un’eccezione
dato che si erano incontrati, scoperti e mai più separati, e
da più di sei anni
dividevano spartiti, litigi e strumenti: i loro cambi di formazione li
avevano
sempre fatti in coppia nonostante qualche defaillance di brevissima
durata e
sempre per progetti collaterali a loro.
Li
avevano buttati fuori dal
locale che erano quasi le due, Cornell e alcuni suoi amici – compreso lo sciamano-chitarrista che aveva
comunque passato buona parte del tempo a discutere con Mike della
metafisica
della corda – li avevano aiutati a sbaraccare la
strumentazione e si erano
poi ritrovati a ridere e chiacchierare nel parcheggio semideserto del
locale
scambiandosi le ultime birre sottratte al bar.
Il
cielo era completamente
coperto come al solito, non si vedeva una sola stella, ed il freddo
umido che
funestava quei giorni entrava nelle ossa, ma solo Eddie sembrava
sentirlo.
Forse perché, al contrario degli altri, non aveva portato
un’ulteriore giacca
da mettere: ma proprio non ci riusciva, non ci arrivava ad entrare
nell’ottica
di un clima che ti costringe, a novembre, ad indossare una semplice
camicia
durante il giorno e tre strati di magliette felpe e cappotti di notte.
Intanto
moriva di freddo e nemmeno la birra o la canna che si stavano passando
riuscivano
a scaldarlo.
“Ed,
ma che hai freddo?”
Stone
aveva passato il mozzicone
al cantante per l’ultimo giro e si era ritrovato di fianco
una massa di capelli
tremante che praticamente tentava di piegarsi su se stessa. Eddie aveva
scosso
il capo poco convinto, ma la mano che aveva accettato
quell’ultimo tiro tremava
vistosamente, cosa che Stone sembrò trovare molto
divertente. Un po’ meno Jeff,
che si stressava sempre troppo per qualsiasi cosa, soprattutto per
l’apparente
leggerezza di Stone che sembrava non riuscire a prendere sul serio
nulla che
non fosse segnato in note su uno spartito. Ma se il cantante si
ammalava, come
avrebbero fatto per le prove le registrazioni i concerti? Non
c’era niente da
ridere.
“Conviene
tornare a casa, per
stasera possiamo anche ritenerci soddisfatti. E poi sta scendendo un
po’
d’umidità…”
“Un
po’? Ma se è praticamente una
settimana che respiriamo acqua, mi sento un pesce in una
boccia!”
Eddie
probabilmente non aveva
molto senso dell’umorismo. Forse era persino un po’
suscettibile. Perché non
gli sembrava di aver fatto nessuna battuta giustificasse lo scoppio
d’ilarità
improvvisa che aveva seguito le sue parole: da
un po’ di tempo a quella parte un po’ troppa gente
lo faceva sentire un comico
involontario – per non dire un idiota
– e la cosa non gli piaceva.
Non
aveva detto niente, come al
solito. Ma desiderò tantissimo essere a San Diego per
potersi sfogare sulla sua
tavola da surf, persino qualche caduta avrebbe giovato al suo umore.
Alla
fine si erano separati
dirigendosi verso le proprie macchine, Mike avrebbe scortato Stone,
Jeff
sarebbe tornato – ovviamente – a casa con la sua
ragazza, lo sciamano aveva
seguito una rossa con poche tette ma un culo che parlava da solo
desideroso di
farci due chiacchiere, Cornell si era incaricato di recapitare a casa
Eddie
sano e salvo. Nemmeno fosse un pacco,
fanculo a tutti quanti.
La
statale scorreva veloce sotto
le ruote del pick-up di Cornell, le poche porzioni d’asfalto
rischiarate
dall’illuminazione pubblica e dai fari della vettura erano le
uniche cose
visibili nella totale oscurità di quella notte senza luna e
senza stelle.
Ed
si era rannicchiato nel sedile
passeggeri cercando di trarre più calore possibile dalla sua
felpa sdrucita, ma
senza successo. Quel freddo improvviso lo rendeva troppo lucido per i
suoi
gusti, e rimuginare non gli faceva bene, soprattutto se i pensieri
avevano
tutti il colore di quel paesaggio invisibile e la consistenza della
nebbia.
Cornell
guidava in silenzio
ticchettando il volante con le dita a tempo con la musica che
l’autoradio
trasmetteva a bassissimo volume: la KZUU stava trasmettendo un pezzo
degli
Alice In Chains,
i
ragazzi della Wazzu4 avevano orecchio, lo si
doveva ammettere. E non
si stupì più di tanto nel sentire che anche Eddie
seguiva la canzone
mormorandola piano, evidentemente sovrappensiero.
Chris
gli era andato dietro
bisbigliando via via sempre più ad alta voce,
finchè non si erano ritrovati
entrambi a cantare a squarciagola Won't
you come and save me, save me5
sulle
battute finali insieme a Layne: Eddie era di nuovo a suo agio, ma non
aveva
meno freddo.
“Odio
questa maledetta umidità,
come diavolo fate a vivere con questa insopportabile
pioggia… con questa
pioggia che non vuole cadere?”
Cornell
lo aveva guardato per un
attimo confuso, come se credesse di non aver sentito bene le parole
dell’altro,
poi aveva sorriso con un sospiro paziente mentre riportava
l’attenzione alla
strada fortunatamente deserta.
“La
pioggia fa parte di Seattle
anche quando non c’è, ma non è
così male. E forse, chissà, stavolta sta
semplicemente aspettando qualcosa di nuovo su cui cadere, no?”
“…”
“Vuoi
essere tu quel qualcosa,
Ed?”
“Io
voglio solo cantare le mie
canzoni, le canzoni del gruppo.”
“Bene.
E allora canta le vostre canzoni
e piantala di aver paura del pubblico. Tu sei il cantante, Ed, e il
cantante è
il fuoco del palcoscenico. Quindi, cazzo, brucialo quel palco. Se la
pioggia ti
da tanto fastidio, allora sii fuoco e falla evaporare tutta fino
all’ultima
goccia.”
Quando
Chris Cornell aveva
lasciato il coetaneo Eddie Vedder sotto la pensione in cui
quest’ultimo alloggiava,
nemmeno immaginava cosa avesse innescato pronunciando quelle poche
parole su
una strada secondaria del quartiere industriale. Ed non era riuscito a
prendere
sonno quella notte – mattina –
continuando a rimuginare quelle frasi in un crescendo di consapevolezza
vergogna stupore determinazione. Soprattutto quell’ultima,
che l’aveva sempre
accompagnato nell’arco della sua vita e che doveva aver
chissà come dimenticato
a San Diego. A Eddie non interessava l’Olimpo e non voleva
toccare il cielo.
Lui quello stesso cielo voleva grattarlo via liberandosi di quella
rabbia e di
quel dolore che di notte gl’impedivano di dormire e
respirare, voleva strappare
quell’infinito vuoto che opprimeva con le sue promesse di
libertà illusorie.
Lui,
il gruppo, non sarebbe stato
la pietra focaia, ma l’onda anomala che avrebbe investito
Seattle, l’America,
il mondo, chissenefrega: avrebbe
liberato l’energia cinetica imprigionata dentro di lui a
tempo con le note.
Loro sarebbero diventati pioggia.
End.
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